gino lombardo – il sindacalistacuoco! i miei articoli...

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1 Gino Lombardo – Il sindacalista cuoco! I miei articoli su FRATELLI DI TAVOLA di Gino Lombardo Nella ricorrenza del 150° anniversario dell'unità del nostro paese, molti si interrogano se ancora il processo di unificazione si sia concluso oppure se ancora sussistano situazioni di divisione o lacerazioni varie. Se sul fronte geopolitico la situazione necessita di una approfondita analisi, sul fronte gastronomico invece si può affermare in tutta tranquillità che esiste un Italia che accomuna sapori e sentori da una punta all'altra dello stivale. Negli ultimi decenni, la cucina è diventata sempre di più un fatto di costume o di tendenza come si suole dire adesso. Vuoi per il migliorato tenore di vita raggiunto nel nostro paese, vuoi per una ricerca del gusto, il cibo è diventato argomento prediletto da tutti. Allora un'altra rubrica sull'argomento è utile? Cosa si può ancora aggiungere al tanto variegato mondo dell'informazione culinaria- gastronomica? L'appuntamento settimanale con la rubrica "Fratelli di Tavola", potrà essere un momento, spero divertente, un viaggio sulle "glorie" storiche della nostra tradizione italica del piacere a tavola. La riscoperta di ricette che sono diventate ormai patrimonio assoluto di questo paese e soprattutto di quelle che ancora non hanno raggiunto la massima diffusione. I grandi piatti di riferimento regionale relativi alle tradizioni da salvaguardare e la "tipicita" dei prodotti che il nostro paese offre da nord a Sud. Ad esempio dai grandi vini del Piemonte a i non meno nobili della Sicilia, dal basilico della Liguria ai pistacchi di Bronte e così via. Ad esempio, non molti conoscono il "salmoriglio" che è un'emulsione di alcuni ingredienti, tutti presenti nell'acronimo nel nome stesso, che viene usato nel meridione per condire il pesce o a volte anche la carne alla brace. È composto dal sale, limone, origano, olio e aglio. Così come ad esempio non tutti conoscono il "friggione" ovvero una zuppa a base di cipolla, pomodoro e... strutto. E' considerata una ricetta veramente storica tant'è che la formula originale viene conservata presso la Camera di Commercio di Bologna. Quindi, elaborazioni a volte semplici ma contraddistinte tutte da un sapiente abbinamento di elementi e tecniche. La cucina deve essere soprattutto connotata dalla passione per la conoscenza, ma a volte risulta sofferente per le mode ricorrenti. Ad esempio nella maggior parte dei menù proposti dai ristoranti del bel paese, c'è una ridondanza ossessiva di pseudo pomodori di Pachino, rucola e "branzini" (forse meglio chiamarle spigole) con qualche abbinamento qua e là di fettine di lardo di Colonnata. Così come la moda del Nero d'Avola (ottimo vino per carità) che ha imperversato per qualche tempo. E poi, ci sono le varie scuole di cucina : fusion, molecolare etc. Va tutto bene, ma quale è il rischio di mode, stili ed effetti della globalizzazione gastronomica ? Il rischio è quello di perdersi dei piaceri che il nostro paese conserva in ogni angolo più remoto. Altrettanto grave il rischio della scomparsa di prodotti tipici che essendo poco concorrenziali nel mercato della grande distribuzione, vengono sostituiti da altri che arrivano magari da paesi lontanissimi. "Fratelli di Tavola" si prefigge l'obbiettivo di stuzzicare il lettore con la ricetta, il vino e l'ingrediente tipico che andremo a scovare di volta in volta ed a riproporre con l'entusiasmo di chi ama condividere la gioia del gusto. A volte una ricetta che funziona è come una magica alchimia che oltre che stupire può anche far innamorare.

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Gino Lombardo – Il sindacalista cuoco!

I miei articoli su

FRATELLI DI TAVOLA

di Gino Lombardo

Nella ricorrenza del 150° anniversario dell'unità del nostro paese, molti si interrogano se ancora il processo di unificazione si sia

concluso oppure se ancora sussistano situazioni di divisione o lacerazioni varie. Se sul fronte geopolitico la situazione necessita di

una approfondita analisi, sul fronte gastronomico invece si può affermare in tutta tranquillità che esiste un Italia che accomuna

sapori e sentori da una punta all'altra dello stivale.

Negli ultimi decenni, la cucina è diventata sempre di più un fatto di costume o di tendenza come si suole dire adesso. Vuoi per il

migliorato tenore di vita raggiunto nel nostro paese, vuoi per una ricerca del gusto, il cibo è diventato argomento prediletto da tutti.

Allora un'altra rubrica sull'argomento è utile? Cosa si può ancora aggiungere al tanto variegato mondo dell'informazione culinaria-

gastronomica?

L'appuntamento settimanale con la rubrica "Fratelli di Tavola", potrà essere un momento, spero divertente, un viaggio sulle "glorie"

storiche della nostra tradizione italica del piacere a tavola. La riscoperta di ricette che sono diventate ormai patrimonio assoluto di

questo paese e soprattutto di quelle che ancora non hanno raggiunto la massima diffusione.

I grandi piatti di riferimento regionale relativi alle tradizioni da salvaguardare e la "tipicita" dei prodotti che il nostro paese offre da

nord a Sud. Ad esempio dai grandi vini del Piemonte a i non meno nobili della Sicilia, dal basilico della Liguria ai pistacchi di Bronte

e così via. Ad esempio, non molti conoscono il "salmoriglio" che è un'emulsione di alcuni ingredienti, tutti presenti nell'acronimo nel

nome stesso, che viene usato nel meridione per condire il pesce o a volte anche la carne alla brace. È composto dal sale, limone,

origano, olio e aglio. Così come ad esempio non tutti conoscono il "friggione" ovvero una zuppa a base di cipolla, pomodoro e...

strutto. E' considerata una ricetta veramente storica tant'è che la formula originale viene conservata presso la Camera di Commercio

di Bologna. Quindi, elaborazioni a volte semplici ma contraddistinte tutte da un sapiente abbinamento di elementi e tecniche.

La cucina deve essere soprattutto connotata dalla passione per la conoscenza, ma a volte risulta sofferente per le mode ricorrenti.

Ad esempio nella maggior parte dei menù proposti dai ristoranti del bel paese, c'è una ridondanza ossessiva di pseudo pomodori di

Pachino, rucola e "branzini" (forse meglio chiamarle spigole) con qualche abbinamento qua e là di fettine di lardo di Colonnata.

Così come la moda del Nero d'Avola (ottimo vino per carità) che ha imperversato per qualche tempo. E poi, ci sono le varie scuole di

cucina : fusion, molecolare etc. Va tutto bene, ma quale è il rischio di mode, stili ed effetti della globalizzazione gastronomica ? Il

rischio è quello di perdersi dei piaceri che il nostro paese conserva in ogni angolo più remoto. Altrettanto grave il rischio della

scomparsa di prodotti tipici che essendo poco concorrenziali nel mercato della grande distribuzione, vengono sostituiti da altri che

arrivano magari da paesi lontanissimi.

"Fratelli di Tavola" si prefigge l'obbiettivo di stuzzicare il lettore con la ricetta, il vino e l'ingrediente tipico che andremo a scovare di

volta in volta ed a riproporre con l'entusiasmo di chi ama condividere la gioia del gusto. A volte una ricetta che funziona è come una

magica alchimia che oltre che stupire può anche far innamorare.

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Sua maestà lo stoccafisso

di Gino Lombardo

Spesso con queste frasi - "non stare impalato come un baccalà" oppure "rilassati, sembri uno stoccafisso" - si suole identificare

aspetti o atteggiamenti negativi di qualcuno. Ma i prodotti tipici prima evocati, a dispetto dell'uso metaforico ricorrente nelle

abitudini linguistiche del nostro paese, sono punte di diamante della cucina Italiana ed anche di altri paesi europei. Giusto per citare

una realtà gastronomica, il Portogallo è uno dei paesi estimatori del "merluzzo nordico" e non a caso si vanta di avere 365 ricette,

una per ogni giorno dell'anno, aventi come ingrediente principale il favoloso prodotto ittico. Da noi, il consumo e l'apprezzamento di

questi prodotti è diffuso su tutto il territorio nazionale con punte di eccellenza nel Veneto, Liguria, Toscana, Campania, Calabria e

Sicilia. Ad esempio in Calabria ci sono alcuni paesi che sono diventati simbolo dello stoccafisso. Qui ogni estate si susseguono

festose e colorate le ricorrenti sagre tipiche dove, non è raro incontrare qualche produttore norvegese che testimonia la propria

gratitudine ai convenuti estimatori.

Sì, lo Skrei il merluzzo nordico dei freddi mari della Norvegia è il pesce con il quale viene prodotto il baccalà o lo stoccafisso. Le

isole norvegesi Lofoten hanno fatto la storia e la gloria del migliore stoccafisso spedito in tutte le parti del mondo. Ma quale

differenza tra baccalà e stoccafisso ? La differenza consiste essenzialmente nel metodo utilizzato per la conservazione, infatti il

baccalà viene conservato utilizzando il sale, un additivo presente abbondantemente in natura mentre, per lo stoccafisso si utilizza il

metodo della disidratazione tramite "essiccazione" ottenuta per esposizione ai venti freddi del Nord. Chiaramente nel secondo caso

il sito di produzione riveste un'importanza strategica per il clima che deve avere peculiarità uniche al mondo. Poi ovviamente ci sono

le tecniche, non tutte note, quali quella di esporre i pesci appesi nelle rastrelliere con l'addome aperto rivolto verso il vento del

Nord e mai nel senso contrario, pena la perdita in tutto od in parte della produzione. E' bene precisare che nel caso di entrambi i

prodotti esistono qualità e tipicità varie. Sull'argomento esiste una ampia letteratura da non poter essere racchiusa in poche

concentrate righe. Proprio per questo, in questa rubrica ci soffermiamo sullo stoccafisso con il quale, tenterò di farvi accendere il

"desiderio" di sensazioni uniche ed avvolgenti, di antichi e ricercati sentori olfattivi che sono di preludio ad un selvaggio ed

impertinente piacere del gusto.

Le ricette realizzabili con lo stoccafisso sono innumerevoli, ne cito alcune in particolare: alla ghiotta Messinese, grigliato con

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peperoni e alla Vicentina. La condizione importante per un ottima riuscita è la qualità del prodotto che non è sempre scontata,

soprattutto nella versione "spugnato" cioè già ammollato spesso si rischiano esperienze negative. Meglio sarebbe, soprattutto se si ha

a disposizione una buona acqua poco dura, ammollarlo in casa seguendo alcune particolari tecniche di lavorazione. In questo caso

sicuramente il risultato è più soddisfacente. Ma veniamo alla ricetta di questa settimana che è stata scelta per proporre un approccio

non particolarmente complesso nella preparazione giocata invece molto sulla qualità degli ingredienti.

L'esecuzione è stata affidata alle mani esperte di Cecilia Maiuolo, che condivide con me la passione per i fornelli e che ha preparato

un piatto di stoccafisso in umido con patate. Ha utilizzato due filettoni di stoccafisso dal peso complessivo 700 gr (dose per 4

persone) poi, in un tegame abbastanza capiente ha insaporito dell'ottimo olio extra vergine d'oliva toscano con 3 spicchi d'aglio

tagliati a fettine, una manciata di capperi, prezzemolo tritato e due peperoncini rossi piccanti quanto basta. Una volta rosolato

lievemente il tutto, sono stati aggiunti i pezzettoni di stoccafisso adagiati con la pelle in giù. Dopo circa 10 minuti di cottura a fuoco

medio/alto sono state aggiunte delle patate a spicchi ( 4 o 5 di grosse dimensioni ) , 100 gr di olive verdi e 100 gr di olive nere

greche. Dopo circa 5 minuti è stato aggiunto un bicchiere e mezzo di acqua e il sale q.b. La cottura è stata portata avanti per altri 30

minuti a fuoco medio, girando con delicatezza i pezzettoni di pesce e le patate. Poco prima della fine, la cottura è stata condotta

con coperchio sollevato. A questo punto sorge la domanda : quale vino abbinare con questo piatto ? Diciamo che in linea generale lo

stoccafisso nella enorme varietà delle sue interpretazioni da la possibilità di innumerevoli abbinamenti con le produzione enologiche

di tutto il paese. Per esempio nel caso della "ghiotta" è preferibile un rosso di pronta beva e possibilmente ricco di sentori fruttati

come un Sangiovese di Romagna. Nel caso della nostra preparazione può andare benissimo un bianco siciliano connotato da profumi

persistenti come il Regaleali di Tasca d'Almerita.

Qualora si dovesse decidere di far letteralmente "impazzire" un appassionato buongustaio di questo eccellente prodotto, la ricetta

più adatta non può essere che quella degli involtini in umido di "ventricelle" di stoccafisso. Si tratta di un piatto dove l'ingrediente

principale, la "ventricella", non è facilmente reperibile da tutte le parti ma solo in alcune regioni del Sud dove il "mitico merluzzo

secco del Nord" nuota spesso nelle pentole fumanti di antiche cucine odorose di conclamata bontà.

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A TAVOLA CON MONTALBANO

di Gino Lombardo

Ormai gli appassionati del mitico commissario di Vigata, creato dalla instancabile penna di Andrea Camilleri, sanno che Salvo

Montalbano oltre che essere un astuto investigatore è anche un grande buongustaio. Nei suoi romanzi spesso si legge di preparazioni

gastronomiche o di ingredienti tipici, gustati dal nostro protagonista, che accendono il "desiderio" e la curiosità dei divertiti lettori.

Montalbano, delizia il suo palato spesso presso la "trattoria San Calogero” oppure presso altri locali di provata fiducia, ma l'apoteosi

del piacere a tavola gli viene garantita dalla sua mitica "cammarera" Adelina. Questa donna, oltre ad attendere alla faccende

domestiche si preoccupa anche di non lasciare a digiuno il nostro amico Salvo indaffarato com'è nelle sue indagini spesso intricate.

Se i personaggi possono essere frutto della mente fantasiosa di Camilleri, i piatti che saltano fuori in ogni storia sono sperimentati

ed infallibili. Infatti, leggendo ogni romanzo si trovano ricette realizzabili con più o meno difficoltà. Mi ricordo di aver sperimentato

con successo "i polipetti alla napoletana con passuluna".

"Uno che di cucina non ne capisce, potrebbe ammaravigliarsi: e che ci vuole a fare due polipetti alla napoletana? Aglio, oglio,

pummadoro, sale, pepe, pinoli, olive nere di Gaeta, uvetta sultanina, prezzemolo e fettine di pane abbrustolito: il gioco è fatto.

Già, e le proporzioni? E' l'istinto che ti deve guidare per far corrispondere a una certa quantità di sale una precisa dose d'aglio?" da

un Mese con Montalbano".

Per questa occasione, dalle ricette che spesso ricorrono nella saga del Commissario di Vigata ho pensato di proporre la "mia versione"

di uno dei cavalli di battaglia di Adelina, "la pasta ncasciata".

La ricetta è fondamentalmente una sorta di timballo di maccheroni al forno, ma le interpretazioni e le variazioni sul tema si

sprecano. Alcuni ingredienti, quali le melanzane o le uova sode a fettine, sono spesso presenti ma non particolarmente

indispensabili. La nostra collaudata preparazione invece, prevede negli ingredienti di farcitura delle mini polpette di carne che

danno proprio il senso dell'opulenza dei giorni di festa. Vediamo ora le fasi di preparazione di questo piatto non proprio semplice per

la verità, ma comunque di garantito successo.

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Preparazione per otto persone

Per prima cosa abbiamo preparato (dico abbiamo in quanto mi sono avvalso della valida collaborazione in cucina dell'esordiente

Caterina Fanelli) il ragù di carne che ci serve per condire i nostri 700 g. di paccheri freschi, ma possono andare bene anche i rigatoni.

In un capiente tegame abbiamo fatto appassire con dell'olio extra vergine d'oliva una bella cipolla rossa tritata e uno spicchio d'aglio

tagliato a fettine.

Di seguito sono state aggiunte 400 g. di punte di maiale e 400 g. di tocchetti di sorra di manzo.

Eseguita una lenta rosolatura è stato aggiunto mezzo bicchiere di vino rosso per una sfrigolante sfumatura del tutto.

Nel frattempo abbiamo passato al setaccio 800 g. di pelati, ricavandone una passata fresca di pomodoro che è stata aggiunta alla

carne insieme a qualche foglia di basilico ed il sale necessitante.

Mentre il nostro ragù continuava la sua cottura sobbollendo a fuoco lentissimo, ci siamo adoperati per la preparazione delle mini

polpette. È stato preparato un impasto con 400 g. di carne di manzo macinata, 300 g. di pane tipo toscano (senza crosta), qualche

cucchiaio di latte, 50 g. di grana padano grattugiato, 1 uovo intero, sale, pepe, prezzemolo e uno spicchio di aglio tritato. Da questo

impasto sono state plasmate delle piccole polpette dalle dimensioni simili a quelle delle indimenticabili biglie di vetro di infantile

memoria. Dopo una veloce frittura, le nostre polpettine sono state poste a raffreddare su alcuni fogli di carta assorbente da cucina,

in attesa di essere utilizzate da li a poco.

Mentre uno di noi si era posto "a guardia" delle piccole e tenere delizie di carne, l'altro ha preparato gli ulteriori ingredienti necessari

: 500 gr di besciamella (mezzo litro di latte, 60 g. di farina 00 e 30 g. di burro), 150 g. di piselli lessati al dente, 120 g. di salame

dolce a pasta grossa dei Nebrodi e 150 g. di scamorza a tocchetti.

