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« I L MODO MIGLIORE per non morire giovani è invec- chiare»: questo uno degli epitaffi (in vita, sia chiaro) di Francesco Guccini, figura storica della canzone d’autore che non si riconosce in una età – ha compiuto 69 anni lo scorso 14 giugno – da molti votata alla riflessione, o al rimpianto. Invece, lo scrittore, poeta e musico continua a pubblicare dischi, con giusta parsimonia, e a girare per l’Italia. Il risultato è una vivacità di pensiero che va contro- corrente, anche rispetto ai cosiddetti giovani di oggi, sen- za risparmiarsi qualche piccola frecciata alle nuove genera- zioni. Austeramente in disaccordo con le varie forme di re- sa, Guccini racconta senza remore quello che sa di se stes- so e del proprio lavoro, «un che di artigianale, senza prete- se altissime, ma con una buona consapevolezza nei risulta- ti: insomma, non si tirano giù frasi e note così, per inerzia». In alcune delle sue ultime canzoni, quelle di Ritratti (2004), si sca- glia con molta convinzione contro i miti vacanzieri di questi tempi: per esempio il mare, le spiagge. Ha addirittura detto che «il mare può andarsene a quel paese». Si trattava di una frase, diciamo così, d’impatto, che esprimeva in realtà un po’ di costernazione nei confronti della vacanza con gli ombrelloni e cose del genere. Penso invece che il mare sia importantissimo, che dalla lotta con questa massa d’acqua comincino molte avventure. Certo, Ulisse non è ai miei occhi un navigatore, ma un personag- gio di Terra che reagisce alla vita, che si perde e si ritrova, fino alla morte oltre le Colonne d’Ercole. Ne ho scritto, ap- punto, in «Odysseus». Ulisse incarna quindi diverse qualità dell’uomo. Esattamente; infatti nelle tradizioni che parlano di lui è di volta in volta l’astuto, il temerario, il curioso, ma pu- re l’oppresso, quello che deve combattere lontano da casa. Fra le varie sue «fotografie» recenti c’è anche quella di Piazza Ali- monda, dove parla della morte di Carlo Giuliani, così come di una città che si spegne, Genova. Si tratta di un brano politico? Sì, e non aggiungo altro. C’è di sicuro un’accusa a un mo- do di gestire gli spazi «aperti» che tante volte è criminale. I «cattivi», quelli che permettono un sacrificio del gene- re, sono le strategie, l’indifferenza, il voltare le spalle e ri- manere freddi di fronte alle tragedie altrui. Genova non si spegne, comunque. Ricomincia a vivere nonostante tutto, dopo la morte, in un ciclo perenne. Cosa è cambiato rispetto ai tempi di «Primavera di Praga», per esempio? Si è ingrigito tutto. Allora sembrava che le linee guida fossero chiare. Magari non era esattamente così, ma i bloc- chi che si contrapponevano portavano a schierarsi. Adesso ognuno sta solo, non sul cuore della Terra, come dice il Po- eta, ma nella sua cameretta, malevolente e inerte. «Uscir di casa a vent’anni è quasi un obbligo»: parole sue. È naturale che i ragazzi stiano all’aperto; ogni motivo è buono, e meno male… Mi preoccupa la tendenza che adesso li vorrebbe tutti a ca- sa alle otto di sera. Non funziona, non può funzionare in questo modo: dovrebbero ri- Francesco Guccini e le sue creature sonore di John Vignola Udine – Palasport Carnera 3 aprile, ore 21.00 38 — l’altra musica l’altra musica

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Page 1: Francesco Guccini e le sue creature sonore - euterpevenezia.it · sa, Guccini racconta senza remore quello che sa di se stes-so e del proprio lavoro, «un che di artigianale, senza

«Il modo migliore per non morire giovani è invec-chiare»: questo uno degli epitaffi (in vita, sia chiaro) di Francesco Guccini, figura storica della canzone

d’autore che non si riconosce in una età – ha compiuto 69 anni lo scorso 14 giugno – da molti votata alla riflessione, o al rimpianto. Invece, lo scrittore, poeta e musico continua a pubblicare dischi, con giusta parsimonia, e a girare per l’Italia. Il risultato è una vivacità di pensiero che va contro-

corrente, anche rispetto ai cosiddetti giovani di oggi, sen-za risparmiarsi qualche piccola frecciata alle nuove genera-zioni. Austeramente in disaccordo con le varie forme di re-sa, Guccini racconta senza remore quello che sa di se stes-so e del proprio lavoro, «un che di artigianale, senza prete-se altissime, ma con una buona consapevolezza nei risulta-ti: insomma, non si tirano giù frasi e note così, per inerzia».

In alcune delle sue ultime canzoni, quelle di Ritratti (2004), si sca-glia con molta convinzione contro i miti vacanzieri di questi tempi: per esempio il mare, le spiagge. Ha addirittura detto che «il mare può andarsene a quel paese».

Si trattava di una frase, diciamo così, d’impatto, che esprimeva in realtà un po’ di costernazione nei confronti della vacanza con gli ombrelloni e cose del genere. Penso

invece che il mare sia importantissimo, che dalla lotta con questa massa d’acqua comincino molte avventure. Certo, Ulisse non è ai miei occhi un navigatore, ma un personag-gio di Terra che reagisce alla vita, che si perde e si ritrova, fino alla morte oltre le Colonne d’Ercole. Ne ho scritto, ap-punto, in «Odysseus».

Ulisse incarna quindi diverse qualità dell’uomo.Esattamente; infatti nelle tradizioni che parlano di lui è

di volta in volta l’astuto, il temerario, il curioso, ma pu-re l’oppresso, quello che deve combattere lontano da casa.

Fra le varie sue «fotografie» recenti c’è anche quella di Piazza Ali-monda, dove parla della morte di Carlo Giuliani, così come di una città che si spegne, Genova. Si tratta di un brano politico?

