gaetano cataldo mnéme mementum monumentum · 2016. 3. 25. · jacques le goff, memoria, cit., p....

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Gaetano Cataldo Mnéme Mementum Monumentum Monoliti, colonne e obelischi come cardini della costruzione dello spazio urbano 1. La Mnéme e il Mementum La storia si fa partendo dallo studio dei “luoghi” della memoria collettiva, che siano luoghi topografici, come gli archivi, le biblioteche e i musei, o luoghi monu- mentali, come i cimiteri o le architetture, in senso lato; o ancora, luoghi simbolici, come le commemorazioni, i pellegrinaggi, gli anniversari o gli emblemi; infine, par- tendo dai luoghi funzionali, quali i manuali, le autobiografie o le associazioni. Tutti questi monumenti, nei quali è racchiuso uno specifico ricordo, hanno la loro storia. Jacques Le Goff, nella sua articolata trattazione dedicata alla memoria, cita le parole di Leroi-Gourhan: «A partire dall’homo sapiens la costituzione di un ap- parato della memoria sociale domina tutti i problemi dell’evoluzione umana». E non si può non essere d’accordo con questa riflessione, perché la memoria è un elemento essenziale di ciò che viene definita come «identità, individuale o collet- tiva, la ricerca della quale è una delle attività fondamentali degli individui e delle società di oggi, nella febbre e nell’angoscia». 1 Mnemòsine, nella mitologia greca, era la madre delle nove muse, da essa generate in altrettante notti trascorse in compagnia di Zeus: ella richiama alla mente degli uomini il ricordo degli eroi e delle loro grandi gesta, da utilizzare in chiave didascalica come esempio. «La memoria appare un dono per iniziati, e l’anamnesis, la reminiscenza, al pari di una tecnica ascetica e mistica. Nelle dottri- ne orfiche e pitagoriche è l’antidoto all’oblio». La tecnica di memorizzazione greca, la mnemotecnica, sottolineava come im- prenscindibile la distinzione fra loci e imagines, precisando il carattere attivo di tali idee nel processo di «rimemorizzazione (imagines agentes) e formalizzando la divisione fra memoria delle cose (memoria rerum) e memoria delle parole (memoria verborum). La memoria è la quinta operazione della retorica: dopo l’inventio (trovare cosa dire), 1 Jacques Le Goff, Memoria, in Enciclopedia Einaudi, direzione Ruggiero Romano, vol. 8, Labirinto-Memoria, Torino, Einaudi, 1979, p. 1104. Ivi, p. 1078.

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  • Gaetano Cataldo

    Mnéme Mementum MonumentumMonoliti, colonne e obelischi come cardini della costruzione dello spazio urbano

    1. La Mnéme e il Mementum

    La storia si fa partendo dallo studio dei “luoghi” della memoria collettiva, che siano luoghi topografici, come gli archivi, le biblioteche e i musei, o luoghi monu-mentali, come i cimiteri o le architetture, in senso lato; o ancora, luoghi simbolici, come le commemorazioni, i pellegrinaggi, gli anniversari o gli emblemi; infine, par-tendo dai luoghi funzionali, quali i manuali, le autobiografie o le associazioni. Tutti questi monumenti, nei quali è racchiuso uno specifico ricordo, hanno la loro storia.

    Jacques Le Goff, nella sua articolata trattazione dedicata alla memoria, cita le parole di Leroi-Gourhan: «A partire dall’homo sapiens la costituzione di un ap-parato della memoria sociale domina tutti i problemi dell’evoluzione umana». E non si può non essere d’accordo con questa riflessione, perché la memoria è un elemento essenziale di ciò che viene definita come «identità, individuale o collet-tiva, la ricerca della quale è una delle attività fondamentali degli individui e delle società di oggi, nella febbre e nell’angoscia».1

    Mnemòsine, nella mitologia greca, era la madre delle nove muse, da essa generate in altrettante notti trascorse in compagnia di Zeus: ella richiama alla mente degli uomini il ricordo degli eroi e delle loro grandi gesta, da utilizzare in chiave didascalica come esempio. «La memoria appare un dono per iniziati, e l’anamnesis, la reminiscenza, al pari di una tecnica ascetica e mistica. Nelle dottri-ne orfiche e pitagoriche è l’antidoto all’oblio».

    La tecnica di memorizzazione greca, la mnemotecnica, sottolineava come im-prenscindibile la distinzione fra loci e imagines, precisando il carattere attivo di tali idee nel processo di «rimemorizzazione (imagines agentes) e formalizzando la divisione fra memoria delle cose (memoria rerum) e memoria delle parole (memoria verborum). La memoria è la quinta operazione della retorica: dopo l’inventio (trovare cosa dire),

    1 Jacques Le Goff, Memoria, in Enciclopedia Einaudi, direzione Ruggiero Romano, vol. 8, Labirinto-Memoria, Torino, Einaudi, 1979, p. 1104.

    Ivi, p. 1078.

  • GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM

    la dispositio (mettere in ordine quel che si è trovato), l’elocutio (aggiungere a ornamen-to parole e immagini), l’actio (recitare il discorso come un attore con la dizione e i gesti)» la sintesi è, infine, nella memoria (memoria mandare “ricorrere alla memoria”).

    . Gli archetipi e il Monumentum

    La costruzione del patrimonio fisico urbano e territoriale è avvenuta lenta-mente attraverso la storia e con un insieme di miracolose coerenze collettivamente significative, oppure attraverso atti sapienti e di radicale semplicità.4

    Porre la pietra sul terreno ha rappresentato una delle prime azioni dell’uomo dal momento della sua apparizione: questo gesto è coinciso con l’atto della ricono-scibilità di un territorio nell’universo, all’epoca ignoto e ostile, determinandosi come azione preliminare alla configurazione o modellazione di uno spazio, la Raumgestal-tung. Da qui nasce l’architettura, in chiave archetipica, con tutte le sue declinazioni e articolazioni e le sue sapienti azioni del delimitare, perimetrare, accumulare, costrui-re, abitare e, infine, pensare: le ultime tre azioni intese in chiave heideggeriana.

    La pietra è sempre servita come supporto per un eccesso di memoria:

    I cosiddetti “archivi di pietra” aggiungevano alla funzione degli archivi propriamente detti un carattere di pubblicità insistente, che puntava sull’ostentazione e la durevo-lezza di quella memoria lapidaria e marmorea. [...] Per Leroi-Gourhan, l’evoluzione della memoria, legata alla comparsa e alla diffusione della scrittura, dipende essen-zialmente dall’evoluzione sociale e particolarmente dallo sviluppo urbano.

    Infiggere una pietra nel terreno per individuare un luogo vuol dire anche memorizzare quel luogo, incidere nelle sinapsi neurologiche una traccia di riferi-mento: in tal senso va inteso il legame fra memoria/mnéme e monumento.

    In quest’ottica diventano più comprensibili le prime tracce mute della pre-senza umana con oggetti sparsi con apparente casualità nel territorio: si pensi ai menhir o ai dolmen diffusi nel sud dell’Inghilterra, in Irlanda, nel nord della Fran-cia, in Spagna, Corsica, Sardegna, ma anche Puglia, e si riveda il loro significato alla luce di una nuova interpretazione semantica.

    Ripensando ai monumentali siti di Stonehenge, Avebury, Durrington Walls nel Wessex, alla Boney Valley in Irlanda o al Morbihan bretone è assodato che l’evidente presenza monumentale sul territorio, caratteristica nuova delle culture neolitiche, «fosse un elemento essenziale nel processo di conversione delle pre-cedenti popolazioni mesolitiche ai nuovi modi sedentari della vita che caratteriz-zarono il periodo neolitico»: i monumentali megaliti «non sarebbero nient’altro

    Ivi, p. 1080.4 Gaetano Cataldo, Per una lettura del territorio: persistenze e tracce, in Programma di salvaguar-

    dia del patrimonio storico architettonico del territorio di Bari. Analisi, acquisizione e recupero, a cura di Stefano Serpenti, Gaetano Cataldo, Bari, Levante Editori, 1989, pp. 9-1: 10.

    Jacques Le Goff, Memoria, cit., p. 1074. «Il mutamento da nomade a stanziale delle popolazioni dalla caccia all’agricoltura favorì

    l’incremento demografico, in parte per via delle migrazioni e in parte per la maggiore disponibilità

    che il riverbero delle condizioni umane soggiacenti».7 Il gran numero di manufat-ti lapidei eretti fu uno dei mezzi con i quali l’agricoltura dominante impose la sua presenza e il suo volere sulle società indigene dei cacciatori.

    Declinando il fenomeno, in Italia quelli che sono considerati menhir, in real-tà, sono molto probabilmente non tutti ascrivibili al tardo Neolitico, bensì all’età romana e si tratta di limites degli agri della centuriazione romana.8 Un isolato men-hir (fig. 1) è collocato lungo l’ex strada statale 98 in una posizione assolutamente paradossale, a un incrocio della viabilità della zona industriale derivata dalla rete viaria rurale, molto probabilmente coincidente con il confine fra l’Ager Varinus e l’Ager Botuntinus:9 è un monolite lapideo calcareo con sezione quadrata, alto circa ,70m, e con una sporgenza in sommità che gli conferisce un aspetto vagamente antropomorfo per via di due fori, simili a occhi, frutto dell’erosione. Recenti studi ne hanno modificata l’origine dal secondo millennio a.C. al periodo compreso fra il tardo-antico e l’Alto Medioevo,10 confermandone l’utilizzo come cippo di confine, spesso spostato nelle contese territoriali o nelle sistemazioni degli svincoli stradali.

    Anche in territori dove la presenza di tali manufatti lapidei è considerevole, come il Salento, è indubbio che la loro posizione diffusa, attualmente isolata all’in-terno dei centri urbani o sui sagrati delle chiese,11 e non aggregata come nei santuari neolitici più famosi della Normandia o della Cornovaglia, fa propendere verso que-sta seconda ipotesi; anche la lavorazione accurata, riconducibile a parallelepipedi snelli e di ridotta sezione, talvolta con sezione poligonale o circolare, inserisce que-sti manufatti in una koinè tecnologica più evoluta e più vicina a noi.1

    È indubbio, comunque, che tali manufatti siano pur sempre testimonianze del passato e debbano essere, in ogni caso, considerati come monumenti nell’acce-zione più diffusa del termine, intendendo «un’opera della mano dell’uomo, creata allo scopo determinato di conservare sempre presenti e vivi singoli atti o destini umani (o anche aggregati di questi) nella coscienza delle generazioni a venire»;1 con la precisazione che «l’erezione e tutela di tali monumenti “intenzionali”, che possono essere rintracciate fin dai tempi più remoti e documentabili della cultura,

    di cibo derivato dalla coltivazione delle terre», David Souden, Stonehenge. Mysteries of the Stones and Landscape, London, Collins & Brown ltd., 1997, trad. it. Stonehenge. un paesaggio di pietre e di misteri, Milano, Corbaccio, 1998, p. .

