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Giovanni Baldaccini Storie di mare e deserto

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  • Giovanni Baldaccini

    Storie di mare e deserto

  • Introduzione

    Dicono che nei mari verso nord le isole scompaiono per via di certi riflessi che chiamano aurora boreale che cancellano il mondo e l’evenienza.Dicono che i poeti, come gli uccelli, non abbiano biografie diverse dai suoni che emettono e che i versi si incidono nel ghiaccio in una verticalità senza frontiera.Dicono poi che l’acqua non fa ombre, neppure lungo le soglie e i continenti e per questo gli uomini si trovano spaesati, anche perché l’inverno non ha sole e dura per sei mesi e le donnesi scaldano soffiando sulle stelle.Dicono che gli iceberg non si sciolgano, dalla Finlandia ad oltre, e che il Baltico sia un mare di sussurri e richiami di un tempo congelato che non sa trasferire le scorrerie dell’acqua aimiei occhi notturni e alla notte dove il mondo scompare.

    (Tratto da "Metafisiche a terra" youcanprint, 2017.

  • Frammenti

    Travasava da emisferi lontaniastri, la notte.

    Spume traevano soffi. Nebbia saliva apatica la valle

    con fare arabescante di frontiera.Nubi:

    scosse da vento instabile e frammenticome sempre le cose.

    Lei soggiornava pallida nell’arco addormentato delle braccia

    mentre i capelli formavano una sorgente di pensieri

    umidi come le sfere alte della notte.

    Astri a silenzio impavido;ancora poco, temo.

    Poi sospirava appena: forma d’alba.(Rivolgendomi incerto):

    fuggiremo cuore mio?(c’era silenzio dietro le sue ciglia).

    Celarsi.Quando mi lascio andare

    m’incateno a qualcosa che non c’è.

  • Senza filo

    Telefonami possibilmente a primaveraquando i cisti preparano i boccioli

    e le viole si sveglianoai salti delle rondinichiamami verso sera

    quando avrò espulso il vuoto che mi copree potrai riconoscere la voce

    che altrimenti sembrerebbe l’avampostodi una città perduta

    un temporaleun transito di sogni senza voglia

    ma non farmi aspettare più di un annoche non saprei distinguere tra i giorni

    di un’attesa stentatama se vorrai non farlo non chiamarmi

    e farò finta di telefonarmiquando viene l’estate

    e i cisti hanno riposto lo splendoree la sera le viole.

  • Storie di mare e deserto

    “Fortune” delirio breve

    Terzo mese di navigazione: alito spento. L’allucinante azzurro privo di ringhiere spazia d’intorno con beffarda piatta. A prua, soffio improvviso d’acqua spudorata (balene?). Ricade: doccia a gocce con fremito sgusciante di frescura. La notte però è dura: caldo dilaga a bordo.

    Travasava dispersa: luna d’argento al soffio delle stelle. Bracieri affannati divaricavano assiduo spazio nero. Io rammendavo calze. E buchi della vita.

    Sotto la chiglia fremito sommesso: forse sirene. Poi nulla. E sudore: febbre d’ansia.Più tardi: sole. Cioè alba.Il guscio che contiene la paura staticamente attende. Vele flosce. Ammainare una scialuppa? Prima tracciare rotta.Tra calcoli furiosi: dove ho messo il sestante? Trasversali linee spaziamo carta gialla. Ovunque mare. Sono perduto se non emerge un’isola nascosta. Notte propone stelle a dismisura dove si sperde l’occhio e la speranza non aiuta a trattenere il fiato che spezzo come tosse asciutta.Navigherò le volta goccia a goccia quando la morte solleverà dal fondo del mare cimitero questo corpo. Trasporterà con ali di cicogna verso aliti di diversa specie e lanterne di madre che

  • consola. Ma non voglio morire.

    Due settimane oltre. Niente acqua.E non si muove l’alito del vento che nega il suo respiro a questa ciurma.Morti. L’ultimo l’ho buttato fuori bordo ieri. Tuttavia non mi annoio.Sogni volano l’aria. Bussano alla cabina ogni sera o è delirio che si addensa attorno? Comunque, non manca compagnia: ci divertiamo parecchio. Si fa musica, si balla, si sbevacchia. Donne arruffate ingolfano la nave rivendicando primati d’allegria. Difficile soddisfarle tutte. Qualche sirena uscita dal bordello la notte s’incanala sotto chiglia. Salgono dalla poppa bombardata mentre tendo una vela per scaletta. Fanno scompiglio. Razze diverse, difficile azzerare pretese. In genere finisce con frittura. Le ragazze sanno cucinare; in fin dei conti è pesce. Stranamente di giorno resto solo: i fantasmi veleggiano di notte.

    Nel terzo mese terza settimana. Alita.Rattoppate di fretta vele scampate all’ultima tempesta. Nella cabina che fu del capitano traccio rotte ostinate. Dunque cavalco derelitta sera con remi a sostenere scarso vento. Che soffia, mulinando blando. Aiutare col fiato.Sera. La tosse è peggiorata. Qualunque medico giurerebbe che l’aria marina giova a polmoni e bronchi e il sole che non manca svolge la sua parte ad asciugare vecchi catarri e fondi di bottiglie trangugiate nei porti di Giamaica e Bangladesh. Probabilmente la dieta ripetuta (manca qualsiasi varietà) peggiora lo stato del catrame che ingoio e che dilaga nel corpo ad ogni ora. Annerisco.Sembra non farci caso la rossa balenante che sguscia dalla

  • stiva e mi si accosta. Mi piaci – dice – Tu invece puzzi! – Sibila alla sirena che mi aiutava ad orinare in mare. Parte un colpo di coda, come tutte le sere. Veleggio lieto, mentre quelle friggono il cadavere di turno. Si stappa qualche birretta, allegramente.

    Terzo mese settimana quarta (dunque ultima).Questa mattina un seme. Seguito da compagni di frontiera trasportati da vento innominato. Cade propenso e intatto dentro un vaso di terriccio rappreso. Ne ignoro provenienza (vaso e seme). Tuttavia, se piovesse, sarebbe una provvista di verdura, fonte sicura d’alimentazione (almeno credo. Potrebbe anche trattarsi di qualche pianta carnivora e rognosa inadatta al sostentamento tranne il suo). Mangiare insetti? Ancora non ci avevo pensato.Quindi la sera (smaniavo mica male steso sul legno fradicio del ponte), la ciurma salta a bordo.Dico ragazzi… siete morti… – fanno cenno di sì. Si radunano accanto al sottoscritto. Mi alzo, impugno i resti torti del timone. Vi riconduco a casa (gemito)… vi riconduco… E notte spazza radosparso cielo incoraggiata da stelle alla ventura. Vomito. Quindi raddrizzo la barra del timone: vi riconduco…. E luna gialla specchia nero mare nel fondo dei suoi abissi coloniali. Se potessimo navigare nella luna si arriverebbe prima. Piccola com’è curcumnavigare sarebbe un gioco. (Assentono con gli occhi volti verso l’astro terso). Ci voleva un po’ di compagnia.