Sì, e non aggiungo altro. C’è di sicuro un’accusa a un mo-do di gestire gli spazi «aperti» che tante volte è criminale. I «cattivi», quelli che permettono un sacrificio del gene-re, sono le strategie, l’indifferenza, il voltare le spalle e ri-manere freddi di fronte alle tragedie altrui. Genova non si

spegne, comunque. Ricomincia a vivere nonostante tutto, dopo la morte, in un ciclo perenne.

Cosa è cambiato rispetto ai tempi di «Primavera di Praga», per esempio?

Si è ingrigito tutto. Allora sembrava che le linee guida fossero chiare. Magari non era esattamente così, ma i bloc-chi che si contrapponevano portavano a schierarsi. Adesso ognuno sta solo, non sul cuore della Terra, come dice il Po-eta, ma nella sua cameretta, malevolente e inerte.

«Uscir di casa a vent’anni è quasi un obbligo»: parole sue.È naturale che i ragazzi stiano all’aperto; ogni motivo

è buono, e meno male… Mi preoccupa la tendenza che adesso li vorrebbe tutti a ca-sa alle otto di sera. Non funziona, non può funzionare in questo modo: dovrebbero ri-

Francesco Guccini e le suecreature sonore

di John Vignola

Udine – Palasport Carnera3 aprile, ore 21.00

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Page 2: Francesco Guccini e le sue creature sonore - euterpevenezia.it · sa, Guccini racconta senza remore quello che sa di se stes-so e del proprio lavoro, «un che di artigianale, senza

bellarsi a certe cose, un po’ di più.Non le sembra che stia crescendo una generazione totalmente anaf-

fettiva, almeno a livello politico? Gli stimoli latitano, un po’ da ogni parte.

Direi che i segnali non sono confortanti, ma riguarda-no chi è già grandicello. La scommessa va fatta sui quin-dicenni, che vanno a scuola e sono nuovi alla vita. I geni-tori e i professori hanno grandi responsabilità. Non deve passare l’idea di un mondo menefreghista, in cui chiun-que fa il comodo suo. La generazione dei ventenni vive in quell’universo lì, e, nonostante qualche onda, rischia di ri-manere subissata da valori incredibilmente vuoti. Anzi, da non-valori.

Cosa è cambiato in tutti questi anni «al servizio» delle canzoni, nel suo modo di scriverle e concepirle? Ce n’è qualcuna in particola-re che detesta?

Ce ne sono parecchie; cosa vuole, in quarant’anni – la pri-ma che ha firmato è stata «Auschwitz», nel 1964, ndr – me ne so-

no venute fuori così tante… Non le dirò mai, però, la veri-tà: è una specie di rispetto nei confronti delle proprie cre-ature: uno le mette al mondo e poi non le può penalizza-re. Fanno la loro strada da sole. In questo il pubblico, più ancora dei giornalisti, è sovrano. Certo, io scrivo per ispi-razione. La fortuna della mia produzione, comunque, non dipende da me.

Una volta scrisse un’invettiva contro i critici, «L’avvelenata», che se la prendeva in particolare con Riccardo Bertoncelli, reo di avere scritto male di Stanze di vita quotidiana.

Fu uno sfogo, credo legittimo, rispetto a una continua tensione che avvertivo intorno a me. Ne fece le spese un critico che è poi diventato pure un buon conoscente, se non addirittura un amico. Come le dicevo, le canzoni, una volta incise e pubblicate restano. Uno non può mica ritrat-tare. Rappresentano però diverse fasi della vita del sotto-

scritto, non sempre in accordo fra di loro. Rispetto al pas-sato si sono modificati senz’altro i ritmi. La cernita del-le frasi mi costa più tempo, una volta operavo maggior-mente di getto. In fondo una canzone deve avere una tra-ma, un punto d’arrivo e una fine. Deve avere una struttu-ra poetica, ma anche una narrativa.…

In tempi piuttosto recenti è approdato alla pagina scritta, prima in solitaria, poi con Loriano Machiavelli, sul versante del noir. I tem-pi erano maturi, oppure ha subito qualche pressione?

Rifuggo la noia, amo raccontare storie, in realtà sono un romanziere in sedicesimo. Ecco perché, appena ne ho avuto occasione, ho firmato libri. Non li trovo «diversi» dalle canzoni, nel senso che si tratta di un percorso con-tiguo. Poi, è vero che la tecnica e gli spunti da sviluppa-re sono del tutto diversi. Trovo anche che il noir – grazie, per esempio, a uno come Lucarelli – sia una forma di ro-manzo-verità sulla realtà cupa che stiamo attraversando oggi. È un ambito che mi interessa molto, pure da lettore.

Che rapporto ha con la televisione oggi?Vedo soprattutto il telegiornale e Blob, di cui non per-

do una puntata. Poi, molti film. A Pavana non riesco a captare Raiuno, quindi faccio sempre a meno del suo tg. So che la tv è un elettrodomestico ma le parlo piuttosto spesso, per insultare chi c’è al di là del tubo catodico. ◼

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Ho incontrato una sola volta Fabrizio De André, ma in una situazione così particolare che mi pia-ce ricordarla.

Correva l’anno 1965: era esattamente martedì 7 settembre.

Alle nove in punto della mattina mi presentavo alla sede centrale della Siae, all’Eur, con la mia fisarmonica in spalla per sostenere gli esami di melodista non trascrittore.

Avevo viaggiato in treno tutta la notte, partendo in cuc-cetta di seconda classe da Venezia e arrivando a Roma Ter-mini attorno alle sette e trenta.

Non avevo la minima idea di cosa mi sarebbe capitato; mi aveva iscritto, as-sieme ad alcuni altri, la casa editrice Bella Ciao, sorta per depositare e pub-blicare i testi e le musiche che veniva-no raccolte nei «Dischi del sole», e que-sto epiteto di «melodista non trascritto-re» mi era, fino ad allora, sconosciuto.

