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1 MOTIVAZIONI E ORIENTAMENTI DEGLI IMPRENDITORI NEL RICAMBIO GENERAZIONALE Gli obiettivi e il disegno della ricerca I problemi della successione o trasmissione delle imprese familiari non sono solo quelli (per altro fondamentali) di natura strutturale analizzati in altra parte di questa ricerca 1 . Oltre ai problemi che riguardano la struttura e le regole familiari e aziendali, vi sono anche quelli relativi alla necessità di disporre di successori che siano adeguati a ricoprire il ruolo a cui sono chiamati, di poter contare cioè su di una offerta di imprenditorialità che sia, per qualità delle caratteristiche soggettive, all’altezza delle esigenze delle imprese interessate alla successione. Del resto, che la dimensione soggettiva degli imprenditori subentranti sia importante emerge con chiarezza dalla stessa indagine precedente sui fattori strutturali, là dove si eviden- zia il rilievo che l’assetto organizzativo e i rapporti di potere interni all’impresa possono avere nella “formazione” dei successori. E’ sembrato perciò, in fase di impostazione del lavoro, di dover dedicare una parte specifica della ricerca anche agli aspetti soggettivi - motivazionali e cogniti- vi - del fenomeno successorio. Ciò che ci si propone in questa sede è di ricostruire i tratti soggettivi caratteristici delle varie generazioni di imprenditori che si sono succeduti alla guida delle imprese familiari lumezzanesi, cercando di coglierne - ove possibile - le logiche comuni di evoluzione e le conseguenze sulla qualità dell’offerta imprenditoriale del distretto. Si tratta di un obiettivo che per essere interamente raggiunto richiederebbe una indagine empirica a largo raggio - impossibile da condurre entro l’economia com- plessiva della presente ricerca. Ci si è pertanto limitati ad una prima ricostruzione, sulla base di una serie di interviste in profondità a figure imprenditoriali locali che potessero essere considerate tipiche, senza per altro poter garantire sotto il profilo statistico la rappresentatività del campione analizzato. Le osservazioni successive debbono dunque essere considerate più propriamente come un primo tentativo di mettere a fuoco il problema e di individuarne gli aspetti rilevanti piuttosto che come un risultato definitivo corroborato da una verifica empirica adeguata. Sono state condotte nove interviste in profondità ad altrettanti soggetti appar- tenenti a quattro famiglie imprenditoriali lumezzanesi. Le variabili strutturali con- siderate nella definizione del campione sono state due: (1) le caratteristiche stori- 1 Si veda il contributo di Lorenzo Bordogna in questo stesso volume

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MOTIVAZIONI E ORIENTAMENTI DEGLI IMPRENDITORINEL RICAMBIO GENERAZIONALE

Gli obiettivi e il disegno della ricerca

I problemi della successione o trasmissione delle imprese familiari non sonosolo quelli (per altro fondamentali) di natura strutturale analizzati in altra parte diquesta ricerca1. Oltre ai problemi che riguardano la struttura e le regole familiari eaziendali, vi sono anche quelli relativi alla necessità di disporre di successori chesiano adeguati a ricoprire il ruolo a cui sono chiamati, di poter contare cioè su diuna offerta di imprenditorialità che sia, per qualità delle caratteristiche soggettive,all’altezza delle esigenze delle imprese interessate alla successione. Del resto, chela dimensione soggettiva degli imprenditori subentranti sia importante emerge conchiarezza dalla stessa indagine precedente sui fattori strutturali, là dove si eviden-zia il rilievo che l’assetto organizzativo e i rapporti di potere interni all’impresapossono avere nella “formazione” dei successori.

E’ sembrato perciò, in fase di impostazione del lavoro, di dover dedicare unaparte specifica della ricerca anche agli aspetti soggettivi - motivazionali e cogniti-vi - del fenomeno successorio. Ciò che ci si propone in questa sede è di ricostruirei tratti soggettivi caratteristici delle varie generazioni di imprenditori che si sonosucceduti alla guida delle imprese familiari lumezzanesi, cercando di coglierne -ove possibile - le logiche comuni di evoluzione e le conseguenze sulla qualitàdell’offerta imprenditoriale del distretto.

Si tratta di un obiettivo che per essere interamente raggiunto richiederebbe unaindagine empirica a largo raggio - impossibile da condurre entro l’economia com-plessiva della presente ricerca. Ci si è pertanto limitati ad una prima ricostruzione,sulla base di una serie di interviste in profondità a figure imprenditoriali locali chepotessero essere considerate tipiche, senza per altro poter garantire sotto il profilostatistico la rappresentatività del campione analizzato. Le osservazioni successivedebbono dunque essere considerate più propriamente come un primo tentativo dimettere a fuoco il problema e di individuarne gli aspetti rilevanti piuttosto checome un risultato definitivo corroborato da una verifica empirica adeguata.

Sono state condotte nove interviste in profondità ad altrettanti soggetti appar-tenenti a quattro famiglie imprenditoriali lumezzanesi. Le variabili strutturali con-siderate nella definizione del campione sono state due: (1) le caratteristiche stori-

1 Si veda il contributo di Lorenzo Bordogna in questo stesso volume

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co-strutturali delle imprese familiari e (2) l’età o appartenenza generazionale deisoggetti. Rispetto alla prima variabile sono state considerate quattro imprese fa-miliari caratterizzate da dimensioni e storie familiari diverse: una di medio-grandidimensioni (almeno rispetto alla media dell’industria lumezzanese) appartenentead una famiglia storica dell’imprenditorialità locale e attualmente diretta da duerappresentanti della quarta generazione; una di medie dimensioni con gli attualititolari di seconda generazione; una di piccole dimensioni anch’essa appartenentea famiglia di antica tradizione imprenditoriale e condotta da un rappresentantedella quarta generazione; una infine sempre di piccole dimensioni retta però dauna famiglia alla seconda generazione.

Per ciascuna di queste realtà di impresa si sono intervistati i rappresentantidelle diverse generazioni attualmente coinvolte in azienda. E’ stato quasi semprepossibile ricostruire per la stessa impresa/famiglia almeno due generazioni: dinorma quella attualmente al comando dell’azienda e quella dei successori (già in-seriti in ruoli di responsabilità e designati a succedere all’attuale vertice); in unsolo caso si è potuto intervistare oltre ad uno degli imprenditori attualmente alcomando anche il padre del medesimo che ha ormai abbandonato (a causadell’avanzata età) l’impresa. L’arco anagrafico coperto dalle interviste va così da89 a 28 anni, permettendo di cogliere un ampio e significativo tratto della storiaimprenditoriale locale. Per comodità espositive (e alla luce dei risultati delle inter-viste) si sono individuate quattro classi di età: i capostipiti (C: oltre gli ottanta an-ni: 1 soggetto intervistato); gli anziani (A: con età compresa tra i cinquan-ta/sessanta e gli ottanta: 3 soggetti); quelli di mezza età (M: tra i quaranta e i cin-quanta: 3 soggetti) e infine i giovani (G: sotto i quaranta: 2 soggetti). Il quadrocomplessivo può essere sintetizzato nella seguente tavola:

Generazione familiareTerza e oltre Seconda

Dimensioni Medio-grandi 2 A; 1 G 1 A; 1 M; 1 G

Piccole 1 C; 1 M 1 M

I soggetti considerati coprono come si può notare un’ampia casistica, definitasia da condizioni strutturali che di età. L’età può essere considerata un buon indi-catore indiretto della dimensione culturale, in quanto permette di cogliere il perio-do storico in cui è avvenuta la formazione personale e imprenditoriale del soggettoe dunque le diverse temperie culturali che si sono succedute nella storia della so-

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cietà e dell’economia locale. Le variabili strutturali (sia d’impresa che familiari)permettono invece di tenere sotto controllo altri elementi che possono in via diipotesi condizionare i tratti motivazionali e cognitivi dei soggetti intervistati e in-teragire con i fattori istituzionali e culturali nel determinare la qualità soggettivadell’imprenditorialità della valle.

