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NORMATIVA, GIURISPRUDENZA, DOTTRINA E PRASSI IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ D IRETTA DA O RESTE C AGNASSO E M AURIZIO I RRERA C OORDINATA DA G ILBERTO G ELOSA IN QUESTO NUMERO: LA RILEVANZANELLE VALUTAZIONI DI BILANCIO L’ESCLUSIONE DEL SOCIO DI SRL INTERESSI PRIVATI E PUBBLICI NEL CONCORDATO PREVENTIVO ItaliaOggi Anno 14 – Numero 12 15 giugno 2016

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NORMATIVA , GIURISPRUDENZA, DOTTRINA E PRASSI

IL N UOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ

D IRETTA DA ORESTE CAGNASSO E M AURIZIO I RRERA

COORDINATA DA G ILBERTO GELOSA

IN QUESTO NUMERO:

• LA “RILEVANZA ” NELLE VALUTAZIONI DI BILANCIO

• L’ESCLUSIONE DEL SOCIO DI SRL

• INTERESSI PRIVATI E PUBBLICI NEL CONCORDATO PREVENTIVO

ItaliaOggi

Anno 14 – Numero 12

15 giugno 2016

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La Rivista è pubblicata con il supporto degli Ordini dei Dottori

commercialisti e degli Esperti contabili di:

Bergamo, Biella, Busto Arsizio, Casale Monferrato, Crema,

Cremona, Lecco, Mantova, Monza e Brianza, Verbania

NDS collabora con:

DIREZIONE SCIENTIFICA

Oreste Cagnasso – Maurizio Irrera

COORDINAMENTO SCIENTIFICO

Gilberto Gelosa

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COMITATO SCIENTIFICO DEI REFEREE

Carlo Amatucci, Guido Bonfante, Mia Callegari, Oreste Calliano, Maura Campra, Stefano A. Cerrato, Mario Comba, Maurizio Comoli, Paoloefisio Corrias, Emanuele

Cusa, Eva Desana, Francesco Fimmanò, Patrizia Grosso, Manlio Lubrano di Scorpaniello, Angelo Miglietta, Gabriele Racugno, Paolo Revigliono, Emanuele

Rimini, Marcella Sarale, Giorgio Schiano di Pepe

COMITATO DI INDIRIZZO

Carlo Luigi Brambilla, Alberto Carrara, Paola Castiglioni, Luigi Gualerzi, Stefano Noro, Carlo Pessina, Ernesto Quinto, Mario Rovetti, Michele Stefanoni, Mario Tagliaferri, Maria Rachele

Vigani, Ermanno Werthhammer

REDAZIONE

Maria Di Sarli (coordinatore) Alessandro Bollettinari, Alessandra Bonfante, Maurizio Bottoni, Mario Carena, Marco Sergio

Catalano, Massimiliano Desalvi, Salvatore De Vitis, Elena Fregonara, Giulia Garesio, Sebastiano Garufi, Stefano Graidi, Alessandro Monteverde, Leonardo Nesa, Giuseppe Antonio

Policaro, Irene Pollastro, Enrico Rossi, Riccardo Russo, Cristina Saracino, Marina Spiotta, Andrea Sacco Ginevri, Maria Venturini

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Mario Napoli, Bianca M. Omegna, Francesca Perrone, Luciano M. Quattrocchio,

Lorenzo Salvatore

SEZIONE DI DIRITTO FALLIMENTARE a cura di Luciano Panzani

SEZIONE DI DIRITTO INDUSTRIALE

a cura di Massimo Travostino e Luca Pecoraro

SEZIONE DI DIRITTO TRIBUTARIO a cura di Gilberto Gelosa

SEZIONE DI PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E IMPRESA

a cura di Marco Casavecchia

SEZIONE DI TRUST E NEGOZI FIDUCIARI a cura di Riccardo Rossotto e Annapaola Tonelli

I saggi pubblicati sotto la rubrica “Studi e Opinioni”, quando espressamente indicato, sono sottoposti a blind referees, scelti tra professori universitari appartenenti al Comitato scientifico dei referee, competenti nei vari settori scientifici oggetto della Rivista.

La valutazione degli atti di convegni e degli scritti già pubblicati o di prossima pubblicazione è riservata ai Direttori.

Ogni scritto è accompagnato da un abstract in italiano e in inglese. Vengono pubblicati scritti, oltre che in italiano, in: inglese; francese; spagnolo e portoghese.

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INDICE

IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 12/2016

4

STUDI E OPINIONI Pag.

La “rilevanza” nelle valutazioni di bilancio di Luciano Matteo Quattrocchio e Bianca Maria Omegna

7

L'esclusione del socio di s.r.l. – rassegna di giurisprudenza e orientamenti notarili fra teoria e pratica di Lorenzo Salvatore

33

Azionisti e tribunale per uscire dalla crisi: un caso torinese di Mario Napoli e Francesca Perrone

50

SEGNALAZIONI DI DIRITTO COMMERCIALE 54

SEGNALAZIONI DI DIRITTO TRIBUTARIO 58

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SOMMARIO

IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 12/2016

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STUDI E OPINIONI

La “rilevanza” nelle valutazioni di bilanci o Il contributo esamina il profilo delle valutazioni non corrette in sede di bilancio, con particolare riferimento alla disciplina civile e penale. Gli Autori evidenziano una generale tendenza a tollerare, sulla scorta della nozione di “rilevanza”, tali valutazioni.

di Luciano Matteo Quattrocchio e Bianca Maria Omegna L' esclusione del socio di s.r.l. – rassegna di giurisprudenza e orientamenti notarili fra teoria e pratica Il contributo si sofferma, in particolare, sugli orientamenti notarili in materia di esclusione del socio di s.r.l. e sui riflessi in materia redazionale. Lo scritto si sofferma, inoltre, sulla sorte delle clausole che ancorano l'esclusione del socio alla sottoposizione di procedure concorsuali. di LORENZO SALVATORE Azionisti e Tribunale per uscire dalla crisi: un caso torinese Gli Autori, muovendo dall’esame di una vicenda torinese, svolgono alcune considerazioni sugli interessi privati e pubblici connessi alla procedura di concordato preventivo. di Mario Napoli e Francesca Perrone

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INDEX-ABSTRACT

IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 12/2016

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STUDIES AND OPINIONS page

"Relevance" in financial statements evaluation The paper examines the profile of wrong evaluations in financial statements, with particular reference to civil and criminal legislation. The authors show a general tendency to tolerate, on the basis of the notion of "rilevance", these evaluations. by Luciano Matteo Quattrocchio and Bianca Maria Omegna

7

Exclusion of member of s.r.l. - review of law and notarial guidelines between theory and practice The paper focuses in particular on notarial guidelines on exclusion in s.r.l. and the reflections in wording matters. The paper focuses also on the fate of the exclusion clauses that anchor to the submission of bankruptcy proceedings. by Lorenzo Salvatore

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Shareholders and tribunal to overcome the crisis: a Turin case The authors, moving examination of a Turin case, play some considerations on private and public interests related to concordato preventivo. by Mario Napoli and Francesca Perrone

50

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STUDI E OPINIONI

IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 8/2016

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LA “RILEVANZA” NELLE VALUTAZIONI DI BILANCIO *

* Lo scritto costituisce la rielaborazione della relazione tenuta dal prof. Luciano Matteo Quattrocchio nel corso del Laboratorio di diritto commerciale – Il bilancio di esercizio: recenti novità e questioni aperte, tenutosi a Torino il 20 aprile 2016.

Il contributo esamina il profilo delle valutazioni non corrette in sede di bilancio, con

particolare riferimento alla disciplina civile e penale. Gli Autori evidenziano una generale tendenza a tollerare, sulla scorta della nozione di “rilevanza”, tali

valutazioni.

di LUCIANO MATTEO QUATTROCCHIO e BIANCA MARIA OMEGNA

1. Premessa. Il bilancio d’esercizio (insieme con il bilancio consolidato) costituisce un

esempio paradigmatico di argomento di studio in cui non si può prescindere da un approccio interdisciplinare e intersettoriale.

Infatti, sotto il profilo dell’interdisciplinarietà, la lettura e la comprensione del bilancio presuppongono l’assimilazione dei principi aziendalistici che ne costituiscono le fondamenta: fra tutte, le nozioni di reddito e di patrimonio.

Ma anche una lettura trasversale della normativa in tema di bilancio nell’ambito dei diversi settori del dir itto – civile, penale-societario e penale-tributario – si impone, al fine di verificare se vi sia omogeneità nella disciplina, soprattutto sanzionatoria, o quantomeno se vi sia una tendenza verso la creazione di un sistema unitario.

Tali esigenze si sono manifestate in tutta la loro portata, soprattutto nel corso del 2015, ove – a distanza di pochi mesi – il Legislatore ha innovato profondamente la disciplina civilistica, la disciplina delle false comunicazioni sociali e la disciplina penale-tributaria.

In via preliminare, si può affermare che il bilancio non risponde al vero quando non è predisposto seguendo le norme e i principi che ne disciplinano la redazione, ma si deve ritenere che non fornisca un quadro fedele solo quando è viziato da errori qualificabili come “significativi”.

Tale conclusione è stata recepita – ormai da tempo – nei principi contabili nazionali e in quelli internazionali. Ma, anche la giurisprudenza ha fatto propria tale enunciazione, affermando la nullità del bilancio per violazione dei principi generali quando il contrasto con la relativa disciplina determina una divaricazione tra il risultato

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STUDI E OPINIONI LA “RILEVANZA ” NELLE VALUTAZIONI DI BILANCIO

IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 12/2016

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effettivo e quello che risulta dal bilancio materialmente redatto, a condizione che la violazione dei principi generali sia tale da compromettere effettivamente la sua funzione informativa, con reale pregiudizio per i soci e per i terzi.

Come è noto, il d.lgs. 18 agosto 2015, n. 139 (“Attuazione della direttiva 2013/34/UE relativa ai bilanci d’esercizio, ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, recante modifica della direttiva 2006/43/CE e abrogazione delle direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE, per la parte relativa alla disciplina del bilancio di esercizio e di quello consolidato per le società di capitali e gli altri soggetti individuati dalla legge”) ha introdotto un nuovo comma all’art. 2423 c.c. del seguente tenore: «Non occorre rispettare gli obblighi in tema di rilevazione, valutazione, presentazione e informativa quando la loro osservanza abbia effetti irrilevanti al fine di dare una rappresentazione veritiera e corretta. Rimangono fermi gli obblighi in tema di regolare tenuta delle scritture contabili. Le società illustrano nella nota integrativa i criteri con i quali hanno dato attuazione alla presente disposizione». Con tale modifica, quindi, il principio di rilevanza (o “significatività” o “ materiality”) viene elevato al rango di principio generale o, quantomeno, assurge a strumento di selezione delle violazioni rilevanti dei principi generali precedentemente enunciati (chiarezza, veridicità e correttezza).

Quasi contemporaneamente, la l. 27 maggio 2015, n. 69 (“Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio”), ha introdotto rilevanti modifiche alle Disposizioni penali in materia di società e consorzi, sostituendo gli artt. 2621 e 2622 c.c. e introducendo ex novo gli artt. 2621-bis e 2621-ter. In particolare, in primo luogo, è stato introdotto il principio della rilevanza nell’art. 2621 c.c., con la previsione secondo cui «Fuori dai casi previsti dall’art. 2622, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali r ilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni»; in secondo luogo, è stato enunciato il principio della “lieve entità” attraverso l’introduzione del nuovo art. 2621-bis c.c., a norma del quale «Salvo che costituiscano più grave reato, si applica la pena da sei mesi a tre anni di reclusione se i fatti di cui all’articolo 2621 sono di lieve entità, tenuto conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta. Salvo che costituiscano più grave reato, si applica la stessa pena di cui al comma precedente quando i fatti di cui all’articolo 2621 riguardano società che non superano i limiti indicati dal secondo comma dell’articolo 1 del regio decreto 16 marzo

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STUDI E OPINIONI LA “RILEVANZA ” NELLE VALUTAZIONI DI BILANCIO

IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 12/2016

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1942, n. 267. In tale caso, il delitto è procedibile a querela della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale»; in terzo luogo, è stato specificato il principio della “tenuità”, già presente nell’ordinamento italiano, mediante l’introduzione del nuovo art. 2621-ter c.c. a mente del quale «Ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’articolo 131-bis del codice penale, il giudice valuta, in modo prevalente, l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli articoli 2621 e 2621-bis».

Ma soltanto poche settimane dopo, il d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (“Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23”), ha aggiunto all’art. 4 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il comma 1-ter del seguente tenore: «Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verif ica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b)».

Si deve, quindi, ritenere che il Legislatore abbia inteso applicare – in via generale – alla disciplina del bilancio d’esercizio e ai documenti da esso derivati (la dichiarazione dei redditi) il principio della irrilevanza degli scostamenti, pur con diverse sfaccettature.

2. La rilevanza degli errori nel sistema anteriore alla riforma. 2.1. La disciplina civilistica. Come già si è detto, il bilancio di esercizio può presentare irregolarità che

riguardano il suo contenuto, che si estrinsecano in violazioni dei principi di chiarezza, verità e correttezza.

Prima della recente riforma, non vi era omogeneità di vedute con riguardo alle conseguenze di tali violazioni; tendeva tuttavia a prevalere, in dottrina e soprattutto in giurisprudenza, la tesi più rigorosa della nullità della delibera di approvazione del bilancio. Si riteneva, infatti, che la delibera di approvazione di un bilancio non chiaro, veritiero e corretto avesse oggetto (contenuto) illecito, in quanto adottata in contrasto con norme imperative inderogabili, dettate a tutela di un interesse generale.

Tuttavia, si reputava – come anticipato – che la violazione dei principi generali potesse condurre alla nullità della delibera solo quando i vizi fossero tali da compromettere effettivamente la funzione informativa del bilancio, con reale pregiudizio per i soci e per i terzi. In particolare, si doveva dichiarare la nullità della delibera di bilancio solo quando «i difetti di distinzione e di analisi sono tali da compromettere effettivamente la funzione informativa del bilancio, con effettivo pregiudizio per i soci e per i terzi. Non si ha per contro nullità della delibera quando i

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STUDI E OPINIONI LA “RILEVANZA ” NELLE VALUTAZIONI DI BILANCIO

IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 12/2016

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vizi di chiarezza sono marginali e non compromettono la precisa rappresentazione della situazione patrimoniale e del r isultato economico di esercizio»1.

La Corte di Cassazione, in una recentissima sentenza2, ha confermato tali principi e ha chiarito che:

• il diritto del socio ad impugnare per nullità la delibera di approvazione di un bilancio redatto in violazione delle prescrizioni legali non è necessariamente da correlare all’aspettativa alla percezione di un dividendo oppure ad un immediato vantaggio patrimoniale che una diversa, e più corretta, formulazione del documento contabile avrebbe eventualmente evidenziato3;

• deve essere riconosciuto sussistente l’interesse del socio ad agire per l’impugnativa della suddetta delibera qualora egli possa essere indotto in errore dall’inesatta informazione fornita sulla consistenza patrimoniale e sull’eff icienza economica della società, ovvero qualora, dall’alterazione o incompletezza dell’esposizione dei dati, derivi o possa derivare un pregiudizio economico circa il valore della sua partecipazione;

• il principio di continuità dei valori di bilancio, per cui le rimanenze finali di un esercizio costituiscono esistenze iniziali dell’esercizio successivo e le relative variazioni concorrono a formare il reddito d’esercizio, inoltre, comporta che ciascun bilancio deve partire dai dati di chiusura del bilancio dell’anno precedente anche nel caso in cui l’esattezza e la legittimità di questi ultimi siano state poste in discussione in sede contenziosa4.

Occorre, peraltro, rammentare che significative limitazioni all’impugnativa dei bilanci erano state introdotte, dapprima per i soli bilanci delle società sottoposte a revisione contabile obbligatoria con l’art. 6 del d.p.r. 31 marzo 1975, n. 136 (ora art. 157 t.u.f.), ed estese a tutte le società per azioni con la riforma del 2003, che ha 1 G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale. 2. Diritto delle Società, Torino, 2015, pag. 480. Per ulteriori approfondimenti, si veda G. COTTINO, Diritto societario, Padova, 2011, pag. 523 ss.. 2 Cass. 8 marzo 2016, n. 4522. 3 Tale diritto può nascere anche dalla poca chiarezza, o scorrettezza, del bilancio che non permetta al socio di avere tutte le informazioni – destinate a riflet tersi anche sul valore della quota di partecipazione – che il bilancio dovrebbe offrirgli, e alle quali, attraverso la richiesta di dichiarazione di nullità con conseguente necessaria elaborazione di un nuovo bilancio privo di vizi, il socio legittimamente aspira (Cass. SS.UU. 21 febbraio 2000, n. 27). 4 Infatti, l’art. 2434-bis, comma 3, c.c. impone agli amministratori di redigere nuovamente sia il bilancio dichiarato definitivamente irregolare in sede giurisdizionale che i bilanci successivi sui quali l’irregolarità di quello si sia in qualche modo ripercossa. In particolare, come precisato da Trib. Roma 19829/2014, una lettura in termini di “complementarietà”, e non “sostitutivi”, degli artt. 2377, comma 7, e 2434-bis, comma 3, c.c., impone, da un lato, di redigere un nuovo progetto di bilancio, depositarlo presso la sede sociale, convocare l’assemblea per la nuova approvazione e depositarlo, nel nuovo testo, presso il Registro delle imprese, e, dall’altro, di adottare tutte le correzioni necessarie ai bilanci successivi, se e nella misura in cui le rettifiche apportate al primo bilancio impugnato producono conseguenze riflesse sulle poste dei bilanci successivi (correzioni delle quali potrebbe anche non esservi bisogno).

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STUDI E OPINIONI LA “RILEVANZA ” NELLE VALUTAZIONI DI BILANCIO

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introdotto una speciale disciplina (art. 2434-bis c.c.) volta a dare certezza e stabilità alla delibera di approvazione del bilancio. Infatti, le azioni di annullabilità e/o di nullità previste dagli artt. 2377 e 2379 c.c. non potevano – e non possono tuttora – essere più esercitate dopo che è stato approvato il bilancio dell’esercizio successivo.

Inoltre, ed è regola che vale tuttora, se il soggetto incaricato della revisione ha emesso un giudizio privo di rilievi (nelle società quotate anche se ha espresso un giudizio positivo con rilievi, relativamente alle impugnazioni per vizi di contenuto, salvo che vi siano richiami di informativa concernenti signif icativi dubbi sulla continuità aziendale), la legittimazione ad impugnare la delibera di approvazione del bilancio, non solo per cause di annullabilità, ma anche per cause di nullità, spetta soltanto a tanti soci che rappresentino almeno il cinque per cento del capitale sociale (artt. 2434-bis, comma 2, c.c., e 157 t.u.f.). È così oggi impedita l’impugnativa da parte del singolo azionista anche per cause di nullità della delibera di approvazione del bilancio.