Qualche mese prima avevo sostenuto l‘esame di paroliere, anzi di autore come si dice alla Siae, a Milano, e per la secon-da parte, quella che riguardava la musi-ca, bisognava andare a Roma.

Un usciere mi indicò la stanza do-ve dovevo entrare e oltre la porta d’in-gresso una saletta con delle sedie lungo le pareti raccoglieva già sei o sette per-sone, destinate a diventare più o meno una dozzina da lì a poco.

Uno sguardo, un saluto frettoloso e ognuno al suo posto, con il suo stru-mento musicale tra le gambe o a terra.

Abbondavano le chitarre, ma c’era anche la rappresentanza di altri stru-menti: un flauto, un violino, qualcuno non aveva nulla perché pensava di uti-lizzare il pianoforte; si poteva suonare con qualsiasi stru-mento. Era proibito soltanto il fischio; io esibivo l’unica fisarmonica.

Mi guardai attorno per vedere se c’era qualcuno di mia conoscenza, ma non ebbi conferme.

Dopo un po’ entrò, con un fare distaccato, direi quasi quel fare altezzoso che mi sembrava di avergli attribuito anche durante le esibizioni televisive, Tata Giacobetti del quartetto Cetra, che salutò a fatica e si mise solitario in un angolo. (Qualche anno dopo ho conosciuto Lucia Man-nucci e Virgilio Savona, della stesso quartetto; be’, tutta un’altra cosa.)

Di lì a poco entrò Fabrizio De André, venticinquen-ne, con il maglioncino e la chitarra sotto braccio, salutò e si sedette. Qualcuno lo riconobbe e si aprì una piacevole conversazione.

Lo avvicinai e gli chiesi, dopo essermi presentato: «Co-me mai non eri a Torino al folk festival la scorsa settimana?

Eppure la tua adesione era stata annunciata».Un passo indietro.Nei giorni 3, 4 e 5 settembre, cioè durante il fine settima-

na appena concluso, a Torino si era svolto il Folk Festival 1, organizzato da un gruppo di studenti universitari con l’appoggio del Nuovo Canzoniere Italiano e delle case di-scografiche torinesi Cetra e Dng. Fu un avvenimento im-portante; per la prima volta sotto il termine folk, per la ve-rità interpretato in modo molto «ampio», si presentarono esecutori, autori, gruppi di ogni genere e provenienza. Si andava dal coro delle Mondine di Vercelli a Enzo Jannac-ci, da Giovanna Marini alla banda La bersagliera di Tonco, da Milly, Maria Monti, Sergio Endrigo al cantastorie Cic-cio Busacca o ai genovesi Fratelli Carlio. Insomma un in-sieme di cantori e cantanti non convenzionali, o almeno i meno convenzionali.

C’ero anch’io in quell’elenco ed ero al mio vero debutto; ebbi gli onori di foto e articolo su «Famiglia Cristiana» co-me il più arrabbiato dei cantanti di protesta comparsi sul-la scena torinese.

Tra gli altri, in un primo tempo, era stato annunciato an-che De André che ritirò successivamente la sua adesione, mentre non la ritirarono, ma non si fecero vedere, Gino Paoli, Giorgio Gaber e Bruno Lauzi.

«Come mai non sei venuto a Torino e hai ritirato la tua adesione?»

«Perché ho saputo che era diventata un’iniziativa pro-mossa e gestita dai comunisti» fu, più o meno, la risposta di Fabrizio, che continuò «e io non sono un comunista, so-no un liberal». «Liberale?» gli chiesi per conferma. «No, li-beral, all’inglese». Non avevo le idee molto chiare sulla dif-ferenza tra un liberal all’inglese e un liberale alla Malago-di, una «e» in meno non mi sembrava un granché, e Fabri-zio non rappresentava ancora certamente l’icona anarchica che poi sarebbe diventato, con il suo maglioncino, ma era molto semplice e ci fu immediata reciproca simpatia, cre-do. «Effettivamente io sono comunista, però non mi pare che tutti lo fossero» abbozzai, ma mi interessava molto di

Quella voltache ho cantato con Fabrizio De André

di Gualtiero Bertelli

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Page 4: Francesco Guccini e le sue creature sonore - euterpevenezia.it · sa, Guccini racconta senza remore quello che sa di se stes-so e del proprio lavoro, «un che di artigianale, senza

più parlare d’altro.Nel frattempo si era aggregato un genovese di cui ricor-

do solo il nome: Celso, un chitarrista che suonava con i mi-gliori musicisti della sua città e che dimostrò, incredibile, di conoscere le mie canzoni e il Nuovo Canzoniere. Intor-no si erano raccolti gli altri, meno Tata che se ne stava in un angolo per conto suo.

L’inizio dell’esame si stava spostando nel tempo; convo-cati per le nove, cominciammo, mi pare, attorno alle undi-ci. Ma fu bello perché a un certo punti dissi: «Perché non facciamo un po’ di musica?» «Qualcuno propose: «Fabri-zio ci fai sentire tu Marinella?» L’aveva composta da po-co, ma era già stata lanciata dall’interpretazione di Mina.

Nessuno però l’aveva ancora sentita dalla bella voce calda dell’autore. Fabrizio sfoderò la chitarra, controllò l’accor-datura e cantò con quella calma e dolcezza che la mia voce aspra di allora, ben più aspra di quella di oggi, non poteva neanche immaginare.

«Be’ fai qualcosa tu!» propose Celso guardandomi, dopo i dovuti complimenti a De André. Eseguii «I do piovani» dall’Odineide composta su testi di Mario Isnenghi. La mu-sica un po’ barocca e il testo con sontuose citazioni stori-che mi sembravano «culturalmente» adeguati all’occasione («Nina» era ancora di là da venire). Celso ci fece ascoltare un pezzo straordinario di chitarra e finalmente qualcuno uscì dalla stanza adiacente a controllare che i presenti aves-

sero tutti i requisiti per sostenere l’esame. Lo stesso signo-re ci spiegò per bene cosa sarebbe accaduto e assicurò che da lì a poco ci avrebbero chiamato in ordine di iscrizione.