L’analisi preliminare delle interviste ha confermato per altro il rilievo della va-riabile di età (e dunque della sottostante dimensione storico-culturale) nello spie-gare le differenze nei tratti motivazionali e cognitivi degli imprenditori intervista-ti. Le variabili strutturali introducono interessanti varianti ai tratti culturali tipicidelle varie generazioni, di cui si renderà conto nel seguito dell’analisi, ma nonsembrano dotate della medesima capacità esplicativa. La presentazione dunque deiprincipali risultati dell’indagine seguirà lo schema dei diversi quadri culturali rin-tracciabili nei tratti tipici delle varie generazioni di imprenditori che si sono suc-ceduti (o che stanno per succedere) alla guida delle imprese familiari della valle.

I capostipiti: ovvero il modello culturale delle origini

Motivazioni e orientamenti cognitivi dei capostipiti sono riconducibili al mo-dello culturale che sta all’origine della società e dell’economia lumezzanesi.L’intervista all’unico vecchio capostipite che è stato possibile raggiungere in que-sta indagine è una ulteriore conferma dei tratti culturali tipici riscontrabili anchenelle storie di vita di altri imprenditori lumezzanesi ricostruite da Egidio Bonomi2e risulta coerente con il modello culturale che chi scrive ha avuto modo di tratteg-giare nel medesimo volume3.

Intraprendere una attività manifatturiera autonoma è innanzitutto una necessitàdi sopravvivenza per persone costrette a vivere in una realtà caratterizzata da scar-sità di risorse agricole e da una economia di autoconsumo al limite della povertàassoluta. Ciò che si richiede è una grande capacità di sacrificio: una disponibilitàal lavoro senza limiti e una elevata propensione al risparmio e al reinvestimentocome equivalente funzionale di un processo - che l’economia lumezzanese non hamai conosciuto - di accumulazione originaria. Le motivazioni ultimedell’intraprendere risultano pertanto fortemente connesse con il perseguimento deibisogni fondamentali di base. Per utilizzare la nota gerarchia dei bisogni di Abra-

2 In particolare si veda: Dalle castagne alla posate, Al lavoro per 57 anni consecutivi, Rubinetti

tra una guerra e l'altra, Il torrente che ha portato il futuro, in Autori vari, Lumezzane terra diimprenditori, Camera di Commercio, Brescia 1995

3 G. Provasi, La società, in Autori vari, Lumezzane terra di imprenditori, citato

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ham Maslow4, le motivazioni ultime degli imprenditori formatesi negli anni diinizio secolo sono riconducibili al soddisfacimento dei bisogni di sussistenza e disicurezza fisica e, come tutte le motivazioni che attengono a valori basici, si ca-ratterizzano per un forte coinvolgimento emotivo ed una elevata persistenza.

Inoltre, proprio perché così strettamente connessa ai bisogni di sopravvivenza edi sicurezza di base, l’impresa si sovrappone quasi senza soluzione di continuitàalla famiglia. Non stupisce che nella percezione degli imprenditori delle origininon vi sia distinzione tra famiglia e impresa. La famiglia - come istituzione depu-tata alla garanzia dei bisogni fondamentali - concepisce l’impresa come un suoprolungamento strumentale, indispensabile e “quasi-naturale”. La numerosità deicomponenti e l’alta coesione interna della famiglia sono d’altro canto elementi es-senziali del successo d’impresa. Quest’ultima può contare - nelle fasi iniziali didecollo - su risorse lavorative fortemente motivate e disponibili a limitare i propriconsumi per alimentarne l’autofinanziamento. La rete protettiva della famiglia al-largata interviene poi - nelle fasi di sviluppo successive dell’imprenditorialità fa-miliare - come sistema “assicurativo” per i rischi di impresa assunti dai singolimembri.

Anche per queste ragioni di fondo, la società e la cultura lumezzanesi delle ori-gini non sembrano particolarmente preoccupate di controllare l’incertezza. Moltidei tratti individuati da Geert Hofstede come caratteristici di culture con debolecontrollo dell’incertezza5 si ritrovano nella personalità dei capostipiti: ottimismonelle proprie possibilità di successo, pragmatismo di fondo, accettazione senzatensioni emotive dei cambiamenti, positività della competizione sempre che con-dotta con lealtà, debole propensione alla gerarchia, disponibilità a violare per mo-tivi pratici le regole formali, forte simpatia per le decisioni individuali e perento-rie. E’ questo il segno evidente del raggiungimento di un equilibrio tra dimensioneoggettiva del rischio imprenditoriale e propensione soggettiva ad assumerselo. Ri-sultando la scelta imprenditoriale quasi obbligata e con soglie di ingresso moltobasse, c’è poco da perdere in caso di fallimento e tutto da guadagnare in caso disuccesso. Inoltre si può contare su una rete di relazioni, garantite dalle istituzionitradizionali e in primo luogo dalla famiglia, in grado di socializzare adeguata-mente i rischi di impresa.

4 A. Maslow, Motivation and Personality, Harper & Bross, New York 19705 D. Bollinger, G. Hofstede, Culture's Consequences: international differences in work, Sage, Be-

verly Hills 1980

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Nella famiglia lumezzanese delle origini - numerosa ma non patriarcale6 - coe-sistono precocemente, per le ragioni anzidette, imperativi etici e solidaristici in-sieme ad un forte spirito pragmatico e acquisitivo, che lo stesso contesto familiaresi incarica di trasmettere alle nuove generazioni come imperativo per la sopravvi-venza e per il successo adattivo della famiglia. E’ questo equilibrio di fondo, alcuore della stessa istituzione familiare, ad alimentare quel peculiare individuali-smo etico che contraddistingue le generazioni storiche di imprenditori lumezzane-si. Accanto ad una forte volontà di affermazione personale e al desiderio di distin-guersi e di competere con gli altri, convivono infatti valori di lealtà, onestà, fidu-cia reciproca e solidarietà nei momenti del bisogno. Valori che non sono sempli-cemente lasciti di una cultura tradizionale di stampo comunitario, come tali oppo-sti ai valori individualistici di mercato e destinati ad esaurirsi all’affermarsi diquelli, bensì valori che si rinnovano continuamente grazie al particolare equilibriotra vincoli (della tradizione) ed incentivi (all’iniziativa autonoma) propriodell’istituzione familiare lumezzanese.

La fitta trama di relazioni improntate a questi tratti tipici dell’istituto familiare,e che si estendono ben oltre la famiglia, alimentano poi la vita comunitaria dandoluogo ad una società fortemente autocentrata e orgogliosa delle proprie peculiarità,ma non chiusa su se stessa e refrattaria al cambiamento. Una società poco gerar-chizzata e caratterizzata piuttosto dall’accettazione e dalla valorizzazione di unaelevata mobilità sociale interna. Vi è una sorta di ottimismo evolutivo (di stampoquasi biologico) alla radice della cultura lumezzanese delle origini: tutti hanno ildiritto/dovere di misurarsi con le sfide dell’intrapresa economica autonoma e chiavrà maggiori capacità (e fortuna) prevarrà. Nessuno può arrogarsi legittimamentela facoltà di “sapere” ex ante quale sia la soluzione ottimale e di imporla agli altri.Si può solo provare praticamente la bontà delle proprie idee, e chi ha successo de-ve essere adeguatamente ricompensato, perché così facendo si incentiva non solol’agire economico autonomo ma anche la diffusione delle best practices a favoredi tutta l’economia del distretto.

L’ottimismo riposto nei meccanismi “quasi-naturali” di selezione ha un altroimportante risvolto nella cultura locale: quello di socializzare sotto forma di abi-tudini e routine codificate culturalmente quelle regole di decisione che abbianosuperato con successo tale selezione e abbiano pertanto avuto modo di stratificarsistoricamente. Il prevalere di abiti mentali e routine tramandate culturalmente èevidente innanzitutto nella “cultura di mestiere” che ha segnato (e continua a se-gnare) in profondità gli orientamenti cognitivi dell’imprenditorialità lumezzanese.