2.2. La disciplina penale. Il d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, recante la “Disciplina degli illeciti penali e

amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell’articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366”, aveva apportato significative modifiche alla disciplina penale societaria precedentemente in vigore.

In particolare, il d.lgs. individuava – in tema di false comunicazioni sociali – due autonome fattispecie incriminatrici, differenziate sul presupposto della esistenza o meno di un danno patrimoniale ai soci o ai creditori: i) la prima, prevista dall’articolo 2621 c.c. e rubricata “false comunicazioni sociali”, nell’ intento di salvaguardare la fiducia nella veridicità dei bilanci o delle comunicazioni dell’impresa organizzata in forma societaria, disciplinava le false comunicazioni sociali, quale reato di pericolo; ii) la seconda, prevista dall’art. 2622 c.c. e rubricata “False comunicazioni sociali in danno della società, dei soci o dei creditori”, disciplinava le false comunicazioni sociali, quale reato di danno.

Per quanto di interesse, l’art. 2621 c.c. prevedeva alcuni casi di non punibilità del fatto (commi 3 e 4):

• la punibilità era esclusa se le falsità o le omissioni non alteravano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo;

• la punibilità era esclusa se le falsità o le omissioni determinavano una variazione del r isultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5%, o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%;

• la punibilità era esclusa in caso di valutazioni estimative che, singolarmente, differivano di non più del 10% da quelle corrette.

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IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 12/2016

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Le c.d. “soglie di punibilità” erano dunque quattro, una qualitativa e tre quantitative:

• la soglia qualitativa – prevista dal comma 3 – corrispondeva ad una variazione “sensibile” dello status economico, patrimoniale, f inanziario della società;

• le due soglie quantitative, presenti nel medesimo comma, erano finalizzate ad escludere la punibilità di variazioni alternativamente non superiori al 5% del risultato economico di esercizio al lordo delle imposte o all’1% del patrimonio netto;

• l’ultima soglia – prevista dal comma 4 e di natura anch’essa quantitativa – considerava lecito uno scostamento nelle valutazioni estimative, non superiore al 10% rispetto alla stima corretta.

La norma subordinava, quindi, la punibilità delle alterazioni di bilancio al superamento di tutte le soglie e una parte della dottrina riteneva, di conseguenza, che non fossero punibili le alterazioni per le quali le soglie non fossero applicabili. E si portava ad esempio la rivalutazione delle immobilizzazioni (in forza di leggi di rivalutazione di matrice fiscale), che non determinava un’alterazione del risultato d’esercizio, non transitando per il conto economico; con la conseguenza che se la rivalutazione, in ragione del consistente importo avrebbe in astratto condotto al superamento della soglia di rilevanza anche con riferimento al risultato economico, ciò non poteva concretizzarsi poiché la rivalutazione era iscritta direttamente in una riserva.

Altra parte della dottrina affermava, per contro, che «nessun dubbio dovrebbe sussistere sulla rilevanza alternativa dei due criteri del 5 e dell’1%, così come chiarito dai lavori preparatori, con i quali è stato precisato che il parametro dell’1% deve essere utilizzato nel caso in cui quello del 5%, che è rapportato al risultato economico dell’esercizio, non potesse, per una qualsiasi ragione, essere utilizzato»5.

Analoga conclusione si ricavava, peraltro, dalla Relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 61 del 2002, laddove si affermava espressamente che «stante la non omogeneità tecnico-contabile dei due parametri presi in considerazione dalle citate soglie, esse operano in alternativa tra loro». La stessa Relazione, poi, aggiungeva che «per tutte le ipotesi in cui non è possibile utilizzare tali soglie varrà la generale formula della non alterazione sensibile della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene».

D’altronde, si osservava, se così non fosse la norma sarebbe costituzionalmente illegittima, poiché condurrebbe ad un trattamento differenziato di situazioni analoghe; infatti, una medesima rivalutazione se fatta transitare per il conto economico

5 P. BARTOLO, I reati di false comunicazioni sociali, Torino, 2004, pag. 104, il quale richiama in nota il conforme parere di L. FOFFANI, Le falsità, in AA.VV., I nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di A. Giarda – S. Seminara, Padova, 2002, pag. 287).

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determinerebbe la punibilità della fattispecie concreta, mentre se iscritta direttamente a riserva – con il medesimo risultato di far venir meno la rilevanza della perdita ai sensi degli artt. 2446 e 2447 c.c. – risulterebbe priva di sanzione.

In ogni caso, la riforma – proprio per effetto delle soglie di punibilità – si caratterizzava per una significativa riduzione dell’eff icacia sanzionatoria delle false comunicazioni sociali, r ispetto al passato. Per contro, al di là dell’oceano – a seguito dei noti scandali finanziari – veniva promulgato il cd. “Sarbanes-Oxley Act”, con il quale – tra le altre cose – si prevedeva che il CEO (Chief Executive Officer) e il CFO (Chief Financial Officer) dovessero rispondere (e, tuttora, rispondano) personalmente circa la genuinità dei bilanci, con l’ammenda pari a $ 5.000.000 e/o la reclusione fino a vent’anni, nel caso di “dolo specifico”, o l’ammenda pari a $ 1.000.000 e/o la reclusione fino a dieci anni in caso di “dolo generico”.

3. La riforma. 3.1. Il quadro di riferimento. 3.1.1. La nozione di “rilevanza”. Prima di esaminare la disciplina di r iforma, pare utile prendere le mosse dal

signif icato attribuito alla nozione di “rilevanza” (o, più correttamente, “materiality”) nel diritto di matrice anglosassone, nel quale – già da molto tempo – tale nozione si è consolidata.

In tale contesto, «Materiality is a legal term which can have different meanings, depending on context. When speaking of facts, the term generally means a fact which is “significant to the issue or matter at hand”». Ed ancora, «Within the context of corporate and securities law in the United States, a fact is defined as material if there is a substantial likelihood that a reasonable shareholder would consider it important in deciding how to vote their shares or invest their money. In this regard, it is similar to the accounting term of the same name. Materiality is particularly important in the context of securities law, because under the Securities Exchange Act of 1934, a company can be held civilly or criminally liable for false, misleading, or omitted statements of fact in proxy statements and other documents, if the fact in question is found by the court to have been material pursuant to Rule 10b-5»6.

Occorre, inoltre, rammentare che – dal punto di vista tecnico-contabile – la signif icatività (dell’errore) è un concetto fondamentale della revisione, esplicitato nei principi di revisione ISA Italia 320 (“Significatività nella pianificazione e nello svolgimento della revisione contabile”) e ISA Italia 450 (“Valutazione degli errori

6 Fonte: Wikipedia, voce “Materiality”.

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identificati nel corso della revisione contabile”), ora resi obbligatori anche nel nostro ordinamento7.

In tale ambito, gli errori sono considerati signif icativi quando «ci si può ragionevolmente attendere che essi, considerati singolarmente o nel loro insieme, siano in grado di influenzare le decisioni economiche prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio».

La materialità (o significatività) è rappresentata da un valore numerico che definisce la misura dell’errore che non inficia i dati del bilancio, o meglio definisce il limite totale degli errori individuati dal revisore che non dovrebbe modificare il giudizio positivo sul bilancio nel suo complesso: se gli errori rilevati superano il valore della materialità (o significatività), il revisore deve emettere un giudizio negativo sul bilancio.

Peraltro, la materialità (o significatività), essendo prima di tutto espressione di aspetti qualitativi rilevanti per gli utilizzatori del bilancio, non deve mai essere intesa, dal punto di vista quantitativo, come un valore assoluto; si tratta piuttosto di un’area che comprende l’intervallo tra i fenomeni che non sono significativi e quelli che, invece, lo sono sicuramente.

Sia nella definizione teorica, sia nell’applicazione pratica, la significatività viene determinata a più livelli:

• signif icatività complessiva; • signif icatività operativa; • signif icatività per la rendicontazione degli aggiustamenti riscontrati nelle

verifiche. Relativamente alla significatività complessiva, ossia a quella che attiene al

bilancio nel suo complesso, l’ISA Italia 320 non fornisce indicazioni di natura quantitativa. Tuttavia il Principio di revisione sottolinea che, spesso, nella best practice dei revisori, il punto di partenza per la sua quantificazione si basa su percentuali applicate a determinati valori di bilancio. In particolare, nella prassi professionale sia nazionale sia internazionale si sono consolidati i seguenti parametri di massima per la determinazione della significatività complessiva di bilancio:

VALORE DI RIFERIMENTO

PRASSI NAZIONALE

PRASSI INTERNAZIONALE

7 Con determina del Ragioniere generale dello Stato del 23 dicembre 2014, sono stati adottati i Principi di revisione ISA Italia, che nascono dalla collaborazione con le associazioni e gli ordini professionali (l'Associazione Italiana Revisori Contabili (Assirevi), il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili (CNDCEC) e l'Istituto Nazionale Revisori Legali (INRL) su base convenzionale, e CONSOB, ai sensi degli articoli 11 e 12 del D.lgs. 39/2010. I Principi di revisione sostituiscono quelli precedentemente in vigore, emanati ai sensi dell’art. 162 del d.lgs. 58/1998 (T.U.F.).

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%

min % max % min % max

Ricavi 0,5 1 1 3

Risultato operativo n/d n/d 3 7

Utile ante imposte 5 10 n/d n/d

Totale attivo 0,5 1 1 3

Patrimonio netto 1 5 3 5

3.1.2. I principi contabili internazionali. Il tema della “rilevanza” (o “significatività”) è preso (normativamente) in

considerazione dallo I.A.S. 1 (“Presentazione del bilancio”) e dallo I.A.S. 8 (“Principi contabili, cambiamenti nelle stime contabili ed errori”).

In particolare, lo I.A.S. 1 – al par. 7 – afferma che «Le omissioni o errate misurazioni di voci sono rilevanti se potrebbero, individualmente o nel complesso, influenzare le decisioni economiche che gli utilizzatori prendono sulla base del bilancio. La rilevanza dipende dalla dimensione e dalla natura dell’omissione o errata misurazione valutata a seconda delle circostanze. La dimensione o natura della voce, o una combinazione di entrambe, potrebbe costituire il fattore determinante. Determinare se un’omissione o una errata misurazione potrebbe influenzare le decisioni economiche degli utilizzatori, e quindi essere rilevante, richiede di tenere in considerazione le caratteristiche di tali utilizzatori».

Lo I.A.S. 8, al par. 5, afferma anzitutto che «Gli errori di esercizi precedenti sono omissioni e errate misurazioni di voci nel bilancio dell’entità per uno o più esercizi derivanti dal non utilizzo o dall’utilizzo erroneo di informazioni attendibili che:

• erano disponibili quando i bilanci di quegli esercizi erano autorizzati all’emissione; e

• si poteva ragionevolmente supporre che fossero state ottenute e utilizzate nella redazione e presentazione di quei bilanci.

Tali errori includono gli effetti di errori aritmetici, errori nell’applicazione di principi contabili, sviste o interpretazioni distorte di fatti, e frodi».

Lo stesso I.A.S. 8, al par. 41, aggiunge peraltro che: «Errori possono essere commessi nella rilevazione, valutazione, presentazione o informativa di elementi del bilancio. Il bilancio non è conforme agli IFRS se questo contiene errori rilevanti ovvero irrilevanti se commessi intenzionalmente per ottenere una particolare presentazione

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della situazione patrimoniale-f inanziaria, del risultato economico o dei f lussi finanziari dell’entità».

3.1.3. I principi contabili nazionali. Preliminarmente, vale la pena rammentare che l’art. 20, comma 2, lett. b), del

d.l. 24 giugno 2014, n. 91, convertito dalla l. 11 agosto 2014, n. 116, ha introdotto l’art. 9-bis nel d.lgs. 28 febbraio 2005, n. 38, stabilendo che «L’organismo Italiano di Contabilità, istituto nazionale per i principi contabili: a) emana i principi contabili nazionali, ispirati alla migliore prassi operativa, per la redazione dei bilanci secondo le disposizioni del codice civile; […]»8. Tale coinvolgimento è stata, di recente, ribadito dal d.lgs. 139/2015, ove – all’art. 12, comma 3 – si stabilisce che «L’Organismo italiano di contabilità aggiorna i principi contabili nazionali di cui all’articolo 9-bis, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38, sulla base delle disposizioni contenute nel presente decreto».

I citati richiami normativi hanno rafforzato l’originario moto di “giuridicizzazione” dei principi contabili (nazionali), che ora si avvalgono di un richiamo espresso alle «disposizioni del codice civile».

Relativamente al tema che ci occupa, il concetto di “rilevanza” è fatto proprio dall’O.I.C. 11 (“Bilancio d’esercizio, finalità e postulati”) , il quale afferma che «I principi contabili si distinguono in principi contabili generali o postulati del bilancio di esercizio e principi contabili applicati. I postulati del bilancio costituiscono i fondamenti e le regole di carattere generale cui devono informarsi i principi contabili applicati alle singole poste di bilancio incluse quelle relative ad imprese che operano in settori specialistici. I principali postulati sono i seguenti:

• […] • Signif icatività e rilevanza dei fatti economici ai fini della loro presentazione

in bilancio. • […]».

Lo stesso O.I.C. 11 aggiunge che «Il bilancio d’esercizio deve esporre solo quelle informazioni che hanno un effetto significativo e rilevante sui dati di bilancio o sul processo decisionale dei destinatari. Il principio di significatività trova anche riscontro in numerose norme relative alla redazione e al contenuto del bilancio. Il procedimento di formazione del bilancio implica delle stime o previsioni. Pertanto, la correttezza dei dati di bilancio non si riferisce soltanto all’esattezza aritmetica, bensì alla correttezza economica, alla ragionevolezza, cioè al risultato attendibile che viene ottenuto dall’applicazione oculata ed onesta dei procedimenti di valutazione adottati

8 Antecedentemente, l’art. 4 del d.P.R. 31 marzo 1975, n. 136, imponeva alla società di revisione di indicare, nella propria relazione, se i fatti di gestione erano stati rilevati secondo “corretti principi contabili”. La norma è stata abrogata dal d.lgs. 9 aprile 1991 n. 127.

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nella stesura del bilancio d’esercizio. Errori, semplificazioni e arrotondamenti sono tecnicamente inevitabili e trovano il loro limite nel concetto di rilevanza; essi cioè non devono essere di portata tale da avere un effetto rilevante sui dati di bilancio e sul loro signif icato per i destinatari».

3.1.4. La direttiva comunitaria. La Direttiva n. 2013/34/UE del 26 giugno 2013, relativa ai bilanci d’esercizio, ai

bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, recante modifica della direttiva 2006/43/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e abrogazione delle direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE del Consiglio, nelle considerazioni di carattere generale – pur riconfermando appieno i principi ispiratori della IV e della VII Direttiva – esplicita la necessità di un equilibrio tra gli interessi dei destinatari dei bilanci e l’interesse delle imprese a non essere eccessivamente gravate da obblighi in materia di informativa.

In tale prospettiva, all’art. 2 (che contiene le “Definizioni”) viene considerato “ rilevante” «lo stato dell’informazione quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio d’impresa. La rilevanza delle singole voci è giudicata nel contesto di altre voci analoghe» (n. 16).

E’ da dire che, antecedentemente, le Direttive contabili non avevano mai fornito una definizione di “rilevanza”, limitandosi a fare ad essa riferimento, indirettamente nel contesto del soddisfacimento della clausola di rappresentazione veritiera e corretta, e direttamente nel contesto delle disposizioni pertinenti gli schemi di bilancio e le informazioni da inserire in nota integrativa.

Peraltro, la Direttiva considera la rilevanza delle singole voci nel contesto di altre voci analoghe e non invece la rilevanza dell’informazione o delle informazioni presentate avuto riguardo alle singole voci, laddove i principi contabili la giudicano avuto riguardo alla dimensione quantitativa della posta e quindi in rapporto al bilancio di esercizio nel suo insieme.

E’ bene, tuttavia, sottolineare che la definizione di rilevanza contenuta nell’art. 2 assume un peso differente se confrontata con quanto disposto dall’art. 6, par. 1, lett. j), della medesima Direttiva (in tema di “Principi generali di bilancio”), il quale stabilisce che «non occorre rispettare gli obblighi di rilevazione, valutazione, presentazione, informativa e consolidamento previsti dalla presente direttiva quando la loro osservanza abbia effetti irrilevanti».

Alla luce di tale circostanza, si deve ritenere che la Direttiva abbia voluto introdurre un nuovo principio di redazione del bilancio e, cioè, la rilevanza; infatti, nei “ considerando” si precisa che «il principio della rilevanza dovrebbe regolare la rilevazione, la valutazione, la presentazione, l’informativa e il consolidamento nei bilanci» (n. 17).

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Tuttavia, onde evitare un’interpretazione troppo rigida di quanto disposto, la stessa Direttiva aggiunge che «il principio di rilevanza non dovrebbe pregiudicare eventuali obblighi nazionali relativi alla tenuta dei registri completi da cui r isultino le operazioni commerciali e la situazione finanziaria». Anche se, come si avrà modo di chiarire, la portata formale di tale disposizione risulta sterilizzata in tutti gli Stati membri, tra cui l’Italia, ove è obbligatoria la tenuta dei registri da cui debbano risultare i fatti amministrativi intervenuti nel corso dell’esercizio.

3.2. Le modifiche al Codice Civile. Come si è detto, il d.lgs. 139/2015 – nel recepire la direttiva 2013/34/UE – ha

introdotto rilevanti modifiche ai principi generali. In particolare, all’art. 2423 c.c. è stato aggiunto un nuovo comma 4 che prevede la possibilità di non rispettare gli obblighi di rilevazione, valutazione, presentazione e informativa quando la loro osservanza abbia effetti irrilevanti. Come evidenziato nella relazione illustrativa, con tale norma viene recepito il principio di rilevanza introdotto all’articolo 6, par. 1, lett. j), della direttiva comunitaria.