Verificammo di aver capito: avremmo trovato nell’altra stanza una commissione di una decina di maestri d’or-chestra disposti attorno ad un tavolo a semicerchio per ascoltare le nostre magnifiche improvvisazioni. Ognu-no di noi, prima di entrare, doveva maturare una scelta fondamentale, cioè scegliere il tipo di ritmo. Avremmo trovato su un tavolino due schedari di legno, come quel-li che si usavano prima del computer nelle biblioteche per cercare i libri: su uno era scritto «ritmi moderni» e sull’al-tro «ritmi antichi». Ecco, questa era la scelta principale,

quella da cui dipendeva il buon esito della prova: bisognava partire con il ritmo giu-sto. Ogni schedario aveva delle buste, in ogni busta c’era un foglio pentagramma-to con scritte 4 misure regolate dal ritmo scelto (valzer, minuetto, gavotta, oppure rock, slow, samba… a seconda che si fos-se nel raggruppamento moderno o anti-co). Scegliendo la busta, sceglievi il mo-tivo di partenza, appunto le 4 misure, sul quale dovevi improvvisare uno sviluppo complessivo di 16 misure; insomma do-vevi continuare la musichetta che un ma-estro al pianoforte ti ripeteva un nume-ro sufficiente di volte perché tu potessi risuonarla con il tuo strumento e poi… svilupparla.

Finalmente sapevo esattamente cosa avrei dovuto fare: suonare a «orecchio», cosa tanto vituperata quanto praticata in tutto il mondo.

«Che ritmi scegli?» chiesi a Fabrizio. «I ritmi antichi!» «No, io preferisco quelli moderni, sai ho fatto molta musica da bal-lo!» «Ma io me la cavo meglio con quelli vecchi, li maneggio di più». Incomincia-rono le chiamate e il nostro interesse si spostò ad ascoltare ciò che trapelava dal-la porta.

Uscivano facce soddisfatte; non mi pare ci fossero stati dei «fiaschi».

A ognuno le stesse domande: «Com’è la prova… Come ti è andata…» A tutti, me-no che a Tata che se ne andò com’era ve-nuto, senza proferire parola.

«De Andrè Fabrizio…» sillabò il solito signore facendo capolino.

Dopo dieci minuti Fabrizio uscì: «Com’è andata?» «Bene, m’è uscita una polka. Ma

me la sono cavata bene, mi pare!» «Una polka!» pensai, «e che ci facevo io con una polka?» Un rapido saluto a tutti e «be’ chissà che non ci rivediamo da qualche parte!» e poi via con la sua chitarra rapidamente rivestita. Non ci sia-mo mai più incontrati.

Dopo altre due chiamate il signore gentile sporse la te-sta: «Bertelli Gualtiero…» «Eccomi… ciao Celso, ci ve-diamo». Uno sguardo e un cenno ai tre o quattro rimasti.

«Prego, scelga una busta tra i ritmi antichi o moderni». Infilo la mano ed esce una «beguine». Ne ho fatte mille nelle mie serate con l’orchestrina, la cosa parte bene.

Il signore gentile, sempre lui, si siede al piano ed ese-gue le quattro misure che la sorte mi ha assegnato. ◼

Fabrizio De André

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A Giancarlo,che mi ha fatto scoprire

La buona novella,con grata memoria

La buona novella (1970) di Fabrizio De André è un con-cept album. Si basa sulla storia di Gesù riletta in termini esclusivamente umani. De André vede in Gesù «il più

grande rivoluzionario di tutti i tempi», un uomo che si batte «contro gli abusi del potere, contro i soprusi in nome di un egua-litarismo e di una fratellanza universa-le» per ragioni simili alle «istanze mi-gliori e più sensate della rivolta del ’68». E poiché, come sempre De André ha affermato, «il grosso problema di ogni rivoluzione è che, una volta preso il potere, i rivoluzionari cessano di esse-re tali per diventare amministratori»,1 la scelta della storia di Gesù risulta em-blematica. Da un punto di vista pu-ramente umano, Gesù non ha visto compiuta la propria rivoluzione. Ma proprio questa sua sconfitta può es-ser presa per la sua forza: ha permes-so al suo insegnamento di mantenere la propria attualità e sopravvivere alla successiva istituzionalizzazione.

Nel progettare e incidere La buona novella De André è in sintonia con una sensibilità diffusa tra anni sessanta e settanta. In particolare, si nota un’affi-nità con Pasolini e il suo Vangelo se-condo Matteo (1964). Per De André, il rivoluzionario Gesù viene ucci-so perché «guerra insegnò a diser-tare» (Maria nella bottega di un falegna-me). Anche per Pasolini Gesù rap-presenta un rivoluzionario, messo a morte per il messaggio di pace.2 Ma dal regista ed intellettua-le e dalla sua opera De André si discosta perlomeno in un pa-io d’aspetti: sceglie come fonte i Vangeli apocrifi; non descrive né fa mai parlare Gesù, addirittura assente per metà del lavoro.

Nella Buona novella la vicenda narrata dai testi è strutturata in due parti corrispondenti ai due lati del 33 giri: la prima ruota at-

1 Fabrizio De André in L. Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco. Vita di Fabri-zio De André, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 149 e 156.