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Quando è stata ultimata la cottura del nostro ragù, dopo circa due ore, si è utilizzato il sugo separandolo dai pezzi di carne per poter

condire i paccheri, che erano già stati cotti al punto giusto, mescolandoli con i piselli. A questo punto siamo passati alla

composizione finale della ricetta assemblando tutti gli ingredienti all'interno di una capiente pirofila. Per prima cosa si è posto nel

fondo uno strato di sugo e di besciamella, poi uno strato di paccheri, il salame a tocchetti, la scamorza, il sugo, la besciamella ed

una spolverata di grana. A seguire un altro strato analogo di pasta con gli stessi ingredienti di prima. In chiusura dopo aver livellato il

tutto, uno generosa nevicata di grana padano.

La cottura si è conclusa nel forno a 200 gr circa per 30 minuti e comunque fino a quando la nostra pasta "ncasciata" ha raggiunto il

giusto grado di gratinatura.

Bene, a questo punto non ci rimane che scegliere un vino adatto da abbinare ad un piatto così ricco ed importante. Devo dire che in

questo caso, si può dare spazio un po' anche ai gusti personali, ma ovviamente il vino deve essere un rosso importante di carattere e

soprattutto asciutto senza retrogusti caramellati. Quindi un Gallo Nero abbastanza giovane o perché no un Nebbiolo di provata

affidabilità.

...dimenticavo, buon appetito Montalbano!

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LO SPADACCINO AZZURRO

di Gino Lombardo

Durante il periodo che va da maggio ad agosto, le splendide acque del nostro mare Mediterraneo ospitano il transito di un nobile

signore degli abissi, un principe azzurro con la spada, il suo nome è Xiphias gladius, ma tutti lo conoscono meglio come pesce spada.

È una creatura azzurra che stupisce per eleganza, forza ed anche per un comportamento particolare del maschio verso la femmina

della specie.

L’indimenticabile Domenico Modugno nella sua famosa canzone “Lu pisci spada” descrive un estremo atto di amore da parte del

pesce spada maschio nei confronti della femmina, che lo conduce a morte certa. Infatti, durante il periodo di accoppiamento è

frequente per i pescatori dello stretto di Messina, imbattersi in una coppia di pesci spada, la cosiddetta “pariglia”, colta in

“flagrante” durante i riti amorosi. Gli esperti fiocinatori sanno bene che è preferibile colpire prima la femmina in quanto, il

compagno le rimane accanto nel vano tentativo di sottrarla alla morte. È ovvio che questo fatto costituisce una ghiotta occasione per

i pescatori di poter catturare anche l’impavido amante. Qualora, invece, nella frenesia della caccia si dovesse per errore abbattere

per primo il maschio, la compagna senza indugio si dileguerebbe in cerca di salvezza.

Ora, non stiamo qui a spendere commenti su un comportamento animale che potrebbe porgere il fianco a divagazioni antropologiche

o filosofiche sull’eterno dilemma della fedeltà, passando dal regno dei pesci a quello più familiare degli umani, ma sicuramente, è

preferibile parlare del nostro amico pesce spada visto dal suo lato più ghiotto che riguarda ovviamente l’eccellenza delle sue carni.

Lo spada è un pesce dalle notevoli dimensioni che può raggiungere i 4 metri e mezzo di lunghezza e può pesare anche 500 kg. La sua

spada ha i bordi taglienti ed è il proseguimento della mascella superiore che generalmente è un terzo della lunghezza del pesce. Pur

avendo una bocca priva di denti, il pesce spada è un infallibile predatore a causa del suo micidiale rostro acuminato. Come specie

ittica il nostro amico “gladius” viene annoverato tra il pesce “azzurro” che ormai tutti riconosciamo come ingrediente

fondamentale nella dieta mediterranea.

Le diffusione e la conoscenza nel nostro paese di questo prodotto tipico, negli ultimi anni è arrivata anche nei posti più lontani dal

luogo di pesca o di prima distribuzione. Questo ha contribuito ad un apprezzamento sempre più crescente e ad un consumo

consolidato ormai su larga scala di mercato.

Ma quante ricette si possono preparare con questo pesce ? Va detto, che il pesce spada è un po’ come il maiale del quale non si

butta nulla. Per esempio con le sue uova si possono preparare ottime frittelle. Il procedimento non è complesso : per prima cosa si

lessa l’intera sacca ovarica in acqua salata ed aromatizzata con un ciuffo di prezzemolo e qualche spicchio d’aglio intero. Poi, a

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freddo una volta consolidata la sacca ed il suo contenuto, si tagliano delle fettine di qualche centimetro di spessore che vengono

passate nell’uovo sbattuto, infarinate e quindi fritte in padella. Con parti meno nobili, quali le “attaccature” delle pinne che si

presentano abbastanza grasse, si prepara una zuppa dal sapore molto forte e che appartiene alla tradizione più antica dei pescatori

dello stretto. Il taglio più pregiato, quello scelto dagli intenditori per la preparazione di un ottimo ragù di pesce spada è senza

dubbio la parte collocata nell’attaccatura dorsale tra la testa ed il resto del tronco detta “scuzzetta”. Con questo prelibato

ingrediente, connotato da una particolare morbidezza della carne tale da sciogliersi in bocca, si possono preparare anche delle

ottime polpette di spada.

Per il piatto di questo appuntamento, sono stati utilizzati dei tranci con ventresca di un piccolo esemplare di pesce spada di

accertata freschezza e di provenienza mediterranea. È inutile dire che la freschezza di un prodotto ittico è alla base della riuscita di

qualsiasi ricetta a base di pesce.

Pesce spada alla ghiotta (per 4 persone)

In una capiente padella con abbondante olio extra vergine di oliva abbiamo fatto appassire 2 cipolline fresche di Tropea, uno

spicchio d’aglio tritato e una manciata di capperi. Abbiamo aggiunto in seguito i tranci di spada con tutta la pelle (650 gr). Dopo la

rosolatura molto lenta durata 15 minuti, quando i pezzi di pesce risultavano ben dorati, sono stati aggiunti 20 gr di pinoli e 50 gr di

uva sultanina che nel frattempo avevamo messo in ammollo in acqua tiepida. Passata una decina di minuti sono stati aggiunti dei

pomodorini, due foglie di basilico, il sale ed il pepe. La cottura è stata protratta per altri 15 minuti circa a fuoco lento. Prima di

servire è stato aggiunto del prezzemolo tritato.

Per dare la giusta compagnia ad un piatto come questo, connotato da particolari sapori mediterranei, è necessario abbinare un vino

dal profumo intenso e caratteristico di fiori bianchi, gelsomino e uva moscato come uno zibibbo secco di terra sicula servito alla sua

giusta temperatura 8° - 10° C.

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Una ventata di freschezza.

di Gino Lombardo

Una ventata di freschezza !

Sembrerebbe lo slogan di qualche prodotto pensato per il benessere o per la cosmesi personale, ma in realtà per chi è attento al

mutare delle stagioni la freschezza è un concetto molto legato alla primavera e soprattutto ai suoi prodotti della natura che

sembrano pensati apposta per rompere la monotonia dell’inverno. Il desiderio di sole, la voglia di movimento è altrettanto pari alla

voglia del nostro organismo di vitamine, sali minerali e zuccheri. Anche il nostro palato ha la necessità di passare a sapori più

armonici e leggiadri.

La primavera si riconosce dall’odore che pervade l’aria, soprattutto nelle zone meno urbanizzate e ricche di verde, ci riporta ad

ognuno di noi ai ricordi della nostra età più spensierata quando si correva dietro ad un pallone nel cortile dell’oratorio, oppure si

tirava a far tardi passando in su e giù davanti l’uscio della persona oggetto dei nostri precoci sentimenti. Si, i profumi della natura

erano inconfondibili e variegati ma, anche gli odori che uscivano dalle finestre che da li a poco si schiudevano, erano la

comunicazione olfattiva di una comunità legata alla tradizione stagionale degli ingredienti che componevano le ricette elaborate

dalle massaie di quel tempo. Non volevo suscitare un nostalgico richiamo dei bei tempi che furono, ma un inno alla primavera che è

sempre un appuntamento importante anche per la nostra tavola. Quando ancora non esisteva la grande distribuzione ed il mercato

globale, si seguiva l’avvicendarsi ciclico delle stagioni per poter gustare il prodotto giusto al momento giusto. Volete mettere il

piacere di gustare una fetta di anguria sotto il solleone piuttosto che davanti ad un camino scoppiettante ? Ogni cosa a suo tempo

dicevano i nostri nonni dall’alto della loro indiscutibile saggezza. E quindi, visto che siamo ormai in piena primavera possiamo

approfittare per realizzare qualche piatto con prodotti di stagione. Girando tra i banchi del mercatino ortofrutticolo la nostra

attenzione è stata attirata da alcuni mazzetti di asparagi che facevano capolino in mezzo a delle belle melanzane viola. Ghiotta

occasione per realizzare un primo ed un secondo piatto di sicuro interesse e quindi nell’ordine : un risotto con gli asparagi e degli

involtini di melanzane. Ora, per onor di cronaca, le melanzane non sono proprio nel loro tempo migliore poiché la raccolta in genere

avviene durante l’estate, ma erano così belle che ci è sembrato un peccato non “invitarle” a tavola.

Risotto con gli asparagi ( 4 persone )

Ingredienti : 600 g di asparagi, 1 litro di brodo vegetale, 2 cipolline “novelle” di Tropea, olio extravergine di oliva, 320 g di riso, 20 g

di Parmigiano Reggiano, sale e pepe.

Dopo aver eliminato la parte più fibrosa ovvero la parte inferiore del gambo, i nostri asparagi sono stati lavati accuratamente e in

seguito sono stati tagliati a pezzi di circa un 1 cm fino alla parte superiore. In un tegame abbiamo fatto appassire con dell’olio extra

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vergine le nostre cipolle novelle dopo averle sminuzzate sul tagliere. Trascorso qualche minuto abbiamo aggiunto i nostri asparagi e

li abbiamo “mantecati” per una dozzina di minuti girando delicatamente con mestolo di legno. Quindi abbiamo aggiunto il riso e lo

abbiamo fatto prima tostare leggermente, poi via via è stato aggiunto il brodo vegetale (no dado), sale e pepe. La cottura è stata

portata avanti fino a quando il nostro risotto ha incominciato a fare “l’onda” e quindi abbiamo finito con l’aggiunta del parmigiano.

Involtini di melanzane ( sempre per le quattro persone di prima…)

Ingredienti : 2 belle melanzane grosse e tonde con pochissimi semi, 500 gr di pomodori pelati, 150 gr di prosciutto cotto, 1 cipollina

fresca, basilico, 300 gr di besciamella, 120 gr di ragusano, 50 gr di parmigiano, olio extra vergine, sale e pepe.

Abbiamo fritto le melanzane dopo averle semplicemente sbucciate e tagliate a fettine di mezzo centimetro. Poi sono stati fatti degli

involtini con all’interno: prosciutto, ragusano e un tocco di besciamella. Gli involtini sono stati adagiati in una pirofila dal fondo

leggermente cosparsa di salsa di pomodoro fresco preparata precedente con il lieve soffritto di cipolla, profumato con alcune foglie

di basilico durante una breve cottura di 5 minuti. Una volta disposti tutti gli involtini, sono stati leggermente coperti da un velo di

salsa e parmigiano a pioggia. Cottura ultimata in forno a 180° per circa 20 minuti.

E i vini ?

Risotto con asparagi: questa pietanza si abbina con Vino Bianco leggero, come un Capalbio Bianco di uve trebbiano di Toscana con

aroma floreale, leggermente fruttato e sentori erbacei.

Involtini di melanzane: ci possiamo orientare verso un rosso giovane di media struttura e buon affinamento tale da determinare

quelle sensazioni di setosità e morbidezza necessarie.

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Quando il gusto incontra il benessere

di Gino Lombardo

Ormai tutti sanno che la dieta mediterranea è un modello nutrizionale volto al benessere e alla longevità delle persone. Essa si basa

su un elevato consumo di alcuni cibi tipicamente presenti nel bacino del Mediterraneo : pane, verdura, frutta, cereali, olio di oliva,

pesce e vino. Il nostro paese oltre che essere leader mondiale nella produzione di ottimo olio di oliva e di vino pregevole di grande

reputazione, è un luogo di pesca anche di prodotti ittici che sono essenziali nella nutrizione equilibrata delle popolazioni

mediterranee.

Il pesce azzurro ( alici, sgombri, sardine, costardelle, etc) è una risorsa insostituibile in

una dieta volta al benessere dell’individuo in quanto, la presenza degli acidi grassi Omega 3 ed Omega 6, consente di abbassare il

livello di colesterolo nel sangue che rappresenta uno dei nemici principali della salute. In questo spazio, ci occuperemo delle alici o

acciughe che dir si voglia, sopra tutto per le loro caratteristiche di economicità e gusto unico. Le alici vengono pescate da marzo a

settembre con rete a strascico o da posta, si trovano in commercio sia fresche che conservate sotto sale.

Nella storia delle popolazioni del mediterraneo, le alici hanno rappresentato sempre una fonte indiscutibile di economia, basti

pensare al romanzo di Giovanni Verga “i Malavoglia” dove si narra la triste storia di una famiglia di pescatori di Aci Trezza (CT), che

confidava proprio nella pesca di questo “tesoro azzurro” per la sopravvivenza ed il futuro stesso. Questa grande opera letteraria è

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stata poi mirabilmente trasposta in un indimenticabile film di Luchino Visconti dal titolo “ La terra trema. “. Oltre che nella grande

narrativa d’autore, il nostro pesce in questione è presente su gran parte della letteratura gastronomica nazionale. Il motivo è

semplice, la squisitezza delle sue carni è leggendaria e soprattutto si presta alla preparazione di una infinità di ricette.

A questo punto, mi sembrava proprio giusto andare a tirare fuori per l’occasione un poker d’assi, una delle mie ricette che è stata

sempre un mio cavallo di battaglia e che mi ha dato moltissima soddisfazione e qualche riconoscimento. Questa ricetta è una di

quelle che non vi farà dimenticare dai vostri entusiasti commensali. La preparazione è un po’ lunga, ma vi assicuro che il sacrificio

sarà opportunamente ricompensato dall’avvolgente ed indimenticabile piacere che ne trarrete.

Alici ripiene

Ingredienti (per più di 4 persone) : 1 kg di alici fresche, 400 gr di pane senza crosta, capperi, aglio, prezzemolo, 4 uova, 70 gr di

parmigiano grattugiato, prezzemolo, basilico, 600 gr di pelati, 1 cipolla fresca, olio extra vergine di oliva, sale e pepe.

Preparazione:

con molta pazienza bisogna pulire le alici eliminando la testa e le interiora, poi è necessario asportare per intero la lisca evitando

assolutamente di dividere le parti laterali del pesce. In un mixer si unisce insieme il pane a pezzetti (per l’occasione è stato usato un

pane senza glutine), un ciuffo di prezzemolo, due spicchi d’aglio, una manciata di capperi, il formaggio, sale, pepe ed un filo di olio.

In una terrina si mescola il tutto con due uova intere fino ad ottenere un impasto morbido e plasmabile che dovrà essere utilizzato

per farcire le alici. Per eseguire la farcitura bisogna operare come quando si prepara un panino imbottito inserendo il ripieno tra due

alici aperte e pressando con le mani per assemblare bene il tutto. Una volta farcite le alici, vanno fatte “rotolare” nelle due uova

precedentemente sbattute e poi, dopo averle fatte sgocciolare, vanno fritte in abbondante olio fino al consolidamento ed alla

relativa doratura. Man mano che le nostre alici saranno pronte, verranno adagiate su carta assorbente da cucina per farle

raffreddare. A questo punto sarebbero già ottime da essere gustate così, ma per i patiti dello spaghetto e relativa “scarpetta”,

possiamo utilizzare una parte delle alici per ottenere un ottimo sugo da condimento e una variante in umido della ricetta.

Per fare questo è necessario far appassire la nostra cipolla in olio extra vergine di oliva con qualche filetto di alice cruda che

avevamo tenuto da parte, poi si aggiungeranno i nostri pelati precedentemente passati al setaccio, qualche bella foglia di basilico

fresco (non usiamo assolutamente basilico secco), sale e pepe quanto basta.

Dopo alcuni minuti si “tufferanno” nel sugo le nostre alici ripiene e precedentemente fritte, di seguito si cuocerà il tutto a fuoco

moderato per 20 minuti aggiustando di sale se necessario.

Bene, dopo tutta questa fatica non rimarrebbe altro che invitare le persone giuste con le quali condividere il risultato del lavoro

svolto tra mestoli e fornelli.

E se qualcuno dei vostri invitati dovesse chiedervi: "che vino porto?"; non esitate a rispondere un Bianco delle Cinque Terre dal

profumo fresco di buona intensità con note salsoiodiche, secco, sapido di buona freschezza e con adeguata struttura e persistenza.

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UN PIACERE DA SFOGLIARE

di Gino Lombardo

Molti di noi ricordano un famoso spot di Carosello che ripeteva "contro il logorio della vita moderna" e, di seguito, invitava a bere un

famoso e piacevole amaro a bassa gradazione alcolica, preparato tramite infusione di una pianta erbacea dal potere disintossicante.

Ma di che pianta si trattava? L'indimenticabile poeta Pablo Neruda, lo racconta così in una sua bella Ode al carciofo: "Il carciofo dal

tenero cuore si vestì da guerriero, ispida edificò una piccola cupola, si mantenne all'asciutto sotto le sue squame, vicino al lui i

vegetali impazziti si arricciarono, divennero viticci, infiorescenze commoventi rizomi; sotterranea dormì la carota dai baffi rossi, la

vigna inaridì i suoi rami dai quali sale il vino, la verza si mise a provar gonne, l'origano a profumare il mondo"...

Si, l'incontro di oggi è con il carciofo, un alimento costituito dai fiori non completamente dischiusi della pianta di Cynara scolymus.

In cucina questo prodotto si presta alla preparazione di mille ricette, passando dall'antipasto per finire al mitico infuso che sembra

avere anche qualità terapeutiche oltre che digestive.

