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Giorgio Candeloro storico del fascismo di Marco Palla Il nono volume della Storia dell’Italia moderna di Giorgio Candeloro (Ilfascismo e le sue guer- re, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 537, lire 20.000) ha vinto il Premio Acqui storia 1982, riconoscimento pubblico, tempestivo quanto meritato, di un’opera che sembra destinata ad un duraturo successo ma che sarebbe riduttivo considerare utile, anzi indispensabile, solo per il lettore comune. Il libro presenta infatti, a mio parere, un’occasione per un ripensamento della storia del fascismo anche da parte degli studiosi e degli specialisti, e fornisce anche in sede scien- tifica un contributo notevole: è in questo senso che mi propongo di discuterne alcuni dei giudi- zi e delle interpretazioni centrali. Si tratta, però, occorre subito avvertire, di uno di quei libri di fronte ai quali si prova una sensazione di rispet- to e insieme di un qualche imbarazzo, perché non si riesce nell’ambito della recensione e della discussione scientifica a dar conto di tutto il suo valore, delle sue potenzialità didattiche, delle lezioni che può e potrà impartire, al pari degli altri volumi di questa grande opera storica. Se mi è consentito un ricordo personale, quando mi iscrissi all’università e nella mia facoltà di lettere cominciai a seguire i corsi di storia mo- derna e contemporanea, mi trovai quasi imme- diatamente a dover misurare la mia ignoranza della storia e forse ancor più degli storici che scrivevano libri di storia: fra i pochi che non ignoravo era, tuttavia, “il Candeloro”. Avevo letto parti e brani di alcuni dei volumi dell’ope- ra fino ad allora usciti, e mi ero formato l’opi- nione — indipendente dalla lettura, che avevo trascurato, della prefazione di Candeloro al primo volume, una sorta di dichiarazione degli intenti della Storia dell’Italia moderna — che si trattasse effettivamente di un lavoro sui generis: non era davvero superficiale come i libri di divulgazione o schematico come i manuali che conoscevo, né si sarebbe dimostrato difficile o arido o frammentario come i saggi specialistici e le ricerche erudite di cui avrei ben presto fatto la conoscenza. Quell’opinione avrebbe trovato conferma dalla lettura dei volumi successivamente usciti, emergendo come il carattere forse più originale e distintivo dell’opera di Candeloro. L’accura- tezza, la chiarezza e l’ordine espositivo della narrazione, l’equilibrio critico contraddistin- guono anche questo volume, il primo nel quale Candeloro affronta storiograficamente il pe- riodo della storia italiana nel quale egli stesso si doveva formare come studioso, come antifasci- sta che avrebbe poi partecipàto alla Resistenza nelle file del Partito d’Azione romano. L’espe- rienza diretta di quegli anni e la testimonianza che implicitamente ne deriva giovano al libro, e costituiscono forse uno dei pochi vantaggi che esso presenti sui precedenti volumi: vi guada- gnano tutte le parti in cui viene rappresentata la realtà del fascismo, e non le sue formule propa- gandistiche, la realtà dell’economia e della cul- tura, della scuola e del consenso, della politica estera e delle avventure belliche. Candeloro non presta particolare interesse alle elucubra- zioni mussoliniane, preferendo descrivere il du- ce reale, e la realtà del potere che egli esercitò, e dei poteri coi quali venne a patti, e delle forze politiche e sociali cui fece da mediatore, delle “Italia contemporanea“, dicembre 1982, fase. 149

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Page 1: Giorgio Candeloro storico del fascismo · 2019. 3. 5. · Giorgio Candeloro storico del fascismo di Marco Palla Il nono volume della Storia dell’Italia m oderna di Giorgio Candeloro

Giorgio Candeloro storico del fascismodi M arco Palla

Il nono volume della S to r ia d e ll’Ita lia m o d e rn a di Giorgio Candeloro (I lfa sc ism o e le su e g u er­re, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 537, lire 20.000) ha vinto il Premio Acqui storia 1982, riconoscimento pubblico, tempestivo quanto meritato, di un’opera che sembra destinata ad un duraturo successo ma che sarebbe riduttivo considerare utile, anzi indispensabile, solo per il lettore comune. Il libro presenta infatti, a mio parere, un’occasione per un ripensamento della storia del fascismo anche da parte degli studiosi e degli specialisti, e fornisce anche in sede scien­tifica un contributo notevole: è in questo senso che mi propongo di discuterne alcuni dei giudi­zi e delle interpretazioni centrali. Si tratta, però, occorre subito avvertire, di uno di quei libri di fronte ai quali si prova una sensazione di rispet­to e insieme di un qualche imbarazzo, perché non si riesce nell’ambito della recensione e della discussione scientifica a dar conto di tutto il suo valore, delle sue potenzialità didattiche, delle lezioni che può e potrà impartire, al pari degli altri volumi di questa grande opera storica. Se mi è consentito un ricordo personale, quando mi iscrissi all’università e nella mia facoltà di lettere cominciai a seguire i corsi di storia m o­derna e contemporanea, mi trovai quasi imme­diatamente a dover misurare la mia ignoranza della storia e forse ancor più degli storici che scrivevano libri di storia: fra i pochi che non ignoravo era, tuttavia, “il Candeloro”. Avevo letto parti e brani di alcuni dei volumi dell’ope­ra fino ad allora usciti, e mi ero formato l’opi­nione — indipendente dalla lettura, che avevo trascurato, della prefazione di Candeloro al

primo volume, una sorta di dichiarazione degli intenti della S to r ia d e l l’Ita lia m o d e rn a — che si trattasse effettivamente di un lavoro sui generis: non era davvero superficiale come i libri di divulgazione o schematico come i manuali che conoscevo, né si sarebbe dimostrato difficile o arido o frammentario come i saggi specialistici e le ricerche erudite di cui avrei ben presto fatto la conoscenza.

Quell’opinione avrebbe trovato conferma dalla lettura dei volumi successivamente usciti, emergendo come il carattere forse più originale e distintivo dell’opera di Candeloro. L’accura­tezza, la chiarezza e l’ordine espositivo della narrazione, l’equilibrio critico contraddistin­guono anche questo volume, il primo nel quale Candeloro affronta storiograficamente il pe­riodo della storia italiana nel quale egli stesso si doveva formare come studioso, come antifasci­sta che avrebbe poi partecipàto alla Resistenza nelle file del Partito d’Azione romano. L’espe­rienza diretta di quegli anni e la testimonianza che implicitamente ne deriva giovano al libro, e costituiscono forse uno dei pochi vantaggi che esso presenti sui precedenti volumi: vi guada­gnano tutte le parti in cui viene rappresentata la realtà del fascismo, e non le sue formule propa­gandistiche, la realtà dell’economia e della cul­tura, della scuola e del consenso, della politica estera e delle avventure belliche. Candeloro non presta particolare interesse alle elucubra­zioni mussoliniane, preferendo descrivere il du­ce reale, e la realtà del potere che egli esercitò, e dei poteri coi quali venne a patti, e delle forze politiche e sociali cui fece da mediatore, delle

“Italia contemporanea“, dicembre 1982, fase. 149

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classi e dei gruppi costretti, con la violenza e la coercizione, alla sconfitta e alla subalternità. Accanto a questo richiamo costante alla realtà storica di quegli anni, un altro dei parametri di giudizio fondamentali di Candeloro è il rappor­to — di rottura e insieme di continuità — che il fascismo intrattiene con la storia d’Italia prece­dente e successiva, né manca un puntuale in­quadramento della storia italiana nei grandi lineamenti politici ed economici di quella euro­pea e mondiale.

In particolare, questo riferimento alla ‘storia universale’ spiega la stessa periodizzazione del volume (1922-1939), la scelta cioè della data finale del settembre 1939 come più rilevante e decisamente preferibile a quella del 10 giugno 1940, entrata in guerra dell’Italia, dato anche che il periodo della non belligeranza si lega più agli anni della guerra che ai precedenti (p. 7). Non è solo per esigenze narrative interne che Candeloro ha riservato al prossimo volume l’esame di alcuni temi come la politica coloniale dopo il 1936 o la formazione di nuovi gruppi antifascisti in Italia dopo il 1937, ma perché egli è convinto che tali temi siano appunto più collegabili al periodo della seconda guerra mondiale, della Resistenza e della Repubblica che sarà trattato nel prossimo e conclusivo volume dell’opera. Fra i temi posticipati, vi è anche quello della politica di riarmo e di prepa­razione militare dell’Italia, e questa scelta di Candeloro è meno convincente di altre: questo tema mi pare del tutto congruo e contestuale al quadro generale della crisi del sistema interna­zionale degli anni trenta, e a quello direttamen­te studiato del fascismo e delle sue guerre.

Anche il bel titolo del libro si presta forse a qualche discussione. Se è certamente vero che il fenomeno centrale della storia italiana dal 1922 al 1939 è “la formazione del regime fascista, i suoi caratteri, il suo sviluppo, la sua politica, le sue guerre” (p. 7), sembra poi troppo netta la distinzione che Candeloro traccia fra le guerre propriamente ‘fasciste’ (riconquista libica, Etio­pia, Spagna) e la guerra intrapresa dal 1940 in poi, che rientrerebbe “nel fatto generale della

seconda guerra mondiale, cioè in un complesso urto di forze europee e mondiali, sul quale l’influenza del fascismo fu certo notevole ma non principalmente determinante” (p. 8). Da un lato, la stessa guerra civile spagnola con l’intervento fascista e nazista e l’attività delle brigate internazionali dell’antifascismo è feno­meno più complesso di quello di una guerra “propriamente fascista”, e, dall’altro, sarebbe difficile trovare un fattore “principalmente de­terminante” nello scatenamento della seconda guerra mondiale che non sia riferibile all’azione eversiva di quelle forze europee e mondiali fra le quali si pone, per così dire di diritto, il fasci­smo italiano, con la sua spinta imperialistica non meno pericolosa di altre (Germania, Giap­pone), certo meno deboli nel provocare l’urto generale di una conflagrazione quale mai il mondo aveva conosciuto. Al “fatto generale” della seconda guerra mondiale non è davvero estranea la responsabilità del fascismo italiano, che ne è agente particolare ma di primo piano, pur non essendo l’Italia una “grande potenza”: m a nessuno Stato di dimensioni medie al m on­do recitò, nel processo drammatico che sfociò nel conflitto, un ruolo determinante come quel­lo dell’Italia fascista, e qui sta un altro dei caratteri essenziali della storia del fascismo italiano.

Candeloro sottolinea la diversità dei due de­cenni fra le due guerre mondiali e ne rintraccia le conseguenze nello sviluppo stesso della natu­ra del regime fascista, nato nel 1922 da un governo “nazionale” dotato di pieni poteri (come altri governi dell’Italia liberale) e cresciu­to, grazie anche alla stabilizzazione economica e diplomatica intemazionale, nella “nuova le­galità faziosa e dittatoriale, ma regolare, del fascismo divenuto regime” (p. 29). Egli richia­ma giustamente l’importanza di un organo po­co studiato come il Gran Consiglio, e non di­mentica quella della Milizia, l’organizzazione militare di un regime autoritario che era nato dalla violenza e che con la violenza piegava gli oppositori (si veda anche l’esemplare ragiona­mento logico-storico che sulla base dei fatti

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accertati Candeloro compie della crisi Matteot­ti, in linea sostanzialmente con la ricostruzione a suo tempo compiuta da Salvemini e in con­trasto con quella di De Felice). E fu in un quadro di violenza politica (in cui si sommava­no le azioni squadristiche della “seconda onda­ta” e la repressione poliziesca) che nacquero fra il 1925 e il 1926 quelle leggi liberticide e autori­tarie che “mirarono a modificare profonda­mente l’assetto costituzionale dell’Italia eredita­to dal 'Risorgimento e consolidato in più di mezzo secolo di vita unitaria” (p. 136): ma anche qui Candeloro mostra le innovazioni e le violazioni dello Statuto albertino ricordando tuttavia che esso non fu mai abrogato e che le varie leggi fasciste accentuarono al massimo rautoritarismo statale preesistente al fascismo ma fino ad allora temperato dal Parlamento e dal pluralismo partitico. Egli nega quindi ogni compiuto e totalitario disegno reazionario al­l’azione pragmatica e a volte segnata da empi­rismo spicciolo di Mussolini, nella quale vede però — come nel caso della battaglia del grano — “un intreccio strettissimo tra i motivi di prestigio e di propaganda e la necessità di tute­lare e favorire determinati interessi di gruppi sociali” (p. 119). Osservazione acuta, che si collega a quanto si precisa sul “blocco borghe­se” che sosteneva il fascismo: non una realtà “compatta o addirittura monolitica” ma un complesso di scelte fondamentali compiute in favore di Mussolini nel 1925-26 da parte della maggioranza dei vari strati sociali borghesi, e non più messe in discussione fino alla seconda guerra mondiale (p. 124). Parimenti, dopo aver analizzato i dati sulla composizione sociale del Pnf, Candeloro ricava una definizione del par­tito come più o meno esatta espressione del blocco borghese, ma subito aggiunge — met­tendo in guardia contro ogni consequenziali- smo meccanicistico — che “non si deve dimen­ticare che il carattere di classe di una determina­ta organizzazione è dato dalla politica che que­sta concretamente svolge e dagli interessi che difende, assai più che dalla sua composizione sociale” (p. 142).

Anche la politica estera del fascismo negli anni venti si alimenta nella continuità della tradizione espansionistica prefascista (con la tendenza alla preminenza dell’iniziativa dello Stato sulla spinta finanziario-industriale, che pure non mancò verso i Balcani e l’Impero ottomano) e del nazionalismo, di cui fu larga­mente permeata la stessa diplomazia italiana nella quale si affievoliva il filone legato più al realismo e alla prudenza e si accentuava invece l’enfasi sulla “difesa degli interessi nazionali” sempre più intesa come “affermazione di un presunto diritto dell’Italia all’espansione nel Mediterraneo e in Africa, oltre che al dominio dell’Adriatico” (p. 159).

Le novità più importanti consistevano piut­tosto nel modo di procedere personalistico e imprevedibile di Mussolini, sia che fosse inteso tatticamente a disorientare gli avversari, sia che fosse l’esito di contraddizioni soggettive e d’o­biettiva impotenza, e soprattutto nell’esaspera­zione estrema del nazionalismo, “uno degli elementi costitutivi dell’ideologia fascista fin dalle origini, insieme aU’antisocialismo, all’a­spirazione ad un governo autoritario e all’esal­tazione della violenza come metodo di lotta politica”, cosicché l’imperialismo divenne an­che “uno strumento di politica interna, che permise a Mussolini di mobilitare masse nume­rose in varie occasioni, ma specialmente al tempo della guerra d’Etiopia” (p. 161). L’impe­rialismo fascista si legava cioè non solo alle esigenze propagandistiche (come, fra l’altro, quella della diffusione del fascismo in Europa) ma anche alla questione demografica reale di un paese ove le tensioni sociali interne si face­vano sempre più forti rispetto all’epoca prece­dente la prima guerra mondiale (gli sbocchi dell’emigrazione transoceanica erano ora quasi del tutto preclusi) e creavano masse di disoccu­pati e di poveri che, nel corso della durissima crisi del 1929-33, furono ingrossate dai giovani provenienti dalla piccola borghesia artigianale e commerciale e dal ceto impiegatizio che si aggiunsero a operai e braccianti (p. 162). Se il fascismo apparve ed anche fu effettivamente

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una forza di stabilizzazione della struttura capi­talistica ed un argine anticomunista, esso co­minciò dal 1925-26 a svolgere una funzione eversiva rispetto ai trattati di pace del 1919-20 e alla pace europea “non meno spiccata della funzione stabilizzatrice che ebbe nei riguardi della struttura capitalistica dell’Europa stessa” (p. 169). La spiegazione che Candeloro fornisce di una tale contraddizione merita di essere se­gnalata, perché situa comparativamente la por­tata storica complessiva del simultaneo ed in­terdipendente cambiamento della collocazione intemazionale dell’Italia e del mutamento “di campo” del suo sistema politico: “il mutamento nella politica estera delineatosi nel 1925-26 deve essere strettamente collegato al mutamento av­venuto negli stessi anni nella situazione interna dell’Italia. L’instaurazione della dittatura e l’i­nizio dell’organizzazione del regime fascista posero fine ad un periodo storico, durato più di mezzo secolo, nel quale era esistita un’affinità sostanziale tra i regimi politici che reggevano i paesi dell’Europa occidentale, ai quali si erano aggiunti dopo la grande guerra quelli dell’Eu­ropa centrale; in primo luogo la Germania di Weimar.[...] Ora invece l’Italia si presentava come portatrice di un’ideologia, più o meno confusa, ma di cui erano evidenti alcuni carat­teri come il totalitarismo (cioè la tendenza ad assorbire nello Stato la società civile), il nazio­nalismo esasperato, l’antipacifismo, l’antipar- lamentarismo e l’antisocialismo” (p. 167).

La sconfitta della libertà e della democrazia in Italia derivarono, per vari gruppi sociali, non tanto dall’attrazione esercitata su di loro dall’i­deologia negativa del fascismo quanto dal ras­sicurante rientro in una tradizione di apatia, di trasformismo e di conformismo insieme, che aveva radici antiche e consolidate. L’adesione, e più in generale il consenso degli intellettuali al regime, la “accettazione talvolta passiva e tal­volta compiaciuta, di uno stato di fatto” (p, 197), “lo scarso impegno politico effettivo di masse molto vaste di professori e di studenti” (p. 203) che accettarono la fascistizzazione della scuola contribuendo tuttavia a svuotarla di un

reale contenuto positivo e costruttivo per un consenso che non fosse solo effimero o superfi­ciale, possono attribuirsi al peso plurisecolare della “ideologia italiana” e della tradizione. Ma Candeloro non manca di considerare, in questa prospettiva, le conseguenze dei notevoli van­taggi recuperati dalla Chiesa con i Patti Late- ranensi, che “intaccarono fortemente in alcuni settori il carattere laico che lo Stato italiano aveva ereditato dal Risorgimento” (p. 234).