2 Si vedano le dichiarazioni di Pasolini in S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Milano, Il Castoro, 1994, p. 56.

torno alla vicenda di Maria prima della nascita del figlio, la se-conda verte su Cristo morente. Attraverso il titolo, la prima canzone del lato B (Maria nella bottega di un falegname) accentua lo scarto tra l’una e l’altra. La tradizione vuole che Giuseppe, pa-dre legale di Gesù, fosse un falegname. Ma qui il falegname è quello che costruisce la croce. Così, dopo l’annuncio della gra-vidanza di Maria alla fine del lato A, ci si ritrova catapultati nel-le fasi estreme della storia. Fra la prima e la seconda parte, la vita di Cristo è come accantonata; inoltre, il protagonista non pren-de mai la parola, né viene mai descritto direttamente. Di lui sap-piamo solo che è stato condannato perché «guerra insegnò a di-sertare». Per il resto, la sua vicenda è filtrata dalle esperienze di quanti hanno intrecciato la propria vita con la sua: i sacerdoti, Maria, Giuseppe, il falegname, la folla, le madri dei ladroni, Ti-to «il buon ladrone». Costoro sono l’umanità che da sempre De André inserisce nelle proprie canzoni. Un’umanità nella quale è ben chiaro chi sono gli «ultimi», le vittime del potere; ma nella quale gli stessi ultimi possono farsi carnefici. Due esempi: i più accaniti contro Gesù sulla via della croce sono i padri dei bim-bi uccisi per ordine d’Erode; ai piedi della croce Maria non tro-va conforto nelle madri degli altri due crocifissi ma isolamento e incomprensione. La vicenda di Gesù s’amplia dunque a mo-tivo per narrare una pluralità di storie, per mostrare con diversi esempi le conseguenze della violenza e del potere sugli uomi-ni e sui rapporti umani.3

Com’è tipico d’un lavoro basato sul concorso attivo di musica e parola, la storia e il significato non sono veico-lati solo dalle parole. Prendono forma dall’incontro dei testi con la musica. E la musica può colorare quei testi di tin-te inattese.

L’album fu il frutto d’una gestazio-ne articolata. Oltre naturalmente a De André, ad essa contribuirono fra gli al-tri Michele Maisano e Corrado Castel-lari per Il testamento di Tito, Giampiero Reverberi per Ave Maria, Tre madri e gli arrangiamenti, «I Quelli» (poi PFM) per la concreta realizzazione. Il disco ha caratteristiche musicali quanto mai curate. Non solo la musica sottolinea specifici momenti; più in generale un fitto tessuto di relazioni musicali e so-nore percorre le canzoni, fa appello al-la memoria dell’ascoltatore e rivela il

senso dei singoli episodi e dell’al-bum nell’insieme. Così la musica dà un contributo determinante nel delineare la vicenda e il suo signifi-cato, suggerisce dettagli e prospet-tive di lettura.4

3 Cfr. P. Somigli, Laudate hominem. Appunti su Fabrizio De André, in «Rivista di Studi Italiani», XXII, 2004/2, pp. 269-274.

4 Sulla realizzazione dell’album cfr. L. Viva, Non per un dio, cit., p. 147; le intervi-ste di Bertoncelli a Giampiero Reverberi e Roberto Dané in Belìn, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De André, a c. di R. Bertoncelli, Firenze, Giunti, 2003, pp. 71-83 e 85-95 (tra l’altro, Reverberi afferma: «Nella Buona novella, tutti i pezzi dove c’è pianoforte sono chiaramente roba mia»: p. 73); le note di copertina (De An-dré menziona «Corrado Castellari e Michele ai quali devo un’idea per la musica del Testamento di Tito» e, forse con eccesso di modestia, Reverberi «che anco-ra una volta ha saputo vestire di musica la mia consueta balbuzie melodica»). Sul rapporto musica-parola e sulle problematiche relative alla percezione musicale è illuminante G. La Face Bianconi, La casa del mugnaio. Ascolto e interpretazione della “Schöne Müllerin”, Firenze, Olschki, 2003.

Messagginelle parole, messagginella musicaUna letturadella «Buona novella»di Fabrizio De André

di Paolo Somigli

In occasione del decennale della morte di Fabrizio De André pubblichiamo questo intervento inedito su uno dei suoi dischi

più belli e celebri.

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Prima di tutto uno sguardo d’insieme. L’album è incorni-ciato da due brani basati sullo stesso materiale testuale e mu-sicale ma esterni alla vicenda narrata. Essi costituiscono una sorta di commento. Il primo brano (Laudate dominum) è un coro scolastico su un basso discendente reiterato; esso, con la ripetizione continua di due sole parole, risulta immagine efficace della religione e del potere ufficiali, prigionieri del rito e impermeabili alla vita. Il brano di chiusura (Laudate ho-minem) si svincola da questa rigidezza: il basso discendente resta, ma su esso si edifica una struttura più libera e animata. È un brano ambiguo. Per un verso ci ricorda che anche l’in-segnamento di Gesù è stato travisato; ma per un altro evoca la religione nuova, che porta l’uomo all’uomo. In quest’ot-tica, esso sancisce sia una disillusione rispetto a dicianno-ve secoli di storia (lo dice Roberto Dané nelle nota di co-pertina) sia un messaggio di speranza, sottolineato dal bale-nio in extremis del modo maggio-re. In realtà que-sta conclusione non disperata è preparata dalla canzone che pre-cede: Il testamen-to di Tito, un bra-no dai caratteri di protest song. Pri-ma denuncia la funzionalità del-la religione isti-tuzionale al pote-re e poi apre alla speranza: l’amo-re è l’insegna-mento di Ge-sù. E l’insegna-mento d’amo-re rende possi-bile (ma non per questo automa-tica) la religione nuova, che trova nella centralità dell’uomo il pro-prio compimen-to (Laudate homi-nem, appunto).