Dal punto di vista nutrizionale, i carciofi si adattano benissimo alla dieta mediterranea ed a basso contenuto calorico, nonostante il

loro sapore deciso, forniscono pochissime calorie pur essendo abbastanza sazianti ed inoltre, sono molto ricchi di fibra solubile che

aiuta ad eliminare il colesterolo in eccesso.

Esistono varie qualità di carciofi, da quello sardo a quello romano, dallo spinoso di Liguria al Violetto di Toscana e tanti altri ancora.

Oltre al prodotto fresco, ormai reperibile quasi tutto l'anno, è possibile l'acquisto anche di carciofi surgelati, in scatola con salamoia

e sott'olio.

Per questo appuntamento, dopo il solito salto al mercato sotto casa, abbiamo acquistato otto carciofi violetti con i quali ci siamo

divertiti a preparare un tortino classico di tradizione italica.

Tortino di carciofi (per quattro persone più l'ospite inatteso che porta il vino)

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I

ngredienti: otto violetti toscani, otto patate nuove, 2 uova sode, 50 gr di parmigiano reggiano grattugiato, 1 grossa cipolla,

prezzemolo, due fette di pane senza scorza, olio extra vergine di oliva, alcune fettine sottili di Emmental, alcune fettine sottili di

mortadella, sale e pepe.

Preparazione: in una pentola scottare in acqua salata i carciofi già puliti ( 20 minuti ) e le patate pelate e tagliate a dischi dallo

spessore di 1 cm (10 minuti). Successivamente, con dell'olio extra vergine di oliva, far rosolare in una capiente padella, la cipolla

tagliata a fettine sottili e le patate dopo averle scolate per benino.

Preparare in un mixer un trito fine con il pane, il prezzemolo ed il formaggio. Affettare i carciofi e disporne uno strato in una

tortiera, poi aggiungere un filo d'olio, il trito di pane e prezzemolo, qualche fetta di emmental, qualche fettina di mortadella e

qualche spicchio di uovo sodo. A seguire si dispone uno strato di patate e cipolle e poi si ripete la sequenza di ingredienti fino alla

fine concludendo con una spolverata d parmigiano e pepe. A questo punto non rimane che accendere il forno e cuocere il tortino a

180° per mezzora circa.

L'unica cosa che rimane da fare è servire in tavola per la condivisione con gli amici, sperando che il nostro immancabile ed inatteso

ospite ci porti il vino giusto! Ma spesso non è facile trovare un giusto abbinamento vino - carciofi, in tal caso il nostro ospite porterà

probabilmente della buona birra a bassa fermentazione: pils, pilsner, o lager.

Fresca! Molto fresca...

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Se a Trento ci fosse il mar...

di Gino Lombardo

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In questo Paese meraviglioso che è l’Italia, così diverso e così uguale da nord a sud, c’è una regione con le montagne fatate. Un

territorio stupendo caratterizzato da scenari magici e mozzafiato, una importante ed irrinunciabile meta turistica in ogni stagione

dell’anno. Questa parte d’Italia, il Trentino alto Adige, è una regione che oltre alla sua spettacolare conformazione naturale

contraddistinta dai gruppi montuosi delle Dolomiti o “Monti pallidi”, risulta essere anche una fucina di prodotti eno-gastronomici di

grande eccellenza. La produzione vinicola è diversificata e di grande pregio, dai grandi rossi quali Marzemino, Teroldego, Merlot fino

ai superlativi bianchi come il Muller Thurgau oppure il Riesling Italico e tantissimi altri ancora. I prodotti tipici vanno dai formaggi

con sentori olfattivi intensi ai salumi di grande fattura ed unicità inconfondibile come ad esempio lo speck.

La cucina della tradizione è imperniata proprio sulla tipicità e la genuinità inconfondibile delle materie prime, giocata sull’equilibrio

degli ingredienti a volte poveri ed a volte sostanziosi ed unici.

Una regione ricca, molto ricca dal punto di vista gastronomico, ma se ci fosse il mare come sarebbe l’incontro fra i sapori di valle e

quelli di costa ? C’è lo siamo chiesti una volta con degli amici trentini e abbiamo pensato che forse si poteva sperimentare una

ricetta tipica sfruttando il connubio con ingredienti "alieni”. Il risultato è stato strepitoso, confermato dalla soddisfazione degli

assaggiatori particolarmente critici per l’occasione. Abbiamo utilizzato una delle ricette tipiche che meglio rappresenta il Trentino,

quella dei canederli; si tratta di grossi gnocchi “gnudi” composti di un impasto dalla composizione variabile, una ricetta molto

antica della cucina contadina basata sul riciclo del cibo avanzato.

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L’impasto è composto generalmente da cubetti di pane raffermo, formaggio, latte, uova, cipolla, prezzemolo e soprattutto non

manca mai lo speck.

Una volta amalgamati tutti gli ingredienti, vengono modellate delle "palle" di circa 5 cm di diametro dove nel cuore del canederlo

viene posto un pezzo di formaggio. Vengono cotti in un brodo aromatico oppure in acqua salata per essere poi serviti con burro fuso

delle malghe.

Per sperimentare l’incontro tra la tradizione trentina e i prodotti del mare, abbiamo realizzato dei canederli di pesce fresco,

cercando di rispettare la tecnica e l’originalità della ricetta.

Canederli di mare

Ingredienti per 4 persone: 600 gr di pesce da zuppa (scorfani, tracine, lanterne), 400 gr di gamberetti freschi, 150 gr di salmone

affumicato, 600 gr di pane raffermo, 1 cipolla fresca, qualche pistillo di zafferano, aglio, prezzemolo, 2 uova, un limone non

trattato, 100 gr di grana trentino, olio extra vergine di oliva, sale e pepe.

Esecuzione della ricetta: per prima cosa abbiamo realizzato il fumetto o meglio il brodo di cottura dei canederli utilizzando il pesce

da zuppa pulito ed eviscerato. In un capiente tegame, abbiamo fatto insaporire dell’olio extra vergine di oliva con due spicchi

d’aglio a fettine e qualche ciuffo di prezzemolo, poi è stato aggiunto il pesce comprensivo delle teste. Una volta dorato leggermente

il pesce abbiamo aggiunto circa un litro di acqua, il sale e il pepe. La cottura è stata protratta per circa 25 minuti e verso la fine

abbiamo aggiunto i pistilli di zafferano ed un goccio di anice (facoltativo). In una padella abbiamo fatto rosolare per 10 minuti i

gamberetti con la cipolla ridotta in purea, aggiungendo alla fine la buccia grattugiata di un limone. Nel frattempo, anche con l’aiuto

di un mixer, abbiamo preparato l’impasto con il pane, prezzemolo, il formaggio grana, il salmone, i gamberetti tritati, le uova, un

filo d’olio, qualche cucchiaio di latte, sale e pepe. Con l’impasto abbiamo quindi realizzato i nostri canederli di pesce fresco che

sono stati cotti nel nostro brodo (dopo essere stato filtrato per separare il pesce) per circa 10 minuti.

I canederli vanno serviti con il brodo caldo accompagnati con un “freddo” vino bianco del Trentino come ad esempio uno Chardonnay

DOC (la possibilità di scelta e di abbinamento è comunque molto ampia) dal colore giallo paglierino con brillanti riflessi dorati dal

profumo ampio e caratteristico che ricorda la mela.

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Un “falsomagro” genovese

Quando un buongustaio prende qualche chilo di troppo, spesso viene benevolmente definito un “falsomagro” senza pensare che

invece lo stiamo associando al nome tipico di una ricetta siciliana. Piatto che in genere è comune in ogni parte della Sicilia, tuttavia

però gli ingredienti della farcitura spesso possono essere diversi. Si tratta di un grande involtino di carne, “il braciolone” che una

volta riempito con gli ingredienti prescelti, viene messo a cuocere in un sugo di pomodoro ed odori vari. È una ricetta dei giorni di

festa o per le occasioni importanti tant’è che ogni famiglia ne tramanda gelosamente la propria “formula”.

L’origine della ricetta è probabilmente straniera, infatti i siciliani nel passato a causa delle varie dominazioni (basti pensare ai Greci,

ai Normanni, agli Svevi, ai Romani, agli Arabi agli Spagnoli…), hanno arricchito notevolmente il loro patrimonio culinario. Si pensa

che il “falsomagro” sia di origine francese per il fatto che l’influenza della cucina d’oltralpe trovò diffusione nelle famiglie siciliane

più aristocratiche che avevano spesso al loro servizio dei cuochi francesi, molto ricercati per la bravura e raffinatezza. Ancora oggi è

riscontrabile l’influenza della cucina francese in molte preparazioni siciliane così come nella terminologia gastronomica. Ma ora, vi

chiederete, che centra il falsomagro “genovese” ? La risposta sta nel fatto che per cuocere il nostro “falsomagro” utilizzeremo un

ragù alla genovese che però non ha niente che fare con la bellissima Genova ma bensì, centra in pieno con l’altrettanto bella

Napoli. Ma come mai questo sugo viene detto alla genovese pur appartenendo alla tradizione culinaria partenopea ? Una delle ipotesi

potrebbe essere ascrivibile ad una tradizione di osterie del porto gestite da cuochi genovesi. Probabilmente però la città ligure non

centra per niente ed il termine “alla genovese” potrebbe essere nato dalla storpiatura di “a la Genève” proprio per indicare un modo

di cucinare di alcuni mercenari svizzeri al soldo delle truppe francesi presenti in Sicilia intorno al 1495.

La preparazione di questa settimana risulta quindi essere un connubio tra la cucina siciliana e quella napoletana.

Falsomagro alla genovese

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Ingredienti

per realizzare la nostra ricetta, mi sono recato dal mio macellaio di fiducia e mi sono fatto preparare un pezzo di campanello di

vitellone, che è stato aperto con cura per ricavarne una bella fettona di circa 25 cm di diametro e dal peso di 1,2 Kg circa. Gli altri

ingredienti necessari sono : 600 gr di cipolle fresche di Tropea, 200 gr di prosciutto cotto, 100 di provola a dadini, 4 uova, 100 gr di

formaggio parmigiano grattugiato, 2 carote, 8 asparagi lessati, 1 bicchiere di vino bianco, una manciata di pinoli, olio extra vergine

di oliva, sale e pepe.

Esecuzione

Con le uova ed il parmigiano abbiamo preparato un frittata che è stata utilizzata come base per il ripieno al quale abbiamo aggiunto

la provola, il prosciutto, gli asparagi, i pinoli, sale e pepe. Una volta arrotolata la carne, è stata legata con dello spago da cucina,

facendo attenzione di non lasciare aperture che potessero far fuoriuscire durante la cottura gli ingredienti interni. In un tegame

molto capiente, abbiamo fatto rosolare a fuoco lento con dell’olio extra vergine di oliva, le cipolle e le carote tagliate entrambi a

fettine sottili. In seguito abbiamo aggiunto la carne che dopo una rosolatura di circa 10 minuti, è stata sfumata con un bicchiere di

vino bianco. Dopo l’evaporazione alcolica del vino, è stato aggiunto circa un litro di acqua, il sale ed il pepe. La cottura è stata

molto lunga ed a fuoco moderato per quasi due ore.

Da tenere presente che Il sugo di cottura del “falsomagro”, omogeneizzato tramite un “Minipimer”, è sicuramente un ottimo

condimento per vari tipi di pasta.

Una volta raffreddata, la nostra carne era già pronta per essere tagliate a fette di qualche centimetro di spessore e per essere

servita accompagnata dai contorni più svariati.

Il vino giusto da abbinare potrebbe essere scelto tra uno di questi:

un Solopaca DOC (Campania) dal colore rubino più o meno intenso, con odore persistente caratteristicamente vinoso, sapore

asciutto, vellutato ed armonico;

un Nero D’Avola (Sicilia) dal colore rosso rubino con riflessi granato, con profumo complesso di frutti maturi e speziati, sapore

rotondo, di buona struttura e personalità.

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UN "TONNO" DI CAMPAGNA

di Gino Lombardo

Ci sono ricette che nascono in situazioni critiche e che sono frutto di necessità che diventano virtù. In uno dei territori più belli

d’Italia, dove si produce il Chianti, il “vino” più famoso al mondo e che meglio rappresenta il nostro paese, sono nati prodotti che

sono poi divenuti delle leggende. Tra i tanti prodotti eccellenti del territorio del Chianti ce n’è uno che sembra uscito da un libro di

racconti dei nostri nonni. Si tratta di un “tonno” che non vive in mare e nemmeno in un cristallino torrente dei monti toscani. Ma di

che cosa si tratta?

Andando alla riscoperta di antichi sapori lungo le colline toscane del Chianti, ci siamo imbattuti in questa storia nata nei tempi

andati: “alcuni decenni fa, quando la fame incombeva un po’ dappertutto nel nostro paese, vigeva la regola di non buttare via nulla

e di riciclare il più possibile ogni tipo di cibo. Succedeva che durante l’estate, a causa del caldo eccessivo, alcuni maialetti detti

“lattonzoli”, rischiavano di non farcela a sopravvivere e quindi venivano preventivamente abbattuti. In assenza di frigoriferi o

congelatori, bisognava preparare la carne in modo che potesse durare nel tempo il più possibile. La carne fatta a pezzi, veniva

prima fatta “spurgare” sotto sale per qualche giorno e poi cotta nel vino che a causa del caldo andava allo “spunto”, ovvero

diventava più acido a causa di fermentazioni secondarie indesiderate. In buona sostanza, si cercava di utilizzare due prodotti che da

lì a poco sarebbero andati a male. La cottura dei maialetti veniva effettuata in questo vino allungato con acqua o brodo

aromatizzato generalmente con alloro, qualche bacca di ginepro e grani di pepe nero. La cottura, molto lenta, andava avanti per

diverse ore, anche più di cinque. La carne, una volta cotta e raffreddata, veniva “sfilacciata” utilizzando delle forchette a mo’ di

“rastrello” per ottenere dei pezzetti piccini che venivano messi sott’olio (ovviamente extra vergine d’oliva chiantigiano) e

conservati in vasetti di vetro, proprio come il tonno vero. Generalmente l’apoteosi del gusto del prodotto finito, si raggiungeva

consumando il “tonno” già fatto riposare per alcuni giorni dentro ai vasetti al fresco, abbinandolo con un letto di fagioli cannellini

cotti ovviamente nel fiasco, conditi al crudo con olio toscano e con un tocco di origano”

La realizzazione di “tonni” di carne, in genere era abbastanza diffusa nelle realtà contadine del nostro paese, a volte veniva usata

carne di gallina o coniglio. Il tonno realizzato con il maiale, risulta tuttavia molto più appetitoso e soprattutto se viene utilizzata

carne di “cinta senese”.

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Sulla base di questa bella storia, abbiamo deciso di preparare anche per noi, il nostro “tonno” di campagna per rievocare i sapori di

antichi casali, consapevoli però del fatto che risulta sempre un compito difficile far rivivere sentori del passato.

Ingredienti per 4 persone:

1 kg di maialetto di cinta (filetto, scamerita, coscia), due cipolle bianche, 3 carote, 1 costa di sedano, foglie di alloro, pepe nero in

grani, 1 litro di vino bianco toscano, 400 gr di fagioli bianchi cannellini lessati, olio extra vergine di oliva toscano, origano, sale e

pepe.

Esecuzione:

abbiamo tagliato la carne a pezzi grossi, l’abbiamo salata in un recipiente d’acciaio e messa riposare in frigo per un giorno. Il di’

seguente, la carne è stata lavata con il vino, poi messa a macerare per alcune ore, con il rimanente bianco toscano, alcune foglie di

alloro, salvia e un pugno di grani di pepe nero. Più tardi, abbiamo cucinato per qualche ora un brodo vegetale utilizzando le carote,

le cipolle, il sedano e il sale necessario. Con il brodo a bollore, abbiamo aggiunto la carne e poco più tardi anche il liquido di

marinatura. La cottura è andata avanti a fuoco medio/basso per circa due ore e mezza, facendo attenzione a non far restringere

molto il liquido di cottura stesso.

Quando la carne si è completamente raffreddata, è stata eseguita la “spezzettatura della stessa, utilizzando delle forchette o in

alcuni casi spezzando la polpa con le mani. La carne è stata condita abbondantemente con dell’ottimo olio extra vergine oliva, per

l’occasione delle colline di Quarrata (PT) prodotto con spremitura a freddo.

Non potevamo certo aspettare, una stagionatura in “vetro” per qualche settimana e quindi siamo passati all’assaggio componendo il

piatto con lo strato di cannellini, il “tonno” e una leggera spolverata di origano dal sapore decisamente mediterraneo.

Va detto che per un eventuale conservazione del prodotto in vasetto, è assolutamente necessario attenersi alle tecniche di

sterilizzazione necessarie per debellare i microrganismi presenti sul cibo e nell'aria e impedire che si sviluppino, in modo che il cibo

non diventi immangiabile o addirittura pericoloso.

Quindi è sempre consigliabile consumare il prodotto fresco e lasciare alla tecnologia della grande industria alimentare il compito di

produrre alimenti in vasetti o comunque conservati.

Dal momento che all’assaggio, il nostro “tonno” è risultato molto succulento, abbiamo avuto la necessità di associare un vino toscano

di grande spessore e quindi, quale occasione più ghiotta per le nostre papille gustative di “accarezzare” un giovane Chianti Gallo

Nero, disponendo uno di Greve e per il quale ogni commento... potrebbe apparire superfluo.

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QUATTRO AMICI E UN... GATTO'

di Gino Lombardo

L’occasione ghiotta di ritrovarsi con i nostri soliti quattro amici di sempre, pone sempre un piccolo dilemma che riguarda un

eventuale piatto da preparare da aggiungere al menù del padrone di casa di turno. In questi casi è necessario individuare una ricetta

che possa essere realizzata con largo anticipo e che si presti anche ad essere gustata anche dopo qualche tempo.

