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1 Eleonora Forti Anna Forti Paolo Bisesti GLI ANGELI NON ESISTONO Tre racconti su una strage dimenticata a cura di Tersite Rossi

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Volume prodotto nell’ambito del corso tenuto nell’autunno 2011 presso il Piano Giovani di Zona A.R.Ci.Ma.Ga

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Eleonora Forti Anna Forti Paolo Bisesti

GLI ANGELI NON ESISTONO

Tre racconti su una strage dimenticata

a cura di Tersite Rossi

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Eleonora Forti Anna Forti Paolo Bisesti

GLI ANGELI NON ESISTONO

Tre racconti su una strage dimenticata

a cura di Tersite Rossi

progetto realizzato nell’ambito del corso di scrittura “Metti un’inchiesta nel romanzo”

organizzato dal Piano Giovani di Zona “A.R.Ci.Ma.Ga” nel 2011

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© 2012, Piano Giovani di Zona A.R.Ci.Ma.Ga www.arcimaga.org © 2012, Tersite Rossi www.tersiterossi.it [email protected]

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a Angelo, Annalise, Franco, Gianni e Luigi

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TERSITE ROSSI INTRODUZIONE

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Introduzione – di Tersite Rossi

LA NARRATIVA D’INCHIESTA: UN CORSO, TRE RACCONTI Cos’è la Narrativa d’Inchiesta. La Narrativa d’Inchiesta

(NdI) è un genere di scrittura che intende recuperare il valore del romanzo e del racconto storico attraverso nuove modalità lingui-stiche e mediante l’intreccio di storie “comuni” (la storia con la “s” minuscola), sviluppate sullo sfondo di importanti eventi stori-ci controversi (la Storia con la S maiuscola), sui quali non è stata fatta ancora sufficiente chiarezza. I racconti e i romanzi della NdI provano così a colmare quel vuoto di conoscenza e cultura storica che il giornalismo e la scuola spesso non sono in grado di argina-re. La Narrativa d’Inchiesta riecheggia in questo modo alcuni sti-lemi teorizzati dalla New Italian Epic (Wu Ming, Giancarlo De Cataldo, Ugo Barbàra) e dal Noir Mediterraneo (Massimo Carlot-to, Mama Sabot), filoni che negli ultimi anni hanno movimentato il panorama letterario italiano. La storia rievocata nei romanzi e nei racconti della Narrativa

d’Inchiesta è la storia di soggetti che con le loro vite individuali partecipano ai grandi eventi o ai movimenti socio-economici e culturali della loro epoca, disegnando un vivace affresco capace di fare luce su alcuni aspetti complessi e contraddittori della storia e sull’inevitabile legame esistente tra grandi e piccoli eventi. Le ragioni di un corso di Narrativa d’Inchiesta. Il corso di

Narrativa d’Inchiesta da cui ha avuto origine il presente volume si è tenuto nel periodo ottobre-dicembre 2011 presso la sede del Progetto Giovani del Comune di Aldeno (TN), all’interno di u-n’iniziativa promossa dal Piano Giovani di Zona A.R.Ci.Ma.Ga,

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coinvolgente i comuni di Aldeno, Cimone, Garniga Terme e due circoscrizioni di Trento, Ravina-Romagnano e Mattarello. Il corso ha condotto ciascun partecipante all’affinamento delle

proprie tecniche di scrittura e alla costruzione di un racconto ade-rente agli schemi della Narrativa d’Inchiesta: dalla scelta del-l’evento d’indagine, alla definizione di soggetto e sceneggiatura, alla composizione dell’elaborato che è finito all’interno di questo volume. L’obiettivo non è stato solo quello di accompagnare un grup-

po di giovani a migliorare le proprie capacità letterarie, ma di mo-strare loro come attraverso la scrittura sia possibile studiare la propria storia (soprattutto quella meno conosciuta e nascosta) e diventarne divulgatori, nonché difensori della memoria. Le modalità di lavoro. Il corso si è strutturato in dieci lezioni

da due ore ciascuna, unendo riflessione teorica e sperimentazione diretta. Le prime cinque lezioni si sono concentrate su una serie di e-

sercizi di scrittura, con una duplice finalità: da un lato imparare a costruire un personaggio, un ambiente, una situazione di svolta, un incipit e un finale, e, dall’altro, riconoscere il proprio stile per-sonale per adattarlo al racconto finale. Tutte le lezioni si sono ba-sate sulla lettura condivisa di brani esemplari tratti dai migliori narratori affini alla Narrativa d’Inchiesta (Jonathan Coe, Wu Ming, Massimo Carlotto, Giancarlo Narciso) e sul lavoro diretto dei corsisti (compresi i “compiti a casa”). Ciascun esercizio è stato letto e commentato in aula affinché il gruppo di lavoro fosse tale sotto tutti i punti di vista, compresa l’autocorrezione. Al termine della quinta lezione i corsisti hanno discusso quale vicenda storica analizzare per l’ambientazione del proprio racconto e hanno deci-so di concentrarsi sulla misteriosa morte, avvenuta nel settembre del 1970, di cinque giovani anarchici calabresi che stavano inda-gando sul deragliamento a Gioia Tauro del treno direttissimo Pa-lermo-Torino, avvenuto nel luglio del 1970, portando alla luce le-

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gami tra Stato, neofascismo e ‘Ndrangheta (v. “Appendice stori-ca” per approfondire). Il secondo blocco di cinque lezioni ha avuto invece come pri-

mo obiettivo quello di approfondire la vicenda storica prescelta, identificando in particolare gli elementi e le fonti che avrebbero poi potuto essere utilizzate proficuamente per la stesura dei rac-conti, generando quella fusione tra storia e Storia che è scopo e tratto peculiare della Narrativa d’Inchiesta. Poi i corsisti si sono concentrati sulla stesura dei soggetti, avendo cura di individuare ciascuno un punto di vista diverso sulla vicenda, pur senza perde-re di vista l’obiettivo comune di riportarne a galla il ricordo e di indurre il lettore ad approfondirla. Infine, è cominciata la scrittura vera e propria dei racconti, svolta a casa, tra una lezione e l’altra, e seguita da un processo di vero e proprio “editing collettivo” mes-so in atto da docenti e corsisti (grazie alla posta elettronica), inter-vallato da momenti di lettura e condivisione in aula, serviti a evi-denziare in corsa errori e possibilità di miglioramento. Il risultato è quello che avete tra le mani. Tre racconti assolu-

tamente degni dal punto di vista letterario e perfettamente ade-renti agli stilemi della Narrativa d’Inchiesta. Buona lettura, quindi, e “buona memoria”.

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Eleonora Forti

GLI ANGELI NON ESISTONO Un uomo fa capolino dalla porta dello scompartimento. “Salve. È libero qui?” “Prego, prego, venga pure.” Un ragazzo gli fa spazio. Una si-

gnora con un bambino gli sorride. “Grazie.” L’uomo si siede, fiaccato dal caldo. Si toglie il cappello e si a-

sciuga il sudore con un fazzoletto. “Caldo, eh?” L’uomo annuisce. “Dov’è diretto?” “A Reggio Calabria.” Il ragazzo si agita, è tutto preso dall’eccitazione, ed esclama: “Anche lei va a sostenere la rivolta?” Sorride come chi aspetta

la battaglia senza averla mai combattuta. “Vedrà, ci riprenderemo i nostri diritti! Tempo un mese, due, e Reggio sarà di nuovo capo-luogo, e allora avremo ancora un futuro davanti. Anche noi gio-vani, che siamo quelli messi peggio. Non c’è lavoro, si passa una vita da precari, senza stabilità. C’è chi ha la laurea e fa la fame, maledizione! Anch’io mi sono appena laureato e devo cercare la-voro, ma voglio trovarlo nella mia città. Reggio è importante per me, è dove sono nato e ho vissuto, e dove intendo vivere. Non lascerò che se la prenda un branco di servi del potere, che fanno solo i loro porci comodi!” Il ragazzo parla concitatamente, a voce alta, gesticola. Sembra montargli la rabbia. “Alla rivolta di Reggio combatteremo, camerata, finché sarà necessario. C’è anche stato un morto! Un certo Labate, impiegato delle ferrovie... un eroe! È morto per la causa.”

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L’uomo non dice nulla. È a testa china, sembra osservare le sue mani rugose, ma il suo sguardo è lontano. Manca l’aria, il bambino si mette a piangere. La mamma, sfinita, cerca di cullarlo. Il ragazzo si asciuga il sudore con il dorso della mano. “Perché non viene con me? Più siamo, meglio è. Devo

raggiungere la mia ragazza ed alcuni amici, hanno una specie di quartier generale dove organizzano le proteste. O è di Reggio pure lei? Ha un posto dove stare?” Il ritmico rumore dei vagoni e il caldo soffocante di luglio

sembrano dilatare il tempo. Dopo un’eternità l’uomo risponde: “Sì, sono di Reggio pure io.” Parla lentamente, con la bocca

impastata. Il ragazzo ha un moto di stizza per la risposta concisa, ma ri-

prende: “Sa dove andare, come si fanno le manifestazioni...?” Il caldo fa fischiare le orecchie, più del rumore del treno e del-

le urla del neonato. L’uomo si asciuga per l’ennesima volta il su-dore, stavolta con la manica della camicia. Non risponde. Il ra-gazzo insiste: “Non va a Reggio per la rivolta?” L’uomo risponde dopo un po’, con fatica: “No.” “Per cosa va, allora?” Quasi non si respira, l’afa stordisce i passeggeri. Per fortuna il

bimbo si è calmato. “Per il funerale di mio figlio, Bruno Labate.”, risponde l’uomo,

lo sguardo basso. “Morto per la ‘causa’.” Il ragazzo tace, si vergogna. Ma non avrà mai il tempo di tro-

vare le giuste parole per scusarsi. Ero ancora nella Baracca, nonostante mia madre mi avesse

detto di tornare a casa per le sei. Oltre che una questione di prin-cipio, disobbedirle era un piacere: i discorsi di mio cugino e dei

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suoi compagni erano sempre così interessanti da farmi rimanere incollato alla sedia. A volte mi lasciavano pure correre in giro per stampare qualche volantino o sbrigare qualche commissione im-portante. Era impossibile annoiarsi! I loro discorsi erano più in-fuocati del sole pomeridiano, ma più che scaldare facevano venire i brividi: lotta contro il potere, manifestazioni, cortei, concerti d’informazione. Fremetti sulla sedia di legno dov’ero appollaiato. Mio cugino

Gianni e Annalise erano intenti a parlottare concitatamente, ma erano stati così antipatici da avermi detto espressamente di an-darmene, che era vietato ascoltare. Chissà quante porcherie si sta-vano dicendo... Osservai Franco guardare il pianoforte con aria assente. Poi, senza alcun preavviso, lo aggredì. Il pianoforte, per protesta, emise una dissonanza tale da sembrare il grido di un u-briaco, ma Franco parve apprezzarlo. Continuò su questo tono, premendo sui tasti talvolta con foga, a volte appena sfiorandoli, per poi schiacciarli di peso con tutto l’avambraccio, producendo suoni irripetibili. Lui non usava spartiti, il suo scopo era ottenere l’originalità assoluta. Al massimo seguiva le note di compositori che solo lui aveva sentito nominare, infarciti comunque di una buona dose di improvvisazione. “Finiscila!”, sbottò Gianni, che non riusciva a sentire più la

voce di Annalise. “È Sostakovic, ignorante!”, gli rispose Franco, con una voce

sorprendentemente calma sopra il frastuono. Gianni si era già alzato per andare a tirarlo via di peso, quando

si udì uno schianto e la porticciola della Baracca si aprì di botto. Franco smise immediatamente di suonare. Ci girammo di scatto tutti e quattro, e vedemmo un ammasso informe di membra e piume accasciato sul pavimento che rantolava e si muoveva con-vulsamente. “Anghèlo!”, esclamò Annalise, con la sua pronuncia tedesca.

Quello non accennava a volersi alzare.