6 Non fondata cioè su ruoli ascritti, come la famiglia allargata contadina, bensì su una leadership

effettiva conquistata sul campo. Per un approfondimento delle caratteristiche di base della fami-glia lumezzanese delle origini si veda G. Provasi, La società, citato

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E’ una cultura, quella “di mestiere”, fatta soprattutto di “conoscenze tacite” che siapprendono attraverso l’esperienza lavorativa diretta, cioè a partire dalla condivi-sione di un contesto che non è solo cognitivo ma è anche etico e sociale. La pre-senza di una forte componente tramandata culturalmente è riscontrabile poi anchenegli orientamenti che riguardano le decisioni di mercato, il governo dell’impresae gli stessi comportamenti in tema di successione (come, ad esempio, l’esclusionedelle donne o l’identità tra proprietà e comando dell’impresa).

In un tale contesto culturale essere imprenditori è soprattutto una questione divirtù: occorre cioè possedere non tanto competenze analitiche e conoscenze speci-fiche quanto un mix di forza morale (disponibilità al sacrificio, determinazione nelperseguire i propri obiettivi), di adesione convinta ai valori e alle regole di com-portamento selezionate dalla comunità, infine di “fiuto” nel saper cogliere tempe-stivamente le opportunità che si presentano. L’archetipo dell’imprenditore lumez-zanese ha forte il senso dell’occasionalità del suo agire. L’occasione era, per imercanti veneziani del rinascimento, la situazione in cui l’uomo si appropriavadella fortuna grazie appunto alla propria virtù. E la percezione che il successo im-prenditoriale dipenda dalla capacità (non solo e non tanto intellettuale quanto so-prattutto morale) di saper attendere caparbiamente e di sfruttare con tempestività eacume (secondo le regole della comunità) l’occasione favorevole quando si pre-senterà è uno dei tratti più significativi che si riscontrano nelle personalità im-prenditive delle origini.

Quella di Lumezzane è una cultura che ha saputo combinare in modo quasi ot-timale imperativi etici e vincoli selettivi, da un lato, con incentivi all’autonomia eall’assunzione di rischi individuali, dall’altro, e non stupisce che - proprio perqueste sue caratteristiche - abbia potuto divenire uno dei terreni più fertili per ge-nerare una imprenditorialità assai diffusa e di buon profilo. Per altro si tratta di unequilibrio delicato, che può facilmente rompersi soprattutto dal lato del conformi-smo. Pur non trattandosi - come si è visto - di una cultura propriamente tradizio-nalista, le componenti etiche e cognitive indotte culturalmente sono forti e posso-no - se appena si affievoliscono gli incentivi all’autonomia dei singoli - prevalerecon conseguente riduzione della “varietà interna” e perdita di capacità innovativa.E’ questo - come si vedrà di seguito - uno dei rischi maggiori dell’evoluzione delmodello nel passaggio dalla generazione dei capostipiti a quella degli anziani.

In sintesi, per concludere, i capostipiti dell’imprenditorialità lumezzanese si ca-ratterizzano: (1) per un forte individualismo etico, fatto di adesione convinta aivalori e alle consuetudini della comunità ma anche di motivazioni volteall’affermazione di sé e della propria impresa/famiglia; (2) per una prevalentecultura “di mestiere”, orientata principalmente al controllo delle incertezze tecni-co-produttive, costituita da un’insieme di conoscenze “tacite”, tramandate da ge-nerazione a generazione, da best practices selezionate e stratificate storicamente,

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da valori professionali e personali intensamente sentiti e condivisi; (3) per la con-seguente scarsa considerazione della scuola come strumento di formazione im-prenditoriale e per il netto rifiuto nell’impiego di manager, in quanto depositari diuna cultura estranea, portatori di competenze forse anche superiori sul piano ana-litico-formale ma asettiche, privi delle giuste motivazioni e dei valori di riferi-mento; (4) per un debole orientamento alla gerarchia e piuttosto per il riconosci-mento dei meriti e per l’accettazione di una elevata mobilità interna (all’impresa ealla società); infine (5) per la totale sovrapposizione tra impresa e famiglia.

Gli anziani: ovvero la “ritualizzazione” del modello delle origini

Il modello delle origini, tratteggiato nelle pagine precedenti, ha dimostrato unacapacità di persistenza nel tempo maggiore di quella che ci si sarebbe potutiaspettare. L’autocentratura e l’orgoglioso senso di appartenenza ad una comunitàdai connotati peculiari, la presenza al centro della vita economica di istituzioni dibase molto sentite, il successo stesso dell’economia del distretto, sono tutti ele-menti che hanno favorito la riproduzione del modello originale anche a fronte dicambiamenti importanti nella società più generale e nelle condizioni materialistesse del contesto locale. Così, i tratti motivazionali e gli orientamenti cognitividi fondo della generazione degli anziani - che costituisce a tutt’oggi l’asse por-tante dell’imprenditorialità lumezzanese - non sono di molto cambiati rispetto aquelli riscontrabili nelle generazioni precedenti. Si avverte però una sorta di“ritualizzazione” del modello, che viene adottato sempre più per conformismo oconsuetudine piuttosto che, come nel passato, per convinzione e costruzione pro-pria.

E’ un cambiamento sottile - dalle conseguenze per altro importanti, come sicercherà di analizzare di seguito - che si evidenzia con chiarezza soprattuttonell’analisi delle motivazioni di fondo a fare l’imprenditore. L’adesione ai valori eai modelli comportamentali del distretto continua infatti ad essere sentita e costi-tuisce un riferimento importante che dà certezza e favorisce i processi decisionali.Ciò che impercettibilmente cambia sono le ragioni per cui si sceglie l’attività im-prenditiva: venute meno - con il crescere della ricchezza e delle possibilità di svi-luppo dell’industria del distretto - le ragioni di sopravvivenza e di ricerca della si-curezza di base, i riferimenti motivazionali si spostano verso il soddisfacimento dibisogni collocati a livelli più alti nella scala di Maslow, tipicamente bisogni di so-cializzazione e di stima (buone relazioni, rispetto di sé, prestigio). Bisogni checominciano per altro a poter essere soddisfatti anche attraverso altre scelte di vitae carriere professionali (che infatti cominciano ad entrare, seppure in modo ancoradel tutto marginale, nel novero di quelle adottate da alcuni individui appartenentialla stessa generazione).

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La vocazione imprenditoriale continua ad essere quella prevalente soprattuttoper due motivi. Per chi proviene da una famiglia di imprenditori è una scelta quasiobbligata, che appartiene alla “natura delle cose”, che fa parte cioè di una tradi-zione familiare a cui non ci si può sottrarre (“ho fatto l’imprenditore perché lo fa-ceva mio padre”; “avevo dei doveri nei confronti della mia famiglia”; “dovevo ga-rantire continuità all’impresa di famiglia”). Per gli appartenenti a famiglie senzatradizione imprenditoriale - e avviatisi per lo più negli anni del secondo dopoguer-ra all’attività economica - la scelta è dettata dalla più generale cultura del distretto,che continua a proporre con forza la via dell’attività imprenditoriale come quellapiù immediata per affermarsi e farsi strada nella vita (“a Lumezzane tutti fanno gliimprenditori”).

I dati strutturali (dimensioni delle aziende e generazione imprenditoriale dellafamiglia) cominciano così a fare qualche differenza negli orientamenti di base de-gli imprenditori. Quelli più recenti (e per lo più a capo di imprese di minori di-mensioni) adottano “per imitazione” il modello del successo imprenditoriale delleorigini, lo fanno con convinzione ma con una minore spinta motivazionale auto-noma e un maggiore conformismo rispetto a quello dei capostipiti. Gli imprendito-ri di seconda o terza generazione (a capo spesso di imprese di maggiori dimensio-ni) cominciano invece a misurarsi con nuovi problemi (di successione, di com-plessità gestionale, di mercato) a cui la cultura del distretto non sembra sempre ingrado di dare risposte adeguate. Ciò spinge alcuni di loro a cercare nuove vie, cheper altro non modificano alla radice il quadro motivazionale e cognitivo prece-dente.