Viene in tal modo enunciato un principio di fatto già presente nel nostro ordinamento, attribuendo rango di legge al principio di significatività che già caratterizzava alcune disposizioni relative alla redazione e alla valutazione di determinate poste di bilancio: si pensi, ad esempio, all’art. 2427 comma 1, n. 10 che richiede l’indicazione nella nota integrativa, ove tale informazione risulti signif icativa, della ripartizione dei ricavi delle vendite e delle prestazioni secondo categorie di attività e secondo aree generiche. Ed infatti, come evidenziato dalla Relazione illustrativa, la novità si accompagna all’eliminazione dei riferimenti al principio di significatività contenuti nelle specifiche regole di informativa del codice civile, tra cui il menzionato art. 2427, comma 1, n. 10), c.c. relativo alla ripartizione geografica dei r icavi delle vendite e delle prestazioni.

Ma, l’introduzione del principio generale della rilevanza ha comportato anche l’eliminazione della norma di cui all’art. 2426, comma 1, n. 12), c.c., ai sensi della quale «Le attrezzature industriali e commerciali, le materie prime, sussidiarie e di consumo, possono essere iscritte nell’attivo ad un valore costante qualora siano costantemente rinnovate, e complessivamente di scarsa importanza in rapporto all’attivo di bilancio, sempreché non si abbiano variazioni sensibili nella loro entità, valore e composizione».

Ma vi erano anche altre norme che evocavano la materialità, quali: • l’irrilevanza: art. 2423-ter, comma 2, c.c. • l’apprezzabilità: artt. 2426, n. 10), e 2427, nn. 7) e 13), c.c. • la significatività: art. 2427, nn. 6-bis e 22-ter, c.c. • l’indicazione in nota integrativa delle operazioni realizzate con parti

correlate qualora le stesse fossero rilevanti e non concluse a normali condizioni di mercato: art. 2427, n. 22-bis, c.c..

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Si deve, quindi, ritenere che la modifica legislativa abbia accresciuto l’importanza del principio della materiality, ponendolo ad un livello superiore – quello dei principi generali per la redazione del bilancio – rispetto alla disciplina antecedente, in cui detto principio risultava frammentariamente esposto in varie norme, peraltro con terminologie differenti.

La formulazione della nuova norma sembrerebbe, ad una prima lettura, legittimare addirittura la non rilevazione in contabilità dei fatti di gestione ritenuti irrilevanti; tale interpretazione è però erronea, giacché la norma puntualizza che «rimangono fermi gli obblighi in tema di regolare tenuta delle scritture contabili». Ciò sta a signif icare che la decodif ica del criterio della rilevanza non mette in alcun modo in discussione gli obblighi relativi alla tenuta di una corretta contabilità, in linea con quanto espressamente chiarito dalla direttiva 2013/34/UE.

Più corretto appare, pertanto, pensare che il nuovo principio trovi applicazione, non tanto nel momento della rilevazione del fatto di gestione quanto, piuttosto, nella successiva valutazione che dello stesso deve essere fatta ai fini della rilevazione delle scritture di rettifica ed integrazione finalizzate alla chiusura dei conti annuali. Solo in tale sede sarebbe ammissibile omettere di valutare una data posta quando l’entità di tale valutazione fosse giudicata non rilevante. Si pensi, per fare un esempio, alla decisione di iscrivere o meno la svalutazione di un credito.

D’altronde, nel nuovo art. 2423 c.c. il principio della irrilevanza di una data informazione viene utilizzato espressamente per legittimarne l’esclusione dal bilancio, a condizione che da tale omissione non derivi un’alterazione della rappresentazione veritiera e corretta. Il che, oltretutto, impone di valutare la rilevanza tenendo conto del complesso delle informazioni omesse; ciò in quanto, anche se un’omissione isolatamente considerata potrebbe risultare irrilevante, non è detto che lo stesso accada quando nel bilancio si omettono più informazioni singolarmente ritenute irrilevanti.

L’ultima parte della norma in commento impone al redattore del bilancio di descrivere nella nota integrativa come è stata data attuazione alle prescrizioni dell’ intero comma 4, rendendo obbligatoria la giustificazione dell’esclusione dal bilancio delle informazioni r itenute non rilevanti. Alla luce di tale prescrizione, appare chiaro come l’irrilevanza di alcune informazioni non ne giustifichi affatto la rimozione dal bilancio, posto che le stesse, oltre alle motivazioni che ne hanno portato all’esclusione, dovranno comunque figurare in nota integrativa.

Ne consegue, che la prescrizione in oggetto sembra essere orientata – come, peraltro, previsto dalla Direttiva (v. supra) – dalla volontà di aumentare la leggibilità del bilancio, in particolare dello stato patrimoniale e del conto economico, omettendo da tali documenti quelle informazioni che ne appesantirebbero inutilmente il contenuto e riservandone l’esposizione alla sola nota integrativa, nell’ottica di ottenere una maggiore chiarezza del bilancio nel suo complesso.

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3.3. La riforma delle false comunicazioni sociali. 3.3.1. Premessa. Come si è detto, la l. 27 maggio 2015, n. 69 (“Disposizioni in materia di delitti

contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio”), ha introdotto rilevanti modifiche alle Disposizioni penali in materia di società e consorzi, sostituendo gli artt. 2621 e 2622 c.c. e introducendo gli artt. 2621-bis e 2621-ter.

Rispetto alla disciplina previgente, la riforma distingue tra falso in bilancio di società non quotate e falso in bilancio di società quotate, sanzionando entrambe le fattispecie come delitto. Viene prevista inoltre, per le società non quotate, una ipotesi attenuata del reato, nonché uno specifico caso di non punibilità per lieve entità dell’illecito.

3.3.2. L’art. 2621 c.c.. Il nuovo art. 2621 c.c. prevede che i medesimi soggetti di cui alla previgente

normativa, i quali «consapevolmente espongono fatti materiali r ilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni».

Oltre al passaggio da contravvenzione a delitto, i principali elementi di novità del nuovo reato di falso in bilancio di cui articolo 2621 c.c. sono i seguenti:

• scompaiono le soglie di non punibilità, previste dal terzo e quarto comma dell’art. 2621 c.c..

• viene modificato il riferimento al dolo: in particolare, permane il fine del conseguimento per sé o per altri di un ingiusto profitto, ma viene meno “ l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico”, mentre è esplicitamente introdotto nel testo il riferimento alla consapevolezza delle falsità esposte. In quanto delitto, anziché contravvenzione, il falso in bilancio di cui al nuovo art. 2621 c.c. dovrebbe comunque presumere il dolo e quindi la consapevolezza di commettere un reato. Inoltre, il nuovo testo conferma anche il dolo specifico relativo all’ingiusto profitto, elemento che richiede una consapevolezza ulteriore dell’ illiceità della condotta;

• viene eliminato il r iferimento all’omissione di “informazioni”, sostituito da quello all’omissione di “fatti materiali rilevanti”, la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene;

• viene introdotto l’elemento oggettivo ulteriore della “concreta” idoneità dell’azione o omissione ad indurre altri in errore.

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Il riferimento dell’art. 2621 c.c. alle modalità del falso – ovvero al fatto che debba essere «concretamente idoneo a indurre altri in errore» – pare collegato alla scomparsa delle soglie di punibilità, nonché alla previsione delle ipotesi di lieve entità e particolare tenuità (di cui ai nuovi artt. 2621-bis e 2621-ter c.c.).

3.3.3. Il nuovo art. 2621-bis c.c.. Come si è detto, la riforma ha introdotto nel Codice Civile due ulteriori

disposizioni dopo l’articolo 2621: gli articoli 2621-bis (“ Fatti di lieve entità”) e 2621-ter (“Non punibilità per particolare tenuità”).

L’art. 2621-bis c.c. disciplina l’ipotesi in cui il falso in bilancio di cui all’art. 2621 c.c. è costituito da fatti “di lieve entità” («salvo che costituiscano più grave reato»). Tale fattispecie, punita con la reclusione da sei mesi a tre anni (fatta salva la non punibilità per particolare tenuità del fatto: v. infra, nuovo art. 2621-ter c.c.) viene qualificata dal giudice tenendo conto:

• della natura e delle dimensioni della società; • delle modalità o degli effetti della condotta.

Analoga sanzione si applica – in base al secondo comma del nuovo articolo 2621-bis c.c. – anche nel caso in cui le falsità o le omissioni riguardano società che non superano i limiti indicati dal secondo comma dell’art. 1 della legge fallimentare. Si tratta, quindi, delle società che, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, dimostrino il possesso congiunto dei tre seguenti requisiti:

• un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;

• ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;

• un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

In tal caso, il delitto è procedibile a querela della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale.

La sanzione ridotta, prevista dal secondo comma dell’articolo in esame per le specifiche tipologie di società più piccole, costituisce pertanto una presunzione assoluta, introdotta direttamente dalla legge, circa la sussistenza del fatto di lieve entità e l’applicabilità della relativa sanzione.

Le condotte che interessano società di dimensioni maggiori rispetto a quelle indicate nel secondo comma possono comunque rilevare ai f ini della lieve entità in base ad una valutazione del caso concreto, operata dal giudice in applicazione del primo comma, in cui – come si è detto – debbono comunque essere valutate anche le dimensioni della società.

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3.3.4. Il nuovo art. 2621-ter c.c.. Il nuovo articolo 2621-ter c.c. prevede che, ai f ini della non punibilità prevista

dall’art. 131-bis c.p. per particolare tenuità dell’ illecito (disposizione introdotta dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28), il giudice valuti, in modo prevalente, l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori dal falso in bilancio di cui agli artt. 2621 e 2621-bis.

Al proposito, pare utile rammentare che la Corte di Cassazione, in due recentissime sentenze rese a Sezioni Unite9, ha preso in considerazione la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto disciplinata dall’art. 131-bis c.p., precisando che non esiste «un’offesa tenue o grave in chiave archetipica»: è la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore.

Più in particolare, la Suprema Corte attribuisce rilievo al riferimento testuale alle modalità della condotta, sottolineando che la nuova normativa non si interessa della condotta tipica, bensì ha riguardo alle forme di estrinsecazione del comportamento, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena.

Le Sezioni Unite ritengono, quindi, ingiustificato il dubbio da più parti sollevato relativamente all’applicabilità della norma di carattere generale – contenuta, per l’appunto, nell’art. 131-bis c.p. – alle fattispecie nelle quali la misurazione sia stata espressa direttamente dal legislatore attraverso l’individuazione di soglie, fasce di rilevanza penale o di graduazione dell’entità dell’illecito. Un tale dubbio è, infatti, determinato dal richiamo improprio al principio di offensività, che – secondo i Giudici di legittimità – non deve qui entrare in gioco, poiché l’esiguità del disvalore deve essere unicamente frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza; e ciò vale anche in presenza delle soglie di punibilità, che di per sé indicano il minimo disvalore del fatto stesso.

La Suprema Corte conclude affermando – tuttavia – che quanto più ci si allontana dal valore-soglia tanto più è verosimile che ci si trovi in presenza di un fatto non specialmente tenue; tuttavia, nessuna conclusione può essere tratta in astratto, senza considerare cioè le peculiarità del caso concreto.

3.3.5. L’art. 2622 c.c.. La disciplina di riforma ha modificato anche l’art. 2622 c.c., precedentemente

relativo alla “fattispecie di false comunicazioni sociali in danno della società, dei soci o dei creditori”. Tale fattispecie è stata sostituita dal delitto di “false comunicazioni sociali delle società quotate” – individuate dal nuovo art. 2622, comma 1, c.c., come le società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato

9 Cass. SS.UU., 6 aprile 2016, nn. 13681 e 13682.

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regolamentato italiano o di altro Paese della UE –, sanzionato con la pena della reclusione da tre a otto anni.

I soggetti attivi del reato sono gli stessi di cui al precedente art. 2622 c.c., ovvero amministratori, direttori generali, dir igenti addetti alla predisposizione delle scritture contabili, sindaci e liquidatori, con la differenza che – ora – si tratta di ruoli ricoperti in società quotate.

La condotta illecita per il falso in bilancio nelle società quotate consiste nell’esporre consapevolmente fatti materiali non rispondenti al vero, ovvero omettere fatti materiali “rilevanti” la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene in modo concretamente idoneo a indurre altri in errore sulla situazione economica della società.

I principali elementi di novità del nuovo falso in bilancio delle società quotate di cui articolo 2622, comma 1, c.c. – che parzialmente coincidono con quelli di cui all’art. 2621 c.c. – sono i seguenti:

• la fattispecie è configurata come reato di pericolo, anziché di danno; scompare, infatti, ogni riferimento al danno patrimoniale causato alla società;

• le pene sono aumentate (reclusione da tre a otto anni, anziché da uno a quattro anni);

• scompaiono, come nel falso in bilancio delle società non quotate, le soglie di non punibilità (previste dai commi 4 ss. del previgente art. 2622 c.c.);

• è anche qui modif icato il riferimento al dolo (permane il fine del conseguimento per sé o per altri di un ingiusto profitto, ma viene meno “ l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico”, mentre è esplicitamente introdotto nel testo il riferimento alla consapevolezza delle falsità esposte);

• è eliminato il r iferimento all’omissione di “informazioni”, sostituito da quello all’omissione di “fatti materiali rilevanti” (la cui comunicazione è imposta dalla legge) sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene;

• è introdotto, come nell’art. 2621 c.c., l’elemento oggettivo ulteriore della “ concreta” idoneità dell’azione o omissione ad indurre altri in errore.

3.3.6. Segue. Il quadro d’insieme. In sintesi, sul piano penale, condotte concretamente idonee a indurre altri in

errore nelle comunicazioni sociali possono quindi condurre: • all’applicazione della pena della reclusione da uno a cinque anni (da tre a

otto anni per le quotate), in presenza di errori “rilevanti”;

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• all’applicazione della pena da sei mesi a tre anni, ove i fatti siano di lieve entità, tenuto conto di una serie di elementi oppure quando si riferiscano a società di minori proporzioni;

• alla non punibilità per particolare tenuità, in base alla valutazione del giudice, prevalentemente incentrata sull’entità del danno.

3.3.7. La rilevanza penale del falso qualitativo. Le “falsità” inserite nel bilancio che non riguardano l’entità delle poste iscritte,

bensì la loro qualif icazione – e, cioè, l’ ipotesi in cui il mendacio non è l’importo ma la sua classificazione in bilancio – sono state oggetto di differenti interpretazioni, sia in dottrina sia in giurisprudenza.

Si tratta dei casi in cui la rappresentazione adottata nel bilancio e nelle altre comunicazioni sociali non incide sul risultato finale, ma che di fatto – mediante appostazioni contabili non corrette – altera la percezione da parte dei terzi della situazione economica, finanziaria o patrimoniale della società10. Quindi, “ numericamente” non vi è stata alcuna alterazione ai dati complessivi di bilancio, il quale tuttavia – pur contenendo dati numerici sostanzialmente veritieri e, quindi, evidenziando correttamente l’utile, il totale delle attività o delle passività, l’indebitamento complessivo, l’utile operativo, ecc. – presenta alcuni costi (o ricavi o componenti patrimoniali) classificati in modo errato o quantomeno improprio.

Non pare ci possano essere dubbi sul fatto che una simile condotta sia penalmente rilevante a seguito della riforma delle false comunicazioni sociali, ferma restando la ricorrenza delle altre condizioni r ichieste.

10 Ci possono essere esempi di errate appostazioni contabili che non alterano il risultato complessivo: basti pensare, per esempio, alla scorretta classi ficazione di un debito verso soci per finanziamento nelle poste di patrimonio netto sotto la voce degli apporti, che altera completamente la valutazione di una società senza peraltro cambiare il totale del passivo. Un altro esempio può essere riferito alle poste dei debiti: gli schemi di bilancio chiedono di classificare i debiti in funzione del loro orizzonte di scadenza, distinguendo quelli a breve da quelli a lungo. Pensiamo al caso, spesso ricorrente, delle società che hanno negoziato il debito a lungo con le banche, e negli accordi di concessione delle linee di credito vi sono degli importanti impegni in termini di risultati da raggiungere (covenant) nelle diverse s fere aziendali (patrimoniale, economica, finanziaria). Spesso le clausole prevedono al mancato rispetto dei covenant il diritto, per l’ente finanziatore, di chiedere l’immediata restituzione del credito, anche se la scadenza nominale resta a medio-lungo termine. Pertanto se l’andamento societario procede in modo regolare, i covenant risultano rispettati, e quindi è corretto che i debiti a lunga scadenza rimangano classi ficati in questa voce; quando invece accade che la società al momento di redazione del bilancio già conosce il fatto che i vincoli non sono rispettati, questi debiti devono essere correttamente r iclassi ficati tra le poste con scadenza a breve. Se ciò non viene fatto, siamo in presenza di un’alterazione della rappresentazione contabile che comporta nel lettore una diversa percezione della situazione finanziaria della società.

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Come si è detto, infatti, la fattispecie sanzionata riguarda la consapevole esposizione di fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero l’omissione di fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo a indurre altri in errore. E, nella nozione di “ fatto materiale” rientrano tutti i dati oggettivi che attengono alla realtà economica, patrimoniale e f inanziaria della società; con la conseguenza che un’errata consapevole classificazione di una posta di bilancio conduce a un fatto materiale non rispondente al vero.

Per fare un esempio, una somma iscritta in bilancio quale spesa di rappresentanza, ma in realtà utilizzata per pagare una tangente, deve ritenersi fatto materiale non rispondente al vero secondo i canoni ermeneutici utilizzati dalla Suprema Corte. E la rilevanza penale di questo come di altri falsi qualitativi dipende non tanto dalla sussistenza del fatto materiale non rispondente al vero, ma dalla verif ica delle altre circostanze previste dalla fattispecie.

3.3.8. La rilevanza civilistica degli errori di carattere qualitativo. Dal punto di vista civilistico, la questione è molto più semplice: gli errori di

carattere qualitativo, se rilevanti, configurano quantomeno una violazione del principio della chiarezza, circostanza che – sulla base dell’orientamento ormai granitico della giurisprudenza – conducono inesorabilmente alla nullità della delibera di approvazione del bilancio.

Ma, nella maggior parte dei casi, gli errori di carattere qualitativo configurano anche una violazione dei principi di veridicità e di correttezza, determinando la stessa sanzione.

3.4. La riforma del sistema penale tributario. Come noto, la previgente normativa considerava non punibili le valutazioni

estimative che, singolarmente considerate, differissero in misura inferiore al dieci per cento da quelle corrette. Inoltre, degli importi compresi in tale percentuale non si teneva conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità.

In particolare l’art. 7 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (in tema di “Rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio”), stabiliva che «non danno luogo a fatti punibili a norma degli articoli 3 e 4 (n.d.r. “Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e dichiarazione infedele”) le rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, ma sulla base di metodi costanti di impostazione contabile, nonché le rilevazioni e le valutazioni estimative rispetto alle quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio» e che «in ogni caso, non danno luogo a fatti punibili a norma degli articoli 3 e 4 le valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in

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misura inferiore al dieci per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste nel comma 1, lettere a) e b), dei medesimi articoli».