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“Angelo, che ti capitò?”, chiese mio cugino preoccupato, aiu-tandolo ad alzarsi. Annalise lo liberò dal guinzaglio cui stava at-taccata Maria, che scappò fuori starnazzando impazzita, stupida gallina. Angelo venne trascinato sul divanetto, sconvolto e fradicio di

sudore. Allargò le braccia e gettò la testa indietro per riprendere fiato, mentre tutti lo assalivano di domande. “Che c’è?” “Ti hanno picchiato?” “Stai bene?” “Che è successo?” “Il treno...”, sussurrò tra un affanno e l’altro. “Qvale treno?” “Quello... per Torino...” Tutti si fecero attenti. “Cos’è successo al treno, Angelo?”. Gianni era serissimo. “Ha deragliato... a Gioia Tauro... C’era pure il padre di Bruno

Labate...” Senza dir nulla, i ragazzi lo presero di peso, lo caricarono in

macchina e con Annalise alla guida presero la strada sterrata tra i campi e sparirono, lasciandomi piantato lì. Stronzi. Presi la rin-corsa e m’infilai in macchina, prima che Franco avesse il tempo di chiudere la portiera. Parcheggiammo la macchina ai piedi di una collinetta, poco di-

stante dal luogo dell’incidente, e proseguimmo a piedi. Io arrancai su per la collinetta sbuffando e soffiando e quasi

non vedevo dove andavo, tanto ero esausto. Giunto in cima guardai giù e stavolta capii cosa significasse rimanere senza fiato. La vista del disastro ferroviario mi sconvolse talmente che mi scordai di respirare per qualche istante. Mi si annebbiò lo sguar-do, forse per lo sforzo eccessivo, forse per le lacrime che mi sta-

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vano riempiendo gli occhi, e rimasi lì. Imbambolato. Inerme. Pie-trificato. Non sapevo che fare, se andare a chiamare aiuto, dare una

mano, seguire mio cugino e i suoi... Il disastro attirava il mio sguardo come un burrone, così restai a fissare inebetito quello che rimaneva dei binari, scorticati dalla terra con violenza e gettati scompostamente via. Parte del treno, una, due, cinque carrozze, erano collegate e intatte. Ma il resto giaceva su un fianco, ferito a morte da uno spaventoso incidente, una carrozza a destra, una a sinistra, a zig-zag come una macabra fisarmonica. Era dolente, in agonia. I lamenti dei passeggeri parevano provenire dal metallo stesso

più che da esseri umani. Un bambino strillava impazzito, sembra-va che lo stessero torturando; piangeva, piangeva, piangeva. Poi, non più. Quel silenzio urtò la mia coscienza più di un pugno. Mi stordì ed iniziai a tremare. Mi accorsi di avere la bocca semiaperta solo quando strinsi i denti per non scoppiare in singhiozzi, ma le lacrime stavano già solcando il mio viso. Mi gettai in ginocchio coprendomi il volto con le mani e cominciai a singhiozzare con-vulsamente. Non avevo più la forza di controllarmi. Mi lasciai an-dare. “Tonino!” Qualcuno mi chiamò, e alzai lo sguardo, tenendomi le mani

davanti, quasi volessi proteggermi da quella vista. Tra le mie dita e le lacrime vidi Franco che mi faceva segno di scendere ad aiutare. La sua mano era sporca di sangue. “Arrivo!”, riuscii a dire con voce tremante. Mi asciugai le la-

crime, montai in sella e raggiunsi quelli della Baracca. “C’è quella signora che ha bisogno di te: vai, Tonino, vai!”, mi

ordinò Franco, prima di correre da una coppia di ragazze ferite. Mentre sostenevo la vecchia signora e l’accompagnavo a una

delle ambulanze, vidi che Annalise si era caricata in spalla un uo-mo che non dava segni di vita, e che le stava sporcando di sangue

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la camicetta. Angelo, ancora stravolto dalla corsa, trasportava un omone con l’aiuto di Gianni. Incespicarono ad ogni passo, finché lo depositarono accanto a quella che era, mi accorsi con orrore, una fila di morti, nemmeno coperti. Altri uomini, gente della stazione, alcuni poliziotti, stavano aiu-

tando ad uscire dagli scompartimenti i superstiti, che piangevano disperatamente, o si lamentavano con voce flebile. Erano loro lo spettacolo peggiore: parevano destinati a spegnersi di lì a poco. Arrivò qualche altra ambulanza, ma i feriti erano decine, e non bastavano. Assieme ai pompieri e qualche poliziotto caricammo i feriti dentro qualsiasi mezzo ci capitasse a tiro, dalle volanti a qualsiasi macchina arrivasse. Annalise tornò accanto alle carrozze accasciate a terra, portan-

dosi dietro una barella che appoggiò lì vicino. Prese un anziano che veniva calato dal bordo del treno rovesciato, e lo accompa-gnò dolcemente fino a terra. L’uomo, tremante, con il sangue a grumi sulle braccia e gli occhi spalancati, si appese alla camicia già lercia di Annalise e le disse: “Sei un angelo salvatore...” Ma lei gli rivolse un sorriso amaro: “Tut mir Leid, gli angeli non esistono. Ci sono solo i salvatori.” I ragazzi erano tutti seri. La faccenda del treno li aveva davve-

ro colpiti. Di tanto in tanto sparivano, da soli o a coppie, e non tornavano che dopo giorni, soddisfatti, ma con un’aria sempre più distrutta. Portavano dentro e fuori dalla Baracca incartamenti, fotografie, manifesti, che mi proibivano tassativamente di guarda-re, e non mi mandavano neanche più a far stampare i volantini. Franco non suonava più da un pezzo, ormai, e la polvere imbrat-tava la superficie lucida del pianoforte. Gianni scriveva qualcosa, ma dopo due righe appallottolava nervosamente i fogli, li gettava via e ricominciava da capo. Allora ci pensava Annalise a calmarlo. Lo aiutava nello scrivere, gli parlava, lo carezzava e gli sorrideva, e

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qualche volta sparivano per riapparire dopo qualche ora, molto più rilassati. Col passare del tempo i discorsi dei ragazzi si fecero meno er-

metici, non erano più in codice, o forse ero io che capivo meglio. Pensavano che quello del treno non fosse stato solo un incidente, perché ritenevano impossibile che si fosse trattato di un guasto tecnico improvviso, e anche i macchinisti del treno che avevano interrogato escludevano l’errore umano. Ma perché mai qualcuno avrebbe dovuto colpire un treno? E chi, poi? Tesi l’orecchio. Gianni e Annalise erano nella camera da letto a

parlare e sentivo a stento le loro parole, mentre fingevo di riordi-nare l’ambiente più grande della Baracca. Angelo studiava dei fascicoli e buttava giù degli appunti, assor-

to. Potei avvicinarmi tranquillamente alla porta della stanza. “Ma perché allora nessuno ha sentito nulla?”, chiese Annalise. Angelo sbuffò e si mosse sulla sedia, senza farmi capire la ri-

sposta di mio cugino. “Vielleicht, Gianni.”, gli rispose Annalise. “Ma non si capisce

da dove arrivi il denaro. Gli imprenditori di Reggio Calabria sem-brano puliti, non capiremo mai chi ci ha messo i soldi.” “Gli stessi della rivolta. Chi c’ha i soldi, ce li mette. Hai visto le

foto di Ciccio Franco, no? Lo striscione con ‘Boia chi molla!’... Si sa che ci sono i fascisti, a Reggio. Bastardi fascisti che si spacciano per salvatori con il loro Comitato d’Azione, ma che aggravano so-lo la situazione. Ciccio Franco e i suoi ci sono dentro fino al col-lo. Vogliono solo rompere le palle e controllare la città. Ci man-dano in piazza per Reggio capoluogo, ma chi se ne frega? È tutta una strategia per distrarci dai nostri veri problemi, l’emigrazione per il lavoro, la disoccupazione, la fame!” Gianni si agitava molto, quando parlava. “Ma i fasci non ne hanno di soldi, Gianni!”, gli fece notare

Annalise. “Qvalcuno deve pur darglieli!”

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“Pensaci bene, Annalise. Chi altro vuole il potere? A chi altro sta bene se i reggini si ammazzano a vicenda? Chi altro ha i soldi per fare tutto questo?” “Già, chi?”, gli fece eco Annalise. Angelo si alzò rumorosamente dalla sedia, impedendomi anco-

ra una volta di sentire tutta la risposta. “... Proprio loro.”, disse mio cugino con tono grave. “Ho

mandato Angelo a tenere d’occhio i fascisti, e sono convinto che riuscirà a provare questa collaborazione.” Collaborazione di chi? Con chi si erano alleati i fascisti? Ero

tutto assorto nel pensare, quando sentii una mano su una spalla. Sobbalzai e mi voltai di scatto. “È ora di tornare a casa.”, mi disse Angelo. Non osai disobbe-

dire davanti al suo sguardo. Uscii, presi la bicicletta e me ne andai senza salutare. Però non sarei andato subito a casa: non vedevo l’ora di dire al mio amico Carmine ciò che avevo appena sentito. “Tonino?” “Sì?” “Sono Gianni.” La voce era un po’ tesa. “Volevo avvisarti di

non passare da noi la prossima settimana, perché andiamo a stare a Roma per un po’.” La mia risposta fu immediata: “Vengo anch’io!” Mi rispose con voce cantilenante: “No, non c’è posto in macchina, dobbiamo tirare su anche

Luigi Lo Celso, a Cosenza.” “Mi metto nel baule!” Gianni sbuffò: “ “No, sei troppo piccolo e impiccione, non puoi venire con

noi.” “E ridagli con ‘sta storia! Che rompipalle! Per una volta che ti

costa?”, ribattei, cocciuto.

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“Ho detto di no e basta, piantala. Non fare il bambino.” Mi irritai: “Il bambino? Ma sei davvero stronzo!” Ero ferito. “Piantala. Sei piccolo e impiccione. Ti abbiamo sopportato fin

troppo, e ora dovremmo badarti anche a Roma? Non sai neanche farti la pappa da solo!” Non volevo credere a quello che mi stava dicendo, era davve-

ro così? Sentii lacrime di rabbia salirmi agli occhi. “Sì che me la so fare!”, strillai, al limite della disperazione. “Saresti solo una palla al piede, e noi abbiamo già abbastanza

da fare, anche senza stare dietro a un poppante, quindi fammi il piacere di levarti di mezzo. Di venire a Roma non se ne parla proprio, e sarebbe meglio se stessi anche lontano dalla Baracca per un po’. Chiaro? Salutami la zia.”, disse, e riattaccò. Mollai la cornetta e mi precipitai in sella alla bicicletta, pedalai

come un forsennato, con un nodo in gola e le lacrime che lotta-vano per non uscire. Bastardo. Quello che mi aveva detto era dannatamente vero, ma non l’avrei mai ammesso. L’avrei preso a cazzotti! Arrivai nei pressi della Baracca in poco tempo, gettai la bici

per terra e mi diressi verso la casupola, pronto a fare irruzione e menare quello stronzo di mio cugino. Ma la forza e i propositi mi morirono dentro quando vidi che il rifugio era stato imbrattato da scritte fasciste. Lo slogan ‘Boia chi molla!’ campeggiava su due pareti della Baracca, scritto in nero, a caratteri cubitali. Sembrava una condanna indelebile. Una finestra era stata infranta, e dentro intravedevo mio cugino e i suoi. Mi avvicinai senza farmi vedere, sbirciai dentro e vidi Franco abbandonato sul divano, con un lab-bro spaccato, la testa fasciata, e Angelo che gli stava avvolgendo una garza attorno a un polso steccato. Respirava piano. “T’han conciato per le feste, vecchio mio!”, gli disse Angelo.

“Ora sei pronto per andare a ballare!”

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Franco fece un debole sorriso, con gli occhi semichiusi, e ri-spose: “Nurejev sicuramente apprezzerà la mia composta e raffinata

performance sulle tombe dei loro antenati.” Angelo rise. Gianni scuoteva la testa, andava avanti e indietro e imprecava

tra sé e sé: “Sporchi fascisti bastardi... sempre in branco... ignoranti caro-

gne che non sono altro.” “Scheisse!”, imprecò Annalise a denti stretti. Stava frugando nei

cassetti con una faccia a metà tra l’arrabbiato e il preoccupato. So-lo allora mi accorsi che c’erano fogli mezzi bruciati, quaderni e mobili ovunque. C’erano persino delle stoviglie rotte sul pavimen-to. “Sono spariti dei rullini.”, annunciò Annalise. “Come sono venuti a sapere quello che stavamo facendo?”, si

chiese Angelo. “Avevamo già mandato il dossier completo a Roma?”, do-

mandò Gianni. Annalise annuì. “E ne abbiamo una copia?” Tutti gli fecero di sì con la testa. “Bene, questo è l’importante.”, disse Gianni. “Portiamolo con

noi a Roma, dobbiamo evitare che finisca in mani sbagliate.” Si fermò, come se dovesse mandare giù qualcosa di amaro. “Abbia-mo scoperto delle cose che faranno tremare l’Italia. Ora prepa-riamoci a subirne le conseguenze.” “Pronto” “Pronto... Tonino?” La voce di mia zia era affannata. “Sono io, zia. Dimmi.”

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“Oh, Tonino mio!” La sua voce si incrinò. La udii soffiarsi il naso dall’altra parte della cornetta. Strinsi la presa sul ricevitore. In attesa. Con un bruttissimo presentimento. “Sì, zia?...”, chiesi con voce titubante. Ancora niente. Solo rumori. Nulla. I secondi passavano. Un

sospiro. La zia tirò su col naso. Un respiro. Silenzio. Finalmente interrotto: “Sono morti! Un incidente... Gianni e gli altri ragazzi sono

morti!” Mia zia scoppiò in singhiozzi laceranti, perdendo anche quel

minimo di autocontrollo che le era rimasto. Mi si strinse lo sto-maco. Non dissi nulla. Non c’era niente da dire. Cercai di tratte-nermi dal piangere, ma non ce la feci e scoppiai in singhiozzi. Per quella che mi parve un’eternità mia zia ed io piangemmo insieme, uniti nel nostro dolore, diverso, ma di uguale intensità. Cercai di ricompormi poco a poco, tornai un po’ più lucido, e ne volli sape-re di più. “Zia...” Mi schiarii la gola, lottando contro le lacrime. Respirai

forte. “Zia, com’è successo?” Lei si soffiò rumorosamente il naso, due volte. Che importava

il contegno, che importava la buona educazione? Erano morti. “Pare che si siano schiantati contro un tir, mentre andavano a

Roma... Erano così giovani...” Di nuovo non riuscì a trattenere i singhiozzi. Sentire qualcuno che piange quando si sta cercando di non farlo è davvero una tortura. Mia zia continuò a descrivere l’incidente, quasi che parlare del-

la loro morte riuscisse ad alleviarle un po’ il dolore. “Angelo, Franco e quell’altro ragazzo sono morti subito... Gianni l’hanno portato in ospedale ed è morto poco dopo... Oh, il mio Gianni... Se avessero fatto più in fretta si sarebbe salvato...” La sua voce non aveva più forza, era un flebile lamento rasse-

gnato. “Annalise è in coma. Speriamo che almeno lei si salvi... E adesso passami mia sorella, per favore.”