Il successo economico che, dopo le difficoltà degli anni ’70, continua ad arride-re al sistema industriale lumezzanese è segno di una indubbia capacità adattiva. Ipunti di forza su cui tale successo si è giocato - comuni del resto anche ad altrearee ad economia diffusa del paese - sono essenzialmente due. In primo luogo, lasignificativa presenza di una “cultura di mestiere” che ha saputo alimentare unprocesso di innovazione, incrementale ma sistematico e senza interruzioni, delletecnologie produttive. Le imprese lumezzanesi hanno saputo mantenersi - graziealla quasi maniacale attenzione dedicata alle tecnologie di processo -all’avanguardia e hanno così potuto garantire nel tempo flessibilità produttiva,qualità dei prodotti e prezzi competitivi. In secondo luogo, la forte componenteetica che ha continuato ad improntare di sé i modelli comportamentali degli im-prenditori del distretto ha permesso di minimizzare i costi di transazione interni edi perfezionare nel tempo formule organizzative di “specializzazione flessibile”sempre più sofisticate ed efficaci7.

7 Sui modelli di "specializzazione flessibile" si veda per tutti l'ormai classico Ch. Sabel, J. Zeitlin,

Alternative storiche alla produzione di massa, in "Stato e mercato", n. 5, 1982

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Nonostante questa apprezzabile capacità adattiva dunque, il modello culturaledelle origini non sembra essersi modificato nei suoi presupposti di base. Semmai èl’equilibrio su cui si era costituito ad essere sottoposto a tensione su entrambi iversanti: crescono le sfide e le dimensioni dei problemi che debbono essere af-frontati e si affievoliscono le motivazioni di fondo dell’essere imprenditore. Nelleinterviste alle tre figure di imprenditori anziani appaiono così i primi sintomi diuna crescente esigenza di controllo dell’incertezza. La famiglia da sola non bastapiù a garantire i rischi di impresa, né sono disponibili istituzioni finanziarie, poli-tiche o associative più moderne, capaci di socializzare in modo più adeguato talirischi. Accanto a ragioni di ordine più complessivo (degrado del sistema politicopiù generale, debolezza delle associazioni di rappresentanza, limiti al sistema fi-nanziario), è la fedeltà stessa al modello istituzionale e culturale a rendere difficileuna modernizzazione del sistema che possa ricostituire su nuove basi l’equilibriodeterioratosi.

La prima e più importante conseguenza è la riduzione della propensione al ri-schio di impresa. Sin tanto che la soglia di ingresso all’attività autonoma rimanebassa e alla portata dei ceti sociali di più modeste condizioni, il tasso di natalità dinuove imprese si mantiene alto, a conferma della persistenza di una cultura dellamobilità e della realizzazione personale che, anche se tende a ritualizzarsi e ad es-sere adottata più per conformismo che per motivazioni personali autonome, nonsolo mantiene una sua vitalità ma guadagna in diffusione. Ciò che cambia è piut-tosto la soglia del rischio che gli imprenditori già affermati sembrano disposti adassumersi. La stessa insistita ricerca di formule organizzative di specializzazioneflessibile sono state dettate - almeno agli inizi - anche dall’imperativo di non au-mentare eccessivamente le dimensioni di investimento. Si è preferito semmai di-versificare gli impegni finanziari della famiglia in più iniziative, così da garantireuna maggiore sicurezza del patrimonio complessivo8.

Gli effetti di questa strategia difensiva - che porta a privilegiare la solidità ri-spetto al dinamismo imprenditivo - si avvertono nella ridotta capacità di avviareinnovazioni radicali di prodotto e di far evolvere il distretto verso settori produtti-vi meno maturi e a più alto tasso di innovatività e di valore aggiunto. L’imitazionedelle pratiche di più immediato successo e il conformismo tendono a ridurre la“varietà interna” delle personalità imprenditive e impediscono che si determini ilgiusto mix tra vocazioni alla solidità e disponibilità al rischio innovativo. Non c’èinfatti vera innovazione senza alti rischi: i ritorni degli investimenti autentica-

8 Di questa logica da “conglomerata” che contraddistingue molti gruppi familiari di impresa mi so-

no occupato con maggior dettaglio oltre che nel contributo citato alla nota 6 anche in L’industriabresciana e il ruolo delle istituzioni, in A. Porteri (a cura di), L’industria bresciana e le sfide delcambiamento, SIPI, Roma 1997.

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mente innovativi si sottraggono a qualsiasi valutazione ex ante (anche probabili-stica), ed è perciò necessario - per vincere la sfida che si fa sempre più pressantein quest’era di innovazione esasperata e di globalizzazione - “allenarsi a rischiareerrori, con la speranza che alcuni siano fecondi”. L’unica risposta possibile è allo-ra quella di saper combinare uno zoccolo di imprese “solide”, orientate prevalen-temente alla riproduzione del capitale del distretto, con un nucleo di imprenditorischumpeteriani, disposti a rischiare e a sacrificare una parte del capitale sull’altaredell’innovazione radicale. Ora, è proprio questa capacità che sembra essersi dira-data, a seguito del conformismo culturale della generazione oggi al comando e,paradossalmente, proprio in funzione del successo adattivo del modello.

Una seconda conseguenza dell’esigenza di un maggiore controllodell’incertezza è rintracciabile nel diminuito ottimismo nei processi di selezione“quasi-naturale” della classe imprenditoriale e nell’aumentato grado di autoritàinterna alle imprese. La accresciuta sensibilità ai rischi d’impresa porta a privile-giare l’esperienza e l’anzianità a scapito dell’autonomia concessa ai più giovani edell’apertura alla sperimentazione di cui i giovani di solito sono portatori. In im-prese che continuano ad essere caratterizzate da scarsa o nulla managerializzazio-ne e da una gerarchia piuttosto piatta, la maggiore autorità di chi è al comandodell’impresa si esercita soprattutto sui figli e nipoti che stanno facendo la loro tra-fila formativa in azienda in qualità di potenziali successori. Ciò produce - come siavrà modo di vedere più avanti - effetti di rilievo sui quadri motivazionali e co-gnitivi della generazione di mezzo.

Del resto, che il comando dell’impresa venga esercitato (almeno nelle impresedi maggiori dimensioni e con una tradizione imprenditoriale più antica) con mo-dalità autocratiche e il più a lungo possibile è anche la conseguenza dei crescentitimori indotti dagli stessi problemi successori. Intanto, in un circolo vizioso chefinisce con l’auto-alimentarsi, si ha una minore fiducia nelle capacità di comandodei propri successori, si delega loro meno potere e di conseguenza non li si mettenelle condizioni di imparare ad esercitarlo. Vi è una sorta di inversione nell’oneredella prova che va di pari passo con il minore ottimismo nella efficacia dei proces-si selettivi “quasi-naturali”. In passato i giovani venivano messi alla prova preco-cemente nella consapevolezza che i migliori sarebbero emersi spontaneamente.Nel presente si è meno disposti a correre dei rischi e si prolunga così il più possi-bile la permanenza subordinata dei giovani in azienda nella speranza (invero malriposta) che acquisiscano tutta l’esperienza necessaria a non commettere errori ir-reparabili.

In secondo luogo crescono i timori relativi alla difficoltà di gestire i potenzialiconflitti intra-familiari che la successione può innescare. La identità tra famiglia eimpresa, vissuta come del tutto naturale e accettata anche nella sua problematicitàdai capostipiti, viene dalla generazione degli anziani denegata con forza. Non che i

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legami tra impresa e famiglia si siano nel frattempo modificati in modo sostan-ziale. E’ piuttosto l’ansia di non poter controllare le tensioni che si potrebbero ge-nerare nel passaggio generazionale ad imporre regole successorie ferree, qualequella di esclusione della discendenza femminile dal comando dell’impresa oquella di mantenere comunque la coincidenza tra proprietà e comando, anche acosto di liquidare parte dei familiari con effetti spesso deleteri sulla disponibilitàdi capitali o sulla varietà di competenze disponibili in azienda. Là dove comincia-no a farsi strada soluzioni istituzionali più sofisticate - come si è visto nella primaparte di questa ricerca - queste devono spesso fare i conti proprio con la ritrosiadegli anziani a cedere il loro potere autocratico e con l’incertezza della generazio-ne di mezzo ad assumerlo.