Il d.lgs. n. 158 del 2015 ha abrogato tale articolo e ha, invece, introdotto il nuovo comma 1-bis all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, confermando la tolleranza del 10% in merito agli elementi attivi non dichiarati, limitatamente alla fattispecie di dichiarazione infedele e non più per la dichiarazione fraudolenta, e ha aggiunto che non si deve tener conto, ai fini dell’imposta evasa, «della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali».

Il d.lgs. n. 158 del 2015 ha, inoltre, introdotto il nuovo comma 1-ter all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, prevedendo che «in ogni caso, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma l, lettere a) e b)». In sostanza, si prevede che degli importi compresi entro lo “scarto tollerato” non debba tenersi conto (anche quando lo scarto complessivo eccedesse il limite del 10%) nella verifica del superamento delle soglie di punibilità del delitto di dichiarazione infedele.

4. Gli effetti sulla legittimazione alle modifiche del progetto di bilancio. 4.1. Premessa. Il tema della rilevanza deve essere opportunamente affrontato anche con

riguardo alla questione ampiamente dibattuta se l’assemblea abbia il potere di apportare modifiche al progetto di bilancio e, in caso affermativo, se tale potere incontri limiti intrinseci od estrinseci.

E’ subito da dire che il legislatore non affronta la questione nella disciplina delle società cd. “ordinarie” – tema in relazione al quale vi sono posizioni contrastanti in dottrina e, a quanto consta, soltanto due pronunce giurisprudenziali, anch’esse difformi –, mentre detta una disposizione per le società quotate.

4.2. La modificazione del progetto di bilancio da parte dell’assemblea. 4.2.1. Il dato normativo. Il riferimento normativo circa l’approvazione del bilancio d’esercizio è

contenuto nell’art. 2364, comma 1, n. 1), c.c., il quale prevede che nelle società prive del consiglio di sorveglianza – cioè nelle società che adottano il modello di amministrazione e controllo tradizionale e monistico –, tale attività spetti all’assemblea ordinaria, mentre nelle società che adottano il sistema di amministrazione e controllo

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dualistico, l’approvazione del bilancio d’esercizio compete al consiglio di sorveglianza (art. 2409-terdecies c.c.).

Pur nell’ambito di un disciplina che può certamente considerarsi ampia ed articolata, il legislatore – come si è detto – non affronta la questione della modificabilità del progetto di bilancio da parte dell’assemblea chiamata ad approvarlo, limitandosi a dettare – per le sole società quotate in mercati regolamentati – una disciplina che indubbiamente pare legittimarla. Infatti, l’art. 77, comma 3, Regolamento Emittenti, prevede che «Entro trenta giorni dall’assemblea o dal consiglio di sorveglianza convocati per l’approvazione del bilancio e con le modalità previste dal comma 1, le società indicate nel comma 1 mettono a disposizione del pubblico il verbale dell’assemblea ovvero della riunione del consiglio di sorveglianza. Nel caso in cui l’assemblea ovvero il consiglio di sorveglianza abbia deliberato modifiche al bilancio, il bilancio modificato è messo a disposizione del pubblico presso la sede sociale e con le modalità indicate dagli articoli 65-bis, comma 2, 65-quinquies, 65-sexies e 65-septies, entro tre giorni dall’assemblea ovvero dalla riunione del consiglio di sorveglianza».

In tale contesto si collocano le posizioni, non univoche, di dottrina e giurisprudenza.

4.2.2. La posizione della dottrina. Secondo un primo orientamento, se si ammettesse la possibilità in capo

all’assemblea di modif icare il bilancio, si sottrarrebbe all’organo amministrativo una competenza esclusiva, poiché il documento contabile verrebbe predisposto da un organo differente (l’assemblea, appunto), ciò che comporterebbe, di fatto, una delega di attribuzioni. Tale delega – non ammessa all’interno dell’organo amministrativo (v. supra) – diverrebbe così lecita nei confronti dell’assemblea, organo estraneo a quello legislativamente deputato a svolgere tale attività11.

Al riguardo, parte della dottrina pone in dubbio che l’assemblea abbia il potere di modificare essa stessa il bilancio: l’abrogato Codice di Commercio era esplicito nel senso che l’assemblea potesse: «discutere, approvare o modificare il bilancio» (art. 154, n. 1), cod. comm.). Tale norma era collocata in un contesto normativo in cui l’assemblea era considerata l’organo sovrano della società per azioni, investito di tutti i poteri sociali, incluso – fra questi – anche quello di sostituire proprie valutazioni alle valutazioni fatte dagli amministratori nel progetto di bilancio. Per il vigente codice civile l’assemblea non è più l’organo sovrano della società: ha competenza speciale, limitata alle specifiche materie ad essa attribuite. Le è consentito approvare o 11 Cfr. B. LIBONATI , Corso di diritto commerciale, Giuffrè, Milano, 2009 (e già in Formazione del bilancio, pagg. 33 ss. e 91 ss.), sul presupposto che il bilancio sia “atto degli amministratori” sottratto al potere dispositivo dell’assemblea. R. CAVALLO BORGIA, L’impugnativa del bilancio certificato dalla società di revisione, Milano, 1981, pag. 155.

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disapprovare in blocco il bilancio proposto dagli amministratori e, cioè, approvare o disapprovare la politica di bilancio praticata da questi ultimi; non le è, invece, consentito perseguire una propria politica di bilancio, in sostituzione degli amministratori12.

L’orientamento prevalente, invece, muove dal presupposto secondo cui – prima della deliberazione assembleare di approvazione del documento di bilancio – esiste esclusivamente un “progetto di bilancio”, che diventa bilancio vero e proprio solo a seguito dell’approvazione. Deve, quindi, essere riconosciuto all’assemblea il potere di modificare il progetto iniziale predisposto dall’organo amministrativo. Ma ciò implicherebbe l’approvazione di un documento differente rispetto a quello iniziale. Infatti, l’assemblea – che non approva il progetto di bilancio presentato dagli amministratori – non è in grado di modificare il progetto di bilancio dell’organo amministrativo e di predisporne, in via immediata, uno nuovo; deve, quindi, limitarsi a fissare i criteri ai quali il nuovo documento di bilancio dovrà necessariamente ispirarsi. Il “ vecchio” progetto di bilancio ritorna, pertanto, all’organo amministrativo, che ha l’obbligo di redigerne uno differente, ispirato ai criteri dettati dall’assemblea13.

Il Codice Civile, sul punto, è sufficientemente chiaro, specie se si compara la norma vigente con quella contenuta nel Codice di Commercio; e non è sufficiente, per attribuire alla norma ciò che la stessa (espressamente) non dice, osservare che il bilancio è opera dell’assemblea, «massimamente poi quando ci si accorge che la definizione del bilancio come opera dell’assemblea è raggiunta utilizzando come premessa proprio ciò che si dovrebbe dimostrare, e cioè che l’assemblea può modificare il progetto di bilancio»14.

4.2.3. La posizione della giurisprudenza. La giurisprudenza si è, anzitutto, interrogata sulla natura delle deliberazioni

assembleari, affermando che le stesse – compresa quella di approvazione del bilancio – non costituiscono mere dichiarazioni di scienza e – allo stesso tempo – non possono essere considerate come atti unilaterali ed interni, intesi a regolare rapporti intersoggettivi, anche se si tratta di atti in cui rileva la volontà posta alla base della formazione della deliberazione stessa15.

Sul tema dell’efficacia della deliberazione di approvazione del bilancio d’esercizio, la giurisprudenza ha inoltre affermato che la stessa – se regolarmente assunta – ha efficacia vincolante per tutti i soci e, quindi, anche per quelli dissenzienti,

12 F. GALGANO, Diritto commerciale. Le società, Bologna, 2013, pag. 272. 13 B. QUATRARO, Il bilancio d’esercizio, Milano, 1989, pag. 59 ss.; G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 2. Diritto delle società, Milano, 2015, pag. 478. 14 G.E. COLOMBO, Il bilancio d’esercizio delle società per azioni, Torino, 1994, pag. 330. 15 Cass. 27 febbraio 2001, n. 2832, in A. MAURO - M. MEOLI - M. NEGRO, Gli amministratori, Disciplina civilistica, fiscale e previdenziale, Milano, 2007.

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che non abbiano proceduto in modo tempestivo all’impugnazione, conclusasi con successo, nonché per quelli assenti16.

Il tema della modificabilità del progetto di bilancio da parte dell’assemblea – a quanto consta – è stato affrontato soltanto in due pronunce, peraltro contrastanti.

Il Tribunale di Milano17 ha affermato che «debbono ritenersi legittime le modifiche apportate al progetto di bilancio nell’iter della sua approvazione ed in particolare durante la discussione in assemblea, le quali, ove non siano di tali complessità da farne un documento sostanziale “nuovo”, non richiedono di ripercorrere l’intera fase disciplinata dall’art. 2429 del codice civile».

Il principio affermato si pone in una “via di mezzo” tra gli orientamenti dottrinali in precedenza richiamati (v. supra): infatti all’affermazione iniziale secondo cui l’assemblea sarebbe legittimata a modif icare il progetto di bilancio, segue la precisazione che nega la possibilità di apportare modifiche sostanziali.

Pertanto, la citata affermazione di principio non consente di risolvere pienamente il problema, in quanto non stabilisce quali siano le modifiche che possano essere qualificate come “non sostanziali” e, quindi, ammissibili in sede di approvazione del bilancio d’esercizio.

In senso diametralmente opposto, il Tribunale di Palermo18 ritiene non condivisibile la tesi della modificabilità del progetto di bilancio da parte dell’assemblea, sul riflesso che – ove l’assemblea modificasse i dati contenuti nei prospetti di conto (stato patrimoniale e conto economico) – si verrebbe a determinare una grave dissonanza fra questi ultimi e la nota integrativa, pregiudicando la corretta informazione dei soci.

Il Tribunale – a sostegno delle proprie argomentazioni – osserva inoltre come l’art. 2364 c.c., preveda che l’assemblea possa soltanto “approvare il bilancio”; di contro il previgente Codice di Commercio, all’art. 154, indicava fra i compiti dell’assemblea anche la discussione, l’approvazione o la modifica del bilancio: tale modifica legislativa – secondo il Tribunale di Palermo – costituirebbe un ulteriore elemento interpretativo e sostegno della tesi della immodificabilità da parte dell’assemblea.

A ciò si aggiunga il fatto che, in presenza di vizi di contenuto (del bilancio) o di procedimento, la relativa responsabilità non ricade sull’assemblea che ne ha deliberato l’approvazione: l’art. 2434 c.c. prevede infatti che: «L’approvazione del bilancio non implica liberazione degli amministratori, dei direttori generali, dei dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari e dei sindaci per le responsabilità incorse

16 Cass. 19 ottobre 2006, n. 22475 in Rep. Foro. It., 1997; ID. 10 novembre 2005, n. 21831, in Le prove civili , 2010, pag. 287. 17 Trib. Milano 21 luglio 1997, in Giur. It., 1, 1998, pag. 114. 18 Trib. Palermo 10 aprile 2000, in Diritto & Diritti , 2001.

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nella gestione sociale». Pertanto, l’approvazione del bilancio non implica una dichiarazione di soddisfacimento – da parte dei soci – in ordine all’operato degli amministratori, che hanno condotto ai risultati contenuti proprio nel bilancio d’esercizio. In altri termini, la delibera di approvazione del bilancio d’esercizio – in difetto di una espressa previsione all’interno dell’ordine del giorno – non determina, in via automatica, l’approvazione degli atti gestori posti in essere dall’organo amministrativo; quest’ultimo, infatti, rimane esposto alla responsabilità per eventuali irregolarità commesse nello svolgimento degli atti gestori19.

4.3. Conclusioni. Se, come evidenziato, prima della deliberazione esiste esclusivamente un

“ progetto” di bilancio, che diventa bilancio solo a seguito dell’approvazione, pare lecito – almeno in linea di principio – il r iconoscimento all’assemblea del potere di modificare il progetto di bilancio.

La legittimazione dell’assemblea è, inoltre, riconosciuta dallo stesso legislatore per le società quotate in mercati regolamentati, ove si prevede espressamente che – nel caso in cui l’assemblea ovvero il consiglio di sorveglianza abbia deliberato modif iche al bilancio – questi ultimi mettano a disposizione del pubblico presso la sede sociale il bilancio modif icato.

Anzi, il dettato normativo induce a ritenere che l’assemblea non debbano necessariamente limitarsi a segnalare le irregolarità all’organo amministrativo, il quale sarebbe poi chiamato a porvi rimedio, ma che sia la stessa assemblea ad apportare le rettifiche.

Purtroppo, la norma non stabilisce se esistono limiti al potere dell’assemblea ovvero se la stessa possa apportare modifiche anche di rilevanza signif icativa.

Nel silenzio legislativo, pare allora corretto operare una distinzione fra modifiche significative e modifiche non significative. La linea di demarcazione potrebbe essere quella delineata dal Tribunale di Milano (v. supra): cioè quelle che siano o non siano «tali complessità da farne un documento sostanziale “nuovo”».

Nel primo caso, l’assemblea potrebbe apportare direttamente le modif iche; nel secondo caso, l’assemblea dovrebbe trasmettere le “osservazioni” all’organo amministrativo, il quale sarà obbligato – sotto la propria responsabilità – a predisporne uno nuovo, ispirandosi ai “criteri” fissati dall’assemblea stessa.

Il nuovo documento, pertanto, sarà assoggettato al procedimento di formazione e approvazione ordinario, che coinvolgerà altresì gli altri organi sociali, ed in particolare il collegio sindacale e il soggetto incaricato della revisione legale dei conti (ove presente), secondo quanto disciplinato dall’art. 2429 c.c..

19 Cass. 9 gennaio 2004, n. 10895, in Impresa, 9, 2006, pag. 1326.

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Ma, pur ritenendo la soluzione appagante in termini generali, occorrerebbe individuare un criterio di selezione delle modifiche signif icative e di quelle non signif icative.

Al proposito, si potrebbe ritenere che – nel contesto attuale – l’assemblea abbia il potere di apportare le modifiche non “rilevanti” e non invece quelle per le quali la loro omissione o errata indicazione «potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio d’impresa».

5. Considerazioni conclusive. L’O.I.C. 29 attualmente in vigore contiene i seguenti principi: • «L’errore contabile è una rappresentazione qualitativa e/o quantitativa non

corretta di un dato di bilancio e/o di un’informazione fornita in nota integrativa. Un errore consiste, quindi, nella impropria o mancata applicazione di un principio contabile se, al momento in cui viene commesso, le informazioni ed i dati necessari per la sua corretta applicazione sono disponibili. Possono verificarsi errori a causa di errori matematici, di erronee interpretazioni di fatti, di negligenza nel raccogliere tutte le informazioni ed i dati disponibili per un corretto trattamento contabile».

• «Gli errori marginali o addirittura irrilevanti non possono essere assimilati a quegli errori che invece arrecano pregiudizio alla conformità del bilancio con il postulato della rappresentazione veritiera e corretta».

• «Data l’estrema varietà delle possibili fattispecie, non è possibile definire le soglie di significatività e rilevanza di un errore che possano determinare la non conformità al postulato della rappresentazione veritiera e corretta prevista dall’articolo 2423, comma 2. Una simile conclusione dipende da un complesso di circostanze che variano sensibilmente di caso in caso: possono aversi errori che, pur non essendo rilevanti sul piano quantitativo, lo sono tuttavia sul piano qualitativo. In altri casi, possono aversi errori che, pur non essendo rilevanti di per sé, lo divengono a causa delle conseguenze che si sarebbero avute qualora non fossero stati commessi».

Il 19 aprile 2016 è stata posta in consultazione una nuova versione dell’O.I.C. 29, che – al f ine di garantire un opportuno allineamento con lo I.A.S. 8 – stabilisce che:

• «L’errore è una rappresentazione qualitativa e/o quantitativa non corretta di un dato di bilancio e/o di un’informazione fornita in nota integrativa».

• «Un errore consiste nell’impropria o mancata applicazione di un principio contabile se, al momento in cui viene commesso, le informazioni ed i dati necessari per la sua corretta applicazione sono disponibili. Possono verificarsi errori a causa di errori matematici, di erronee interpretazioni di fatti, di negligenza nel raccogliere le informazioni ed i dati disponibili per un corretto trattamento contabile».

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• «Un errore è rilevante se può individualmente, o insieme ad altri errori, influenzare le decisioni economiche che gli utilizzatori assumono in base al bilancio. La rilevanza di un errore dipende dalla dimensione e dalla natura dell’errore stesso ed è valutata a seconda delle circostanze».

Certamente gli errori possono riguardare sia la classificazione delle voci s ia la loro valutazione e, al proposito, la recentissima sentenza della Corte di Cassazione, a Sezioni Unite20, sembra fornire una soluzione applicabile anche in sede civilistica: infatti, «Il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo all’esposizione o all’omissione di fatti oggetto di “valutazione”, sussiste se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente si discosti da tali criteri consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari delle comunicazioni». Dunque, gli errori valutativi vengono in evidenza ogni volta che l’impresa si sia «discostata consapevolmente e senza darne adeguata giustificazione» dai criteri di valutazione fissati dalle norme civilistiche e dalle prassi contabili generalmente accettate, «in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari delle comunicazioni».

Rimane comunque la centralità del tema della “rilevanza”, potendosi affermare che vi sia una tendenza, sul piano sia societario sia penale, alla tolleranza nei confronti delle valutazioni non corrette; queste, ove non eliminate, vengono infatti ricondotte ad una dimensione di “rilevanza”, che d’altronde richiama quanto stabilito dal Codice Civile in tema di nullità della delibera di bilancio, prevista solo quando «i difetti di distinzione e di analisi sono tali da compromettere effettivamente la funzione informativa del bilancio, con effettivo pregiudizio per i soci e per i terzi»21; per contro «non inficiano la validità del documento le irregolarità di scarsa importanza e le omissioni di trascurabile valore economico che non influenzano apprezzabilmente la rappresentazione della situazione economica e patrimoniale della società»22.

Gli errori nelle valutazioni assumono, inoltre, rilevanza sul piano penale tributario, a condizione che non ricorra taluna delle cause di non punibilità; anche se pare ragionevole ritenere che la rilevanza degli errori valutativi di rilevanza civilistica e penale societaria si collochi – nella maggior parte dei casi – al disotto delle soglie penali tributarie, con la conseguente maggiore tutela degli stakeholder considerati in via generale rispetto all’Amministrazione Finanziaria, che potrebbe comunque ricorrere al rimedio tributario.