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Il suo tono sembrava una supplica. Mi asciugai le lacrime che non avevano smesso di scendere e passai la cornetta a mia madre. Poi andai di fuori a sedermi per terra, e ripresi a piangere. Dopo qualche giorno, il dolore non era affatto diminuito.

Semmai, era cambiato il mio modo di sopportarlo. Dal giorno dell’incidente, tutti i pomeriggi andavo a sedermi sul ghiaino anti-stante la casa, a osservare i campi di grano, a pensare in maniera sempre più lucida. Dopo la telefonata mia zia mi aveva tenuto al corrente degli sviluppi delle indagini, che più venivano approfon-dite, più mi parevano strane. Tanto per cominciare, nello schianto contro il tir sembrava

che fosse stata una terza macchina a spingere l’auto dei ragazzi contro il rimorchio, che era ammaccato solo di lato e aveva i fa-nalini posteriori intatti. In più avevo chiesto del dossier che mio cugino e i suoi avrebbero dovuto portare a Roma, ma di quello nessuna traccia. Era assurdo che non lo avessero con loro, dato che lo scopo principale del viaggio era proprio la consegna di quel plico! Insomma, più che un incidente a me pareva un attentato. Sospirai. Mi bloccavo sempre in quel punto. Chi aveva voluto

uccidere mio cugino e i suoi? E dove era finito il dossier che a-vrebbe dovuto far ‘tremare l’Italia’? Forse Annalise avrebbe potu-to aiutarmi a capire qualcosa, ma il suo stato di coma sembrava essere irreversibile. Anzi, sembrava peggiorare sempre più. Fu a quel punto dei miei pensieri che vidi sbucare dalle spighe

dei campi Carmine con la bicicletta. Sgommò poco lontano da me, scese, e mi fece un grande sorriso. Era sudatissimo come al solito, ma si vestiva sempre di nero e non si notava. Di nero. La mia attenzione si cristallizzò su questo particolare. Carmine

si vestiva sempre di nero, sempre con una camicia a maniche lun-ghe, anche con il caldo. Una camicia nera, come la scritta ‘Boia chi molla!’ sulle pareti della Baracca. Come la divisa dei fascisti.

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ELEONORA FORTI GLI ANGELI NON ESISTONO

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Serrai la mascella e lo osservai meglio. Sorrideva. Forse perché era felice di quello che era successo ai miei amici? Se i fascisti erano riusciti a far saltare un treno, pensai, figurarsi

quanto sarebbe stato facile, per loro, provocare un incidente su una macchinina come quella dei ragazzi. Frena, Tonino, mi dissi. Cercai di controllare la rabbia che mi stava nascendo dentro. Fre-na. Annalise ha detto che i fascisti non hanno i soldi. Dunque? “Pensaci bene, Annalise. Chi altro vuole il potere? A chi altro

sta bene se i reggini si ammazzano a vicenda? Chi altro ha i soldi per fare tutto questo?” “... Proprio loro.” La Lunga Mano! La ‘Ndrangheta! Sono loro, sempre loro che hanno i soldi. Imprenditori di

mezza regione fanno affari con quelli della Lunga Mano, che può arrivare dappertutto. Anche a strappare la vita di cinque ragazzi combattivi. E anche a manipolare i fascisti, perché poi sono loro che fanno tutto. Me l’aveva detto Angelo che loro ci godono, a sporcarsi le mani. Osservai ancora Carmine che si avvicinava e la verità mi colpì

con la forza di una randellata. Brividi di orrenda consapevolezza mi scuotevano con tanta violenza che cominciai proprio a trema-re, lì in mezzo allo spiazzo, sotto il sole, al caldo. Carmine era un fascista. Ed ero stato io a raccontargli quello

che facevano i ragazzi della Baracca. Io gli avevo detto che erano degli anarchici. Io gli avevo detto che nella strage di Gioia Tauro c’entravano i fascisti, che si erano accordati con qualcuno con molti soldi. Io gli avevo detto che mio cugino e i suoi stavano in-dagando per arrivare a dei nomi, che avevano raccolto materiale pericoloso, che volevano far sapere dei segreti alla gente. Io gli avevo spiegato dove si trovava la Baracca.

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ELEONORA FORTI GLI ANGELI NON ESISTONO

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E lui aveva detto tutto ai camerati. Che avevano picchiato Franco, imbrattato la Baracca, fatto sparire il dossier, tutto per far sì che neanche una parola venisse a galla. Due stragi: quella di Gioia Tauro e quella dei ragazzi. E

c’entravano sempre loro, quei dannatissimi porci, contro cui Gianni si scagliava sempre con una foga di cui solo ora capivo davvero le ragioni. Mi avvilii. Ero stato io la causa di tutto, perché se avessi tenuto

la bocca chiusa, i camerati non avrebbero saputo cosa stavano fa-cendo quelli della Baracca, non se ne sarebbero interessati e i miei amici sarebbero rimasti vivi. Li avevo fatti ammazzare io. Li avevo ammazzati io. Non solo ero inutile, una palla al piede, un poppante. Ero an-

che un inaffidabile, un traditore, un assassino. Le lacrime brucianti di consapevolezza che rigavano le mie

guance non sarebbero mai riuscite a lavare la colpa di cui mi ero macchiato. Sì, li avevo ammazzati io.

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ANNA FORTI IL CANTO DEL CUCULO

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Anna Forti IL CANTO DEL CUCULO Gianni concentrato nella guida. Gli altri che parlano. Quelle righe che non mi si scollano dalla memoria: “Roma, 5

luglio 1970. Caro Demetrio, la lettera che sta per leggere è diversa da tutte quelle che avrà ricevuto in passato, quindi vi ponga anco-ra maggior attenzione”. Luce improvvisa negli occhi. Un camion? Il fischio dei freni.

Lo schianto. Il buio. Una fitta al torace. Il silenzio. Il vuoto. Fari. Freni. Fitta. Dopo numerosi tentativi, ecco che la chiave gira nella toppa ed

entro nella Baracca. Premo l’interruttore, ma la stanza non si il-lumina e rimane rivestita da un alone opaco, i colori dileguano dalla mia mente ed io mi ritrovo circondata da un mondo in bian-co e nero come in una vecchia pellicola. In fondo alla stanza tro-neggia un’elegante scrivania in ebano intarsiato con un ripiano in vetro trasparente. Mi ci specchio, indosso quegli orecchini di ra-me a forma di spirale che non trovo più da tempo. La mia imma-gine è interrotta da una pila di fotografie: nella prima il bagliore fioco di un lampione lascia scorgere le sagome di due uomini in piedi mentre si stringono la mano. Uno di loro è il sindaco Batta-glia, l’altro è “Mr. Black”, l’americano che Gianni e Franco hanno seguito per un’intera settimana e che poi è sparito. La sposto, co-prendo così del tutto il mio riflesso e mi soffermo sulla fotografia successiva: l’interno di un salotto e Demetrio Mauro seduto su una poltrona. Inizo a sfogliarle, prima lentamente, poi sempre più in fretta: Battaglia con Ciccio il Biondo e Caracciolo, “Mr. Black”

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ANNA FORTI IL CANTO DEL CUCULO

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che sale le scale di Palazzo Campanella, la stazione di Gioia Tau-ro, una valigetta ricolma di banconote... All’improvviso un colpo di vento spalanca la finestra. Le fotografie mi sfuggono di mano. Iniziano a volare in giro per la stanza. Cerco inutilmente di affer-rarle. Le mie mani sono trasparenti. Le fotografie mi ruotano in-torno. Giro anch’io con loro. Sempre più veloce. Sempre più ve-loce. Sempre più veloce. Perdo l’equilibrio. Cado a terra. Alzo lo sguardo. Le fotografie hanno creato un enorme vortice che len-tamente le riassorbe. Mi ci affaccio per capire. Scorgo il vuoto. Poi il buio ed il silenzio. Una luce, un suono sordo, un dolore intenso. Signorina Borth, mi sa dire in che anno si svolse la conferenza

di Yalta e chi vi prese parte? Mein Got... Vuoto, buio totale, silenzio. Fari accecanti. Stridore di freni. Fiato spezzato. Gianni mi prende per mano ed entriamo. La gente applaude

euforica. C’è anche Ferruccio Levanti, il miglior Amleto della sto-ria del liceo. Elisa sorride e ci offre una birra. È così incredibil-mente allegra, incontrarla mi mette sempre di buon umore. Am-brogio Lo Smunto e Camillo Rodrighi si fanno largo tra la folla. È strano che siano venuti, di solito non frequentano questo luogo, soprattutto da quando hanno deciso di entrare a far parte del Comitato d’Azione. Sono contenta che siano qui anche loro a go-dersi questo concerto, del resto il centro è aperto a tutti ed è stra-ordinario notare come le persone sappiano superare i pregiudizi e stare insieme. Ci si schiera da una parte o dall’altra più per trovare una propria identità che non per essere realmente diversi.

People try to put us d-down (Talkin’ ‘bout my generation) Just because we g-g-get around... Incrocio lo sguardo di Gianni, ci avviciniamo an-cor di più al palco. Things they do look awful c-c-cold (Talkin’ ‘bout my

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generation)... In un attimo, il silenzio ed il buio... Non è possibile! Che sia saltata la corrente? Poi il vuoto.

*

Reggio Calabria, 19 settembre 1970 Cara Matilde, ti scrivo seduta all’ombra di un piccolo pino marittimo, circondata dal

profumo dei fiori di lavanda, che crescono liberi punteggiando di viola il verde del promontorio. Davanti a me il mare si stende come una tavola, che la brezza del mattino si diverte ad increspare in piccole onde. In lontananza si scorgono i pescherecci navigare in mare aperto, riscaldati dai primi raggi del sole, che lasciano prevedere un’altra calda giornata d’estate... Un’altra calda giornata di scontri e violenza per le strade e i quartieri di questa città soffe-rente, che sta cedendo il suo carattere gioioso ed accogliente in cambio dell’odio e della violenza. Di continuo l’aria si riempie del fumo dei lacrimogeni mentre il boato degli spari si alterna al grido della rivolta: “Boia chi molla!”. Se fossi qui stenteresti a riconoscerla, stenteresti a riconoscere le persone: anche le più innocue sembrano essere impazzite. Qualche sabato fa ero con Gianni ad un concerto dei White Rabbits al centro anarchico, quando improvvisamente nella sala è calato il buio ed un gruppo di ragazzi ha iniziato a sferrare colpi alla gente che si stava godendo l’esecuzione di My Generation degli Who... Beh, tra loro c’era pure Ferruccio Levanti (ricordi quello che recitava con noi nello spettacolo di fine anno?), cose da non credere. Il peggio è che fatti del ge-nere si verificano con sempre maggior frequenza, per non parlare degli attenta-ti veri e propri...

Nell’ultima lettera dicevi di essere dispiaciuta di non poter essere qui con noi alla Baracca per provare a migliorare le cose, ma non devi davvero preoc-cuparti di questo! Goditi la vita festosa di Amsterdam, con i suoi locali e la sua atmosfera multiculturale, conosci tante persone nuove e sii fiera di studia-

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ANNA FORTI IL CANTO DEL CUCULO

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re all’Amsterdamsch Conservatorium! Dico sul serio, sfrutta al massimo quest’opportunità che ti sei procurata e guarda al tuo futuro in una delle più prestigiose orchestre del mondo senza stare a voltarti troppo indietro!

Quando ti immagino mentre fai scorrere l’arco sulle corde del violino tra quelle sale lussuose, provo un sentimento di grande orgoglio e mi sale un po’ di nostalgia ripensando ai tempi in cui ci esibivamo assieme... Sarà forse per questo che, dopo anni di pausa (quanto ti arrabbiasti quando io decisi di la-sciare il conservatorio!?!), ho ricominciato a suonare. Ben inteso, niente di spe-ciale, soltanto qualche concertino con Franco al bar di Mimmo, ma quel poco è bastato a nonna Elvira per far circolare la voce della “nipote musicista” tra i bambini della catechesi e a far sì che la piccola Marta Mauro (sì, proprio la figlia di Demetrio Mauro, il “re del caffè”!) obbligasse il padre a chiamarmi perché le dessi alcune lezioni di piano. All’inizio ero scettica, l’idea di dover-mi recare abitualmente in quella supervilla mi metteva un po’ a disagio... Poi ho pensato a te e agli ambienti di classe che frequenti ultimamente e mi sono rassicurata...