    7 Ibid.8 Raffaele Ruta, La Puglia romana. un paesaggio pietrificato, «Archivio Storico Pugliese»,

    XXXIV, I-IV, 1981, p. 44. 9 Si trova al km 79+44 dell’attuale strada provinciale 1 “Andriese-Coratina”, declassata nel 001.10 Modugno. Guida turistico-culturale, a cura di Anna Gernone, Nicola Conte, Michele Ven-

    trella, Modugno, Associazione Pro Loco di Modugno, 00, p. 11.11 Frutto di frequenti delocalizzazioni da parte della popolazione.1 Una recente e accurata pubblicazione riguardante la provincia di Lecce ne ha schedati 71

    e menzionati altri 48 ormai scomparsi, seppur citati dagli storici locali; per un approfondimento si veda Cesare De Salve, Dolmenhir. Le sacre pietre del Salento, Galatina, Editrice Salentina, 01.

    1 Alois Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, a cura di Sandro Scarrocchia, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1981, 198, 1990, p. 7.

  • 4 GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM

    non sono affatto cessate anche ai nostri giorni».14 Il valore soggettivo, inventato dall’osservatore contemporaneo, rafforza il concetto di monumento come opera di valore in quanto memoria.

    Si riveda, in tal senso, l’assiomatica definizione di tumulo fatta da Adolf Loos:1 il sepolcro e il monumento, è noto, sono per Loos le uniche forme archi-tettoniche che possano, di pieno diritto, appartenere anche al campo dell’arte. Si tratta di un «archetipo elementare dell’architettura, [...] legato alla marcatura di un luogo, alla sacralità e alla memoria che è implicita nel termine e nel concetto stesso di “monumento”, oltre che ad una precisa forma geometrica».1

    Nella categoria degli archetipi elementari dell’architettura rientra, senza dub-bio, la colonna intesa come elemento di sostegno strutturale di origine naturale, sia di apparecchiature murarie sia di elementi monolitici, o caricata di carattere simbolico e celebrativo: in quest’ultimo caso la stessa è utilizzata come supporto e veicolo della memoria collettiva ed è collocata in aree urbane ad alta valenza, come le agorai, i fori, le piazze.

    . Le colonne binate

    Un utilizzo certamente icastico dell’archetipo colonna è quello della sua si-stemazione binata che va ben oltre il significato di colonna onoraria tout court, così come quelle presenti nel Foro romano, almeno a livello di basamento: in genere due colonne isolate, sistemate a qualche metro di distanza, sono caricate di enfasi simbolica e marcano con assoluta efficacia topologica un’area identificando un varco, un punto di passaggio o di ingresso a un luogo, prevalentemente sacro.

    L’immagine più diretta, consolidata nell’immaginario collettivo delle archai ol-tre che più antica in assoluto, è quella delle colonne binate presenti nell’atrio anti-stante il mitico Tempio di Salomone: le colonne di ordine salomonico, Jachin, la sta-bilità, Boaz, la forza, precedevano il santuario e il Sancta Sanctorum che ospitava l’Arca dell’Alleanza. Avranno grande «fortuna attraverso la mediazione delle colonne della “pergula” costantiniana di S. Pietro, iperbolizzata nel Baldacchino di Bernini».17

    Va però sottolineato che la veduta prospettica (fig. ) del Tempio di Salomo-ne riportata nella Bibbia di Sisto V (188) riporta le due colonne con fusto liscio separate dal muro del Santuario.18

    14 Ibid.1 «Se in un bosco ci imbattiamo in un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala

    in forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Das ist Architektur», Adolf Loos, Architettura, in Parole nel vuoto, trad. it. Sonia Gessner, Milano, Adelphi, 197, 198, pp. 41-: ; prima ed., in lingua originale, A. Loos, Ins Leere gesprochen trotzdem, Wien-München, Verlag Herold, 19.

    1 Vittorio Ugo, I luoghi di Dedalo: elementi teorici dell’architettura, Bari, Edizioni Dedalo, 1991, p. 77..

    17 Marcello Fagiolo, Architettura e Massoneria. L’esoterismo nella costruzione, Roma, Gangemi, 00, p. 0.

    18 Ibid.

    Ribaltando il concetto, un esempio fra i tanti è quello delle cosiddette colon-ne terminali della via Appia Traiana nel porto di Brindisi che, marcando indubbia-mente il luogo e identificandolo nella memoria collettiva, hanno indicato per secoli, con precisione, il punto terminale della strada consolare romana (fig. ). Di là dalle ipotesi suffragate dagli ultimi scavi archeologici che hanno interessato l’area, è in-dubbio che le due colonne possano essere viste come punto terminale di una civiltà che si apriva verso Oriente e chi le superava doveva essere consapevole di poter andare incontro alle stesse incognite di chi valicava le Colonne d’Ercole atlantiche. La loro stessa sistemazione sul rilevato orografico urbano, dotato nel secolo scorso di un’ampia scalinata, in diretta connessione visiva con il porto, conferma il caratte-re simbolico e celebrativo dei manufatti, vero landmark territoriale.

    In fondo, due elementi verticali, che siano colonne isolate o piedritti incassati in un circuito murario, si configurano come porta o varco che introduce in uno spazio altro, forse ignoto ma certamente diverso topologicamente da quello che si sta lasciando: passare fisicamente fra due elementi verticali è un’azione che è sempre stata caricata di simboli in tutti i periodi della storia umana.

    Lo stesso vale per chi giungeva nel porto della città e doveva passare attra-verso questa porta virtuale, priva di architrave ma densa dello stesso significato simbolico di un qualsiasi altro varco: doveva avere la consapevolezza di entrare nel cuore dell’impero.

    È indubbio che queste suggestioni siano il frutto dell’immagine collettiva di un sito, confermata anche dalle descrizioni dei viaggiatori, frutto di sovrapposi-zioni mentali stratificatesi nel tempo: oggi delle due colonne ne rimane solo una pressoché integra, mentre dell’altra resta solo il plinto, per via del suo forzoso trasferimento a Lecce come ex voto collettivo, rappresentato dalla statua del santo patrono, collocato nella principale piazza cittadina. L’idea del varco di passaggio è rimasta presente nell’immaginario collettivo almeno sino alla fine del XVII se-colo, ben dopo il crollo, avvenuto nel 18, della colonna trasferita nel capoluogo salentino. Ne fa testo l’incisione acclusa all’opera che descriveva le principali città del regno di Napoli, frutto dei viaggi dell’abate Pacichelli alla fine del Seicento e pubblicata postuma nel 170: la veduta della città di Brindesi riporta, sulla destra con il numero 14, ancora le Colonne gemine (fig. 4).19

    Molto più realistici sono l’acquerello0 di Louis Ducros (fig. ) realizzato in occasione del Grand tour del 1778, e l’incisione,1 degli anni Trenta del secolo successivo, di Domenico Cuciniello e Luigi Bianchi, realizzata in occasione del Viaggio pittorico nel Regno delle Due Sicilie: il punto di vista è identico, più ampio

    19 Puglia ieri: Il Regno di napoli in prospettiva dell’abate Gio: Battista Pacichelli, a cura di Cosimo Damiano Fonseca, rist. anast. Bari, Adriatica Editrice, 197, § II, f. 1.

    0 Il Mezzogiorno nelle antiche stampe. Immagini del Sud, a cura di Antonio Ventura, Lecce, Capone, 1997, fig. 109.

    1 Francesco D’Andria, La via Appia in Puglia, in Via Appia. Sulle ruine della magnificenza anti-ca, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Ruspoli, febbraio-maggio 1997), a cura di Italo Insolera e Domitilla Morandi, Milano, Leonardo Arte, 1997, p. 98.

  • GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM 7

    quello della seconda che inserisce anche il plinto della colonna ormai scomparsa a dominare i due seni del porto controllati dal Forte da Mar aragonese.

    Contrariamente al settore iniziale extramoenia della via Appia Antica, che cor-re fra mausolei e tombe monumentali, analogo al tratto di pianura della via Appia Traiana nei pressi di Canosa di Puglia, anch’esso caratterizzato dalla presenza di mausolei, il tratto finale della strada consolare, pur incardinandosi come asse principale nel cardo di Brundisium, non presenta la medesima situazione. Recenti scavi hanno riportato alla luce un complesso impianto santuariale circondato da un portico dorico aperto verso il mare, con un edificio templare al centro che ha restituito due grandi capitelli figurati, il che conferma l’importanza di questo punto cruciale dell’urbanistica brindisina che «rappresenta il passaggio dai per-corsi terrestri a quelli marittimi»4 sancendo ancora una volta il ruolo delle due colonne marmoree realizzate in età severiana.

    La sistemazione monumentale della ripa portuense brindisina ha un imme-diato riscontro nelle rappresentazioni di altri porti romani, quali Baia e Pozzuoli, e ha certamente influenzato, nel Medioevo, un’altra celebre sistemazione portua-le, quella di Venezia.

    Anche qui due colonne gemine, dedicate ai co-patroni cittadini, si configura-no come vera porta urbica in una città priva di mura di cinta, difesa solo dalla rete di canali lagunari: indicano l’ingresso alla parte monumentale e dogale della città, oggi serrata dall’invaso costituito dal binomio Palazzo Ducale/Libreria Marcia-na, vera e propria agorà marittima segnata dal «limes tra la “parte da terra” e la “parte da mar”», analoga al porto-arsenale, il kondoskalion, di Costantinopoli. È indubbio che i marinai veneziani, che sostavano nel porto di Brindisi lungo le rotte adriatiche, debbano aver visto le monumentali colonne per riproporne il modello anche in chiave simbolica, ben prima della sistemazione cinquecentesca del complesso marciano. Una veduta di Venezia7 degli inizi del XV secolo confer-ma l’importanza di questo ingresso monumentale – presente in tutte le vedute

    Realizzato sull’isola di Sant’Andrea tra il 144 e il 148 su preesistenti fortificazioni, resistette all’attacco di sedici galee veneziane nel 18. Fu circondato di bastioni sotto Filippo II di Spagna nella seconda metà del XVI secolo, in Laura Casanova, Il Castello Rosso di Brindisi: dall’abbandono a museo “attivo” degli sport del mare, in Lo studio. La ricerca. La professione. Mostra sulle tesi di laurea in Restauro, catalogo della mostra (Bari, Gipsoteca del Castello Svevo, novembre 1998 - 14 febbraio 1999), a cura di Gaetano Cataldo e Marina De Marco, S. Ferdinando di Puglia, Litografica ’9, 1999, p. 77.

    A Benevento l’arco di Traiano individuava la biforcazione della strada con un ramo adria-tico pressoché parallelo alla costa che consentiva di raggiungere Brindisi con un giorno di anticipo rispetto al più antico tratto appenninico.

    4 F. D’Andria, La via Appia in Puglia, cit., p. 98. Le colonne, alte circa 18 metri, erano realizzate in marmo proconnesio, caratterizzato da

    larghe venature grigiastre, e furono trasportate dalla Turchia attraverso il mar di Marmara su navi lapidarie appositamente attrezzate: lo smontaggio dei rocchi per gli interventi di restauro (00) ha consentito di riconoscere nella figura barbuta del capitello il dio okeanos circondato da Tritoni, ivi, p. 99.

    Ibid.7 Veduta di Venezia, Livre du Graunt Caam, 1400 ca, Oxford, Bodleian Library, OXI BG, ibid.

    successive – come cerniera urbana solidale con tutta l’area marciana: in aggiunta alla loro qualità in chiave urbanistica, è indubbio il loro messaggio politico.