Sull’economia italiana degli anni trenta, Candeloro si affida certo agli studi più seri e solidamente documentati ed offre qualche spunto originale, sempre nell’ambito del suo attenersi ai dati della realtà più che all’analisi precaria e tutta “interna” delle motivazioni soggettive della propaganda fascista (corpora­tivismo e ruralismo sono, come accenneremo, descritti in modo particolarmente realistico e disincantato, a dimostrazione di una perfetta padronanza critica delle fonti fasciste e del “pensiero mussoliniano”). Commentando l’i­stituzione delFImi e dell’Iri, Candeloro ricorda che l’intervento dello Stato nell’economia era stata una costante del processo di industrializ­zazione italiano, che assumeva ora il carattere nuovo contrassegnato dal ruolo di un “ente pubblico imprenditore” che tuttavia “non mo­dificò il carattere capitalistico dell’economia ita­liana” (p. 282) e la sua base privatistica (la polemica con la tesi di Romeo è qui esplicita). La novità di maggior portata storica fu, però, rappresentata dall’enorme estensione del setto­re, pubblico, solo parzialmente attraverso la gestione diretta dello Stato, più spesso grazie alla costituzione di enti pubblici ed aziende autonome che dettero vita ad un’amministra- ziohe “parallela a quella dello Stato, che fu detta parastatale e che sopravvisse alla caduta del fascismo”, con “importanti conseguenze sulle vicende successive dell’amministrazione italiana fino ai nostri giorni” (p. 296). È questo un aspetto che la storiografia recente sul fa­scismo dovrebbe sottolineare di più, racco­gliendo le indicazioni di Candeloro: il “parasta­to” si lega alla questione dei ceti medi, del loro

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consenso al regime, e dell’emergere o riemerge­re di forme di clientelismo e di “sottogoverno” che non quadrano con le frettolose analisi dei fautori dell’interpretazione del fascismo come “modernizzazione”.

È in nome della correttezza di una ricostru­zione storica realistica che Candeloro opera una giusta riduzione della trattazione sul cor­porativismo, aggiungendo continue precisa­zioni che sono particolarmente utili al lettore più sprovveduto o disorientato da studiosi più simpatetici del fenomeno fascista e dei suoi “miti”. Le corporazioni, per esempio, oltre a non svolgere alcuna funzione reale di governo dell’economia, furono consigli perfino “privi di uffici propri” (p. 295), e dunque: “il termine burocrazia corporativa”, largamente usato ne­gli scritti sul fascismo, è inesatto. Si dovrebbe parlare di ‘burocrazia sindacale’ o ‘confedera­le’, per indicare l’insieme degli uffici delle con­federazioni, delle federazioni nazionali, delle unioni provinciali e dei sindacati” (p. 295). Inol­tre, se la campagna di ruralizzazione aveva fondamenti utopistici e anacronistici di sapore ottocentesco, è comunque difficile stabilire quali fossero a questo proposito le ideali inten­zioni di Mussolini: anzi, “poco importa saper­lo. Interessano invece gli scopi politico-sociali, che egli si propose” (p. 300), e cioè il trasferi­mento in campagna di almeno una parte dei disoccupati urbani, alleggerendo la pressione di ceti che nelle città avrebbero dovuto fra l’altro subire le conseguenze dello sblocco generale dei fitti e riducendo insomma la minaccia delle “classi pericolose” verso gli equilibri del regime. Non dissimili, concretissimi scopi politico- sociali aveva avuto, nel 1929, la parola d’ordine fascista della “sbracciantizzazione”: Mussolini sapeva che il fascismo era penetrato superfi­cialmente fra la classe operaia urbana e i brac­cianti agricoli, basi in passato della forza del movimento socialista e comunista che l’ex rivo­luzionario intendeva liquidare con ogni mezzo. E insomma l’ineliminabile e indispensabile so­stanza coercitiva, repressiva e di classe del “re­gime reazionario di massa” che ripresenta i suoi

problemi ad ogni studioso del “consenso”. La liquidazione politica del Pnf, il fallimento del tentativo fascista di creare una nuova classe dirigente, “il risultato pressoché nullo di tutto il gran discutere sui giovani che vi fu negli anni trenta su molti giornali e riviste del fascismo”, la accentuazione massima dei poteri di Musso­lini e della sua dittatura personale, ebbero le loro radici in definitiva “nel fatto che il fasci­smo, malgrado le illusioni di tante persone in buona fede, in realtà non fu un movimento di rinnovamento, bensì di conservazione della struttura sociale esistente” (p. 312). Afferma­zione netta, ma valida; tentativo di spiegazione generale, ma non generico: Candeloro, del re­sto, sa bene che i veri semplicismi e le autentiche genericità degli storici si nascondono spesso diètro le loro professioni di obiettività (“lo sto­rico deve capire, non deve giudicare ...”, eccetera).

Il carattere conservatore del fascismo come movimento sociale finì poi, non tanto parados­salmente, per determinarne i connotati eversori in campo internazionale. Candeloro, in un ideale dibattito fra studiosi della politica estera fascista che sostengono i fattori “esterni” e quel­li che sostengono i fattori “interni”, starebbe con questi ultimi. Egli respinge (p. 344 e 388) le interpretazioni di Quartararo e De Felice sulla casualità della conquista to ta le dell’Etiopia, che Mussolini non avrebbe volutored indica anzi il motivo determinante dell’aggressione fascista nel tentativo di mobilitare gli entusiasmi popo­lari che una politica di pace avrebbe al contra­rio sopito, nel tentativo cioè di “tenere, per così dire, sotto pressione le masse giovanili, che non potevano eternamente accontentarsi delle adu­nate, delle parate e delle pseudo riforme inter­ne, come la legge sulle corporazioni dell’aprile 1934[...]. Inoltre [...] restava sempre molto alto il numero dei disoccupati e più ancora quello dei sottoccupati, e restavano nel paese vaste zone di arretratezza e di miseria, che solo una lunga e profonda trasformazione sociale, di cui il fascismo era costituzionalmente incapace, avrebbe potuto eliminare o almeno ridurre in

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misura notevole” (p. 345). Candeloro non ignora la ampiezza e l’entità del grande succes­so propagandistico conseguito dal fascismo con la conquista dell’Etiopia, ma osserva anche acutamente che tale successo — culmine del “consenso” popolare al regime — apparve al momento della proclamazione dell’impero an­cora più grande di quello che effettivamente fu: i fatti, gli eventi successivi si incaricarono di rivelare i limiti di quel successo, che portò Mus­solini ad accodarsi alla Germania hitleriana e ad una politica estera avventuristica, e che dunque condizionò la vita interna ed il destino stesso dell’Italia fino agli esiti catastrofici della seconda guerra mondiale (p. 395). Mussolini non poteva tutelare davvero gli interessi nazio­nali per i motivi, “derivati dal carattere al tem­po stesso reazionario ed eversivo del fascismo”, che possono essere indicati come costanti della sua politica: “le velleità imperialistiche, la so­pravvalutazione delle forze effettive dell’Italia, l’abitudine al bluff, l’idea che in ogni occasione e da ogni trattativa l’Italia dovesse sempre trar­re vantaggi clamorosi, soprattutto di carattere territoriale, i pregiudizi ideologici antidemocra­tici, anticomunisti e filonazisti, il timore che un arresto della politica espansionistica potesse provocare una crisi del regime” (p. 420).

Candeloro scrive pagine penetranti, dove si avverte l’apporto della sua testimonianza vissu­ta oltre che la sicurezza della precisazione filo­logica e scientifica, sul fenomeno dell’imitazio­ne del nazismo, che il fascismo estese dal cam­po propagandistico e ideologico fino a quello della legislazione dello Stato italiano. Si chiari­scono le distinzioni fra ra zz ism o e a n tisem iti­sm o , fenomeni entrambi generali e diffusi in vari paesi europei a partire dal secolo XIX, ma caratterizzati, il primo, da una concezione della diversità delle razze e della superiorità della cosiddetta razza ariana sulle altre, e il secondo da fondamenti razzistici (ma anche di altra origine politica e religiosa) che pongono la ne­cessità di una lotta per isolare, cacciare e di­struggere gli ebrei (e il riferimento ai semiti risulta così improprio, dato che gli ebrei sono

solo una parte dei semiti) (p. 447). Riguardo all’Italia, sia il razzismo che l’antisemitismo erano fenomeni di scarsissima consistenza (o addirittura quasi assenti) prima che il fascismo iniziasse la sua campagna: questa assenza di pregiudizi razzistici o antisemiti di massa costi­tuiva anzi uno dei caratteri nazionali degli ita­liani e “uno dei non molti aspetti di superiorità morale e civile degli italiani rispetto ad altre nazioni europee” che proprio il fascismo avrebbe modificato o intaccato (p. 448), con Fintroduzione della legislazione razziale.

“Questa legislazione moralmente ripugnan­te, oltre che irrazionale e contraddittoria, non portò ad orrori paragonabili a quelli prodotti dalla legislazione razziale nazista [...], ma fu causa di dolori e di sopraffazioni per alcune decine di migliaia di cittadini italiani che dal Risorgimento in poi avevano goduto degli stes­si diritti degli altri. Essa non fu certo utile al paese, perché intralciò l’attività economica ed intellettuale di molti cittadini solerti e capaci, dei quali non pochi emigrarono all’estero e furono perduti per molti anni o per sempre dalla comunità nazionale. In generale si può affermare che la maggioranza degli italiani ac­colse con un certo stupore misto a disgusto la campagna razziale e la legislazione antiebraica e che la propaganda antisemita dei fascisti fece poca presa perché non veniva incontro a pre­giudizi radicati e a interessi fortemente consoli­dati. Ed è vero anche che essa turbò molte coscienze e contribuì a spingere parecchie per­sone, giovani soprattutto, ad allontanarsi ideo­logicamente e moralmente dal fascismo e a divenire in seguito antifascisti attivi. È vero d’altra parte che non mancarono intellettuali, che approvarono e sostennero attivamente la campagna razzista, sia per motivi di carriera, sia perché illusi che la campagna antiebraica fosse la prova di una svolta antiborghese del fasci­smo. Si deve ricordare inoltre che il razzismo e l’antisemitismo divennero componenti ideolo­giche essenziali del fascismo nella sua ultima fase; perciò non deve far meraviglia che i mo­vimenti neofascisti dei nostri giorni siano in

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gran parte fortemente permeati di razzismo e di antisemitismo. In questo senso si deve ammet­tere che la “inoculazione” dell’antisemitismo “nel sangue degli italiani”, di cui parlava Mus­solini a Ciano il 6 ottobre 1938, ha dato qualche frutto” (pp. 453-454).

È una citazione lunga, ma è anche un brano, come si vede, che si commenta da solo e che vale la pena rileggere più di una volta.

Il fascismo ed il nazismo, lungi dal presenta­re quelle differenziazioni che alcuni storici han­no dilatato arbitrariamente al di là delle ovvie differenze che chiunque potrebbe rintracciare fra Italia e Germania, furono accomunati dun­que da ben solidi legami ideologici oltre che politici e diplomatici, e Candeloro giudica rav­vicinamento id e o lo g ic o e m o ra le del fascismo al nazismo come del tutto conseguente ed im­pegnativo al pari se non più della convergenza diplomatica e poi dell’alleanza. La fase della “non belligeranza” non deve trarre in inganno i suoi interpreti: “il termine — si precisa — ri­spondeva bene alle esigenze propagandistiche del duce, ma può essere giudicato esatto anche storicamente in quanto non vi fu rottura o preparazione di rottura dell’alleanza con la Germania, né preparazione di un passaggio dell’Italia all’altro blocco di potenze belligeranti come era avvenuto tra l’agosto 1914 e il maggio 1915” (p. 490). La neutralità o il cambio di campo avrebbero rappresentato una svolta contraria non solo alla politica successiva al 1936 cui Mussolini si mantenne fedele ma an­che ai caratteri essenziali del regime, che ne determinarono l’imperialismo. Un’Italia neu­trale che si avvicinava alle potenze democrati­che occidentali avrebbe dovuto, a scadenza più o meno breve, rivedere alcuni dei presupposti in tern i più consolidati del regime reazionario di massa, quali l’esasperazione nazionalistica e l’i­dea della necessità dell’espansione e della guer­ra “come mezzi di mobilitazione e di eccitazio­ne psicologica delle masse” (p. 491). Ad una tendenziale trasformazione del fascismo in un regime conservatore-moderato puntavano, be­ninteso spesso in modo inconsapevole, le forze

che avevano stretto con Mussolini i compro­messi di potere del 1922, del 1925 e del 1929: la monarchia, parte degli alti gradi delle forze armate, la Chiesa e parte dei gruppi capitalisti­ci. Ma è un fatto che “nell’autunnno del ’39 e ancora per quattro anni fino al 25 luglio 1943 queste forze non ebbero la capacità e la volontà di liquidare Mussolini (primo passo indispen­sabile per rendere possibile la trasformazione del fascismo), sia per timore di aprire la strada alla riscossa della classe operaia e delle forze di sinistra, sia per mancanza di coesione tra di loro. La marcia del fascismo verso la catastrofe, cominciata con la guerra d’Etiopia, doveva per­tanto concludersi col^crollo militare, con la rottura del blocco sociale che aveva sostenuto il fascismo stesso e con la riscossa popolare e nazionale della Resistenza” (p. 492).

Candeloro, in questa conclusione, sembra più che altrove affidare il suo giudizio storico alla memoria di quegli anni: non vi è gioco di storia “contro-fattuale” che tenga, l’ineluttabili­tà di quella marcia verso la catastrofe torna preminente ad imporsi attraverso la ricostru­zione storica che conferma e riecheggia tante veritiere testimonianze degli uomini che dovet­tero, allora, assistere impotenti e angosciati a quell’esito terribile. Il volume sul fascismo e le sue guerre si chiude con un richiamo alla Resi­stenza che, tuttavia, non è rituale, ma inserito in una interpretazione che sottolinea i fenomeni di ripresa antifascista del 1937-39, tali Certo da non mettere in pericolo 1’esistenza del regime ma importanti storicamente per comprendere la lotta di liberazione nazionale: “il fatto stori­camente importante fu il travaso di forze dal fascismo all’antifascismo che avvenne nel corso di sette od otto anni, dal 1937 circa all’inizio della Resistenza” (p. 471).

Questa insistenza di Candeloro nel presenta­re al lettore riferimenti continui al medio e al lungo periodo, queste connessioni fra fatti sto­rici rilevanti che lo storico deve selezionare (per spiegarli) dal gran flusso caotico e indifferenzia­to degli eventi, mi paiono istruttivi. Non sta qui un esempio di equilibrio critico che non è vacua

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equidistanza da interpretazioni divergenti o di­plomàtica conciliazione di risultati opposti? Questo equilibrio poggia in primo luogo sulla serietà della riflessione, cui si aggiunge anche il dato temperamentale di uno studioso schivo e paziente con una lunga esperienza del mondo della scuola e dell’università, poco incline ai protagonismi spesso futili di chi segue o pro­muove una moda ed alza la voce nei dibattiti per rafforzare la povertà o l’inconcludenza delle

sue argomentazioni. Ma al di là del tempera­mento e della coerenza intellettuale dell’uomo, mi sembra che questo volume dia molte lezioni su un modo di pensare e di operare concreta­mente, di praticare insomma questo mestiere di storico, che rappresenta un punto di riferimen­to per chiunque di noi non abbia ancora smar­rito l’abitudine ad interrogarsi sulle motivazio­ni e sugli intenti del proprio lavoro.

M arco Palla

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Rassegna bibliografica

Nuove riviste, nuova storia?di M assim o Legnani

Se si dovesse considerare quello delle riviste come parte integrante del mercato complessivo delle pubblicazioni di storia, si dovrebbe dedur­re che anch’esso non può non mostrare segni tangibili di cedimento e restringimento. Si do­vrebbe insomma concludere che lo spazio per nuove iniziative si assottiglia e che più esili si fanno i margini di sopravvivenza delle preesi­stenti. In realtà le cose stanno diversamente; e le ovvie analogie di contenuti e di linea che si possono riscontrare tra i periodici e le altre edizioni di storia non sono trasferibili sul piano delle strutture produttive e di mercato. Ché, anzi, uno dei dati centrali, sotto il profilo edito­riale, della cultura storica italiana è rappresen­tato proprio dalla scarsissima circolazione delle riviste, dall’essere, queste ultime, largamente fuori da un mercato che pure — salvo eccezioni come la fiammata tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta — non si segnala per ampiezza e vivacità. Certo, questa tradizio­ne di “autoconsumo” della pubblicistica di sto­ria — che meriterebbe di essere attentamente indagata da chi studia i modi e le potenzialità di distribuzione del lavoro intellettuale — non è rimasta immobile nel tempo. La crescita della popolazione universitaria, l’impianto dei corsi di laurea in storia per quanto hanno significato in termini di proliferazione degli insegnamenti se non delle discipline, le sempre più fitte artico­lazioni periferiche nella gestione dei beni cultu­rali hanno concorso, insieme con altri conco­mitanti fenomeni, ad allargare il numero degli utenti di queste riviste, ma è dubbio che abbia­no mutato anche la natura e la composizione

dei destinatari. Pur essendo, nel bene e nel male, tra i meno professionalizzati, il mestiere di studioso di storia presenta, sia nella forma­zione di base che nella strumentazione operati­va, uno dei tassi più alti di riproduttività, ed essenzialmente riproduttiva è anche la cerchia dei lettori delle riviste di storia. Non dunque un pubblico, ma piuttosto un momento di ampli­ficazione del lavoro prodotto all’interno di un ambito assai ristretto e destinato ad un gruppo limitato entro il quale vengono per solito coop­tati i nuovi ricercatori. Ed è forse superfluo sottolineare quanto questa condizione incida su problemi quali quello della “divulgazione” storica, che è di necessità vista come altro dalla ricerca e dalla elaborazione degli orientamenti storiografici, relegata ad un habitat governato da istituzioni, logiche di mercato ed aggrega­zioni di pubblico pregiudizialmente alternative.

A dispetto di queste sin troppo ovvie consi­derazioni, il panorama delle riviste tende, s’è detto, a dilatarsi. E le ragioni del fenomeno vanno quindi ricercate all’interno del mondo degli studi, delle sue strutture organizzative e della diversa dislocazione delle tendenze e degli interessi. Non v’è dubbio, ad esempio, che il fiorire delle riviste locali, se da un lato riflette l’estendersi dell’area di presenza della cultura storica negli anni sessanta e settanta (quasi il rifrangersi di u n 'on da lunga), dall’altro riflette anche — nei prodotti migliori — la volontà di reagire ad un’immagine unidimensionalmente nazionale della storia italiana, quasi che le grandi trasformazioni socio-economiche della metà di questo secolo dovessero spingere a

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valutare come semplici “residui” le diversità dei quadri locali. Il fatto, poi, che su questa reazio­ne abbia inciso anche la voga della storia socia­le come mezzo di riscatto e di emancipazione della microstoria, aiuta a misurare le distanze intercorrenti tra simile fioritura e le tradizioni anteriori di “storia municipale”.