La ricetta che spesso si presta a queste situazioni, è quella del Gattò di Patate, un piatto che ha un origine condivisa tra il

mezzogiorno d’Italia e la Francia. Una pietanza non particolarmente complessa nella preparazione, con ingredienti semplici di facile

reperibilità ma soprattutto, molto gustosa e nutriente che accontenta i gusti di tutti. Questa ricetta di origine partenopea, ha un

nome che è evidentemente una storpiatura della parola francese Gateau (torta), ma probabilmente risente anche di un apporto della

tecnica già utilizzata dai cuochi francesi nella preparazione di sformati vari.

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Dopo il 1768, con le nozze della regina Maria Carolina d’Austria con il giovane Ferdinando IV di Napoli, che era anche Ferdinando III

di Sicilia, Napoli divenne luogo di confronto delle grandi cucine europee. Nasce così, con la regina Maria Carolina di Borbone, la

cucina Aristocratica Napoletana che riuscì ad ingentilire la gustosissima cucina povera dei napoletani con il tocco esperto di cuochi

raffinati venuti d'oltralpe i “Monsieur” chiamati poi "Monzu`" dalla corruzione del termine francese. Nell'arco di pochi decenni,

assunsero denominazioni francesi alcune tradizionali pietanze partenopee e sicule: il sartù, il gattò, il crocchè, il ragù. Il futuro

Regno delle Due Sicilie divenne crocevia di scambi culinari, Napoli che era forse la terza città d'Europa, divenne il centro “studi” di

contaminazioni gastronomiche più disparate, con influenze sia francesi che spagnole e con origini anche neoclassiche. Insomma,

un’immensa fucina di sapori e colori, un teatro universale dove veniva rappresentato il cibo nelle sue forme più innovative gioiose e

raffinate…

Ma veniamo al nostro Gattò

l’ingrediente primario o di base della preparazione è la patata che deve essere “vecchia” e a pasta gialla. Il gattò è una

preparazione che si presta ad essere consumato anche qualche giorno dopo, magari insieme ai quattro soliti amici. Può essere

considerato sicuramente anche un piatto unico, per la presenza di carboidrati e proteine.

Ingredienti:

1,5 kg di patate vecchie a pasta gialla

1 bicchiere di latte

2 etti di burro ammorbidito

2 etti di prosciutto cotto tagliato a listarelle (spesso può essere usato salame o mortadella)

1 etto di mozzarella fior di latte

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3 etti di provola tagliata a dadini di 1,5 cm. di lato

4 uova di cui 2 rassodate

150 grammi di parmigiano grattugiato

Sale e pepe nero macinato q. b.

Preparazione:

abbiamo lessato le patate con la buccia, le abbiamo pelate quando erano ancora calde e passate allo schiaccia-patate poi, le

abbiamo poste poi in una grossa ciotola.

Abbiamo unito il burro ammorbidito, il parmigiano, 2 uova intere, il latte, il pepe ed il sale. Abbiamo mescolato molto bene il

composto onde consentire un’ottimale amalgama degli ingredienti.

In una teglia foderata con carta forno abbiamo steso uno strato di composto e poi abbiamo aggiunto le uova sode, il prosciutto, i

fiocchi di mozzarella, e la provola tagliata a dadini. Successivamente abbiamo steso un secondo strato di composto che è stato

livellato con l’utilizzo di una forchetta per creare dei mini solchi che sono stati “irrorati” con olio extra vergine d’oliva.

Abbiamo messo a cuocere il nostro gattò in forno già' caldo a circa 190 gradi per 30-35 minuti o finche' la superficie non è risultata

ben dorata.

E consigliabile far raffreddare il gattò prima di servirlo sia da solo che con insalata mista o meglio ancora con della maionese.

Per l’abbinamento con il vino è sempre preferibile un bianco servito freschissimo e perché no, una “falanghina” del Sannio dal colore

paglierino più o meno intenso, dal sapore sempre fruttatissimo, secco e a volte vivace.

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Le serenissime sarde di Goldoni

di Gino Lombardo

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Unica al mondo per la sua particolarità e bellezza, Venezia è una delle città dove ancora oggi è possibile farsi stregare dagli antichi e

spesso speziati sapori di una volta. La capitale della Repubblica della Serenissima nei secoli scorsi ha risentito molto degli incroci

culturali tra l’oriente e la Mitteleuropa cioè la tradizione culturale dell’Impero asburgico al suo tramonto. Infatti, nell’ultimo secolo

scorso i menù veneti mescolavano ingredienti e sapori del luogo con prodotti tipici della tradizione Austriaca. La cucina veneta è

comunque una delle più ricche del nostro paese, gli ingredienti sono tanti e diversificati, passando dai prodotti della terra quali

verdure e legumi, ai prodotti da pesca o allevamento e non ultima la cacciagione. Ma, l’alimento principe della cucina veneta rimane

comunque il pesce, sia di acqua dolce che di acqua salata. Il Veneto infatti, non è ricco solamente di coste e lagune, ma anche di

famosi corsi d’acqua quali l’Adige e Po e del meraviglioso lago di Garda. Quindi, il pesce è presente nella gastronomia veneta nelle

specie e nelle preparazioni più disparate, ma sempre connotate dal rispetto della tradizione.

Ma cosa centra il commediografo Carlo Goldoni con la gastronomia della Serenissima ? Centra eccome : la cucina evocata nelle sue

commedie è tipicamente quella mediterranea, dai sapori a volte forti e spesso semplici ma in antitesi con quella raffinata e piena di

salse dei cuochi francesi del tempo.

Non potevamo fare altro che “celebrare” Le Sarde in Saor, una ricetta sulla quale Goldoni spese queste rime :

"Grillo, sentì, fio mio, tolè la sporteletta;

Voggio che andè da bravo a farme una spesetta.

In pescaria ghe xe del pesce in quantità;

M'ha dito siora Catte,che i lo dà a bon marcà.

Un poche de sardelle vorria mandar a tor.

Par cusinarle subito,e metterle in saor"

Una preparazione molto antica che nasce dall’esigenza di poter conservare il pesce utilizzando una salsa agrodolce costituita da

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cipolla e aceto che doveva aggredire i microrganismi che sono la causa del deterioramento del cibo. Non solo, il termine “saor” che

in veneto vuol dire “sapore”, indica che il tipo di preparazione serviva ad eliminare ogni cattivo sentore che la prolungata

conservazione della pietanza poteva sprigionare. Oggi, chiaramente il Saor è un procedimento volto unicamente alla esaltazione

della ricetta e non alla sua “conservazione” che rimane affidata alla tecnologia di cui tutti ormai siamo dotati. La tradizione

veneziana vuole che questo piatto venga preparato come cibo tradizionale per la Festa del Redentore che si tiene a Venezia il terzo

sabato di luglio.

Così abbiamo preparato le nostre Sarde in “saor” …

Ingredienti

600 g di sarde freschissime, 50 g di uvetta sultanina, 50 g di pinoli, 400 g di cipolle fresche (che il nostro ortolano di fiducia ci ha

consigliato in luogo di quelle bianche previste, visto il periodo stagionale e la disponibilità,), aceto di vino bianco, vino bianco, olio

d'oliva extra vergine, olio per friggere, farina, sale e pepe.

Procedimento

abbiamo squamato le sarde, tolto loro la testa, la lisca e le interiora, poi le abbiamo lavate e asciugate con carta da cucina.

Abbiamo posto l'uvetta a rinvenire nel vino bianco.

Le sarde sono state infarinate leggermente e messe a friggere in olio di semi fino a farle dorare da entrambe la parti, quindi sono

state poste su un foglio di carta da cucina per far assorbire l’unto in eccesso e poi spolverate di sale.

Abbiamo spellato e affettato sottilmente le cipolle che abbiamo messo ad appassire con olio extra vergine d’oliva in una padella

antiaderente.

Quando la cipolla ha incominciato a prendere cottura (non deve friggere), l’abbiamo bagnata con l’aceto e spolverata con il pepe.

Abbiamo fatto bollire ancora per 10 minuti prima di spegnere la fiamma.

In un terrina abbiamo formato prima uno strato di sarde, poi uno strato con le cipolle e con parte dei pinoli e dell'uvetta sgocciolata

e asciugata. Di seguito abbiamo continuato a formare altri strati fino all’esaurimento degli ingredienti.

Abbiamo richiuso il nostro recipiente con pellicola trasparente e lo abbiamo fatto riposare in frigo per circa 24 ore prima di servire.

Abbiamo, “rinchiuso” in frigo anche un Prosecco di Valdobbiadene di un colore oro intenso e con sentori di frutta bianca e gialla

matura, morbido e dal retrogusto leggermente dolce, perfetto in abbinamento con l’agrodolce delle sarde in saor.

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UN RAGU' DI PESCE DAL SAPORE MEDITERRANEO

di Gino Lombardo

Ci sono delle abitudini alimentari nel nostro paese, che via via sono diventate tradizioni. Nelle maggior parte nelle famiglie italiane

non c’è domenica senza ragù. Questo piatto ormai nazionale viene interpretato in modi diversi da regione a regione, infatti, oltre al

famoso ragù alla bolognese, c’è quello toscano, campano, calabrese e siciliano. Le citazioni illustri su questa pietanza sono

veramente innumerevoli, giusto per menzionare qualche estimatore : Eduardo de Filippo e Luciano De Crescenzio.

Ma d’estate, quando il mare diventa protagonista nella nostra tavola, il ragù non può essere a base di carne (quale essa sia) ma bensì

di pesce. Gli appassionati del ragù di pesce, si dividono in due scuole di pensiero, ovvero quelli che amano il ragù di pescespada e gli

altri che prediligono quello realizzato con l’alalunga o “tonno bianco”. Io personalmente non ho preso mai una posizione specifica in

merito, li adoro entrambi. Per questa occasione ci siamo orientati per la preparazione del ragù con l’alalunga per il fatto che questa

ricetta, anche se appartiene alla tradizione gastronomica del sud, risulta essere ancora poco conosciuta nonostante gli

apprezzamenti e i relativi consensi che ha sempre riscosso. L’ingrediente principale, l’alalunga (Thunnus alalunga), è un

pregiatissimo pesce azzurro della famiglia dei tunnidi contraddistinto dalle sue carni molto saporite con un’altissima percentuale di

parte edibile ovvero la parte commestibile escluso lo scarto. Inoltre, la metà dei grassi contenuti sono polinsaturi, i famosi omega 3.

Molto ricercata ad esempio risulta la preparazione sott’olio per il raffinato e delicato sapore delle carni più chiare rispetto al suo

“cugino tonno”. Il nome alalunga deriva dalla presenza di lunghe pinne pettorali a forma di falce che arrivano fin dietro la seconda

pinna dorsale. È un animale pelagico che si nutre di pesce azzurro come alici, alacce e sardine ma non disdegna i cefalopoidi inoltre,

ha un corpo fusiforme che gli consente di essere un ottimo e veloce predatore. Inconfondibile la sua livrea azzurro scura sul dorso,

bluastra ai lati e con il ventre argenteo. Alcuni esemplari possono misurare oltre 1 metro di lunghezza ed arrivare anche a 35 kg di

peso. Generalmente viene pescato nei mesi estivi quando risale in superficie spesso in compagnia di altri esemplari del branco.

Ma vediamo come abbiamo preparato il nostro ragù di alalunga :

Ingredienti per 4 persone

800 gr di alalunga, 600 gr di pomodori da sugo, 1 cipolla fresca di Tropea, 2 spicchi di aglio, 50 gr di parmigiano grattugiato,

prezzemolo, basilico, 1 uovo intero, 400 gr di pane raffermo (abbiamo usato per l’occasione un pane senza glutine per non escludere

nessuno), 200 gr di piselli, olio extra vergine di oliva, olio per friggere, sale e pepe.

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Preparazione

la tradizione esige due cose: devono essere preparate le polpette da sugo e non devono mancare i piselli come accompagnamento

del piatto.

Per prima cosa abbiamo spolpato i tranci di pesce, eliminando la pelle, le lische e le cartilagini. Abbiamo messo da parte alcuni

pezzetti di trancio da usare nel soffritto.

Su un tagliere con una mezzaluna abbiamo ridotto la polpa di alalunga in un trito abbastanza fine. Poi nel nostro mixer, abbiamo

tritato il pane (senza crosta) insieme con l’aglio, un ciuffo di prezzemolo, il parmigiano, un filo d’acqua, sale e pepe q.b.

Successivamente, in una terrina abbiamo mescolato la polpa di alalunga con il composto del mixer e un uovo intero. Quando il

composto è stato ben amalgamato ed è risultato abbastanza plasmabile, abbiamo modellato delle polpette di dimensioni classiche

che, da li a poco, abbiamo dorato leggermente in padella con olio per frittura. Le polpette così ottenute sono state messe a

raffreddare su carta assorbente per eliminare l’unto in eccesso. Nel frattempo, abbiamo passato al setaccio i nostri pomodori, già

leggermente sbollentati per qualche minuto, ottenendo una profumata salsa rosso arancione. In un capiente tegame, abbiamo messo

ad appassire con olio extra vergine di oliva, la nostra cipolla di Tropea tritata molto finemente insieme ad alcuni pezzetti di polpa di

alalunga, poco dopo, la salsa di pomodoro e di seguito le polpette. Durante la cottura, durata 30 minuti a fuoco basso, abbiamo

aggiunto il sale e alcune foglie di basilico.

In un tegame a parte, abbiamo cotto per 15 minuti i piselli con olio extra vergine di oliva ed un cucchiaio di sugo di alalunga.

Finita la cottura del ragù, lo abbiamo lasciato riposare qualche ora prima di essere servito, onde consentire l’armonizzazione degli

ingredienti. La preparazione così ottenuta si presta benissimo al condimento di vari formati di pasta. Nel nostro caso abbiamo scelto

delle “mezze maniche” per il fatto che si prestano molto bene ad assorbire è trattenere il condimento.

Sull’abbinamento dei vini la scelta risulta essere molto ampia a causa della particolarità della preparazione connotata da sapori

marcati e persistenti. Sicuramente trova ottimo riscontro un Rosato di Carmignano dal sapore: asciutto, fresco, beverino e pieno di

carattere. Possibilmente giovane e di buon corpo servito a 14°-16°.

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IL CONIGLIO DELL'ISOLA DEI SOGNATORI

di Gino Lombardo

C’è un isola del Mar Tirreno, che appartiene al gruppo delle isole flegree, dove si sono avvicendati sognatori, poeti e scrittori d’ogni

tempo. Questo posto magico, bello e ricco di incantevoli panorami è l’isola d’Ischia che si trova all'estremità settentrionale del golfo

di Napoli e a poca distanza dalle isole di Procida e Vivara. Tra i tantissimi che hanno scritto di questa isola si ricordano : Friedrich

Nietzsche, Eugenio Montale, Elsa Morante e Pablo Neruda. Ischia è circondata da un meraviglioso mare blu che attrae turisti da ogni

parte del Mondo. Il clima dell’isola è particolarmente mite anche nei periodi invernali a causa della sua posizione geografica nel Mar

Tirreno centrale e della sua particolare forma a cono con il Monte Epomeo al centro. Un altro particolare punto di attrazione

dell’isola è costituito dalle sorgenti di acque termali già conosciute ed apprezzate fin dall’antichità.

Ma dal punto di vista gastronomico, Ischia cosa ci riserva? Quale è il suo piatto classico della tradizione? Verrebbe da pensare a piatti

tipici a base di pesce o frutti di mare ma, anche se può sembrare strano, la ricetta che meglio rappresenta Ischia è costituita da un

ingrediente che nulla ha a che fare con il mare. Infatti, il “coniglio all’ischitana” è ancora oggi la specialità gastronomica locale

tanto che la domenica è sempre presente sulle tavole di molte famiglie ischitane. Il segreto di questo successo è da ricercare sia

nella genuinità di alcuni semplici ingredienti e sia nella tecnica utilizzata dalle massaie. Ad esempio l’uso di cucine a legna e ed il

tegame di terracotta, presenti nelle case di campagna, davano quel tocco unico con il quale riuscire ad ottenere profumi

inconfondibili. La ricetta nacque quando nell’isola il coniglio selvatico era l’animale più diffuso e quindi anche il più cacciato, poi si

prese l’uso ad allevare questi animali in un fosso scavato in un terreno a circa due metri di profondità. Oggi, invece, molte famiglie

che abitano in campagna allevano in gabbia popolazioni intere di conigli.

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Per tributare un omaggio alla magica isola, abbiamo realizzato il coniglio all’ischitana cercando, per quanto possibile, di rimanere

fedeli ai dettati della tradizione gastronomica.

Ingredienti

1 coniglio di circa 1,200 Kg, 150 g. di pomodorini maturi, 1 bicchiere di vino bianco, basilico, prezzemolo, olio extra vergine di oliva,

aglio, peperoncino, sale e pepe.

Procedimento

Abbiamo tagliato a pezzi il coniglio, lavato ed asciugato con un panno asciutto. In una padella antiaderente abbiamo fatto imbiondire

l’aglio intero ed il peperoncino con l'olio extra vergine d’oliva. Dopo aver tolto dall’olio il peperoncino e l’aglio, abbiamo fatto

rosolare il coniglio (avendo avuto cura di rosolare pochi pezzi alla volta, in modo da mantenere l'olio sempre ben caldo). Quando

tutti i pezzi sono risultati ben coloriti, li abbiamo messi in un tegame dove nel frattempo avevamo fatto rosolare il fegato del

coniglio con olio, prezzemolo ed aglio. Dopo alcuni minuti, abbiamo aggiunto il vino bianco, il sale ed il pepe. È stato fatto cuocere il

tutto a fuoco moderato per circa 30 minuti, rigirando di tanto in tanto, poi sono stati aggiunti i pomodori spezzettati privati della

loro acqua e abbondante basilico. La cottura è stata protratta a fuoco lento per altri 20 minuti circa, rigirando di tanto in tanto, fino

a quando il fondo di cottura non è risultato abbastanza ristretto. Il risultato del piatto è stato molto soddisfacente connotato da

sentori mediterranei armonizzati con la delicatezza delle carni bianche. Come accompagnamento abbiamo preparato un “letto” di

zucchine grigliate affettate molto sottili.