    Visitato da immagini guizzanti.Selvaggio e immenso, vorace tuorlo d’uovo dardeggiante spande raggi ustionanti nell’azzurro. Dunque sott’acqua. Come pesce squamoso guizzare tra sostanze rinfrescanti. Sguscio, branchiale e senza sforzo con assestati scatti della

  • coda. Lateralmente pinne danno spinta; peccato la lisca. Sarebbe meglio filamentose e molli propaggini pendulari indipendenti: medusamente argento.Banchi addensati di scintillanti forme scartavano striature lumescenti, reminiscenze di raggelata luce. Tra sconcerto diffuso, supero la barriera. Di fronte: abbacinante blu.Cartello indicatore: pescecani. Seccato, intraprendo discesa verticale; tali stupidi pesci non osano l’abisso. Poco più in là: delfini.Quindi tramonta ottusamente opaco l’importuno discale balenante. Nero d’incanto. Scure onde. Come la cresta e annessi. Finalmente, nello sfrenato intenso spumeggiare, riconosco appartenenza limacciosa.E affermo: non sopporto tutto quello che so.La sirena preferita culoargento si accostò devastante alle mie pinne. Fluttuavano capelli luminosi nell’acqua scriteriata che respiro. Con repentina mossa del suo seno mi strusciò lungo il corpo seroastrale.Subitanea erezione. Fuoriuscì materiale dalle squame. Deliziato mi chiedo: e poi perché sapere?Dimenticare allora. Scomparire. Nell’acqua che scompagina il respiro. Che trattengo invano. Pensiero scoraggiante: affogo? D’un tratto impallidito nel blu intenso, ricerco salvagente di pensiero. Dunque recito: se qualcuno volesse ripescare prima che la sfortuna mi appartenga povero pazzo alquanto scoraggiato, senza vergogna affermo: prego gettare reti tremolanti anche se tristi, anche se dedicate ad oceanici occhi da qualcuno. Purché visibili. E soprattutto: in fretta.

    Risvegliato da lento sciacquolio. Annaspo.Tramonto: nel fuoco di un incendio che non brucia. E la notte che scivola le onde nel manto frantumato delle stelle porta a bordo ricordi adesso miei. Gadir, l’ultimo porto, dove tu forse sei.

  • Con l’anima intrisa di malaria e il corpo affetto e il vino che asseconda la follia: Gadir. Nella bettola di fronte al grande mare e le navi assiepate al molo scuro, con l’onda che frastaglia ma non scuote. E i vicoli, gli odori, la paura di non uscire dall’intrico stretto delle tue case attorcigliate a scale. Una porta sul fondo: penetrare.Assalito da suoni abbacinanti, fumo acre, risate, grida tese a farsi largo nell’aria troppo densa di una notte che scorre ma non passa. E tu, come sempre, aggrovigliata ai tuoi passi sfrangiati dentro una gonna rossa, variabile nei colori insani dei giri attorcigliati in cui confonde. Mi siedo muto. Aspetto. È certo che verrai.

    E mi rigiro sul ponte grasso d’acqua che penetra da falle rabberciate. Non è mia questa notte che non passa. Eppure addio: a mia madre che non vedo da anni dentro il mare; ai figli, se ancora sono vivi; alle donne che li hanno partoriti durante notti di disagio estremo. Addio a me stesso. Da sempre.

    Diario di bordo del brigantino “Fortune” della marina di Sua Maestà Britannica.

    Avvistata in acque spente nave cannoneggiata. Accostata all’alba. Nessuno a bordo. Un solo corpo, ormai irriconoscibile. Dell’equipaggio non rimane traccia. Carico intatto recuperato per intero. Spezie, sete, vasellame, casse d’oro accuratamente sigillate. Se siano frutto di razzie o commercio resta non chiarito, come la natura della nave sommariamente armata.Nessuna bandiera. Sospetto di pirati. Questo spiegherebbe la mancanza di un qualsiasi diario o documento di bordo.

  • E tuttavia qualcosa di insolito su quella nave c’era. Notate in coperta vesti femminili in brandelli, come lacerate da mani. Notati anche resti di cibo, ma la cambusa è vuota. Forse frutto di pesca visto le abbondanti lische sparse sul ponte un po’ dovunque. La forma delle stesse è tuttavia sospetta: arcuate, come di schiena umana e comunque di lunghezza non comune. Manca la parte posteriore con la coda. Non si capisce cosa sia accaduto, come sia sparito l’equipaggio. Le scialuppe sono ancora agganciate alle fiancate. È altrettanto non chiaro a chi appartenga il corpo ritrovato. Il volto ha un ghigno strano; comunque non riconoscibile visto lo stato di decomposizione.Questa nave è maledetta, dà i brividi. Avrei preferito affondarla a ispezione finita, ma il capitano dice che si deve rimorchiare fino a Plimouth; la legge del mare attribuisce scafo e carico a Sua Maestà. Dunque…. Spero solo che la gomena sia lunga.

    Secondo giorno di rimorchio.

    Strane grida dal relitto, come suoni, fracassi, urla d’inferno tra cigolii del legno e vecchi ferri. Quando la notte occulta la visione e non si scorge altro che la sagoma di un albero sfasciato e sgualciture di vele rattoppate, sciamano ombre. Il capitano dice fuochi fatui dovuti al marciume che c’è a bordo. Comunque, dato ordine di raddoppiare la vedetta. Da parte mia, aspetto con ansia il giorno. È strana questa sera.

    Tenente di vascello Roger Brown, imbarcato sul brigantino “Fortune” della marina di Sua Maestà Britannica.

  • Febbre

    36 ore di alterazione ininterrotta: smaniavo mica male. L'infinitesimale crea la vita; a volte uccide.Notte di rabbia insonne. E processione alterna di candele sfila dolente attorno al capezzale. Ritornerà la luce. Non ne sono sicuro.Dice: è perduto (il prete). Non vuole sacramenti. (Scongiuri vari sotto le lenzuola).Fuori Caracas frigge; storia vecchia. Nei quartieri spauriti di collina danze di cani forano la notte. E digrignanti denti.Luna veleggia forme d'ombra e case. Tra voci di frontiera: tracannare ultimi fiati e la bottiglia.

    L'altra sera al bordello: Corazòn! Roteare di gonne sfoderate: scegliere la più bella. Ha occhi tristi traboccanti sogni. Non conosce diversità; è qui da 16 anni; è nata qui. Le ho regalato una collana di tristezze. Sorride.