Diverso è il caso delle riviste “nazionali” sorte nell’ultimo decennio e per le quali occorre riferirsi ora agli “specialismi” del settore in cui si collocano (da “Storia urbana” a “Memoria”, per limitarsi alle più recenti), ora al retroterra politico-scientifico al quale, più o meno esplici­tamente, attingono, ora ad una mescolanza dei due ingredienti. Una valutazione panoramica — certo non surrogata da queste rapide osser­vazioni — porterebbe facilmente a individuare gruppi e tendenze di cui le diverse testate sono espressione, e soprattutto ad illuminare i colle­gamenti con aree accademiche, enti, settori del­le comunicazioni di massa. Ma questo pano­rama porrebbe anzitutto in luce un aspetto navralgico e senz’altro paradossale per l’osser­vatore esterno: la scarsa, per non dire inesisten­te, comunicazione tra le riviste.

L’aumento delle testate, e dunque degli inter­locutori, non si traduce in un incremento del dialogo e del confronto. Si potrebbe anzi af­fermare che la moltiplicazione delle voci sem­bra offrire nuova conferma della diffusa condi­zione di reciproca sordità. Prova ne sia che più di una rivista rinuncia a presentarsi con un profilo programmatico riconoscibile, così che quello che sarebbe interpretabile — attraverso il sottinteso rinvio ai contenuti specifici — co­me una rivendicazione della serietà del “fare” contro le velleità delle enunciazioni di princi­pio, appare piuttosto solo una forma di mime­tismo. Quando Franco Andreucci e Gabriele Turi, presentando “Passato e Presente”, la nuova rivista da essi diretta, affermano che “nessuna delle riviste esistenti sembra possede­re [...] la volontà esplicita di rispecchiare il dibattito storiografico, di discutere gli orienta­menti della storiografia”, colpiscono indiscuti­bilmente nel segno. V è semmai da osservare,

sul seguito dell’editoriale, che le cause di questa lacuna sono ricondotte ad un ambito parziale, addebitate ad una sorta di diffusa “mediocrità” intellettuale della cultura storica italiana e non anche alle condizioni concrete del suo farsi. Discorso sicuramente arduo, ma tanto più ne­cessario per la contemporaneistica e su cui più di uno spunto è stato prodotto dalla discussio­ne condotta da “Quaderni storici” nel 1972-73.

La comparsa di tre nuovi periodici di storia, da cui queste note prendono avvio, offre indi­cazioni almeno in parte nuove rispetto alle con­siderazioni sin qui svolte? Trattandosi di fasci­coli d’esordio, la segnalazione non può che assumere carattere provvisorio, fondandosi più sul modo di presentarsi di ciascuna testata che sull’analisi di contributi ancora troppo limitati di numero per consentire valutazioni compiute. L’immagine più scontata sembra essere quella di “Storia della storiografia” (“Rivista interna­zionale” semestrale edita da Jaca Book), cui bastano nove righe “al lettore” per dichiarare la propria “novità”. Essa nasce infatti — leggia­mo — come emanazione della omonima commissione istituita all’interno del Comitato internazionale di scienze storiche, “con la preci­sa ambizione di offrire agli storici una sede aperta e realmente internazionale, in cui dibat­tere i problemi relativi alla metodologia e alla storia della loro disciplina”. La rilevanza della specializzazione prescelta è, per così dire, obiet­tiva. L’assenza di dibattito prima richiamata non rivela forse, dopotutto, una insufficiente consapevolezza delle condizioni entro cui si genera la cultura storica? E gli ultimi anni non sono stati segnati — soprattuto da parte dei seguaci della “nuova storia” — anche dallo sforzo di passare dalle forme tradizionali della “storia della storiografia” ad una più aderente, comprensiva, “globale”, “storia della storia”? A fatica tuttavia si rintraccerebbero echi di tali interrogativi in questo primo numero, che alli­nea in modo occasionale contributi diversi, così come occasionale riesce la parte bibliografica, che proprio dalla internazionalità del periodico dovrebbe trarre uno spessore critico-infor­

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mativo sicuramente non riscontrabile nella ge­neralità delle riviste italiane. In realtà, il pro­clamato carattere internazionale di “Storia del­la storiografia” sembra riconducibile, più che al proposito di scandagliare le tendenze più vive della produzione dei diversi paesi, alla interna­zionalità istituzionale delforganismo cui l’ini­ziativa fa capo. Aiuto comunque prezioso per assicurare una maggiore circolazione di mate­riale, ma anche rinuncia ad una funzione cultu­rale ben altrimenti incisiva.

Di “Passato e Presente” (“Rivista di storia contemporanea” semestrale edita da La Nuova Italia) s’è già intrawisto il proposito di presen­tarsi come “strumento di intervento, oltre che di ricerca”, ponendo al centro della propria prospettiva critica “una concezione della storia contemporanea capace di riscattarsi dalle ipo­teche tematiche e ideologiche legate al breve periodo novecentesco”. E la lucida insistenza sul carattere di “intervento” della rivista è sotto- lineata dalle condizioni ritenute pregiudiziali per la realizzazione dei propri programmi: “un’attenzione costante per le tendenze delle storiografia, un’informazione internazionale il più possibile ampia e aggiornata, una riflessio­ne sui modi di circolazione della cultura stori­ca”. Il sommario del primo numero documenta con puntualità questo impegno non facile e, giova ripeterlo, inconsueto nella pubblicistica italiana, spesso subalterna, come opportuna­mente osserva ancora l’editoriale, a “quelle ge­rarchie nella conoscenza storica che privilegia­no e assolutizzano, di volta in volta, questo o quel campo di ricerca, questo o quel metodo di lavoro”. Tuttavia, se su questi passaggi il di­scorso racchiude una indubbia forza persuasi­va, su altri esso appare eccessivamente allusivo, tale da entrare in contraddizione con le proprie premesse. Come quando indica tra i mali della contemporaneistica italiana “la sordità nei con­fronti della storia sociale” e “l’insensibilità di vecchia data per i problemi generali della cono­scenza storica che ha fra l’altro contribuito al­l’affrettata liquidazione del cosidetto storicismo e dell’apporto del marxismo alla storiografia”.

Quali sono i destinatari della denuncia? È pos­sibile, movendo dalla confusione delle lingue manifestatasi in proposito, parlare di storia so­ciale, e massime per l’età contemporanea, senza ulteriori specificazioni? E perché mai definire “cosidetto” lo storicismo? E che significa parla­re di “liquidazione [...] dell’apporto del mar­xismo alla storiografia” italiana come di un evento ormai passato in giudicato? A quali aree e a quali agenti si rimanda? Gli interrogativi, come si vede, si infittiscono di fronte a giudizi tanto fortemente ellittici da risultare difficil­mente valutabili.

La terza segnalazione riguarda “Cheiron” (“ Rivista semestrale del centro di ricerche stori­che e sociali Federico Odorici di Brescia”), che porta come sottotitolo “Materiali e strumenti di aggiornamento storiografico” e esordisce con un fascicolo dedicato a “Il potere di giudi­care. Giustizia, pena e controllo sociale negli stati d’antico regime”. Il titolo a chiave vuole istituire un parallelo tra il centauro che, “amico degli uomini trasmise loro la sua profonda conoscenza dell’arte medica ma non fu capace di risanare se stesso” e gli storici che, “dalla loro approfondita conoscenza degli uomini e delle vicende passate non sono in grado di trarre alcun suggerimento per migliorare il presente e programmare un avvenire meno minaccioso”. Ad attenuare questo senso di disillusione — o di sconfitta? — intervengono una constatazio­ne e un impegno. La constatazione investe la almeno potenziale maturità della storia, la sua dimostrata “vocazione di disciplina sociale”, che “attraverso le acquisizioni delle altre scienze umane, ha preso ad interessarsi delle società passate in una prospettiva globale”; l’impegno è quello di contribuire a ridurre la “distanza esi­stente tra le frontiere della ricerca... e quanti, appunto, in vario modo e in diversa misura, considerano la storia parte integrante e viva del loro bagaglio culturale”. Gli echi delle conclu­sioni cui è recentemente pervenuto Jacques Le Goff (si veda la chiusa della voce S to r ia nel XIII volume dell’Enciclopedia Einaudi) sono chiaramente percepibili e non v’è dubbio che la

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capacità di risposta degli storici alle sollecita­zioni esterne si pongano oggi con una urgenza tanto particolare quanto, spesso, non facilmen­te decifrabile.

Nessuna pretesa di conclusione, ma più semplicemente l’impressione che sia “Passato e

Presente” che “Cheiron” possano contribuire, dall’osservatorio delle rispettive impostazioni, a rimettere in discussione alcuni degli aspetti più statici e ripetitivi della pubblicistica storica italiana.

M assim o Legnani

M etodologia e storiografia

P. Marcenaro - V. Foa, R i­p re n d e re te m p o . Un d ia lo g o con p o s ti lla , Torino, Einaudi, 1982, pp. 117, lire 6000.

R ip ren d ere te m p o è un li­bro difficile da classificare: è la rielaborazione di un’inter­vista (in cui, però, il perso­naggio “più illustre” è l’ihter- vistatore); è un dialogo tra due amici di età diversa che parlano di sé e del mondo; è un saggio a quattro mani sul­le categorie interpretative del­la politica. È un po’ di tutte queste cose e altre ancora. Vittorio Foa interroga Pietro Marcenaro sulla sua esperien­za di fabbrica (nel testo defi­nitivo le domande non com­paiono, ma si indovinano, ren­dendo più scorrevole la nar­razione); poi, sollecitato dai racconti e dai pensieri dell’a­mico più giovane, va a cerca­re nel proprio passato con­ferme e contraddizioni, rimu­ginando tra sé una grossa que­stione: “mi chiedo se certi mo­delli e strumenti sono impra­ticabili oggi perché la realtà li ha superati, oppure se essi erano sbagliati, impraticabili,

anche prima, quando sembra­vano validi” (p. 97).

I due personaggi del libro -r- i dialoganti — sono appa­rentemente molto diversi l’u­no dall’altro: Marcenaro è un operaio di trentacinque anni di una media azienda metal­meccanica torinese, Foa ha superato i settanta anni, è sta­to uno dei massimi dirigenti sindacali e politici degli ulti­mi quarant’anni ed ora fa il docente unversitario. Eppure hanno molte cose in comune: una lunga amicizia: centinaia di dialoghi non scritti, un me­stiere (Marcenaro prima di entrare in fabbrica ha fatto per dodici anni il politico a tèmpo pieno dentro e fuori il sindacato), e una profonda sconfitta politica alle spalle (entrambi hanno lavorato nel­l’area della nuova sinistra per un’ipotesi di trasformazione della società italiana).

Ma hanno soprattutto in comune alcune atipicità. In­nanzitutto hanno fatto parte di un’élite, in rapporto con “la gente normale”, ma per definizione mai identificata con essa (i compagni di naja sono ricordati da Marcenaro come “persone così normali

come da anni non mi capita­va più di frequentare”, p. 27).

I due autori condividono un’altra anomalia; questa vol­ta rispetto al loro gruppo di riferimento. Entrambi sottolinea­no l’atipicità della propria re­azione ad un periodo di crisi politica della sinistra; Marce­naro racconta e difende le ra­gioni dell’abbandono del la­voro politico a tempo pieno per entrare in fabbrica: “In alcuni, penso, il carattere ri­petitivo, ritualizzato della po­litica finisce per prevalere. Molti altri invece, pur avver­tendo il decadimento del pro­prio lavoro, pensano che nel­l’organizzazione, nel partito, nel sindacato stanno in ulti­ma analisi le sole possibilità di impegno e così decidono di continuare in attesa di tempi migliori, quando l’organizza­zione garantirà di nuovo un rapporto con la realtà capace di rimettere in moto le pro­prie energie [...]. Sono posi­zioni molto rispettabili ma per me la situazione era allora diversa: continuare quella vi­ta era diventato per me inso­stenibile dato che non vi tro­vavo più alcun elemento costruttivo” (p. 4). Foa parla delle moti­

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vazioni del libro: “Va subito chiarito che ho fatto questa intervista non soltanto per aiu­tare un amico ma anche, e soprattutto, per aiutare me stesso. Avevo ed ho delle se­rie ragioni personali. Quando si superano i settant’anni do­po averne passati cinquanta a “fare politica” e ci si trova in una tempesta che investe stru­menti di analisi, modelli cul­turali e progetti di trasforma­zione praticati per decenni (marxismo, socialismo) è dif­ficile fare finta di niente. Vi sono dei vecchi militanti che abbassano le saracinesche, ri­muovono tutto e si chiudono in quel poco che resta del privato. Altri invece difendo­no l’insieme delle regole e del­le analisi del passato ma sono poi costretti ad arrampicarsi sugli specchi per restaurare almeno i pezzi più logori [...] Per parte mia sento acuto il bisogno di salvare dalla liqui­dazione quello che del mio passato sembra a me un nu­cleo coerente, ma per fare que­sto devo interrogare il passa­to e verificarne la continuità col presente” (pp. 95-96).

Ho insistito sulle peculiari­tà dei due autori per arrivare a quello che a me pare il tema di fondo del libro: il rapporto con la “normalità”.

Si sa che il ricorso al con­cetto di normale spesso — anche all’interno del movi­mento operaio — copre l’esi­genza di esprimere valutazio­ni negative verso la non uni­formità. Qui, invece, ci viene proposto un capovolgimento di quella logica: la gente nor­male è quella “normalmente diversa”, fatta da tanti tipi strani, diversi non solo gli uni

dagli altri, ma ciascuno da sé stesso in momenti diversi; ma questo non è necessariamente un male a cui va trovato un rimedio. AI contrario, è ipo­tizzabile che una valorizzazio­ne delle diversità individuali (le soggettività) possa contri­buire a ridare fiato ad un progetto comune: “Oggi cre­do che una prospettiva di tra­sformazione possa venire non solo dall’autonomia delle for­ze organizzate ma dalla pos­sibilità di libere scelte indivi­duali al di fuori di canali e percorsi istituzionali predeter­minati” (p. 67).

R ip r e n d e r e te m p o non for­nisce soluzioni, né risposte uni­voche, ma suggerisce (anche con il titolo?) un modo di ri­prendere in mano vecchie e grosse questioni (che cos’è la classe operaia? che cosa signi­fica governo del tempo? è sa­nabile la contraddizione tra libertà individuale e volontà generale?...) rimanendo adere- renti il più possibile alla real­tà fatta di uomini concreti. E non è neppure solo il prodot­to di un momento di sponta­neità e immediatezza di te­stimoni intelligenti che raccon­tano brani del proprio passa­to (anche se nel libro ci sono bellissime pagine di narrazio­ne). Sottolineare l’estraneità di questo testo rispetto alla formula del libro-documento è indispensabile se non si vuo­le cadere in facili fraintendi­menti del messaggio politico in esso contenuto e soprattut­to se non si vogliono perdere gli spunti teorici più originali che fanno di questo volume un importante contributo di riflessione per chiunque si oc­cupi ancora di storia del mo­

vimento operaio con un’otti­ca militante.

Elisabetta Benenati

Mila Busoni, Paola Falteri, A n tr o p o lo g ia e c u ltu ra . Q u e­s t io n i d i a n tr o p o lo g ia c u ltu ­ra le e, d id a t t ic a d e lle s c ie n ze s to r ic o - s o c ia l i , Milano, ’ Em­me Edizioni, 1980, pp. 500, lire 10.000.

Il libro che Mila Busoni e Paola Falteri hanno pubbli­cato per la Emme Edizioni sot­to il titolo A n tr o p o lo g ia e c u l tu r a rappresenta un’utile indicazione, per quanti oggi si occupano di ricerca didat­tica, non tanto nel senso del­l’originalità e della novità del­le proposte o in quello del­l’architettura sistematica, ma per l’estrema onestà della pun­tualizzazione del percorso teo­rico ed operativo compiuto in dieci anni di collaborazione intensa tra gli insegnanti del gruppo nazionale Mce di an­tropologia culturale. Ciò com­porta una serie di riferimenti teorici molto vasta, articolata in varie direzione tematiche, implicante rapporto di nume­rosi livelli specialistici del di­scorso sull’uomo, continua- mente ricondotta dagli spunti e dagli effetti della sperimen­tazione ad una dimensione o- perativa che ne esplicita il du­plice senso politico e didatti­co.

Ne risulta un discorso mol­to denso ed estremamente pro­blematico, ma in ciò appunto consiste l’utilità dell’indicazio­ne metodologica. È più che mai necessario oggi, evitando sia la pura storicizzazione del­

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le. esperienze che colloca con­clusivamente nel passato le spinte innovative profonde, sia l’elaborazione di nuovi model­li di strumenti didattici, che risolvono i problemi in senso efficientista, compiere ancora una volta lo sforzo di rimet­tere in discussione l’oggetto ed i soggetti del “fare scuola” e, insieme, degli Orientamenti culturali.

11 filo conduttore di questo libro è costituito da un per­corso tra le contraddizioni più profonde che caratterizzano l’asse delle scienze dell’uomo: natura e cultura, soggettivo e sociale, categorie marxiane ed antropologiche, egemonia e su­balternità, conformità e devian­za, e comportamento simbo­lico e prassi, trasformazione e permanenza, e, sul terreno spe­cifico della didattica, spon­taneismo degli spunti o si­stematicità precostituita, l’as­se Dewey-Bruner o Gramsci, trasmissione o produzione di cultura, oppure, dalla parte degli insegnanti, primato del­la politica e/o “nuova pro­fessionalità”.