In questo qua-dro d’assieme, oltre a contribuire alla definizione del senso complessivo, la musica concorre a delineare parecchi detta-gli, fino a suggerire significati nascosti. Ne vedremo qui al-cuni esempi. Per cominciare, prendiamo il blocco costitu-ito da L’infanzia di Maria, Il ritorno di Giuseppe e Il sogno di Ma-ria. Nell’Infanzia di Maria vediamo Maria trascorrere l’infan-zia nel tempio finché i sacerdoti non la cacciano perché or-mai «donna» (quindi fonte di tremenda tentazione) e la dan-no in sposa a Giuseppe. Di lui sappiamo che è «stanco d’es-sere stanco», carico di anni e di figli; non ha alcuna inten-zione di sposarsi: gli eventi lo forzano. Deve sposare Maria perché costretto. Giuseppe è vittima della sorte e del pote-re dei sacerdoti, come vittima del potere, dei genitori prima e dei sacerdoti poi, è Maria. La musica sottolinea la mestizia e la rassegnazione dell’uomo e del momento nel quale deve prendere in sposa Maria: spicca soprattutto un controcanto strumentale già apparso quando i sacerdoti avevano deciso

di cacciare la fanciulla.Nella conclusione della canzone, De André c’informa

che dopo aver accettato in sposa la bambina Giuseppe se ne va fuori dalla Giudea per quattro anni. Non ci dice do-ve. La musica s’insinua in questo vuoto d’informazione. Il Ritorno di Giuseppe s’apre coi suoni d’uno strumento non occidentale, si direbbe un sitar (manca nelle note di coper-tina l’elenco analitico degli strumenti). Essi creano un’at-mosfera sonora orientaleggiante e ci suggeriscono allusi-vamente la meta taciuta dal testo. Inoltre, l’iridescente am-biente sonoro è quanto mai distante dai caratteri del brano precedente, non ha quella invincibile rassegnazione e mo-stra Giuseppe in una luce più serena, a un tempo felice di rivedere la sposa, che per lui è come una figlia, e immerso nel ricordo d’un mondo amato. Appena rientrato scopre che Maria è incinta, e dunque, ai suoi occhi, adultera. Ma

a differenza dei sacerdoti che l’avevano cac-ciata perché or-mai donna, egli non l’al lonta-na da sé: anzi, l’ascolta e poi l’accoglie in un abbraccio d i grande tene-rezza. La musi-ca suggella l’ab-braccio dei due sposi e sottoli-nea la loro soli-darietà: le me-desime note ac-compagnano la corsa di Maria fra le braccia del marito al termi-ne del Ritorno di Giuseppe e l’ab-braccio di Giu-seppe al termi-ne del Sogno di Maria. E pro-prio in quest’ab-braccio Giusep-pe mostra un comportamen-

to infinitamente lontano da quello degli uomini di potere; rispetto a costoro, lui è radicalmente altro. La musica che lo ha presentato all’inizio del suo ritorno quindi non restitu-isce solo una connotazione geografica; col suo improvvi-so e marcato carattere esotico, essa ci preannunzia qualco-sa di più profondo, solo intuibile dal testo: l’eccentricità di Giuseppe rispetto al mondo in cui vive, la sua radicale ed irriducibile differenza interiore.

Prendiamo ora un altro esempio molto significativo. Ri-guarda due canzoni distanti: Ave Maria e Tre madri, rispet-tivamente al termine del lato A e al centro del lato B. Nel-le note di copertina all’album, Roberto Dané dice che De André pensa alla storia della Buona novella come a una favo-la: «alla favola sembra crederci, la porta avanti come se do-vesse concludersi con il lieto fine, termina persino il primo tempo con l’odore della felicità». In effetti, Ave Maria pa-re una celebrazione della maternità: Maria s’avvia a dare al-

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la luce un bimbo ed è felice per il proprio stato di grazia, per l’essere diventata, ora sì, davvero donna. Il canto s’amplia a canto della donna e della maternità nelle parole «Ave Ma-ria, adesso che sei donna, / Ave alle donne, come te Maria, / […] Femmine un giorno e poi madri per sempre / Nella sta-gione che stagioni non sente». Basterebbe quest’ultima fra-se a insinuare il dubbio che il lieto fine sia solo un’illusione. In fondo, essa ci dice che, malgrado tutte le solenni celebra-zioni, la donna come persona non esiste: la donna esiste co-me «femmina», seduttrice e oggetto del desiderio maschile, e come «madre per sempre», figura per intero ed in eterno assorbita dai doveri verso la prole. Piuttosto che ad una gio-ia, tutto ciò finisce con l’assimilare la maternità ad un desti-no senza scampo, una condanna o addirittura una punizio-ne che la donna si merita per l’esser stata, una volta nella vi-ta, appunto «femmina».

In apparenza quest’aspetto è del tutto rimosso dalla musi-ca. Essa ha toni da tripudio. L’atmosfera da lieto fine è net-ta: il tono è maggiore (è la prima volta nell’album), il can-to disteso, l’andamento spedito e solenne, mentre un coro angelico sottolinea la felicità del momento. L’ascoltatore ha incontrato un effetto corale simile nel Sogno di Maria sulle parole «Lo chiameranno figlio di Dio», quando Maria sco-pre d’essere incinta. Ma proprio in questo dettaglio la mu-sica può instillare il dubbio ed evocare una diversa lettura. Un primo sospetto è suggerito da qualche affinità del Sogno di Maria con una precedente canzone dello stesso De An-dré: Leggenda di Natale di Tutti morimmo a stento (1968). Qui, in un’atmosfera fiabesca e in un ambiente acustico più raccol-to ma connotato dalla presenza d’un tappeto sonoro, una bambina subisce addirittura violenza. Ma anche senza te-nere conto di questa possibile analogia, i coretti del Sogno e di Ave Maria assomigliano fin troppo ai cori finali delle fa-vole animate, suggellati dal cartello “e vissero felici e con-

tenti”. Insomma, questo tratto musicale così favolistico po-trebbe essere meno ingenuo di quanto non sembri. Coi suoi caratteri dolciastri, anzi, sembra incrinare il trionfo di Maria e d’ogni donna con lei, mettere in discussione la realtà della bellezza dell’avvenimento narrato.