20 Cass., S.U., ud. 31 marzo 2016, Informazione provvisoria n. 7 21 G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale. 2. Diritto delle Società, Torino, 2015, pag. 480. 22 G. COTTINO, Diritto societario, Padova, 2011, pag. 524.

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L'ESCLUSIONE DEL SOCIO DI S.R.L. - RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA E

ORIENTAMENTI NOTARILI FRA TEORIA E PRATICA

Il contributo si sofferma, in particolare, sugli orientamenti notarili in materia di

esclusione del socio di s.r.l. e sui riflessi in materia redazionale. Lo scritto si sofferma, inoltre, sulla sorte delle clausole che ancorano l'esclusione del socio alla sottoposizione

di procedure concorsuali.

di LORENZO SALVATORE 1. L'i stituto

L'esclusione del socio di società a responsabilità limitata è una novità della riforma del diritto societario del 2003. L'art. 2473-bis c.c. consente ora di introdurre nello statuto di una s.r.l. cause di esclusione (convenzionali), in ossequio allo spirito di favor verso l'autonomia statutaria nelle s.r.l..

La c.d. esclusione convenzionale non va confusa con quella specifica causa legale di esclusione (cd. mora del socio), disciplinata espressamente al 2466 c.c., che si verifica allorché il socio sia inadempiente nei confronti della società all’obbligo di eseguire i conferimenti dovuti alla società stessa1 (c.d. socio moroso). Con il nuovo art. 2473-bis c.c. il legislatore ha concesso all'autonomia statutaria grandi spazi di intervento, consacrando la centralità della persona e della rilevanza del socio; il tutto però con due ordini di limiti: da un lato, che le cause di esclusione convenzionali devono essere specifiche, dall'altro gli stessi motivi di esclusione devono essere sorretti da una “giusta causa”. Nel commento dell’art. 2473-bis c.c. è stato da più voci posto in evidenza, in maniera critica, l’"ermetismo” del legislatore, che non ha disciplinato le cause di

1 Si osserva, da parte della dottrina, come l’ipotesi di cui all’art. 2466 c.c. sia connotata da autosufficienza, poiché a fronte dell’inadempimento del socio ad eseguire i conferimenti dovuti, ne consegue una disciplina del tutto diversa rispetto a quella relativa alle cause statutarie di esclusione; in tal senso, M. MALTONI , Il recesso e l’esclusione nella nuova società a responsabilità limitata, in Notariato, 2003, 3, pag. 315.

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esclusione2, rimettendo con tale scelta legislativa all’operatore del diritto il compito di delineare l’ambito applicativo della norma in esame. 2. Interessi in gioco L'interprete di fronte ad una norma come l'art. 2473-bis c.c. deve in primis verificare quali sono gli interessi in gioco. Occorre anzitutto distinguere, da una parte, tra quelli che si potrebbero chiamare " interessi interni", e, dall'altra, quelli che si potrebbero definire " interessi esterni". La norma in commento dà rilievo ad entrambi. Con riferimento agli interessi esterni (in particolare dei creditori sociali), viene in rilievo, partendo proprio dal dato testuale della disposizione in commento (secondo cui è " [...] esclusa la possibilità del rimborso della partecipazione mediante riduzione del capitale sociale") la esigenza di tutela dell' integrità del capitale sociale. La protezione trova attuazione in ragione dei limiti al procedimento di liquidazione: "inattuabilità mediante il trasferimento al socio escluso di elementi dell'attivo che non trovino contropartita nelle riserve disponibili, e dunque mediante la riduzione del capitale sociale"3 Con riferimento, invece, agli interessi interni, acquista rilevanza sia il requisito della specificità che quello della giusta causa. Dottrina e giurisprudenza hanno da tempo chiarito che il dato letterale della norma ha inteso permettere all’autonomia statutaria di accentuare il sostrato personale nell’ambito del carattere capitalistico della s.r.l., introducendo anche per detto tipo societario la possibilità che lo statuto preveda la facoltà dei soci di escludere uno di essi, subordinandola tuttavia alla specifica predeterminazione di fattispecie tipizzate di giusta causa, allo scopo di evitare che la decisione possa di volta in volta per volta esser

2 Parla di “tecnica legislativa minimalista” F. MAGLIULO , Il recesso e l’esclusione, in La riforma della società a responsabilità limitata, a cura di Caccavale, Magliulo, Maltoni, Tassinari, Milano, 2007, pag. 296. 3 V. CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, Studio n. 212-2008/I, La disciplina statutaria dell'esclusione del socio nella società a responsabilità limitata (Approvato dalla Commissione studi d'impresa il 18 giugno 2009). E' questa la sede per rammentare come, contrariamente a quanto previsto in tema di esclusione, nel recesso è contemplata, sia pure come ipotesi estrema, anche la possibilità di ridurre il capitale sociale, nel rispetto della normativa in materia di riduzione volontaria del capitale sociale, postulando l'applicabilità di tutta quella disciplina che governa il dirit to di opposizione dei creditori sociali. Diversamente ancora, al termine del procedimento di cui all'art. 2466 è sì prevista - sia pur anche in questa circostanza come extrema ratio - la (necessaria) riduzione del capitale sociale, ma in ragione del principio di effett ività del capitale sociale, occorrerà adeguare il capitale nominale a quello effett ivamente versato.

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riempita con una valutazione (eccessivamente) discrezionale da parte della maggioranza. Al riguardo è bene evidenziare la differenza sostanziale tra la disciplina in materia di esclusione nella società di persone rispetto alla disciplina nelle s.r.l.. La prima infatti ricollega la possibilità di esclusione alla mera constatazione di gravi inadempienze alle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale (art. 2286 cod. civ.), che fanno "genericamente" venir meno il rapporto fiduciario che connota la disciplina delle società non capitalistiche, "pregiudicando" il c.d. intuitus personae che ne è l'essenza. La ratio della norma riguardante le s.r.l risponde, invece, all’esigenza di circoscrivere l’applicazione del grave strumento dell’esclusione solo alle ipotesi precise e ben delineate, affinché il socio possa regolare la sua condotta e non incorrere nei casi previsti dalla clausola statutaria. Ciò detto: * il requisito della “giusta causa”, vale a scongiurare il rischio dell’ inserimento nello statuto di ipotesi di esclusione capricciose e vessatorie nei confronti dei soci; * il requisito della specificità si pone come divieto contro formulazione di clausole denotate da eccessiva genericità, che sconfinano in ipotesi del tutto arbitrarie che la società può discrezionalmente individuare in spregio agli interessi dei soci. Volendo dare una definizione di "giusta causa" di esclusione del socio, deve preliminarmente darsi atto del superamento di quella teoria (minoritaria)4 che vedeva soltanto nell'inadempimento alle obbligazioni sociali (e, quindi, coincidente con il pericolo di confondere tale concetto con la "mora del socio" di cui si è detto in epigrafe). Infatti, per la dottrina prevalente5, infatti, è "giusta causa di esclusione" tutto ciò che, in concreto, intralcia l'esecuzione secondo buona fede del contratto societario e, più, generalmente tutto ciò che impedisce quindi il raggiungimento dello scopo ultimo della costituzione delle società, vale a dire il conseguimento dello scopo di lucro di cui all'art. 2247 c.c.. Vale a dire che, se da un lato l'applicazione dell'art. 2473 bis c.c. attiene a quella che è la sfera della persona del socio e quindi ad un eventuale suo inadempimento al

4 TRIMARCHI, Appunti sulle specifiche e giuste cause di esclusione dalle Srl 5 V. per tutt i CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, Studio n. 212-2008/I, La disciplina statutaria dell'esclusione del socio nella società a responsabilità limitata, cit .; v. BARCHI, L'esclusione del socio nella società a responsabilità limitata, in Notariato, 2006, pag. 155 ss..

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contratto associativo6, dall'altro la nozione di giusta causa non viene esaurita in sola detta ipotesi, ricomprendendo anche "eventi diversi dall'inadempimento, ma attinenti alla persona del socio, che siano potenzialmente in grado di influire negativamente sull'attuazione dell'interesse sociale o sulla possibilità per il socio di collaborare proficuamente all'attività comune" 7. Ciò detto porta con sé la naturale conseguenza che le cause di esclusione, non arbitrarie e non generiche, possono essere non anche oggettive (e cioè riguardare un inadempimento), ma soggettive. Possono quindi essere cause che abbiano riguardo anche alle situazioni personali del socio (cioè allo status personale dello stesso) in quanto è la persona del socio, con le sue caratteristiche e qualità, che è assunta a fulcro della possibilità di perseguimento dell'interesse societario. Sicché ogni risvolto negativo sulla sua persona, in definitiva, è oggetto di confronto con la previsione astratta e convenzione dell'ipotesi di esclusione eventualmente prevista statutariamente. L'organo chiamato a decidere sull'esclusione del socio, dunque, non può procedere ad una valutazione meramente oggettivo-comparatistica, ma la propria attenzione deve essere calata nel caso concreto, verificando l'idoneità della situazione attuale del socio ad apportare un detrimento al nucleo societario nonché all'attività da quest'ultimo posta in essere, tenuto conto anche della specificità della singola società e dell'attività sociale che ne è l'oggetto, il tutto da considerare non solo su un piano astratto ma su un piano concreto. 3. Orientamenti notarili in materia di esclusione e suoi riflessi in materia redazionale Si registra come il notariato non abbia mancato di esprimersi in materia di esclusione: ORIENTAMENTI TRIVENETO: * in particolare in relazione all'intervento in assemblea del socio da escludere TRIVENETO I.B.2 - ( INTERVENTO IN ASSEMBLEA DEL SOCIO DA ESCLUDERE - 1° pubbl. 9/04) Non è ammissibile la clausola che impedisca al socio - di cui si vuole deliberare l’esclusione - la partecipazione all’assemblea relativa. Detto socio non avrà il diritto di voto ma avrà il diritto di impugnare la delibera. 6 Si tratta infatt i di un rimedio che att iene al momento dell'esecuzione del contratto, non solo a quello perfezionativo (v. PERRINO, Le tecniche di esclusione del socio, Giuffrè, 1997, pag. 107 ss. 7 Così testualmente CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, Studio n. 212-2008/I, cit .

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TRIVENETO I.H.19 - (LEGITTIMITÀ DELLA CLAUSOLA DI ESCLUSIONE DEL SOCIO CHE SIA UNA SOCIETÀ LEGATA ALLA MODIFICA NON AUTORIZZATA DELLA SUA COMPAGINE SOCIALE – 1° pubbl. 9/15 – motivato 9/15) Si reputa legittima come giusta causa di esclusione del socio ex art. 2473 bis c.c. quella in forza della quale un socio possa essere escluso dalla società qualora il medesimo sia a sua volta una società e, senza il consenso dei restanti soci della partecipata, muti per qualsiasi causa la propria compagine sociale, anche in esito a operazioni di scissione o fusione (c.d. changing control). Tale clausola può essere introdotta in statuto a maggioranza. ORIENTAMENTI SOCIETARI - FIRENZE: * Esclusione per cause statutarie del socio di srl, ostruzionismo alla vendita del socio escluso e legittimazione degli amministratori a procedere alla vendita (44/2014) (1) Nei casi di esclusione per cause statutarie del socio di Srl, pur in assenza di uno specifico mandato contenuto nello statuto sociale, l’organo amministrativo è legittimato al trasferimento delle partecipazioni del socio escluso al prezzo determinato secondo le regole statutarie e le norme di legge. (2) E’, quindi, legittima la clausola statutaria che disciplini tale potere dell’organo amministrativo prevedendo anche la facoltà, per l’amministratore che sia socio, di contrarre con se stesso ai sensi dell’art. 1395 del Codice Civile, previa definitiva determinazione del valore di liquidazione ai sensi delle regole statutarie e delle norma di legge. Casistica giurisprudenziale in materia di esclusione. E' questa la sede per compiere un rapido excursus delle pronunce giurisprudenziali di merito in materia di esclusione di socio nella s.r.l..

"Esclusione per cause non riconducibili ad un inadempimento" * Secondo TRIBUNALE DI RAGUSA 21.11.20058 sono riconducibili al concetto di giusta causa - e, quindi, possono essere considerate ipotesi di esclusione del socio di s.r.l. - l'interdizione, l'inabilitazione, il fallimento e la condanna alla reclusione per un periodo superiore a cinque anni (ipotesi già contemplate all'art. 2286 c.c. in tema di società di persone).

8 Reperibile in Dir. Fall. 2007, II, 159, con nota di BARONTINI.

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Tale estensione è dovuta alla sopramenzionata valorizzazione della rilevanza personale del socio di s.r.l. dopo la riforma del 2003, soprattutto in considerazione del fatto che l'istituto dell'esclusione potrà essere utilizzato proprio al fine di dar rilievo (convenzionale) della rilevanza degli apporti personali, dei comportamenti di ciascun socio (anche extra-societari, ma con effetti indiretti) rilevanti ai fini del conseguimento degli scopi sociali, nonché della necessaria conservazione del rapporto fiduciario tra i soci.

"Esclusione per cause riconducibili ad un inadempimento" In relazione alle clausole di esclusione per inadempimento (e specificità dello stesso a giustificazione della redazione di clausole di esclusione), si ricordano le seguenti pronunce giurisprudenziali: * TRIBUNALE DI TREVISO 17 GIUGNO 2005, per il quale "è invalida, per difetto del requisito di specificità, una clausola del seguente tenore letterale "è giusta causa di esclusione lo svolgimento di attività atte ad arrecare pregiudizio alla società". * TRIBUNALE DI MILANO 5 FEBBRAIO 2009, per il quale è illegittima, per mancanza di specificità, la clausola di esclusione che riproduce l'art. 2286, co.I c.c, nella parte in cui recita: "l'esclusione di un socio può aver luogo per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale". Questo perchè, come detto, esiste una profonda differenza tra la disciplina in materia di esclusione nella società di persone, che ricollega la possibilità di esclusione alla mera constatazione di gravi inadempienze alle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale (art. 2286 cod. civ.), inadempienze che connesse fanno venir meno l'intuitus personae che connota la disciplina delle società non capitalistiche, e la ratio della norma riguardante le s.r.l. sull’esigenza di circoscrivere l’applicazione del grave strumento dell’esclusione solo alle ipotesi precise e ben delineate, affinché il socio possa regolare la sua condotta e non incorrere nei casi previsti dalla clausola statutaria. * TRIBUNALE DI TRENTO 4 APRILE 2013, per cui non è legittima la clausola secondo cui può essere escluso il socio che tenga comportamenti che compromettano il corretto funzionamento della società. Manca infatti, anche in questo caso, il rispetto del requisito della specificità in quanto dall'atto costitutivo devono emergere con chiarezza e precisione quali sono le obbligazioni sociali (o, comunque, i suddetti comportamenti, a carico) del socio.

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*TRIBUNALE MILANO 7 NOVEMBRE 2013, che ha dichiarato nulla per mancanza di specificità, richiesta dall'art. 2373bis c.c. quella clausola che riproduce l'art. 2286 c.c.: "può essere escluso il socio che si renda gravemente inadempiente alle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale." La motivazione è sempre la stessa: le società di persone sono state disciplinate dal legislatore in maniera differente dalla società a responsabilità limitata dove, come sopra evidenziato, devono essere tipizzate le giuste cause di esclusione in modo specifico non essendo ammesse clausole generali (o generiche). La ratio è chiara: evitare abusi della maggioranza a danno della minoranza e limitare il più possibile quella che è la discrezionalità interpretativa. Le successive sentenze dello stesso TRIBUNALE MILANO (28 FEBBRAIO 2014 e 23 LUGLIO 2015) si spingono anche oltre la ratio espressa dall'orientamento suddetto, dal momento che viene richiesta, inoltre, "..una tipizzazione preventiva dei comportamenti inadempienti considerati rilevanti quanto ad area e gravità ai fini dell'esclusione". Vale a dire che la giurisprudenza consolidata del tribunale meneghino postula che le condotte inadempienti del socio, per considerarsi giusta causa di esclusione, debbano essere individuate nella loro gradazione. Contestualmente, sempre per il tribunale di Milano, dovranno essere anche individuati gli ambiti d'attività sociale in cui sia possibile che il socio si riveli inadempiente. Tali ambiti di attività non devono, però, interpretativamente essere ridotti a quelli contenuti nell'oggetto sociale, ma devono ricomprendere ogni comportamento e risvolto incidente sull'operato la società. La clausola statutaria oggetto di giudizio, precisamente, si componeva di quattro sotto-ipotesi. Le prime tre riproducevano, rispettivamente: - 1^ l'ipotesi legale di cui all'art. 2301 c.c, divieto di concorrenza da parte del socio rispetto all'attività della società; - 2^ azioni che arrechino pregiudizio ai beni della società; - 3^ il disporre di uno o più beni sociali senza autorizzazione dell'organo amministrativo (riproducendo in questa ipotesi sostanzialmente quanto previsto dall'art. 2256 c.c.). L'ultima sotto-ipotesi, riproponeva fondamentalmente la consueta clausola generica "inadempienza alle obbligazioni sociali". Tale clausola è stata considerata correttamente illegittima dal Giudice, in quanto non rispondente all’esigenza di circoscrivere l’applicazione dello strumento dell’esclusione solo ad ipotesi precise e ben delineate, che è la ratio della norma civilistica più volte menzionata. Tuttavia, con riferimento alle prime tre sotto-ipotesi cassate dal Tribunale di Milano, deve rilevarsi come il Giudice a quo, seppur correttamente motivato dalle necessità di affrontare l'istituto con ogni opportuna cautela, si sia spinto troppo oltre nel giudicare illegittime le succitate cause di esclusione.