Per dare il giusto connubio di territorio a questo piatto, l’abbinamento con il vino più appropriato potrebbe essere senz’altro con un

vino ischitano come “o Per 'e palummo” (Piedirosso) dal colore rubino, dall’odore vinoso gradevolmente caratteristico e dal sapore

asciutto, di medio corpo, giustamente tannico.

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IL BRIVIDO DOLCE DELL'ESTATE

di Gino Lombardo

Immaginate una sera d’estate, seduti al tavolo del bar situato sul lungomare di una delle più belle località turistiche del sud;

immaginate anche di spegnere il caldo accumulato durante il giorno e l’arsura del dopo cena con qualcosa che possa dare un piacere

appagante accompagnato da un dolce brivido.

Allora, la cosa che possiamo immaginare e sopra tutto desiderare, non può che essere una bella granita con brioche. Ma fate

attenzione, la granita non ha niente a che fare con altri prodotti simili (senza togliere meriti a nessuno ovviamente) quali sorbetto o

grattachecca, che potete trovare in vari posti del mondo. La granita è un’arte suprema, affine anche al gelato soprattutto per

quanto riguarda il procedimento di lenta mantecatura dei suoi cristalli di ghiaccio che devono essere piccolissimi onde consentire un

aspetto cremoso del prodotto. La granita ha una storia antica, sembra risalire infatti alla dominazione araba che ha introdotto

l’usanza di mescolare succhi di frutta con acqua ghiacciata o neve. Questo tipo di preparazione veniva chiamata Sherbet , termine

riadattato poi in vari sinonimi, dal dialettale “scirrubetta” al più comune sorbetto. Più tardi, in assenza ancora di impianti

frigoriferi, la tecnica venne perfezionata utilizzando il “pozzetto” ovvero un recipiente metallico (secchiello) inserito dentro un tino

di legno. Nell’intercapedine veniva posta la neve con del sale marino e all’interno del “secchiello” si metteva il composto

zuccherino da mescolare con movimento rotatorio per impedire la formazione di cristalli di ghiaccio troppo grossi. Oggi per la

preparazione delle granite si usano apposite macchine gelatiere.

La patria della granita è certamente la Sicilia, lì potete assaggiarla nei tanti gusti disponibili vecchi e nuovi anche se la tradizione

predilige le preparazioni ormai storiche : al caffè, al limone, ai gelsi bianchi o neri e alla mandorla. Sempre molto gettonata è

l’aggiunta di panna, evitando ovviamente di richiederla per quella al limone. Va detto che la granita si serve quasi sempre con la

“brioscia” siciliana preparata a sua volta con pasta lievitata all'uovo e dalla forma a base semisferica sormontata da una pallina.

Tutt’oggi per la maggior parte dei siciliani, la granita con la “brioscia” è la colazione tipica estiva.

Gli ingredienti della granita sono molto semplici ed essenziali come acqua, zucchero, qualche pizzico di sale e ovviamente

l’ingrediente prescelto per la preparazione (Caffè, succhi di frutta, sostanze aromatizzanti). In qualche località della Sicilia qualcuno

aggiunge anche un chiaro d’uovo.

Per salutare i nostri lettori, visto che la nostra rubrica va in vacanza e ritorna a settembre, abbiamo preparato una classica granita di

caffè con panna fresca e servita con l’immancabile “brioscia”.

Ingredienti per 4 persone:

1. Zucchero 150 g

2. Caffè preparato con macchina espressa tipo bar - 8 tazzine

3. Panna da montare 200 g

4. un pizzico di sale

5. un pizzico di cannella

Preparazione:

in una casseruola abbiamo portato in ebollizione lo zucchero con due bicchieri di acqua, poi abbiamo tolto lo sciroppo dal fuoco ed

abbiamo aggiunto il caffè e gli altri ingredienti, che abbiamo mescolato bene con l’utilizzo di un mestolo di legno.

Una volta raffreddato il composto lo abbiamo versato in un recipiente abbastanza alto e di acciaio che abbiamo posto nel reparto

freezer del frigo.

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Ogni trenta minuti circa, il composto è stato mescolato energicamente e l’operazione si è ripetuta fino a quando la nostra granita

non è risulta cremosa ed omogenea (tempo occorrente circa 5 o 6 ore e dipende anche dalla quantità di prodotto).

A questo punto abbiamo montato la panna, alla quale abbiamo aggiunto un pizzico di zucchero vanigliato (facoltativo).

Parecchio ore prima ci siamo preparati le brioscie (preparazione abbastanza lunga a causa dei tempi di lavorazione e lievitazione

necessari) che abbiamo poi “intinto” a pezzetti dentro la nostra granita al caffè, operazione questa che ci ha permesso di godere

fino in fondo il brivido dolce dell’estate!

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Una tavola estiva con i sapori della nostalgia

di Gino Lombardo

Nel volgere dell’estate è frequente trovare l’occasione, soprattutto durante le vacanze, di ritrovarsi con tante persone intorno ad

una tavola imbandita ricca di colori e sapori. Se poi, ci troviamo in posti dove il sole e la natura offrono prodotti tipici e

strettamente stagionali, allora è possibile che la nostra tavola ci consenta di gustare piatti che oltre ad essere tramandati dalla

tradizione, sono connotati dal gusto unico e inconfondibile della genuinità degli ingredienti. E’ bello vedere come il nostro paese

durante l’estate si colora a festa con i prodotti dell’orto che copiosi adornano le bancarelle dei variopinti mercati dei nostri borghi.

Le verdure, gli ortaggi e la frutta della stagione estiva sono i prodotti che consentono di realizzare preparazioni gastronomiche di

grande interesse e apprezzamento. In questa stagione, la cucina mediterranea offre il meglio di se stessa proponendo una varietà

straordinaria di ricette realizzate quasi esclusivamente con i prodotti freschi dell’orto. Quando poi, le ricette appartengono alla

tradizione tipicamente regionale, i sapori hanno la capacità di far venire fuori quella nostalgia che soprattutto d’estate diventa una

melanconica ed intima sensazione di appagamento dell’anima. Anche quest’anno le occasioni non sono mancate per gustare ricette

tipicamente di stagione realizzate con i prodotti freschi maturati al sole nel fazzoletto di terra sotto casa. Tra queste, due ricette

realizzate per l’occasione da “Zia Tata”, hanno allietato i nostri palati in una calda sera d’estate. In un convivio all’aperto, immersi

in un concerto naturale eseguito con un frinire di grilli, abbiamo gustato delle magnifiche polpette di melanzane e delle altrettanto

ottime frittelle di fiori di zucchine.

ECCO LE RICETTE

Polpette di Melanzane

Ingredienti per 6 persone

4 melanzane medie, 2 cucchiai di parmigiano grattugiato, 1 uovo, mollica di pane secco, una manciata di prezzemolo, farina o

pangrattato per la frittura, aglio, sale, pepe e olio extra vergine di oliva

Procedimento

Sbucciate parzialmente le melanzane, tagliatele a pezzi abbastanza grossi e scottatele in acqua salata aromatizzata con spicchi di

cipolla e basilico. Quando inizieranno a diventare trasparenti, scolatele ed in seguito tritatele finemente. In una terrina amalgamate

le melanzane con l'uovo, il formaggio grattugiato, il prezzemolo, il pepe, il sale, l'aglio tritato e il pane secco ammollato e strizzato.

Una volta ottenuta una certa consistenza del composto, ricavate tante polpette dalle dimensioni di una pallina da ping pong. A

questo punto infarinatele o passatele nel pangrattato e friggetele in abbondante olio di oliva ( si, proprio olio extra vergine di oliva

).

Servitele calde guarnite con delle salse estive a vostro piacere.

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Frittelle di fiori di zucchine

Ingredienti per 6 persone

50 fiori di zucchine, 100 gr di farina 00, 100 ml di acqua, 2 cucchiai di latte, 1 uovo, olio extra vergine di oliva, sale, pepe

Procedimento

Pulite i fiori di zucchine, lavateli e asciugateli. In una terrina diluite la farina con acqua e latte, poi unite l’uovo leggermente

sbattuto, un pizzico di pepe e sale in misura dovuta. Mescolate fino ad ottenere una pastella omogenea. Unite al composto i fiori di

zucchine già tritati molto grossolanamente e mescolate velocemente il tutto.

Con un cucchiaio da tavola dosate il composto da versare in padella, dove è stato già predisposto un fondo di olio ben caldo, per

ottenere delle frittelle dalle giuste dimensioni e che a cottura ultimata verranno adagiate su un foglio di carta assorbente da cucina.

Ovviamente vanno gustate calde e spesso possono essere un ottimo ingrediente, unitamente a fettine di formaggio fresco, per la

farcitura di appetitosi panini.

Per quanto riguarda l’abbinamento del vino, va detto che generalmente questi piatti sono utilizzati come contorni di ricette più

disparate e quindi in tal caso la scelta dovrà essere effettuata tenendo conto del menù proposto. Tuttavia, nel caso di degustazione

“in purezza” di queste pietanze, è sempre preferibile un accostamento con un bianco vivace, con sentori erbacei, asciutto,

gradevolmente armonico e ovviamente servito molto fresco.

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PICCOLI SCRIGNI RIPIENI DI SAPORE

di Gino Lombardo

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Quanti sapori e profumi può offrire un ortaggio che risulta simpatico solo a sentirlo nominare. Il suo nome è immortalato nel titolo di

una famosa canzone di Edoardo Vianello che ripeteva nel ritornello : “da quando tu prendi tu prendi il solleone sei rossa spellata sei

come un peperone”.

Il peperone o “Capsicum” è sicuramente un ingrediente che non può mancare nella dispensa di ogni cucina che si rispetti, è presente

in tutte le parti del mondo con innumerevoli varietà. Si va dal nostrano e dolce Bell Pepper della specie Capsicum annuum, al

piccantissimo Cayman Bright Yellow della specie Capsicum chinense proveniente dalle isole Cayman.

La somiglianza nel gusto forte e accattivante con il pepe ha contributo alla “costruzione” del suo nome di peperone. Nel nuovo

mondo era chiamato chilli, così come viene ancora denominato oggi nel Messico oppure a Londra con il somigliante chili. La

coltivazione di peperoni e soprattutto dei peperoncini, è talmente accessibile che può essere realizzata persino nei balconi delle

nostre abitazioni cittadine.

Ma rimanendo ai peperoni di casa nostra, che sono comunque presenti

in grande varietà, ci viene da pensare a quante cose si possono creare

con questi stupendi e variopinti ortaggi. Possiamo consumarli sia crudi

che cotti e in ogni versione semplice od elaborata. C’è chi si lamenta

della poca digeribilità del colorato vegetale, ma spesso il problema si

può risolvere eliminando la buccia o con qualche altro piccolo

accorgimento come ridurre l’acidità con l’apporto di qualche pizzico di

zucchero.

Va detto però che i peperoni hanno un modesto apporto calorico, un

contenuto abbondante di fibre e soprattutto sono molto ricchi di

vitamina C. Ma è sull’aspetto gastronomico che i peperoni trovano un

utilizzo veramente insostituibile nella preparazione di piatti nazionali ed internazionali.

Ad esempio per realizzare la ricetta di questo appuntamento abbiamo scelto un tipo di peperone italico che si trova esclusivamente

nella stagione estiva ed è prodotto nelle area meridionale del nostro paese. Di dimensioni piccole, dalla forma schiacciata, dal

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colore tassativamente verde e soprattutto dal sapore dolce profumato e pungente. Per questa preparazione nel ripieno dei nostri

peperoni non viene utilizzata la carne macinata, onnipresente nelle “imbottiture” di molti ortaggi, per un motivo di fedeltà alla

ricetta originale che è frutto di una cucina povera ma saporita e genuina. Quindi, ci siamo attenuti fedelmente alla tradizione per

ottenere il giusto e gratificante sapore dal nostro piatto, con la particolare attenzione di utilizzare pochi e semplici ingredienti ma

connotati da grande qualità e freschezza.

Un altro grande classico della cucina estiva: peperoni ripieni alla mediterranea

Ingredienti

n. 20 Peperoni piccoli ( più o meno )

160 gr di parmigiano grattugiato

600 gr di mollica di pane raffermo

180 gr di provola

200 gr di dadolata di pomodoro fresco

succo fresco di pomodoro q.b

olio extra vergine di oliva q.b.

sale q.b.

Preparazione

preparate il ripieno mettendo in una ciotola la mollica di pane raffermo, il parmigiano grattugiato l’olio, il sale, il succo fresco di

pomodoro e la dadolata. Mescolate il tutto, il composto deve risultare abbastanza umido, quindi unite la provola tagliata a cubetti.

Svuotate i peperoni, eliminate i semi e lavateli poi, salate l’interno dei peperoni e riempiteli con il composto precedentemente

preparato, avendo cura di non riempirli troppo.

In una teglia, foderata internamente con apposita carta da forno, mettete un filo d’olio e sistemate i peperoni e infornateli a 180°

per un’ora.

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In genere si prestano ad essere serviti caldi ma nel caso di uno spuntino veloce vanno bene anche freddi magari in compagnia di un

vino bianco fresco, fruttato, poco morbido e molto giovane.

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Un gioiello tra le foglie gialle

di Gino Lombardo

C’è una stagione che appartiene molto all’intimità dell’anima, un periodo dell’anno in cui, scemati gli ardori dell’estate, si

rallentano i ritmi distratti del quotidiano vivere per lasciare il posto ad una inebriante sensazione di suggestioni, umori e colori.

L’aria che odora di mosti e di vino, il vento che trasporta virtuose foglie recando sentori selvatici di sottobosco e le nebbie indolenti

del mattino, suscitano emozioni che stimolano quel dolce languore dell’anima.

Ma oltre ad essere una stagione “dell’intimo essere”, l’autunno è anche un momento di grandi opportunità culinarie, un periodo nel

quale si passa dai sapori dolci e succosi dell’estate a sentori più delicati e rari. Tutta l’energia prodotta dalla precedente stagione ha

fatto si che la terra possa restituirci doni eccezionali. Dai dorati e rossi grappoli di uva ai ricchi melograni, dalle generose castagne

fino ai pregiatissimi tartufi bianchi e neri. In questo periodo, il bosco diventa protagonista per le sue spontanee produzioni di

ingredienti di pregio per la cucina. Tra questi, ci sono gioielli che vivono spesso nascosti tra le foglie gialle, sono i funghi : organismi

del sottobosco che appartengono ad un mondo veramente speciale. Al regno dei Funghi appartengono tantissime qualità di miceti,

alcuni sono particolarmente pregiati dal punto di vista gastronomico ma altri sono molto pericolosi per la salute dell’uomo. Per il

nostro palato i più ricercati sono indubbiamente l’Amanita caesarea, volgarmente conosciuta come ovolo buono e il porcino (boletus

edulis) appartenente alla famiglia dei boleti. Esistono comunque numerose altre specie di funghi eduli che risultano interessanti dal

punto di vista gastronomico. La ricerca e raccolta dei funghi deve sempre essere svolta da raccoglitori esperti onde evitare di

scambiare per buoni alcune specie pericolose. In caso di dubbio comunque, è bene rivolgersi ai centri micologici presenti in ogni

città, oppure alle strutture specifiche delle ASL. Per non correre rischi di nessun tipo, per la ricetta di questa settimana abbiamo

acquistato dal nostro ortolano di fiducia, degli ottimi esemplari di porcini di provenienza locale. Con questi “gioielli” abbiamo

realizzato una ricetta molto invitante e delicata.

Sformatini di porcini e patate in un letto morbido di nocciole

Ingredienti per 4 persone

Porcini freschi gr 650

Patate pasta gialla gr 650

Nocciole sgusciate e spellate gr 200

Mezzo bicchiere di latte

Noce moscata

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Olio evo

Burro

Parmigiano grattugiato gr 60

Emmenthal a fettine sottili gr 60

Timo e maggiorana

Sale e pepe

Due spicchi d’aglio.

Preparazione

Lavate e sbucciate le patate, tagliatele a fettine dallo spessore di circa 3 mm poi, ponetele a sbollentare in acqua salata per circa 10

minuti. Pulite con accuratezza i funghi eliminando il terriccio ed eventuali parti “mangiucchiate” quindi, tagliateli a fette

longitudinali spesse qualche centimetro. In una padella capiente ponete abbondante olio, qualche ciuffo di maggiorana e di timo e i

due spicchi d’aglio “vestiti”, poi dorate per pochi minuti i funghi a fette. Scolateli, salateli e poneteli su dei fogli di carta da cucina

per assorbire l’unto in eccesso. Una volta terminata la doratura dei funghi, nello stesso olio fate insaporire le fette di patate, che nel

frattempo avete già scolato. Una volta raffreddate le patate ed i funghi, preparate n. 8 stampini già imburrati dove verranno disposti

nell’ordine : una spolverata di nocciole grattugiate, fettine di funghi, pepe, parmigiano, fettina di emmenthal, fettine di patate e

poi ripetete nuovamente fino a colmare le terrina. Una volta pronte, le terrine possono essere infornate per una cottura di circa 30

minuti con temperatura di 180°.

Durante la cottura, preparate il letto “morbido” di nocciole frullando le nocciole con il latte e la noce moscata. Quando il composto

risulta abbastanza denso, unite due o tre cucchiai di olio evo e mantecate il tutto.