La messa a fuoco delle que­stioni nodali del campo teo­rico-operativo implica, di con­seguenza, la ricostruzione del­la logica interna delle risposte che ad esse sono state fornite nell’iter compiuto e, se si vuo­le, da questo punto di vista, l’assunzione di responsabilità precise, l’esposizione volonta­ria e vulnerabile ai richiami critici di nuove e diverse op­zioni. In fondo, però, questo libro ha la connotazione forte di un impegno che non può essere eluso, sottolineando la necessità delle scelte: scuola e cultura non esistono se non ci

si espone al rischio di formu­lare ipotesi e, su queste, co­struire nessi e produrre senso. L’ipotesi finale, ad esempio, dell’introduzione nella scuola dell’obbligo delle scienze so­ciali, inizia dall’assunzione esplicita di un punto di vista marxista, che si richiama ai “nessi dialettici di determina­zione tra i vari piani di realtà e, in particolare, ai nessi tra produzione-riproduzione del­la vita materiale e processi sociali e culturali...”. Ma, d’al­tra parte, tale ipotesi presup­pone l’intero percorso di ri­cerca dell’Mce, dal 1960 ad oggi, dai primi interventi cri­tici sulla didattica tradiziona­le della storia, su posizioni di storicismo umanistico, alla ri­cerca d’ambiente in senso de- weyano, all’assunzione dei pa­rametri della nuova storiogra­fia e, dopo il ’69, all’obiettivo didattico di una storia delle “collettività agenti” e degli e- lementi strutturali, centrando l’interesse sul vicino e sul pre­sente. La ricerca etnologica, in parallelo, attraverso ed ol­tre Bruner, promuoveva la con­sapevolezza della relatività cul­turale con lo studio di società “altre”, offrendo alla fram­mentarietà ed all’appiattimen­to delle prime ricerche stori­che il correttivo di una meto­dologia articolata in progetti, basata su una visione globale, e quindi anche soprastruttu­rale, della società e su più ar­ticolate dimensioni cronologi­che, fino al.punto di rifonda­re la stessa didattica della sto­ria potenziandola ed, infine, aggregandosi ad essa come “u- no dei diversi strumenti utili alla comprensione del socia­le”. Il nuovo ed ulteriore o­

biettivo è, a questo punto, uno studio integrato dell’uo­mo che eviti la trappola della contraddizione, ancora,- tra sto­ricismo e presentismo.

Aurora Lombardi

Vieri Becagli, Giovanni Che­rubini, Giorgio Mori, Carlo Pazzagli, Simetta Soldani, Le­z io n i d i s to r ia to scan a , a cura dell’Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana, Firenze, Le Monnier, 1981, pp. 141, sip.

L’Istituto Regionale per la Programmazione Economica della Toscana (Irpet) svolge ormai da molti anni un pre­gevole lavoro di ricerca e di documentazione statistica e geoeconomica sulla regione.

Rispetto a questa attività il volumetto in questione, che raccoglie un ciclo di lezioni ai ricercatori dell’Istituto, rap­presenta una novità abbastan­za rilevante.

Non si tratta solo di una novità “esterna”, e cioè l’af­fiancare allo studio della con­giuntura economica una rifles­sione di più lungo periodo centrata su un riesame della produzione storiografica esi­stente. Si tratta anche, mi pa­re, di una novità sostanziale, inerente l’asse interpretativo dell’economia e della società toscana che l’Irpet ha fatto proprio.

Infatti il “modello di svi­luppo toscano” individuato dall’Irpet in precedenti pub­blicazioni ha come chiave di volta da un lato il rapporto immediato tra apparato indu­striale toscano e mercato este-

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ro, dall’altro l’assunzione della piccola dimensione industria­le, prevalente settorialmente e territorialmente, come esem­pio di econom ia di scala esterne alla singola unità pro­duttiva, ma interne al settore di industria. Non è questa la sede per riprendere la discus­sione teorica su questo tipo di modello, ma ciò che vorrei sottolineare, come sua conse­guenza sul piano dell’analisi storica, è che in esso tutte le linee della storia regionale (dal moderatismo delle classi dirigenti postunitarie, alla per­sistenza del rapporto mezza­drile, ecc.) vengono sussunte come altrettante “particolari­tà” che spiegano, molto spes­so in chiave di razionalizza­zione a posteriori, le caratte­ristiche dello sviluppo eco- nomico-sociale della regione. Queste lezioni cercano invece di affrontare i problemi che stanno alla base della società toscana contemporanea come veri e propri “nodi storici”, con tutta la loro complessità, collocandoli in un arco cro­nologico compreso tra l’asce­sa al trono mediceo del primo dei Lorena ai primi decenni successivi all’unità nazionale.

I vari saggi (efficaci dal pun­to di vista della sintesi de­scrittiva quelli di Giovanni Cherubini e di Vieri Becagli sulla demografia ed il paesag­gio agrario fino al XVI secolo e sulla sovrapposizione tra vecchio e nuovo nelle istitu­zioni dello stato regionale to­scano tra Cinquecento e Set­tecento; estremamente stimo­lanti per i numerosi problemi storiografici e metodologici sottolineati quelli di Simonet­ta Soldani e Giogio Mori sul

moderatismo toscano e sulle strutture industriali nel decen­nio postunitario) sembrano co­munque rimandare, come no­do di fondo, alla valutazione ed alla comprensione delle ca­ratteristiche dei rapporti mez­zadrili e della loro evoluzione.

Su questo è centrata la le­zione di Carlo Pazzagli “Que­stioni di storia dell’agricoltu­ra toscana dal ’700 ad oggi”, che propone, mi sembra, gli spunti interpretativi più ori­ginali.

La storiografia marxista de­gli ultimi venti anni — questo rimpianto del discorso di Paz­zagli — prendendo spunti dal­le osservazioni di Sereni è ri­uscita a rovesciare l’immagine della Toscana agricola traman­data dal moderatismo ottocen­tesco, per il quale la preoccu­pazione della conservazione sociale e l’opzione per il si­stema mezzadrile si amman­tava di motivazioni ideali e morali.

Non è ancora riuscita, pe­rò, a risolvere la questione della valutazione reale da da­re di questa struttura e del suo evolversi in termini di transizione o meno al capita­lismo. Sono insomma ancora presenti due ipotesi di lavoro: quella che si basa sulla stati­cità del sistema mezzadrile (Mirri, lo stesso Pazzagli), ca­pace di intensificare e razio­nalizzare la sua produttività, ma incapace di trasformarsi qualitativamente, e quella che individua nella mezzadria (Giorgetti), sotto un involu­cro giuridico immobile, una forma di transizione verso il capitalismo agrario. Le veri­fiche sul campo non hanno confermato nessuna di queste

due ipotesi, anzi hanno sotto- lineato uno “iato [...] tra l’i­potesi generale di un processo di transizione al capitalismo e la difficoltà di scandire i tem­pi e di cogliere i modi” (p. 103).

Infatti anche con l’accentar­si delle funzioni decisionali, commerciali, di investimento nelle fattorie, durante la se­conda metà dell’Ottocento, “gli esiti produttivi dell’azien- de continuano a determinarsi non tanto sulla base di un piano globale [...] quanto ca­so per caso, in rapporto alle situazioni specifiche e alle esi­genze dei singoli poderi e del­le singole famiglie” (p. 109).

Rispetto a questo Pazzagli propone, per le campagne to­scane tra Ottocento e Nove­cento, l’immagine di una “at­tivazione colturale” (p. Ili) che dà luogo ad un “non­sviluppo”, o meglio ad un processo “piuttosto di cresci­ta che di sviluppo” (p. 113) che, oltre a lasciare inalterati i caratteri di fondo della con­duzione mezzadrile, afferma sempre di più un “sistema [...] idoneo a garantire in ogni caso il minimo rischio e ad offrire, nei momenti critici, la possibilità di un facile disim­pegno da parte del proprieta­rio, pur sempre in grado di puntare sulla continuità, ov­vero sul’incremento del lavo­ro dei mezzadri legati ineso­rabilmente al volume della produzióne, in ragione del ri­gido rapporto sussitenziale che li vincola all’azienda” (p. 117).

Due elementi di quest’ana­lisi vanno sottolineati e costi­tuiscono, a mio parere, gli spunti più interessanti: da un

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lato la definizione delle zone mezzadrili come sacche di non sviluppo, dall’altro la loro fun­zione equilibratrice non solo nel senso della stabilità socia­le, ma anche della possibilità di assorbire i contraccolpi che gli investimenti del proprieta­rio possono subire in altri set­tori.

Queste affermazioni sem­brano infatti configurare un’in­dicazione tematica nuova, in parte travalicante l’ambito del­le “particolarità” regionali, che cerchi di ricollocare la questione della mezzadria (ben oltre le ragioni della sua seco­lare sopravvivenza) all’inter­no del ruolo assegnato alla campagna nello sviluppo ca­pitalistico, come zona “peri­ferica” — e quindi caratteriz­zata da un intreccio di vec­chio e nuovo, di considera­zioni economiche ed extra­economiche, ecc. — rispetto a zone e settori più tipicamente capitalistici e quindi sacca di “non sviluppo” funzionale al­l’ammortizzazione di tensioni e costi generati altrove.

Marco Da Vela

La s to r ia :fo n ti orali nella scuo­la , Atti del convegno “L’inse­gnamento dell’antifascismo e della Resistenza: didattica e fonti orali”, organizzato dal Comune di Venezia, dall’Isti­tuto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazio­ne in Italia, dagli Istituti as­sociati e dall’Università di Ve­nezia (12-14 febbraio 1981), Venezia, Marsilio, 1982, pp. 275, lire 16.000.

Del convegno svoltosi a Ve­

nezia nel febbraio 1981 su “L’insegnamento dell’antifasci­smo e della Resistenza: didat­tica e fonti orali” si è già dato un resoconto nel n. 142 di “Italia contemporanea”, con la pubblicazione della relazio­ne introduttiva di Guido Quaz- za. L’edizione degli Atti, ar­ricchita da un’ampia ed esau­riente bibliografia sulla didat­tica della storia, sulla storia orale e su quanto prodotto in questo ambito dagli istituti della Resistenza, permette ora una valutazione ulteriore e più attenta del significato e dei ri­

sultati dell’iniziativa. Partico­larmente efficace si conferma l’impostazione: l’obiettivo spe­cifico, e cioè il vaglio critico delle esperienze di uso delle fonti orali nell’insegnamento della storia, s’innesta sul pro­blema più generale del come insegnare storia oggi, in ri­sposta a quale domanda e per quali motivazioni. Ed è pro­blema su cui il convegno di Venezia aveva saputo coinvol­gere pariteticamente insegnan­ti, ricercatori e operatori cul­turali, spezzando per una vol­ta la barriera che separa scuo­la e comunità scientifica e pre­figurando forme nuove di dia­logo.

Sotto questo profilo le re­lazioni, come pure i risultati dei lavori di commissione, pur nella diversità tematica, pre­sentano un orientamento co­mune: l’individuazione di un mutamento nel “senso stori­co”, che induce ad una prassi storiografica, ma anche didat­tica, di segno diverso dal pas­sato; di qui la necessità di ri­definire supporti teorici e me­todologici e obiettivi formati­vi, senza tecnicismo, ma an­

che fuori da scorciatoie ideo­logiche o da sperimentazioni improvvisate. Non casualmen­te la ricognizione critica viene estesa all’ambito dei mass-me­dia, a considerare l’apporto nella storia dei mezzi audio­visivi o della comunicazione museale.

Che il principale tema in discussione sia stato la “sto­ria orale”, con quanto ancora di innovativo e non istituzio­nalizzato o addirittura di po­lemico comporta questo ter­reno di ricerca, ha favorito l’emergere di questa tensione problematica.

In un momento di crisi del­la progettualità politica, di con­trapposizione tra “privato” e “pubblico” — afferma Quaz- za — in cui alcuni approcci della nuova storiografia, co­me il ricorso all’oralità, sem­brano caricarsi di significati contestativi rispetto alla sto­ria “tradizionale”, s’impone u- na verifica dello stesso rap­porto tra politica e storia. Si tratta allora di creare momen­ti di confronto e, senza na­scondere divergenze d’impo­stazione pure profonde, ela­borare una tipologia di ricer­ca il più possibile ampia e ri­spondente alle trasformazioni politiche e culturali in atto.

Rispetto alla dialettica, è preliminare l’analisi degli at­tuali destinatari dell’insegna­mento storico, a partire dal quadro problematico in cui si collocano oggi insegnanti e studenti. All’attuale difficoltà dei primi di risolvere la loro identità professionale nella coin­cidenza tra impegno sociale e insegnamento, si contrappone la obiettiva difficoltà di rap­portarsi al passato dei secon­

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di, l’apparente modificazione delle loro coordinate tempo­rali. Se si tiene ferma la rile­vanza della forma conoscitiva offerta dalla storia — afferma Raffaella Lamberti — il pro­blema didattico è oggi quello di indurre una domanda di storia assente o non immedia­tamente decifrabile. A livello generale, è necessario ripen­sare l’intera organizzazione dell’insegnamento storico, spez­zandone la ciclicità ripetitiva, superando la tendenza delle storie a disegno e della loro “forma narrata”, costruendo curricoli che precisino anali­ticamente la trasmissione e l’ela­borazione della disciplina. E trasmissione ed elaborazione implicano che anche nell’in­segnamento della storia si as­suma una prospettiva da “la­boratorio”, che si elabori cioè una tecnica didattica capace di evidenziare i momenti di costruzione dell’operazione sto­riografica. Non si tratta, evi­dentemente, di formare a scuo­la dei piccoli storici, ma di combinare insieme, per quan­to possibile, trasmissione dei risultati e riproduzione del mo­do in cui vi si è pervenuti.

L’obiettivo, indicato da Pie­ro Brunello e da Ivo Mattoz- zi, è quello di fornire coscien­za storica come “dimensione culturale che potenzia le ca­pacità di osservazione e di analisi dei livelli in cui è scom­ponibile là realtà”. L’uso del­le fonti orali, in particolare delle storie di vita, appare uti­le per la formazione dei pre­requisiti stessi del senso stori­co, per abituare a contestua­lizzare eventi ed esperienze nel­lo spazio e nel tempo, attra­verso la ricostruzione del pas­

sato personale o di quello fa­miliare o collettivo, in un pas­saggio progressivo dal “vici­no” al “lontano”, dal “pros­simo”, al “remoto”, dal “loca­le” al “nazionale”, sviluppato a partire dalla scuola elemen­tare.

11 curricolo di storia orale così tracciato può suscitare alcune perplessità, per un ec­cesso di fiducia e di compiti di cui le fonti orali vengono caricate. D’altra parte l’ap­prossimazione di molte delle esperienze compiute, che si riducono a tentativi di con­trostoria su singoli periodi o avvenimenti, di antropologia retrospettiva o di “eventogra- fia” volgare, richiede di sot­toporre le fonti orali ad una critica attenta della loro pecu­liarità.

Luisa Passerini, affrontan­do il tema V ita q u o t id ia n a e p o te r e n e lla r ic e r c a s to r ic a , in particolare rispetto a fasci­smo e antifascismo, sottolinea il rischio di trascurarne “il carattere doppiamente secon­dario, di interpretazione sog­gettive di esperienze parziali del reale”. Le fonti orali pos­sono aiutare a dipanare la complicata matassa dell’intrec­cio tra soggettività e potere, tra vita quotidina e sfera pub­blica, a patto di analizzarle con strumenti adeguati al cam­po specifico della memoria e tenendo conto che la memo­ria del singolo ha sempre a che fare con momenti di or­ganizzazione e controllo isti­tuzionale. Sul piano della ri­cerca il dibattito è tra chi, nella polarizzazione storica tra privato e pubblico, afferma la necessità di un’analisi che ne privilegi la separatezza, e chi

indica la ricca potenzialità di ricerche, che sappiano mette­re a confronto ciò che di spe­cifico emerge dalle fonti orali con i risultati storiografici acquisiti.

Rispetto alla ricerca didat­tica, tener conto della pecu­liarità delle fonti orali signifi­ca sgombrare il campo da una serie di equivoci, che possono essere generati dal rapporto simpatetico tra studenti e te­stimoni. Daniele Jallà, entran­do nel merito della raccolta e della produzione delle fonti, ne individua il ruolo nell’es- plicitare alcune operazioni fon­damentali del “fare storia”: l’analisi delle condizioni di pro­duzione del documento, il pro­cedimento di “costruzione” da cui nasce la storia, che le fon­ti orali (prodotte per la ricer­ca e non preesistenti ad essa) hanno il vantaggio di eviden­ziare più di altre.

Quest’ultimo aspetto torna ad emergere anche nella rela­zione di Peppino Ortoleva su L 'im m a g in e te le v is iv a e l ’in ­s e g n a m e n to d e lla s to r ia : l’in­teresse di una narrazione fil­mica della sforia è anche nel­la possibilità che il mezzo audio­visivo offre allo studioso di “proporre allo spettatore il lavoro di ricerca nel suo farsi, di costruire un racconto che ripercorra, insieme, la vicen­da storica da ‘insegnare’ e il cammino del ricercatore che la analizza”.

Anche e soprattuto rispetto ai mass-media, il problema che affiora è quello del muta­re della percezione del passa­to, dell’alterazione della do­manda di storia, che porta a ripensare il modo di concepi­re e comunicare il prodotto

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intellettuale. Ed è in questa luce che Pietro Clemente, at­traverso una lucida esemplifi­cazione, propone di riconsi­derare il discorso museografi­co, la sua potenzialità comu­nicativa, senza trascurare l’a­nalisi delle tensioni ideologi­che che, anche in questo caso, si sono riflesse nelle esperien­ze museali più recenti, in quan­to a recupero del soggettivo, dell’originario, del rurale.

Ciò che si propone, insom­ma, quale obiettivo di ricerca, ma anche come problema in­terno alla didattica, è di indi­viduare la potenzialità di stru­menti specifici d’indagine e di conoscenza, tenendo contem­poraneamente conto della va­lenza culturale e sociale che assumono nel presente, nella prospettiva di quella che En­zo Forcella ipotizza come pos­sibile sintesi tra “ricerca” e “socializzazione” del sapere.

Rossella Ricci

Econom ia e società

Antonio Prampolini, A g r ic o l­tu ra e s o c ie tà ru ra le n e l M e z ­z o g io r n o a g li in iz i d e l '900. L ’in c h ie s ta p a r la m e n ta r e su lle c o n d iz io n i d e i c o n ta d in i n e lle p r o v in c ie m e r id io n a l i e n e lla S ic ilia . Voi. 1°: L ’a g r ic o ltu ra . Milano, Franco Angeli, 1981, pp. 319, lire 14.000.

Si tratta del primo volume di una scelta antologica — che si prevede in complessivi tre volumi — degli atti del- l’“Inchiesta parlamentare sul­le condizioni dei contadini nel­le provincie meridionali e nel­la Sicilia”, svoltasi tra il 1907

e il 1911, comunemente cono­sciuta anche col nome di “In­chiesta Faina”. Antonio Pram­polini, che ne è il curatore, correda l’antologia con un sag­gio introduttivo e con un’utile appendice statistica di Ghino Valenti tratta dal volume col­lettivo del 1919 “L’Italia agri­cola e il suo avvenire”.