    C'era un vascello, un vecchio galeone, tra voli di gabbiani sconcertati e vento frantumato alla scogliera. La febbre gialla e la quarantena. Era fresca l'acqua della baia quando mi tuffo e spazio con le braccia verso riva dove finisce il mare. Senza di te: troppi 40 giorni.Quando approdo mi dicono sei morta. Una disgrazia breve quando la morte spande le parole di un addio quotidiano. Senza ragione o chiedersi perché.Leòn dice che non sa come è successo. T'hanno trovato la mattina al fondo di una strada derelitta; non avevi più sangue. Se n'era andato dal tuo corpo stretto; un cane ne leccava i

  • rimasugli. Eri bianchissima, dice, immensamente bella. La morte non t'aveva sfigurato, tranne una ferita nella gola. Forse è per questo che t'aveva ucciso: gelosia.

    Le ho regalato una collana di tristezze e un pensiero bagnato: naufragare.Devo trovare imbarco... un nuovo approdo... Devo trovare onde di mare di dimenticanza. Fa caldo e il cuscino è inzuppato. Leòn mi copre; ritiene inutile chiamare il medico visto il mio stato.

    Due notti fa: visitato da immagini sognanti.L'Albatros navigava la corrente tra spume azzurre e verdechiaro mare. Stormo di pellicani a frontevista: solenni e naufraganti. Becchi inzuppati d'alghe e pesci australi ormai privi di scampo. Uno ferito beccheggiava dietro, battito d'ali alterno e affaticato (qualche fiocina destinata a una balena lungo un volo azzardato a pelo d'acqua). S'è posato sul ponte della nave; ha chiamato sirene. Insieme hanno cantato una canzone nella notte che sfuma le mie vele e luna d'oro sorretta da figure lampeggianti delle stelle. Variegati gli odori. Schiuma di mare nelle loro voci. Una canzone amara. Parlava di un intreccio di collane; una per te, l'altra non destinata. Vento soffiava lieve fino all'alba che torna da lontano timorosa, mentre i sogni si sfaldano sfumando e ogni canto svanisce. Se n'è andato zoppicando dentro l'aria; le sirene nel mare, senza addio.Mi hai regalato una tristezza fonda. E febbre.

    Giravolte nebbiose irregolari: le pali roteanti dal soffitto. Impazzite le mosche.Rumore lieve ripetuto e sordo. Un castigo ipnotico.Hanno chiuso la porta. Uscendo, Leòn s'è fatto il segno della croce.

  • Nessun sollievo nell'umido del mondo; più che altro sudore. E la puzza, il rancore, l'incostanza.Con pensiero accaldato. Non si muore così: vengo a cercarti.

    Ore disperse: solo. Guardarsi ancora intorno. Notte diffonde sogni d’incostanza e vento spazza rimasugli assommati d’altro niente. Prima di uscire, Leòn m’ha messo al collo una collana che era della madre. Tienila tu, mi ha detto. Ricordo chi la portava: una donna tristissima.

  • Arbusti

    Merce scarsa stasera: porto come ectoplasma. Andirivieni sulla passerella = facchini senza voglia. Osservo.Ieri al mercato nero: fatta incetta: vino 10 barili spezie di Tiro 4 casse polvere bianca 2 3 puttaneE quelli caricano. Le puttane no: saliranno da sole. Per ora contro un muro, con la preoccupazione dentro gli occhi.Poco distante approda “La Tempesta”. Il capitano è guercio: sbatte contro un pilone. Da parte mia sorseggio verdeluna (una mistura infernale di polvere e robaccia. Non dico cosa).Intanto: vento striava nuvole. Assiduo rovistava tra locali affacciati lungo il molo. E musica a casaccio da locande sperdute nella nebbia.Però soffiava: tramontana. Significa mare piatto e vele gonfie. Perfetto per salpare.Carico ultimato sulla “Sera”. Dò voce alle ragazze. Spargono sguardi inquieti.Vele rosso di fiamma e scafo nero. Cigolare di corde mentre stacco dal molo sbriciolato tra sussurrante mare.Accostavo la notte che sfiorava l’acqua e la prua. Onda leggera fruga sotto chiglia tra spinta di corrente. E spasmi delle corde: navigare.Ore inoltrate. Nessuna luce alle spalle: Gadir sfuma nel nero. S’azzerava la soglia del sapere e vento spinge. Africa a dritta.Sbadigliando. Richiamo Anha. Mi segue in cabina. Si spoglia; e speranzosa porge la sua malinconia spersa tra seni grandi.Intanto s’adunava la pazzia. Saremo sazi nella volgarità dell’evidenza. Quindi sonno.

  • Verso l’alba. Mulinellava lieto guizzo vento a tratti. Azzurrava: fondo blu. Scomparivano selvagge nude stelle tra verderame striato delle nubi. Ancora una strizzata di sudore. E sgualciture di cuscini e corpi.Più tardi: vele a dritta.Veloci solcavano le onde dentro l’azzurro incerto mareggiante acuminati vascelli nerofumo. Scure le vele: riconosco pirati libici. M’inerpicavo a prua. Dritto: che mi vedano. Accostano. Mohammed salutava rispettoso; ricambiavo l’inchino. Trasbordo le puttane, con un addio velato a grandi seni colmi di tristezza. Al mercato conosceranno il prezzo.S’allontanano veloci, come sono arrivati. E vela nell’azzurro. Girovagare un po’.Grigioramati bronzei delfini sollevavano spruzzi fino al cielo tra canti delle femmine azzurrate. Io riflettevo nuvole salmastre a fondo d’occhi volti verso l’alto. Scervellavano bianchi pellicani con terrore che guizza tra le onde. Zac! Nel becco. E gozzo gonfio. Certificavo assenze di rumore che non fosse sciabordare schiumato. Nessuna voce se non richiami argentei di sirene che slanciavano code in un inseguimento prolungato della mia barca e il vento. Quando toccherò terra e il carico avrà reso al mercato, comprerò due cammelli per la fuga. Cercherò Orione, nel fondo del deserto senza fine dove la luce stenta e gli ammassi inerpicati delle stelle cavalcano veli di notte e luna. Orione, culla malata dei miei sogni d’ansia. Non so dire perché, ma nel suo nome e luce scorgo riflessi di essenzialità.