    Di là dalle interpretazioni popolari, le due alte colonne con fusto monolitico in granito e basi e capitelli di marmo, coordinate con l’allargamento dello spazio antistante destinato alla vita religiosa e pubblica,8 oltre a inquadrare, dal XV se-colo in poi, la torre dell’orologio codussiana (ingresso verso l’area mercatale di Rialto), suturano visivamente, completandolo, il frons scaene degli edifici monu-mentali prospicienti l’acqua, sia con vista da mare sia da terra (fig. ).

    Gli interventi sansoviniani che interesseranno l’area marciana nella prima metà del XVI secolo enfatizzeranno il loro ruolo nell’ambito di un progetto archi-tettonico urbano unitario inteso in chiave allusiva che richiama, non solo metafo-ricamente, l’esperienza teatrale:

    Gli accessi (o le uscite) al grande e duplice scenario di piazza e piazzetta si celano, ri-spetto al proscenio suggerito verso l’acqua dalle colonne di Marco e Tòdaro, dentro il gioco illusionistico in anfratti sommessi o addirittura dissimulati.9

    Un altro esempio dell’utilizzo delle colonne gemine in chiave diaframmatica, realizzate sincronicamente come quelle marciane, si trova nella piazza Maggiore, ora del Popolo, di Ravenna: il progetto è di uno dei più raffinati architetti venezia-ni del XV secolo, Pier Lombardo, che le innalzò nel 1480 nella città che chiudeva, a sud, il dominio della Serenissima. La dominazione sull’antica capitale esarcale, sintomaticamente motivata da principi ideologici, durò poco meno di settant’an-ni, dal 1441 al 109:1 le due colonne, collocate su alti basamenti gradinati circolari decorati con rosette, delimitano con chiarezza l’invaso urbano per la posizione a circa un settimo della lunghezza, distinguendolo dalla viabilità di accesso, l’attua-le via IV Novembre, in origine coincidente con il corso del canale Padenna. Sono le più veneziane delle oltre cinquanta disseminate nei serenissimi domini, sia per la raffinata fattura, sia per l’omogeneità cronologica.

    8 Furono erette da Nicolò Barattiero sotto il doge Sebastiano Ziani (117-1178): Michela Agazzi, Platea Sancti Marci. I luoghi marciani dall’XI al XIII secolo e la formazione della piazza, Venezia, Comune di Venezia - Università degli Studi di Venezia, 1991, p. 84.

    9 Giandomenico Romanelli, Il Forum Publicum e le “cerniere” architettoniche del Sansovino, in Architettura e utopia nella Venezia del Cinquecento, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Ducale, luglio-ottobre 1980), a cura di Lionello Puppi, Milano, Electa, 1980, pp. 89-10: 90.

    0 Alberto Rizzi, Colonne marciane e contesti urbani nello Stato Veneto prima e dopo Cambrai, in Lo spazio nelle città venete (1348-1509). urbanistica e architettura, monumenti e piazze, decorazione e rap-presentazione, atti del I convegno nazionale di studio (Verona 14-1 dicembre 199), a cura di Enrico Guidoni e Ugo Soragni, Roma, Edizioni Kappa, 1997, pp. 190-0: 199.

    1 Dopo la vittoria di papa Giulio II sui veneziani, il leone presente sulla colonna più vicina al palazzo fu sostituito dalla statua di San Vitale che affiancò l’altra, già dedicata al patrono cittadino Sant’Apollinare.

    Le altre colonne binate dei domini veneziani dotate di leone e santo patrono, come a Vicenza, Udine e Bassano, sono state realizzate in un arco di tempo variabile fra 70 e 17 anni; cfr. A. Rizzi, Colonne marciane e contesti urbani, cit., p. 199.

  • 8 GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM 9

    Sempre in area veneta, tra le altre colonne binate in facies di diaframma vir-tuale vanno citate quelle di piazza dei Signori di Vicenza: i due manufatti lapidei, anch’essi monolitici e collocati su due alti basamenti esagonali, chiudono vir-tualmente la piazza sul lato minore opposto a quello caratterizzato dal binomio basilica/loggia del Capitaniato. In tal modo, in continuità con la mole angolare del palazzo del Podestà, esse separano l’invaso nobile della città dalla confinante piazza Biade, destinata al mercato delle granaglie, configurandolo come forum publicum. È noto come la terza piazza di rilievo dell’area centrale vicentina sia quella delle Erbe, situata alle spalle della Basilica palladiana, che qui funge da cardine urbano. L’omologazione con Venezia, nel cui insieme visivo si inserisce anche l’alta torre Bissara, conclusa a metà Seicento, era iniziata con l’elevazione della colonna che sorregge il leone di San Marco, realizzata nel 144 da Giovanni Antonio da Milano; l’atto conclusivo del foro cittadino, completato con la co-struzione delle fabbriche palladiane, sarà sancito dalla realizzazione della seconda colonna a opera di Pietro Cortese nel 140. Al binomio veneziano costituito dal leone marciano e dalla statua del co-patrono, qui corrisponde il binomio formato dal leone marciano e dalla statua del Redentore (fig. 7).

    Nel caso di Udine le due colonne sormontate dal leone e dalla statua del-la Giustizia concludono l’articolata configurazione della piazza Contarena, ora della Libertà, definendone con precisione il perimetro con i lati prospicienti gli assi viari di attraversamento del borgo medievale e della salita verso il castello. Il progetto di creare un rinnovato e distinto spazio rappresentativo che enfatizzas-se il nuovo ruolo della Serenissima, agli albori della deduzione della città avvenuta nel 140, integra nel sistema la vicina via-piazza del Mercato vecchio con il centro religioso (la piazza del Duomo), collocandolo in posizione equidistante fra questi ultimi. Si tratta di un intervento di altissimo valore «per i sapienti legami urbanisti-ci con il tessuto cittadino preesistente»4 iniziato con la realizzazione della Loggia, fra il 1448 e il 14, a opera di Nicolò Leonello e con il contributo di Bartolomeo Bon per la statua della Vergine nel cantonale, suggellato nel 1490 con l’erezione della colonna marciana con il leone stilita: l’attuale assetto è frutto degli interven-ti successivi al terremoto del 111, che culminarono con la realizzazione, nel 17, della Torre dell’Orologio di Giovanni da Udine, «destinata a fungere da ingresso monumentale al recinto del Castello»; egli fu autore anche della monumentale fontana. Il porticato di San Giovanni, con relativa cappella, realizzato fra il 10 e il 19 da Bernardino da Morcote, chiude con un prospetto aulico il fronte verso il castello e si integra all’edificato preesistente con il manierista arco Bollani realiz-zato da Andrea Palladio nel 1, caratterizzato da un possente bugnato rustico. Gli interventi terminano con l’erezione della Colonna della Giustizia nel 11, collocata sul bordo estremo del ripiano plateale sopraelevato, che:

    Ivi, p. 19.4 Franco Borsi, udine, Piazza della Libertà, in Monumenti d’Italia. Le Piazze, a cura di Franco

    Borsi e Geno Pampaloni, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1987, pp. 10-1: 1. Ibid.

    grazie alla sua posizione simmetrica rispetto alla Colonna Marciana, non fa altro che ulteriormente definire il programma di razionalizzazione dello spazio della Piazza perseguito nel secolo precedente. (fig. 8)

    Nella piazza della Libertà di Bassano del Grappa è presente l’ultima coppia gemina costituita dal binomio leone / patrono, in questo caso San Bassiano, ele-vati però non su colonne ma su tozzi pilastri in pietra: il monolite con il leone fu eretto nel 118,7 mentre quello con il patrono nel 18. La ridotta dimensione e la posizione lungo la fascia perimetrale della pavimentazione della piazza elidono il dialogo con l’alta facciata neoclassica della chiesa di San Giovanni e inquadrano l’ingresso della stretta via Porto di Brenta.

    Il potere della Repubblica in terraferma8 e nel Mediterraneo fu marcato da una serie di oltre cinquanta fra colonne e pilastri, tutti dotati di leoni a tutto ton-do o a bassorilievo, quasi a delimitare gli ambiti di una koinè basata su supporti linguistici e formali: di questi sopravvivono ventidue colonne e dieci pilastri,9 in genere isolati, a eccezione degli esempi binati testé analizzati, caricati più di una funzione politica che urbana. Si veda il caso della colonna eretta, nel 14, da Michele Leoni a Verona, in Piazza delle Erbe, in posizione contrapposta alla colonna del Mercato viscontea e molto più vicina alla statua/fontana di Madonna Verona,40 sintesi della continuità romano-scaligera. O ancora quello della colon-na di piazza della Loggia a Brescia, distrutta a fine Settecento come le altre dei domini lombardi; o quella di Treviso realizzata in piazza Duomo e non nel cuore politico cittadino.

    In tema di colonne, è evidente che questi esempi in precedenza citati trovano il loro illustre riferimento nelle colonne onorarie e coclidi di Roma, al cui signifi-cato simbolico si aggiunge quello di memoria tout court per la componente agio-grafica sottolineata dalle gesta degli imperatori narrate, come nella pellicola di un film ante litteram, lungo la spirale del fusto. La grande carica evocativa della prima di quelle realizzate, la Colonna Traiana, oggi collocata solitaria sui resti dell’omo-nimo Foro, è molto più evidente nel disegno di inventione (fig. 9) di Johann Bern-hard Fischer von Erlach:41 è collocata al centro della grande piazza, come cardine su cui si avviluppano tutte le altre strutture architettoniche, e sostiene la statua del Divo traianus. Si tratta di un esempio del linguaggio artistico-evocativo origi-

    Ivi, p. 1.7 A. Rizzi, Colonne marciane e contesti urbani, cit., p. 190.8 In realtà esistono altri esempi di colonne o pilastri nello stretto ambito lagunare: in città, di

    fronte alla chiesa di San Nicolò dei Mendicoli, a Dorsoduro; e poi a Murano, Burano e Chioggia.9 Si rimanda al puntuale contributo di Alberto Rizzi già citato.40 Ricomposta da Bonino da Campione con spoliae romane nel 18 sotto la signoria di Cansi-

    gnorio, in Franco Borsi, Verona, Piazza delle Erbe, Piazza dei Signori, in Monumenti d’Italia. Le Piazze, cit., pp. 10-1: 1.

    41 Incisa da Johann Adam Delsenbach nel 171, in Johann Bernhard Fischer von Erlach, Entwurf einer historichen Architektur, Neudruck anastatischer, Verlag Haremberg, Dortmund, 1978 (“Bibliophilen Taschenbücher”, 18).

  • 0 GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM 1

    natosi, in maniera legittima, autonomamente nell’ambito della cultura romana e, certamente, prima colonna coclide realizzata e inaugurata nell’anno 11 d.C. L’attuale contesto, frammentario, è caratterizzato dalle due vicine chiese cupo-late di Santa Maria di Loreto, di Antonio da Sangallo il Giovane, e del Santissimo Nome di Maria, realizzata da Antoine Dérizet dopo il 17.

    Ben altro ruolo ha, invece, la colonna di Marco Aurelio, eretta fra il 17 e il 19 d.C., dopo la morte dell’imperatore: l’attuale sistemazione, ricompresa negli interventi urbani programmati da papa Sisto V alla fine del XVI secolo, pur se va-riata nelle quinte edificate, mantiene la sua coerenza simbolica e di cerniera della stessa piazza Colonna e del tratto mediano di via del Corso. Non è dissimulato il suo ruolo di cardine strategico nel ridisegno della Roma sistina attuato da Dome-nico Fontana, integrato con le sedi religiose privilegiate.