In sintesi dunque, dalle dinamiche strutturali e culturali ricostruite nelle pagineprecedenti si delinea una generazione di anziani (oggi ancora ampiamente ai verti-ci delle imprese lumezzanesi) caratterizzata: (1) da un individualismo etico daicontenuti sostanzialmente identici a quelli delle origini ma adottato per conformi-smo ad una cultura che si impone ormai con i tratti forti della tradizione; (2) dauna cultura “di mestiere” ancora diffusa e pregnante; (3) da una perdurante scarsaconsiderazione della scuola come strumento di formazione imprenditoriale e dalrifiuto della cultura manageriale in quanto estranea ai valori imprenditivi del di-stretto; (4) da una accresciuta necessità di controllare l’incertezza che la porta adun esercizio maggiormente autocratico del comando in azienda soprattutto neiconfronti degli stessi successori potenziali; (5) dalla affermata (più che praticata)divisione tra impresa e famiglia, principalmente per il timore di tensioni successo-rie ingestibili. Da questa evoluzione del modello delle origini, all’apparenza mo-desta, discendono però importanti conseguenze per la generazione di mezzo e peril futuro del distretto.

La generazione di mezzo: ovvero gli effetti della successione sul modello delleorigini

La generazione dei quaranta/cinquantenni può essere per almeno due buone ra-gioni indicata come “generazione di mezzo”. In primo luogo perché si colloca amezza strada tra quella dei sessanta/settantenni ancora in prevalenza al comando equella dei giovani appena entrati in azienda. In secondo luogo perché appare esse-re quella più delle altre in mezzo al guado: vive cioè direttamente le contraddizio-ni tra la fedeltà alla cultura delle origini e la percezione dell’esaurimento e del ne-cessario adeguamento della stessa. Si tratta poi di una generazione particolarmenteinteressante rispetto ai problemi della successione in quanto in taluni casi occupadi già posizioni di vertice mentre in altri è ancora subordinata alla generazioneprecedente e permette dunque (come in una sorta di esperimento ideale) di verifi-

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care le conseguenze di certe scelte successorie sulle motivazioni e gli orientamentidelle nuove generazioni.

Le linee evolutive del modello delle origini, analizzate più sopra nel passaggioalla generazione degli anziani, non sembrano modificare sostanzialmente la lorodirezione ma semmai accentuare la loro forza nel passaggio alla generazione suc-cessiva. Innanzitutto dalle interviste ai rappresentanti dell’età di mezzo si avverteun’ulteriore affievolirsi delle motivazioni poste alla base della scelta imprendito-riale. L’accresciuta ricchezza - frutto del successo economico del modello delleorigini - allontana (paradossalmente) dalle motivazioni forti che stavano alla basedi quello stesso modello. I bisogni fondamentali (sussistenza e sicurezza), per ilsoddisfacimento dei quali la scelta dell’attività imprenditoriale autonoma sembra-va in passato essere l’unica risposta possibile, lasciano il posto a bisogni più evo-luti ma anche meno sentiti emozionalmente. Questa generazione di mezzo (alme-no a giudicare dagli intervistati, ma su questo aspetto una ricerca su un campionepiù ampio e rappresentativo si imporrebbe) sembra motivata da bisogni di socia-lizzazione e di stima più ancora che dal bisogno di successo e di realizzazionepersonale. Lo spirito acquisitivo delle origini (che poteva essere conciliato con laforte componente etico-religiosa perché dettato da bisogni essenziali) tocca forsecon questa generazione il livello più basso. Ci si intenda, non che venga meno deltutto a livello di società locale, ma tende ad essere inversamente proporzionale allaricchezza accumulata dalla famiglia e alle alternative di vita che tale ricchezza e lecapacità vocazionali personali rendono possibili.

Non è raro trovare in questa generazione individui che, avendo scelto di conti-nuare l’attività imprenditoriale dei padri, sono posti nelle condizioni di doversiconfrontare continuamente con le alternative di vita di fratelli/sorelle (o cugini)che hanno invece preferito carriere professionali o di lavoro dipendente. E - quelche più importa - l’impressione è che, dal confronto, costoro non sempre tragganomotivi di rafforzamento della loro scelta. Molto dipende - come vedremo piùavanti - anche dalle politiche successorie e dagli spazi di autonomia che vengonoloro concessi in azienda da padri (e zii) preoccupati per le sorti dell’impresa difamiglia e indotti di conseguenza ad atteggiamenti autocratici, di contenimento ditali spazi. Comunque sia, la vocazione imprenditoriale non è più (come per la ge-nerazione precedente) una scelta quasi naturale, taluni anzi cominciano a viverlacome un second best a cui sono costretti per fedeltà alla famiglia o per difficoltàsoggettive ad intraprendere carriere professionali alternative. Non deve così sor-prendere che vi sia spesso un insuccesso scolastico all’origine della scelta di anda-re a lavorare nell’azienda di famiglia. Ma mentre in passato la radicale alterità trascuola e impresa non determinava sensi di colpa o di rivalsa a seguitodell’insuccesso scolastico, in questa generazione forse per la prima volta si av-vertono sentimenti ambivalenti al riguardo. Non che la rivalsa (secondo il noto

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adagio “ultimo a scuola, primo nella vita”) non possa di per sé costituire una vali-da motivazione all’impegno e alla ricerca del successo imprenditivo, ma - anchealla luce delle considerazioni seguenti - apre spazi di dissonanza e di incertezzamotivazionale sconosciuti alle generazioni precedenti.

Un secondo aspetto di cambiamento rilevante negli orientamenti di questa ge-nerazione consiste nella sempre più netta percezione della complessità (ambienta-le, tecnologica e di mercato) con cui l’impresa deve misurarsi e nella necessitàsempre più avvertita di possedere strumenti analitici e competenze tecniche piùsofisticate per farvi fronte. Determinazione, disponibilità al sacrificio, adesionealle pratiche diffuse nel distretto non bastano più a garantire il successo impren-ditoriale. Da questa consapevolezza discende innanzitutto la ricerca di relazionicon imprenditori e manager di esperienze più vaste (rispetto a quelle che circolanonel distretto) da cui poter ricavare informazioni e nuove conoscenze9, ma ancheuna crescente ambivalenza nei confronti della formazione scolastica. La scuolacontinua ad essere ritenuta troppo astratta e poco orientata alla formazione im-prenditoriale, ma si comincia ad avvertire la necessità di strumenti formali di ana-lisi dei problemi e di capacità di astrazione e generalizzazione che solo un proces-so di apprendimento sistematico e formalizzato può dare. Una cartina di tornasoledi questo rilevante mutamento di sensibilità è l’atteggiamento degli intervistati neiconfronti dei manager professionisti. Al rifiuto netto delle generazioni passate(dettato, come si è visto, dall’alterità della cultura manageriale rispetto agli orien-tamenti e ai valori dominanti nel distretto) si sostituiscono sentimenti antitetici: ditimore, da un lato, per gli effetti che una tale apertura potrà avere su alcune regoledi fondo del modello imprenditoriale dominante ma anche, dall’altro, di speranzanella possibilità di poter acquisire attraverso i manager (e per così dire sul merca-to) quelle conoscenze e competenze che si avvertono come necessarie ma di cuinon si possiede direttamente la chiave di accesso.