    Velenoso come un istrice siriano, l’oste trinciava ossa di vitello. Poi dentro un grigio vasellame sporco. Alle serve, per fumigante cena.M’arrotondavo con speziato vino tra vapori d fumo e nostalgia. In mattinata: venduto tutto. Passato di sfuggita al

  • caravanserraglio: cammelli già pronti per la sera.S’aggiustavano intorno: beduini. Con sciacalli alla corda, legati a un tavolaccio lì vicino. Per la caccia dentro la vastità di dune spoglie. Ed allarme, nel teso della notte.Dalle cinture strette travasavano lame. Arcuata la forma, per recidere meglio incaute teste. Chiuso nei fatti miei me ne fregavo. Loro altrettanto.Balenava leggera incerta luce dalla finestra aperta sulla strada da cui passavano voci infatuate di saltimbanchi e venditori assidui. Non prestavo attenzione che a una cosa: quando sei entrata. Non dovevi essere lì.T’accosti; siedi, con infinita morbida ironia. Nel tuo sorriso stanco una richiesta. Faccio cenno di sì. Poco distante, una fanciulla nera s’arrotolava tra sbiadite note. E scimmie di contorno. Poi grida; fugge. E la sala si svuota.Pirati libici sulla soglia, con movimenti lenti verso me.Mi pare d’aver comprato quella donna (Mohammed, fulgido come stella del mattino).Te la ricompro.Scuote la testa.Allora chiedi a lei se vuol tornare.Nega ancora.Dunque...?Devi capirmi, capitano, non è per te: è questione d’onore.Mi circondano in quattro. Pallida come un’alba senza sole, Anha si alza. Trema mentre si pone con le spalle al muro.Non ci torno con te! - Sputa. Poi cade, un pugnale nel petto.Quando sono uscito da lì c’erano quattro morti oltre la donna. Mi cercheranno.

    Leggero il trotto dell’animale fulvo. Zampe dinoccolate e ventre gonfio, mi trasportava con leggero spasmo. L’altro seguiva sghembo con la soma.S’argentava infinita la distesa violenta delle dune sotto uno

  • sguardo apatico di luna. Tensioni s’aggrottavano nell’aria. Ogni tanto scendevo dalla bestia che rantolava aspra: cancellavo le orme. Intorno: ruggiti dentro l’ombra.Animali malati strisciavano nel buio radunato tra cielo scuro e sabbia. Versi duri di fame. Ricurvo, traballavo su dorso spelacchiato. Fremiti percorrevano la bestia di cui intuivo la fatica. E il terrore, mentre l’altro cammello già scalciava sotto zanne affilate sulla groppa. Non ha scampo: le leonesse non dispensano sorrisi.M’allontanavo nel buio che avvolgeva. Salvo, per ora.Un dio velato ai bordi della luna indicava tra raggi la mia strada. La luce galleggiava verso est; io navigavo a vista, tra troppa sabbia e lampi d’astri assenti. Poi la tempesta frana in forma di deserto sulla faccia.Ansimava bavosa: la bestia cui m’avvolgevo tetro. Tali animali gialli e disattenti posseggono doppia palpebra negli occhi. Io no. Per cui: brancolare alla cieca.Spalmavo: lingua e saliva contro il fazzoletto che mi premevo sulle labbra morte. Né fiato. E sabbia nei polmoni.

    All’interno di ciglia, l’orbita balenante che s’alzava nell’infuocata luce del mattino trangugiava con calma ogni allucinazione dentro i sogni. Guardarsi intorno. Nessuna traccia ancora di tempeste e l’animale rantolava a terra negli spasmi di un’ultima avventura. Un breve sguardo: m’allontanavo incerto.Rincorrevo uno zefiro spalmato da lontananze inquiete sulla terra. Granelli galoppavano leggeri verso mete sfrontate. Io dilagavo nei riflessi d’oro dove perdevo ogni riferimento e conoscenza. Ah tu, misera veste d’arroganza, dove t’inoltri ancora? E vento ripeteva le canzoni che bambini indecisi fischiavano da direzioni ignote.Vacillare, come un attimo spento. Tuttavia soccorrevoli pensieri sostenevano il passo. Laggiù, dove non vedo e ignoro,

  • una città desertica veleggia verso di me su zampe spumeggianti di levrieri e nidi d’api preparano il mio miele che leccherò tra zampilli di vino e guizzi d’acqua che trasbordano dalle fontane argento tessute da giganti tra le mura. E donne degne di un reggente d’India leniranno i miei mali. Voglie assidue riempiranno le stanze a me apprestate con seta dentro i letti dove sguscio e divarico: ogni limitazione. Festeggerò la morte con rituali attenti. Femmine di fantasmi alla mia corte, tra sguainate cosce e seni tristi, ricolmi d’una malinconia senza speranza.

    M’attardavo nei passi d’ombra che lasciavo indietro. Con la vita: una sventura vecchia che finisce.Una cometa traversava antica l’orizzonte squarciato. E spasmi sfolgoranti delle stelle, divaricato campo alluvionale di nebulose ed infiniti luoghi. Mi rattrappivo minimo evasivo. Orione veleggiava la sua notte nel nord est dei miei occhi. Mi siedo, tra vacillare d’anima.C’era una volta un dio sulla mia strada. Iside, la sua sposa, rattoppava le membra ormai sbiadite tra fasce in cui la morte avvolge. Lui la lasciava fare, tumefatto, come un pensiero ormai diseredato. Non c’è spazio nel nulla. Una fiumana tesa di ricordi s’aggiustava la sciarpa sulla gola. Squarciata, come una vita persa tra raggelanti attimi d’addio.Dunque per questo ti ho cercato: finire. Ma non voglio. E la sete che uccide.Ombre improvvise sciamavano frammenti nella notte che chiude. Aguzzare la vista. Vento indicava brulichii lontani. M’accosto; tra le mani: arbusti.Tali miseri steli di deserto sopravvivono grazie a provviste d’acqua che serrano tra dita rinsecchite, frutto di antiche piogge. Io m’aggrappavo avido. E lingua scorticava vecchi rami. Con coltello puntato: incidere. Suggere quindi... e bevo... bevo... Dentro i miei occhi, Orione rimediava a vecchie ansie.

  • Abdir Pascià Signore delle terre dalla pianura ai monti della Luna e del deserto tutto, oltre che il mare che le Tue navi solcano per la gloria di Dio e della Tua casa cui l’Immenso concede ogni fortuna. E delle bestie, degli uomini e le donne; e le città con tutto ciò che tengono, con i raccolti e i campi, e della sorte Unico Padrone, i Tuoi servi hanno rintracciato l’impuro, l’uccisore che avevi comandato di cercare.Egli giaceva putrido accanto a pochi arbusti di deserto ai piedi di montagne sconsacrate oltre le quali vivono le bestie che non credono nel Dio dei Nostri Padri. Un coltello spuntato tra le mani e rami secchi intorno. Già puzzava quando la Tua pattuglia l’ha scovato. I Tuoi servi fanno ancora scongiuri dopo averlo finalmente seppellito: un mago, certamente, figlio di demoni e donne sconsacrate. Rattrappito dentro la sua morte, egli sgranava occhi di serpente dove un riflesso campeggiava cupo. Rassur, che conosce le strade delle stelle, giura che nei suoi occhi c’era Orione e il Cacciatore rifletteva ancora le stelle che lo formano nel cielo. Rassur non sa spiegare: certamente un fatto di magia. Per un ritorno sicuro alla Tua casa, cancelleremo ogni traccia. Che del suo corpo non rimanga luogo né ricordo. E dei suoi malefici.Ti mando la staffetta col messaggio. Indegnamente il Tuo servo Abnher, capitano della guardia del Tuo Corpo Sacro.