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La prima e la terza causa di esclusione, oggetto di gravame, sono infatti meramente riproduttive del disposto testuale di norme di legge (rispettivamente, dell'art. 2301 c.c. e dell'art. 2256 c.c.). Quanto alla seconda causa di esclusione, ovverosia che il socio ponga in essere "azioni che arrechino pregiudizio ai beni della società", in verità, non può dirsi avvinta in quella genericità e superficialità riconosciuta dal Giudice di prime cure. Non può infatti dirsi che sia una "norma in bianco", in quanto, seppur apparentemente possa involgere un ampio spettro di eventi, in realtà l'ambito di applicazione della clausola statutaria sia ben delimitata. Si aggiunga, inoltre, che a voler riconoscere comunque detta clausola come contraria al principio ed alla norma di cui all'art. 2373bis c.c., per renderla valida e legittima occorrerebbe una tipizzazione puntuale e precisa di ogni azione lesiva diretta contro ogni bene societario che, evidentemente, rischierebbe a) di essere un lavoro compilativo invero immane (es. utilizzo di materiali esplodenti all'interno dei macchinari produttivi, causazione volontaria di incendi, lancio di sassi contro le finestre, rottura degli specchietti degli autoveicoli aziendali, etc...); b) di risultare un'elencazione in ogni caso carente circa la pretesa di onnicomprensività descrittiva delle attività concretamente realizzabili (che sembrerebbe invero richiesta dal Tribunale di Milano nella sentenza supra riportata) nonché circa la loro gravità e rilevanza. 4. Questioni controverse

IL FALLIMENTO * Occorre sottolineare in questa sede come qualche dubbio potrebbe sorgere in merito alla possibilità che una causa di esclusione possa essere legata al fallimento del socio Tradizionalmente si suole ricondurre la disciplina della clausola d'esclusione del socio di Srl fallito (in proprio) all'analoga previsione della corrispondente disciplina in materia di società di persone: e di conseguenza si ammette che anche nella s.r.l. possa prevedersi come causa di esclusione il fallimento del socio9. È stato, per contro, condivisibilmente osservato10 che ogni valutazione della legittimità della clausola andrebbe ragionata alla luce di un duplice ordine di considerazioni: a. che dall'esclusione discende la modif ica della composizione dell'attivo fallimentare, nel quale in luogo del "bene" partecipazione, entrerebbe il credito alla quota di liquidazione;

9 V. per tutt i CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, Studio n. 212-2008/I, cit . ; v. BARCHI, cit. 10 V. O. CAGNASSO, «L'esclusione del socio nelle società di persone», in NDS, 2008, 22, p. 6 e ss..

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b. che ogni decisione in ordine al proseguimento dei rapporti giuridici del fallito è assegnata agli organi fallimentari ( il curatore) e non ad altri, tant'è che il novellato art. 72 della legge fallimentare stabilisce l'inefficacia delle clausole negoziali che facciano dipendere la risoluzione del contratto dal fallimento del socio. Dunque l'attuale normativa sembra essere in ogni caso coerente con la disciplina dell'esclusione del socio di società di persone, in quanto il fallimento del socio illimitatamente responsabile, di fatto, impedisce ai creditori della società in bonis di avvalersi della illimitata responsabilità svuotandola di contenuti. Diverso è il discorso nella società a responsabilità limitata dove la previsione di una causa d'esclusione coincidente con il fallimento del socio finirebbe di essere eversiva dei principi di diritto fallimentare con l'inevitabile illegittimità di una clausola siffatta11. É dunque discussa in dottrina la legittimità o meno dell' inserimento nello statuto sociale di s.r.l. di una clausola che faccia dipendere l'esclusione del socio dal proprio fallimento. Si tratta di comprendere se l'art. 72 l. fall. inerisca i soli contratti cc.dd. "di scambio", ovvero anche i cc.dd. "contratti associativi"(come, pe l'appunto, il contratto di società ex art. 2247 ss.c.c.)12. A tale riguardo si segnala come una parte minoritaria della dottrina13 reputi applicabile l'art. 72 della legge fallimentare anche ai contratti di società; in particolare, applicabile l'art. 72, commi 5 e 6, secondo i quali l'azione di r isoluzione (i.e. lo scioglimento) del contratto è inefficace se proposta dopo che sia stato dichiarato il fallimento e sono inefficaci le clausole che comportano la risoluzione automatica del contratto in caso di fallimento di una delle due parti. Secondo dunque questo orientamento dottrinario, devono considerarsi ineff icaci i provvedimenti di esclusione, ma soprattutto tutte quelle clausole che prevedano l'automatica esclusione del socio fallito nei confronti del curatore.

11 V. TRIMARCHI, Appunti sulle specifiche e giuste cause di esclusione dalle Srl, e sul relativo procedimento, in Srl: pratica, casi e crisi. 12 A questo proposito si rammenta che parte della dottrina afferma, che l’art.72 L.F. si riferisce testualmente a contratt i ineseguit i o non compiutamente eseguit i da entrambe le part i e si riferisce necessariamente ai soli contratt i bilaterali e sinallagmatici. V. PEDOJA 13 TRIMARCHI, Appunti sulle specifiche e giuste cause di esclusione dalle Srl, e sul relativo procedimento, in Srl: pratica, casi e crisi.; ZANARONE, Società a responsabilità limitata, 2010

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Ma per la dottrina maggioritaria14 e giurisprudenza di merito15 (e preferibile), la clausola che disciplina l'esclusione del socio per fallimento deve considerarsi legittima e questo per il fatto che l'art. 72 della legge fallimentare trova applicazione nei soli contratti sinallagmatici, non invero al contratto di società. Il ragionamento alla base di tale orientamento, che in questa sede si riporta in sintesi, muove dal dato letterale della disposizione di cui all'art. 2288 c.c., secondo il quale è escluso di diritto il socio che sia dichiarato fallito; ora, tale norma deve considerarsi disciplina propria delle società personali, non invero disciplina eccezionale rispetto all'art. 72 della l. fall.. Tale conclusione è coerente se si pensa al fatto che il fallimento comporta che i diritti sociali siano esercitati medio-tempore dal curatore, successivamente all'assegnazione della quota, per l'appunto, dall'assegnatario: se è vero com'è vero dunque che alla base delle s.r.l. (chiuse) sussiste un rapporto fiduciario tra i componenti della compagine sociale, funzionale al buon andamento dell'attività della società, un eventuale fallimento di uno dei soci porta con sè come conseguenza una lesione di tale rapporto fiduciario, tale da poterlo considerare una giusta causa di esclusione. Occorre poi tenere a mente come ai sensi dell'art. 2471 c.c., qualora sussistano limiti alla circolazione delle partecipazioni sociali come prelazione, gradimento, ecc., il curatore deve trovare un accordo con la società sulla vendita della quota del socio fallito e, in difetto, promuoverne la vendita all'incanto. A questo punto la società, entro 10 giorni dall'aggiudicazione, ha facoltà di presentare un acquirente "gradito" che paghi il medesimo prezzo. Tutto ciò per evidenziare, che dal sistema codicistico si evince come, anche alla luce della ratio di cui all'art. 2471 c.c. (ovvero quella di vendere la quota del socio fallito ad un valore reale e permettere al contempo alla s.r.l. chiusa di non dover subire mutamenti o comunque modifiche agli equilibri interni della compagine sociale), una eventuale clausola che porti all'esclusione del socio dichiarato fallito deve reputarsi legittima, in quanto ben si concilia e collima con quanto sopra esposto, ma soprattutto perchè consente al curatore fallimentare, senza dover procedere ad ulteriori attività, di ottenere un' "equa valorizzazione" della quota del socio fallito, stante il richiamo operato dall'art. 2473 bis all'art. 2473 c.c. e dunque alla luce dell'applicabilità della disposizione per cui "...[la determinazione è compiuta tramite relazione giurata di un esperto nominato dal Tribunale ...]. 14 CASALE, MALTONI, TANZI GALLETTI ESPOSITO, PISCITELLO, BARCHI 15 T ribunale di Ragusa 21 novembre 2005; Tribunale di Milano 24 febbraio 2014

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ALTRE PROCEDURE CONCORSUALI * Ci si chiede quale sia la sorte di tali clausole che ancorano l'esclusione del socio alla sottoposizione di procedure concorsuali, quali il concordato preventivo. A riguardo occorre distinguere preliminarmente tra concordato in continuità e concordato liquidatorio.

1. Concordato in continuità Il c.d. concordato in continuità è quella procedura concorsuale che permette ad un debitore (avente i requisiti di fallibilità ex art. 1 L.F.), in stato di crisi o di insolvenza, di accordarsi con il ceto creditorio per tentare il risanamento delle debenze - mediante la continuazione dell'attività ed eventualmente la cessione dell'attività a un soggetto terzo -, evitando così il fallimento. Quanto ai rapporti contrattuali ancora in essere alla data di deposito del ricorso per l'ammissione alla procedura, l’art.186 bis c.3 L.F., dispone che "Fermo quanto previsto nell'articolo 169-bis, i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso, anche stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto dell'apertura della procedura. Sono inefficaci eventuali patti contrari." La disposizione di cui all'art. 186bis L.F. richiama evidentemente, sia pure in maniera diversa, il disposto di cui all'art. 72 L.F.. Come anticipato, parte della dottrina sembrerebbe escludere qualsivoglia possibilità di inserimento di clausole (financo nello statuto di società) che facciano dipendere dal fallimento di una parte la risoluzione del vincolo contrattuale (compreso quello di società), anche se, come detto, si deve registrare che la dottrina maggioritaria reputa ammissibili clausole contrattuali che facciano dipendere la risoluzione dell'accordo dal verif icarsi di procedure concorsuali, ragionando anche sulla base della disciplina in materia di espropriazione, in quanto si consentirebbe alla procedura di addivenire a risultati comunque favorevoli . Si potrebbe concludere, conseguentemente, che gli stessi ragionamenti e le stesse conclusioni a cui si è addivenuti in tale sede valgano anche in relazione al c.d. concordato in continuità, nel senso che pare poter condividere quella tesi che reputa ammissibili clausole contrattuali che facciano dipendere la risoluzione dell'accordo dal verificarsi di tali procedure concorsuali, in quanto si deve

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ritenere sussistente, echeggiando il tenore normativo della disposizione in tema di procedura fallimentare16, un'eadem ratio, supra esposta. A parere di chi scrive, nonostante, le diverse conseguenze che scaturiscono dall'assoggettamento del debitore alla procedura fallimentare ovvero alla procedura del concordato preventivo c.d. "con continuità aziendale", deve ritenersi condivisibile la tesi che ammettere l'inserimento in statuto di un'eventuale clausola che assoggetti l'esclusione del socio all'ammissione alla procedura di concordato preventivo (nella fattispecie "in continuità").

2.Concordato c.d. "liquidatorio" La procedura di concordato preventivo senza continuità aziendale (ovvero c.d. "liquidatorio") è la procedura concorsuale finalizzata al r isanamento della situazione economico-finanziaria del debitore, operata mediante la liquidazione del patrimonio del debitore stesso con disposizione del ricavato di tale operazione al soddisfacimento dei crediti (evitando così il fallimento). In riferimento al concordato preventivo c.d. "liquidatorio", per quanto concerne la sorte dei rapporti ancora in essere al deposito della domanda per l'ammissione alla procedura concorsuale, trova applicazione la norma di cui all'art. 169-bis L.F.. Il debitore con il ricorso di cui all'articolo 161 (o successivamente) può chiedere che il Tribunale (o, dopo il decreto di ammissione, il giudice delegato) con decreto motivato sentito l'altro contraente, lo autorizzi a sciogliersi dai contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti alla data della presentazione del ricorso. In alternativa alla risoluzione del contratto, può essere chiesta ed autorizzata anche la sola sospensione del contratto (per non più di sessanta giorni), prorogabili una sola volta17. 16 Sul punto, v. anche PEDOJA F., I contratti pendenti nel concordato preventivo: sospensione e scioglimento, pubblicato sulla rivista on-line Fallimenti e Società.it, http://www.fallimentiesocieta.it /sites/default/files/ F%26S_Saggio_Pedoja_2014.pdf 17 "In tali casi, il contraente ha diritto ad un indennizzo equivalente al risarcimento del danno conseguente al mancato adempimento. Tale credito è soddisfatto come credito anteriore al concordato, ferma restando la pre-deduzione del credito conseguente ad eventuali prestazioni eseguite legalmente e in conformità agli accordi o agli usi negoziali, dopo la pubblicazione della domanda ai sensi dell'articolo 161. Lo scioglimento del contratto non si estende alla clausola compromissoria in esso contenuta. Le disposizioni di questo articolo non si applicano ai rapporti di lavoro subordinato nonché ai contratti di cui agli articoli 72, ottavo comma, 72-ter e 80 primo comma. In caso di scioglimento del contratto di locazione finanziaria, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a versare al debitore l'eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di

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Ben si vede, come lo scioglimento delle parti dal rapporto contrattuale, nel concordato liquidatorio, si configura come un effetto anticipatorio della fase finale di liquidazione. La norma di cui all'art. 169-bis L.F., pertanto, trova la propria ragion d'essere in primis, nell'assenza di qualsivoglia effetto negativo di tali atti giuridici sul patrimonio del debitore e, in secondo luogo, nel fatto che i rimedi offerti dalla succitata norma dispieghino un effetto positivo a favore della massa creditoria, in quanto quest'ultima non è costretta a sopportare alcun onere ovvero conseguenze pregiudizievoli che, medio-tempore, potrebbero verificarsi in conseguenza della permanenza dei rapporti obbligatori. Ai fini dell'oggetto della trattazione del presente scritto, anche la sottoposizione alla procedura di concordato c.d. " liquidatorio" deve ritenersi suscettibile di costituire oggetto di una valida clausola statutaria di esclusione. Deve considerarsi, infatti, che entrambe le procedure, sia la procedura fallimentare che quella concordataria "liquidatoria", mirano alla stessa finalità: la monetizzazione mediante alienazione dei beni appartenenti al debitore. L'art. 169bis L.F., poi, che regola le sorti dei contratti, definiti genericamente "in corso di esecuzione", deve intendersi riferito ai contratti unilaterali o con prestazioni a carico di una sola parte, e conseguentemente la norma concordataria deve reputarsi spiegare i propri effetti anche oltre l'ambito di operatività di cui all'art. 72 L.F.18, con il che tale ultima disposizione deve intendersi ricompresa nella norma dettata in materia di concordato preventivo liquidatorio. Per tali ragioni, a parere di chi scrive, anche in tali ipotesi sussiste unità di ratio, che legittima l'inserimento in statuto di una clausola che faccia dipendere l'esclusione del socio dalla sottoposizione dello stesso ad una procedura concorsuale (nell' ipotesi, liquidatoria).

5. La procedura di esclusione del socio Ci si chiede, con riferimento al procedimento di esclusione del socio, se debba trovare applicazione analogica l'art. 2287 c.c. in materia di società di persone, ovvero sia legittimo (ed opportuno) all'interno degli statuti il r ichiamo a quanto disposto

mercato rispetto al credito residuo in linea capitale. La somma versata al debitore a norma del periodo precedente è acquisita alla procedura. Il concedente ha diritto di far valere verso il debitore un credito determinato nella differenza tra il credito vantato alla data del deposito della domanda e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene. Tale credito è soddisfatto come credito anteriore al concordato". 18 che si riferisce espressamente ai soli contratt i bilaterali e sinallagmatici ancora ineseguit i o non compiutamente eseguit i.

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dall'art. 2479-ter c.c., proprio in materia di s.r.l., circa il r icorso avverso le decisioni dei soci (in questo caso, di esclusione) innanzi all'autorità giudiziaria. Ci si chiede inoltre se sia possibile la sospensione delle delibere assembleari impugnate ad opera degli arbitri. In materia si registrano alcuni orientamenti rilevanti, che di seguito si riportano: * TRIBUNALE DI TORINO 13 SETTEMBRE 2011, TRIBUNALE DI NAPOLI 8 APRILE 2013. Con riferimento al procedimento di esclusione del socio deve trovare applicazione analogica l'art. 2287 c.c., dettato in tema di società di persone, in ragione del fatto che post-r iforma il tipo s.r.l. è stato costruito (similarmente alle società di persone) su di uno stampo fortemente personalistico. Pertanto, l'esclusione è deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi nel numero di questi il socio da escludere, ed ha effetto decorsi trenta giorni dalla data della comunicazione al socio escluso. Entro questo termine il socio escluso può fare opposizione davanti al tribunale, il quale può sospendere l'esecuzione. E, nel caso in cui la società si compone di due soci, l'esclusione di uno di essi è pronunciata dal tribunale, su domanda dell'altro. Al contrario, il TRIBUNALE DI MILANO 28 FEBBRAIO 2014 ha statuito che non risultano applicabili in via analogica i brevi termini dettati dagli artt. 2287 e 2533 c.c., rispettivamente in tema di società di persone e cooperative, trattandosi di norme recanti termini di decadenza e, come tali, non suscettibili di estensione al di fuori della specifica ipotesi regolata. Il procedimento ed i termini per l’impugnazione della delibera di esclusione del socio di s.r.l., secondo il Tribunale Meneghino, sono disciplinati dalle norme in tema di società di capitali e, in particolare, la norma di riferimento deve essere pertanto individuata nel disposto di cui all'art. 2479-ter c.c., per cui il termine per impugnare la delibera societaria risulta allora individuato nel termine di novanta giorni decorrenti dalla relativa trascrizione nel libro delle decisioni dei soc.. * si rammenta inoltre che TRIBUNALE DI MILANO 25 NOVEMBRE 2011 e TRIBUNALE DI NAPOLI 29 MARZO 2003 ammettono la possibilità di devolvere ad arbitri la decisione in merito all'impugnativa la delibera di esclusione di socio, nel solco della giurisprudenza confermata più di recente anche dal TRIBUNALE DI MILANO 7 NOVEMBRE 2013. Non solo, l'ultima pronuncia testé citata affronta anche il delicato tema sulla possibilità che gli arbitri possano disporre con ordinanza non reclamabile la sospensione dell'eff icacia delle delibere assembleari impugnate e, quindi, se esperito tale rimedio,

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ciò risulti preclusivo al socio della possibilità di adire successivamente l'autorità giudiziaria ordinaria al f ine di ottenere un provvedimento cautelare atipico ante causam ex art. 700 c.p.c.. La giurisprudenza di merito citata è nel senso di ritenere valida clausola di uno statuto di s.r.l. compromissoria in arbitri, ciò in quanto è ritenuta rispettosa del dettato di cui all'art. 35, D.Lgs. 5/2003, nonché accoglibile da parte del giudice ordinario ante causam eventualmente adito anche la richiesta ex art. 700 c.p.c. a fini cautelari fintantoché il collegio arbitrale non sia stato costituito. Questo ai fini di garanzia dei diritti di difesa del socio, con conseguente sospensione della delibera assembleare di esclusione. Dunque, la pronuncia testè citata reputa legittima l'impugnativa, effettuata mediante esperimento di procedura arbitrale, della delibera assembleare che abbia disposto l'esclusione del socio per il verificarsi di una causa statutaria legittimante. In ossequio al principio generale di cui all'art. 2479ter c.c., infatti, il tribunale dimostra di non aderire alla tesi per cui al socio deve essere riconosciuta la facoltà di proporre opposizione contro la delibera che ha sancito la sua esclusione dalla compagine sociale soltanto mediante un procedimento giudiziario; si è invero ammessa l'impugnabilità della delibera medesima con un procedimento analogo a quello previsto per gli altri tipi societari in cui l'esclusione riceve regolamentazione espressa (assicurando un termine di 90 giorni dalla ricevuta comunicazione dell'esclusione di cui all'art. 2287, co. II c.c.). 6. Alcuni spunti in tema di tecnica redazionale Da quanto finora affermato, tenuto conto anche (della possibilità di sospensiva e di quanto statuito dal TRIBUNALE DI MILANO19), discende che il Notaio attento, nel momento in cui confeziona uno statuto di s.r.l., dovrà: A) quanto alle CAUSE DI ESCLUSIONE, queste dovranno essere formulate in maniera chiara, specifica e tassativa, dando puntuale significato al concetto di "giusta causa" (che abbia le caratteristiche sopra delineate). In punto di ammissibilità e di validità delle clausole di esclusione, infatti, da un punto di vista redazionale delle clausole statutarie è bene aver a riferimento solo eventi e ipotesi comportanti l'exit la cui ammissibilità sia stata riconosciuta pacificamente.