Un terzo aspetto che cambia e che permette di gettare un ulteriore fascio di lucesui cambiamenti profondi degli schemi motivazionali e cognitivi di questa genera-zione è il rapporto con la famiglia. Innanzitutto la famiglia, nella percezione degliintervistati appartenenti alla età di mezzo, perde il significato di istituzione in gra-do di garantire continuità e sicurezza che aveva per le generazioni precedenti. Sicomincia a fare distinzione tra la famiglia d’origine, alla quale ci si continua asentire legati dall’obbligo morale di dare continuità all’impresa avviata dagli avi,e la famiglia acquisita (moglie e figli), nei confronti della quale si nutrono spessoforti sensi di colpa in quanto trascurata per gli impegni di lavoro. E’ questo unsintomo particolarmente significativo dei cambiamenti in atto: non solo testimonia

9 E’ questa una esigenza che risponde anche al bisogno di socializzazione e di stima che contraddi-

stingue - come si è visto - questa generazione più che le altre.

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infatti del progressivo venir meno di quello spirito di sacrificio e di impegno totaleper il lavoro che sin qui aveva da sempre accomunato tutti i membri della famiglia(senza distinzione tra quella di origine e quella acquisita), ma segnala anche ilfatto che la famiglia non è più una istituzione “quasi-naturale”, che riproduce sen-za soluzione di continuità e in modo spontaneo i modelli di comportamento che sisono affermati positivamente nel tempo.

Che si sia di fronte a un modello culturale in esaurimento non più in grado diriprodurre in modo spontaneo e irriflesso abiti comportamentali e che richiedepiuttosto nuove scelte esplicite e impegnative è evidente nella messa in discussio-ne di alcune delle regole di successione più sentite dalla generazione passata,quale l’inserimento delle donne (sorelle o mogli) in posti di responsabilità o la di-stinzione tra proprietà e comando dell’impresa. Significato analogo hanno lepreoccupazioni che gli intervistati mostrano di nutrire nei confronti della forma-zione e delle scelte di vita dei propri figli. Per le generazioni precedenti era natu-rale che i figli scegliessero di entrare nell’impresa di famiglia (poteva semmai es-sere accettata con rincrescimento la scelta, ritenuta eccezionale, di chiamarsi fuori)e la trafila in azienda era ritenuta sufficiente a selezionare i più adatti. A giudicarealmeno dai casi qui considerati invece, quale potrà e dovrà essere la scelta dei figlinon è affatto data per scontata e comporta un serie di difficili giudizi: quanto ri-spettare la loro autonomia di scelta? come valutare le loro propensioni e potenzia-lità? quale percorso formativo sia più adatto?

La proiezione delle proprie preoccupazioni sul futuro dei figli svela forse più diqualsiasi altro sintomo le ambivalenze e le tensioni a cui questa generazione è og-gi sottoposta. Continua infatti a vivere e a condividere l’individualismo etico deipadri, consapevole che dal felice connubio tra lo spirito acquisitivo e alcuni valoridi fondo sono derivate le forti peculiarità positive e il successo del distretto. Mapercepisce tutte le difficoltà a trasmettere immutato ai figli questo lascito. Diffi-coltà che nascono sia sul versante dei valori, messi sempre più in discussione dauna cultura generale utilitarista ed edonista e da una cultura locale che tende a ri-spondere alla sfida con la ritualizzazione consuetudinaria, sia su quello dello spi-rito acquisitivo, che tende ad affievolirsi per il venir meno delle motivazioni difondo delle origini.

L’incertezza di fondo (quasi esistenziale) che deriva da questa situazione sem-bra comune a tutti gli intervistati appartenenti alla generazione di mezzo, ma conuna significativa differenza. Da un lato quelli che Michel Bauer chiama i “figlimuti”10. Sono coloro che, inseriti da tempo nell’impresa familiare, hanno assunto

10 M. Bauer, Tra impresa e famiglia. Trasmissione e successione nelle piccole e medie imprese,

NIS, Roma 1997

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anche posizioni formali di livello elevato nell’organigramma aziendale ma sonosubordinati nelle sostanza ai padri (e zii) che detengono ancora saldamente il co-mando. In molti casi non hanno neppure bisogno di distinguersi e farsi valere nellacompetizione (con fratelli e cugini) per la successione. I padri (e gli zii), preoccu-pati dai conflitti intrafamiliari, hanno già deciso tutto al riguardo, ma pretendonodai successori designati la pazienza di attendere e di “fare esperienza”.Un’esperienza quasi sempre condotta nella stessa impresa familiare e che è innan-zitutto acquisizione “mimetica” del modelli comportamentali dei padri. In costorosi può notare il massimo della ritualizzazione. Sul piano delle affermazioni diprincipio ribadiscono con forza (sino eccessiva) le loro convinzioni conformisti-che allo stereotipo culturale delle origini, salvo poi svelare involontariamente oinconsapevolmente sintomi di disagio per l’inadeguatezza delle regole e dei valoriai nuovi dati di fatto con cui debbono convivere. Nei (in verità troppo pochi) casiche abbiamo potuto analizzare da vicino si avverte - come conseguenza di ciò -una sorta di ripiegamento su se stessi, una accettazione quasi fatalistica del pro-prio destino personale e professionale che pone serie ipoteche sulla loro possibilitàdi essere soggetti attivi nel cambiamento culturale del distretto e, in verità, anchequalche perplessità sulle loro capacità di assumere le redini di una impresa di suc-cesso.

Sull’altro versante vi sono coloro che hanno invece assunto il comando in etàrelativamente giovane. Non abbiamo avuto modo di intervistare esponenti dellagenerazione di mezzo che siano giunti al vertice attraverso l’estromissione dellagenerazione degli anziani. I casi analizzati riguardano imprenditori giunti“precocemente” al vertice della loro azienda per ragioni familiari naturali (capo-stipiti con prole in età avanzata o predecessori morti prematuramente) o per op-portunità loro offerte da scelte aziendali o da politiche finanziarie delle holding difamiglia che li hanno portati a capo di nuove imprese. In questi casi si nota mag-giore incertezza esplicita sui lasciti culturali del passato, minore ritualizzazione epiù evidenti dissonanze cognitive tra i modelli trasmessi e le esigenze indotte dallarealtà di tutti i giorni. Ma si avverte anche una maggiore forza morale, una fiducianelle proprie capacità di venirne comunque fuori, una volontà di misurarsi prag-maticamente con le sfide nuove che si presentano, che non sembrano riscontrabiletra i “figli muti”.

Le politiche successorie sembrano dunque incidere non solo sugli assetti strut-turali delle imprese coinvolte, ma possono - in una fase di instabilità e di passag-gio come l’attuale - favorire la modernizzazione della cultura o la sua ritualizza-zione. Questa consapevolezza - delle conseguenze che anche le decisioni dellesingole imprese possono avere sul futuro complessivo del distretto - deve indurread una approfondita riflessione sulle tendenze in atto ad un sempre maggiore con-trollo dell’incertezza, ad un ricambio generazionale sempre più ritardato, ad un più

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spiccato orientamento autocratico nella conduzione delle imprese. Ciò anche allaluce di quanto sta avvenendo nella generazione più giovane, meno incerta e inmezzo al guado di quella dei quaranta/cinquantenni, ma ormai pronta ad abbando-nare definitivamente l’individualismo etico delle origini per un individualismoutilitarista e competitivo molto più moderno in apparenza ma anche carico di im-plicazioni non tutte positive.

I giovani: ovvero l’esaurimento del modello dell’individualismo etico

La generazione dei venti/trentenni già in azienda sembra caratterizzarsi permotivazioni e orientamenti cognitivi alquanto diversi da quelli dei loro fratelli ocugini maggiori. Si può verosimilmente ritenere che anticipi, in modo forse nonancora del tutto completo, quelli che potrebbero essere i modelli culturali dellaprossima generazione (quella cioè dei figli dell’attuale generazione di mezzo),qualora non intervengano fattori strutturali o azioni intenzionali atte a modificarele linee di tendenza spontanee in atto.