  • Labirinto

    Dedalico e ansimante, traccio mappe di scampo; futilità, quando l’ispirazione. E sovrastanti inganni.L’altra sera la luna abbindolava vecchie ombre in disuso e stravaganti fiammelle non distinte (fuochi fatui in soffitta?) Se la avessi. In realtà soltanto rade ombre da un vecchio pozzo per scarsa aerazione. Difficile dubitare: la mia salute peggiora di anno in anno. Umidità, muffe, sgocciolature: tutte cose scontate. Il fatto è che manca quasi ogni forma di luce. Notte dovunque in tutti i corridoi (filtra pochissimo qui). Sempre lontane stelle.Quando posso richiamo alla memoria vecchie nozioni d’algebra, appollaiato su qualche pietra smossa (più che altro crolli) direttamente sotto i pozzi per la luce. Calcolo ogni possibilità: deve pur esserci un’uscita da qualche parte. Il difficile è individuare (non l’uscita: le parti), il che significa che l’identico incombe e per quanto rigiri, tutto sembra tornare senza la minima sfumatura d’altrove. Chi ha costruito sapeva il fatto suo (o non sapeva nulla). In tal caso, prima o poi dovrei incontrare le ossa. O lui le mie.Vista peggiora. Come il tempo lì fuori in superficie, dove intravedo a stento addensamenti poco concilianti. Dunque, ancor prima di ieri: oggi la notte.

    Ispezione

    Ogni tanto la sera vado in giro lungo resti di corridoi già accertati. A volte si rintraccia del cibo (rifiuti) gettato qui da mani disattente per disfarsi d’intralci; giù, fino al fondo, nel pozzo. Dunque raccatto: rotoli, cartocci, malattie, verdure sfatte un tempo d’occasione, ossicini minuti, varietà (leggi:

  • marciume). Mi guida il naso. Se manca, dare la caccia ai topi. Alternativa: lombrichi detenuti come me, spinti da istinti atavici a navigare i fossi della terra. A volte: voce a soccorso. Profondissimo, qui.

    Sgusciante

    E se scavassi ancora? Oppure prolungare i budelli; cioè dove finisce un corridoio: prolungare. Tuttavia occorrerebbe un piccone; insufficienti le unghie.Magari laterale. Dunque, sfondare un muro. Oltre il limite dato dovrebbe pur esserci qualcosa. Ci ho perso mesi: enorme lo spessore, come fondo di fondo.Magari arrampicare lisci sconvolgimenti di frattura (d’anima? solitamente arresa). Navigo a volte: riflessi sconsolati della luna.

    Teatro

    Insceno spesso similitudini di rappresentazioni. Dunque mi scindo (mi tocca ovviamente interpretare molte parti). Prima scrivo il soggetto (per la scenografia mi devo accontentare, vista la scarsità circostante).Più che altro improvviso – certo, commedia dell’arte: mi diverto di più. Piace moltissimo: adattarmi a signora e immaginare vasti rigonfiamenti sul mio petto. Incavi altrove. Per la voce: falsetto.L’antagonista richiede più attenzione. Pieno di sfumature negative, devo accedere al peggio di me stesso per tracciarne i contorni. Dargli corpo è più facile = sono sempre più oscuro. Per me riservo la parte del giovane malinconico. Estremamente adatta, non richiede alcuno sforzo di immaginazione. Sono sempre stato un po’ giù. In pratica,

  • occhi sperduti, voce sussurrata, disattento, passivo, incline, più che altro, alla fuga. Ambientazione? Ambigua.Le scene d’amore sono un problema: non mi sono mai amato.Alla fine non muore nessuno… mica posso permettermi certi lussi!Per gli applausi, corro di qua e di là, generalmente in tondo. Se l’angolo è giusto, eco spesso d’aiuto.

    Ipotesi

    Voci improvvise nel cuore della notte (forse sogni) mi dicono che ci sono nato. Mentono! Nessuno può affermare stracci di condizione certa. Al massimo ipotesi. Spesso neppure.Qualche volta ricordi suggeriscono inattuali luoghi. Sembra dunque io sia stato nel generale sempre evasivo altrove.Esempio. Senz’altro luce, acque sfuggenti (mare?) strane fascicolazioni dalla terra suddivise da incroci (strade?). In pratica come qui = corridoi. Solo, all’aperto.Volti, anche. Più che altro di femmine [inducono sensazioni di indolenza (languori?)], ma non so connotare.Sempre appannanti templi, ai margini di luoghi circondati. Molte proibizioni e gesti; scanditi i rituali. E tuttavia gli inchini, le chiacchiere, forse la primavera. Borseggiatori agli angoli di sera.Dunque conosco (lo provano i ricordi e la cultura che indubbiamente riveste le mie ore accantonate). Devo essere stato. Ma non so.

    Vacuità

    Pensiero improvviso: vorrei che la mia piccola mi si appiccolasse in braccio.(Che diavolo sto dicendo!?)

  • Attività sportive

    A volte di corsa. Arrivo sempre primo.Tuttavia in qualche luogo c’erano pugilatori, prestigiatori, atleti. Ragazzi nudi rincorrevano allori al suono della tromba, E frasi dei ruffiani.Non profonde le vasche, adatte a passeggiare. E la palestra con istruttori e attrezzi. Per il nuoto c’è il fiume.I giardini di sera. Io non ho più profumi.

    Affioramenti

    Quando accade divago.Come se si imponesse un luogo alieno, fatto d’altro ed ignota consistenza. Intangibile, come un desiderio. Se mi fossi perduto? Meglio tornare a calcolare il mondo: un’incognita certa.

    Libri come ricordi

    E tuttavia la nave. Vento tra stelle e onda navigante lungo fruscii di prua. Da presso: Thera. Mentre la notte spinge verso il varco: approdare.Su per il monte: lumi. Con l’asino che arranca (ne sento il fiato fino alle ginocchia). E i vicoli, le voci, le canzoni, il pesce appeso, otri, portoni, vino. I compagni ubriachi, le puttane, lievi come un fruscio notturno. E l’odore dei corpi. Cui cedo, mentre m’avvinghio e cado. Risalire: tutto il sonno del mondo.Fino all’alba, quando le stelle ancora. Una speranza appena: rimanere.Vagare, lungo la scia del mare, dove l’occhio si perde immensamente. E il fumo che risale dove il monte s’affossa.Tuonava da lontano un dio riottoso. Acre, selvaggio, spoglio,

  • senza verde sui fianchi. Giallo, come schiuma di zolfo. Sprofondava nel mare la montagna. Quello s’apriva a ingurgitarne il peso, mentre il sole scompare e la tristezza grida le strade colme di terrore. Al porto, dove stanno le navi. Ma un dio ricolmo d’acqua si frantuma oltre l’anello azzurro di ogni cielo. Adesso nero; e lampi scoraggianti, mentre la terra trema. Dunque cadere. Respirare? Pochi riescono.Io navigavo sospinto verso un’isola più grande; oltre, sulla cima dell’onda. Con la nave che crolla. Spuma dentro i miei occhi fondi d’acqua. Non so di ancora.Era scritto in un libro di Platone. Rappresentare? nooo… troppo complesso! Meglio cercare topi.In mancanza mi mangio le unghie. Prossimo pasto quando ricrescono. Per i capelli manca condimento. Scarpe già consumate.