Ma c’è di più. Un ulteriore elemento musicale contribui-sce a smontare dall’interno l’Ave Maria. È l’arpeggio piani-stico. In tutto l’album esso torna solo in Tre madri. Tre ma-dri è il lamento delle donne che vedono i figli morire sul-la croce. La canzone presenta profonde relazioni coi brani del lato A. Una relazione è data, da metà canzone in avan-ti, dall’enunciazione melodica strumentale e da un contro-canto che rinvia al controcanto già ricordato a proposito dell’Infanzia di Maria, quasi a riunire sotto il medesimo de-stino di dolore i tre membri della sacra famiglia. L’altro mo-tivo di relazione è proprio l’arpeggio pianistico. Esso crea

all’ascolto un legame retrospettivo fra lo strazio del momen-to, con Maria sola e isolata davanti al figlio morente, e lo sta-to d’esaltazione d’Ave Maria. Così, esso parrebbe denuncia-re cosa possa voler dire veramente essere donne ed essere madri, al di là delle celebrazioni e dei luoghi comuni. Il trat-tamento musicale, insomma, fa trapelare dalla Buona novel-la un’accorata riflessione sulla condizione femminile e sul-la maternità che non ha forse perso d’attualità. E se a mol-ti nel 1970 l’album parve una fuga dal reale, basterebbe solo quest’esempio a darne ancor oggi la misura di lavoro d’im-pegno etico, civile, politico. Un impegno che prende forma, oltreché dal testo, dalla ricercatezza dell’assetto musicale. ◼

Fabrizio De André

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Quarantottenne, originario di Thiene, compositore e big band leader, Riccardo Brazzale è senza dubbio il maggior jaz-zista vicentino e forse dell’intero Triveneto grazie a un’originalità

espressiva, mista di classicità e rinnovamento, di bebop e mo-dal-jazz, che si manifesta in una freschissima direzione orchestrale con al-bum quali Melodious Thunk, Timon of Athens, The Art of Ar-ranging, Monk at Town Hall & More, Azurka, Back to Da Ca-po, Live in Appleby.

Riccardo, anzitutto complimenti: hai vinto al Referendum Top Jazz 2008. Credo sia la prima volta per un musicista veneto. Come ci si sente?

La vita da jazzman continua come prima: è un riconoscimen-to che mi fa molto piacere, ottenuto con un numero alto di vo-ti e distacco da colleghi da «storia del jazz italiano». Tra i vene-ti c’è un precedente: Paolo Birro, che vinse anni fa tra gli emer-genti e che, meritatamente, oggi è fra i migliori pianisti; e fra i «triveneti», da un paio d’anni il friulano Daniele D’Agaro si im-pone fra i sassofonisti-clarinettisti. Se consideri poi il secondo posto della Lydian Sound Orchestra fra i gruppi, il jazz veneto gode di ottima salute!

Questa tua vittoria premia anche un gioco di squadra? In fondo il tuo no-me va di pari passo con la Lydian Orchestra…

Non v’è dubbio. La Lydian è la «mia» creatura e in questo 2009 compie vent’anni, un traguardo ragguardevole per una formazione non piccola e non sostenuta da fondi pubblici.

Facciamo un passo indietro: la tua vita musicale in cinque righe? Mi sono formato in parallelo all’Istituto di Jazz di Parma e

al Dams di Bologna. Poi, dopo l’apprendistato, l’incontro con Claudio Fasoli, con cui si son messe le basi per la LSO. Quindi tanti incontri con musicisti, addetti ai lavori, persone che per me hanno significato molto.

Chi per esempio?Così, alla rinfusa, oltre Fasoli, anche Franco D’Andrea, Len-

nie Tristano, Giampiero Cane, Pino Candini, Cesare Galla, Paul Motian, Enrico Intra, Maurizio Franco.

Il Veneto è una sorta di isola felice per il jazz, dove operano tante realtà non solo nei centri più grossi ma anche nei borghi più piccoli. Come ti spie-ghi queste bella realtà?

Non sono solo rose e fiori, però resta una buona terra per gli uomini del jazz, per una tradizione che viene da lontano: il Centro d’Arte dell’Università di Padova, il Caligola di Mestre e le mille tradizioni di Verona, dalle big band alle estati del Te-atro Romano. Ma è vero che la novità sta in provincia: penso a cosa è riuscita a smuovere Lilian Terry a Bassano, con tutti i positivi influssi su Marostica e sul Trevigiano.

E nel Vicentino?Oltre l’opera della Gioventù Musicale di Vicenza, persino a

Valdagno c’era un clima incredibile. Oggi è un pullulare di lo-cali, scuole, teatrini e luoghi jazz finanche improbabili. Oltre le rose, ci sono anche le spine, fatte crescere dai poteri, che mi-surano tutto solo in euro. Ma è un problema non solo veneto.

E fra i tuoi colleghi, sempre veneti, con quali lavori di più o chi apprez-zi maggiormente?

Ho sempre lavorato moltissimo con loro, perché fra i vene-ti ci sono musicisti di qualità assai elevata, da Pietro Tonolo a

Birro. Il vicentino, in particolare, è terra di batteristi-percus-sionisti, Mauro Beggio, Roberto Dani, Gianni Bertoncini, Franco Dal Monego, Saverio Tasca, quest’ultimo vibrafonista davvero eccellente; e molto bravo è il chitarrista Michele Cal-garo. Ma non dimentico gli americani del Veneto, dal contrab-bassista «veneziano» Marc Abrams, al trombettista «verone-se» Kyle Gregory e al sassofonista vicentino Robert Bonisolo.

Sei famoso anche per dirigere Vicenza Jazz, festival notevolissimo: qua-li le peculiarità? Di cosa vai fiero in tal senso?