L’inchiesta Faina è uno dei prodotti della vasta e conso­lidata prassi governativa delle inchieste parlamentari. Essa si caratterizza come punto d’in­contro e fusione di due dei fi­loni d’indagine più prolifici per la quantità e la qualità delle informazioni raccolte, e più rappresentativi del climq politico e sociale dell’Italia postunitaria: le inchieste sul­l’agricoltura e il mondo rura­le e quelle sul meridione. Ba­sta ricordare a proposito gli illustri precedenti dell’inchie­sta Jacini e di quella sul bri­gantaggio.

La genesi dell’inchiesta Fai­na è stréttamente legata all’i­ter legislativo dei “Provvedi­menti per le provincie meri­dionali e per la Sicilia”, pre­sentati da Sonnino durante il suo primo breve governo e fatti in seguito propri da Gio- litti per motivi di strategia politica. I provvedimenti, co­niugando la riforma e il mi­glioramento dei patti agrari con gli sgravi fiscali nei con­fronti della grande proprietà, miravano ad assestare la so­cietà rurale su basi conserva­trici. Prampolini nell’introduzio­ne tende a dimostrare che Gio- litti, apportando come moti­vazione la necessità di atten­dere la raccolta di materiale conoscitivo sull’argomento, va­rò l’inchiesta nel tentativo di

allungare i tempi di attuazio­ne della legge — specialmente per quanto riguardava la ri­forma dei patti agrari. In que­sta maniera riusciva a dimo­strare un interesse formale del governo nei confronti dei con­tadini meridionali, venendo in­contro alle richieste di alcuni settori meridionalisti e socia­listi. Nello stesso tempo, ap­propriandosi della riforma son- niniana attraverso una gestio­ne in tempi lunghi che la ren­deva monca dei suoi aspetti più progressivi, ne devitaliz­zava l’incidenza politica. Fu la convergenza di trame così ambigue che permise di man­tenere all’inchiesta Faina — a differenza di quanto era av­venuto con quella Jacini — il carattere formale d’indagine sui contadini. Gli stessi risul­tati conclusivi non tradirono del tutto qusta impostazione iniziale. Troviamo così accan­to a dati sulla produzione e sulla proprietà, interessanti notizie e denunce più o meno velate sulle condizioni di vita dei contadini e sulla durezza dei patti agrari.

L’inchiesta fu affidata ad una commissione parlamenta­re presieduta dall’onorevole Faina, ma fu condotta da sei delegati tecnici, uno per re­gione, coordinati nella loro opera da Francesco Coletti. Essa fu svolta attraverso mo­nografie regionali redatte sul­la base di un questionario co­mune programmato da Colet­ti e che Prampolini allega in appendice.

L’inchiesta, nata quindi in una contingenza che vedeva l’intreccio tra il progetto di Sonnino, imperniato su un ru- ralismo di stampo conserva­

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tore, e il sostanziale disinte­resse di Giolitti nei confronti dei contadini meridionali, sa­crificati alle esigenze sindacali degli operai settentrionali, e al recupero clientelare della proprietà fondiaria, venne in realtà funzionalizzata ad un terzo programma, quello nit- tiano. Nitti riuscì ad egemo­nizzare le conclusioni indiriz­zandole sulla sua politica di “ricostruzione del territorio” basata sul risanamento idrau­lico e forestale. Tutto som­mato,. come nota Prampolini, se le conclusioni dell’inchiesta suscitarono scarsissimo inte­resse nell’opinione pubblica e nel parlamento, andrebbero in­vece‘valutati in maniera più approfondita i segni che que­sta esperienza lasciò sui pro­tagonisti che la condussero a termine. Si tratta infatti di quei delegati tecnici, Bordiga, Azimonti, Lorenzoni, per fa­re i nomi più significativi, che ritroveremo presenti nel dibat­tito politico e scientifico nel dopoguerra e nel fascismo. Di questi personaggi Prampolini offre nell’introduzione degli u- tilissimi profili biografici che fanno luce sulla loro forma­zione scientifica, sulle compe­tenze e sui metodi d’indagine utilizzati nel lavoro. Queste ultime indicazioni permettono peraltro una lettura critica più attenta dei risultati ottenuti. Si tratta quindi di un utile punto di partenza per un pro­seguimento delle loro biogra­fie nel periodo successivo, che permetterebbe di recuperare certe radici e contraddizioni del dibattito sul meridione svoltosi negli anni venti e tren­ta.

In realtà, per quanto sotto-

valutati dai contemporanei, i dati raccolti nell’inchiesta han­no rappresentato una fonte estremamente ricca per la più recente e qualificata storiogra­fia. Basti pensare all’uso assi­duo che ne ha fatto Giorgetti in C o n ta d in i e p r o p r ie ta r i n ell'Ita lia m odern a , o all’av­veduta utilizzazione che ne è stata fatta per la ricostruzio­ne di spaccati di storia eco­nomica e sociale regionale, si tenga presente ad esempio l’am­pio uso che da più parti si è fatto della monografia di Lo­renzoni per la storia della Si­cilia in età giolittiana. La rac­colta di Prampolini ha quindi il merito di presentare i mate­riali della inchiesta ad un pub­blico più vasto e meno specia­listico.

È diffìcile d’altronde entra­re nel merito della cernita dei brani fatta dal curatore, te­nendo anche conto che il ma­teriale conclusivo ammontava a più di cinquemila pagine, tutte di un discreto livello scien­tifico. Prampolini, piuttosto che assecondare la divisione originale in monografie re­gionali, ha preferito conside­rare “l’agricoltura meridiona­le intesa come realtà d’insie­me”. In questo senso ha se­guito come traccia discrimi­nante la distinzione verticale, che attraversa tutta l’agricol­tura meridionale, tra mezzo­giorno arborato e mezzogior­no cerealicolo pastorale. Que­sta scelta trova una sua giu­stificazione nella stessa impo­stazione che Coletti volle da­re a tutta l’inchiesta. Egli infat­ti imponendo un questionario standard a tutti i delegati mi­rava allo scopo di rendere omogenea la rilevazione. In

questo modo, pur emergendo le peculiarità delle diverse re­gioni agricole, si sarebbe po­tuta facilitare una lettura sia comparativa sia complessiva dei dati raccolti. Seguendo que­sto criterio l’antologia si divi­de in tre sezioni. Nella prima si presentano le descrizioni geo­agrarie che i vari delegati sti­larono delle rispettive regioni; nella seconda le diverse arti­colazioni regionali della pro­prietà fondiaria, dal latifondo alla piccola proprietà; nella terza i vari tipi di contratti agrari. All’interno delle tre se­zioni vengono privilegiate tre regioni chiave, intese come ste­reotipi di quella distinzione verticale trà Mezzogiorno pa­storale e Mezzogiorno arbo­rato cui prima si accennava. La Puglia intesa “come realtà emblematica del Mezzogiorno arboraro”; la Sicilia “che rap­presentava esasperati i carat­teri del latifondo estensivo”; la Campania dove i caratteri agrari del meridione si intrec­ciavano e confondevano. Que­sta scelta di muoversi sul dop­pio binario della divisione ver­ticale e per stereotipi regiona­li, che presenta una sua vali­dità metodologica e pratica, finisce però col penalizzre la comprensione di alcune dina­miche tipicamente regionali e interzonali che emergerebbe­ro da una lettura meno ste­reotipata e più omogenea del­le realtà regionali. Per quanto riguarda la Sicilia ad esempio (stereotipo del latifondo) non emerge il ruolo della agricol­tura costiera arborata che pro­prio in quel periodo, come notava lo stesso Lorenzoni, era soggetta ad un interessan­te processo di ristrutturazione

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aziendale e di commercializ­zazione che finiva per riflet­tersi su alcune zone del lati­fondo. Al di là degli inevita­bili privilegi ed esclusioni im­pliciti in ogni antologia, Pram- polini scegliendo alcuni tra i brani più interessanti e rap­presentativi delle varie mono­grafie, riesce a stimolare il lettore interessato ad un ap­profondimento diretto sulle fonti.

Nelle previsioni del curato­re il secondo volume avrà co­me tema di fondo la società rurale, il terzo l’emigrazione.

Salvatore Adorno

Carlo Felice Casula, G u id o M ig lio li . F ro n te d e m o c r a t ic o p o p o la r e e C o s t i tu e n te d e lla te r ra , Roma, Edizioni Lavo­ro, 1981, pp. 179, lire 10.000.

Questa ricerca contribuisce notevolmente alla ricostruzio­ne della figura di Miglioli. L’A. ne studia la partecipa­zione al Fronte popolare del 1948 e.alla Costituente della terra, la quale precedette il Fronte e gli sopravvisse fin oltre il cinquanta. Si avvale di fonti inedite: carteggi tra protagonisti, carte private, nonché quel periodico “Nuova terra” che Miglioli condiresse con Grie- co, e che è pressoché introva­bile. Il reprint consentirebbe una interpretazione in gran parte nuova della storia delle lotta agrarie del secondo do­poguerra (non sembra però che abbia potuto tener conto degli atti del convegno su Mi­glioli, tenutosi a Cremona nel­l’ottobre 1979 a cura di quella Amministrazione provinciale

e della Regione Lombardia, ora editi con il titolo L a f i g u ­ra e l ’o p e r a d i G u id o M ig l io l i 1 8 7 9 -1 9 7 9 a cura di Franco Leonori, Roma, ed. Quaderni del Centro di documentazio­ne “Cattolici Democratici”, 1982, pp. 279).

Di particolare interesse le notizie sul Movimento cristia­no per la pace, che aderì al Fronte, ma non vide eletto nessun suo esponente. Il Mo­vimento non fu come tale scon­fessato dalla autorità ecclesia­stica; il colloquio Miglioli- .Tardini (principio del ’48) è inedito. Nell’agosto dello stes­so anno il Movimento si op­pose allo scioglimento del Fron­te, (qui il Casula (a p. 40 nota 81) commette una lieve inesat­tezza, affermando che “Gui­do Miglioli e Ada Alessan­drini rappresentanti del mo­vimento cristiano per la pace si trovarono del tutto isolati nel sostenere la necessità del­la prosecuzione dell’alleanza frontista”; in realtà anche i socialisti di sinistra Cacciato­re, Lizzadri e Morandi, rima­sti nella presidenza del Fron­te in rappresentanza degli or­ganismi che li avevano dele­gati, votarono contro; così al­meno secondo Lizzadri, Il s o ­c ia l is m o i ta l ia m o d a l f r o n t i ­s m o a l c e n tr o s in is tra , (Ro­ma, Lerici, 1969, p. 92).

La seconda parte dell’opera (pp. 65-179) contiene scritti e discorsi di: Miglioli sulla que­stione agraria. Emerge la va­stità della sua visione. Inte­ressano anzitutto la ricostru­zione delle occupazioni nel ’20 delle aziende padane, gli ap­porti su consigli di cascina e sul lodo Bianchi (pp. 102-111); ma assume notevole valore

documentario l’analisi dei fat­ti coevi: la crisi dei contratti agrari parziari, i rapporti tra riforma fondiaria e investimen­ti, nonché le lotte dei salariati 'e braccianti, tanto padani quanto meridionali. Senza dub­bio le proposte di Miglioli

-contengono elementi populisti e talvolta confusi; ma la sua concreta collocazione storica

-pegli ultimi anni di vita (morì •nel- 1954) fu interamente nel movimento contadino, nel vi­vo della lotta, vennero le gra­tificazioni'di “classista” (“bol­scevico bianco” nel ’21) ad­dotte contro di lui dalla De e motivo reale della sua esclu­sione dalla rappresentanza uf­ficiale del mondo cattolico.

Emanuele Tortoreto

Matteo Pizzigallo, A lle o r ig i­n i d e lla p o l i t i c a p e tr o li f e r a i ta ­liana, 1920-1925, Milano, Giuf- fré, 1981, pp. 332,

In questo volume si rico­struiscono i primi passi della politica petrolifera italiana ne­gli anni che precedettero la fondazione dell’Agip (1926). Sebbene l’incidenza degli idro­carburi nell’ambito del con­sumo energetico totale del pae­se continuasse a mantenersi su livelli complessivamente mo­desti rispetto ad altri paesi industrializzati (nel periodo 1916-1925 il consumo medio espresso in potere calorico o- scillò tra il 4,07% e il 3,89%), fu a partire dalla guerra che da parte degli ambienti tecni­ci e amministrativi più lun­gimiranti emerse per la prima volta l’esigenza di affrontare in modo' organico la questio­

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ne degli approvvigionamenti petroliferi. 1 problemi da ri­solvere erano in questo senso molteplici: dalla riorganizza­zioni dell’apparato burocrati­co (al fine di evitare la disper­sione delle competenze e fa­vorire una centralizzazione nel settore delle importazioni) al­lo sviluppo di imprese nazio­nali di ricerca e di raffinazio­ne, dalla creazione di rappor­ti diretti tra l’Italia e i paesi produttori all’erosione delle po­sizioni di monopolio detenute sul mercato da due grandi compagnie nordam ericane (S tan dard OH) e anglo-olande­si (R o y a l D u teh -S h e ll).

L’A., sulla base di una do­cumentazione tratta dall’Archi­vio centrale dello Stato e da­gli Archivi storici del ministe­ro degli Esteri, della Marina Militare, della Camera dei de­putati, nonché dagli Atti par­lamentari e dalla pubblicistica dell’epoca, ha inteso ricostrui­re l’atteggiamento dell’ammi­nistrazione dello Stato nei con­fronti del problema petrolife­ro, gli interventi in sede legi­slativa, le iniziative intraprese in sede diplomatica, i difficili esordi di un’industria nazio­nale nel settore. E proprio in riferimento ai primi due aspet­ti della questione, è dato co­gliere gli spunti più interes­santi della ricerca (il lato di­plomatico per il periodo del­l’immediato dopoguerra era già stato affrontato dal Web­ster). 11 quadro generale che ne emerge, appare quanto mai incerto e contraddittorio. Da parte delle autorità politiche si oscillò infatti tra la predi­sposizione affrettata di piani grandiosi ma del tutto irrea­lizzabili dato lo scarso peso

dell’Italia nel concerto delle grandi potenze (tipico il ten­tativo di accordo con la Ro­mania), ed una sostanziale in­comprensione della centralità del problema nel nuovo asset­to internazionale emerso dal­la guerra, e del complesso in­treccio di interventi e di ini­ziative che esso comportava. Di conseguenza a partire dal 1921, crollato l’ambizioso pro­getto di una politica petroli­fera di grande prestigio, si ri­corse da parte dell’ammini­strazione statale a una serie di provvedimenti contrastanti discontinui e settoriali, in cui si sovrapponevano ritardi bu­rocratici, pluralità di compe­tenze, interessi privatistici e mancanza di visione d’insie­me in sede politica. Ad una prima fase in cui si tentò di incentivare l’attività di ricerca di nuovi giacimenti nel sotto­suolo italiano da parte di im­prese nazionali prive delle ne­cessarie basi tecniche e finan­ziarie, fece seguito nel 1924 la decisione (ben presto rientra­ta) di affidare al gruppo Sin­clair un peso determinante nel settore. D’altra parte, le ini­ziative avviate all’estero da im­prese italiane (Polonia, Alba­nia, Messico) ebbero un’im­portanza del tutto trascurabi­le, né progressi rilevanti (a parte il caso isolato di Fiume) si registrarono sul terreno del­la creazione di un’industria di raffinazione, deposito e dis­tribuzione che liberasse il paese da un’esclusiva dipendenza dai gruppi multinazionali stranie­ri. Per la verità in sede tecni­ca era stata proposta sin dal 1920 la formazione di un En­te per i petroli che, di fronte alla tendenza delle grandi po­

tenze e di poche compagnie petrolifere di controllare il mercato mondiale degli ap­provvigionamenti, avrebbe do­vuto provvedere direttamente al fabbisogno del paese, av­viando programmi di ricerca e di concessioni all’estero, ed impiantando un’industria pe­trolifera direttamente gestita dallo Stato. Ma questo pro­getto, lasciato cadere sul mo­mento, venne ripreso in sede politica soltanto nel 1923 dal ministro dell’Agricoltura De Capitani, per essere quasi im­mediatamente abbandonato in virtù degli orientamenti “libe­risti” che presiedevano alla politica economica del gover­no Mussolini. Soltanto nel 1926, con il varo dei nuovi indirizzi “dirigisti” collegati alla nuova manovra di stabi­lizzazione della lira, la fonda­zione dell’Agip avrebbe crea­to le premesse di una “politi­ca del petrolio” in Italia.

Si tratta di una tesi argo­mentata in modo convincen­te, anche se forse avrebbe gio­vato alla ricerca un maggior equilibrio tra la parte descrit­tiva e documentaria e la parte più propriamente interpretati­va. L’A. inoltre segnala all’at­tenzione degli studiosi un al­tro tema suscettibile di ulte­riori approfondimenti, e cioè l’atteggiamento del mondo in­dustriale e finanziario italia­no di fronte alla questione petrolifera, unitamente ai ri­svolti affaristici e di vera e propria corruzione politica che attorno ad essa non manca­rono di venire alla luce, coin­volgendo ambienti e personag­gi assai vicini all’area del po­tere.

Claudio Natoli

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Cesco Chinello, P o r to M a r ­g h e ra 1 9 0 2 -1 9 2 6 . A l le o r ig in i d e l “p r o b le m a d i V enezia" , Venezia, Marsilio, 1979, lire 8.800.

La storiografia contempora­nea su Venezia, già ricca di una notevole pubblicistica ap­parsa negli ultimi anni, si è accresciuta recentemente per un nuovo contributo; a fir­marlo è Cesco Chinello, mili­tante comunista veneziano che nel 1975 pubblicò la S to r ia d i u n o sv ilu p p o ca p ita lis tico . P o r­to M a r g h e ra e V en ezia 1951- 1973, un testo decisamente po­litico che centrava l’attenzio­ne sullo sviluppo della secon­da 'zona industriale di Porto Marghera. In questo sàggio l’A. mantiene sostanzialmente inalterato il quadro di inda­gine occupandosi della nasci­ta del porto in terraferma. Il trait d’union tra i due lavori è rappresentato dalla volontà di ricercare nelle vicende relati­ve alla nascita di Porto Mar­ghera i “nodi” essenziali che hanno contribuito e contribui­scono a caratterizzare questa aggregazione industriale. Pa­re all’A. che i fili comuni che uniscono la prima alla suc­cessiva zona industriale siano individuabili non solo nell’e­straneità, nella violenza, nella omogeneità di Porto Marghe­ra, ma soprattutto nel suo es­sere il nuovo porto di Vene­zia, cioè l’elem ento che da sempre ha avuto un’im­portanza primaria nella storia delle città. Il tema centrale di quest’ultimo contributo del Chinello è quindi il porto di terraferma e, com’egli lo chia­ma, il “problema di Venezia”.