Serviteli tiepidi accompagnati magari da un Sauvignon blanc dal sapore gradevolmente aromatico, caratteristico e intenso, delicato

ma con tenore alcolico importante.-

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A TORINO ALLA SCOPERTA DEL GUSTO

di Gino Lombardo

Non è possibile andare a Torino e non immergersi nella storia e nella cultura dell’automobile, così andando alla ricerca di sapori del

Piemonte, non abbiamo resistito al fascino del «gusto» delle «quattro ruote» e ci siamo goduti una esperienza unica «viaggiando» in

un percorso che passa attraverso tre secoli di storia tra innovazione e progresso tecnologico. Una visita al Museo Nazionale

dell’Automobile di Torino è stata una ghiotta occasione per conoscere un mondo che conserva un fascino particolare, basta

addentrarsi nelle 30 sale allestite con mirabolanti scenografie che ospitano le più belle vetture mai costruite al mondo e prodotte dal

1769 fino ai giorni nostri.

Un'esperienza magica e a volte nostalgica è quella che si prova passando tra vecchie glorie come la leggendaria nostrana Itala ( che

partecipò al raid Pechino-Parigi ) e la mitica Rolls Royce. Ma che c’entra il mondo dell’auto con quello più godereccio della cucina ?

Forse in modo diretto, centra poco o nulla, ma una città bella ed elegante come Torino, eletta come una delle più importanti

capitali del gusto, non può essere rappresentata solo per il sapore unico dei suoi gianduiotti oppure per i suoi pregiatissimi vini ma

anche per tutto quello che la rappresenta nel mondo. Ma, quale è stata poi la nostra meta gastronomica nella antica patria dei

Savoia ? Ebbene, dopo aver sognato tra vecchi e nuovi miti a quattro ruote, abbiamo onorato l’appuntamento con il più grande

aristocratico ingrediente della cucina Piemontese, sua altezza il Tartufo Bianco di Alba. Questo meraviglioso tubero è originario delle

Langhe, un territorio conosciuto nel mondo per la produzione di famosi vini tipici quali il Barolo, il Nebbiolo, il Barbaresco ed il

tipicissimo Dolcetto d’Alba. Va detto comunque che l'Italia è uno dei maggiori paesi produttori ed esportatori di tartufi, infatti

esistono altre grandi zone di produzione del pregiato tartufo bianco, oltre ad Alba e alla provincia di Asti, ci sono anche la zona di

San Miniato in Toscana e quella di Acqualagna in provincia di Pesaro - Urbino. Il tartufo nero, specie molto più comune, vede invece

in Umbria una delle zone più vocate alla sua produzione.

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Ciò che rende unico e straordinario questo strano fungo simile ad una patata (tuber magnatum pico) è la quantità e qualità di

profumi ed aromi che mandano in estasi qualsiasi buongustaio del mondo. Questo piccolo grande tesoro (anche dal punto di vista

economico a causa del suo prezzo di mercato) nasce in autunno sotto terra in stretta simbiosi con le radici di alcune piante come i

pioppi e le querce.

Il tartufo generalmente viene gustato rigorosamente crudo, affettato direttamente su primi piatti fumanti, uova al tegamino e su

tutte le pietanze che riescono a coniugare il proprio aroma con quello regale dei questo eccellente ingrediente..

Per gustare appieno il prezioso tubero, la preparazione del piatto classico della tradizione è stata affidata agli «osti per un giorno»

Franca Maria ed Enzo i quali hanno anche offerto l’afrodisiaco ingrediente in questione. La ricetta proposta e realizzata è stata

quella che consente di gustare nel modo più diretto il coinvolgente ed unico profumo del tartufo.

Tagliatelle all’uovo con tartufo bianco d’Alba.

La ricetta

Per 6 persone

500 grammi di farina 00

5 uova

acqua tiepida

1 cucchiaio di olio extra vergine

sale

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Per il condimento

1 o 2 tartufi bianchi (dipende dalle dimensioni)

140 grammi di burro piemontese di montagna

grana grattugiato.

Preparazione

Impastare la farina con le uova, un pizzico di sale e un cucchiaio di olio extra vergine d’oliva, aggiungendo via via l’acqua tiepida

fino a ottenere un impasto abbastanza elastico e liscio. Far risposare per mezz’ora l’impasto dopo averlo coperto con un canovaccio

umido. Infine, stendere la pasta ( a mano o con l’apposita macchinetta ) e dopo averla fatta asciugare per qualche decina di minuti,

tagliare le tagliatelle. Stendere quindi le tagliatelle ad asciugare per una buona mezzora su un piano infarinato prima di farle

cuocere in abbondante acqua salata alla quale è stato aggiunto qualche goccia di olio per evitare di farle attaccare in cottura.

In un capiente tegame far fondere il burro a bagnomaria e aggiungere alcune fettine di tartufo per far insaporire il condimento.

Scolare le tagliatelle e farle saltare per qualche minuto con il burro fuso ed aromatizzato. Una volta impiattate le tagliatelle, prima

di servire, affettare a piacere ulteriori scaglie di tartufo.

Secondo il gradimento di ognuno, si può aggiungere il grana grattugiato.

Quando si parla di piatti con il tartufo d’Alba, l’abbinamento del vino non può che essere ovviamente «langarolo» , in questo caso la

scelta risulta ampia sia per tipologia che per zone di produzione ed annate. Un accompagnamento ideale potrebbe essere realizzato

ad esempio con una Barbera d’Alba dal profumo ampio, sapore pieno e corposo, asciutto e di piacevole bevibilità.

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Un ripieno dal sapore di mare

di Gino Lombardo

- 10.11.2011

Chissà quanti di noi da bambini hanno letto il romanzo di Jules Verne “ventimila leghe sotto i mari”,

immaginando un abisso pieno di ogni pericolo e popolato da esseri mostruosi, quasi una sorta di alieni

pronti ad assalire chiunque si avventurasse per mare. C’è un passo del romanzo, dove un calamaro gigante

attacca la fantastica nave o meglio l’avveniristico sommergibile Nautilus del comandante Nemo il quale

quest’ultimo, per un soffio non viene fatto fuori dal tentacolato animale marino. Diciamo però che per

fortuna, oltre ai famosi calamari giganti, nell’amato universo azzurro esistono anche specie di cefalopodi

di dimensioni minori e sicuramente molto più accattivanti dal punto di vista gastronomico.

I cefalopodi sono molluschi marini molto evoluti, alcuni come le seppie e i calamari, hanno una conchiglia

ridotta internamente che in altre specie come il polpo e il moscardino risulta praticamente assente. Il

nome della specie deriva dal greco kefalé, capo e podós, piede che vuol dire essenzialmente composto da

sola testa e piede. Sono creature marine predatrici che hanno dimensioni variabili da pochi millimetri fino

a diversi metri come nel caso del Calamaro gigante.

I calamari che invece interessano alla nostra rubrica, sono dei molluschi con il corpo fusiforme e allungato

con due pinne unite a formare un rombo. Hanno un mantello cilindrico di colore rosa con macchie rosse e

brune che contiene gli organi interni ed anche una conchiglia cornea (il calamo o penna) allungata a forma

di lancia. Gli occhi sono quasi laterali, i due tentacoli più lunghi hanno ventose di misura diversa e sono

parzialmente retrattili, mentre gli otto tentacoli essenzialmente più corti, non tutti della stessa

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lunghezza, hanno delle ventose disposte su due file. Si trovano in commercio sia freschi che congelati. Per

riconoscere gli esemplari freschi è necessario che le carni si presentino di un bianco brillante ed intenso

ed ovviamente anche l’odore deve risultare gradevole, fresco, marino e fortemente iodato.

I calamari sono presenti nel mare mediterraneo, dove vengono pescati lungo le nostre coste anche da

terra. Dal punto di vista nutrizionale i cefalopodi sono specie molto magre, il loro contenuto in grassi si

aggira infatti intorno a 2 grammi per ogni etto di parte edibile, sono altresì ricchi di acidi grassi insaturi

molto utili al nostro benessere.

Dal punto di vista gastronomico l’uso del calamaro segue destini diversi soprattutto in base alle dimensioni

degli esemplari utilizzati. Quelli più piccini vanno bene per essere fritti (spesso in compagnia di gamberi)

oppure lessati e conditi con intingoli vari, mentre quelli di dimensioni maggiori vanno bene alla griglia, al

forno oppure ripieni.

Noi, per questo appuntamento abbiamo pensato di proporre i nostri calamari, che abbiamo trovato molto

freschi e di medie dimensioni, interpretando una ricetta classica della nostra tradizione ed anche in una

preparazione alla griglia per chi ama i sapori integri ed unici.

La preparazione alla griglia non necessità di particolari spiegazioni, unico accorgimento quello di aprire a

“lenzuolo” il corpo dei calamari e soprattutto utilizzare una brace molto “dolce”.

La ricetta: Calamari ripieni in umido con gamberoni.

Ingredienti per 4 – 5 persone

1 kg di calamari freschi di medie dimensioni;

500 gr di gamberoni rossi freschi;

200 gr di pane raffermo;

un uovo;

2 spicchi d’aglio;

una cipolla rossa,

400 gr di pomodori pelati;

60 gr di parmigiano reggiano grattugiato;

olio extra vergine di oliva;

prezzemolo;

sale e pepe q.b.

Procedimento

Per prima cosa bisogna pulire il pesce : staccare la testa in modo che anche le interiora si stacchino, dopo

di che bisogna eliminare la pelle scura che si trova all’esterno e quindi pulire accuratamente la parte

interna del corpo. Eliminare dalla testa la parte con gli occhi ed il becco e quindi tagliare a pezzettini

tutti i tentacoli che vanno messi da parte. Pulite alcuni gamberoni, eliminando la testa ed il carapace, e

dopo averli tagliati a tocchetti, unitene una parte ai tentacoli.

In un mixer tritare la mollica di pane, l’aglio, il prezzemolo e poi mescolare il tutto con il parmigiano, il

sale, ed il pepe. In un tegame porre a soffriggere lentamente con olio evo i tentacoli già precedentemente

tagliuzzati con i gamberoni già sgusciati.. trascorsi un decina di minuti di cottura, togliere dal fuoco

calamari e gamberoni, farli raffreddare e poi unire il tutto al composto preparato con la mollica unendo

infine anche l’uovo intero. Amalgamare bene il tutto che servirà per il riempimento delle sacche dei

calamari. Dopo aver riempito le sacche, chiudere con uno stecchino la parte aperta dei molluschi,

procedere ad una rosolatura in padella con olio evo per alcuni minuti. Dopo aver passato i nostri calamari

in forno caldo a 180° per una ventina di minuti, farli raffreddare e quindi tagliarli a dischi di 3 cm di

spessore. In un capiente tegame, far rosolare una cipolla tritata finemente, poi aggiungere i gamberoni sia

interi che quelli a pezzetti, la polpa di pomodoro ed infine i calamari. Aggiustare di sale e pepe cuocere a

fuoco lento il tutto per una quindicina di minuti.

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Considerato il risultato quasi sempre eccellente, è necessario che il vino da scegliere quale opportuno

abbinamento del piatto, sia caratterizzato da un sapore asciutto, armonico e gradevolmente frizzante

come ad esempio un Pinot Bianco dei Colli Bolognesi.

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Arance, pollo ed è subito festa.

di Gino Lombardo

Chissà perché nei ricordi dell’infanzia, quelli legati alle feste, il pollo era un cibo che non mancava quasi mai. Il pollo, nella

tradizione gastronomica si è prestato sempre a ghiotte preparazioni che incontravano il gusto di tutti, grandi e piccini. Oggi, a causa

di una globale diffusione di nuovi ingredienti alimentari e di nuove mode culinarie, il pollo è stato a volte relegato ingiustamente

come cibo di seconda serie in quanto più abbordabile a causa del suo prezzo abbastanza conveniente. Inoltre, a causa del proliferare

negli ultimi decenni di allevamenti intensivi, che hanno prediletto la linea della quantità a scapito (non sempre) della qualità, questo

tipo di carne è stata vista con immotivato sospetto. Il pollo è invece una risorsa alimentare di grande importanza, ed oggi lo sanno

benissimo i produttori avicoli italiani che sono impegnati nella ricerca di tecniche di allevamento molto avanzate per garantire una

elevata sicurezza igienico - sanitaria ed una migliore qualità delle carni. Inoltre, è di tutto rispetto il valore nutrizionale di queste

“carni bianche” ricche di proteine ad alto valore biologico e soprattutto, cosa di non poco conto, con basso contenuto di grassi.

Ma quanto storia gastronomica è stata scritta su questo gustosissimo ingrediente ? tantissima, già da quasi cinque secoli il pollo era

presente nei banchetti dei nostri antenati, figurava sia nei convivi “luculliani” dei legionari romani e sia nelle tavolate delle grigie

dimore medioevali di mezza Europa. Ma oggi, è ancora un ingrediente di grande interesse per la cucina contemporanea ? Lo è

certamente infatti, a questo fine e per rendere il giusto valore a questo cibo, abbiamo realizzato una ricetta tipica delle giornate di

festa come quelle che stanno per essere santificate nelle prossime settimane.

La ricetta è un classico della tradizione che in questa versione risulta “ingentilita” dalla presenza di un ingrediente di stagione come

le arance.

POLLO ALL'ARANCIA RIPIENO

IGREDIENTI

Un pollo intero di circa 1,2 – 1,4 Kg

il succo di 4 o 5 arance

200 gr di manzo macinato

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2 salsicce aperte e sbriciolate

100 gr di parmigiano grattugiato

200 gr di pane ammorbidito

50 gr di prosciutto cotto macinato

50 gr di mortadella macinata

una manciata di prezzemolo fresco tritato

1 spicchio d’aglio sminuzzato finemente

100 gr di burro

sale e pepe q.b.

PREPARAZIONE

Va detto, innanzitutto che la procedura più impegnativa è quella di disossare il pollo. Infatti, per la corretta esecuzione della

ricetta, il volatile deve essere “svuotato” dall’interno dalle ossa, comprese quelle delle cosce, senza tagliare o danneggiare i tessuti.

Questa operazione non è semplice quando viene fatta per la prima volta e soprattutto se non si è padroni della tecnica e della giusta

manualità. In caso di palese difficoltà, si può ricorrere a polli disponibili sul mercato già disossati.

In una terrina capiente, amalgamare tutti gli ingredienti, ad eccezione del succo di arance e del burro, quindi con il composto

ottenuto riempire il pollo in modo molto uniforme. Con un ago e del filo da cucina, “suturare” le aperture inferiori e superiori del

volatile, avendo cura che non rimangano tagli o aperture che possano far fuoriuscire parte del ripieno.

Adagiare il pollo dentro pirofila da forno, poi porre il burro a fettine sopra il nostro volatile e infornare a 200°. Durante la cottura

girare il pollo per farlo dorare da ambo i lati e una volta ottenuta la giusta doratura, irrorarlo con il succo di arance che integrerà il

condimento già presente. Bagnare spesso il pollo durante la cottura, con il condimento ottenuto, onde consentire un corretta

distribuzione del fondo stesso. In linea generale, la cottura dura mediamente 1 ora e 15 minuti ma molto dipende dalle dimensione

del pollo e dalle caratteristiche del forno. Una cosa molto importante è quella di evitare durante la cottura eventuali lacerazioni

della polpa e della pelle.

Servire tiepido condito con il fondo di cottura filtrato e guarnire con delle fettine di arance.

Essendo un piatto molto strutturato a causa del ripieno, è consigliabile la compagnia di un vino dal sapore armonico, asciutto e

giustamente tannico con odore vinoso ed ampio e con gradazione contenuta come ad esempio un Montecucco Rosso.

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Un dolce rotolo di bontà

di Gino Lombardo

Dall’inizio dei tempi la mela è stata al centro di vicende molto significative, Adamo tanto per incominciare, il capostipite

dell’umanità, su “consiglio” della sua compagna Eva, decise di addentare l’unico frutto proibito del giardino dell’Eden, con le

conseguenze che tutti conosciamo. Nei tempi a seguire, nell’era classica, la discordia si scatenò durante un banchetto nell’Olimpo

degli Dei, tutto per colpa di una mela d’oro, anzi per meglio dire di un pomo (il pomo della discordia) che Paride scelse di donare ad

Afrodite la quale gli aveva promesso l'amore di Elena, la donna più bella della terra. Scelta che scatenò l'ira di Era, di Atena e

soprattutto la guerra di Troia. Le cronache d’altri tempi narrano anche della mela che un leggendario eroe svizzero, tale Gugliemo

Tell, mise sulla testa del figlio e che centrò con una freccia. Anche il mondo ovattato della favole ci propone una mela avvelenata

che viene offerta da una regina cattiva con sembianze da vecchia venditrice a una ingenua Biancaneve. Per fortuna, che in seguito

al fortuito intervento di un principe azzurro, si riesce chissà come a far tornare in vita la prosperosa fanciulla.

Anche oggi questo frutto ( è in realtà un falso frutto, la cui polpa carnosa deriva dalla saldature e dallo sviluppo dei tessuti fiorali.

Infatti, ciò che noi mangiano è in realtà il ricettacolo fiorale particolarmente sviluppato) è ricorrente negli usi e costumi attuali.

Tutti conoscono il detto “una mela al giorno leva il medico di torno”, ma forse non tutti sanno che questo meraviglioso prodotto

della natura ha veramente delle proprietà benefiche ormai accertate su larga scala. Infatti, l’assunzione di due mele al giorno

consente di ridurre in modo significativo il tasso di colesterolo nel sangue. Inoltre, la mela ha proprietà digestive a causa del

contenuto di acido malico che favorisce la digestione prevenendo acidità e gonfiore addominale. L’acido malico, in particolare è in

grado di favorire e velocizzare il processo digestivo degli zuccheri e l'attività epatica.

Le mele sono presenti in natura con più di seimila varietà, differenti per sapore, colore, consistenza, e contenuti nutrizionali. Le

“generose” mele sono molto coltivate in tutto il territorio italiano, ma sono generalmente concentrate nelle regioni montane e

pedemontane, in modo particolare in Trentino/Alto Adige, Valle d'Aosta, Piemonte, e in Veneto con punte di eccellenza anche in

Campania. Dalla mela si ricavano tanti prodotti eccellenti : succo fresco, Sidro, aceto, liquori, etc.