    Il ruolo ideologico e simbolico delle due colonne è ancora più evidente nel programma iconologico di Sisto V con la “rievangelizzazione” dei due manufatti imperiali coclidi: sulla Colonna Traiana fu collocata, nel 187, la statua bronzea di San Pietro; l’anno successivo, sulla colonna di Marco Aurelio Antonino, fu collo-cata la statua di San Paolo. Le colonne onorarie furono, quindi, «risemantizzate come pilastri della Chiesa» (fig. 10).4

    In merito alla carica simbolica delle due colonne imperiali romane, è utile sottolineare la ricca documentazione iconografica degli interventi sistini,4 a par-tire dalle strade della città disposte a “forma di stella” nella pianta ideogrammati-ca per collegare le sette basiliche e i sacri templi: oltre alle numerose incisioni, vi sono i due affreschi perduti di villa Montalto44 e i due superstiti del salone sistino della Biblioteca Vaticana.4

    Il grande disegno urbano pensato per la sede della cristianità da papa Felice Peretti nel suo breve pontificato (18-190) ha condizionato profondamente la Roma del secolo successivo. Questo sia in chiave di capisaldi della centralità di-rettiva, con il riposizionamento degli obelischi nelle principali piazze a valenza religiosa; sia con la realizzazione di altri rilevanti manufatti architettonici come Villa Montalto, il Palazzo Lateranense, il Palazzo del Quirinale, il nuovo Palazzo Vaticano, la Biblioteca Vaticana, l’acquedotto Felice e la via Felice, che intercetta via Pia alle Quattro Fontane, la strada di San Giovanni; sia in chiave di ideologia religiosa, dove va riscontrato il completamento della Cappella Sistina, della cupo-la di San Pietro, della chiesa di San Girolamo degli Schiavoni e via dicendo.

    I quattro obelischi fatti erigere da Sisto V furono collocati nelle piazze di San Pietro, Santa Maria del Popolo, Santa Maria Maggiore e San Giovanni in Laterano:

    4 Maria Luisa Madonna, Sisto V e l’antico, in Roma di Sisto V. Arte, architettura e città fra Rina-scimento e Barocco, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia gennaio - 0 aprile 199), a cura di Maria Luisa Madonna, Roma, Edizioni De Luca, 199, p. .

    4 Si veda la Mappa di Roma redatta da G.F. Bordino nel 188.44 Demolita dopo l’Unità d’Italia per la realizzazione della stazione Termini.4 Le immagini degli affreschi sono riportate in Enrico Guidoni, Angela Marino, Storia

    dell’urbanistica. Il Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 198, figg. -.

    l’ideale perimetrazione progettata dal Papa partiva da nord-ovest, in San Pietro, e doveva terminare, con un percorso in senso orario, con l’obelisco di San Paolo Fuori le Mura, a sud-est, progettato ma non realizzato. L’ideale riferimento trova-va la sua icastica ricaduta sul tragitto che dovevano seguire i pellegrini nella visita delle Sette Basiliche Privilegiate in anni giubilari.4

    Una nota sul raggiungimento del risultato del progetto ideato da papa Sisto V è nella riflessione del de Brosses nella lettera ai signori de Blancey e de Neuilly:

    L’obelisco della piazza del Popolo, il più piccolo dei due che una volta adornavano il Circo Massimo, è quello del Re Ramsete, che Augusto fece trasportare a Roma. Sisto V lo ha fatto innalzare da Fontana; è collocato in modo che le tre vie del tridente lo abbiano tutte come prospettiva. Qui si comprende mirabilmente il modo di disporre le prospettive e di regolare la visibilità dei singoli oggetti. [...] Nulla è più adatto a dare una grande idea di Roma, che questo primo aspetto che colpisce la vista di chi arriva.47

    L’obelisco si configura come vero cardine urbano per dimensioni del manu-fatto e posizione: nel caso della predetta piazza, il monolite egizio si incardina nel progetto finale neoclassico con le esedre, frutto della collaborazione tra Giuseppe Valadier e Louis-Martin Berthault, che aggiunge all’asse tradizionale di Porta del Popolo / Tridente un asse trasversale prospettico di collegamento Tevere-Pincio che termina nella promenade publique. Si tratta di un modello, abbinato alle chiese simmetriche, che avrà largo sviluppo e riferimento in tutta Europa.

    Ritornando alla fortuna del modello della colonna binata, non si possono tralasciare le colonne coclidi binate, forse caricate di un eccesso di simbolismo, della Karlskirche di Vienna progettata, nell’omonima piazza, come ex voto per una delle ricorrenti pestilenze, da Johann Bernhard Fischer von Erlach nel 1714 (fig. 11).La valenza esoterica, oltre che per le colonne di ordine salomonico, è evidente per l’incredibile assonanza del manufatto con l’immagine del tempio riportata nella tavola didattica cristiano-cabalistica della principessa Antonia von Württemberg. La tavola (17) è conservata nella chiesa della Trinità di Teinach-Zavelstein, nella Foresta Nera, e descrive il tempio, inserito in un hortus conclusus circolare con al centro il Redentore, collocato su una crepidine, preceduto dalle colonne salo-moniche; ovviamente è privo del pronao ma è sovrastato da una grande cupola e presenta due corpi laterali passanti con aperture ad arco. La carica esoterica della rappresentazione fa sì che l’architettura del tempio divenga:

    una sorta di Teatro della Memoria, con corrispondenze tra Vecchio e Nuovo Te-stamento. Davanti al Tempio a guisa di Pantheon cosmico le Colonne spiraliformi alludono forse a quelle petriane.48 (fig. 1)

    4 Il tradizionale itinerario di Gregorio XIII (San Pietro, San Paolo, San Sebastiano, San Giovan-ni, Santa Croce, San Lorenzo, Santa Maria Maggiore) fu modificato da Sisto V con la sostituzione di San Sebastiano con Santa Maria del Popolo, meno eccentrica della prima; in Marcello Fagiolo, Il significato del “piano” sistino, in Roma di Sisto V, cit., p. 0, didascalia fig. .

    47 Charles de Brosses, Viaggio in Italia. Lettere familiari, trad. it. di Bruno Schacherl, Roma-Bari, Laterza, 197, p. 19.

    48 Marcello Fagiolo, Architettura e Massoneria. L’esoterismo nella costruzione, cit., p. .

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    1. Il menhir di Modugno (XX sec. a.C., foto G. Cataldo).

    . Il tempio di Salomone dalla Bibbia di Sisto V (da M. Fagiolo, Architettura e Massoneria. L’esoterismo nella costruzione, Roma, Gangemi, 00, p. 0).

    . Le colonne terminali di Brindisi viste dal porto: quella crollata fu trasferita a Lecce per sostenere la statua di Sant’Oronzo (foto G. Cataldo).

    4. Nel riquadro le colonne gemine di Brindesi nella veduta del Pacichelli (170).

  • 4 GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM

    . La colonna superstite di Brindisi nella veduta del Ducros, 1778 (da Il Mezzogiorno nelle antiche stampe: Immagini del Sud, a cura di Antonio Ventura, Lecce, Capone, 1997, fig. 109).

    . Le colonne gemine di Venezia in un’aura “turneriana” (foto G. Cataldo).

    7. Le colonne gemine di Vicenza come diaframma urbano (veduta aerea da Microsoft® Bing Maps).

    8. Le colonne gemine di Udine delimitano l’invaso plateale di piazza Contarena (veduta aerea da Microsoft® Bing Maps).

  • GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM 7

    9. La Colonna Traiana nel disegno di Fischer von Erlach, 171 (da J.B. Fischer von Erlach, Entwurf einer historichen Architektur, Neudruck anastatischer, Verlag Haremberg, Dortmund, 1978,“Bibliophilen Taschenbücher”, 18).

    10. Le colonne onorarie romane risemantizzate; Archivio Soprintendenza Archeologica di Roma, rilievi coop. Modus (da Roma di Sisto V. Arte, architettura e città fra Rinascimento e Barocco, catalogo della mostra [Roma, Palazzo Venezia gennaio - 0 aprile 199], a cura di Maria Luisa Madonna, Roma, Edizioni De Luca, 199, p. 4).

    11. La Karlskirche di Vienna (foto Laura Safred).

    1. Il Kabbalistic Lehrtafel, dipinto da Johann Friedrich Gruber tra il 19 e il 1, conservato nella chiesa della Trinità di Teinach-Zavelstein (da Adam McLean, the kabbalistic-alchemical altarpiece in Bad teinach, «Hermetic Journal», 1, Summer 1981, pp. 1-: 1).

  • 8 GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM 9

    1. I rilievi delle guglie di Napoli: San Gennaro, San Domenico, Immacolata, rilievi di Neri Salvatori (da G. Salvatori, C. Menzione, Le guglie di napoli: storia e restauro, Napoli, Electa, 198, rispettivamente pp. 10, 1, 17).

    14. Le sezioni delle guglie di Napoli: San Gennaro, San Domenico, Immacolata, rilievi di Neri Salvatori (ivi, p. 4).

    1. I tracciati delle piazze delle guglie di Napoli sovrapposte alla viabilità romana: il cardo maximo (a), il decumano maximo (b), il decumano inferiore (c). La sequenza, anche temporale, di realizzazione delle guglie va da destra a sinistra e parte da San Gennaro (1), quindi San Domenico () e, infine, l’Immacolata () (elaborazione grafica G. Cataldo su base veduta satellitare da Microsoft® Bing Maps).

    1. La guglia di San Vito di Lequile (foto G. Cataldo).

    a

    b

    c

    1

  • 40 GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM 41

    17. La guglia di Sant’Anna di Vernole (foto G. Cataldo).

    18. La guglia di Sant’Oronzo di Ostuni (foto G. Cataldo).

    19. La guglia dell’Immacolata di Nardò (foto G. Cataldo).

    0. L’Osanna di Nardò (foto G. Cataldo).

    1. La colonna di Sant’Andrea di Presicce (foto G. Cataldo).

  • 4 GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM 4

    Con funzione evidentemente urbana occorre citare le due colonne gemelle che generano la piazza con esedre dell’Annunziata di Venaria Reale, sistemate quasi a simulare i fuochi dell’ellisse generatrice:49 il progetto rientrò in quello più ampio della reggia sabauda realizzato da Amedeo da Castellamonte fra il 17 e il 190. I due monoliti, con le scanalature interrotte da bugne, sostengono l’Angelo e la Vergine che si fronteggiano nel dialogo e marcano, icasticamente, l’asse tra-sversale alla via Maestra, che conduce al Palazzo Reale, generato dalle due chiese gemelle inserite nelle cortine murarie della piazza.

    Il modello di colonna onoraria è noto soprattutto per altri rilevanti esempi, sempre rapportati alla morfologia urbana della piazza. Si pensi alla colonna cocli-de pensata per la ferrarese piazza Nova, ora Ariostea, spazio strategico progettato da Biagio Rossetti nel 1494, in posizione tangenziale a via de’ Prioni, nell’ambito dell’Addizione Erculea: la piazza era predisposta per «diventare il nuovo centro ci-vico, alternativo a quello tradizionale, situato nel cuore del tessuto più antico».0

    La colonna, destinata al monumento equestre di Ercole I d’Este, fu innalzata solo nel 17 per sostenere la statua di papa Alessandro VII, poi sostituita in età napoleonica dalla statua della Libertà e, infine, da quella di Ludovico Ariosto. L’originaria decorazione coclide descritta nelle vedute cittadine settecentesche evidentemente si riferiva ai più illustri esempi romani: in realtà si tratta di tralci vegetali a spirale.