Questa scelta stimola subi­

to alcune riflessioni; se è vero come affermano molti, tra cui lo stesso Chinello, che “Ve­nezia è il suo porto”, è altret­tanto certo che la città, come realtà storica, presenta tante diverse caratterizzazioni da va­nificare molte schematizzazio­ni. Il considerare perciò come centrale il problema del por­to, anche se rispondente a questa storia urbana, finisce pur sempre col determinare una eccessiva limitazione del­le analisi a scapito degli altri problemi collegati.

Tale angolatura è riscontra­bile anche nella prima parte del volume che analizza la storia veneziana dal 1797 al 1891 soffermandosi sulle tap­pe del rovesciamento di fron­te di Venezia dal mare alla terra.

Il problema economico è, in questa parte, estesamente affrontato soprattutto per quel che riguarda la nascita di al­cune imprese collegate al set­tore ferroviario, siderurgico e navale. Sembra comunque ri­levabile la necessità di un ap­profondimento di alcuni feno­meni tipicamente veneti (il set­tore tessile, per esempio) e, soprattutto, l’ulteriore chiari­mento delle integrazioni esi­stenti tra questi settori e la po­litica economica nazionale. A questo proposito si può os­servare che certamente l’A. ha individuato i disegni del capitalismo finanziario, il suo essere traino dello sviluppo industriale giolittiano e gli stretti rapporti da esso intes­suti con il potere politico, ma spesso l’attenzione rimane fis­sa sul problema iniziale e sul dibattito sviluppatosi a Vene­zia nel primo Novecento ri­

guardante l’opportunità di am­pliare il porto.

La scelta di Chinello è giu­stificata dalla consapevolezza che con questa querelle si de­cide il “problema di Venezia” cioè la localizzazione del nuo­vo porto in terraferma. Que­sta analisi rappresenta poi il contributo originale dell’A. che utilizza per la prima volta l’archivio di Piero Foscari, una delle figure più rilevanti nella vita politica ed economica vene­ziana fra l’Otto e il Novecen­to. Il Foscari fu infatti uno dei più influenti sostenitori del progetto Marghera sia in città, come consigliere comu­nale, che nella capitale in qua­lità di deputato del gruppo nazionalista e di sottosegreta­rio dei governi Boselli e Or­lando.

Dal volume emerge un qua­dro completo del personaggio e soprattutto viene chiarita in modo esemplare la sua visio­ne lungimirante dell’importan­za economica del nuovo por­to sia per la città che per il retroterra italiano e centroeu­ropeo. Da un lato, questa fi­gura del Foscari e, dall’altro, il pullulare delle idee e dei progetti per l’ampliamento del porto alla fine dell’Ottocento convincono Chinello a modi­ficare uno degli schemi di ap­proccio al “problema Vene­zia” negli ultimi cento anni.

Il “neoinsularismo”, come tendenza di Venezia a chiu­dersi in se stessa in un isola­mento che ricerca con ostina­zione una sua funzione guar­dando ai mercati del levante, sembra infatti al Chinello un concetto troppo ristretto, so­prattutto per il periodo 1866- 1914. Chinello rivede questa

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impostazione, tipica ad esem­pio il W ladim iro Dorigo (U n a le g g e c o n tr o V enezia . N a tu r a s to r ia in te r e s s i n e lla q u e s t io n e d e lla c i t tà e d e lla la g u n a , Roma, 1973), dando spazio e giusta collocazione alla strategia antiinsularista di un ceto emergente formato da una grossa borghesia indu­striale-finanziaria con saldi ag­ganci politici che si contrap­pone sempre più al vecchio ceto mercantile. Allo svilup­po della prima zona industria­le di Porto Marghera ad ope­ra del nuovo gruppo dei Vol­pi, dei Foscari, dei Papado- poli, degli Stucky e altri, è dedicata l’ultima parte del li­bro che ripercorre le tappe della realizzazione del porto dal 1917 al 1926. In essa vi si sottolinea come questa zona portuale fosse costruita con le finanze dello stato per essere gestita da un gruppo econo­mico molto intraprendente che sfruttando i meccanismi del­l’economia bellica e post-bel­lica, riesce a trarre e a favori­re profitti impensabili.

Questa parte si presta però ad una lettura “Veneziocen- trica”, per cui Volpi sembra operare quasi unicamente in Venezia e con altri operatori veneziani. Certamente l’A. non trascura l’analisi complessiva del problema, dal filo diretto tra Volpi e la Banca commer­ciale italiana a quello tra il gruppo Sade e gli altri gruppi elettrici nazionali. Si tratta, ad ogni modo, di riferimenti o di elementi dati quasi per scontati e che invece, a volte, meriterebbero più spazio per convalidare l’interpretazione di Porto Marghera come momen­to dell’affermazione di nuove

concezioni economiche e por­tuali concretizzate da nascen­ti gruppi industriali e finan­ziari; interpretazione, che è comunque presente.

L’indagine ci porta infatti a scoprire “che Marghera costi­tuisce uno sbocco dei processi di riorganizzazione economi- co-industriale, portuale e ur­bana che hanno investito Ve­nezia nell’Ottocento e nel pri­mo Novecento e che, da que­sto punto di vista, Marghera è, dunque, un’operazione tut- t’altro che improvvisa, ma lun­gamente sedimentata e matu­rata”. È, in pratica, il prodot­to di un disegno di gruppi capitalistici che hanno attua­to strategie vincenti creando un’occasione di profitto con­geniale al sistema di potere vigente.

L’analisi non si limita però alla ricerca di questo storico filo comune tra il periodo na­poleonico e quello attuale del­la storia veneziana; la chiave di volta di Porto Marghera viene così individuata nella “violenza”. Secondo Chinello il porto di Venezia in terra­ferma ha un carattere di base, rimasto immutato: è un inse­diamento traumatizzante il tes­suto regionale e, pur essendo congeniale alla strategia del potere vigente ha contribuito a metterlo in crisi acuendo gli aspetti negativi e facendo ma­turare la classe operaia.

Congenialità e alternativa sono perciò gli aspetti più evi­denti di questo aggregato in­dustriale e ci sembra che que­sta puntualizzazione, da un punto di vista storiografico, sia estensibile a tutta la storia veneziana dal periodo napo­leonico ai giorni nostri.

Il volume di Cesco Chinel­lo offre perciò non pochi spun­ti per una riflessione sugli ul­timi centocinquanta anni di storia veneziana: pare che i più interessanti si possano in­dividuare nella visione com­plessiva della portualità vene­ziana, nel ruolo del Foscari come teorico del porto di ter­raferma, nel rapporto esisten­te tra le scelte economico- finanziarie e quelle urbanisti­che, tra le politiche veneziane e quelle riguardanti l’Italia e l’Europa.

Da un punto di vista sto­riografico va osservato poi che questo testo ha il pregio di saper filtrare gran parte della letteratura su Venezia degli ultimi cento anni in un resoconto discorsivo e armo­nico; il tutto senza trascurare i contributi più recenti della storiografia economica e poli­tica italiana.

Giovanni Formenton

Antifascism o e Resistenza

Pierluigi Pallante, Il P .C .I . e la q u e s t io n e n a z io n a le . F riu li- V en ezia G iu lia 19 4 1 -4 5 , Udi­ne, Del Bianco, 1980, pp. 283, lire 9.000 (Collana dell’I­stituto friulano per la storia del movimento di liberazione. Studi e documenti).

Quanto mai opportuna la pubblicazione a cura dell’Isti­tuto friulano di questo studio di P. Pallante. Non solo per­ché rappresenta la definitiva rottura di una dicotomia di studi riscontrabile nella pro­duzione dei due istituti per la storia del movimento di libe­razione, quello regionale di

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Trieste e quello appunto di Udine, per cui le questioni delle nazionalità e dei rappor­ti interstatali, erano e sono più al centro delle ricerche condotte attorno al polo trie­stino, mentre quelle promosse in Friuli sembravano preva­lentemente indirizzate alle ric­che sollecitazioni che vengo­no da una società regionale in rapida trasformazione.

11 lavoro di Pallante rap­presenta anche una precisa in-, dicazione di contenuto (e par­zialmente, come vedremo, di metodo). Infatti la questione delle nazionalità, i rapporti interstatali e lo “scambio in­ternazionale” nella più larga accezione culturale-economi- ca-politica, investe una regio­ne storica, tra Italia e Jugo­slavia, molto ampia che va almeno dal Tagliamento sino ai territori interni dei litorali sloveno e croato (una questio­ne ancor più complessa si po­ne per la società marittime gravitanti sulle coste centro­meridionali dell’Adriatico). Qui, tra l’altro, si pongono in modo precipuo e peculiare i problemi di rapporto tra sto­ria locale e “storia naziona­le”. L’analisi della politica dei comunisti italiani nei confron­ti delle realtà e dei destini politico-civili e amministrati­vi delle terre nordorientali — nell’interazione tra centri de­cisionali nazionali e periferia, tra strategie terzinternaziona- liste e tattiche legate alle di­verse situazioni storiche che maturano, tra programmi, di­rigenze, militanti in carne ed ossa e concretezza di lotte, rapporti di classe e di massa che si stabiliscono — non può emarginare, specialmente nei

cinque anni presi in conside­razione da Pallante, il ruolo svolto dal movimento garibal­dino friulano.

Certamente ad entrare nel contenzioso interstatale tra Italia e Jugoslavia saranno so­prattutto i territori e le popo­lazioni della ex Venezia Giu­lia, ma i rapporti di forza più consistenti, i confronti più de­cisivi che uniscono e anche dividono — appaiono essere stati quelli tra la resistenza friulana, con la sua forte com­ponente comunista (e attorno ad essa gravitano le zone più calde del goriziano) e la resi­stenza slovena. Gli agglome­rati urbani, la stessa Trieste, sembrano emarginati da tale dialettica interna allo schiera­mento antifascista. Il capoluo­go dà un contributo molto consistente di uomini e mezzi alla lotta di liberazione che oggi forse si tende a sottova­lutare di fronte allo spessore che assumono fenomeni come l’attesismo, il cosmopolitismo indipendista, il collaborazioni­smo aperto o strisciante. Trie­ste è però in qualche modo tagliata fuori dalle linee di tendenza decisionale.

La storia della città in que­gli anni, quando le prospetti­ve stesse aperte dal regime di occupazione tedesco offusca­no ulteriormente il riferimen­to ai nessi statali prebellici, è una storia di “separatezza” non solo dal Friuli ma dalla stessa penisola istriana. Sepa­ratezza, s’intende, relativa ri­spetto all’ineliminabile circo­lazione di uomini e modi di vita nelle pieghe della società regionale. Ecco: questo acco­stamento più puntuale all’ap­porto dei comunisti friulani

nella vicenda del confine orien­tale è un dato offerto da Pal­lante che fa riflettere ed è di per sé già una lezione di me­todo. Ma c’é la linea com­plessiva di partito, la decisio­ne di vertice, l’immagine del centro dirigenziale comunista che conta, e come! Pallante ha il merito di riunire Una se­rie di sparsi elementi conosci­tivi venuti alla luce in questi ultimi anni dalla storiografia e dalla memorialistica, non solo di partito, in merito ai rapporti tra comunisti italiani e jugoslavi. Ed è uno stru­mento di grande utilità vede­re raccolti e messi a confron­to gli sparsi contributi sul pro­blema di Massola, Secchia, Togliatti, Longo, Amendola e quelli ricostruttivi di Spriano, Ragionieri, Catalano, per fa­re solo alcuni nomi.

Di fronte alla storiografia jugoslava, e a quella slovena in particolare (e di fronte a materiale documentario non sempre inaccessibile), le indi­cazioni metodologiche di Pal­lante (soltanto implicite, per la verità, nel taglio comples­sivo del volume) sembrano ve­nire meno. Non mi fiderei a questo punto delle traduzioni soltanto provvisorie di prese di posizioni ufficiali o ufficio­se di parte jugoslava. Nel ca­so poi della lettera che Kar- delj invia a Tito nel maggio del 1942 si impone qualche considerazione più generale. Non mi scandalizzerei troppo delle pesanti considerazioni che il dirigente sloveno fa (p. 53) sul conto di Massola e della vedova di Martini, in stile vetero stalinista ai nostri occhi di lettori d’oggi. Ma proprio nel caso di Kardelj —

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e non solo suo — sarebbe quanto mai necessario rappor­tarci allo svolgimento delle linee di pensiero e program­matiche dei comunisti jugo­slavi sui problemi delle na­zionalità. Forse non scopri­remmo minore rigidità nelle scelte operate nel fuoco della lotta tra 1942 e 1944 sui pro­blemi di sistemazione statuale delle terre adriatiche, ma ca­piremmo meglio articolazioni e posizioni successive. Caso mai dallo studio di Pallante esce accresciuto il dubbio sui livelli di reciproca conoscen­za, tra italiani e jugoslavi, del­le reali condizioni di sviluppo democratico delle rispettive so­cietà, sulle alleanze stabilite, sui metodi di lotta in Italia e Jugoslavia.

Avrei francamente respinto la tentazione in cui l’autore cade di voler stabilire “una coerente linea di continuità” (p. 267) nella storia del Pei su questo versante di problemi. Tanto più quando si sono a- dombrate — magari nel caso specifico della vicenda di Vin­cenzo Bianco — le “contrat­tazioni e le ambiguità del Pei sul problema giuliano” (p. 263). E si è aperta invece un’i­potesi soltanto, ma più pro­duttiva, e cioè che “la posi­zionejugoslava fosse condivi­sa e sostenuta anche da altri membri all’interno della Di­rezione del Pei Alta Italia” (ibid.). Tutto da verificare, d’accordo, ma su questa stra­da eviteremmo le secche delle “contraddizioni e delle ambi­guità” e coglieremmo una dia­lettica di posizioni presenti al­l'interno del partito che cono­sciamo ancora poco e male. Ricordate il cenno di Ragio­

nieri, desunto da verbali di riunioni successive .alla Con­ferenza dei Triumvirati insur­rezionali del novembre 1944 (qui p. 215), alle posizioni di chi auspicava “che gli Jugo­slavi arrivassero fino al Po o quanto meno Che ad esssi ve­nissero assegnate le due città ( T ries te e G o r iz ia )?

Teodoro Sala

Camilla Ravera, L ettere a l p a r ­t i to e a lla fa m ig lia , Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 265, lire 4.500.

Il contributo più significa­tivo fornito dalle L e tte r e a l p a r t i to e a lla fa m ig l ia , curate con felice intuizione da Ro­sa Rossi, è quello di permet­tere la conoscenza più appro­fondita, dopo la lettura del suo D ia r io , non solo dell’atti­vità politica di una grande di­rigente comunista negli anni bui del fascismo, a partire dal 1926, ma anche degli aspetti riguardanti la sua dimensione specifica di donna.

È un contributo che ci met­te in condizione di seguire il formarsi di una intellettuale comunista come dirigente, at­traverso le prove della clan­destinità, del carcere, del con­fino.

Dalle lettere raccolte nella prima parte, scritte a Togliat­ti durante il periodo del lavo­ro nel centro interno clande­stino del partito (1926-37), emerge subito come la Rave­ra sappia far uso, chiaramen­te di proposito, di una essen­zialità d’informazione, di una precisione e concisione nelle espressioni, di un “codice del­

la politica”, tanto più neces­sari in momenti in cui l’ag­gressione del fascismo costrin­ge alla clandestinità e alla resi­stenza.

Naturalmente queste lettere offrono anche un quadro del­la ispirazione e prospettiva politica dei comunisti italiani, espresso con intensità, entu­siasmo ed immedesimazione dalla Ravera, anche in un mo­mento così difficile: “ci stia­mo conquistando fra gli ope­rai quella fiducia e quel pre­stigio che occorrono per po­ter guidare la rivoluzione pro­letaria” (p. 44).

Un ultimo elemento di que­sto primo gruppo di lettere è la loro minuziosità e proble­maticità. Si nota, infatti, la capacità dell’autrice di pas­sare con disinvoltura e preci­sione da un problema all’al­tro — la situazione politica regione per regione, il bilan­cio del partito, il lavoro sin­dacale nelle fabbriche — con la severità e, al contempo, l’equilibrio e l’umanità di giu­dizio, nel riferire, ad esempio, nella lettera dell’ 1 gennaio ’27 il colloquio avuto con un com­pagno in crisi (pp. 53-56).

Il secondo gruppo di lette­re, quelle scritte dal carcere nel periodo 1930-35, rappre­senta dal punto di vista delle possibilità espressive e della narrazione di sé come donna, una situazione opposta a quel­le della clandestinità. Infatti, i legami profondi e i buoni rap­porti familiari nell’isolamento del carcere fanno rivivere alla protagonista tutto un mondo di ricordi e di speranze, sic­ché l’intreccio tra “personale” e “politico” si fa strettissimo e la Ravera potrà scrivere al

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fratello: “E tu, caro Cesare, dimmi qualche cosa di te... e su tutte le cose tue che m’in­teressano, e tu lo sai, più del­le mie personali” (p. 85), in­tendendo con quel “tue” le cose di un altro essere e le co­se di tutti.

La scrittrice diviene così ri­velatrice, attraverso accenti di rara intensità espressiva, "di una interiorità a cui forse non sarebbe arrivata in condizioni diverse.

Un altro elemento di inten­sa rivelazione della personali­tà della Ravera è la riscoperta del mondo vegetale e anima­le, costretta com’é dalla sepa­razione violenta dall’azione a guardare con rinnovata atten­zione questo mondo. Già nelle lettere da Roma e poi in particolare da Trani, questo tema è costante nelle lettere alla famiglia: con gioia rivede “il verde e le piante”; vengo­no poi le notazioni sul giar­dino delle monache e sugli oleandri di Trani; sulle oche, sui polli e sugli uccelli (pp. 115-127).

Inoltre, è da sottolineare la capacità dell’autrice, che, pur nella drammaticità della sua situazione di carcerata e se­gregata, alimenta continuamen­te il “dentro” di sé, non solo attraverso la memorizzazione della lotta politica, ma attra­verso i canali della medita­zione, dell’osservazione, della lettura, di cui sottolinea in particolare la funzione impor­tantissima nella lettera del 28 agosto 1930 (p. 87).