I tratti di fondo sono in questo caso più semplici da ricostruire. Comincia adavvertirsi con maggiore evidenza lo sgretolarsi della cultura locale e l’irromperedei modelli di riferimento propri della cultura utilitarista ed edonista della societàcontemporanea. In particolare è evidente l’adesione (spontanea, spesso neppurepercepita come problematica) ai valori tipici di una economia della post-scarsità. Illavoro e l’impegno professionale sono vissuti con crescente senso di strumentalitàrispetto al bisogno della realizzazione di sé. I riferimenti ai valori fondamentaliche erano propri delle generazioni precedenti persistono ma in modo sempre piùsfumato e il senso di obbligo morale nei confronti della famiglia d’origine (per lacontinuità dell’impresa) lascia senza rimorsi il posto all’obbligo verso se stessi ela propria famiglia acquisita, per una qualità della vita all’altezza dei livelli di pos-sibilità economica raggiunti.

La stessa scelta di entrare nell’impresa di famiglia è dettata sempre più da uncalcolo di convenienza rispetto alle alternative disponibili. In alcuni casi è ancoral’insuccesso scolastico a consigliare questa via; in altri la consapevolezza che que-sta sia ancora la soluzione più efficace per chi voglia guadagnare molto e benefi-ciare di ampi margini di libertà personale. Non possiamo affermarlo con certezzasulla base dei limitati casi considerati, ma non è inverosimile l’ipotesi che mentrein passato la vocazione imprenditoriale fosse dettata principalmente da ragioni eti-che (seppure di quell’etica tutta peculiare che, come si è visto, ha caratterizzato ilmodello lumezzanese), oggi lo sia sempre di più da calcoli di convenienza utilita-ristica. Il meccanismo di selezione culturale potrebbe dunque nell’arco di un de-cennio capovolgere i tratti tipici della classe economica dirigente: da una genera-zione (quella degli anziani) fortemente orientata ai valori del distretto, sino al li-

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mite del conformismo, ad una generazione di imprenditori “rampanti”, motivatiall’opposto proprio dalla non adesione a tali valori e piuttosto dalla ricerca esaspe-rata del guadagno e della realizzazione personale. Con conseguenze non indiffe-renti, se solo si pensa agli attuali punti di forza strutturali (specializzazione flessi-bile; autofinanziamento familiare; relativa non frammentazione della proprietàmobiliare) e ai prerequisiti etico-culturali degli stessi (reciprocità, fiducia, elevatae diffusa propensione al risparmio, unità di comando in seno anche a famiglie al-largate ed estese).

Gli intervistati - posti in condizioni diverse con riferimento alle posizioni oc-cupate nelle imprese di appartenenza - mostrano inoltre una minore disponibilitàalla subordinazione ai rispettivi padri e zii e, pur riconoscendo tutti l’esigenza di“fare esperienza” (vista anche l’età e la minore anzianità in azienda), non accetta-no che ciò avvenga secondo i canoni classici della lunga trafila a partire dalle po-sizioni più basse dell’organigramma aziendale, ma chiedono (e per lo più ottengo-no) di essere inseriti più velocemente in posizioni (almeno formali) di maggioreresponsabilità e prestigio. E’ probabile dunque che gli appartenenti a questa gene-razione accettino meno passivamente il ruolo di “figli muti” e ci si dovrà forse at-tendere una crescente conflittualità volta all’estromissione anticipata dei padri.Ciò di per sé non è del tutto negativo ed è una delle possibili vie per un sistemacomplessivamente più innovativo. Possono semmai preoccupare - in assenza dinuove e più efficaci regole istituzionali per la gestione della successione - dueconseguenze di una tale situazione di maggiore conflittualità (almeno potenziale).

In primo luogo la spinta ad una maggiore frammentazione della proprietà mo-biliare e del tessuto industriale del distretto, dettata dalla necessità di consentire ai“figli ribelli” di mettersi in proprio, uscendo dall’impresa di famiglia ed evitandocosì di indebolirne l’unità di comando. E’ una strategia che se opportunamentegovernata (attraverso la costituzione di holding familiari e il ricorso a forme di fi-nanziamento e capitalizzazione più moderne) potrebbe anche favorire l’affermarsidi spin-off innovative, che abbiano la possibilità di attrarre capitali e di crescere infunzione del successo raggiunto. Altro invece è il proliferare di piccole impreseisolate, (sotto)capitalizzate con i proventi della liquidazione delle proprie posizio-ni nell’azienda paterna, e che rispondano esclusivamente alle esigenze di autono-mia e di realizzazione di sé dei “figli ribelli”.

Il secondo rischio che l’aumentata conflittualità intergenerazionale può deter-minare è quello di indurre i padri a “tacitare” le tensioni successorie con conces-sioni formali ed economiche ai figli. E’ una tendenza in parte già presente che puòprodurre due effetti entrambi negativi per il futuro del distretto. Il primo è quellodi indurre la generazione più giovane a sviluppare orientamenti che Michel Bauer

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definisce come appartenenti al tipo “profittatore”11, vale a dire caratterizzati dauna debole logica imprenditoriale e da un forte progetto patrimoniale. E’ un mo-dello del tutto opposto a quello che ha sin qui contraddistinto l’imprenditore lu-mezzanese, definito piuttosto da un forte spirito imprenditoriale e da un più de-bole interesse patrimoniale. Questa tendenza a cercare il successo economico piùnegli aspetti finanziari che in quelli imprenditivi veri e propri si accompagnaall’altra conseguenza negativa del mutato rapporto intergenerazionale dentrol’impresa: quella di una progressiva perdita di capacità formativa dell’impresastessa. Un clima complessivo più permissivo, il venir meno del rigido principiodella trafila aziendale e, soprattutto, l’inserimento in posizioni i cui contenuti so-stanziali non corrispondono a quelli formali di status, indeboliscono la funzioneforte di “scuola di vita” che l’azienda familiare prima aveva e la rendono menoadatta come luogo di apprendimento e di socializzazione alla cultura imprendito-riale del distretto.

Non ci si fraintenda: non si tratta di salvaguardare ad ogni costo le vecchie re-gole, i cui limiti a fronte di un contesto molto cambiato ho già avuto modo di se-gnalare più sopra. Si tratta di cambiarle ed adeguarle, non però di svuotarle dicontenuto a fronte della contestazione di una generazione che comincia a non ri-conoscersi più in esse. In questo necessario ripensamento entra anche (e non po-trebbe essere diversamente) la scuola e, più in generale, la formazione di carattereastratto e formale. L’atteggiamento dei giovani (almeno quelli con vocazione im-prenditoriale) nei confronti della scuola sembra essere meno ambivalente di quellodella generazione di mezzo, ma sorprendentemente più simile a quello delle gene-razioni più anziane. C’è una maggiore fiducia nel “fiuto” e nell’intuitività piutto-sto che nel calcolo e nella ricerca sistematica di conoscenze utili. Torna (ed è diper sé positivo) un certo ottimismo nelle capacità di misurarsi con le sfide delmomento, ma tende ad accompagnarsi (ed è negativo) ad una minore consapevo-lezza della complessità della realtà moderna. Anche il rapporto con i managersembra percepito come meno problematico, vuoi per una minore preoccupazionedi fedeltà al modello prototipico dell’imprenditore lumezzanese, vuoi per un mag-giore senso di strumentalità nei confronti di “tecnici” che (forse con eccessivasemplicità) si pensa posano essere messi al servizio delle scelte imprenditoriali.

In sintesi dunque, nonostante il numero limitato di casi considerati debba con-sigliare prudenza nel saltare a troppo affrettate conclusioni, si può ritenere chel’affievolirsi delle motivazioni originarie, il progressivo ritualizzarsi del modelloimprenditivo, la pressione crescente dei valori utilitaristi della società generale,siano tutti elementi destinati a condurre (in quali tempi solo una indagine più am-

11 ibidem p. 121

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pia lo potrà dire) verso l’esaurimento definitivo del modello di individualismo eti-co che ha sin qui accompagnato lo sviluppo del distretto. Pare affacciarsi nella ge-nerazione più giovane un individualismo utilitarista, sin qui estraneo alla culturadi Lumezzane e destinato, se non si modificano altri elementi del contesto, a pro-durre conseguenze importanti nella propensione e soprattutto nella qualitàdell’offerta imprenditoriale del distretto.