    Vale anche la pena di segnalare la colonna eretta da Napoleone Bonaparte nel 1810, al centro della seicentesca Place Vendôme, dopo la vittoria di Auster-litz, che ha un diretto riferimento alla Colonna Traiana; e la colonna monoli-tica in granito rosso finlandese, non coclide, realizzata dallo zar Alessandro I a San Pietroburgo, dopo la vittoria sulle truppe napoleoniche da parte della Sesta Coalizione, quasi una risposta politica alla prima: il ruolo urbano della colonna è fondamentale nella sterminata piazza semicircolare del Palazzo d’Inverno che, in assenza di essa, diventerebbe una cortina edificata continua priva di elementi di riferimento.

    In entrambi i casi, però, si tratta di due colonne onorarie tout court, manufatti realizzati ex post rispetto alla realizzazione dei rispettivi invasi, in chiave mne-monica del potere e collocati esattamente all’incrocio degli assi di simmetria dello spazio urbano, non realizzati in funzione degli stessi in chiave gerarchica.

    49 In realtà non si tratta di un’ellisse regolare, luogo dei punti di un piano equidistanti da due punti fissi detti fuochi.

    0 Vittorio Franchetti Pardo, La cultura urbanistica italiana nel Quattrocento, in Storia dell’ur-banistica. Dal trecento al Quattrocento, Roma-Bari, Laterza, 198, p. 8.

    4. Gli obelischi e le guglie

    Jacques Le Goff ricorda come

    nell’antico Oriente le iscrizioni commemorative hanno portato al moltiplicarsi di monumenti quali le stele e gli obelischi. In Mesopotamia hanno dominato le stele, su cui i re vollero immortalare le proprie imprese per mezzo di rappresentazioni figurate accompagnate da un’iscrizione, fino dal III millennio.1

    L’obelisco è stato il modello commemorativo e propagandistico, oltre che mnemonico, più utilizzato nell’antichità, con evidenti caratteristiche legate alla verticalità monolitica e all’imponenza spaziale, almeno sino alla fine del I millen-nio a.C., nell’area mediorientale e mediterranea: da qui la civiltà romana, spinta dalle stesse motivazioni, ha traslato questo modello anche fisicamente e in con-temporaneo abbinamento al modello della colonna onoraria.

    Il loro considerevole numero rinvenuto nell’ambito delle rovine di Roma si è perfettamente integrato agli interventi sistini, volti a rievangelizzare l’origine pa-gana del cristianesimo mediante l’utilizzo degli obelischi che da secoli giacevano abbattuti nei Fori, con l’intento di trasformare sistematicamente la città da pa-gana a cristiana: abbiamo già posto l’accento sulla funzione urbanistica di questi manufatti ed è indubbio che il disegno del Papa vada ben oltre quanto affermato dal Milizia, che riduceva il fenomeno a una loro ricollocazione solo “per fasto” e con unica funzione di mostrare il centro della piazza e nient’altro, in mezzo a uno spazio vuoto.

    Di certo il diffuso fenomeno dell’erezione delle guglie sacre nel Mezzogior-no d’Italia, intese come punti di riferimento sia urbani che religiosi, trova in quel programma il precedente metodologico e linguistico.

    Nel più illustre caso delle tre guglie sei-settecentesche di Napoli dedicate a San Gennaro, San Domenico e all’Immacolata Concezione,

    l’obiettivo primario della politica ecclesiastica era la persuasione delle masse di fedeli ai dettami canonici, ed in epoca post-tridentina i sermoni sacri predicati in chiesa dal pulpito e gli stendardi processionali non erano più sufficienti a soddisfare le mire propagandistiche della dottrina ufficiale. (fig. 1)

    Di là dal contenuto dottrinale è implicito che l’elevazione di questi, come di altri manufatti simili soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, ma anche nell’Euro-pa centrale cattolica, ha posto nei rispettivi progettisti veri e propri problemi di carattere urbanistico in senso moderno: questo tenendo presente che la loro si-stemazione, nell’ambito di tessuti urbani storicamente consolidati, doveva surro-gare le esigenze di culto e aggregazione popolare con quelle dell’organizzazione spaziale complessiva. Non si tratta, quindi, di semplici elementi di arredo urbano, ma di manufatti architettonici complessi che surrogano i principi della scultura

    1 Jacques Le Goff, Memoria, cit., p. 107. Gaia Salvatori, Corrado Menzione, Le guglie di napoli: storia e restauro, Napoli, Electa,

    198, p. 1.

  • 44 GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM 4

    a rilievo e tutto tondo con quelli della decorazione con lo scenario ambientale: è scultura architettonica.

    È comunque il caso di soffermarsi sul fenomeno delle guglie che hanno rap-presentato un episodio architettonico, coerente nella loro articolazione formale, in grado di raccordare la cultura artistica dell’Europa centrale con quella meridio-nale. La diffusione del modello non solo nel Mezzogiorno sottolinea il suo carat-tere di motore per la formazione di una koinè che non trova esempi analoghi per diffusione e produzione in altri periodi. L’obelisco-piramide di grandi dimensioni pesca il suo modello nelle macchine da festa effimere in legno e cartapesta, in uso nell’Italia centro-meridionale, ma ha il suo precedente nella decorazione plasti-ca della seconda metà del Cinquecento diffusa nell’Italia settentrionale a Padova, Pavia e in Spagna.4 Senza tralasciare il contributo di scultori e marmorari toscani attivi a Napoli a cavallo tra i due secoli, come Michelangelo Naccherino, Pietro Bernini e Giovanni Antonio Dosio, che vi crearono botteghe: Cosimo Fanzago, prima di trasferirsi a Napoli, si formò nella cerchia lombarda del Tibaldi e del naturalismo caravaggesco, e frequentò, nel primo decennio del Seicento, la bot-tega romana del Bernini; nella capitale poté vedere gli obelischi già innalzati da Domenico Fontana per Sisto V.

    Il proficuo interscambio, durato un secolo, non può far considerare gli esem-pi partenopei come elementi di declinazione del linguaggio aulico, ma semmai il contrario; questo grazie al ruolo dei protagonisti dell’epoca che, partendo dal Fanzago, si possono individuare nelle figure di Domenico Antonio Vaccaro, Fer-dinando Sanfelice, Filippo Raguzzini, Ferdinando Fuga, in architettura e scultura, e di Jusepe de Ribera, Francesco Solimena, Mattia Preti, in pittura. Il tutto an-che nell’ambito dei rapporti politici con la casa d’Asburgo che favorì, attraverso l’obbligata tappa romana, il naturale flusso di idee artistiche tra Napoli e l’area danubiana. La Pestsäule fu eretta nel Graben viennese nel 19; la colonna della Trinità fu innalzata da Antonio Maria Beduzzi nell’Hauptplatz di Linz nel 17; un’altra colonna trinitaria fu realizzata dal veneto Giovanni Giuliani nel 179, nel

    L’altissima macchina di Santa Rosa di Viterbo, i cilii siciliani, i gigli di Nola, i ceri di Gubbio, i candelieri di Sassari, gli obelischi irpini ecc.

    4 L’obelisco è utilizzato in dimensioni ridotte per il candelabro bronzeo di Andrea Briosco nella padovana Basilica del Santo, per il candeliere di bronzo della Certosa pavese e, in pietra, sulla facciata della chiesa dell’Escorial, il cui impianto classicista deriva dall’architettura dei lombardi Pellegrino Tibaldi e Galeazzo Alessi; Gaia Salvatori, Corrado Menzione, Le guglie di napoli: storia e restauro, cit., p. .

    Nell’ambito della guerra di successione spagnola l’imperatore Carlo VI regnò anche su Na-poli dal 1707 al 174.

    Johann Bernhard Fischer von Erlach soggiornò a Roma intorno al 170 lavorando come scultore presso Philipp Schor: qui entrò in contatto con Gian Lorenzo Bernini e Francesco Bor-romini; nel 18 seguì Schor a Napoli, chiamato dal viceré Gaspar Méndez de Haro, dove era già realizzata la guglia di San Gennaro di Cosimo Fanzago; Hans Sedlmayr, Johann Bernhard Fischer von Erlach, in Enciclopedia universale dell’Arte, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 198, vol. V, ad vocem, coll. 40-4.

    cortile trapezoidale antistante alla facciata della chiesa dell’abbazia cistercense di Heiligenkreuz, a pochi chilometri da Vienna, confermando un modello formale liturgico ormai diffuso in Europa.7

    Si consolida, così, la nuova capacità di voltare la struttura in ornamento che, per naturale evoluzione, si tradurrà nella capacità di realizzare particolari combina-zioni tra imponenti impianti scultoreo-decorativi e chiari e leggibili concetti archi-tettonici di evidente completezza compositiva. Nell’esempio partenopeo questo si sintetizza nelle tre guglie erette nell’arco di un secolo, fra il 10 (San Gennaro) e il 178 (Immacolata), partendo dalla complessità della prima, caratterizzata da

    una serie di problemi statici e compositivi risolti in modo del tutto originale, frutto della geniale combinazione degli elementi tradizionali della colonna onoraria (basa-mento, piedistallo, colonna, capitello) e forme decorative barocche originali8

    attraverso la combinazione di innumerevoli forme geometriche diverse, per passare attraverso la semplificazione di quella di San Domenico, con forma di obelisco piramidale a sezione variabile, e giungere infine a quella dell’Immacola-ta, caratterizzata dalla composizione di due sole forme geometriche, una croce che interseca un cerchio (fig. 14).

    Il primo progetto fanzaghiano della guglia di San Gennaro si rifaceva alla tipologia di origine più antica della colonna onoraria,9 molto più coerente con l’utilizzo colto dell’obelisco in ambito controriformato legato alla politica papa-le; il secondo, e definitivo, risentirà invece del recupero dell’elemento formale sempre della colonna onoraria, ma rivisto alla luce dei contenuti delle tradizioni popolari religiose tipiche dell’ambito napoletano. Il Fanzago, che racchiude in sé la perizia dell’architetto unita a quella dello scultore, propendeva, evidentemen-te, per una fisionomia linguistica sostanzialmente naturalistica, sviluppatasi nella sua originaria formazione lombarda e che non rinnega completamente neanche a Napoli, dove questa si rafforza attraverso lo studio della plastica spagnola tardo-cinquecentesca e quello delle opere del Caravaggio e seguaci.0

    Ancora oggi la guglia del santo patrono si evidenzia nella sua dimensione in un ambito probabilmente sottodimensionato rispetto alle piazze delle altre due guglie: è la stretta piazza Riario Sforza, delimitata su tre lati dalla cattedrale e dagli edifici contermini e con unico accesso, a sud-est, da via Tribunali (decu-mano massimo) che incrocia a pochi metri via Duomo (cardo massimo; fig. 1). Di là dall’importanza mnemonica del sito, non a caso coincidente con il cuore della città romana, il contesto si presenta come fondale scenografico nel quale

    7 Non va dimenticata la piccola guglia di Plaza del Triunfo a Siviglia eretta come ex voto per il terremoto del 17 e, tra le altre, la guglia dell’Immacolata di Bitonto, realizzata nella piazza della cattedrale nel 171, sempre a seguito di un terremoto.