E sorprendente come riesca sempre a ritrovare il valore dell’esperienza in sé, a risco­prire la funzione della solitu­dine e del silenzio, e addirit­

tura a trovare l’allegria, in una indomabile capacità di rivolta contro l’ingiustizia.

Nel terzo ed ultimo gruppo di lettere, quelle scritte dal confino di Ventotene nel pe­riodo 1940-43, si ritrovano, in forma più distesa e matura, il tema della lettura, la visione ampia del rapporto tra politi­ca e cultura, tra creazione ar­tistica e intervento diretto nel­la realtà, e soprattutto la ca­pacità di questa donna, prati­camente isolata dalla famiglia e dalla politica da tredici an­ni, di essere “ indomabile” . Nella lettera scritta dopo il 25 luglio riafferma: “Io mi osti­no a sperare, a credere nella mia liberazione prossima” (p. 251).

Il dato che emerge, attua­lissimo, dalle sue “Lettere al partito e alla famiglia” è l’uso degli strumenti — culturali, affettivi, morali e ideali — per costruirsi, nelle peggiori difficoltà, come dirigente com­pleta e anche come donna.

Ilaria Lasagni

Primo De Lazzari, E u g en io C u rie! a l c o n f in o e n e lla lo t ta d i l ib e r a z io n e , Milano, Teti, 1981, pp. 184, lire 10.000.

Primo de Lazzari si era già ampiamente occupato di Eu­genio Curiel quando, nel 1972, aveva pubblicato la S to ­

r ia d e ! F ro n te d e lla g io v e n tù n e lla R e s is te n za ; vi torna ora, proponendo una biografia po­litica che tiene conto, ovvia­mente, dell’ampio dibattito ac­cesosi in anni successivi, an­che a partire dall’edizione amen- doliana degli S c r itti (1973), con una serie di considerazioni che, da molti punti di vista,

sono di buona utilità per com­prendere meglio le complesse vicende dell’antifascismo e del­la resistenza armata italiani. Non dunque la “caccia all’i­nedito”, quanto invece una puntualizzazione e una rime­ditazione su un personaggio forse non ancora studiato ade­guatamente se non per certi aspetti della sua riflessione sul tema della “democrazia pro­gressiva”, o a causa di alcuni “problemi” recentemente sol­levati in relazione alla sua mi­litanza in Gl e nel Psi, prima di approdare definitiamente al Pei. Né vanno dimenticate le polemiche del 1978-79, dopo il ritrovamento presso l’Archi­vio centrale dello stato dei verbali dell’interrogatorio su­bito da Curiel all’atto del suo arresto del 1939 (polemiche acriticamente e scandalistica­mente riprese da Sergio Ber­telli nel suo // G r u p p o del 1980).

Primo de Lazzari riprende i vari temi, esponendoli sinte­ticamente e sistematicamente, dandoci così un quadro d’as­sieme rapido ed estremamen­te utile. Certo con ciò non si chiude la riflessione su Cu­riel; anzi, forse-restano anco­ra da esaminare con serenità gli aspetti del pensiero del giovane triestino in quegli an­ni trenta che fino ad ora sono stati solo oggetto di polemi­che e di s c o o p più giornalisti­ci che storici. Quale “socia­lismo” si prefigurava per il giovane militante, è una do­manda ancora in parte priva di risposta. Tuttavia questo volume mette un punto fer­mo. E non è poco allo stato attuale della riflessione.

Luciano Casali

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Rolando Cavandoli, A n tifa sc i­s m o e r e s is te n z a a N o v e lla ra 1 9 19-1946 , Novellara, Anpi, 1981, pp. IX-313, lire 10.000. Rolando Cavandoli-Pietro Pirondini, P a r tit i a n tifa s c is ti e C ln n e lla B a ssa R e g g ia n a , ¡91 9 -1 9 4 6 , Reggio Emilia, Te­cnostampa, 1981, pp. 280, lire10.000.Antonio Zambonelli, L ’ó v a lu- n éin a . S to r ia d i R u b ie ra d a l 18 0 0 a l 1946, Rubiera, 1980, pp. 221, lire 8.000.

Ancora tre volumi sulla sto­ria più recente del Reggiano dovuti ad autori che già han­no affrontato la ricostruzione delle vicende di varie località della loro provincia con sicu­rezza e “mestiere”. La ricer­ca, con il passare degli anni, va sempre più approfonden­dosi ed ormai regolarmente scavalca i rigidi termini cro­nologici della resistenza arma­ta che aveva, in altri casi, li­mitato il respiro e l’analisi. Ricca di documentazione, at­tentamente ricercata ed usata, si tratta di una ricostruzione scrupolosa, resa pregevole dal­la capacità di inserire le vi­cende locali nella più ampia trama provinciale e regionale, tanto da evitare nel modo più assoluto qualsiasi tentazione di cadere nel localismo e nel campanilismo, troppo spesso presenti in certe “storie loca­li”. Pur nella loro ristrettezza territoriale, i tre studi vanno segnalati e non confusi nella marea dei troppi libri emilia­ni, inutili e da dimenticare, sulla Resistenza.

Luciano Casali

llario Rasini, P a r tito c o m u ­

n is ta e lo t t e a g ra r ie n e l R a ­v e n n a te . C o l le t t iv i e c o o p e r a ­z io n e a g r ic o la n e lla B assa R o ­m a g n a (1 9 4 5 -1 9 4 8 ). Ravenna, Cooperativa culturale ricrea­tiva Libera stampa romagno­la, 1982, pp. 145, lire 6.000.

La nascita del “collettivo agricolo” come proposta lo­cale di “soluzioni” della que­stione agraria nel Ravennate negli anni fra Resistenza e ri- costruzione era già stata al centro dell’attenzione di nu­merosi studiosi, anche se la limitata documentazione di­sponibile aveva costretto a sof­fermare l’analisi più sugli aspetti politici che su quelli sociali ed economici del pro­blema. La sistemazione e l’a­pertura al pubblico dell’archi­vio della federazione comuni­sta di Ravenna (oltre che una minuziosa ricerca in piccoli archivi locali) ha ora permes­so a llario Rasini di affronta­re globalmente la questione, in tutta la sua complessità e di analizzarne sistematicamen­te forme e contenuti nelle die­ci località della Bassa Raven­nate che videro l’espansione e l’affermazione della gestione collettiva dei terreni da parte bracciantile.

La nuova documentazione mette in grande evidenza il carattere “spontaneo” del fe­nomeno, le remore da parte del partito comunista (cui del resto i collettivisti fecero ca­po) ad accettare una esperien­za fin troppo direttamente col­legata al “vecchio” riformis­mo baldiniano, la “continui­tà” ideale fra cooperazione prefascista e nuova gestione collettiva, sia pure con un ri­ferimento politico che vedeva

nei soviet russi un preciso “mo­dello”.

Luciano Casali

M iss io n e “ S im ia " . H a r o ld W. T ilm a n . Un m a g g io r e in g le se tra i p a r t ig ia n i , Belluno, Co­mune-Istituto storico della re­sistenza, 1981, pp. 82, sip.

Il volumetto costituisce la traduzione della terza parte delle memorie autobiografiche che H.W. Tilman pubblicò nel 1946 per la Cambridge Uni­versity Press (W h e n M en M o u n ta in s M e e t) . Quando, sul finire dell’estate 1944, l’A. raggiunse i partigiani sulle montagne del Bellunese, ave­va alle spalle alcune ascen­sioni famose, come quella sul Nanda Devi (1936) e sull’Eve- rest (1938) e una vita avven­turosa di esploratore in Afri­ca ed Asia; e il suo costume non mutò negli anni successi­vi tanto che, a quasi 80 anni, nel 1978, Tilman scomparve mentre navigava fra Rio de Janeiro e le Lalkìand.

Le “avventure” sulle Alpi, dal Cansiglio alla liberazione del Veneto, sono raccontate con piglio secco e vivace, con abili descrizioni di luoghi e persone. Di particolare inte­resse le vicende della divisio­ne “Nanetti” e la sua riorga­nizzazione dopo il grande ra­strellamento subito nell’autun­no 1944, ma non vanno di­menticate neppure le pagine nelle quali viene accuratamen­te descritta (ed apprezzata) la vita quotidiana e l’azione mi­litare dei partigiani garibaldi­ni: “È generalmente accettato il fatto che la rapidità e tota­

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lità della disfatta tedesca in Italia siano dovute in non pic­cola misura ai partigiani”.

Luciano Casali

R a sseg n a d e lle r iv is te

D em ografia , storia soc ia le , storia politica

Un nuovo contributo all’or- mai ricco dibattito teorico­metodologico attorno alla sto­ria sociale, è quello pubblica­to sul primo numero del 1982 di “Social History”. Ripren­dendo la vecchia critica alle “Annales” formulata da Ge1- novese nel 1976 e i più recenti interventi di T.Judt su “ Hi­story Workshop” e di G. Ely e K. Nield su “Social History” (1980), Steve Hochstadt, col suo S o c ia l H is to ry a n d p o li- tics: a m a teria lis t v iew (“So­cial History”, voi. 7, january 1982, n. 1) aggiunge un ap­proccio specialistico, quello di un demografo storico, alla di­scussione sui rapporti tra sto­ria politica e storia sociale. Hochstadt polemizza con gli autori prima ricordati sulla pertinenza dell’affermazione che il luogo privilegiato del lavoro storico sia la politica, idea che egli attribuisce ad una visione teorica marxista fortemente influenzata dal gramscismo. Pur non difen­dendo i modelli sociologici o strutturalisti che sottendono gran parte della produzione di storia sociale, Hochstadt rivendica ad essa dei risultati e delle potenzialità non colte da critici troppo preoccupati a demolire le tecniche quanti­tative o l’introduzione di con­

cetti-guida generici ed ambi­gui come quello, ad esempio, della modernizzazione. La de­mografia storica, accusata spesso di aggiungere poco o niente alla “spiegazione” sto­rica, può invece — per Hoch­stadt — collegarsi a temi più generali del potere, della co­scienza di classe, della lotta politica, proprio perché'inte­ressata a descrivere le struttu­re familiari e sociali di un’e­poca (riproduzione, matrimo­nio, morte, malattie, relazioni personali, emigrazione) e il processo dinamico che le al­tera. Il problema è compren­dere in qual modo la politica influenzi i diversi aspetti della vita, scoprire, ad esempio, che connessione vi possa essere tra i mutamenti politici e la trasformazione della struttura familiare delle classi lavora­trici. Hochstadt sostiene che è possibile studiare in qual mo­do i rapporti sociali influen­zino i processi demografici: ma non prima di aver stabili­to che relazione vi sia, ad esempio, tra salari e mortalità o tra lavoro infantile e strut­tura della famiglia. È quindi essenziale collegare lo studio della demografia ai mutamen­ti tecnologici e materiali av­venuti. Precondizione per po­ter parlare di coscienza di classe e lotta politica è infatti, per il periodo della prima in­dustrializzazione, la conoscen­za delle migrazioni tempora­nee, del loro effetto nella crea­zione del proletariato urbano, del loro ruolo nel favorire le differenze interne alla classe operaia. Se è vero che “il controllo della natalità, l’età del matrimonio e le migra­zioni sono indicatori demo­

grafici essenziali della costru­zione umana dei rapporti so­ciali”, è anche vero che la demografia storica può “ser­vire” teorie differenti. Pren­dendo spunto dagli studi re­centi sulla storia della fami­glia, Hochstadt rifiuta l’ipote­si che nel periodo dell’indu­strializzazione vi sia una ri­sposta agli stimoli esterni per soddisfare bisogni tradiziona­li, affermando invece che la reazione della popolazione a- gricola non dimostra né una resistenza né una accettazio­ne, ma un’attiva partecipazio­ne alla trasformazione: la fa­miglia contadino-operaia, cioè, non seguirebbe i modelli e i valori familiari borghesi né semplicemente si opporrebbe ad essi come generalmente ritenuto.

Pur se reali, comunque, i legami tra demografia e poli­tica andrebbero esaminati con cautela. Né la dialettica né il concetto gramsciano di ege­monia possono infatti offrire una chiave per comprendere il declino della fertilità o il li­vello della mobilità geografi­ca. E se categorie come la modernizzazione sono forse troppo spesso usate in manie­ra approssimativa, è anche ve­ro che esse includono esplici­tamente i problemi demogra­fici ignorati invece da chi fo­calizza la ricerca storica sui rapporti di classe, intesi per lo più come lotta di classe o lotta politica tout court. I cri­tici “politici” della storia so­ciale non spiegherebbero, in sostanza, se la sfera politica risulti importante come ogget­to di studio o acquisti addirit­tura il carattere di fondamen­tale categoria esplicativa del

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processo storico. E la ridu­zione della coscienza di classe alla lotta politica degli operai impedirebbe di prendere in esame altre forme di coscien­za non originate da rapporti di potere (l’aspettativa di una vita breve, l’alta mortalità in­fantile, l’alta vulnerabilità alle malattie). Secondo Hochstadt la ricerca della coscienza “di classe” ha'dominato troppo a lungo lo studio della coscien­za: e se è vero che il passaggo ad una società urbana e indu­striale ha avuto effetti su tut­te le classi e che lo sviluppo materiale ha abbassato la mor­talità in tutte le categorie so­ciali, occorre riprendere in considerazione come fattore determinante del mutamento non la politica, ma la vita materiale. Perché, si chiede Hochstadt, si sostiene che lo stato sia come organizzatore della vita sociale più impor­tante che non il livello dello sviluppo tecnologico? L’iden­tificazione della lotta politica come centrale categoria stori­ca, teoricamente sostenuta dal gramscismo, risulterebbe così una concezione diam etral­mente opposta a quella di un materialismo storico “rivisita­to” in cui la demografia do­vrebbe riconquistare — a di­spetto del disinteresse per es­sa mostrato da Marx e dai marxisti — un ruolo centrale di raccordo tra lo studio delle forze produttive e l’analisi dei rapporti di produzione.

Marcello Flores

Le “A nnales” nella storiografìa degli anni ottanta

Nel dibattito critico, la sto­

riografia francese delle “An­nales” ha una presenza di­scontinua ma ricorrente, qua­si definibile nella dimensione della ‘lunga durata’. In gene­re, mentre negli anni settanta prevalente era il momento descrittivo dei paradigmi in­terpretativi fondamentali, in questi ultimi anni si è posta l’esigenza di prospettare bilan­ci più o meno complessivi di questa corrente storiografica. In particolare alcune opere, come P en se r la R é v o lu t io n f ra n ç a ise di Furet e M o n ta il- lo u : s to r ia d i un p a e s e di E. Le Roy Ladurie, hanno susci­tato dibattiti e interventi ten­denti a porre in discussione l’impostazione metodologica complessiva delle “Annales”. Seguendo “l’avventuroso viag­gio nelle regioni di quella che un tempo si chiamava filoso­fia della storia”, L. Guerci nel saggio F u re t e la r iv o lu z io n e f ra n c e se ("Quaderni storici”, 1980, n. 2), analizza le tappe di P en se r la R é v o lu t io n f r a n ­ç a ise mettendone in rilievo la dimensione esclusivamente ideologica: in una sorta di ‘paese di ombre’ ove non ap­paiono mai riferimenti precisi di tempi e di luoghi, i conflitti di classe si configurano come conflitti tra rappresentanti del­le varie ‘società di pensiero’ per conquistare “quella posi­zione simbolica” che è la vo­lontà popolare. Lo svolgersi del discorso di Furet nella dimensione di una astratta “so­ciabilité démocratique” è in definitiva un invito, secondo Guerci, a “precipitarsi negli archivi e sfogliare carte e do­cumenti”, rivalutando anche eruditi come R. Cobb. L’in­terpretazione dell’opera di Fu-

ret non è però sempre così negativamente univoca: nell’ul­timo numero di “Quaderni di storia” (1982, n. 15) B. Bon­gioanni nel saggio R iv o lu z io ­n e b o r g h e s e o r iv o lu z io n e d e l p o l i t i c o ? N o te a p a r t i r e d a F u ret e d a l r e v is io n is m o s t o ­r io g ra f ic o , dopo aver passato in rassegna le interpretazioni ‘neogiacobine’ della rivoluzio­ne francese da Aulard a Le- febvre, mettendone in rilievo la dimensione ideologica a- stratta e monocorde, si sof­ferma, rivalutandone gli aspet­ti di novità, sul ‘revisionismo storiografico’ che ha come prin­cipali esponenti Furet e Ri- chet.

La peculiarità del ‘revisio­nismo storiografico’ sta nel- l’aver individuato accanto ad altri aspetti fondamentali del­la rivoluzione francese, la “ri­voluzione del politico”, ossia il costituirsi di una dimensio­ne politica autonoma che si stacca dalla società civile per divenire patrimonio esclusivo dei clubs e dei partiti e infine dello stato. In modo forse troppo rapido e poco convin­cente, Bongioanni conclude con la citazione di alcuni pas­si della S a c ra F a m ig lia desti­nati a dimostrare che già K. Marx aveva compreso questa ‘rivoluzione del politico’, an­che se i marxisti hanno prefe­rito spesso dimenticarsene.

Una tematica più generale viene affrontata da I. Waller- stein nel saggio B ra u d e l e la s to r io g r a f ia c o n te m p o r a n e a (“Studi storici”, 1980, n. 1), ove propone una interpreta­zione delle “Annales” alla luce di uno schema interpretativo proprio di Braudel e centrato sui termini di struttura, con­

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giuntura e evento. Significa­tiva è la ricostruzione della congiuntura socio-culturale che ha favorito la diffusione dei paradigmi delle “Annales” e l’adesione ad essi di nume­rosi studiosi provenienti dal marxismo negli anni 1945- 1967. Innanzi tutto la situa­zione di debolezza della Fran­cia successivamente alla se­conda guerra mondiale e la sua esigenza di porsi anche sul piano culturale in una po­sizione di autonomia rispetto agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica, permisero a L. Febvre e a F. Braudel di tro­vare nei governi sufficienti con­sensi per costituire apparati istituzionali duraturi, quali la Maison des Sciences de l’hom- me. Anche la crisi del mar­xismo, spesso confluito su po­sizioni staliniste, spinse molti intellettuali interessati al.‘rea­le empirico’ ad uscire da una situazione ideologica sclerotiz- zata e a far proprie le posi­zioni di quegli storici che pu­re si occupavano di ‘struttura e congiuntura’. Mentre la si­tuazione veniva mutando, in­torno al 1967 le “Annales” sviluppando tematiche affini alla storia quantitativa e alla psicostoria elaborarono un si­stema di pensiero “più con­geniale”, secondo Wallerste- in, “al punto di vista mondia­le dominante”, allontanando così gli storici marxisti. Quin­di, conclude Wallerstein, le “Annales” nate da problemi congiunturali più che struttu­rali, esaurita la congiuntura favorevole, sembrano destina­ti ad assumere una identità culturale diversa. Mentre nel­la gran parte delle riviste sto­riche francesi la storiografia

delle “Annales” sembra di­menticata o rimossa a livello di dibattito, nel primo fasci­colo del 1982 delle “Annales” C.S. Ingerflom nella nota L e p r o c è s d e s A n n a le s discute di due libri usciti a Mosca (J. Afanesev, L ’h is to r is m e c o n tre l'e c le c tism e , Moscou, 1980 eM.N. Sokolova, l ’h is to r io g r a ­

p h ie f r a n ç a is e c o n te m p o r a i ­ne).