19 "La deliberazione di esclusione deve essere notificata, a cura degli amministratori, al socio escluso che non abbia partecipato alla relativa assemblea. L'esclusione avrà effetto decorsi 30 (trenta) giorni dalla data della notificazione di cui sopra oppure dalla data della suddetta assemblea (qualora il socio escluso vi abbia partecipato); è comunque fatto salvo il diritto di impugnativa di cui all'art. 2479 ter c.c.."

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Esemplificando, l'esame della giurisprudenza citata, porta a ritenere "sicure" o "non dubbie"20 le seguenti ipotesi: - che sia dichiarato interdetto o inabilitato o che sia divenuto beneficiario di amministrazione di sostegno, il tutto con decisione definitiva; - che sia stato condannato con sentenza passata in giudicato ad una pena che importa l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici oppure - che sia stato condannato con sentenza passata in giudicato in alternativa con sentenza di primo grado ad una pena detentiva superiore a cinque anni; - che abbia acquistato la propria partecipazione sociale in violazione delle clausole statutarie che prevedono limitazioni alla circolazione delle partecipazioni - nell'ipotesi in cui eserciti, successivamente21 alla data di costituzione della società, per conto proprio o di terzi, un'attività concorrente con quella della società, salvo il consenso scritto degli altri soci; - che acquisisca, successivamente alla data di costituzione della società, direttamente o indirettamente, senza il consenso degli altri soci, la maggioranza del capitale di società concorrente; - persona giuridica/società, che muti la propria compagine sociale in data successiva alla costituzione della società e precisamente nel caso in cui il socio trasferisca a qualsiasi titolo (compreso quello a causa morte, quello a causa di conferimento in società o quello conseguente a fusione e scissione) una partecipazione sociale, pari ad una determinata percentuale del capitale sociale, a favore di soggetti diversi dagli altri soci della società. Mentre, per quelle clausole la cui ammissibilità resta incerta o di alta dubitabilità per le ragioni esposte precedentemente (e.g. sottoposizione a procedure concorsuali e, in particolare, la sottoposizione alla procedura fallimento), la loro eventuale inserzione nello statuto è una questione rimessa al prudente apprezzamento ed alla sensibilità dell'operatore del diritto. Quest’ultimo, infatti, dovrà aver particolare e primario riguardo all'analisi della realtà societaria in concreto, anche discutendone con i soci. B) quanto alla PROCEDURA DI ESCLUSIONE, porre attenzione nell'introdurre clausole statutarie che richiamino anche surrettiziamente il procedimento come disciplinato nelle società di persone dell'art. 2287 c.c..

20 Al ricorrere delle quali, allora, il socio dovrà ritenersi giustamente escluso. 21 Secondo Trib. Milano, Sez. VIII, sentenza del 24 maggio 2007, in Giur. it. 2008, 6, 1433, cit., l'astensione dall'esercizio di att i di concorrenza diretta "consegue alla normale buona fede che si richiede al socio nell'esecuzione del contratto sociale". Ciò induce a negare tutela al socio che abbia iniziato l'att ività in concorrenza prima dell'introduzione della clausola, confidando sull'assenza di un divieto statutario al riguardo.

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Nella fase tra la delibera di esclusione e la fase di liquidazione definitiva del quantum da liquidare all'escluso come exit dalla società in modo definitivo, fuor da ogni dubbio, lo statuto si rivela essere lo strumento principale per rendere più agevole la vita societaria, soprattutto per quel che concerne la procedura di esclusione da seguire. Vi è una differenza enorme, infatti, laddove si ritenga di dover applicare o meno l'art. 2287 c.c.: in caso affermativo, la norma prevede espressamente la facoltà di opposizione, esercitabile da parte dell'escluso, entro un dato termine. Circa gli effetti di quest'opposizione vi è dibattito in dottrina: non è pacifico se questa opposizione abbia l’effetto di sospendere gli effetti delle delibere, per cui il socio è ancora (lato sensu) parte della compagine sociale; oppure, non sospendere gli effetti, essendo necessario un provvedimento ad hoc del giudice. Questa incertezza può porre dei problemi anche nell’ottica operativa della società che intendesse adottare delle delibere assembleari medio-tempore, cioè a dire prima della definitiva esclusione del socio della cui esclusione si è deciso. Una tale situazione di impasse, invece, non si verifica qualora si evitasse di richiamare l'art. 2287 c.c., ma prevedendo una clausola la cui previsione rinvii (per l'impugnativa della delibera di esclusione del socio da parte di quest’ultimo) all'art. 2479-ter c.c.. In tal modo, la delibera di esclusione, una volta adottata, è legittima e pienamente efficace. Eventualmente si porrà il problema, qualora la delibera di esclusione dal socio escluso fosse oggetto di impugnazione, dell’accoglimento o meno da parte del Giudice adito della richiesta di sospensione dell’efficacia della delibera proposta dall’escluso: qualora il giudice adito ritenga di concedere la sospensiva della delibera di esclusione, all'adozione delle delibere societarie medio-tempore si dovrà (o, almeno, sarà quanto mai opportuno) tener conto del voto del socio escluso che, fino alla decisione giurisdizionale definitiva, deve ritenersi ancora socio. Pertanto, dal punto di vista redazionale, sembra preferibile non richiamare l'art 2287 c.c., ma l'art. 2479-ter c.c.

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STUDI E OPINIONI

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AZIONISTI E TRIBUNALE PER USCIRE DALLA CRISI: UN CASO TORINESE

Gli Autori, muovendo dall’esame di una vicenda torinese, svolgono alcune considerazioni sugli interessi privati e pubblici connessi alla procedura di concordato

preventivo.

di MARIO NAPOLI e FRANCESCA PERRONE

I fatti contano più dei commenti, quasi sempre: ecco perché, nel raccontare un

recente caso torinese in tema di concordato preventivo con continuità, vissuto con magistrati, commissari e consulenti di particolare sensibilità e preparazione, ben poche righe di premessa e presentazione sono sufficienti prima di dare la parola agli eventi.

Il caso seguito presentava delle peculiarità, peraltro non così infrequenti nel variegato mondo dell’ insolvenza: la prima era quella che i mezzi per la proposta di concordato (e per la continuità aziendale) sarebbero stati forniti dagli azionisti e la seconda quella che il particolare mercato nel quale operava la Società mal tollerava la prosecuzione dell’attività ad una società che si presentasse in procedura (seppur minore).

Ed ecco i fatti in sequenza cronologica. Nell’autunno del 2013 la Società presentava al Tribunale di Torino istanza di

concordato preventivo ai sensi del sesto comma dell’art. 161, L.F., con riserva dunque di depositare la proposta, il piano concordatario e la documentazione di legge nei termini che sarebbero stati assegnati dal Tribunale; il Tribunale concedeva termine di 90 giorni, poi prorogato, su istanza della Società, di ulteriori 60 giorni. Nel termine concesso la Società depositava proposta definitiva e il piano concordatario unitamente alla documentazione e, con successivo provvedimento, il Tribunale adito dichiarava aperta la procedura di concordato preventivo della Società, ordinando a breve la convocazione dei creditori.

Sin qui tutto secondo regola, sennonché nelle more la Società doveva suo malgrado riscontrare come i pur brevi termini della procedura concordataria concessi dal Tribunale apparissero difficilmente compatibili con la prosecuzione del business, rischiando di compromettere la continuità aziendale e la possibilità di r ispettare il piano concordatario ex art. 186 bis L.F. che anche su tale continuità contava: era emerso, in particolare, come nei confronti del principale cliente della Società - il quale nei mesi

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STUDI E OPINIONI INTERESSI PUBBLICI E PRIVATI NEL CONCORDATO PREVENTIVO

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precedenti non aveva potuto rinnovare il contratto di servizi già in essere in aggiudicazione privata a causa della squalificazione della società fornitrice dovuta all’apertura della procedura concordataria ed aveva quindi indetto una gara per l’assegnazione di un contratto in via sperimentale di brevissima durata (aggiudicato alla Società, ma certamente in una situazione di grande incertezza) - la procedura concordataria in corso potesse compromettere senza possibilità di rimedio il responso del monitoraggio di solidità f inanziaria richiesto nel capitolato della cliente appaltante e propedeutico da un lato al rinnovo del contratto di servizi, e dall’altro all’emissione di nuovi ordini. Tanto il corrispettivo del contratto di servizi quanto i nuovi ordini erano previsti nel piano concordatario ex art. 186 bis L.F. a sostegno della continuità aziendale; appariva, dunque, evidente come il mancato integrale rinnovo del contratto di servizi (nel piano previsto per un anno), unitamente all’impossibilità di poter ricevere ordini per nuove forniture, avrebbero comportato una profonda deviazione dal piano concordatario ed avrebbero procurato un gravissimo danno economico alla Società ed ai creditori.

Non era d’altronde difficile prevedere come anche le altre negoziazioni con potenziali clienti della Società sarebbero state gravemente ostacolate tanto dal venir meno dei rapporti con la cliente principale, quanto dalla pendenza della procedura concorsuale (la quale induceva le controparti negoziali a pretendere garanzie fideiussorie che la Società non era in grado di rilasciare e, nella quasi totalità dei casi, a posticipare integralmente alla consegna dei prodotti i pagamenti e spesso ben oltre i consueti 120 giorni, così comportando per la Società la totale anticipazione dei costi dei materiali e prolungati squilibri f inanziari in termini di assorbimento del circolante).

Tale situazione imponeva una diversa scelta e strategia, in grado di assicurare una rapida uscita dalla procedura e conseguentemente la possibilità di r imanere sul mercato, senza tuttavia dimenticare la necessità di confermare ai creditori la parziale soddisfazione della loro posizione prevista nel piano. Poiché la proposta presentata dalla Società prevedeva che le risorse finanziarie necessarie per il pagamento dei creditori concordatari fossero procurate integralmente da iniezioni di liquidità provenienti dai soci, preso atto del consenso di questi ultimi ad una anticipazione della liberazione di tali capitali, la Società si è trovata a vagliare la disponibilità dei creditori concordatari a cedere ad un unico soggetto terzo l’intero proprio credito a fronte del pagamento, in via pressoché immediata, da parte di tale terzo cessionario di un prezzo in linea con la percentuale che sarebbe stata loro riconosciuta all’esito della procedura concordataria.

In altre parole, così facendo, i creditori avrebbero ottenuto in via anticipata un pagamento corrispondente a quello previsto nel piano concordatario e, dall’altro lato, la Società avrebbe potuto definire in un’unica soluzione la propria posizione con il soggetto cessionario, estinguendo anticipatamente i propri debiti concordatari ed eliminando così qualsiasi situazione di insolvenza.

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STUDI E OPINIONI INTERESSI PUBBLICI E PRIVATI NEL CONCORDATO PREVENTIVO

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Per dare attuazione a tale programma, dopo un fulmineo assaggio degli umori del ceto creditorio (normalmente non contrario ad una proposta concordataria non insignificante e comprensibilmente favorevole ad anticipare l’ incasso rispetto ai termini della procedura), veniva individuata in una società estera interamente controllata dalla Società lo strumento per dare corso al nuovo programma; veniva, dunque, convocata l’assemblea dei soci nel corso della quale questi ultimi venivano resi edotti delle difficoltà che la pendenza della procedura concordataria stava procurando al business dell’azienda; veniva altresì riferito della negoziazione condotta con i creditori e fatto presente che la pressoché totalità di loro (circa il 95%) avevano già transatto e/o rinunciato ai propri crediti ovvero f irmato una proposta irrevocabile di cessione del proprio credito in favore della controllata straniera della Società.

A quel punto, veniva dunque anticipata l’intenzione della Società di procurare l’accettazione delle proposte irrevocabili di cessione dei crediti da parte della controllata estera (la quale aveva già manifestato la propria disponibilità in tal senso), con contestuale accollo da parte della Società del debito derivante dai corrispettivi di tali cessioni, a fronte della rinuncia da parte della controllata estera di pretendere dalla Società la differenza tra il prezzo delle cessioni stesse e l’ importo totale dei crediti ceduti.

Nel corso dell’assemblea, l’amministratore delegato invitava i soci ad assumere le decisioni più opportune al fine di supportare la Società con le risorse f inanziarie idonee a consentire il perfezionamento della manovra loro illustrata ricevendo l’ impegno a versare in conto futuro aumento capitale una somma complessiva corrispondente alle risorse necessarie a pagare i corrispettivi delle cessioni dei crediti di cui alle proposte irrevocabili r icevute dalla controllata estera purchè si fossero verificate le seguenti condizioni:

- la Società avesse depositato al Tribunale istanza di ritiro della domanda di concordato preventivo;

- il Tribunale avesse emesso provvedimento di chiusura della procedura. Il programma prevedeva, dunque, di (i) rinunciare alla domanda di concordato

preventivo e richiedere al Tribunale che venisse emesso un provvedimento di chiusura della relativa procedura, sì da ottenere il versamento da parte dei propri soci in conto futuro aumento capitale delle somme dai medesimi promesse; (ii) procurare l’accettazione da parte della propria controllata di tutte le proposte irrevocabili di cessione del credito ricevute dai creditori della Società; (iii) accollarsi contestualmente l’impegno ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1273 cod. civ. a versare a ciascun cedente il corrispettivo di tali cessioni (pari alla percentuale di soddisfazione del credito in origine prevista nel piano concordatario); (iv) provvedere al relativo pagamento nel termine (10 giorni) dalla relativa accettazione, nonché (v) saldare le spese di procedura.

L’esecuzione di tale programma ha dunque consentito alla Società di estinguere sostanzialmente la totalità dei debiti ed azzerare direttamente l’esposizione debitoria

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STUDI E OPINIONI INTERESSI PUBBLICI E PRIVATI NEL CONCORDATO PREVENTIVO

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indicata nella proposta concordataria ritornando in bonis e potendo, così, proseguire il proprio piano industriale che rischiava di essere compromesso dalla pendenza della procedura concordataria.

* * * Non si è trattato della quadratura del cerchio, ovviamente, ma può non essere

insignificante osservare come gli interessi privati e pubblici abbiano concorso a salvare una realtà produttiva ed occupazionale che, diversamente, sarebbe andata perduta. Da un lato gli interessi privati: quelli dei creditori chiamati ad una sorta di concordato stragiudiziale (attraverso l’offerta, irrevocabile per un tempo limitato e comunque contenente una condizione risolutiva in caso di mancato pagamento del cessionario o del terzo accollante), ma garantiti dal controllo pubblico del Tribunale sull’istanza, sul piano e sulla congruità e serietà della proposta concordataria; e quello degli azionisti alla conservazione della Società e, dunque, del valore della loro partecipazione, alla tutela dei propri amministratori (il r itorno in bonis escludendo qualsiasi azione di responsabilità della procedura ed azzerando anche il tempo per una futura eventuale nuova insolvenza, sempre possibile), ed alla tenuta degli atti nel frattempo compiuti, vagliati ed autorizzati dal magistrato.

Dall’altro lato gli interessi pubblici: ad un controllo della legittimità della proposta concordataria, del corretto operare della Società dopo il deposito dell’istanza e del funzionamento dello strumento proposto dal debitore per uscire dalla crisi; alla necessaria pubblicità dello stato di crisi, se non di insolvenza, derivante dall’ammissione alla procedura a garanzia dei terzi contraenti con la Società; alla tutela offerta ai creditori dalla presenza di una autorità pubblica a guidare, come un lento ma sicuro rimorchiatore, l’imbarcazione divenuta fragile nelle braccia del porto. E alla conservazione di una realtà occupazionale ed economica che è (o dovrebbe essere: quante infondate memorie ex art. 173 abbiamo dovuto vedere in questi anni, sintomo di un interesse privato degli estensori e non certo di esigenze pubbliche!) il vero scopo della normativa concorsuale e come è stato nel caso narrato.

Un’ultima nota: la Società è stata quotata sul mercato regolamentato francese Euronext raggiungendo una capitalizzazione di borsa di oltre 52 milioni di euro un anno dopo la vicenda narrata.

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SEGNALAZIONI (A CURA DI GIULIA GARESIO)

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SEGNALAZIONI DI DIRITTO COMMERCIALE

I NDICAZIONI INTERPRETATIVE E APPLICATIVE

CNDCEC Arbitrato – Il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili ha diffuso un approfondimento concernente l’Arbitrato, allo scopo di “offrire una ricogni-zione della disciplina […] evidenziandone le specificità descritte nel codice di rito e nelle leggi di settore quando trattasi di arbitrati speciali”. Tra i diversi profili affrontati, vi sono i presupposti del giudizio arbitrale, la f igura degli arbitri, il procedimento e la conseguente decisione, le impugnazioni del lodo, la disami-na dell’arbitrato nei lavori pubblici e di quello societario. Il documento, emanato il 26 maggio 2016, è disponibile sul sito ufficiale del Cndcec, www.commercialisti. it. CONSOB Modifiche al Regolamento emittenti – La Consob, con la delibera del 26 maggio 2016, n. 19614, ha approvato le Modifiche al Regolamento di attuazione del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, concernente la disciplina degli emittenti, adottato con delibera del 14 maggio 1999, n. 11971 e successive modificazioni, resesi necessarie, tra l’altro, “al fine di allineare le relative previsioni a quanto stabilito dalla Direttiva 2004/109/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 dicembre 2004, come modificata dalla Direttiva 2013/50/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 ottobre 2013, anche tenuto conto delle disposizioni recate dalla Direttiva 2007/14/CE della Commis-sione, dell’8 marzo 2007”. Inoltre, con il medesimo provvedimento, la Consob ha ade-guato il Regolamento emittenti alle disposizioni del D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 25, (vds. segnalazioni di dir itto commerciale sul n. 5/2016 di questa Rivista). La delibera della Consob n. 19614 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 6 giugno 2016, n. 130.