    8 G. Salvatori, C. Menzione, cit., p. 9.9 Ivi, p. 4.0 Ivi, p. 47.

  • 4 GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM 47

    la guglia può essere esperita, in tutta la sua altezza, solo dalla predetta via: la sua originale e innovativa morfologia e l’altezza pari agli edifici circostanti la identi-ficano come naturale simbolo liturgico, in continuità con il gotico duomo retro-stante, in grado di confermare lo Zeitgeist dell’epoca.

    La guglia di San Domenico, completata nel 1771 da Domenico Antonio Vaccaro, sorge all’interno dell’omonima piazza trapezoidale che individuava il confine meridionale dell’insula domenicana, soluzione di continuità nell’omoge-neo assetto urbano, originariamente estesa dal decumano inferiore (vie Benedetto Croce e San Biagio dei Librai) a quello massimo: la posizione della guglia è indivi-duata dal punto d’intersezione delle diagonali del trapezio e marcata da una stella a dodici punte tracciata sul selciato. La piazza, definitasi come tale fra XV e XVI secolo e circondata dai prestigiosi palazzi del Balzo e di Sangro, servì a rimarcare,

    con maggiore evidenza urbanistica, l’importanza di uno spazio aperto e allo stesso tempo concentrato nella zona d’influenza dell’ordine domenicano, la cui chiesa era stata sacrificata ad avere il suo ingresso principale da un vicolo angusto.

    L’erezione della guglia sancisce in modo definitivo il ruolo dominante dell’or-dine, fondato dal patrono principale del regno, ed è abbinata, in chiave apotropai-ca, a quella di San Gennaro notoriamente utilizzata come protezione dalle intem-peranze del Vesuvio (l’ultima grande eruzione, che fece propendere i napoletani a chiedere la protezione del santo, è del 11) e dalle ricorrenti pestilenze (l’ultima quella del 1): l’anno dopo, il 4 settembre 17, gli “eletti della città” decisero di erigere una piramide con la statua di San Domenico, dichiarando di voler parte-cipare alle spese.

    Anche in questo caso il manufatto, frutto dell’inventiva progettuale del Fanzago, rispettata quasi completamente sino alla fine, deriva direttamente dal modello dell’obelisco, già da questi utilizzato come elemento decorativo in altri progetti minori: riprende il modello dei più illustri omologhi tardo-cinquecente-schi romani, con più basi sovrapposte a sostegno del monolite, ma, superandolo, fonde in una struttura organica l’elemento formale verticale con gli interventi scultorei. I quattro puttini a tutto tondo, collocati sotto la cornice che separa gli interventi seicenteschi da quelli settecenteschi, enfatizzano la componente pla-stica del manufatto che si inquadra perfettamente, con il candore del marmo, fra l’alto piedistallo modanato in pietra vulcanica e il colore bronzeo della statua del patrono sulla sommità. Questa è rivolta, come nel caso di San Gennaro, verso

    1 Un disegno riportato nella nuova guida de’ forestieri di Domenico Antonio Parrino, stam-pata a Napoli nel 17, conferma la situazione di incompleta realizzazione della guglia, rivestita di marmi sino a metà dell’altezza e priva della statua bronzea del Santo, in G. Salvatori, C. Menzione, Le guglie di napoli, cit., p. 7. La data è confermata anche dall’epigrafe posta sul prospetto sud della base del piedistallo marmoreo.

    Il primo progetto del Fanzago fu modificato, dopo il 18, da Francesco Antonio Picchiatti e ripreso dopo cinquant’anni di sospensione dal Vaccaro, in G. Salvatori, C. Menzione, Le guglie di napoli, cit., pp. 4, 70.

    Ivi, p. 9.

    un decumano,4 quello inferiore, che intercetta a qualche centinaio di metri an-che largo Trinità Maggiore, sito della terza monumentale guglia: la sua presenza dominante e ammonitoria è sintomatica anche in rapporto al medaglione raffi-gurante il papa domenicano Pio V, che fa da medium guardando verso l’abside poligonale della grande chiesa angioina.

    La terza guglia, dedicata all’Immacolata Concezione, progettata da Giusep-pe Genoino e conclusa nel 1748, ha il ruolo di cardine nell’ambito di un’altra pre-stigiosa insula, quella dei gesuiti, luogo sintomatico per la città, sede dall’epoca angioina a quella aragonese della Porta Reale (demolita per l’allargamento delle mura spagnole verso i nuovi quartieri) e, dal 170, del monumento equestre a Filippo V. In tale maniera al largo Trinità Maggiore, su cui prospetta la chiesa bugnata del Gesù Nuovo,7 era conferito un maggiore rilievo urbanistico. La di-mensione dell’aguglia era tale da spingere il duca di Monteleone a chiedere al re Carlo III di Borbone la sospensione dei lavori perché temeva che, in caso di terre-moto, il crollo potesse danneggiarne il palazzo prospiciente la piazza; l’esuberan-za del suo impianto scultoreo e decorativo e la sua carica simbolica emergono al centro dello spazio urbano segnato dalla sua monumentale presenza, ancora oggi evidente soprattutto salendo da Calata Trinità Maggiore,8 e «suscitano come l’ef-fetto d’una sorpresa urbanistica per chi vi sopraggiunge dopo aver percorso la maglia a scacchiera dell’antico tracciato greco-romano della città».9 La piazza del Gesù Nuovo è una delle soluzioni di continuità dell’assetto urbanistico di età classica confermato, nel Medioevo, nella morfologia trapezoidale definita dalle due grandi emergenze architettoniche delle chiese dei Gesuiti e di Santa Chiara.

    È un unicum per dimensione e ricchezza di dettagli decorativi, anche rispetto agli altri due esempi partenopei, che non ha eguali in tutta Europa. L’assetto com-plessivo, frutto dell’alternanza di sezioni cruciformi e circolari, deriva dalla per-fetta integrazione fra struttura portante e rivestimento marmoreo che favorisce la «fusione tra massa muraria e ornamentazione»;70 l’architettura, in questo caso, non può prescindere dalla scultura, come sottolineato dalle quattro grandi statue a tutto tondo di santi gesuiti71 collocate, con grande risalto, sui plinti della balau-stra mediana generata dall’incastro fra un cerchio e una croce. Siamo di fronte al

    4 In questo caso è quello inferiore che insieme al superiore, posto a nord del massimo, inqua-drava con precisione le insulae della città romana.

    La data è riportata nella lapide marmorea collocata sul prospetto a sud del basamento. Venne abbattuto due anni dopo dagli austriaci nel loro ingresso a Napoli nell’ambito della

    guerra di successione spagnola.7 È stata realizzata alla fine del XVI secolo sul preesistente palazzo Sanseverino, progettato

    dall’architetto Novello da San Lucano nel 1470, come si evince dall’epigrafe di facciata: è un magnifi-co esempio di paramento bugnato diamantato quattrocentesco in pietra piroclastica che testimonia la precoce sintesi culturale del linguaggio rinascimentale nel Mezzogiorno.

    8 Il collegamento diretto con via Toledo è stato realizzato agli inizi del secolo scorso.9 G. Salvatori, C. Menzione, Le guglie di napoli, cit., p. 7.70 Ivi, p. 81.71 Si tratta di Sant’Ignazio, San Francesco Xavier, San Francesco Borgia e San Francesco Regis.

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    prodotto intellettuale di uno dei più raffinati anche se misconosciuti protagonisti della cultura artistica del Settecento napoletano.7

    La fortuna del modello dell’aguglia o aculea è confermata dalla sua diffusione in una particolare area geografica del Meridione, il Salento, legata culturalmente a filo doppio con la capitale del regno. I quattro manufatti ascrivibili alla categoria sono stati realizzati nell’arco di un secolo, tra la fine del XVII secolo e la fine del successivo, nelle cittadine di Ostuni, Lequile, Nardò e Vernole: sono tutti tribu-tari del modello colonna-statua, realizzato nella piazza Sant’Oronzo di Lecce nel 18,7 attuale centro simbolico dello spazio urbano,74 che ha gli illustri precedenti nelle colonne risemantizzate di Roma e nel primo progetto per l’obelisco di San Gennaro di Cosimo Fanzago del 17.7 L’elemento comune, che ha favorito la realizzazione delle guglie, oltre al linguaggio artistico consolidatosi nel capoluo-go salentino dalla metà del XVI secolo in poi, è certamente il materiale, la tenera pietra calcarenitica autoctona che si indurisce dopo l’esposizione all’aria.

    La guglia di San Vito di Lequile, cittadina a pochi chilometri a sud di Lecce, feudo dei baroni Saluzzo,7 anticipa di molto sia quelle salentine sia le altre due par-tenopee: è stata realizzata dallo scultore salentino, nonché sindaco della cittadina, Oronzo Rossi fra il 19 e il 194, come si leggeva nella data incisa ai piedi della statua (fig. 1).77 La notizia è attendibile perché sulla parte posteriore del basamento della statua è presente un’iscrizione mutila,78 oggi illeggibile per via del degrado della pietra. Il culto del Santo, iconograficamente accompagnato da due cani ai piedi, è molto diffuso nella civiltà agricola meridionale ed è testimoniato dalla presenza di numerosissime chiese a lui dedicate, come quella edificata nella stessa Lequile nel 170.79 Il manufatto è collocato nella piazza triangolare, generata da un allargamen-

    7 Giuseppe Genoino era considerato tra i più valenti architetti dell’epoca di Carlo III di Bor-bone, secondo solo a Ferdinando Fuga e Luigi Vanvitelli.

    7 Gaetano Cataldo, Renovatio e forma urbis. Il ruolo dei Palazzi del Sedile nella determinazione della scenografia urbana, «Annuario Accademia di Belle Arti di Venezia», III, 01, p. 1.

    74 Gli altri elementi di rilievo della piazza realizzati nel corso del XVI secolo, oltre al Palazzo del Sedile, erano la statua equestre dell’imperatore Carlo V d’Asburgo e la fontana sormontata dalla statua del figlio di costui, re Filippo II di Spagna; ivi, p. 14.

    7 Pubblicato in G. Salvatori, C. Menzione, Le guglie di napoli, cit., p. 4.7 I Saluzzo, provenienti dalla Liguria, si distinsero per fatti d’armi nel Regno di Napoli e

    governarono il feudo della città salentina dal 14 al 18, acquisendo anche il titolo di principi di Lequile; Amilcare Foscarini, Lequile: pagine sparse di storia cittadina, a cura di Michele Paone, Ga-latina, Congedo, 197, tavola genealogica f.t.

    77 Gino Scardino, Lequile... all’ombra di San Vito. Storia, tradizioni e culto, Galatina, TorGraf, 00, p. 9; l’autore riprende la notizia dal secondo tomo di un’opera di padre Bonaventura da Lama, la Cronica de’ minori osservanti riformati della provincia di San nicolò composta dal r.p. Bonaventura da Lama, parte prima, in Lecce, dalla stamperia di Oronzio Chiriatti, 17; il volume che riporta la no-tizia, dello stesso autore, si intitola Dove si descrivono i conventi, che attoalmente possedono; colle notizie di quelle citta, e ville, dove furono fabbricati, composta dal r.p. Bonaventura da Lama, in Lecce, dalla stam-peria di Oronzio Chiriatti, 174.