In realtà non avrei potuto fare cosa migliore! Non so se ricordi della controinchiesta che stiamo portando avanti, di cui

ti avevo accennato nell’ultima lettera: beh, a mia insaputa credo di essere en-trata proprio dentro la tana del lupo! Non ne sono ancora del tutto sicura, ma in quella casa avvengono degli spostamenti strani... Per esempio, qualche settimana fa Mauro stava tutto impegnato a conversare in giardino con Ciccio Franco, quello del Comitato d’Azione (è lui che, fra il resto, ha inventato l’idiotissimo slogan “Boia chi molla!”). Mercoledì scorso invece ho “casual-mente” origliato (Marta era uscita un attimo lasciando socchiusa la porta) un dialogo piuttosto inquietante tra il padrone di casa, il sindaco Battaglia ed un altro personaggio vestito di nero che non sono riuscita ad identificare, nel qua-le facevano riferimento a cambiamenti imminenti ed in particolare ad una cer-ta lettera ricevuta da Mauro. Ho deciso che cercherò quella lettera, sento che potrebbe essere la chiave di tutte le nostre ricerche, che potrebbe svelarci delle verità importanti riguardo ciò che sta accadendo, che potrebbe davvero conte-nere informazioni in grado di far tremare l’Italia!

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Lo so, forse sono un’illusa, ma io ci spero davvero tanto che in qualche modo tutto quello che stiamo facendo e faremo servirà a placare questo clima di violenza e a costruire un mondo più giusto...

Per il resto, stiamo tutti bene. Io e Gianni stiamo vivendo un periodo par-

ticolarmente felice, è come se fossimo entrati in una fase di completa sintonia, nella quale le parole non sembrano essere necessarie per capirsi e ogni momen-to insieme si fa ancor più magico di quanto non lo sia stato fino ad ora... Non so bene come spiegarti, ma è un qualcosa di veramente intenso, è straor-dinario!

Beh, dopo questa piccola digressione romantica, è proprio giunto il mo-mento di salutarti, la vita chiama! Ti auguro tutto il bene e ti faccio un gran-de in bocca al lupo per il prossimo concerto (visto che non potrò assistere, tra sette giorni esatti mi teletrasporterò fino al Concertgebouw e sarò lì col pensie-ro!). Non vedo l’ora che arrivi Natale per poterti finalmente riabbracciare! Come sai, la Baracca è sempre aperta, ti aspettiamo!

Un grande bacio, Annalise P.S.: Angelo ti ringrazia molto per l’introvabile regalo di compleanno che

gli hai mandato! Fìdati, ha apprezzato molto... See Emily plays è una droga, non riesce a fare a meno di continuare a canticchiarla!

*

Die Scheinwerfer direkt in die Augen. Die Bremsen kreischen laut. Ein

tiefer Stich am Brustkorb. Cammino a fianco di Suzanne. Oggi indossa quel berrettino

verde che le ha cucito la nonna per il compleanno, di cui va tanto orgogliosa. Mi mancano gli abbracci e i cannarìculi della nonna. Che bello, tra poco è Natale e scenderemo a trovarla in Italia per le vacanze, papà non vede davvero l’ora di ritornare in quella ca-

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setta bianca vicino alla spiaggia, le palme, il mare, il gatto Erne-sto... Woran denkst du gerade, Annalise? Na, sing mit uns! Laterne, Laterne, Sonne, Mond und Sterne...

Mostro la mia lanterna gialla alle persone che seguono la sfilata

stando in piedi ai bordi della strada. Facce sconosciute, finalmen-te i miei genitori che mi salutano felici, proseguo con un po’ più di fiducia... brenne auf mein Licht, brenne auf mein Licht, aber nur meine liebe Laterne nicht. Ecco finalmente San Martino sul suo cavallo. La maestra ci fa

cenno di avvicinarci. Mentre gli passo a fianco, il cavaliere si al-lunga verso di me e mi strappa di mano la lanterna. Indignata mi giro per riprenderla. È troppo alta. Faccio un salto, ma non ci ar-rivo. Inizio a gridare, ma nessuno mi sente. Suzanne e gli altri bambini cantando occupano il loro posto sul piccolo palco. Di-sperata, incrocio lo sguardo dell’uomo a cavallo. Mr. Black ricam-bia con un’occhiata beffarda. Illuminato dalla lanterna, vedo il suo sorriso risolversi in un ghigno. Poi la fiamma si spegne. Intorno a me il buio, il silenzio, il vuoto. Luce. Fischio stridulo. Respiro spezzato. Attraverso il palcoscenico e mi siedo al pianoforte. Matilde at-

tacca con le prime battute. La seguo. La platea è ferma come cat-turata da quelle note inquiete ed allo stesso tempo aggressive. Gradualmente i tasti si fanno pesanti, poi pesantissimi, finché la mia forza si fa insufficiente, non esce una sola nota, riprovo con

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tutta la mia forza, ma per quanto prema le mie dita rimangono ferme, cala il silenzio, e il buio, e il vuoto. Una luce improvvisa mi impedisce di vedere la linea bianca

che prosegue lungo la strada, la cintura di sicurezza mi strattona mentre il rumore dei freni si fa assordante, cerco di voltarmi ver-so Gianni, ma sento un dolore profondo al torace... Le campane della chiesa annunciano il rito funebre che si cele-

brerà nel giro di qualche giorno. Do-Sol Do-Sol Mib-Sib Mib-Sib La-Mib. “Marta, non senti come

suona male quel La col Mib?!” Continua a sbagliare, così non ti accorgerai della mia assenza. Supero veloce il tappeto persiano e mi ritrovo dall’altra parte del corridoio, proprio di fronte allo stu-dio di Mauro. Do-Sol Do-Sol Mib-Sib Mib-Sib Lab-Mib Lab-Mib. “Ora è giusto! Vai avanti!” Sospiro, non arriverà nessuno, vedi di sbrigarti, apri quella porta! Do-Sol Do-Sol. Entro nello studio. L’ambiente è scuro, solo un fascio di luce penetra tra le tende pe-santi che coprono la grande vetrata, illuminando il pavimento di marmo e le gambe in ebano intarsiato di un’imponente scrivania. Dietro la scrivania un quadro, le altre pareti occupate da una li-breria in stile antico. Mib-Sib Mib-Sib. Potrebbe essere ovunque, anche non in questa stanza. Lab-Mib Lab-Mib. “Riprova col ritmo giusto, Marta, riprova!” Tra le carte della scrivania. Do-Sol Do-Sol. Attraverso lo studio. Ripiano in vetro. La mia immagine riflessa. Una pila di carte. Le afferro. Mib-Sib Mib-Sib. Inizio a cercare. Lab-Mib La-Mib. Una busta. “Roma, 5 luglio 1970”. “Caro Deme-trio”, firmato “G. F.”, “la lettera che sta per leggere è diversa...”. Trovata!

Do. Ultimo rintocco delle campane. Silenzio totale. In un istan-te il buio, poi il vuoto.

*

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“Tranquillo Gianni, ho contattato l’avvocato Di Giovanni e ha detto di non preoccuparsi: una volta giunti a Roma, avremo qual-cuno di fidato a cui fare riferimento e allora vedrai che tutti i re-sponsabili di questo schifo saranno tenuti a pagare il prezzo delle loro azioni... Godiamoci il viaggio e cerchiamo di non pensarci, domani sarà tutto finito.”

Franco è sempre così rassicurante... “Si-i-i-i-i- Emily pleiiis...” Gianni distoglie gli occhi dal volante e mi lancia un rapido sguardo

d’intesa. Non se ne può proprio più di sentire questo ritornello... “Angelo, ti ringraziamo tutti molto per riuscire ad alleggerire

costantemente i nostri pensieri con questo sottofondo musicale, ma non è che per caso ti è possibile cambiare disco di tanto in tanto?” “Giuro, ragazzi, non lo faccio apposta, è un atto involontario!

Mi sto tramutando in un jukebox vivente, dovreste andare fieri della fortuna che avete!” “Non vorrei deluderti ma un jukebox generalmente cambia le

canzoni, tu assomigli più ad un giradischi rotto!” “Sono soltanto alle prime armi, datemi il tempo di concen-

trarmi e vi stupirò... Fatti mandare dalla maaammaaa!” Sguardi sconcertati. “Ehi ehi ehi, piano! Morandi?” Terribile! Morandi proprio non si può ascoltare! “A questo punto torna da Emily e restaci!” “Sì, magari ne vale pure la pena!” “Comunque voi scherzate, ma io ci sono rimasto male sul se-

rio quando ho scoperto che Barrett aveva lasciato i Pink Floyd... In realtà non so se l’ho ancora digerita del tutto!” “Dai, Angelo, addirittura! Ci son cose ben più gravi, togliti

quella faccia da anima in pena! E poi vorrei puntualizzare che son stati gli altri del gruppo a rompere con lui, non viceversa...”

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“Sì esatto, e in ogni caso hanno fatto bene, lavorare con un pazzo non dev’essere stato proprio tanto piacevole...” “Piano, piano: Barrett non è un pazzo, è un genio!” O semplicemente uno che esagera con l’LSD... “Tempo fa ho letto un’intervista in cui Fields raccontava che

Barrett passava la maggior parte del tempo a letto, contemplando il potenziale infinito che si estendeva davanti a lui senza fare altro poiché una qualsiasi decisione avrebbe annullato quella possibilità infinita. In quel momento si rendeva infinito... Ci pensate?” “È o non è geniale?” “Beh, però, Angelo, se ci pensi, alla fine lui fra tutte quelle

possibilità sta scegliendo di essere uno sdraiato su un letto, forse non ne è consapevole ma non è che non stia scegliendo... Quindi può sognare di essere un gran musicista o un super-eroe o quello che vuoi, ma in realtà sta vivendo al minimo delle sue possibili-tà...” “In pratica assomiglia più ad un morto... Non credi?” “Beh, io non sono ancora morto quindi non ti saprei proprio

dire.” “Hei, ragazzi, basta con questi discorsi, ecco Lo Celso!” “Buon giorno a voi, anarchici della Baracca! Che novità da

quel di Reggio? Pronti per manifestare contro quel bastardo as-sassino infame di Nixon?” “Più pronti che mai! Sali in macchina, Luigi, che non c’è tem-

po da perdere! Ci sono un sacco di cose di cui dobbiamo parlare!” Come volevasi dimostrare, Franco non ha aspettato un solo minuto per

incominciare ad illustrare al povero Luigi tutta la documentazione che ab-biamo raccolto. Arriverà anche alla lettera, non ci voglio pensare, mi mette ansia, vorrei tanto che questo brutto incubo finisse presto, vorrei poter tornare a passeggiare per il lungomare senza aver paura che qualcuno mi segua, vor-rei...

Apro la porta. Entro nello studio. Un raggio di luce filtra dalla vetrata. La scrivania. Non pensarci. Pensa ad altro.

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“... fra il resto, anche alcuni quotidiani in quei giorni parlavano di un attentato, per esempio se cerchi ci dev’essere anche un arti-colo del 25 luglio tratto dall’Unità.”

Pensa ad altro significa “pensa ad altro”! Non “spegni il cervello e ascolta gli altri”! Ok: sono le 19 e 27 del 26 settembre 1970, il sole non sembra essere interessato a calare e questa povera piccola Mini Morris su cui viag-giamo assomiglia ad un forno, il paesaggio scorre rapido fuori dal finestrino e il giallo delle ginestre si fonde col verde del mare, incrociamo un motociclista... “Ecco qui il titolo: ‘Il deragliamento del treno del sole a Gioia

Tauro. I tecnici ferroviari non escludono l’attentato. La riunione dei dirigenti comunisti calabresi presso la Direzione del PCI: re-spingere il tentativo di paralizzare la Regione’.”

Pensa ad altro! Una signora vende arance in un chiosco lungo la strada, classica sosta durante le gite in bicicletta con Matilde. Come mi manca Ma-tilde, speriamo Natale arrivi in fretta... Anzi, tra poco inizierà il suo concer-to! È seduta nel camerino del teatro, riapre le parti, le sfoglia, le richiude, re-spira profondamente, esce sul corridoio in cerca di qualcuno che la distragga, rientra... siamo insieme sul palco del conservatorio per il saggio di fine anno, mi dirigo verso il pianoforte, arrivo alla scrivania di vetro trasparente, Mauro è seduto sul lato opposto, a testa bassa. Lentamente alza lo sguardo verso di me come se cercasse aiuto. Lo guardo negli occhi, vedo un uomo che sta mar-cendo, lo prendo per le spalle e lo scrollo, gli grido: smettila! Smettila! Smetti-la! Lui mi fissa, immobile... Annalise... “Annalise!” “Eh?” “Annalise, scusami! Stavi dormendo? Beh, guarda, questa luna

proprio non te la puoi perdere!” “Mmmh... Ho fatto un sogno davvero strano, Gianni... Co-

munque, sì, bella! Ma è già notte? Dove siamo?” “Abbiamo passato Caserta da un po’, anzi in realtà ormai sa-

remo quasi a Frosinone.” “Bene, manca poco allora, non ce la faccio più a stare seduta!”