Ingerflom mette in rilievo l’impostazione di Afanesev e Sokolova sostenendo che alla grave disinformazione aggiun­gono pregiudizi sull’intera sto­riografia occidentale, conside­rata borghese e asservita agli interessi nemici. Ma se gli sto­rici russi paiono ispirarsi ad una visione statica della sto­ria, anche le obiezioni di In­gerflom hanno le stesse carat­teristiche di astrattezza e sug­geriscono in modo molto va­go il contenuto delle opere discusse.

In una prospettiva di decisa valorizzazione, quasi di sco­lastica delle “Annales”, si con­figura il saggio di G. GemelliF. B ra u d e l e le m e ta m o r f o s i d e l te m p o s to r ic o (“Intersezio­ni”, 1982, n. 2), che costrui­sce una complessa riflessione sui vari momenti della teoria di Braudel inquadrandola da una parte in una prospettiva interpretativa unitaria e dal­l’altra riconducendola alle ma­trici concettuali proprie del pensiero storico ed economi­co. In questa complessa er­meneutica, fitta dei più di­versi riferimenti alla cultura francese, un particolare rilie­vo assumono le teorie econo­miche di F. Simiand e F. Per- roux. Perroux in particolare, nella sua definizione di spazio

qualitativo originato dalla cri­si del mercato autoregolato e dal prevalere di una econo­mia sempre più controllata dagli interventi dello stato, ac­centua la dimensione del de­centramento delle aree econo­miche e “della destabilizza­zione dei poli dominanti”, in­fluendo largamente sulla no­zione di spazio di Braudel. In complesso la storiografia del­le “Annales ”, nonostante al­cune isolate riproposizioni, sem­bra attraversare un momento di difficoltà in cui fronteggia gli attacchi critici precisando e ridefinendo le proprie posi­zioni a livello teorico (cfr. Burguière, del comitato diret­tivo delle “Annales”, T he F a­te o f th è H is to r y o f M e n ta l i ­té s in th è A n n a le s " (Compa­rative Studies in Society and History”, 1982, n. 3).

Paola Pirzio

Narrazione e “nuova storia”

Tradotto in italiano è com­parso sia pure con relativo ri­tardo l’interessante saggio di Lawrence Stone, Il r i to r n o a l­la n a r r a z io n e : r if le s s io n i su un a n u o v a vecch ia s to r ia (“Co­munità”, 1981, n. 183, pp.l- 25) già uscito su “ Past and Present” (novembre 1979, n. 85, pp. 3-24) e tradotto anche in francese su “ Le débat” (1980, n. 3).

Si tratta di un saggio che è opportuno illustrare nelle sue linee essenziali per la chiarez­za e l’ampiezza dell’indagine metodologica e per il dibatti­to che ha suscitato fra gli studiosi. Seguace di una tra­

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dizione storiografica che non disdegna le grandi sintesi, Sto- ne esamina la parabola di al­cune metodologie storiche e la crisi che gli sembra si manife­sti ormai chiaramente in al­cune delle correnti storiogra­fiche del secondo dopoguerra e in particolare nella metodo­logia economico-m arxista, che aveva raggiunto i suoi maggiori risultati fra gli anni trenta e gli anni sessanta; nel­la scuola francese delle “An- nales” e nella scuola ameri­cana di cliometria, fiorite am­bedue fra il sessanta e il set­tanta. In questo quadro ven­gono anche affrontati i pro­blemi posti dalla scuola strut­turalista e funzionalista, che si configurano come deriva­zioni e varianti metodologi­che delle grandi esperienze del dopoguerra.

Ma gli esiti dei grandi mo­delli di storiografia scientifica sono stati sostanzialmente de­ludenti, e Stone sottolinea con particolare acutezza l’ina­deguatezza delle ipotesi mo­nocausali o demografiche nel definire l’oggetto della ricerca stessa e delle contraddizioni che si manifestano fra vita sociale e vita culturale utiliz­zando gli strumenti offerti dal­la sociologia, dall’economia e della scienze sociali.

Ancora più pungenti sono riserve che Stone avanza sulla cliometria alla luce dei risul­tati raggiunti: “Conosciamo tutti relazioni di dottorato, o saggi o monografie a stampa che si sono serviti delle tecni­che più raffinate per dimo­strare l’ovvio, o per cercare di provare l’implausibile, ricorren­do a formule o a linguaggi che rendono incontrollabile la

metodologia da parte dello storico medio. I risultati as­sociano a volte i vizi dell’inat­tendibilità e quelli della bana­lità” (p. 10-11).

La sostanziale inadeguatez­za del modello quantitativo ha indotto alcuni storici fran­cesi a servirsi degli strumenti offerti dall’antropologia, più che di quelli offerti dalle scien­ze sociali: di qui ha origine lo studio attento di mentalità, di riti, famiglia, scuola, emozio­ni, moralità ecc. che sono fra gli aspetti più vivaci e stimo­lanti della nuova storiografia francese ed anglosassone, e che trovano anche in Italia qualche esponente di presti­gio, come C.Ginzburg. Que­sto fenomeno segna, secondo Stone, una profonda trasfor­mazione della metodologia sto­rica per la necessità di utiliz­zare nuovi modelli, di elabo­rare nuovi strumenti concet­tuali e di impiegare nella ri­cerca le scienze umane, dalla psicologia alla linguistica.

Ma lo studio della mentali­tà, con il recupero della sog­gettività, segna anche un ri­torno alla narrazione “quan­to a contenuto, metodo e for­ma” (p. 16). Certo questo ri­torno alla storia narrativa non si configura come un sem­plicistico ritorno al passato; esso si realizza utilizzando ampiamente gli strumenti ana­litici, cercando nuove fonti e nuovi soggetti, come per esem­pio le classi subalterne. Tut­tavia questo ritorno alla nar­razione non è esente da rischi (localismo, particolarismo ecc.) e pone una serie di problemi di non facile soluzione. Esso sembra indicare più un supe­ramento della storia analiti­

co-scientifico-quantitativa-strut- turale che una via univoca e praticabile di fare storia. L’in­dagine di Stone tende quindi a porre in evidenza uno spo­stamento del centro della ri­cerca storica dalla natura al­l’uomo.

Questa ipotesi ha aperto nel­le pagine di “Past and Pre- sent” una polemica a cui han­no partecipato rappresentanti della rivista stessa. È interve­nuto dapprim a Eric Hob- sbawm, The R ev iva l o f N ar­ra tive : S o m e C o m m en ts (feb­braio 1980, n. 86, pp. 3-8) che affronta anch’egli il problema dello sviluppo e della trasfor­mazione della ricerca storica nel periodo seguente la secon­da guerra mondiale, e anch’e­gli concorda sul profondo si­gnificato innovativo rappresen­tato dalla scuola storiografica occidentale negli ultimi anni. Tuttavia questa trasformazio­ne non gli sembra che possa essere considerata come un ritorno alla narrazione; infatti anche se alcuni storici hanno preso in considerazione per­sonalità, eventi o mentalità questo tipo di produzione si configura come un m e zzo per esaminare questioni di più am­pio respiro. L’interesse di que­sti storici continua ad essere rivolto ai “grandi perché” del­la storia e quindi all’interno dei temi della ‘nuova storio­grafia’.

Il mutamento di interessi e di soggetti storici può trovare una spiegazione nell’amplia­mento del campo storiografi- co dalla storia sociale alla brau- deliana “storia oscura di tut­ti”, che aumenta le difficoltà tecniche ma “non è necessa­riamente in contrasto con il

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tentativo di dare una spiega­zione corente del passato” (p.5).

1 risultati sostanzialmente positivi conseguiti dalla ricer­ca sulla realtà socio-economi­ca ha permesso d’altronde un ritorno alla storia politica, ar­ricchita però dagli strumenti di ricerca forniti dalla storia sociale, come accade all’opera di Jacques Le Goff.

Secondo Hobsbawm per ca­pire il passato si può esami­nare una situazione, per giun­gere a comprendere la strut­tura di una società. Lo stesso problema può ovviamente es­sere affrontato anche con altri modelli, poiché la storia della mentalità non esclude altri me-

doti. a parere di Hobsbawm quindi il saggio di Stone, se ha il pregio di esaminare le linee di sviluppo della storio­grafia, giunge ad una conclu­sione inadeguata perché è er­rata la premessa sulle moti­vazioni dei cambiamenti.

Va segnalato anche un suc­cessivo intevento Philip Abra­ms, H istory, S ocio logy , H is to ­rical S oc io logy (“Past and Pre­sent”, maggio 1980, n. 87, pp. 3-16): che esamina in partico­lare il rapporto storia/socio- logia nell’intento di verificare se sia possibile definire un “terreno comune” alle due di­scipline. Pur senza entrare nella polemica sulla “ nar­razione” Abrams osserva co­

me la tendenza a superare i limiti tradizionali sulla scien­za storica e di quella sociolo­gica siano espressione di una volontà di risolvere in modo meno rigido i problemi del- l’agire umano.

Caduti i tradizionali limiti della ricerca, l’apporto della sociologia ha permesso agli storici di poter meglio analiz­zare le strutture sociali; men­tre d’altra parte lo scambio di metodologie più propriamen­te storiche ha consentito ai sociologi di servirsi del con­cetto di te m p o nel suo fluire costante.

Nanda Torcellan

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Spoglio dei periodici stranieri 1981di Franco Pedone

Sono stati presi in considerazione i seguenti periodici:A u stria : “Zeitgeschishte”;Bulgaria: “Etudes balkaniques”; C ecoslovacch ia : Studia histórica slovaca. F rancia: “Actes de la recherche en sciences sociales”, “Annales économies, sociétés, civila- tions”, “Annales de démographie historique”, “Cahiers d’histoire”, “Cahiers du monde russe et soviétique”, “Cahiers Léon Trockij”, “Le Débat”, “Etudes rurales”, “L’Homme et la so­ciété”, “Milieux”, “Le Mouvement social”, “Recherches”, “Relations internationales”, “Les Révoltés logiques”, “Revue d’histoire de la deuxième guerre mondiale”, “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, “Revue française de science politique”, “Revue historique”; G erm an ia R d t: “Beiträge zur Geschichte der Arbeiterbewegung”; “Zeitschrift für Geschichts­wissenschaft;G erm ania R ft: “Geschichte und Gesellschaft”, “Historische Zeitschrift”, “Militärgeschichtli­che Mitteilungen”, “Vierteljahrshefte für Zeit­geschichte”;G ran B retagn a: “Comparative Studies in So­ciety and History”, “Critique”, “The Economic History Review”, “The English Historical Re­view”, “History Workshop”, “The Historical Journal”, “Journal of Contemporary History”, “Journal of Social Policy”, “New Left Re­view”, “Oral History”, “Past and Present”, “Social History”, “Socialist Review”; Ju goslavia : “Casopis za Suvremenu Pojest”, “Vojnoistorijski Glasnik”;

O lan da: “International Review of Social, History”;P olon ia : “Acta Histórica Poloniae”, “Dzieje Najnowsze”, “Studia z Dzjajow Zssr i Europij Srodkowej”;R o m a n ia : “Revue des etudes sud-est europé­ennes”, “Revue roumaine d’histoire”;S p a g n a : “Estudios de historia social”, “Revista de estudios internacionales”;S vez ia : “The Scandinavian Economic History Review and Economy and History”, “The Scandinavian Journal of History”;U ngheria: “Acta histórica”;U n ion e S o v ie tica : “Istorija Sssr”, “Novaja i noveisaja istorija”, “Voprosij Issorij”, “Vopro- sij Istorij Kpss”;S ta ti U niti: “The American Historical Re­view”, “Family History", “Journal of Asian Studies”, “Journal of Economic History”, “Journal of Interdisciplinary History”, “Jour­nal of Latin American Studies”, “Journal of Modern History”, “Journal of History of Ide­as”, “Labour History”, Political Science Quar­terly”, “Proceedings of the Academy of Politi­cal Science”. “Radical History Review”, “Re­view”, “Science and Society”, “Telos”.

Lo spoglio che è stato effettuato da Franco Pedone, con la collaborazione, di Enzo Collotti e Aldo Albonico, non comprende gli ultimi numeri di alcuni periodici che, al momento della stampa, non erano ancora usciti. Ne comprende invece altri che, per gli stessi motivi, non erano stati inclusi nel precedente spoglio.

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146 R asseg n a b ib lio g rafica

STORIOGRAFIAA. Agosti, S ta lin ism o : e l d eb a te s to ­riogrà fico , in “Estudios de historia social”, (1980), n. 14, pp. 107-133.

Rochard Ashcraft, P olitica i T heory a n d P o litica i A c tio n in K arl M a n n ­h e im ^ T h o u g h t: R é fe c t io n s u p o n "1- d e o lo g y a n d U to p ia ” a n d I ls C ri tics, in “Comparative Studies in Society and History”, voi. 23, n. 1, pp. 23-50.

Horst Bartei, E rbe u n d T ra d itio n in G e s c h ic h tsb ild u n d G e sc h ic h ts fo r ­sc h u n g der D D R , in “Zeitschrift für Geschichtswissenschaft”, a 29, n. 5, pp. 387-394.

Hans-Rainer Baum, Z u r ita lien ischen H is to r io g ra p h ie ü b e r d en F asch i­sm u s, in “Zeitschrift für Geschichts­wissenschaft”, a 29, n. 7, pp. 604-610.

Brigitte Berlekamp — Gerhard Lo- zek, In h a lt u n d M e th o d e n k o n s e rv a ­tiv e r G e s c h ic h tsa u ffa s su n g in d e r B R D , in “Zeitschrift für Geschichts­wissenschaft”, a 29, n. 8, pp. 683698.

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Eugeniusz Duraczynski, La Polonia clandestina nel quadro europeo. Os­servazioni, polemiche e ricordi, in “Dzieje Najnowsze”, a. XIII, n. 1-2, pp. 113-128.

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A. Banfi, S. Colarizi, S. Fedele, V. Spini, C. Vallauri, Storia del partito socialista. Dall'antifascismo alla rico­struzione, a cura della Fondazione Brodolini. Venezia, Marsilio, 1979, pp. 143, lire 3.600.

L. Covatta, E. Deeleva, F. Diaz, E. Di Nolfo, B. Marzo, W. Tobagi, Storia del Partito socialista, dalla ri- costruzione all’alternativa, a cura del­la Fondazione Brodolini, Venezia, Mar­silio, 1980, pp. 151, lire 4.800.

M. Degl’Innocenti, M. Ganci, A. Ri­osa, G. Sabbatucci, B. Vegezzi, Sto­ria del partito socialista, dalle origini all’avvento del fascismo. Introduzio­ne di Claudio Signorile a cura della Fondazione Brodolini, Venezia, Mar­silio, 1979, pp. 173, lire 3.800.

Orazio Pugliese, Storia del partito socialista. Immagini 1872-1978 a cu­ra della Fondazione Brodolini, Ve­nezia, marsilio, 1981, lire 7.000.

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Angelo Costa, Scritti e discorsi, Voi. VII. Giugno 1966-maggio 1968, Mi­

lano, Angeli, 1982. pp. 698, lire38.000.

Eugenio Gallavotti, La scuola fasci­sta di giornalismo (1930-1933). Pre­fazione di Renzo De Felice, Milano, Sugarco, 1982, pp. 141, lire 7.000.

Pierantonio Gios, Resistenza parroc­chia e società nella diocesi di Pado­va, 26 luglio 1943 - 2 maggio 1945. “Annali 2 dell’Istituto veneto per la storia della resistenza”, Venezia, Mar­silio, 1982, pp. 463, lire 29.000.

L’Immagine de! socialismo nell'arte, nelle bandiere, nei simboli. Mostra per il 90° della fondazione del PSI, a cura della Fondazione Brodolini e del Comune di Roma, Assessorato alla cultura. Venezia, Marsilio, 1982, pp. 156.

Istituto storico della resistenza in Cu­neo e provincia. Gli italiani sul fron­te russo, Prefazione di Guido Quaz- za, Bari, De Donato, 1982, pp. X- 570, lire 24.000.Contiene gli atti del convegno tenuto a Cuneo nel 1979. Le relazioni sono di: Collotti, Schreiber, Groehler, Schu- mann, Reinhardt, Ceva, Ranki, Cruc- cu, Forster, Porcari, Zilli, Lamberti, Gambetti, Cadcddu, Isnenghi, Beimon­do, Bertello, Bologna, Calandri, Ca- vaglion, Mana, Rochat.

Ivo Lizzola-Elio Manzoni, Dall’azio­ne sociale al sindacato. Proletariato bergamasco e leghe bianche. L'età giolittiana. Introduzione di France­sco Malgeri e Ruggero Orfei, Roma, Edizioni Lavoro, 1982, pp. 214, lire10. 000.

Mauro Marconi, La politica moneta­ria del fascismo, Bologna, 11 Mulino, 1982, pp. 202, lire 15.000.

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Michele Millozzi, Le elezioni politi­che nelle Marche dall’Unità alla Re­pubblica, Università di Macerata, Pubblicazioni della facoltà di lettere e filosofia, Ancona, 1982, pp. 83, lire10.000.

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Manlio Rossi-Doria, Scritti sul Mez­zogiorno, Torino, Einaudi, 1982, pp. 297, lire 20.000.

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(a cura di) Williams Appleman Wil­liams. Da colonia a impero. La poli­tica estera americana 1750-1970, Ba­ri, De Donato, 1981, pp. 520. lire28.000.