    Forse

    Probabilmente l’alba.Circospetto e soffuso, io dipanavo un filo: per ritornare al punto di partenza. D’altronde, ogni giorno ritorna.

  • Lettere dal Ponto

    Chiarissimo Marcello,nella fanghiglia dove trasogniamo transfughi insoddisfatti vecchi danni, è arrivato un poeta dalla Corte, dicono Publio, altri Ovidio… Nasone.Compromesso come tutti noi, esita; andrebbe incoraggiato in qualche modo. Niente di politico; più che altro uno sciocco. S’è messo contro quelli del potere, si mormora la figlia dall’Augusto. L’ha trattata come una puttana, il che magari sarà anche vero… tuttavia incauto.Qualche suggerimento?

    Carissimo amico,la tua sensibilità non finisce di stupire. Se dovessi dare ascolto a ogni segnalazione non avrei tempo per cure d’altro tipo.Quale governatore depennato, tu ben capisci le rogne, le attenzioni, i tranelli, le trappole sottili che fronteggio nell’incubo di quotidianità pseudoromana. E tuttavia, di Roma pur si tratta: se l’ha cacciato, avrà le sue ragioni.Detto tra noi, Giulia è una puttana, ma dirglielo così esplicitamente…Non farti altre cure.

    Prezioso amico,l’altra mattina, di buon’ora, raggelato in un mantello poco adatto, traversavo le nebbie di brughiera. C’era vento da est, freddo tagliente.Strapazzava i pochi fili d’erba che sopravvivono in questo clima spento. Dal mare si annunciava una burrasca, come richiede la stagione e il luogo. Nereggiava l’orizzonte ostile;

  • ammassava quanto di peggio e oltre. Si affrettavano scarse imbarcazioni a raggiungere riva. Appena in tempo, credo.Tornando verso casa, disperso tra le nubi basse, non potevo evitare di pensare all’effetto su una mente non assidua. Viene da Roma, altro clima, altra luce. Prova a pensare a dove ci troviamo - si trova - solo. Io non resisterei. Ricordo il primo impatto; e tu?Non ti tedierò oltre, Marcello unico amico. Tuttavia considera: è un poeta, non un politico coi calli come noi. Se vorrai aiutarlo mi darà conforto.Non so perché ci tengo; forse qualche lettura… forse invecchio.

    … ti prego dunque, in nome degli dei: non andare oltre. Pensa piuttosto a radunare qualche contadino, ragazzotti di scarsa intelligenza da ammassare nelle torri sui confini. Coi barbari accampati alla palude, cosa vuoi che mi importi di un poeta. Qui ne va della pelle, amico mio! Inutile sperare nei rinforzi. Come ben sai, Roma ci ignora. Mi adeguo.

    L’ho visto da lontano.Galleggiavo portato da corrente lungo la riva e i sassi sul fondale. Pochi pesci nell’acqua; molto ghiaccio. Tra le buche in cui il mare si insinuava, lanciavo sassolini coi pensieri. Quindi, coi remi in secca, le braccia aperte, le mani strette ai bordi, davo scosse ondeggianti alla mia barca, prova indiscussa di idee di suicidio. Casualmente, è entrato nella vista.S’era alzato la toga; camminava nel gelo del mattino, piedi nell’acqua senza più il mantello. L’aveva in vita quando l’ho raggiunto. Non so se ho fatto bene. Era scosso.Pochi ringraziamenti lungo la via che riconduce a casa. Una baracca, un letto, un tavolino. Libri in terra, come dimenticanza.

  • M’ha dato quattro righe a ringraziare. Non esclude futuri tentativi.Neppure io.

    Oh senti, carissimo: invecchi! Dove hai lasciato le battaglie nella Gallia, le urla, i morti, i corpi a scatafascio, il sangue a spruzzi... ne sei intriso! Tutto dimenticato? Dovresti essere avvezzo a qualche morte. Una di più non cambia certo il conto.Questa mattina è venuto un messaggero con notizie svogliate dal confine. Hanno attaccato e qualche torre cade. In nome degli dei, ci vuoi pensare? In fin dei conti sei tu lo stratega! Una volta Comandante della “Decima” o mi sbaglio? E poi console... dunque cadaveri lungo la via della carriera ne hai lasciati! Fratello, qui ci impalano! Che vuoi che me ne freghi di un porta!

    Chiarissimo Marcello,non ho scordato nulla. Dunque, una domanda: perché esistere? Ci impalano, dici; non sarà grave danno. D'altronde, nelle tue notti con fanciulli e donne rimediate da bordelli casuali, tu non sei uso ad altro. Questa volta sarà esperienza opposta.Nulla ho scordato, Marcello: non potrei. Troppo danno. E quando la civetta sparge grida e la notte s'accosta alla mia casa, ricordo ma non vorrei un brandello di memoria.Rinnovo la domanda: perché esistere? continuare a scannare o esserlo; non fa molta differenza. Siamo annegati nel vuoto del potere, Marcello caro; la pietà non è neppure un'opzione. Nel Nulla che ci assedia, quei barbari che tanto ti preoccupano ne fanno parte: non sono altro che la forma che nella circostanza il Nulla assume. Non scamperai dal Nulla, amico mio. Poni mente: da esso proveniamo e torneremo. Cambia solo il modo. Vuoi sceglierne uno? Bene; questo ci è dato: decideremo come scomparire.

  • Vieni a cena da me questa sera. Penseremo, come tu dici, prima di ubriacarci e di dormire.

    P.S: Leggi qualche poesia ogni tanto. Ti farà bene, per quello che vale.

  • Sull'inabile assente

    Non pulirti le labbra. Per conservare il miele, quando le api muoiono e i covoni franano come sedie di cucina. Non c’era il pavimento.Era bianca, la tua cucina rossa, come le sere fluide e i tramon-ti.C’erano cose colme di vaniglia. E la farina, il latte, la vasca con il sangue da buttare quando si taglia l’aria o cede il tempo.Divaricare a volte le persiane per appendere l’orlo, sempre im-portuno inutile, del buio. Un fraintendimento di occasioni die-tro occhi dispersi e notte, che il sole non si degna di salire quando di nebbia. E la visione stinta, come suoni selvaggi di non dire.Io mi mettevo sotto le lenzuola rinserrate sul viso. Non ti ve-devo pallida.Ah la calura quando ti detergo il sudore e i capelli: unico modo di toccarti ancora.