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Dietro, dai sedili posteriori, continuano i discorsi seri... Devo ammettere che tutta questa situazione mi inquieta un po’... Prima arriviamo, meglio è. “In pratica, sono tutti d’accordo... Stanno mettendo in atto

una sorta di guerra civile a bassa intensità...” “Non l’avevamo mai definita così, ma in effetti rende esatta-

mente il concetto di ciò che sta avvenendo...” “È veramente incredibile come siano privi d’ogni sorta di

scrupolo! Sacrificano le persone alla loro causa come se nulla fos-se... Ma sì: facciamo esplodere una bomba in una piazza, faccia-mo deragliare un treno, tanto se muore la signora tal dei tali che stava andando a trovare la sorella che non vedeva da mesi, a noi che ce ne importa? A noi che ce ne importa della vita delle perso-ne? A noi che ce ne importa delle persone? A noi ce ne importa solo di mantenere in vita il potere, siamo i suoi servi del cazzo! Noi facciamo ammazzare la gente senza ritegno e ce ne andiamo in giro come se nulla fosse, vendendo subdolissimi sorrisi ai cro-nisti che ci intervistano, entrando in chiesa convinti di essere i migliori cristiani che possano esistere, senza renderci conto che stiamo stravolgendo il senso di tutto quanto, che non siamo altro che un continuo ed odiosissimo incoerente e schifoso parados-so!” “Sul serio, io non capisco perché si ricorra tanto facilmente al-

l’uso della violenza... In fondo, credo che gli uomini, se davvero son uomini, dovrebbero riuscire a guardarsi negli occhi e parla-re...” “Esatto. Beh, un po’ come Angelo durante la manifestazione

pacifista... Cazzo, sembravi Gandhi!” An eye for an eye makes the whole World blind. “Addirittura Gandhi... In ogni caso non sono il solo qui ad es-

sere disposto a soffrire per la verità al punto da farsi picchiare senza abbassarsi a rispondere nello stesso modo.” “In fondo è proprio per fare emergere la verità che stiamo ri-

schiando tutti in continuazione... Se non credessimo che un

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mondo più giusto sia possibile non avremmo fatto questo viag-gio... O no?”

* Porta socchiusa. Voci nell’atrio. Io che mi avvicino... “Il contenuto della lettera parla chiaro, quello che stiamo fa-

cendo ha una finalità ben precisa.” “La situazione che si sta per realizzare farà comodo a tutti, an-

che a lei, Demetrio, si fidi.” L’accento di quell’uomo era davvero insolito... Un accento

neutro, insipido, un non accento. “La mia posizione rimarrà invariata, potete continuare a conta-

re sulla mia collaborazione... vivere circondati da nemici non pia-ce a nessuno...” Le campane della chiesa. I bicordi lenti di Marta. La porta del-

lo studio. La mano sulla maniglia. Il mio respiro. La luce sul pa-vimento in marmo. La scrivania. Passi. Fruscio di carte. Ancora le campane. Una busta. La sequenza di note. Gianni concentrato nella guida. Gli altri che parlano. Quelle

righe che non mi si scollano dalla memoria. “Roma, 5 luglio 1970. Caro Demetrio, la lettera che sta per leggere è diversa da tutte quelle che avrà ricevuto in passato, quindi vi ponga ancora mag-gior attenzione”. Luce improvvisa negli occhi. Un camion? Il fischio dei freni.

Lo schianto. Il buio. Una fitta al torace. Il silenzio. Il vuoto. Luce. Io che rincorro Suzanne tra i prati verdi della Baviera. Buio. Un fischio. Do-Sol Do-Sol, Mib-Sib Mib-Sib, Lab-Mib Lab-Mib, Do. Silenzio. Una fitta. L’abbraccio di Gianni.

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Il vuoto. Luce accecante. Ciccio Franco che si allontana con una ventiquattrore. “La po-

sta in gioco è alta, forze a me e a lei superiori dirigono la partita.” ll profumo dei cannarìculi di nonna Elvira. Buio. Fischio stridulo. Il sindaco Battaglia davanti alla sede del Comitato d’Azione.

“Il nostro unico compito è quello di aderire al gruppo di coloro che più salvaguardano il nostro comune interesse.” Le battute di Angelo. Silenzio. Le discussioni al centro anarchico, il giallo delle ginestre, il mio

respiro che viene a mancare. “... ed eseguire le indicazioni.” Lo sguardo inespressivo di

Mauro, il sorriso di Matilde, la voce sicura di Ciccio Franco, l’accento neutro di Mr. Black. “La situazione attuale non è più di-sposta a tollerare la presenza di nemici interni.” Di nuovo quella luce, ancora quel fischio assordante. Il saluto di mamma e papà, gli occhi di Gianni. Il vuoto. E poi io che mi dissolvo.

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PAOLO BISESTI IL PASSO DEL GAMBERO

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Paolo Bisesti

IL PASSO DEL GAMBERO Roma, settembre 1970 Il primo squillo lo svegliò. Al terzo fu in grado di rispondere,

mascherando abilmente la sorpresa. “Pronto.” “Buonasera, spero di non averla disturbata chiamando a

quest’ora, mi rendo conto che non è... beh, diciamo molto orto-dosso...” Lo riconobbe subito. C’era qualcosa in quella voce, l’accento,

forse il tono, che la rendeva unica. Non aveva mai visto il suo in-terlocutore. Per Massimo era una voce, punto e basta. Mister X, lo chiamava. Non un nome, non un volto. Mai un errore, un’emozione; freddo come il ghiaccio. Eppure sapeva molto di lui. Doveva lavorare per i servizi. Ufficio affari riservati, questo era chiaro. Un ex fascista dell’ultima ora, riciclatosi in nome della sicurezza dello Stato? Non ne era sicuro, ma era plausibile. Non sarebbe stato il primo, né l’ultimo. La cosa non lo riguardava, in ogni caso. Non si era mai interessato più di tanto ai risvolti politi-ci. Aveva una sua idea, ma questa era un’altra storia. Certo è che non lo aveva mai chiamato a casa, però, e mai a

quell’ora. Non era un bel segnale. “Buonasera... no, si figuri, solo non sapevo che...” “Se mi vuole chiedere come faccio ad avere il suo numero, ri-

sparmi il fiato, non glielo dirò” “E il motivo di questa chiamata posso saperlo?” “Ho un lavoro per lei.” “Quando?”

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“Questa sera.” “È tardi.” “Si tratta di una cosa veloce, alle porte di Roma. In un paio di

ore avrà finito tutto.” “Dovrò avvertire il mio ufficio.” “Non ci pensi.” “Ma con tutto il casino che c’e in città per l’arrivo di Nixon...” “Sicurezza Nazionale.” Due parole d’ordine. Come una scossa. Massimo si rassegnò. “E adesso prenda carta e penna. Avrà bisogno di appunti.

Non ho molto tempo, e lei deve partire subito.” “Mi dica.” Guidare di notte gli era sempre piaciuto. Non c’era voluto

molto per prepararsi, un quarto d’ora dopo quella telefonata era già per strada. Che fantastica città, Roma. Non ci abitava da mol-to tempo, e francamente durante il giorno non ne aveva apprez-zato la caotica vitalità. Ma la notte, beh, la città cambiava forma, gli pareva di poterla dominare. Eppure, quella sera, a chiunque si fosse messo sulle sue strade non sarebbe sfuggita la presenza di molte più volanti di Polizia rispetto al solito. Effetto Nixon. Il giorno dopo a Roma era previsto l’arrivo del Presidente degli Stati Uniti. Ci si aspettava manifestazioni di protesta, la guerra del Vietnam, ad esempio. Comunisti, pacifisti, anarchici. Anarchici. Negli ultimi mesi, pensò, quella parola l’aveva udita spesso. Massimo aveva trentasette anni. Dopo il servizio militare nei

carabinieri, aveva iniziato a lavorare al Ministero della Difesa, e là aveva conosciuto molte persone, quelli che contano, come si dice in questi casi. Il trasferimento al Ministero dell’Interno era stato rapido. Carriera particolare, la sua. Dedicata a ciò che si potrebbe chiamare “recupero di informazioni”, s’era trasformata spesso in “risoluzione di problemi particolari”. Servizio rapido ed efficace. In due parole: Sicurezza Nazionale. Sempre le stesse.

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A Roma ci era arrivato dopo l’ultimo incarico, a Reggio Cala-bria a inizio luglio. Giorni difficili, quelli. Una città messa a ferro e fuoco, guerriglia nelle strade, morti. Doveva fermarcisi per qual-che giorno, incontrare degli imprenditori locali. Sostanzialmente faceva da intermediario. Dare rassicurazioni, fornire un tramite per conto di Mister X tra Roma e la Calabria. Un affare di soldi, tanti soldi, soldi utili a chi in quei giorni si rivoltava contro lo Sta-to. Non capiva il perché del suo lavoro, ma obbediva. Un’azione contorta, assurda forse. Sicurezza Nazionale. Sempre lì si tornava. Pochi giorni che erano diventati settimane, fino a quel 22 luglio, e a quel treno disgraziatamente deragliato a Gioia Tauro. Pagina chiusa? Forse no. Gli ci vollero quaranta minuti per arrivare sul posto. Neanche

sessanta chilometri, un tratto di strada in salita dell’A2 tra Feren-tino e Frosinone. La scena: quella di un tragico incidente d’auto. “Tamponamento.” Il Comandante della Polizia Stradale non aveva dubbi. “Non so chi sia lei e nemmeno mi interessa.”, disse il Coman-

dante. “Mi hanno ordinato di darle quello che chiede. Non pen-savo fosse così veloce. Facciamo presto.” L’uomo non volle nemmeno vedere il tesserino da carabiniere

che Massimo aveva sempre con sé. Si mosse verso i resti della piccola autovettura, o quello che ne rimaneva. “Tre morti, due feriti molto gravi, tutti passeggeri della Mini.” “Signore, ci hanno chiamato dal Comando”, intervenne un

giovane agente. “È in arrivo il magistrato per l’indagine, sarà qui tra poco.” “Bene. Puoi andare adesso.” L’agente salutò e se ne andò. L’attenzione di Massimo era stata catturata dall’autotreno tar-

gato SA135371. Fermo, sulla normale corsia di marcia, le luci funzionanti tranne il gruppo del rimorchio, e i danni localizzati su una fiancata. Strano per un tamponamento.

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“Strano incidente questo”, disse. “Identificate le vittime?” “Tre giovani di Reggio Calabria”, rispose il Comandante.

“Credo si tratti di anarchici, erano diretti a Roma. Ne sapremo di più tra qualche ora.” Reggio Calabria e anarchici. Massimo s’irrigidì di colpo. “Mi interessa quello che avete trovato nell’auto. Facciamo in

fretta.” “E tutto là”, gli disse il Comandante indicando poco lontano,

poi aggiunse: “Senta, io non sono abituato a fare domande... Gli ordini sono ordini e ci tengo alla mia carriera. I suoi amici sono stati molto convincenti, e comunque sempre lo Stato è...” Massimo non lo ascoltava più. Ci mise un attimo a trovare

quello che cercava. Appunti, documenti, un paio di agende. Uno sguardo veloce, un paio di minuti al massimo. Mise il tutto in un’ampia borsa di pelle, la chiuse e fece per andarsene. Ma prima aveva da fare un’ultima domanda. “Senta, un’ultima cosa... Di chi è il tir?” “Dei Fratelli Aniello, alla guida c’era lo stesso Alfonso Aniel-

lo.” La risposta bloccò Massimo. Aniello, anche questo un nome

che ritornava. Ricordo dell’infuocato luglio appena trascorso. Un sinistro ricordo. Il viaggio di ritorno fu ancora più breve. Non c’era molto traf-

fico e la voglia di arrivare a casa il prima possibile fece il resto. Sapeva di non avere molto tempo. Mister X avrebbe richiamato a breve. Gli avrebbe indicato un luogo di incontro, forse un uomo come intermediario. La prassi era quella, come in un romanzo di Le Carrè. Ma qua del romanzo c’era poco. Nessun eroe senza macchia e paura, nessun cattivo da eliminare. Qua i contorni si confondevano, i confini sparivano. Aveva poco tempo. Avrebbe preso qualche appunto, date, riferimenti, persone. Non poteva fare di più. Recupero di informazioni: il suo mestiere.

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Non capiva perché si preoccupasse tanto. Di cose strane ne aveva viste già abbastanza e questa in fondo poteva essere una delle tante. Tre morti, certo. Ma dopo tutto era un incidente. Strano, però, come incidente. Il tir, i danni, le luci, la ditta pro-prietaria. Quei nomi che ritornavano, settimane dopo. Sei morti ieri, tre oggi. In mezzo tanta, troppa gente. Arrivato a casa, si precipitò nello studio. Aprì la borsa e tirò

fuori tutto. Incominciò a sfogliare le carte, le agende. Leggendoli, sbarrò più volte gli occhi. Infine sprofondò nell’elegante poltrona dello studio. Quei ragazzi avevano passato il limite. Non avavano capito che non si trattava più della periferia di Reggio, di beghe locali tra rossi e neri. Anarchici del cazzo, immischiati in qualcosa più grande di loro. Il telefono suonò improvvisamente. Era preparato, non si

scompose. “Pronto.” “È stato veloce. Credo che ora lei abbia qualcosa per me.” “Può darsi.” “Non faccia il furbo, non è ora.” “Neanche per fare conversazione, se è per quello: facciamo in

fretta.” “Sta per ricevere una visita, consegni tutto a lui.” “C’è da fidarsi?” “Lei non si deve preoccupare.” “Se ha così fretta da mandarmi fuori Roma nel cuore della

notte, un po’ di preoccupazione...” “Sono solo quattro carte, materiale di propaganda comunista,

bugiardi di merda! Se non glielo impediremo distruggeranno il Paese!”, lo interruppe improvvisamente Mister X. “Non devo di certo spiegarlo a lei!” Poi riprese il controllo. “Senta, lei ha reso un gran servizio allo Stato questa notte. Ce ne ricorderemo. Con-segni il tutto e vada a dormire. Non è più affar suo.”