    78 Il contenuto del testo è «1[...] FRA[...]».79 L’epigrafe in facciata recita «D.O.M. / DIVO VITO PATRONO / LEQUILENSIUM PIETAS / AUGU-

    STIUS/INSTAURAVIT / A.D. 170».

    to della strada che collega il capoluogo con Gallipoli, delimitata dal palazzo Saluzzo, dal municipio e da un istituto scolastico realizzato su manufatti preesistenti. Poggia su un piedistallo anch’esso triangolare, con i vertici smussati, simile a una crepidine: in corrispondenza, nell’ordine superiore, sono presenti nicchie che ospitano statue di santi;80 in asse culminano con piccoli obelischi basati su cherubini – il cui riferi-mento è nel Santa Croce di Lecce –, che inquadrano la struttura verticale caratteriz-zata dalla consueta decorazione prodotto della koinè artistica salentina. L’integrazio-ne della guglia con l’assetto urbano conferma la sua impostazione architettonica già pensata come manufatto scultoreo destinato a uno spazio pubblico.

    La guglia di Sant’Anna di Vernole, protettrice della cittadina del Salento sud-orientale, è stata ultimata nel 1781, così come si evince dalla data in numeri roma-ni riportata sul lato ovest della base; un’altra data, collocata subito sopra la prima, riportava l’anno 171,81 corretto successivamente. La statua guarda verso la strada che conduce alla vicina omonima chiesa, edificata fra il 17 e il 1808 lungo la strada di Melendugno, in originaria posizione extra urbana, come riportato anche nella visita pastorale del 17.8 È collocata al vertice della piazza triangolare, delimitata dalla strada diretta nel sud della penisola e verso la costa adriatica: dal fronte ar-chitettonico che perimetra l’invaso emerge il palazzo Baronale,84 dotato di un bel portale bugnato, che coordina l’altezza degli edifici circostanti (fig. 17). La guglia è collocata su un piedistallo gradonato ottagonale che genera gli ordini superiori, con dimensioni proporzionalmente ridotte verso l’alto, raccordati da volute: sulla som-mità sono presenti le due statue della patrona e della Madonna infante. A un terzo dell’altezza sono presenti le canoniche quattro statue di santi (San Giuseppe, San Paolo, Sant’Oronzo e Santa Irene) disposte a croce di Sant’Andrea verso l’esterno.

    L’obelisco di Sant’Oronzo di Ostuni, realizzato in chiave apotropaica antipesti-lenza nel 17718 dallo scultore ostunese Giuseppe Greco,8 ancora oggi si identifica come cardine urbano di raccordo fra la città medievale, arroccata su un cacume circolare, e l’espansione settecentesca realizzata sacrificando il tracciato murario meridionale (fig. 18).87 La data è confermata anche dall’epigrafe collocata sul pro-

    80 Si riconosce solo San Giuseppe con il Bambino; le altre due, vestite con saio, hanno la fisio-gnomica danneggiata e una è acefala.

    81 È un probabile errore del lapicida che avrebbe inizialmente omesso la L del numero roma-no cinquanta, sovrapposta in seguito alla prima X.

    8 Luciano Graziuso, Vernole e frazioni dal passato al presente: monumenti e documenti, Cavalli-no, Lorenzo Capone, 1979, p. 0.

    8 «Quae est constructa in angulo huius oppidi in via quae ducit ad marem», ivi, p. 0 nota 41.84 È stato realizzato fra il 17 e il 17, come risulta dalle date incise su due architravi delle

    finestre del primo ordine .8 Antonio Sozzi, ostuni nella storia, Fasano, Schena Editore, 198, p. 44.8 Pietro Marti, Ruderi e monumenti nella penisola Salentina, Lecce, Primaria Tipografia

    “La Modernissima”, p. 1.87 Recenti scavi che hanno interessato la triangolare piazza della Libertà, la cui base è delimi-

    tata dal municipio realizzato sul preesistente monastero dei francescani conventuali, hanno messo in luce il basamento scarpato di una torre circolare aragonese e un breve tratto di mura.

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    spetto sud del manufatto88 che ricorda molto da vicino l’omologo napoletano del Gesù Nuovo dedicato all’Immacolata, per conformazione, altezza (prossima ai ventuno metri) e riferimenti morfologici: è la summa di quello realizzato a Napoli dai domenicani, per i riferimenti al modello del candelabro bronzeo sintetizzato nella sezione quadrangolare variabile, con quello dei gesuiti per la netta sequenza orizzontale in ordini con balaustri su cui poggiano le statue. Nell’esempio ostu-nese, a circa metà dell’altezza, ai quattro vertici sono collocate le statue dei Santi Biagio, Agostino, Irene e Gregorio; come nel modello del Gesù, in corrispondenza di queste, sull’ordine superiore, altrettanti puttini alati. Sui quattro prospetti del primo ordine, immediatamente sotto la balaustra, altre quattro coppie di angioletti sostengono cartigli con le iscrizioni ben leggibili anche da terra.89 Oggi il manufat-to risente delle trasformazioni del sedime e presenta il basamento circolare parzial-mente interrato a causa dei lavori di realizzazione della strada Lecce-Bari-Napoli, eseguiti nel 1840 appena fuori del centro antico in posizione tangente alla guglia.

    La guglia dell’Immacolata di Nardò è stata realizzata nel 17990 nell’attuale piazza Salandra, di forma triangolare e caratterizzata dalla presenza del Munici-pio, ricostruito nel 177 (dopo il terremoto del 174), del cinquecentesco Palazzo del Sedile e della settecentesca chiesa di San Trifone;91 è alta circa venti metri e rappresenta quasi un ritorno al primitivo modello della colonna per la presenza del basamento in forma di gigantesca base attica9 in pietra calcarea bianca, ben evidente rispetto al colore della pietra sedimentaria del fusto. Anche la statua del-la Vergine, magistralmente realizzata in marmo bianco,9 è diversa da quella delle altre guglie analizzate, tutte eseguite in carparo; presenta, in posizione mediana, le statue dei santi Giuseppe, Giovanni Battista, Anna e Domenico: si distingue per

    88 Il testo recita «DIVO ORONTIO / PATRONO / IN OBSEQUIUM / CIVES ET POPULUS / DICA[VE]- RUNT / ANNO MDCCLXXI».

    89 Quella di ovest recita «HOSPES / MOLEM QUAM CERNIS / POPULO DEBES»; quella posta a nord «NEC POTIOR / NEC PAR / IN PROTEGENDO»; infine quella di levante «EXTINCTA FAME / ABLATA EPIDE-MIA / RESTITUTA SALUTE / DIVO ORONTIO / PROTECTORI / PERENNE DIVOTIONIS / MONUMENTUM / OSTUNEN POSUIT».

    90 Stefano Leopizzi, Giovanni Vernich, Itinerari turistico-culturali, IV, Sulla via delle capitali del barocco. nardò. La guglia dell’Immacolata. note storiche e progetto di restauro, Nardò, Centro regionale servizi educativi e culturali LE/41, 1989, p. 11.

    91 Realizzata tra il 170 e il 17 da Ferdinando Sanfelice, fratello del vescovo neretino Antonio (sulla cattedra dal 1707 al 17), progettista di numerosi manufatti a Napoli e nella città salentina, quali l’innovativa chiesa della Purità (declinazione del linguaggio guariniano sull’asse Torino-Lecce-Messina), la cattedrale e il seminario. Non va tralasciata l’importanza della sede episcopale neretina direttamente collegata a Napoli e Roma e che ebbe tra i pastori, dal 1 al 1, il cardinale Fabio Chigi, futuro papa Alessandro VII (1-17).

    9 La base, corretta e proporzionata nella sequenza dei tori e della scozia, sembra voler mar-care la netta separazione del manufatto con il terreno di fondazione.

    9 È opera dello scultore napoletano Matteo Bottigliero, allievo di Lorenzo Vaccaro, e fu tra-sferita a Nardò il 1 settembre 1749, retrodatando in tal senso l’esecuzione della stessa guglia; si veda anche il recente contributo di Ugo Di Furia, nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di nardò, Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, 01 (http://www.fondazioneterradotranto.it/01/10/1/nuovi-documenti-sulla-guglia-dellimmacolata-di-nardo/).

    un rigoglioso apparato decorativo che non è passato inosservato nelle descrizioni dei monumenti salentini (fig. 19)94.

    Non si può qui non citare un insolito manufatto specifico della città neretina, l’Osanna,9 realizzata nel 109 di fronte alla ormai distrutta porta di San Paolo, una delle quattro porte urbiche neretine: la funzione era liturgica e faceva da pendant con la vicina chiesetta della Carità, anch’essa con pianta ottagonale e relazionata alla fiera cittadina. È un tempietto a pianta ottagonale con le colonne appoggiate su una crepidine, anche ottagonale, oggi incassata rispetto al sedime stradale:97 gli archi polilobati, restaurati, sostengono una trabeazione su cui è appoggiata la cupo-la ottagonale a spicchi; il verticalismo delle colonne, con base attica, è sottolineato dagli obelischi collocati sulle mensole aggettanti della trabeazione. All’interno è pre-sente una nona colonna, pure monolitica e di diametro maggiore, che rimanda alle tipologie descritte in precedenza. È un unicum ascrivibile ai «modelli dei reliquiari quattrocenteschi e delle composizioni architettoniche di edifici religiosi tanto cari a Francesco di Giorgio Martini e Giuliano da Sangallo» (fig. 0).98

    La colonna di Sant’Andrea di Presicce (fig. 1), situata nella piazza principale del comune dell’estremo sud salentino, è certamente stata eretta dopo il terremo-to del 174 che danneggiò l’antica parrocchiale di Sant’Andrea Apostolo, sostituita dall’attuale tra il 1778 e il 1781, come si evince dall’epigrafe di facciata99 sostenuta da due cherubini. È collocata su un’alta crepidine a base quadrata, con angoli smussa-ti, su cui poggia il basamento, decorato a fasce con motivi fito-zoomorfi, concluso da una balaustra: sui quattro pilastri d’angolo sono scolpiti otto piccoli telamoni alati, con facies angelica, che reggono le statue delle virtù cardinali.100 Al centro c’è il plinto della colonna monolitica, in carparo, che poggia su quattro leoni stilofori alternati a busti d’angelo: il capitello che sostiene la statua del Santo, caratterizzato da decorazioni zoomorfe, conferma nell’insieme l’influsso della plastica della chie-sa leccese della Santa Croce,101 opera cinquecentesca di Gabriele Riccardi.

    94 Il Marti la descrive così: «Guglia commemorativa in carparo, con in cima la statua dell’Im-macolata, opera settecentesca di ornamentazione esuberante fino al delirio»; Pietro Marti, Ruderi e monumenti nella penisola Salentina, cit., p. 1.

    9 Nel vernacolo salentino l’Osanna, o Sannà, indica generalmente un monolite in pietra di origine preclassica o romana rievangelizzato con l’incisione di una croce.

    9 L’iscrizione sulla cornice della trabeazione pseudo-dorica recita: «HOC HOSANNA AD DEI CUL-TUM A FUNDAMENTIS AERE PUBLICO / ERIGENDUM CURARUNT / OCTAVIUS THEOTINUS ET LUPUS ANTO-NIUS DIMITRI SYNDICI MDCIII».