    Mi ricordo di onde trasversali. Nuotare, dove si siede il mon-do. Qualche volta traverso: traversare.

    Se. Dico: se. Non aggiungere altro.E riprendendo: avvolgessi la terra di parole, tutte quelle già scritte, dal cuneiforme geroglifico fenicio arabo ondeggiante logaritmo, ne verrebbe un conteggio inopportuno, rade le poe-sie, romanzi altrove, farneticanti brevi citazioni, filosofici ad-dii all’essere che passa. E l’universo. Un suono cupo, ridon-dante intenso, colmo di meraviglie e di sciocchezze. Una vi-sione culmine d’acuto, tondeggiante affannata, come toccata a fuga lungo Bach o singhiozzi webernshoemberghiani spesso d’altro pianeta. Decifrare.

  • Più o meno dislocato verso oltre: orizzontarsi. Se mi scordo fluisco.

    La sera è una collina silenziosacolma di nebbiaquando apro la porta e m’assottiglionel tuo anemone chiuso.

  • Ultime pagine

    Sedicesimo giorno, sesto mese del ventesimo anno. Diciottesima ora.

    Meriggio inoltrato.Mare ondeggia smeriglio frastagliato con sguardi d’ampia intesa al sottoscritto. Occhieggia; dunque, anch’io.Leggera avanzava l’onda ripetuta con frangente che scroscia sulla casa. Lontano e tuttavia invitante.Nessun controllo. Prevedo ritorsioni per la sera.Ieri il medico di guardia ha detto no. Non mi aspetto sostegnoStendersi. Ultimamente dolore nelle gambe. Insistente.Sottili striature ferrose faceva il sole sparso tra le sbarre. Continui sbalzi ripetuti. Monotono.Frusciosa e coinvolgente, l’altra notte una sirena brancolava qui sotto. Con balzo ginnico raggiungeva le sbarre della cella. Affacciata (gomiti al davanzale e sotto il mento):Ciao!Serafico, la raggiungevo in breve (peccato le sbarre). Lo vuoi un goccetto? E suggo mare aperto dal suo seno. Per questo mi odiano: so immaginare.Finché dura la notte. E il sonno. Di giorno realtà s’impone monotona e spocchiosa. Non fosse per i miei studi (conviene anche a loro tenermi impegnato) il suicidio sarebbe diversivo. Lo tengo come ultima occasione.

    Ventesimo giorno, sesto mese del ventesimo anno. Ora indecifrata.

    Indistinto chiarore. Sembra albeggiare. O tramonta? No,

  • troppo tenue: quando il sole scompare s’impossessa del cielo in forma irresistibile d’addio.Quello fischiava ruggini di denti e lingua a tamponare. Canzoncine? L’ultima davvero irriferibile. Quindi cambia la guardia. Stessa solfa.La visita dentistica non è andata bene. La tengono ogni mese, più che altro per scrupolo (che qualcuno non abbia poi a lamentarsi). Occorrerebbe estrazione. Non se ne parla.Ultimamente la carceriera non concede favori.Dice: puzzi! Se è vero, colpa loro.Se solo potessi immergermi… non è troppo lontano.L’Orbe terracqueo è finito, Eratostene, come tu calcolavi. Tuttavia, non ogni punto è raggiungibile. Certo, un compasso su una carta offre molte possibilità di viaggio, ma prova a sfondare una fortezza!Ne parliamo quando torno.

    Ventiquattresimo giorno, sesto mese. Anno venti, Dodicesima ora.

    Scintillava d’azzurro, mentre in alto l’animale rossastro dardeggiava sfaccendato raggi d’intenso giallo nella stanza. Immenso.Ali olivastre grigiofumo e un becco a rostro ricurvato in basso. Artigli anche sporgono il davanzale verso dentro. Non mi piacerebbe assaggiarli. Tuttavia, ali sì.Mi fissa. Quindi solleva in alto vasto corpo. Beffardo. Certe cose fanno rabbia.

    Ventisettesimo giorno, sesto mese, ventesimo anno. Ora…?

    Se dormo troppo perdo la cognizione del tempo. Per me è essenziale tenerne il computo: devo conoscere esattamente luogo, anno e mese quando uscirò di qui per non incappare in

  • errori irrimediabili di comunicazione che insospettirebbero anche il contadino più deluso.Intanto luna brunita cavalcava vento e gli occhi addormentati delle stelle. Io m’aggiustavo comodo sulla branda sfiorita, occhi alla finestra e al brulicare brado di nuvole azzurrate senza meta. Onda sospira e frange sotto il muro (circa dodici metri più in basso…?) sfibrato da secoli di mare sotto spinta sfarzosa di tempesta. Crollasse almeno! come tutta Cartagine e l’orda di seconda grandezza che chiamano Roma!L’altro giorno il guardiano: bofonchia di esecuzioni sulla spiaggia. Sembra predoni romani pizzicati sul posto da pattuglia. Taglio della testa immediato. A ricambiare presto. Almeno si sterminassero tra loro e tutti i devastanti che assillano l’Ecumene infastidita da tanto brulicare pidocchioso.Abiterò l’enorme – quando è d’inverno – sole arroventato ed i suoi raggi. Che piloto, come auriga impazzito, dritto su luoghi adatti a incenerire.Abiterò la sponda più lunare della luna ghiacciata – quando l’estate affoca – ascoltando da lì canti celesti di ninfe lungo i boschi della terra cui rivolgo benigno sguardi dolci e primavere tese di passione.Abiterò… Sbatte contro le sbarre: con manganello duro (così, tanto per rompere). Dare voce:Ehilà!… e dove vuoi che vada, barbaro!Risponde: tut tut tut. Quindi fiiiuut! (fischietta. Sa che non lo sopporto).

    Trentesimo giorno, sesto mese. Anno ventesimo. Ora nona (?)

    L’altra mattina dice: crepi, eh!? – (carceriere schifato). Sputo.Smaniavo mica male (febbre forse) nella notte che trasporta in altri luoghi. Erano vastità perdute popolate da animali spudorati. Si accoppiavano, infatti, senza alcuna attenzione all’io viandante.

  • L’astinenza comincia a pesare? Forse per questo: concepito piano di fuga. Nessuna difficoltà. La mente ancora tiene. Unica precauzione: mostrarsi arrendevole.Più tardi.Decisamente fastidioso, medico penetrava manualmente.Emorroidi – dice. Acconsento, prono e malizioso. Rimasto solo, massaggiarsi un po’. Intanto, nel corridoio guardie blateravano di certi incontri di pugilato giù a Olimpia. Corse anche.Da parte mia, nessun interesse.