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Non lo aveva mai sentito così. Per un attimo, un attimo solo, Mister X aveva perso il controllo. Anche il ghiaccio poteva sciogliersi, allora, in quella calda, cal-

dissima notte d’autunno romano. Roma, febbraio 1993 Il ristorante gli piaceva. Lo aveva scelto con cura: appena fuori

Roma, un ampio parcheggio, elegante, clientela abituale. Nessuna domanda. Ci andava spesso, quando il pranzo era una scusa, e le parole il vero fine. Scendendo dalla macchina si accese una sigaretta. Era la prima,

quel giorno. Un vizio, il suo, che coltivava da tempo, ma che non l’aveva mai afferrato più di tanto. Cinque, sei al massimo, comun-que mai più di mezzo pacchetto al giorno. Incostante in quello, come in tante cose della vita. Entrò a passo svelto. Il cameriere sulla porta, con un cordiale

sorriso di benvenuto stampato in faccia, lo accolse servile come sempre. Sfigato. Neanche stavolta ti guadagnerai qualche lira di mancia, pensò Massimo mentre meccanicamente si levava il cap-potto per passaglierlo. “Bentornato signore. Le abbiamo riservato il tavolo che ci a-

veva chiesto. Mi permetta di accompagnarla... aspetti che l’aiuto a sedersi... il suo ospite non è ancora...” “Grazie, gentilissimo, mi porti un Chivas con ghiaccio e soda

intanto, poi l’avverto quando potremo ordinare”, lo interruppe bruscamente Massimo spegnendo la sua sigaretta nel posacenere sopra il tavolo. Il cameriere si allontanò velocemente, lasciando Massimo da

solo. Chivas prima di pranzo, che idea. Sigaretta e whisky. Bella accoppiata, degna di un libro di James Bond. Sorrise. Quel pen-siero lo divertiva. Era stato, il suo, un vero e proprio colpo di

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fulmine per il protagonista dei romanzi di Fleming. Un duro dal carattere difficile, dai modi spicci e dal fascino incredibile. E con chiari problemi psicologici, avrebbe obiettato qualcuno. Un mi-scuglio di violenza, sesso e tecnologia. Eppure così romantico, nella cieca fedeltà all’idea di uno Stato da difendere a tutti i costi e contro tutti. Se poi ci scappa il morto, o i morti, beh, qualche in-toppo c’è sempre. Ma anche per James Bond c’era un punto di non ritorno. Un punto di rottura. E Massimo quel punto lo aveva raggiunto. Non troppo lontano dal suo tavolo, un televisore acceso sul

telegiornale nazionale lo riportò improvvisamente alla realtà. Guido Salvini, giudice istruttore di Milano, parlava tenendo gli occhiali in mano e indicando con la punta della stanghetta. “Lavorando sull’estrema destra eversiva sono comparsi testimoni che han-

no alzato un primo velo su quello che era stato inizialmente identificato come un errore umano dei macchinisti, e cioè il deragliamento del treno alla stazio-ne di Gioia del Tauro. Deragliamento però non per errore dei macchinisti, ma perché fu messo dell’esplosivo sui binari, e i testimoni ci hanno raccontato che questo esplosivo era stato collocato da gruppi vicini a chi stava in quel momento fomentando la rivolta di Reggio Calabria.” La notizia era vecchia ormai di qualche giorno. Massimo ne

era già a conoscenza. Per lui era stato come esser travolto da un fiume in piena, un fiume fatto di ricordi che lentamente ritorna-vano a galla. Da due giorni non riusciva praticamente a dormire. Le parole del giudice Salvini avevano sollevato un tappo, e, come dal famoso vaso di Pandora, anni di ricordi, luoghi, fatti, erano saltati fuori. Punto di non ritorno. E Massimo ci si trovava di fronte. Era stato un lungo percorso che la turbolenta storia degli ulti-

mi anni aveva contribuito ad accelerare. L’eco delle bombe di Ca-paci e via D’Amelio aveva risvegliato in lui mostri che credeva sopiti, o che semplicemente voleva ignorare. E dire che gli anni Settanta e Ottanta non lo avevano scalfito per niente. Anni di

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strategia della tensione, bombe sui treni e nelle piazze. Anni di omicidi e sequestri. Dalla Chiesa e Moro. Anni di scandali, come la P2. Massimo era sopravissuto a tutto, tenendosi alla larga da amicizie tentacolari e clientelari che avevano travolto molti nel suo ambiente. Era stato bravo, in questo. Istinto di sopravivenza, il suo. Eppure non si era nascosto: aveva visto cose, non sempre limpide, incontrato persone, non sempre pulite. Aveva fatto il suo lavoro, quello di difendere lo Stato sempre e comunque. Difen-derlo dai nemici, difenderlo da se stesso se necessario. Non erano tempi buoni per fare domande, quelli. Anni difficili. Contavano i fatti. I fatti, già. Era un fatto che lo Stato fosse sotto attacco, ora. Era un fatto che quello stesso Stato fosse malato. Era un fatto che il mondo nel quale era cresciuto, nel quale aveva creduto, a suo modo combattuto, ora non ci fosse più. Un relitto della guer-ra fredda. E ora la storia presentava il conto. La notizia relativa alle indagini del giudice Salvini aveva ripor-

tato a galla i ricordi. L’incidente di Gioia Tauro, la sua presenza in Calabria in quei giorni per ordine di servizio, il fatto che fosse sta-to richiamato a Roma proprio il giorno dopo la strage. A Massi-mo era sembrato di esser stato catapultato indietro di vent’anni. L’arrivo di una affascinante cameriera lo riportò alla realtà. Un

sorriso, gentile, un rapido e impeccabile movimento. Un servizio perfetto. Massimo, guardandola allontanarsi verso la cucina, rim-pianse di non avere più vent’anni. La sua attenzione stava per essere attirata nuovamente dalle

notizie del telegiornale, quando davanti a lui, quasi come si fosse materializzata dal nulla, apparve una figura elegante dentro un impeccabile cappotto nero. “Buongiorno Direttore. La prego di scusarmi per il ritardo. Ho

impiegato un po’ per trovare il posto che mi aveva indicato.” “Buongiorno. Stia tranquillo, ero giusto un po’ in anticipo e ne

ho approfittato per un drink”, sorrise educatamente Massimo in-

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dicando all’uomo dove sedersi. “Inutile dirle che la ringrazio per esser venuto.” L’interlocutore annuì accomodandosi. Aveva detto di essere

un poliziotto, ma non sembrava un poliziotto. I modi, cortesi e raffinati, e l’eleganza e la cura nel vestire lo facevano sembrare piuttosto il dirigente di una grande azienda. Massimo aveva deci-so comunque di accettare quella mezza bugia. Non era affar suo, in fondo. L’appuntamento era stato fissato solo due giorni prima. La no-

tizia sulle indagini del giudice Salvini lo aveva appena raggiunto, quando la segretaria del giudice stesso aveva telefonato a Massi-mo informandolo che il dottor Salvini voleva “avere uno scambio di vedute relativo ai recenti sviluppi di un’indagine di cui lei avrà sicuramente sentito parlare dagli organi di stampa”. Quella tele-fonata aveva contribuito a trasformare quell’odiosa sensazione di déjà vù che lo tormentava da qualche giorno in concreta realtà. Fantasmi dal passato che non volevano proprio lasciarlo in pace. La segretaria del giudice gli aveva comunicato che presto sa-

rebbe stato ricontattato per fissare un incontro, e nemmeno ven-tiquattro ore dopo aveva ricevuto una seconda telefonata, di un uomo che si presentava come “un poliziotto impegnato nelle in-dagini condotte dal giudice Salvini”. Chiedeva di poter incontrare Massimo per conto del dottore. Massimo aveva acconsentito. Vo-leva capire di più, e avrebbe potuto, forse, togliersi qualche peso dallo stomaco. “Si figuri, sono io che debbo ringraziarla, avrei voluto fissare

un incontro ma la sua proposta del pranzo mi è sembrata un’idea migliore. Qui potremo parlare tranquillamente.” La cameriera li interruppe per raccogliere le ordinazioni, elar-

gendo una discreta quantità di sorrisi. Poi si dileguò nel retro del locale. “Credo fossimo rimasti al punto in cui lei mi diceva che il giu-

dice Salvini vorrebbe sapere qualcosa da me”, iniziò Massimo. Gli

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piaceva condurre il gioco, e sapeva benissimo che se voleva essere rispettato dal suo interlocutore avrebbe dovuto esser aggressivo. “Vedo che vuole andare subito al sodo, Direttore.

L’accontento.” Massimo annui silenziosamente. “In merito alle indagini condotte dal giudice Salvini, recente-

mente si è aperto un nuovo filone. Ma di questo sarà informa-to...”, disse l’uomo, che Massimo si ritrovò, chissà perché, a chiamare mentalmente Mister Y. “Esatto. Mi dica qualcosa che ancora non so...”, rispose. Il

gioco era ancora nelle sue mani. Mister Y sorrise, si sistemò sulla sedia, bevve un sorso d’acqua

e lasciò che la cameriera servisse il pranzo. “Forse non ha capito che sto facendo sul serio”, gli disse. Lo sguardo sicuro e deciso colpì Massimo. “Le racconto una storia”, proseguì Mister Y. “C’e un giovane

avvocato che, dopo il servizio militare nei carabinieri, diventa un bravo funzionario dello Stato. Un uomo sveglio, discreto. Beh, questo giovane ha il brutto vizio di trovarsi sempre in posti poco raccomandabili, con persone poco raccomandabili. E il fatto par-ticolare è che succedono sempre cose strane nei luoghi dove il nostro è in missione. Un treno deraglia, ad esempio, oppure una macchina in sorpasso centra incredibilmente un tir fermo. Mora-le, tanti morti.” Un pugno. Massimo si sentiva come fosse stato centrato da un

cazzotto in pieno stomaco. Come faceva a sapere tutto questo sul suo conto? “Mettiamo il caso che il nostro uomo avesse visto qualcosa di

strano, di poco chiaro. Magari ad anni di distanza potrebbe ricor-darsi qualcosa, e qualcuno potrebbe chiedergli di parlare...” Mas-simo cercò di riflettere. Il gioco non lo conduceva più lui. Non era più così lucido. Quello non era un investigatore normale. Sa-

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peva troppe cose su di lui, sulle sue missioni. Il suo sguardo seve-ro lo disorientava. “E cosa dovrebbe raccontare il nostro fedele difensore delle i-

stituzioni?”, domandò ostentando una sicurezza che però stava perdendo. “Ad esempio di quella notte di fine settembre di oltre

vent’anni fa. Della sua presenza, così poco spiegabile vista l’ora e i suoi abituali incarichi, sul luogo di quello strano incidente stradale alle porte di Roma.” Massimo annuì. Non ci voleva un genio per capire che quello

era un esplicito invito a collaborare. Avrebbe dovuto dire quello che sapeva, inteferendo con meccanismi che neanche lui aveva mai capito fino in fondo. Nella testa le parole dell’intervista al giudice Salvini, negli occhi lo sguardo sicuro del suo interlocutore. Il punto di non ritorno. “Potrebbe parlare della coincidenza riguardante la proprietà di

uno dei mezzi coinvolti. Strana ditta, quella di proprietà dei fratel-li Aniello. Un trasporto qua, un tamponamento là, e in mezzo una presenza praticamente costante a Reggio, in Calabria, nei giorni della rivolta del 1970.”, disse il signor Y estraendo dalla valigetta una relazione riservata, con un paragrafo evidenziato: “Bisogna respingere assolutamente l’idea che questa serie di stragi fosse

opera di quattro fanatici o più esaltati degli altri. In realtà chi ha material-mente operato era sostenuto e aiutato da strutture molto importanti all’interno dei servizi italiani e stranieri.” “Potrebbe adattarsi al nostro caso, non crede?” Secondo pugno. Massimo andò al tappeto. Documenti altamente riservati. Chi era costui? Come faceva ad

avere accesso a certe informazioni? No, non poteva essere un semplice poliziotto. Relazioni riservate, informazioni dettagliate, modi sicuri e decisi. Se non avesse saputo con sicurezza che il suo Mister X era stato pensionato in qualche paese del Sud America

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in seguito alle indagini sulla P2, Massimo avrebbe pensato di tro-varcisi di fronte in quell’istante. “Vede, Direttore, non vogliamo accusare nessuno. Non si par-

la di definire possibili reati. Facciamo solo delle ipotesi, ipotesi che andranno abbondantemente discusse...” Massimo si ritrovò a quel punto a pensare a una frase di He-

mingway: “L’uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può es-sere distrutto, ma non può essere sconfitto”. Trovò che ci fosse qualcosa di immorale nell’aspettare fossero gli altri a prendere le decisioni che spettavano a lui. Quell’uomo gli stava presentando il conto. In quel paragrafo evidenziato c’era la condanna ad un mo-do di operare, che da tempo aveva perso ogni legame con il co-mune senso di giustizia. In quella ostentata sicurezza, la sensazio-ne che il sistema avrebbe trovato il modo di resistere, nonostante tutto e tutti. Massimo poteva ancora scegliere. Qualunque fosse stato il prezzo, c’era una sola cosa da fare. Estrasse una penna e scrisse un indirizzo e una serie di numeri

sul bordo di quei fogli. “Troverà qui le sue risposte. Ne sono sicuro. Per quanto ri-

guarda il resto, ne parlerò solo con il giudice, se lo riterrà oppor-tuno. Il pranzo è pagato. Ha vinto lei, se lo goda”, concluse Mas-simo alzandosi velocemente dalla sedia. Senza fare in tempo a leggere lo stupore negli occhi del suo in-

terlocutore, si diresse velocemente all’uscita. Prese il cappotto e si catapultò fuori. Non arrivò alla macchina. Appoggiato ad uno dei tanti alberi del parcheggio, vomitò. Qualche giorno dopo, quel senso di nausea non si era ancora

placato. Fino a che giunse, di sera, nel suo studio, la telefonata che aspettava. Uno, due tre squilli. Era preparato, rispose. “Pronto.” “Buonasera Direttore. Credo che lei sappia benissimo chi so-

no, e immagino si aspettasse questa telefonata...”