La letteratura gastronomica è molto ricca di ricette a base di mele, dai dolci più tradizionali fino a stuzzicanti primi piatti o

appetitose preparazioni a base di carne generalmente di maiale. Tra le ricette classiche abbiamo scelto per questo appuntamento

quella dello Strudel, un dolce tipico del Trentino Alto Adige, ma con origini Turche. Grazie alle numerose coltivazioni di mele

presenti sul suo territorio, il Trentino Alto Adige è ormai luogo eletto per la preparazione e ovviamente la degustazione di questo

delizioso dolce composto da un rotolo di pasta che oltre all’ingrediente fondamentale in questione contiene nel ripieno anche

uvetta, pinoli e cannella.

Strudel di Mele

Ingredienti

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Per la pasta: 300 gr di farina 00; 100 gr di zucchero: 80 gr di burro; 1 uovo; un pizzico di sale; circa 80 ml di latte; 1 bustina di

vanillina.

Per il ripieno: 4 mele Golden Delicious, una tazzina di uva sultanina ammollata in acqua calda e limoncello; un pugno di pinoli; un

pizzico di cannella in polvere; 120 gr di confettura di fragole, qualche cucchiaio di zucchero.

Preparazione

Mescolare la farina con lo zucchero e la vanillina, poi amalgamare il tutto con il burro fuso, il latte, l’uovo leggermente sbattuto ed

un pizzico di sale. Impastare fino ad ottenere un composto morbido, liscio ed omogeneo che non risulti appiccicoso alle mani. Dopo,

formare un panetto da avvolgere con la pellicola per alimenti e riporlo in frigorifero per lasciarlo “riposare” per almeno mezzora.

Sbucciare le mele e affettarle sottilmente, spolverizzarle con una manciata di zucchero e dopo farle leggermente intiepidire in un

tegame con l’aggiunta di un filo d’acqua. Unire i pinoli, l’uvetta ed un pizzico di cannella ed amalgamare il tutto. Stendere la pasta

per ottenere una sfoglia abbastanza sottile e porla sopra dei fogli di carta da forno. Spalmare la pasta con la confettura, quindi

versare al centro il ripieno a base di mele già preparato prima, distribuendolo in modo uniforme. Con l’aiuto della carta da forno

arrotolare la pasta con il suo contenuto fino ad ottenere una sorta di “filone”.

Pennellare la superficie dello Strudel con uovo sbattuto e latte, cuocere quindi in forno a 170° max fino alla doratura completa. Una

volta raffreddato, spolverare lo Strudel con zucchero a velo.

Con il nostro Strudel, un Vino Santo del Trentino della valle dei laghi, servito in piccoli calici può dare ottime sensazioni e connubi

unici.

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Croccanti delizie di Natale

di Gino Lombardo

Quando arriva la festa più attesa dell’anno, si concretizza l’occasione per ritrovare quei momenti, quelle

sensazioni che tanto sono legati alla nostra tradizione più antica e sincera. Natale è senza dubbio

l’occasione per dare modo a tutti noi di fermarsi un momento per farsi avvolgere dall’aria di festa e quindi

“rallegrare l’anima ed il core”. Anche, quando in momenti difficili come quelli che stiamo attraversando,

la mente di ognuno è offuscata da pensieri non sempre lieti, questo appuntamento dell’anno può essere

un motivo per tutti per ripartire con ritrovata speranza.

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Durante quest’anno, grazie a Paese Sera, è stato dato uno spazio a questa rubrica che, come era nel mio

intento, spero possa aver regalato momenti di spensierata lettura a tutti quelli che in qualche modo ne

hanno ravvisato interesse e curiosità.

Mi sembra giusto quindi, voler dire grazie ai lettori che con le loro critiche e suggerimenti, ci hanno dato

motivo e stimolo per continuare a scrivere di un argomento così bello ed attuale quale la cucina della

nostra tradizione italica.

Per questa occasione così importante, abbiamo scelto un argomento legato alla tradizione del Natale e

quindi un prodotto che raramente manca sulle nostre tavole in questi giorni imbandite a festa : il torrone.

Il torrone è un prodotto ottenuto dalla cottura e lavorazione di zucchero e mandorle tostate, con

l'aggiunta di miele, albume d'uovo e in alcuni casi anche oli essenziali e spezie. Viene prodotto in quasi

tutte le regioni d’Italia e per questo motivo presenta caratteristiche diverse legate ai luoghi di

produzione.

In questo articolo, tratteremo di un torrone di suprema qualità che per la sua tipicità, la sua antichissima

tradizione e, non ultimo, il metodo di lavorazione rimasto originale nelle tecniche e negli ingredienti,

risulta essere un prodotto molto ricercato da tutti gli intenditori del mondo.

Questo torrone viene prodotto tutto l’anno nella ridente cittadina costiera di Bagnara Calabra (RC) da

parte di pochissimi produttori di provata esperienza storica i quali, non si sono mai lasciati tentare da una

espansione produttiva su larga scala (con possibile ricaduta sulla qualità del prodotto) e hanno preferito

rimanere in ambito artigianale proprio per salvaguardare la tipicità del prodotto stesso.

A rendere eccellenti ed originali i torroni di Bagnara Calabra sono soprattutto gli ingredienti, le mandorle

ed il miele che vengono lavorate artigianalmente per mantenere inalterati gli antichi sapori della

tradizione. Inoltre, particolari tecniche di lavorazioni consentono di ottenere delle tipicità uniche quali il

torrone “bacetto” e la “martiniana.”

Particolare non trascurabile di questo torrone è il suo legame con il territorio, soprattutto per quanto

riguarda le materie prime utilizzate. Le caratteristiche organolettiche del prodotto dipendono moltissimo

anche dalle essenze naturali adoperate e che vengono estratte in un territorio dove si mescola il profumo

del mare con quello altrettanto intenso di agrumeti e frutteti vari.

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Qualche cenno storico

Come risulta da alcuni libri antichi, già nel 1700 i monaci dell’allora locale abbazia erano esperti

conoscitori dell’arte dolciaria e lavoravano anche il torrone. Producevano un torrefatto piuttosto scuro,

colore manto di monaco, chiamato per l’appunto martiniana. La prima fabbrica di torrone a Bagnara

comparve dopo la metà del 1800 grazie anche all’apporto di un’antenata, di origine spagnola, di uno degli

attuali produttori. Oltre al torrone, si è tramandata anche la tradizione di dolci tipici natalizi quali : le

“susumelle”, i “pittipì” (tipici biscotti morbidi e speziati molto simili al panspeziato di origine nord

europea) e i mostaccioli (diversi da quelli napoletani) che consistono in fagottini di cioccolata con un

ripieno di frutta candita, mandorle, miele e fichi secchi.

Chiaramente le ricette sono tramandate da padre in figlio e gelosamente custodite negli antichi e

profumati laboratori.

Infine, impegniamo le ultime righe di questo articolo, per gli Auguri di Buon Natale e di un munifico nuovo

Anno da parte mia e della redazione a tutti i nostri lettori ed alle loro famiglie che possano essere sempre

più numerosi ed anche più lieti nel prossimo tempo a venire.

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Il piacere del gusto senza "spighe"

di Gino Lombardo

Spesso leggendo le etichette dei prodotti alimentari, vi sarà capitato di vedere un simbolo raffigurante un

cerchietto barrato con una spiga all’interno. In questo caso vi siete imbattuti in un prodotto senza

“glutine” ovvero: senza quella proteina contenuta in alcuni cereali (frumento, orzo, avena, segale), che

di solito è presente sulla nostra tavola e che se ingerita da soggetti geneticamente intolleranti, questi

ultimi possono conseguire seri danni al proprio organismo.

Questo tipo di intolleranza alimentare denominata celiachia è più diffusa di quanto si possa credere nella

popolazione del nostro paese. E’ una patologia che spesso si manifesta sin da bambini ma in alcuni casi,

sempre più frequenti, viene diagnosticata in età più matura. In attesa di vaccini che sono in via di

sperimentazione, l’unica cura efficace per la celiachia consiste in una dieta priva di glutine. Vivere senza

glutine non è difficile, soprattutto ai tempi attuali, in quanto ormai esiste un ampio mercato di prodotti

alimentari specifici reperibili, oltre che nelle farmacie, anche nei supermercati e addirittura negli

autogrill. Certo, è necessaria una grande attenzione sia nella fase di acquisto dei cibi che nella fase di

trasformazione o di cottura. Infatti, bisogna adottare delle accortezze particolari per evitare di

“contaminare” prodotti senza glutine con altri che ne contengono specificatamente. Ad esempio, non si

può usare lo stesso mestolo, che abbiamo usato per girare una normale pastasciutta, per mescolare un

risotto destinato ad un celiaco. Così come bisogna lavarsi accuratamente le mani, se abbiamo manipolato

della farina di frumento, prima di toccare cibi senza glutine o “gluten free” per dirla all’anglosassone.

Dal punto di vista della gastronomia, la nuova esigenza di dover cucinare senza questa proteina, oltre ad

aver rappresentato una sfida, è diventata anche una opportunità per molti professionisti della cucina.

Infatti, si è avviata una serie di sperimentazioni, che mi hanno visto coinvolto a volte personalmente, su

preparazioni gastronomiche che non hanno nulla da invidiare alle ricette contenenti glutine. Inoltre, i

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prodotti alimentari privi di glutine sono sempre più diffusi e spesso vengono acquistati senza distinzione

dai consumatori che non si accorgono della differenza. Ad esempio, una maionese o una marmellata senza

glutine è quasi certamente molto digeribile e altrettanto gustosa quanto un prodotto similare contenente

la proteina in questione. Per questo, sono sempre di più i consumatori, che pur non soffrendo di questa

patologia, prediligono prodotti alimentari confezionati privi di glutine.

Per testimoniare quanto detto e soddisfare il nostro palato, abbiamo pensato di realizzare un dolce

classico e genuino come la torta di mele utilizzando ingredienti senza glutine (in questo caso la farina ed il

lievito chimico per dolci, perché gli altri ingredienti non ne contengono per natura ).

Torta di mele con fichi secchi

Ingredienti

250 gr di farina senza glutine

6 uova

4 mele

1 bustina di lievito chimico senza glutine

150 gr di zucchero

150 gr di burro

12 / 14 fichi secchi ammorbiditi nel vino passito

un cucchiaino di estratto puro di vaniglia

1 limone

Preparazione

In un terrina unire i 6 tuorli con lo zucchero, il lievito, il burro ammorbidito e la vaniglia mescolando

molto bene gli ingredienti, di seguito aggiungere lentamente la farina fino ad ottenere un impasto

omogeneo. Dopo aver montato a neve gli albumi, unirli al composto rimestando dal basso verso l’alto per

inglobare abbastanza aria. Dopo aver tagliato le mele a tocchetti, porle in una casseruola con un ricciolo

di burro e una spolverata di zucchero per scottarle per qualche minuto a fuoco medio.

Distribuire una parte di impasto sul fondo di una teglia da forno imburrata ed infarinata (con la stessa

farina senza glutine), di seguito aggiungere le mele ed i fichi secchi ammorbiditi nel vino. Infine, versare

la parte restante dell’impasto in modo da coprire in modo omogeneo il tutto.

Infornare a 180° per circa 40 minuti.

Il risultato sarà invitante, goloso e soprattutto... nessuno si accorgerà della mancanza del glutine.

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Un inno alla Gioia del palato

di Gino Lombardo

Si sa, quanto più l’inverno è rigido, tanto più sembra

lungo e noioso. In questi casi si fantastica pensando a posti assolati, paesaggi mediterranei e perché no ai

sapori che ricordano stagioni più tiepide. E allora perché non farci aiutare dalla tradizione gastronomica,

andando a realizzare ricette che in qualche modo riescano a farci evocare quei sentori che

inequivocabilmente rimandano il nostro animo a pomeriggi assolati e odorosi di erbe aromatiche. Trovare

ingredienti fuori stagione, a volte può rappresentare una opportunità nei casi in cui abbiamo necessità di

tirare fuori qualche piatto che riesca a sollevare, oltre il nostro appetito, anche una parte di spirito.

Insomma una sorta di stimolazione sensoriale che serve a dare un po’ di risveglio dal torpore invernale nel

quale inevitabilmente si cade.

Pensando a quale ricetta affidare il nostro risveglio, mi è venuto in mente un piatto tipico siciliano che

deve il suo nome ad un pesce che in primavera si avvicina alle coste meridionali per riprodursi : la

lampuga, che in tutto il sud viene chiamato “capone”, forse per la testa molto sviluppata. La cosa strana

però, è che in questo piatto, della prelibata carne della lampuga non c’è traccia ma invece c’è nel nome

stesso della preparazione: la caponata. Sembra che la ricetta originaria consistesse in un una preparazione

in agrodolce del pesce, una sorta di umido ricco di ingredienti vari quali capperi ed olive. Era un piatto

molto apprezzato e ricercato ma poco disponibile sulle tavole della povera gente che ricorreva a sostituire

la lampuga con più abbordabili prodotti dell’orto quali le melanzane. Questa “variante” decretò il

successo, ormai diffuso, della “caponata”, un piatto che è diventato un inno alla gioia del palato. Va

detto, che in alcune zone della Calabria, per caponata si intende tutt’altra cosa, ovvero un piatto estivo

composto da pane “biscottato” ammorbidito con acqua e cosparso di olio di oliva, origano, basilico, sale e

pezzettini di pomodoro fresco. In genere è guarnito anche da qualche oliva verde e filetti di alici sott’olio.

Tornando invece alla caponata di origine sicula, tutto ruota intorno all’ingrediente principale, la

melanzana mentre, la ricetta viene proposta in varie interpretazioni che variano da zona a zona. Anche

l’industria alimentare legata alla grande distribuzione ha sfruttato il successo di questa preparazione,

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tanto da proporla in vasetti di vetro già pronta da gustare. La caponata si presta benissimo ad essere

servita come antipasto o contorno, ma sempre di più è utilizzata come secondo alternativo a piatti più

impegnativi.

Caponata di Melanzane

Ingredienti

2 belle melanzane viola

Olio per friggere

3 cipolle fresche

2 spicchi d’aglio

1 costolina di sedano

200 grammi olive verdi

3 cucchiai di capperi sott’aceto

450 gr di pomodori pelati

olio extra vergine di oliva

Sale e pepe q.b.

Una manciata di pinoli

1 bicchiere di aceto di vino bianco

2 cucchiai di zucchero

Preparazione

Abbiamo sbucciato le melanzane e le abbiamo tagliate a dadini, di seguito le abbiamo leggermente

infarinate con farina senza glutine (che rende molto asciutto il fritto e consente a tutti di gustare la

preparazione) e le abbiamo fritte in olio per friggere. Una volta pronte e ben dorate, abbiamo riposto le

nostre melanzane sopra della carta assorbente da cucina. In una padella abbiamo fatto appassire con olio

evo, le cipolle affettate, il sedano a pezzetti e i capperi. Alcuni minuti dopo, abbiamo sfumato con l’aceto

e lo zucchero. Abbiamo aggiunto i pelati, le olive e l’aglio amalgamando il tutto a fuoco molto lento. Dopo

circa 10 minuti, abbiamo aggiunto le melanzane, i pinoli, una spolverata di pepe macinato al momento e il

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sale necessitante. Abbiamo proseguito la cottura giusto il tempo per far amalgamare gli ingredienti, circa

dieci minuti.

La tradizione consiglia di gustare la caponata il giorno successivo alla preparazione, dopo averla fatta

riposare in frigo

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Nero tormento e fondente estasi

Soprattutto per chi è alla ricerca di una linea perfetta, si propone spesso un “tormento” che nasce dalla

tentazione esercitata da parte di cibi fortemente accattivanti per il palato. Una tentazione scura,

profumata e a volte “fondente” è rappresentata dal cioccolato in tutte le sue forme ed in tutte le

combinazioni possibili. Lo stesso “cibo degli Dei”, così spesso definito, ha capacità di generare “estasi”

per i sensi del gusto e soprattutto una sensazione generale di soddisfazione e di appagamento conseguente

alla produzione indotta di “endorfine” da parte del nostro organismo. Ma tutti gli amanti del cioccolato (e

siamo in tanti), possono stare tranquilli sul consumo e quindi gustarlo con buona pace della coscienza

perché questo alimento si è dimostrato un ottimo alleato della salute. Basti pensare che è un efficace

antiossidante, combatte l’ipertensione, protegge il sistema cardiovascolare e, cosa non di poco conto,

aiuta molto l’umore. Tutto questo è merito dei polifenoli antiossidanti che assorbono i cosiddetti radicali

liberi che, a loro volta, sono causa dell’invecchiamento.

Ora, va chiarito che l’assunzione giornaliera di cioccolato non può essere smodata e senza controllo,

perché questo potrebbe essere causa di superamento dell’apporto calorico richiesto dall’organismo con

conseguenti problemi di sovrappeso.

Appare singolare il fatto che il cioccolato, consumato in dosi giuste, oltre ad aiutare la nostra salute

migliora comunque anche la nostra la vita coccolando il nostro palato, ma attenzione perché il nostro

“cibo degli dei” alla lunga potrebbe dare dipendenza.

Bisogna fare molta attenzione nell’acquisto e nella scelta del cioccolato che deve essere preferibilmente

nero e fondente poiché in tal caso ci sarà un alto contenuto di flavonoidi, elementi molto utili per il

nostro organismo che hanno un effetto rilassante sulle pareti dei vasi sanguigni. Ma spesso, succede che le

aziende produttrici di cioccolato, tendono a trattare molto il cacao riducendo la presenza dei flavonoidi a

vantaggio di zuccheri e grassi. Questa pratica è adottata a volte per il fatto di rendere più accattivante e

piacevole il sapore eliminando così il tratto amaro tipico della presenza di flavonoidi. Quindi è sempre

consigliabile prima dell’acquisto una attenta lettura delle etichette presenti sui prodotti.