    Primo giorno settimo mese ventesimo anno (più o meno...)

    Sua Eccellenza Rigidissima il Direttore (quel porco di Eufrastione) dice che così non si può continuare. Non si dica nell'Orbe colonizzato che nella fortezza posta dal Supremo in Suo dominio vigano regole meno che giuste. Per cui: nudo. Esaminato da capo a piedi con tanto di medico presente.Io (condiscendente) accettavo qualsiasi intrusione personale con capo chino e animo assai grato. E giù ringraziamenti e inchini e lodi (e maledizioni, nell'intimo invisibile dell'io). Che questi selvaggi chiamino medicina le pratiche barbariche e sommarie cui sono avvezzi è per lo meno sconcio. C'è da meravigliarsi come restino vivi (e infatti campano assai poco, a parte le stragi della guerra).Se un dio esistesse dovrebbe spazzarli dalla faccia di ogni terra emersa (e dal mare, naturalmente). Ma l'Olimpo ormai frana e gli abitanti di un tempo preferiscono frequentare le corse giù a Cartagine.Comunque, io seguo i miei intenti: dovrò tornare libero prima o poi e terminare gli studi intrapresi sulla consistenza e l'ampiezza delle rocce che compongono il pianeta disgraziato in cui abitiamo. E il fuoco sotterraneo ed il sistema celeste

  • dove siamo per avventura collocati. E le fasi lunari e... Riportato al presente da lieve scudisciata. La decisione riguardo il sottoscritto è presa. Ovviamente, rimango all'oscuro.

    Terzo giorno, settimo mese. L’anno è il venti (almeno credo). Mattina presto.

    Viste le mie condizioni cambio cella.Sbatacchiava ansiogeno astro fulgente i primi raggi nelle ore chiare. (Comunque, questa priva di sbarre).Tanto non va da nessuna parte…– E sorrisini…Superiore e distante, mi insedio. Scribacchio soliti quaderni.Che fa…!? – mormorii… ancora sorrisetti… (Stupidi!)Posto che la terra ha fine (Eratostene ha calcolato bene) sull’infinito egli ha idee confuse. Sguardo all’infuori, cerca spazi assodati con lenti di macroscopiche visioni. Comunque, brevi (il finito strangola, eh…!?) e per quanta matematica si possa accumulare nello scrigno della conoscenza, qualcosa sfugge sempre. L’infinito è dentro e nessun calcolo potrà rappresentarlo. Solo la filosofia e l’introspezione, assistita da sogni che come è noto rappresentano la mente nei vortici abissali in cui si snoda. Ma questo è troppo per semplici geometri!Accavallavo intanto ore; passano meglio se pregusti.Certi dolorini alla schiena scricchiolavano davvero niente male. (Non posso permettermi di ammalarmi).Più tardi. Notte inoltrava fastidiose stelle. Con l’aria così tersa: accecano. E sogni. Insistenti e variegati. L’ultimo piuttosto interessante.Oltre nelle ore.Steso sulla branda: riflettere. Credo indispensabile: serve a frenare impazienza.

  • Aspetta, dunque, amico: devono fidarsi (ed evitare successivi, inopportuni controlli).

    Ottavo giorno, settimo mese. Terza ora. Anno Venti (o giù di lì). Primo mattino.

    Decisamente in forma, stiracchio membra indolenzite. Quindi al cesso. Lavaggi. Per la colazione è ancora presto.Respiravo profondo l’aria che penetrava nella cella. Ultime stelle sbavavano presagi dalla cupola aerea e distante. Guardia assonnata compie ultimo giro. Rivolto al compagno: da quanto ingrassiamo quel porco d’infedele?Bo’…!Perché lo tengano ancora in vita è davvero un mistero…Io per me lo accoppo anche subito!Lascia perdere, và…!Certe volte c’è bisogno di incoraggiamenti. Su, ragazzo, fatti forza! E salgo in piedi sopra al davanzale. Distanza notevole, ma il fondale è abbastanza profondo. Inutile indugiare.Gettati i panni sul pavimento duro, balzo elegante verso il vuoto (senz’altro guidato dal rumore che frusciava mareggioso mulinante).Primo impatto affannato. L’acqua grigiastra si rapprende al corpo. Muoversi!Galleggiavo selvaggio. Intorno pesci frusciano fantasie gessate. Sirene, anche. Di nessun aiuto.Luminescenze dal profondo blu salivano sfiorando il sottoscritto. Evanescenti e pallide forme sfilate mollicciavano intorno spandendo filamenti digestivi. Ogni tanto abboccano.Come Tritone, scuotevo lunga coda e forti braccia galoppando le onde cristalline. Fantastica la sensazione. (Peccato non avere branchie).

  • Compagnia improvvisa: banco di sardine nel profondo. Come ombra sgusciante, nuotano compatte tra evoluzioni imprevedibili continue. (Significa che c'è qualche predatore in giro... Togliersi da lì).Quindi tramonta: ottuso disco regolare (dico, poteva aspettare ancora un po’!).Difficile orizzontarsi nell’uguale: ogni direzione identica alle altre.Percorse molte miglia (non mi credevo tanto resistente). Dove la terra? Meglio fare il morto e riprendere fiato a poco a poco. Dormire no.Come sogno importuno, dietro le pupille stellesparse pensiero traversava la corrente: Quanto resisterò?E la luna.

  • Dove vanno gli uccelli

    D’improvviso si diradò la coltre e l’astro, nato come da nulla, irraggiò i propri attimi pulsanti verso chiunque avesse voglia di raccoglierli.Chino sul desiderio, m’improvvisai per aspergere luce mattutina sulla notte fuggente.Così d’impatto sembra un fatto isolato. In realtà, ogni notte.Non c’era che un ricordo accavallato a un fratello nascosto.Scegliere, però, dipende da improvvisazione.

    Dunque t’imponevi. Occhio allunato faceva il mio distante sopracciglio(in effetti, soltanto per parlare della luna).E trasmigrare, suggere, violare spazi d’ardesia nati a primavera.Ma non chiedermidove vanno gli uccelli.

  • Appena dopo

    Le braccia ancora no. Quelle riuscivo a sorreggerle con uno sforzo liquido degli occhi. Il viso, tuttavia, si disfaceva in particelle di connotazione sfigurata; altre, in dimensioni fragili d’assenza e spicchi allampanati di limone (questo per il giallore simile ad albume).Sconcertato, dissipavo le ombre che mi sembrava colassero dagli alberi appesi alla finestra come una sopravvenienza ventosa che dislocava sibili ed altre sconvenienze.La cosa più bugiarda era quella impressione di smentita, come se il tempo non fosse in quella casa.Dentro, dunque, dentro: non ti sento più dentro – pensai ancora – e questa morte fragile sconnessa allora chi riguarda?S’avvicinava intanto il rumore silente della luna. Sorgente. Ad arco. Margine a diluire.