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“Sì... certo.” Quella voce l’aveva riconosciuta immediatamente. Strana coin-

cidenza, questa: due voci, nessun nome, vent’anni in mezzo. Ma almeno stavolta c’era un volto. “Non la voglio disturbare oltre, Direttore, volevo ringraziarla,

anche a nome del giudice Salvini, per la preziosa collaborazione, ma per il momento non si farà nulla.” “Come non si farà nulla? Forse non ha capito l’importanza

dell’informazione che le ho dato. Forse è il caso che io parli con il giudice direttamente.” “Direttore, forse è lei che non ha capito. Il dottor Salvini la

ringrazia ma per il momento gli sviluppi dell’indagine ci impon-gono di dare spazio ad un altro filone. Eseguo gli ordini anche io come lei. La ringraziamo per la collaborazione, ma adesso la prio-rità è un’altra. Si tranquillizzi, non ha niente di cui temere.” “Ma...” “Buonasera Direttore. Grazie per il tempo che mi ha dedica-

to.” L’improvviso silenzio interruppe la conversazione. Immobile, lo sguardo perso. La terribile sensazione che qual-

cosa non tornasse. Massimo si alzò stancamente dalla comoda poltrona, sistemò distrattamente il vecchio telefono da scrivania. Spense le luci e uscì. Un vecchio relitto. Una reliquia di anni lon-tani, troppo, per voler esser ricordati. Aveva perso, quello era il punto. Dall’altra parte della linea, invece, un uomo sorrideva compia-

ciuto. Comodamente seduto nell’elegante poltrona, davanti a lui un foglio bianco e un solo appunto scritto. Un indirizzo, via Ap-pia, Roma. Accanto, alcuni vecchi fascicoli chiusi, ed uno aperto, con documenti ingialliti nel tempo, fogli scritti a macchina e un paio di agende impolverate. Dietro, sul mobile, alcune foto, vec-chi ricordi, foto di gruppo in un’elegante villetta toscana: “Villa Wanda”. Accanto, ricordi ancora più antichi. Decima Flottiglia

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Mas. Istantanee dimenticate di nostalgici camerati in posa. Sulla scrivania quel solo appunto: “Incidente stradale A2. Roma, 26.09.1970. Materiale riservato. Da archiviare”. Pagine tinte di giallo, che improvvisamente diventavano nere. Roma, giugno 1996 Erano passati tre anni da quei giorni di febbraio, e per Massi-

mo tutto era cambiato. Aveva lasciato il servizio da circa un anno. Pensione anticipata. Avrebbe avuto il tempo per coltivare qualche hobby, trovare un passatempo. No, non erano cose per lui. A-vrebbe voluto concentrarsi finalmente sui suoi figli, dedicar loro quel tempo che per anni aveva sistematicamente negato. Aveva giurato che avrebbe fatto di tutto per essere un buon padre quan-do erano nati. L’aveva voluto fin dal primo momento, e per molti anni, in fondo, ci aveva creduto. Un desiderio umano in un mon-do, il suo, che di umano aveva sempre meno. Non ci era riuscito. E ora che era lui ad aver bisogno di loro, loro non avevano più bisogno di lui. Non aveva più niente da perdere. Da qualche giorno, una notizia lo tormentava. Il professor

Giannuli, un consulente della Commissione stragi e del giudice Salvini, aveva scoperto, nel corso di lunghe ricerche, un archivio nascosto. In un deposito della via Appia erano venuti alla luce migliaia di fascicoli del Ministero degli Interni, alcuni dei quali non protocollati e mai mostrati ai giudici interessati. Massimo, appresa la notizia, aveva immediatamente deciso di fare quello che avrebbe dovuto fare già tre anni prima. Seduto nella sua vecchia poltrona, in quell’elegante studio che

per decenni era stato il suo ufficio privato, Massimo telefonò al giudice Salvini. L’argomento era uno solo. L’incidente alle porte di Roma. I cinque giovani anarchici morti. Il caso archiviato come

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semplice incidente stradale. Documenti trafugati, pagine di storia nascoste, un’indagine depistata. “No, mi scusi”, gli rispose il giudice, “ma proprio non ricordo

di averla fatta contattare, tre anni fa.” Massimo restò di sasso: come poteva non ricordarsi? “In ogni modo”, proseguì il giudice, “quello che mi dice è di

sicuro interesse, ma le indagini al riguardo si sono già concluse.” Massimo ebbe allora un moto di stizza: “Ma è importante! Controlli nell’elenco dei fascicoli rinvenuti

in via Appia, ne troverà sicuramente uno intestato all’incidente di cui le ho parlato.” “Aspetti che controllo nell’archivio del computer... Sì, mi risul-

ta qualcosa...” “Se lo faccia portare, troverà risposte utili alle sue indagini.” “Se la cosa fosse vera, dovrò parlare di nuovo con lei. Le fac-

cio sapere qualcosa nel giro di un’ora.” Massimo riattaccò e si accese una sigaretta. La prima dopo

molto tempo. Le mani leggermente tremanti. L’uomo di ghiaccio era un ricordo. Trascorsero sessanta interminabili minuti. Altre due sigarette.

Una dietro l’altra. Poi, finalmente, lo squillo del telefono. La ma-no subito pronta a sollevare la cornetta. Salvini. “Vede, il fascicolo di cui parlavamo in effetti esiste, ma...” “Legga con attenzione tutto quello che c’è dentro!”, lo inter-

ruppe bruscamente Massimo. “È importante!” “Non c’è niente. Il fascicolo che è stato trovato in via Appia è

vuoto. Se c’era qualcosa, qualcuno in questi anni ha portato via tutto.” Il televisore trasmetteva le immagini delle vacanze degli italia-

ni. Gli Europei di calcio, il sole, il mare. Spiagge affollate e le mi-gliori hit del momento.

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Non c’era più tempo per gli scandali. In una giornata di mezza estate, si perse anche il lieto fine.

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APPENDICE STORICA Fatti che hanno liberamente ispirato la narrazione1

Il 26 settembre 1970 cinque giovani di vent’anni si schiantano con-

tro un camion sull’autostrada A2, tra Ferentino e Frosinone. Muoiono tutti e cinque. Erano anarchici, venivano da Reggio Calabria ed erano diretti a Roma. Sembra un incidente, ma solo parecchio tempo dopo si capirà che non lo fu.

La loro morte va collegata ai cosiddetti “fatti di Reggio”, iniziati un paio di mesi prima, nel luglio 1970, e al deragliamento a Gioia Tauro del “treno del sole”, il direttissimo Palermo-Torino, avvenuto il 22 lu-glio. Su tali fatti i cinque anarchici avevano indagato per due mesi. E oggi si ritiene che fu a causa di tali indagini e di quanto avevano scoper-to che i cinque furono uccisi.

I fatti di Reggio e il deragliamento del “treno del sole”. Nel

1970 viene istituita la Regione Calabria. Si pone il problema di dove col-locare il capoluogo. A contendersi l’assegnazione ci sono Reggio Cala-bria, che intende far valere il proprio primato amministrativo dal punto di vista storico, e Catanzaro, che si ritrova meglio “rappresentata” a Roma. Il 7 giugno si tengono le amministrative, e il 1 luglio il neo-eletto Consiglio Regionale viene convocato a Catanzaro. Il 5 luglio il sindaco democristiano di Reggio Calabria, Pietro Battaglia, invita la popolazione reggina a “tenersi pronta a sostenere con forza il diritto di Reggio alla guida della Regione”. La posizione del sindaco Battaglia è sostenuta con decisione anche dal Movimento Sociale Italiano, che a Reggio è rappre-sentato dal consigliere comunale Fortunato Aloi e dal sindacalista della CISNAL Ciccio Franco. Il 13 luglio compaiono le prime barricate in 1 Tutte le informazioni contenute in questa appendice storica sono tratte da “Wikipedia – L’enciclopedia libera” (www.wikipedia.it), alle voci “Fatti di Reggio”, “Strage di Gioia Tauro” e “Anarchici della Baracca”, consultate nel gennaio 2012. A sua volta, Wikipedia indica come sue principali fonti bibliografiche: Fabio Cuzzola, Cinque Anarchici del sud. Una storia negata, Città del sole edizioni, 2001; Carlo Lucarelli, Misteri d'Italia. I casi di Blu notte, Torino, Einaudi, 2002; Mario Guarino, Poteri segreti e criminalità, Bari, Edizioni De-dalo, 2004; Arcangelo Badolati, 'Ndrangheta eversiva, Cosenza, Klipper Edizioni, 2007.

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città. Il 14 si registrano i primi scontri tra i manifestanti e la Polizia, su-bito cruenti, nei quali perisce il 15 luglio il quarantacinquenne Bruno Labate.

In questo disordinato e violento contesto, il 22 luglio 1970 a Gioia Tauro (provincia di Reggio Calabria) deraglia il “treno del sole”, il diret-tissimo Palermo-Torino: il bilancio è di 6 morti e 66 feriti. Si parla subi-to di un guasto meccanico o di un errore umano. Le indagini prelimina-ri svolte dal commissariato di Pubblica Sicurezza della direzione com-partimentale delle Ferrovie dello Stato di Reggio Calabria stabiliscono in un rapporto del 28 agosto che il fatto è dovuto a questioni tecniche, e considerano anche la possibilità di responsabilità colpose per il perso-nale in servizio allo scalo cittadino. Il rapporto esclude totalmente l’uso di esplosivi.

Nel frattempo, col clima reso ancor più rovente dal tragico dera-gliamento, a Reggio Calabria prosegue la rivolta. Proprio il 22 luglio na-sce il “Comitato d’Azione per Reggio Capoluogo”, che sarà il vero mo-tore della sommossa. Guidato da Ciccio Franco (inventore per l’occasione dello slogan “Boia chi molla!”), il Comitato d’Azione il 30 luglio porta in piazza seimila persone: oltre a Franco, parlano Aloi e l’industriale del caffè Demetrio Mauro.

Scioperi e azioni di guerriglia da parte dei manifestanti proseguono per tutta l’estate. Il 17 settembre si registra la seconda vittima: il quaran-tacinquenne Angelo Campanella muore a seguito di un’azione della Po-lizia contro i rivoltosi. Lo stesso giorno Franco viene arrestato con l’accusa di istigazione a delinquere e apologia di reato. Il giorno seguen-te, durante un assalto alla questura da parte dei manifestanti, muore il poliziotto quarantasettenne Vincenzo Curigliano.

Gli “anarchici della Baracca”. “Baracca” è il nomignolo assegnato

a una villetta liberty costruita nei pressi di Reggio Calabria come allog-gio d’emergenza dopo il terremoto del 1908, diventata negli anni Ses-santa centro d’aggregazione per gli anarchici e gli “alternativi” reggini. Lì sono soliti ritrovarsi, all’epoca dei “fatti di Reggio”, quattro giovani, età media vent’anni, anarchici: Gianni Aricò e la moglie tedesca Annali-se Borth, Angelo Casile e Franco Scordo. I quali decidono, dopo il de-ragliamento del “treno del sole”, di indagare sulle vere ragioni nascoste

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dietro il tragico evento e, più in generale, dietro la rivolta di Reggio gui-data dal Comitato d’Azione di Ciccio Franco.

Per settimane raccolgono abbondante documentazione, che li porta a ipotizzare l’infiltrazione nella rivolta di Reggio di neofascisti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale con l’obiettivo di strumentalizzare la piazza a fini eversivi, e che il deragliamento del “treno del sole” sia stato causato da una carica esplosiva piazzata da neofascisti in collabo-razione con la ‘Ndrangheta, per alimentare il disordine, nel quadro della cosiddetta “strategia della tensione” avviata in Italia dalla bomba esplo-sa a Milano, a piazza Fontana, l’anno prima.