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SEGNALAZIONI DIRITTO COMMERCIALE

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GIURISPRUDENZA Delibera di azzeramento e contestuale ricostituzione del capitale sociale – Confer-mando un proprio costante orientamento, il Tribunale di Milano ha ribadito che “la de-cisione degli azionisti di ottemperare al disposto imperativo dell’art. 2447 c.c., provve-dendo all’azzeramento e alla contestuale ricostituzione del capitale (in limiti peraltro opportunamente definiti nel caso di specie sulla base delle precise indicazioni offerte dal collegio sindacale), comporta necessariamente un primo momento di formale perdi-ta integrale del capitale sociale”, al quale “non corrisponde necessariamente un corre-lativo ed effettivo azzeramento del valore patrimoniale delle quote, alla luce delle ben possibili migliori condizioni di fatto in cui possa versare in concreto la società post ri-capitalizzazione, senza pertanto che sia configurabile neppure in astratto un immediato automatismo tra perdita integrale del capitale sociale ed azzeramento del valore delle partecipazioni azionarie”. A fortiori nella vicenda posta al vaglio del Tribunale, laddove “l’esito della diluizione della partecipazione […] da un lato ha lasciato inalterata la sostanziale irrilevanza, sotto il profilo del «peso giuridico», della partecipazione dell’attore (rimasta sia dopo che ante inferiore al 5%), e dall’altro abbia comunque conservato al socio una parteci-pazione in una società sanata e ripatrimonializzata con il prevalente apporto degli a-zionisti di maggioranza”. La sentenza del Tribunale di Milano del 14 aprile 2016, n. 4686, è consultabile sul sito www.giurisprudenzadelleimprese.it. Sospensione cessione quote s.r.l. – Il Tribunale di Milano, in un procedimento pro-mosso ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c., ha deciso che, per poter richiedere “la so-spensione in via d’urgenza degli effetti di un contratto con misure interdittive oltretutto totalmente rimesse alla discrezionalità del giudice, occorre allegare – prima ancora che dimostrare – che le condotte asseritamente inadempienti della controparte stiano minacciando un diritto almeno potenzialmente assoluto con un pregiudizio di tipo non meramente patrimoniale o quantomeno non suscettibile (ex se o in concreto) di ristoro per equivalente pecuniario”. Sicché, il Tribunale ha rigettato il reclamo promosso av-verso un’ordinanza emessa a fronte di un ricorso ex art. 700 c.p.c., nel quale si r ichiede-va al Giudice di inibire condotte che avrebbero comportato per i ricorrenti il “rischio di non conseguire alcun prezzo” per la cessione di quote di una s.r.l., “perché compensato con il maggior indennizzo preteso dal cessionario illegittimamente ed in forza di clau-sole illecite e nulle”, ed il “ rischio di rispondere con il proprio patrimonio personale per asseriti debiti della società ceduta”. L’ordinanza del Tribunale di Milano del 21 aprile 2016 è reperibile sul sito www.giurisprudenzadelleimprese.it.

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Effetti della cancellazione dal Registro delle imprese – In due recenti pronunce di merito è stato affrontato il tema degli effetti derivanti dalla cancellazione dal Registro delle imprese. Nella prima decisione, il Tribunale di Roma ha disposto la cancellazione dell’ iscrizione della cancellazione di una s.r.l. in liquidazione ai sensi dell’art. 2191 c.c., in difetto dei presupposti di legge, atteso che “dal bilancio finale di liquidazione depositato risulta, in particolare, l’esistenza di crediti verso clienti, crediti tributari e disponibilità liquide che non sono state oggetto di alcuna attività di recupero”, nonché “la contemporanea presenza anche di poste debitorie che, non avendo proceduto il liquidatore alla realiz-zazione dell’attivo, non è stato possibile soddisfare”, dovendosi – conseguentemente – rilevare che, “quando il bilancio finale documenta la contemporanea esistenza di poste debitorie e creditorie oppure di beni mobili o immobili non liquidati (e non utilizzati quali forma «diretta» di pagamento dei creditori sociali), il bilancio presentato non at-testa la conclusione dell’iter liquidatorio”. Nel secondo provvedimento, il Tribunale di Prato, applicando i principi statuiti dalla Cassazione (Cass., SS.UU., n. 6070/2013, menzionata anche dal Tribunale romano, e Cass. n. 13017/2014), ha rilevato che, “nel caso in cui un credito della società sia og-getto di un giudizio di accertamento, e che pertanto non possa ancora essere considera-to nel bilancio di liquidazione, perché detto bilancio postula che le operazioni di liqui-dazione siano concluse, la società ha l’onere di proseguire il giudizio e di non cancel-larsi dal Registro delle imprese”. Di conseguenza, per il Tribunale, “non si trasferisco-no ai soci le pretese che, benché azionate in giudizio, non sono state indicate nel bilan-cio di liquidazione in quanto la loro inclusione avrebbe richiesto un’attività ulteriore – la prosecuzione del giudizio da parte del liquidatore – il cui mancato espletamento”, da parte di quest’ultimo – riflesso nella cancellazione della società, che ne comporta “ l’estinzione ed il venir meno della legittimazione del liquidatore nel giudizio” – “con-sente di ritenere che la società vi abbia rinunciato”. Conclusivamente, “non potendo i soci succedere in un credito cui la società abbia rinunciato, non possono richiederne poi la liquidazione in proprio favore ed avvalersi della sentenza emessa nei confronti della società cancellata, che risulta pertanto inutiliter data”. La pronuncia del Tribunale di Roma del 19 aprile 2016 e quella del Tribunale di Prato del 21 maggio 2016, sono disponibili sul sito www.ilcaso.it. False comunicazioni sociali – Come anticipato nell’Informazione provvisoria n. 7 (vds. segnalazioni di diritto commerciale sul n. 7/2016 di questa Rivista), le Sezioni Unite pe-nali della Corte di Cassazione hanno sancito che, “pur dopo le modifiche apportate dal-la Legge n. 69 del 2015, (anche) in tema di false comunicazioni sociali, il falso valutati-vo mantiene il suo rilievo penale”, affermando il principio di dir itto in forza del quale “ sussiste il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo all’esposizione o

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SEGNALAZIONI DIRITTO COMMERCIALE

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all’omissione di fatti oggetto di «valutazione», se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in mo-do concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni”. La decisione della Corte di Cassazione penale, SS.UU., del 27 maggio 2016, n. 22474, è consultabile sul sito www.ilcaso.it. Azione di responsabilità ex art. 2476, 3° co., c.c. – La Corte di Cassazione – pronun-ciandosi “in tema di azione di responsabilità sociale promossa nei confronti degli am-ministratori e dei sindaci di s.r.l., ai sensi dell’art. 2476, 3° co., c.c., dai soci in sostitu-zione processuale della società” – ha stabilito che, “nel caso di suo successivo fallimen-to, ai sensi dell’art. 146, 2° co., lett. a), L.F., è il curatore fallimentare l’unico soggetto legittimato a proseguire l’azione”. Ragion per cui, “quando nel corso dell’appello rias-sunto nei confronti del fallimento della società, il curatore non abbia inteso proseguire l’azione, la causa deve essere dichiarata senz’altro improcedibile, per sopravvenuto di-fetto di legittimazione attiva dei soci”. Il provvedimento della Corte di Cassazione del 31 maggio 2016, n. 11264, è reperibile sul sito www.ilcaso.it.

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SEGNALAZIONI (A CURA DI LEONARDO NESA)

SEGNALAZIONI DI DIRITTO TRI BUTARIO

NORMATIVA È operativo il nuovo sistema di pagamento del canone tv in bolletta - Approdato in Gazzetta Ufficiale il decreto del ministero dello Sviluppo economico n. 94 del 13 maggio 2016 contenente le disposizioni attuative, dai flussi informativi per l’addebito al riversamento delle somme all’erario del canone Tv addebitato in bolletta elettrica. Il primo addebito avverrà con le fatture emesse successivamente al 1° luglio e riguarderà tutte le rate scadute nell’anno in corso mentre a regime, il pagamento avverrà in dieci quote mensili da dieci euro ciascuna, da gennaio a ottobre, per un totale di cento euro a famiglia. Con la pubblicazione del Decreto in Gazzetta Ufficiale si è completato il quadro normativo del nuovo canone tv stabilito dall’articolo 1, comma 154, della legge 208/2015 (Stabilità 2016). Nel decreto, in primo luogo, sono contenute le regole sullo scambio di informazioni tra Agenzia delle Entrate e Acquirente unico Spa (il gestore che garantisce la fornitura di energia elettrica a famiglie e piccole imprese), finalizzato a individuare i contribuenti esentati e quelli che, invece, sono tenuti al versamento del canone. I l gestore unico mensilmente rende disponibili alle imprese elettriche le informazioni necessarie all’addebito del canone tramite un’apposita banca dati denominata Sistema informativo integrato e individua dai flussi informativi ricevuti dall’Agenzia i soggetti che non devono pagare il canone. Va posta attenzione se nessun componente del nucleo familiare tenuto al pagamento del canone è titolare di contratto di fornitura elettrica, o nei casi in cui l'energia viene distribuita da società non interconnesse con la rete di trasmissione nazionale, poiché il versamento deve essere effettuato direttamente, in unica soluzione, con il modello F24 utilizzando i codici istituiti dall’Agenzia delle Entrate. La scadenza per l’anno 2016 è fissata il 31 ottobre. Le società elettriche che riscuotono il canone devono riversarlo all’erario entro il giorno 20 del mese successivo a quello di incasso. L’intero canone ricevuto è comunque riversato entro il 20 dicembre di ciascun anno. In caso di mancato pagamento totale o parziale della fattura, l’impresa elettrica provvede agli ordinari solleciti, anche per la parte relativa al canone. Eventuali sanzioni e interessi sulla quota di canone non versata o eventuali azioni di recupero per mancato pagamento sono di competenza dell’Agenzia delle Entrate. Il mancato pagamento del canone, in ogni caso, non comporta il distacco della fornitura di energia elettrica.

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SEGNALAZIONI (A CURA DI LEONARDO NESA)

Le famiglie che, pur avendo presentato la dichiarazione di non detenzione dell’apparecchio o di sussistenza di altra utenza elettrica, si vedono addebitare nella bolletta il canone, possono presentare domanda di rimborso. Sarà compito dell’Agenzia (con provvedimento da emanare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del decreto) definire le modalità di trasmissione dell’istanza. Le domande di r imborso saranno esaminate dallo Sportello Sat della Dp di Torino delle Entrate che, accertata la sussistenza dei presupposti della richiesta, trasmette le necessarie informazioni all’Acquirente unico, il quale, entro cinque giorni dalla ricezione, rende disponibili alle imprese elettriche i dati dei contribuenti da rimborsare e il relativo importo. Le società elettriche provvederanno ad accreditare le somme sulla prima bolletta utile. (Ministero delle Sviluppo Economico, Decreto n. 94 del 13 maggio 2016, pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 4 giugno 2016) Fissate le regole per l’agevolazione concessa ai lavoratori “impatriati” - Con il decreto del 26 maggio 2016 il Mef ha ufficializzato le disposizioni attuative del regime fiscale destinato ai “lavoratori rimpatriati”. Trattasi delle agevolazioni concesse ai lavoratori altamente qualif icati, che trasferiscono la residenza in Italia che in base alle regole dell'articolo 16 del Dlgs 147/2015 ("decreto internazionalizzazione") tassano il reddito da lavoro dipendente prodotto nel territorio dello Stato nella misura del 70 per cento. Il beneficio vale per i periodo d'imposta in cui avviene il trasferimento e per i successivi quattro. Nel decreto sono ribadite le ulteriori condizioni richieste: • i lavoratori non devono aver risieduto in Italia nei cinque periodi d'imposta

precedenti il trasferimento e devono impegnarsi a rimanere nel Paese per almeno due anni;

• l'attività lavorativa deve essere svolta presso un'impresa residente nel territorio dello Stato in forza di un rapporto di lavoro instaurato con questa o con società che direttamente o indirettamente controllano la stessa impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l' impresa;

• l'attività va prestata nel territorio italiano per un periodo superiore a 183 giorni nell'arco di ciascun periodo d'imposta;

• i lavoratori devono svolgere funzioni direttive e/o possedere i requisiti di elevata qualificazione o specializzazione (D. lgs 108/2012 e D. lgs 206/2007).

(Ministero dell’Economia e delle Finanze, Decreto del 26 maggio 2016, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 132 dell’8 giugno 2016)

I NDICAZIONI INTERPRETATIVE E APPLICATIVE L’Agenzia chiarisce il “super ammortamento” sui beni aziendali nuovi - Con la circolare n.23/E l’Agenzia fornisce indicazioni per usufruire del cosiddetto “super ammortamento”, l’agevolazione, introdotta dalla legge di Stabilità 2016, che prevede l’incremento del 40% del costo fiscale di beni materiali acquistati nel periodo dal 15

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SEGNALAZIONI (A CURA DI LEONARDO NESA)

ottobre 2015 al 31 dicembre 2016. Il maggior costo, riconosciuto solo per le imposte sui redditi, può essere portato a deduzione del reddito attraverso l’indicazione in dichiarazione dei redditi. Rientrano nell’agevolazione tutti gli acquisti di beni materiali nuovi che siano strumentali all’attività d’impresa o professionale. Nella circolare sono illustrate, anche tramite esempi, le modalità di calcolo del maggiore ammortamento deducibile e chiarisce alcuni casi particolari, ad esempio come trattare i beni acquisiti con contratto di leasing e quelli realizzati in economia. La maggiorazione del 40% riguarda anche i veicoli a motore: sia i mezzi esclusivamente strumentali o adibiti ad uso pubblico, sia quelli dati in uso promiscuo ai dipendenti per la maggior parte del periodo d’imposta, sia, infine, quelli utilizzati per scopi diversi (con deducibilità limitata e limite massimo alla rilevanza del costo di acquisizione). Possono usufruire del super ammortamento tutti i titolari di reddito d’impresa, indipendentemente dalla forma giuridica, dalla dimensione aziendale e dal settore economico in cui operano, e i lavoratori autonomi che svolgano arti o professioni anche in forma associata. Agevolazione aperta anche ai contribuenti minimi e a coloro che rientrano nel “regime di vantaggio” per l’imprenditoria giovanile e i lavoratori in mobilità, le stabili organizzazioni nel territorio dello Stato di soggetti non residenti e gli enti non commerciali per quanto riguarda l’attività commerciale eventualmente esercitata. Non possono godere dell’agevolazione, invece, le persone fisiche che svolgono attività d’impresa, arti o professioni usufruendo del regime forfetario, visto che nel loro caso il reddito è calcolato applicando un coefficiente di redditività al volume dei ricavi o compensi e non come differenza tra componenti positivi e negativi. Allo stesso modo, sono escluse le imprese marittime che calcolano il reddito con il regime della “tonnage tax”. (Agenzia delle Entrate, Circolare n. 23/E del 26 maggio 2016) Ampliato il regime del reverse charge alle cessioni di console da gioco, tablet Pc e laptop - Chiarite le nuove regole in merito all’inversione contabile Iva (reverse charge) applicata alle vendite di console da gioco, tablet Pc e laptop, nonché alle cessioni di dispositivi a circuito integrato, quali microprocessori e unità centrali di elaborazione. La diposizione introdotta dal Decreto Legislativo 11 febbraio 2016 n. 24 (in attuazione delle direttive 2013/42/UE e 2013/43/UE) è entrata in vigore dal 2 maggio di quest’anno. Il meccanismo prevede che il destinatario della cessione, se soggetto passivo d’imposta, sia obbligato all’assolvimento dell’Iva, in luogo del cedente. I chiarimenti dell’Agenzia il funzionamento del meccanismo del reverse charge le cessioni coinvolte. In particolare, in merito al primo punto, l’istituto prevede che il venditore emetta fattura senza addebitare l’imposta con l’indicazione della norma che regola l’applicazione del reverse charge. L’acquirente sarà tenuto ad integrare la fattura indicando l’aliquota e la relativa imposta e, allo stesso tempo, ad annotare il documento

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SEGNALAZIONI (A CURA DI LEONARDO NESA)

sia nel registro delle fatture emesse o dei corrispettivi sia nel registro degli acquisti. Per quanto concerne le tipologie di cessione le Entrate precisano che il reverse charge si applica per le sole cessioni di beni effettuate nella fase distributiva che precede il commercio al dettaglio. La novità interesserà le operazioni effettuate a partire dal 2 maggio 2016 e f ino al 31 dicembre 2018. (Agenzia delle Entrate, Circolare n. 21/E del 25 maggio 2016)

VARIE 5 per mille 2016, pronti gli elenchi definitivi, oltre 51mila gli iscritti - Sono pronti e disponibili sul sito internet dell’Agenzia delle Entrate gli elenchi definitivi 2016 degli enti del volontariato e delle associazioni sportive dilettantistiche, aggiornati e integrati rispetto a quelli pubblicati lo scorso 13 maggio. Le liste tengono conto delle correzioni di eventuali errori segnalati alla Direzione regionale dell’Agenzia territorialmente competente. Cresce ancora il numero di iscrizioni al 5 per mille che sale infatti a quota 51.724 candidati in corsa per la ripartizione dei fondi. La prossima scadenza è quella di fine giugno al fine di presentare alla Direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che attesti i requisiti di ammissione all’elenco. I l modello da utilizzare deve essere conforme a quello pubblicato sul sito. Alla dichiarazione occorre allegare copia del documento di riconoscimento del legale rappresentante che sottoscrive. Gli stessi tempi e le stesse regole valgono anche per le associazioni sportive dilettantistiche, i cui rappresentanti legali però dovranno presentare la documentazione richiesta alla struttura del Coni competente per territorio. Per i ritardatari è in ogni caso possibile sanare le domande entro e non oltre il 30 settembre. In questo caso, per partecipare al riparto delle quote del 5 per mille occorre versare con F24 una sanzione di 250 euro (codice tributo “8115”). Naturalmente, i requisiti per l’accesso al beneficio del 5 per mille 2016 devono comunque essere posseduti alla data di scadenza delle domande d’iscrizione (7 maggio per gli enti di volontariato e le associazioni sportive dilettantistiche e 30 aprile per gli enti della ricerca scientifica e dell’università e quelli della ricerca sanitaria). (Agenzia delle Entrate, comunicato stampa del 25 maggio 2016)

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NORMATIVA, GIURISPRUDENZA, DOTTRINA E PRASSI

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