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Dal punto di vista gastronomico, si renderebbe necessario istituire (se non già attivo) un corso di laurea

sull’arte della lavorazione del cioccolato o cioccolata che dir si voglia, tante sono le implicazioni e

preparazioni possibili con questo ingrediente. Dalle tradizionali uova di Pasqua, alle praline ripiene e non

ultimo l’uso anche in cucina come ingrediente di tutto rispetto. Tra gli abbinamenti più riusciti ci sono

quelli con la frutta fresca, le scorzette d’arancia candite, le nocciole e il peperoncino piccante.

Detto questo, non potevamo resistere alla voglia di farci “estasiare” dal divino alimento e quindi ci siamo

preparati una “salutare” torta al cioccolato ..

Torta al Cioccolato glassata (versione senza glutine)

Ingredienti

80 gr di burro

200 gr di farina senza glutine

100 gr di zucchero

100 gr di cioccolato fondente

80 gr di cacao amaro in polvere

un pizzico di sale

1 bustina di lievito senza glutine

180 ml di latte intero

1 bustina di vanillina

4 uova

ciliegine sciroppate per guarnire

Per la glassa

7 cucchiai di cacao amaro

7 cucchiai di latte

7 cucchiai di zucchero

60 gr di burro

Preparazione

In una terrina mescolare il burro ammorbidito con lo zucchero fino a renderlo cremoso. Separare i rossi

d’uovo ed unirli al burro ed allo zucchero, mescolando fino ad amalgamare il composto. Mentre si fa

sciogliere a bagnomaria il cioccolato fondente, montare a neve i bianchi d’uovo. In una terrina mescolare

la farina, la vanillina, il lievito, il cacao ed il pizzico di sale. Poi, unire i bianchi d’uovo e lavorare

l’impasto fino a renderlo omogeneo. Successivamente, unire all’impasto il cioccolato sciolto a bagnomaria

ed infine il composto di burro, zucchero e tuorli.

Infornare a 180° con forno statico per 45 minuti circa.

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Per la preparazione della glassa, sciogliere il burro in un pentolino a fuoco bassissimo, rimestando

continuamente. Unire lo zucchero ed il cacao amaro, poi aggiungere via via il latte. Una volta raggiunta la

consistenza cremosa dovuta (si dice che il composto “scrive”), togliere la glassa dal fuoco e versarla sulla

torta già raffreddata. Stendere la glassa aiutandosi con una spatola.

Lasciare raffreddare e servire la torta dopo averla guarnita a piacere.

...non per gola, ma solo per necessità di polifenoli e flavonoidi, s’intende...

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Una delicata presenza in cucina

di Gino Lombardo

- 23.04.2012

Spesso, quando per vari motivi ci troviamo costretti a rivedere la nostra dieta al ribasso di calorie e

colesterolo, ci imbattiamo in un alimento che notoriamente non ispira pietanze succulente o ricette

“trasgressive” ma invece evoca regimi alimentari quasi punitivi. Infatti, nelle diete ipocaloriche o

comunque che impongono restrizioni di vario tipo, troviamo sovente come elemento la zucchina. Il motivo

è molto semplice in quanto questo ortaggio (cucurbita pepo) è quasi completamente privo di calorie e

soprattutto senza grassi e povero di sale. Rappresenta comunque un’ottima fonte sia di vitamina E che di

vitamina C e di enzimi vari. Inoltre, la zucchina oltre ad essere un alimento rinfrescante e molto

digeribile, ha una azione lassativa, diuretica ed antinfiammatoria.

Questo generoso ortaggio si produce in tutta l’area del mediterraneo ed è tipico del periodo primaverile

ed estivo, anche se ormai si trova in commercio praticamente tutto l’anno.

Esistono varie specie di zucchine, con variazione di colore ( che va dal verde chiaro a quello scuro ) e

forme sia cilindriche (più o meno allungate) che tonde. La buccia può essere striata, come la Zucchina

Fiorentina, o uniforme come la Zucchina Nera di Milano.

Per la cronaca, in cucina la miglior fama fino ad oggi è stata raggiunta, più che dalle zucchine, dai suoi

fiori che risultano spesso inseriti in ricette ormai celebri come ad esempio i tagliolini cacio e pepe serviti

in una famosa “trattoria” romana.

Ma, ritornando alla nostra delicata zucchina, è bene sottolineare la sua dignità ed importanza nell’uso

gastronomico che va oltre il consumo prescritto in ferree diete o comunque in regimi alimentari

particolari. Questo prodotto della natura, negli ultimi anni ha ritrovato comunque una sua giusta

rivalutazione nel mondo del gusto, sia nella preparazione di ricette tipicamente vegetariane che in

abbinamenti con carne o pesce.

In considerazione quindi di tutte le virtù della zucchina, abbiamo pensato di preparare per l’occasione un

tortino dal gusto mediterraneo e molto invitante :

Tortino di zucchine ed alici

Ingredienti per 4 persone:

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1 kg di alici fresche;

500 gr di zucchine fiorentine;

80 gr di ricotta salata grattugiata;

150 gr di pane raffermo;

un ciuffo di prezzemolo;

pane grattugiato;

uno spicchio d’aglio;

olio extra vergine di oliva;

sale e pepe.

Preparazione:

pulire le alici eliminando testa ed interiora poi, tagliare le zucchine per lungo dopo averle lavate ed

asciugate. Le fettine devono avere uno spessore massimo di due o tre millimetri e qualora possibile è

preferibile tagliarle tramite un’affettatrice. Lasciar asciugare le zucchine in forno tiepido e ventilato per

una mezz’oretta circa in modo da fargli perdere una abbondante parte di acqua. Nel frattempo, frullare il

pane raffermo con la ricotta, il prezzemolo, l’aglio, una presa di sale, un pizzico di pepe ed un filo d’olio.

Disporre in un teglia oleata, una spolverata di pangrattato, uno strato di zucchine, uno di composto già

frullato e uno di filetti di alici. Continuare nello stesso ordine fino al completamento di tutti gli

ingredienti ed in chiusura cospargere a pioggia con pangrattato ed un filo d’olio.

Cuocere in forno a 180° per circa 40 minuti e comunque fino alla doratura voluta.

Il nostro tortino, servito abbastanza tiepido, può trovare un giusto abbinamento con un bianco dall’odore

fine, penetrante, fruttato dal sapore asciutto, fresco e di buona persistenza come una Vernaccia di San

Gimignano.

Gino Lombardo

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Un afrodisiaco con i

"muscoli"

di Gino Lombardo

- 2012-05-26

Errore. Riferimento a collegamento ipertestuale non valido.

Spesso, quando si sente parlare di cibi afrodisiaci, si pensa a pietanze che hanno il potere di aumentare

le possibilità di successo durante gli incontri “ravvicinati” con il nostro partner. Quanto questo possa

essere vero, è tutto da dimostrare, ma quello che invece è palesemente inconfutabile è l’azione che

hanno alcuni cibi nel risollevare il nostro stato d’animo o addirittura darci quella marcia in più che

spesso serve in particolari momenti. Le spezie ad esempio sono sempre state annoverate tra quegli

ingredienti che hanno la proprietà di risvegliare stagionati torpori della nostra anima e non solo.

I frutti di mare, soprattutto per la loro peculiarità di essere racchiusi dentro una conchiglia hanno

sempre stuzzicato la fantasia di una eterogenea platea di commensali. Ma se le proprietà afrodisiache

nel senso più stretto del termine, rientrano nelle aspettative di improbabili amanti, sicuramente ci sono

piatti e ricette che hanno la potenzialità di appagare talmente il gusto con il risultato finale di

predisporre bene lo spirito a piaceri di altra natura. Una cena particolarmente raffinata e gustosa è

sicuramente un ottimo preludio a momenti di effervescente “euforia”.

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Errore. Riferimento a collegamento ipertestuale non valido.

Scrittori come Manuel Vazquez Montalban ed Isabel Allende hanno sapientemente infarcito la

letteratura di divagazioni che vanno dalla buona cucina alla sfera dell’eros. Ora, senza addentrarci in

pruriginosi campi che non attengono strettamente alla scienza gastronomica, tratteremo di un

ingrediente che oltre a stuzzicare molto il nostro palato, sa essere un protagonista su una tavola

dall’impronta “goduriosa”. La cozza, frutto di mare molto facile da reperire, è un mollusco bivalve lungo

mediamente fino a 10-11 cm, dotato di una conchiglia di colore nero con sfumature violacee all'esterno e

di colore madreperla all'interno. Questi molluschi (denominati anche muscoli o peoci) vengono prodotti

in allevamenti presenti in diverse regioni d’Italia (Puglia, Emilia Romagna, Campania, Liguria, e

Sardegna) e rappresentano una notevole risorsa economica per il nostro paese che vanta una

produzione annua di circa 120 tonnellate.

Esistno varietà diverse di cozze distinte in base alla loro provenienza, ad esempio nel nostro mare

Mediterraneo le più diffuse sono il il Mytilus galloprovincialis e la Modiolus barbatus (cozza pelosa)

caratterizzata da una peluria molto fitta presente sulle valve.

In commercio sono disponibili sia fresche che congelate e va detto che bisogna porre moltissima

attenzione durante l’acquisito di quelle “vive” verificando che le valve siano integre e perfettamente

chiuse, inoltre una particolare valutazione e disamina va fatta sul colore e sull’odore. Per motivi di

natura sanitaria, è consigliabile consumare le cozze da cotte evitando di mangiarle crude per non

imbattersi in una tossina che può essere eliminata soltanto previa cottura del mollusco.

C’è una ricetta, tra le tante valide e sperimentate felicemente, che ha sempre riscosso grande successo

tanto che ormai ha varcato tutti i confini ed è sempre tuttora apprezzata da moltissimi. Questo piatto,

prevede una attenta preparazione e una scelta accurata dell’ingrediente fondamentale, in questo caso le

nostre cozze.

Vediamo come preparare le

Cozze ripiene in umido

Ingredienti per 4 persone

1 Kg di Cozze qualità Arborea - freschissime;

300 gr di mollica di pane pugliese di due o tre giorni;

1 Uovo fresco intero;

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80 gr di parmigiano grattugiato;

1 fetta spessa di mortadella qualità “Bologna”;

1 mazzetto di prezzemolo;

1 cipolla rossa;

4 spicchi di aglio;

1 kg di pomodori pelati;

olio extra vergine di oliva;

sale e pepe;

alcune foglie di basilico.

Preparazione

Errore. Riferimento a collegamento ipertestuale non valido.

In una terrina impastare la mollica di pane (senza buccia e ridotta molto finemente), il prezzemolo

tritato, la mortadella (passata al mixer), il parmigiano, 2 spicchi d’aglio tritati, l’uovo, sale, pepe ed un

filo di olio. Amalgamare bene l’impasto fino a quando risulterà soffice ed omogeneo.

Pulire con molta accuratezza le cozze e di seguito separarne circa una decina scelte tra le più piccine che

serviranno per la base “aromatica” ovvero, dovranno essere “scoppiate” in un piccolo tegame con un

fondo di olio evo e 2 spicchi d’aglio tagliati a fettine. Cuocere le piccole cozze fino alla loro apertura

completa, ma evitando di far imbrunire l’aglio che darebbe una nota fortemente stonata al fondo di

cottura. Una volta raffreddate, estrarre le cozze dai gusci e conservarle per la fase successiva assieme al

fondo di cottura filtrato.

Aprire “al crudo” con molta attenzione le cozze più grandi in modo da lasciare le valve attaccate tra di

loro e consentire la farcitura con il composto già preparato. Questa fase è molto “tecnica” e se eseguita

bene consente dopo la cottura di avere un risultato finale cosiddetto a “confetto”.

Farcire i nostri frutti di mare e via via, dopo aver richiuso bene i gusci è necessario legarli con del filo

per cucina per evitare che durante la cottura fuoriesca il ripieno.

In un capiente tegame, far appassire in olio evo la cipolla ridotta in purea assieme ad un trito delle cozze

già stufate e il liquido ottenuto dal fondo stesso di cottura. Dopo alcuni minuti aggiungere i pomodori

già pelati e passati al setaccio.

Raggiunta l’ebollizione del sugo, tuffare tutte le cozze ripiene e dopo aver aggiustato di sale e pepe

(macinato fresco al momento) proseguire la cottura per circa una mezzora. A pochi minuti dalla fine

della cottura, aggiungere le foglie di basilico.

Il sugo ottenuto è particolarmente indicato per condire gli spaghetti da servire unitamente alle nostre

cozze… cosa che abbiamo regolarmente fatto in questa occasione.

Considerata la zona di provenienza dei nostri frutti di mare, la scelta del vino è stata orientata verso un

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“afrodisiaco” Vermentino di Gallura di colore giallo paglierino chiaro, con tenui riflessi verdognoli. Il

profumo è delicato, caratteristico, lievemente aromatico, secco e asciutto, con un leggero retrogusto

amarognolo.

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La sostenibile leggerezza del gustodi Gino Lombardo

- 02.07.2012

In cucina spesso si ha l’esigenza di coniugare la leggerezza con il gusto, in tal caso si è portati a scartare

alcune preparazioni gastronomiche che, seppur molto gettonate, risultano essere oltre che laboriose,

anche abbastanza “pesanti” sia dal punto di vista della digeribilità che dall’apporto calorico stesso. Ad

esempio, la parmigiana è una preparazione che, pur incontrando il consenso di molti, spesso viene evitata

a tavola sia per la presenza di eccessivi condimenti e sia per tecniche di cottura non proprio dietetiche.

Ora, essendo ad oggi impossibile assegnare una paternità certa all’origine della preparazione che viene

contesa tra Sicilia, Campania ed Emilia Romagna, risulta altrettanto problematico identificare la ricetta

originale. Le versioni proposte da regione a regione risultano affette da personalizzazioni che a volte ne

hanno stravolto l’identità oltre che il sapore.

Ma su una cosa sono tutti d’accordo, ovvero l’ingrediente principale che è una pianta originaria del

continente asiatico appartenente alla famiglia delle solanacee : la melanzana.

La melanzana contiene solanina, una sostanza che risulta essere molto tossica ma che viene facilmente

inibita tramite cottura in quanto termolabile. Quindi, la melanzana deve essere consumata assolutamente

cotta. Una delle proprietà di questo ortaggio è che tende ad assorbire moltissimo i grassi alimentari, tra

cui l’olio, contribuendo alla preparazione di piatti particolarmente saporiti come la parmigiana.

Come si diceva prima, non essendo nota l’origine della ricetta, non risulta neanche certa la provenienza

del termine “parmigiana” che infatti, non avrebbe nulla a che fare con la raffinata città emiliana di

Parma. Probabilmente l’origine del temine andrebbe ricercata nella parola siciliana parmiciana, con la

quale si stanno ad indicare le liste di legno che compongono una finestra persiana e che richiama la

disposizione a strati sovrapposti delle fette di melanzana fritte.

Ma tornando a noi, ci siamo chiesti come preparare una parmigiana, che pur mantenendo una grande

appetibilità, risultasse leggera e digeribile.

Per fare questo si è deciso di usare ingredienti freschi e di modesto contenuto calorico e soprattutto una

tecnica di cottura che evitasse alle nostre fette di melanzane di assorbire “a spugna” l’olio di cottura.

Un’altra cosa molto importante è stata la scelta del pomodoro per fare il sugo di condimento, che non

deve essere particolarmente maturo (colore rosso mattone) ma leggermente “precoce” (colore arancio

carota).

Vediamo come ci siamo riusciti.

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Parmigiana di Melanzane

Ingredienti per sei persone

1kg di melanzane viola

500 gr di zucchine tonde

400 di polpa di pomodoro fresco a pezzetti

100 grammi di provola a fettine sottili

farina senza glutine

50 gr di maizena

25 gr di burro

500 cl di latte intero

basilico

olio per friggere

olio extra vergine d’oliva

50 gr di parmigiano reggiano grattugiato

1 spicchio d’aglio

1 cipolla rossa

sale

Preparazione

abbiamo sbucciato e tagliato le nostre melanzane a fette spesse un centimetro, poi le abbiamo disposte a

strati in uno scolapasta per farle asciugare.

Abbiamo affettato le zucchine tonde, dopo averle accuratamente lavate, ottenendo dei “dischi” dallo

spessore di mezzo centimetro.

Dopo aver asciugato per bene con l’ausilio di carta da cucina le nostre fettine di zucchine e di melanzane,

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le abbiamo infarinate leggermente avendo avuto cura di eliminare i grumi e la parte di farina (senza

glutine) in eccesso. In una capiente padella, dove abbiamo posto dell’olio da frittura, abbiamo fritto

prima le zucchine e poi le melanzane. Alla fine, è stata verificato che l’olio utilizzato è risultato un terzo

di quello che normalmente veniva usato senza adoperare l’infarinatura ed inoltre, la frittura è risultata

asciutta e leggera.

In seguito, mentre i nostri ortaggi fritti riposavano su carta assorbente da cucina, abbiamo preparato un

sugo con i nostri pomodori passati al setaccio, uno spicchio d’aglio, qualche foglia di basilico, olio evo,

sale e la cipolla leggermente soffritta.

Dopo il sugo, abbiamo preparato una leggera besciamella con il burro, la maizena, un pizzico sale ed il

latte.

Infine, in una pirofila abbiamo disposto nell’ordine : sugo, besciamella, melanzane, provola, zucchine,

parmigiano e via via fino alla fine degli ingredienti.

Abbiamo infornato la nostra parmigiana per 30 minuti a 180° e comunque fino alla gratinatura voluta.

Il risultato è stato un piatto dal sapore pieno ed estivo, soprattutto connotato da una particolare e

ricercata leggerezza .