Quando giudicano di aver raccolto abbastanza materiale, gli anarchi-ci della Baracca decidono di recarsi a Roma per consegnare la docu-mentazione alla redazione di “Umanità Nova” e incontrare l’avvocato Di Giovanni, che aveva collaborato alla contro-inchiesta sulla strage di piazza Fontana. Decidono di partire da Reggio il 26 settembre, visto che il giorno seguente intendono approfittare dell’occasione per pren-dere parte alle manifestazioni di protesta contro il Presidente statuni-tense Richard Nixon, in visita in Italia.

Ricorda oggi Tonino Perna, docente universitario, cugino più picco-lo di uno degli anarchici della Baracca, Gianni Aricò: “Ho sempre di fronte l’immagine di mio cugino prima di partire, scuro in viso, vera-mente terrorizzato. Credo che un paio di giorni prima di partire per Roma avessero capito di aver toccato un nervo vitale. Avevano paura.”

A Roma Gianni e gli altri non giungeranno mai: trovano la morte tra Ferentino e Frosinone, sull’autostrada A2, dove la loro Mini Morris, su cui viaggia anche l’anarchico cosentino Luigi Lo Celso, si schianta con-tro un camion. Luigi, Angelo e Franco muoiono sul colpo, Gianni ap-pena giunto in ospedale. Annalise lotterà per altre tre settimane, per ce-dere definitivamente alla morte dopo 21 giorni di coma.

L’inchiesta della Polizia Stradale stabilisce un probabile errore del guidatore della Mini che avrebbe portato l’auto a schiantarsi sul retro del camion fermo in corsia d’emergenza, con le luci spente. Il 28 gen-naio del 1971 il procuratore generale di Roma restituisce il procedimen-to d’indagine alla procura di Frosinone la quale, con decreto del giudice istruttore, archivia il caso come incidente stradale.

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La verità negata. Sono però tante, troppe le “stranezze” attorno al-la morte dei cinque giovani, per poterla considerare un semplice “inci-dente”.

Poco dopo lo schianto, accorre sul luogo dell’episodio la Polizia Po-litica da Roma, e i documenti e le agende dei giovani, seppur richiesti dalle famiglie, non saranno mai ritrovati.

Secondo le contro-inchieste portate avanti negli anni da ambienti anarchici, i due camionisti coinvolti nell’incidente, i fratelli Aniello, era-no dipendenti di una ditta facente capo al principe Junio Valerio Bor-ghese, personaggio ben conosciuto nell’ambiente dell’estrema destra, già comandante della X Flottiglia MAS all’epoca della Repubblica Socia-le Italiana, nonché futura guida del famoso Golpe Borghese, di pochi mesi successivo all’incidente in cui morirono i cinque giovani. Pare an-che che a comandare l’inchiesta della Polizia sull’incidente vi fosse tale Crescenzio Mezzina, uno dei partecipanti al detto Golpe.

Solo dopo oltre vent’anni la vicenda è tornata alla ribalta giudiziaria, seppure indirettamente. Nel 1993 Giacomo Lauro e Carmine Dominici, due collaboratori di giustizia, riferiscono al giudice istruttore milanese Guido Salvini, che si occupa dell’eversione nera degli anni Settanta, la presunta collusione tra ambienti d’estrema destra e ‘Ndrangheta, e so-stengono la diretta responsabilità di questi nei “fatti di Reggio” e nel-l’attentato di Gioia Tauro. Dirà al giudice Carmine Dominici: “Perso-nalmente ritengo che quello dei cinque ragazzi non sia stato un inciden-te ma un omicidio. E tale opinione è condivisa anche da altri militanti avanguardisti. Non sono assolutamente in grado di indicare chi potreb-be aver preso parte alla presunta azione omicidiaria e, peraltro, era illo-gico che ci si rivolgesse a militanti calabresi in quanto ciò avrebbe com-portato un pericoloso spostamento geografico.”

Nel 2001 si sollevano ulteriori dubbi sulla morte dei cinque anarchi-ci: è il responsabile della Direzione Antimafia calabrese Salvo Boemi a definire, intervistato dal quotidiano “la Repubblica”, “logica e plausibi-le” l’ipotesi che l’incidente in cui morirono i cinque anarchici fosse sta-to, al pari di quello di Gioia Tauro, una strage. Una strage organizzata per coprirne un’altra: “Sono convinto che quei cinque giovani avessero trovato dei documenti importanti. Non riesco a spiegarmi in altro mo-do la sparizione di tutte le carte che si trasportavano nella loro utilitaria. È un caso che avrei desiderato approfondire ma non è stato possibile.

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Ci sono insormontabili problemi di competenza. Riaprire l’inchiesta? L’unica speranza è che, trent’ anni dopo, chi sa decida di parlare. Ma, onestamente, non ci credo”.

I “fatti di Reggio”, dopo aver causato 5 vittime e decine di feriti,

scemarono nel corso del 1971, soprattutto dopo il provvedimento go-vernativo che compensò l’assegnazione del capoluogo a Catanzaro as-segnando a Reggio la sede del Consiglio Regionale e di apparati produt-tivi che non furono mai realizzati o furono subito oggetto di specula-zioni da parte della ‘Ndrangheta.

Scrissero gli anarchici della Baracca su un volantino diffuso prima della loro partenza per Roma: “Padroni bastardi, del capoluogo non sappiamo che farcene! Il capoluogo va bene per i burocrati, gli specula-tori, i parassiti, i padroni e i politicanti più grossi; va bene per le mano-vre dei caporioni locali, per il sindaco Battaglia e per i caporioni falliti. Va bene per il tentativo di questi “uomini importanti” di accrescere il loro potere locale, la loro area di sfruttamento, facendoci sfogare anni di malcontento con la falsa lotta per il capoluogo, dopo che hanno mandato i nostri figli e i nostri fratelli a lavorare all’estero e continuano a sfruttarci nella stessa Reggio. I cosiddetti “datori di lavoro”, che in re-altà sono luridi padroni, sono i nostri nemici, quegli stessi che ci man-dano allo sbaraglio per il capoluogo, per la Madonna o per la squadra di calcio. Il capoluogo non ci serve! Lottiamo per farla finita con l’emigrazione, con la disoccupazione, con la fame!”.

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GLI AUTORI

Eleonora Forti (autrice del racconto “Gli angeli non esistono”)

Nata nel 1995, frequenta la classe terza del liceo scientifico “Leonardo Da Vinci” di Trento. Non ha avuto alcuna esperienza letteraria prima d’ora. Il racconto pro-dotto alla fine del corso “Metti un’inchiesta nel romanzo” è stato il suo primo approccio ad una forma completa di narrativa, che esula dal-l’esperienza scolastica e personale. Anna Forti (autrice del racconto “Il canto del cuculo”)

Nata nel 1990, studia Storia della Filosofia e Scienze Umane presso l’Università di Trento. Affianca agli impegni accademici la propria attività musicale ed il recen-te interesse per la scrittura, che l’ha portata a partecipare al corso “Metti un’inchiesta nel romanzo”, da cui è scaturito il racconto “Il canto del cuculo”. Paolo Bisesti (autore del racconto “Il passo del gambero”)

Nato in una calda giornata di luglio nel mezzo dei ruggenti anni Ottan-ta, manifesta fin da subito un’insana attrazione per il mito e la storia, passione che lo accompagna ancor oggi. Con l’Italia d’azzurro vestita, impegnata a cantare un’“estate italiana”, Paolo si ritrova a salutare la cara Emilia per trasferirsi nel paese natìo di Aldeno, in Trentino, dove manifesta ben presto i sintomi di un tipico “mal del campanile”. Bambino vivace ed irrequieto, trova nello sport, e nel calcio in particolare, una valvola di sfogo che in vari modi non ac-cenna ancora ad esaurire la sua funzione. Attualmente collabora con Provincia di Trento e Comune di Aldeno nella gestione del Piano giovani di zona A.R.Ci.Ma.Ga e del Progetto Giovani comunale. Orgoglioso e curioso, non ha resistito alla tentazione di mettersi in gio-co nella sfida lanciata dal progetto “Metti un’inchiesta nel romanzo”. Ai posteri l’ardua sentenza.

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Tersite Rossi (curatore della raccolta di racconti)

Nato nel 1978 (prima il 14 febbraio e poi di nuovo il 10 maggio), ama considerarsi l’erede contemporaneo del Tersite omerico, un antieroe che sfidò l’ipocrisia del potere ma finì bastonato e deriso. A guardare bene, dentro di lui convivono due anime distinte: quella del professore e quella del giornalista. Entrambe, però, gli stanno un po’ strette. Ha esordito con il romanzo “È già sera, tutto è finito” (Pendragon 2010), appartenente al genere della Narrativa d’Inchiesta (finalista al Premio Alessandro Tassoni 2011). È in uscita il suo secondo romanzo presso le edizioni e/o, nell’ambito della collana “SabotAge” curata da Massimo Carlotto. Tiene il corso di scrittura “Metti un’inchiesta nel romanzo”, nell’ambito del quale è stata prodotta la presente raccolta di racconti.

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RINGRAZIAMENTI Gli autori del presente lavoro (docenti e corsisti) ringraziano il Piano Giovani di Zona A.R.Ci.Ma.Ga (in particolare Paolo Bisesti, nella sua veste di coordinatore del Piano) e l’Assessorato alla Cultura del Comu-ne di Aldeno, per aver voluto organizzare un corso impegnativo e am-bizioso come “Metti un’inchiesta nel romanzo”. Ringraziano inoltre il Progetto Giovani del Comune di Aldeno per ave-re ospitato le lezioni del corso presso la sua sede. I docenti del corso ringraziano i corsisti, per aver tenuto fede al motto “pochi, ma buoni”, con il loro impegno, la loro costanza, e, non ultime, le loro capacità. I corsisti, a loro volta, ringraziano i docenti, per essersi dedicati con au-tentico interesse allo svolgimento del corso, per la disponibilità dimo-strata e per aver saputo trasmettere un nuovo e più completo approccio alla scrittura ed alla lettura. Infine, un ringraziamento corale a tutti gli autori italiani di Narrativa d’Inchiesta, per il loro contributo alla memoria di un Paese che troppo spesso tende a perderla.

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INDICE

Introduzione p. 7

Gli angeli non esistono p. 11

Il canto del cuculo p. 25

Il passo del gambero p. 39

Appendice storica p. 57

Gli autori p. 63 Ringraziamenti p. 65

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2012

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26 settembre 1970, tarda sera, autostrada A2, tra Ferentino e Frosinone, 58 chilometri a nord di Roma. Provenienti da Reggio Calabria e diretti nella capi-tale, cinque ragazzi di vent’anni, a bordo della loro Mini Morris, si schiantano contro un camion. Tre di loro muoiono sul colpo, gli altri due poco dopo. I cinque ragazzi erano anarchici. Gli “anarchici della Baracca”, come venivano chiamati a Reggio Calabria, dal nome della villa Liberty dove erano soliti ritro-varsi. Nelle settimane precedenti avevano tentato di fare luce sui retroscena di un altro incidente, quello che il 22 luglio 1970 aveva portato al deragliamento del treno direttissimo Palermo-Torino a Gioia Tauro, causando sei morti. Gua-sto meccanico o errore umano, le ipotesi fatte subito. Gli anarchici della Ba-racca non ci avevano creduto, e avevano indagato. Raccogliendo documenti che, come avevano riferito a parenti e amici prima di partire per Roma, dove intendevano consegnarli a un amico avvocato di loro fiducia, erano destinati a “far tremare l’Italia”. Ma poi giunse lo schianto sull’A2. I documenti scomparvero. Il fatto fu archi-viato come un semplice “incidente stradale”. Come si sarebbe appurato solo oltre vent’anni dopo, si trattò invece di uno dei tanti episodi legati a quella “strategia della tensione” che ha insanguinato l’Italia dalla bomba di Piazza Fontana del 1969 in poi, minando le basi democratiche e civili del nostro Paese. Altre cinque vite sacrificate sull’altare del potere e della strategia per mantenerlo ad ogni costo. Oggi, a oltre quarant’anni anni di distanza, tre giovani, coetanei dei cinque a-narchici uccisi nel 1970, li ricordano con altrettanti racconti, raccolti nella pre-sente pubblicazione. Ogni racconto è diverso, per stile e punto di vista. Ma o-gnuno è uguale nel tentativo, tipico della cosiddetta Narrativa d’Inchiesta, di utilizzare la narrazione per riportare a galla la memoria storica di un fatto real-mente accaduto e indurre il lettore ad approfondire. Perché in un Paese come l’Italia, dove la realtà tende a superare spesso la fantasia, c’è spesso bisogno di fantasia per recuperare la realtà. Eleonora Forti, Anna Forti e Paolo Bisesti, gli autori dei tre racconti conte-nuti nella presente pubblicazione, hanno frequentato nell’autunno 2011 il cor-so di scrittura “Metti un’inchiesta nel romanzo”, organizzato dal Piano Gio-vani di Zona A.R.Ci.Ma.Ga e tenuto dal collettivo di scrittori noto con lo pseudonimo di Tersite Rossi. I loro racconti sono il frutto di quanto appreso a proposito del significato e delle tecniche della cosiddetta Narrativa d’Inchiesta.