    97 Il manufatto è oggi ridotto a spartitraffico della viabilità extra moeniale neretina.98 Donato Giancarlo De Pascalis, Il tempietto dell’osanna a nardò: aspetti urbanistici e architet-

    tonici, «Il tesoro delle città. Strenna dell’Associazione Storia della città», I, 00, p. 188.99 L’ultimo rigo è danneggiato e riporta la data MDCCLXX; la corretta datazione (1781) si ricava

    dalla trascrizione riportata in Antonio Stendardo, Percorsi. Presicce 1750-1900, Galatina, Editrice Sa-lentina, 198, p. 1.

    100Le quattro statue a tutto tondo, irriconoscibili per il degrado, sono acefale, ad eccezione di quella di sud-ovest.

    101 La facciata della chiesa leccese ha costituito un ampio catalogo figurativo di riferimento in tutto il Salento per la ricchezza del bestiario ivi raffigurato, in uno con le varie tipologie antropiche presenti, recuperando un patrimonio simbolico di schietta origine medievale.

  • GAETANO CATALDO MnéME MEMEntuM MonuMEntuM

    È la sintesi linguistica di un lungo percorso semantico, quello del barocco lec-cese, debitore della plastica medievale federiciana10 e della «filologia antiquaria del Ghiberti, di cui Michelozzo è discepolo, e alla contraddittoria ma feconda, smisu-rata curiosità culturale dell’Alberti».10 E non solo: le lesene riquadrate e i profi-li infrascati provenienti dalle grottesche sono consoni alla «produzione lombarda gravitante attorno all’Amadeo, a Pavia, Cremona, a Bergamo, ma anche a Venezia nell’opera di maestri d’origine comasca, come i Rizzo e i Lombardo».104 Il tutto me-diato dall’edizione dei dieci libri vitruviani redatta e illustrata da Cesare Cesariano nel 11, che resta

    una delle più probabili fonti alla quale attingono le committenze e le maestranze di molte aree italiane e iberiche nell’accogliere elementi di una linguistica dell’avan-guardia lombardo veneta, fiorita anche in seno al grande cantiere del duomo di Mi-lano, del quale Cesariano è attento e critico osservatore.10

    In ambito storiografico la fortuna delle guglie tramonta sotto le nuove in-dicazioni antibarocche del neoclassicismo, tant’è che il Milizia considerò «inu-tili» gli obelischi di Roma e «capricciose» le guglie di Fanzago a Napoli, mentre qualche decennio dopo Leopoldo Cicognara cercava di salvare la magnificenza almeno degli obelischi romani per accusare la stranezza degli ornamenti delle guglie di Napoli.

    . Conclusioni

    È indubbio che la trattazione di una così particolare tipologia di manufatti che attraversa tutto il percorso della storia sociale dell’uomo richieda spazi edi-toriali molto maggiori rispetto a questi e, in tal senso, mi riservo di riprendere l’argomento in ambito monografico.

    In ogni caso, qualche riflessione conclusiva sul ruolo di questi manufatti va fatta, proprio nell’ambito della progettazione degli spazi di riferimento, quando realizzati in maniera sincrona agli stessi, o del ruolo di cardine mnemonico o simbolico, quando realizzati ex post. Superando ormai l’orientamento filologico dominante sino a qualche decennio fa, tutti questi oggetti generati da un com-plesso procedimento scultoreo non possono essere ridotti a elementi di “arredo urbano”, come qualsiasi aiuola, dissuasore o balaustra in pietra.

    Nel caso della colonna o dell’obelisco isolati va evidenziato il ruolo nell’am-bito della costruzione della scena urbana nel condizionare la Raumgestaltung del luogo specifico: colonne onorarie situate al centro dei rispettivi fori, oggi in posi-

    10 Il riferimento è ai numerosissimi cantieri, civili e religiosi, attivati dall’imperatore Federico II di Svevia in tutta la Puglia.

    10 Mario Manieri Elia, Architettura Barocca, in La Puglia tra barocco e rococò, a cura di Cosimo Damiano Fonseca, Milano, Electa, 198, pp. -14: 4.

    104 Ivi, p. .10 Ivi, p. 40.

    zione marginale come la Traiana o ancora al centro geometrico come la Antoni-na; obelischi sistini utilizzati per individuare il centro progettuale delle rispettive piazze, spesso realizzate in seguito al loro collocamento; colonne marcatrici del potere dominante, come nel caso dei possedimenti della Serenissima.

    Le colonne binate, che riprendono il noto assioma geometrico,10 individua-no con la loro verticalità un piano virtuale che si configura come diaframma spa-ziale in grado di ricucire un fronte urbano e gerarchizzare piazze plurime. O, nel caso di una progettazione sincrona, individuare con precisione i punti generatori dello spazio urbano.

    Gli obelischi con funzione apotropaica o devozionale, ma pur sempre com-missionati da un ordine religioso in cerca di riconoscimento (a Napoli i gesuiti, i domenicani o il capitolo della cattedrale per San Gennaro; nel Salento le co-munità territoriali), sono collocati nei punti nodali delle piazze di riferimento, spesso caratterizzate da piante poligonali complesse o triangolari, confermando l’omoglossia del tipo. Si conferma, così, l’idea albertiana che un’arte “finisce” un’altra arte, nel senso che un’arte come la scultura completa un’altra arte come l’architettura.107 Nel caso delle guglie, vere opere architettoniche con valenza ur-banistica, la collocazione di una statua sulla sommità completa il manufatto, ov-viamente utilizzando il concetto di dimensio (misura) che definisce le proporzioni generali e universali dell’oggetto rappresentato:

    A queste due risoluzioni o deliberazioni, per trattar la cosa più brevemente che sia possibile, corrispondono due cose, la misura cioè, ed il por de termini. Di queste cose adunque abbiamo a trattare, quali elle sieno ed a che ci possino servire, per condur l’opera a perfezione: se prima però io dirò che utilità si cavino da loro. Per-ciocché elle vera mente hanno una certa forza maravigliosa, e quasi incredibile.108

    Non si tratta, comunque, di manufatti realizzati per via di levare, ma di una progettazione architettonica intesa come aggregazione.

    In tal senso questi manufatti da tracce mnestiche diventano, letteralmente “pietre parlanti”: anche il più semplice menhir vagamente antropizzato ha qual-cosa da dire in relazione alla sua posizione, alla dimensione, alla morfologia; le colonne e le guglie diventano vere pietre logorroiche.

    Le Goff sottolinea, in conclusione al suo saggio, come fra le manifestazioni importanti o significative della memoria collettiva si può citare la comparsa, nel XIX secolo e all’inizio del XX, di due fenomeni sostanziali:

    Il primo è l’erezione dei monumenti ai caduti, all’indomani della prima guerra mon-diale. La commemorazione funeraria vi conosce un nuovo impulso. In molti paesi

    10Per due punti geometrici collocati su un piano passa una e una sola linea.107 Una statua posta in un loculo di una facciata di una chiesa riesce a completarla e Alberti, al

    riguardo, dà regole molto precise da seguire per le diverse collocazioni delle sculture.108La citazione di Leon Battista Alberti dal De Statua (14) è tratta dall’edizione Giusti Fer-

    rario e co. del Della Pittura e della Statua di Leonbatista Alberti, Milano, Società tipografica de’ Classici Italiani, 1804, p. 11.

  • 4 GAETANO CATALDO

    vien innalzato un monumento al Milite Ignoto coll’intento di ricacciare i limiti della memoria associata all’anonimato, proclamando sul cadavere senza nome la coesione della nazione nella memoria comune. Il secondo è la fotografia, che sconvolge la memoria moltiplicandola e democratizzandola, dandole una precisione e una verità visiva mai raggiunta in precedenza, permettendo così di serbare la memoria del tem-po e dell’evoluzione cronologica.109

    Sono due componenti presenti e legate al destino delle Twin Towers del WTC, originariamente simili a due immense colonne gemine, come le Petronas Towers di Kuala Lumpur: ci si chiede se sia stato un caso che le torri del WTC di New York siano state scelte come obiettivo altamente significativo, nell’im-maginario collettivo, per essere colpite110 e abbattute. Di là dalla loro discutibile morfologia progettuale, caratteristica di un preciso momento linguistico della storia dell’architettura di circa mezzo secolo fa, esse hanno sempre caratterizzato come landmark lo skyline dell’isola di Manhattan per la loro posizione nel settore meridionale, vero punto d’ingresso al cuore della città per chi giungeva via mare attraverso la baia del fiume Hudson.

    Anche il tribute in Light, che per diversi anni ha caratterizzato l’immagine di Manhattan con due potentissimi fasci di luce laser verticali collocati sul sito del WTC, emulava la coppia di torri crollate confermando un’immagine ormai storicizzata, oggi non più visibile. Il progetto del “National September 11 Memo-rial”, inserito nella più vasta area del nuovo WTC, ha conservato l’impronta delle torri gemelle negandone, con il vuoto, la presenza attraverso due fontane della stessa dimensione degli edifici: è un ritorno al grado zero del paesaggio, inteso in termini di de-costruzione che da Derrida giunge a noi attraverso la Destruktion heideggeriana.

    109 Jacques Le Goff, Memoria, cit., p. 1097.110 Karlheinz Stockhausen, con la sua nota vis polemica, ha definito l’evento che ha tenuto

    incollato ai video la popolazione del mondo per un’intera giornata, «la più importante opera d’arte mai realizzata».

    Marco Tosa

    Architetture e sculture policrome a VeneziaL’immagine perduta della città antica

    Misterioso uomo dal triste destino! Sviato dalla vivezza del-la sua stessa fantasia e caduto nelle fiamme della sua stessa giovinezza! ancora ti rivedo nella mia immaginazione! una volta ancora la tua figura è sorta dinanzi a me!... No... non quale sei... nella tua fredda valle dell’ombra..., ma quale dovresti essere... mentre sperperi la tua vita in splendida riflessione in quella città di indistinte visioni, nella tua Ve-nezia, marittimo Elisio, caro alle stelle dove le ampie fine-stre dei palazzi palladiani guardano con profondo e amaro significato entro i segreti delle sue acque silenziose.Edgar Allan Poe1

    Oscure immagini di fascino, permeate di presagi solo evocati quanto tangi-bili: ecco la Venezia che spesso ha prestato la sua multiforme immagine a poeti e scrittori che, in tale luogo, affinarono così sensazioni e patologie dell’esistere. Carcassa buia e tenebrosa o smagliante di bianca luce estiva, persa nella calura umida dello scirocco come l’ha narrata Thomas Mann in Morte a Venezia, oppure isolato spazio della mente e dei sentimenti, raccontata da Iosif Brodskij nel suo intimistico Fondamenta degli incurabili.

    Letture di parte, mai obiettive ma attraenti, di certo artefici e continuatrici di un mito inossidabile per questa città sull’acqua sempre meno civis e sempre più Atlantide.

    Un legame indissolubile unisce la città storica di Venezia alle pietre, costi-tuendo ancora oggi un esempio unico di perfetto adattamento tra materiali di-versi, sia dal punto di vista tecnologico e genetico, sia da quello storico e stilistico,

    1 Edgar Allan Poe, the assignation (184), trad. it. L’appuntamento, in Id., tutti i racconti. Il resoconto di Arturo Gordon Pym. Le poesie, trad. it., introduzione e note di Carla Apollonio, Milano, Bietti, 197, p. 9.