Qualche considerazione conclusiva

Giunti a questo punto dell’analisi, ci si deve chiedere se vi siano delle alternati-ve al dilemma tra conformismo etico e utilitarismo competitivo che sembra desti-nato a segnare il futuro prossimo dell’imprenditorialità lumezzanese. Una politicadi distretto in tema di successione deve porsi anche in questa prospettiva: qualesoluzione possa favorire l’emergere di un assetto capace di rifondare su nuove basil’equilibrio tra forti motivazioni individuali e un quadro di valori e di regole cheindirizzino tali motivazioni e le rendano compatibili con le esigenze, proprie di undistretto evoluto, di cooperazione e di superamento degli orizzonti di breve perio-do.

Non è possibile in questa sede entrare nel merito di un quesito che se formulatoin modo generale è di difficile risposta: se un modello etico con una forte (quandonon esclusiva) connotazione utilitarista competitiva possa fornire le giuste moti-vazioni e porre i necessari vincoli a personalità destinate a ricoprire ruoli impren-ditivi di successo nella società moderna12. Quel che pare si possa invece affermarecon sufficiente certezza è che difficilmente orientamenti utilitaristi competitivipossono risultare compatibili con quella cultura altamente fiduciaria che ha sin quisostenuto lo svilupparsi di aree ad economia diffusa quale quella di Lumezzane. Sitratta allora di chiedersi - più limitatamente ma anche più realisticamente - se ecome sia possibile rinnovare le basi di una tale cultura altamente fiduciaria nelmomento in cui le fonti motivazionali originarie e le ragioni etiche comunitarielocali si stanno esaurendo.

Mi pare, al momento, che vi sia un’unica risposta ragionevole al problema:quella di favorire l’innesto di una nuova cultura professionale sul tronco dellavecchia cultura comunitaria e “di mestiere” delle origini. Per cultura professionaleintendo qui - sulla falsariga dell’esperienza di alcuni distretti innovativi sorti inanni recenti, per lo più intorno a grandi istituzioni universitarie e senza poter con-

12 Per un equilibrato tentativo di fornire una risposta non ideologica al quesito si veda M. Casson,

Entrepreneurship and Business Culture, Edward Elgar, Aldershot 1995

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tare su un retroterra tradizionale simile a quello dei distretti storici italiani13 - unacultura dell’intraprendere autonomo che si regge su due elementi di base.

Il primo è motivazionale e concerne le ragioni ultime dell’impegno personale a“mirare alto”, a investire sulle proprie capacità e anche a rischiare per ottenere ri-sultati che siano anche personalmente gratificanti. L’individualismo utilitaristacompetitivo tende ad esasperare il bisogno di successo e di realizzazione persona-le, svuotandolo di qualsiasi contenuto ideale e riducendolo all’affermazione di sénel confronto con gli altri. Il motore dell’agire umano diviene così quasi esclusi-vamente l’invidia14, con facilmente intuibili effetti negativi sul tessuto fiduciario.Un individualismo etico rinnovato deve poter contare invece su motivazioni idealiche sappiano coniugare ragioni forti all’impegno individuale con obiettivi di ca-rattere generale e sociale. Ora, una moderna cultura professionale sembra appuntoin grado di offrire una base a motivazioni siffatte, proponendo da un lato obiettiviricchi di contenuti sociali e ideali e dall’altro la possibilità di concrete gratifica-zioni in termini non solo monetari ma anche di stima, prestigio sociale e rispettodi sé.

Il secondo elemento concerne gli orientamenti cognitivi posti alla base di unacultura professionale moderna. A differenza della cultura “di mestiere”, una cultu-ra professionale moderna pone al centro dei suoi schemi cognitivi il pensieroanalitico-formale e la necessità di una conoscenza “codificabile” e dunque tra-smissibile e generalizzabile. Per altro - proprio perché professionale e non esclu-sivamente scientifica - risulta fortemente connotata in senso pragmatico, apertasulla incertezza posta dalla complessità del mondo, refrattaria a forme di raziona-lità assoluta e piuttosto criticamente consapevole della basi sociali dei proprischemi interpretativi e decisionali. Una cultura che cerca pertanto di coniugare -anche a livello cognitivo e non solo motivazionale - una razionalità conscia deipropri limiti con alcuni principi etici di fondo, quale la correttezza, l’onestà in-tellettuale, l’equità, l’integrità - principi che derivano appunto dalla consapevolez-za che l’intelligenza e la conoscenza sono diffuse e debbono essere condivise inmodo efficace se si vuole sfruttarle al meglio.

E’ possibile - per la realtà di Lumezzane - innestare una cultura siffatta sultronco dell’individualismo etico delle origini così da rivitalizzarlo e impedire che

13 Si vedano come esempi la Silicon Valley (intorno alla Università di Stanford), l’area di Boston

(intorno all’Università di Harvard e al MIT), il distretto di Cambridge UK (intorno all’omonimastorica Università), Sophia Antipolis (intorno ai laboratori di ricerca di alcune grandi multina-zionali).

14 Per il rilievo dell’invidia nelle società moderne si veda J. Elster, Il Cemento della società, IlMulino, Bologna 1995

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si divarichi ulteriormente la forbice tra conformismo etico e utilitarismo competi-tivo? E’ certo una sfida impegnativa, ma con buona probabilità l’unica in grado digarantire nel medio-lungo periodo la continuità del successo del distretto. Sono tre- credo - i punti su cui lavorare perché questo possa avvenire:

1. occorre innanzitutto ripensare in profondità alla formazione dei ceti impren-ditoriali. Si tratta di promuovere e incentivare livelli formativi di eccellenzacapaci di far fare un salto di qualità alla strumentazione e ai contenuti co-gnitivi delle nuove generazioni che si affacciano al mondo delle imprese.Ma deve trattarsi di una formazione non astratta, fortemente connotata insenso pragmatico, capace di fornire non solo gli strumenti analitici e le co-noscenze ma anche le giuste motivazioni al ruolo di imprenditore. Per que-sto solo un più stretto legame tra sedi istituzionali deputate alla formazione eimprese può garantire il giusto mix di ragione ed esperienza e il giusto equi-librio tra orientamenti cognitivi e fattori motivazionali;

2. essenziali poi perché la formazione imprenditoriale possa essere concepitacome “scuola di vita” (e non solo come apprendimento di schemi cognitiviasettici) sono le politiche successorie. Lo si è visto nelle pagine precedenti,il processo di inserimento dei successori nelle imprese di famiglia deve esse-re tale da permettere loro un esercizio progressivo ma reale e significativodelle prerogative imprenditoriali. Solo soluzioni organizzative non autocra-tiche e assetti finanziari più moderni, in grado di socializzare più efficace-mente i rischi di impresa, possono creare le condizioni necessarie per politi-che di trasmissione delle imprese familiari che non solo perseguano obiettivistrutturali (pure essenziali) ma siano preoccupate anche dei tratti soggettividegli imprenditori che dovranno subentrare nella gestione delle imprese;

3. infine una cultura imprenditiva dai forti connotati professionali moderni nonpuò prescindere da un quadro istituzionale più efficace e dinamico, fatto diassociazioni di rappresentanza, di consorzi tra imprese, di sedi di mediazio-ne in grado di “fare rete”, di coordinare il tessuto puntiforme dell’economiadel distretto e di fare emergere regole nuove che garantiscano insieme fles-sibilità, efficienza e cooperazione. Come si è detto, una moderna culturaprofessionale ha alto il senso delle sinergie, della natura distribuitadell’intelligenza e delle conoscenze, e dunque non può alimentarsinell’arroccamento e nello scetticismo politico-sociale di molti piccoli e mediimprenditori d’oggi15. Solo un quadro politico-istituzionale moderno, ri-spettoso delle prerogative imprenditoriali ma anche in grado di rinnovare le

15 Si vedano in proposito i risultati della ricerca del Censis e dell’Istituto Tagliacarne per Union-

camere, Imprese e istituzioni nei distretti industriali che cambiano, Franco Angeli, Milano 1995

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ragioni della cooperazione che le istituzioni tradizionali non riescono più adalimentare, potrà favorire tale evoluzione.