Sono orgoglioso di aver portato il jazz dove prima non c’era: in teatri, palazzi antichi, chiese, piazze, trattorie, vetrine dei negozi. Sono felice di aver dato la possibilità di ascoltare «co-lonne portanti» della storia del jazz, fuori dalle consuetudini del mercato. Soprattutto vado fiero che oggi si parla di jazz co-me di una cosa familiare. Un concerto? Quello che dà il nome al festival «New Conversations»: il trio di pianisti Paul Bley, Jo-hn Taylor e Rita Marcotulli che reinterpretavano le «Conver-sations» di Bill Evans.

Tuoi progetti presenti e futuri come musicista?Il 2009 dovrebbe essere una buona annata con la regi-

strazione del disco del ventennale, tutto con composizio-ni nuove, anche se qualcuna ispirata alla tradizione. Il pro-getto che non verrà mai meno sarà cercare sempre qual-cosa di nuovo continuando a ripartire dalle tradizioni. ◼

Il jazz originale ed espressivo di Riccardo BrazzaleCompie vent’annila Lydian Sound Orchestra del musicista vicentino

di Guido Michelone

Riccardo Brazzale e la Lydian Sound Orchestra

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Nel complicato dedalo dei dialetti italiani capita di imbattersi in frasi che suonano totalmente altro da ciò che in realtà significano, arrivando a volte a

sembrare espressione di lingue differenti: Van Des Froos, ad esempio, potrebbe benissimo essere il cognome di un qualche pittore fiammingo o di un nobile olandese, men-tre in realtà corrisponde a una traduzione ben po-co valorosa come «van-no di frodo».

Davide Bernasconi ha scelto questo curioso no-me d’arte agli inizi de-gli anni novanta su ispi-razione del proprio bar-biere che commenta-va la nascita del gruppo e con un inevitabile ri-ferimento che va alla fi-gura del contrabbandie-re avventuriero di confi-ne, che spesso troviamo nelle sue canzoni. Dalle prime esperienze con un gruppo punk, arriva in seguito la folgorazione e l’ispirazione derivata so-prattutto dall’ascolto di Creuza de Ma di Fabrizio de André, uno dei capo-lavori assoluti dell’artista genovese. Se lì avevamo davanti un mare, qui c’è un lago ben più ridotto nelle di-mensioni ma non meno carico di spunti e materiale su cui costruire buona musica.

Nasce l’idea dell’uso del dialetto nella composizione mu-sicale: è il laghee ovvero la lingua parlata dagli abitanti del lago di Como. Un mondo fatto di storie di pescatori, per-sonaggi e leggende che ruotano attorno alla vita del lago e che diventano protagonisti inconsapevoli delle canzoni perché, come dice lui stesso, «basta partire dal riconosce-re qualcosa di straordinario nella quotidianità di ognuno, basta raschiare un po’ la superficie del paesino o del perso-naggio più tranquillo per trovarci dentro una storia». I pri-mi lavori, Ciulandàri e Vüf (che segnano la collaborazione con i De Sfroos, che si scioglieranno nel 1996), sono una sorpresa che colpisce pubblico e critica: il dialetto coma-sco rivela tutta la sua inaspettata uni-versalità regalando a Davide e ai suoi musicisti una popolarità che parte dal Canton Ticino e arriva all’estremo sud

della penisola. I nomi dei due venti che soffiano sul lago, Brèva e Tivàn, ispirano il titolo del quarto disco che gli va-le anche il premio Tenco come miglior artista emergente. A conferma della grande attenzione che la critica riserva a Davide, nel 2002 si ritrova sul palco dell’Ariston di Sanre-mo per ricevere la targa Tenco per il miglior album in dia-letto, E semm Partii. Stesso premio che gli viene consegna-to lo scorso anno per l’album Pica! sua ultima fatica disco-grafica: è il lavoro più maturo e sentito, che se da un lato ben rappresenta tutta la varietà di influenze musicali che Davide ha assorbito negli anni, dall’altro conferma la sua profonda e innata capacità di osservare e raccontare storie di contrabbandieri, minatori o costruttori di motoscafi, il tutto sempre attraverso la lingua lariana mescolata a volte a passaggi cantati in italiano.

C’è anche un Davide a cui i quattro minuti di una canzo-ne stanno stretti, che ha bisogno di raccontare storie più lunghe, che possano riempire pagine di libri: Perdonato dal-le Lucertole è una raccolta di poesie pubblicata nel 1997 se-guita nel 2000 da Capitan Slaff, un poema epico rigorosa-

mente scritto in dialetto e ambientato su un fantasioso La-go di Como abitato da maghi, cavalieri e vescovi. Anco-ra il lago a far da scenario per Le Parole Sognate dai Pesci, ro-manzo che narra le avventure degli abitanti riuniti al bar del piccolo paese e per Il mio nome è Herbert Fannucci, ultimo libro uscito nel 2005, storia di un misterioso personaggio che ritorna in paese dopo un’esistenza vissuta da rockstar. Un cantautore, un cantastorie, un acuto osservatore d’ani-me di paese Davide Van De Sfroos è tutto questo. Legato indissolubilmente alla sua terra, non si stanca di sviscerar-ne aspetti che altri non si fermerebbero nemmeno a guar-dare. E se per i testi non serve allontanarsi dall’alta Lom-bardia, per i suoni e la musica si viaggia aldilà dell’oceano e oltre, mescolando rock, blues e reggae, Dylan, Springste-en e Tom Waits (come quando nel 2002 trasforma «Frank’s

Wild Years» in «I Ann Selvadegh del Francu») fino al country più tradi-zionale, che ha anche ispirato il no-me del suo fan club, i «cauboi». ◼

Conegliano (Tv) – Teatro Accademia13 marzo, ore 21.00

Il cantautoree cantastorie lombardo approda in Veneto

Le anime di paesedi Davide Van De Sfroos

di Tommaso Gastaldi

Davide Van De SfroosDavide Van De Sfroos

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