Collana di “Etruscologia” 1
A Gianfranco Gazzetti
Studio in memoria
di
Ludovico Magrini
Ringrazio l’amico Giorgio Poloni , redattore di Nuova Archeologia,
per il fattivo interessamento
all’uscita del libro
2
In copertina. Graffiti dello specchio etrusco da Tuscania (IV – III sec. a.C.). La scena si svolge a Tarquinia: il divino Tagete insegna a Tarcon-te (il fondatore di Tarquinia) come leggere il fegato aruspicino. Accanto a Tagete è Veltune (lat. Vertumnus o Voltumna), il dio della Federazione Etrusca, a significare che siamo nel centro fe-derale della nazione (il Fanum Voltumnae). Tagete ha alle spalle il sole che sorge (Est): questa doveva essere la posizione dell’aruspice durante le sedute. Lo stesso orienta-mento ha il fegato che è in mano a Tagete: la parte alta (testa del fegato) è al centro ed è rivolta ad Est, la parte sinistra (processo piramidale e cistifellea) è rivolta a Sud, la parte destra (presenza) è rivolta a Nord, la parte bassa (dove il fegato si divide nelle due sacche di sinistra e di destra) è rivolta ad Ovest.
3
Alberto Palmucci
A R U S P I C I N A E T R U S C A
ED ORIENTALE A CONFRONTO
TARQUINIA e i LIBRI TAGETICI
con traduzione dei frammenti greci e latini
PATROCINIO “GRUPPO ARCHEOLOGICO GENOVESE”
DEI “GRUPPI ARHCEOLOGICI D’ITALIA”
Roma 2010
5
R.S.P. Beekes, professore emerito di linguistica indeuropea comparata presso l’Università di Leiden, scrive: ”A. Palmucci (in Anatolisch und Indo-germanisch, Meid, 2001, 311ss) argues that there is evidence that the story of Aeneas in Italy was preceded by a version where the journey from Troy went to Etruria. If this is correct, it is of great importance: the Romans will not have made such a story, so it will be an Etruscan story, telling that they came from Troy...”
1 .
*** Valeria Forte, docente all’Università di Dallas (Texas, U.S.A.), in un suo studio, dice di includere “the opinion of today’s renowned contemporary etruscologists such as Pallottino, Palmucci, Munzi and others” (p. 4). Fra le altre cose, spiega: “Alberto Palmucci, a prominent Etruscologist living in Italy,” ha aperto “ a dialogue with European and American scholars in both academic papers and electronic blogs (p.42). In essence, Palmucci argues that although genetic testing on both humans and bovines has revealed similarities between ancient Etruscan DNA and the DNA of people and cattle found today in eastern regions, this study does not conclusively determine Etruscan origins. Palmucci introduces a very intriguing element to the debate of Etruscan origins when he argues that we should not assume that a common genetic DNA between Etruscans and Near Eastern populations proves the origin of the Etruscans in Asia Minor. Palmucci states that Etruscans may have moved from the Italian peninsula toward the eastern lands, and this migration may have taken the form of a circular pattern of departing from and returning to the Italian coasts. To validate this hypothesis Palmucci provides toponymical data, linguistic analysis, and references to the most spectacular archaeological artifacts left by the Etruscans (p. 43). Dopo aver ricordato “the writing of Virgil, according to whom the Etruscans departed from Còrito (later called Tarquinia) sailing east and then returning to etruscan shores” (p. 49), la Forte conclude infine che “Palmucci is one of the most active classicists ... and one who engages in the Etruscan debate at many levels: his comments and opinios are supported by his impressive knowledge of the Etruscan civilization and he expresses them in the form internet blogs in which he debates experts from around the world” (p. 50)
2.
1 R. S. P. Beekes, The Origin of the Etrurians, Koninlijke Nederlands
Akademia Van Wetensschappen, Amsterdam, 2003, p. 56. 2 V. Forte, Archeology and Nationalism: the Troian Legend in Etruria,
The University of Texas at Arlington, Dicembre 2008.
7
Alberto Palmucci
N O T I Z I E B I O G R A F I C H E
Alberto Palmucci, nato nel 1933, si è laureato all’Univer-
sità di Roma. Ha insegnato a Civitavecchia dove ha tra-
scorso la sua giovinezza. E’ stato direttore didattico a Ri-
mini e a Genova. Per lunghi anni è stato docente presso
l’Istituto Regionale di Ricerca, Sperimentazione e Aggior-
namento Educativi (I.R.R.S.A.E.) della Liguria, dove ha pu-
re svolto attività di ricerca filologica su Virgilio e Còrito
(Tarquinia). Attualmente vive a Genova.
Ha pubblicato numerosi saggi con l’Accademia Nazionale
Virgiliana di Mantova, l’Università di Genova, l’Università di
Bari e di Roma Tre, l’Università di Innsbruck, il Messag-
gero Italiano di Manchester (Inghilterra), i Gruppi Archeo-
logici d’Italia, la S.T.A.S. di Tarquinia, e la Società Storica
di Civitavecchia.
Nel 1998, La S.T.A.S., con il contributo della Regione La-
zio, ha pubblicato per lui il volume Virgilio e Corito-Tarqui-
nia: La leggenda troiana in Etruria. Nel 2005, l’Assessorato
alla Cultura della provincia di Viterbo ha sovvenzionato un
secondo volume dal titolo Gli Etruschi di Corneto (oggi
Tarquinia) fra mito e archeologia.
Alberto Palmucci è anche autore di opere letterarie. Si è
classificato al primo posto nel Premio di Poesia “Janua 1997”.
Da anni i suoi lavori sono primi classificati in Internet (Google,
Yahoo, ecc.). Vedi, per esempio, la voce Etruschi DNA.
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Opere di ALBERTO PALMUCCI
STUDI VIRGILIANI E DI ETRUSCOLOGIA
1- Tarquinia e la virgiliana città di Corito, Silver Press, Genova, 1987; 2- La virgiliana città di Corito, “Atti e Memorie della Accademia Nazionale Vir-giliana di Mantova”, 56, 1988; 3- Il ruolo della città di Corito-Tarquinia nell'Eneide, “Atti e Memorie , cit.”, 58, 1990; 4- Analisi della mitologia propedeutica alla figura di Dardano e alla città di Co-rito-Tarquinia nell'Eneide, “Atti e Memorie, cit. “, 59, 1991; 5- Ancora sugli antecedenti mitologici della figura di Dardano e della città di Corito-Tarquinia nell'Eneide, “Atti e Memorie, cit.”, 60, 1992; 6- La figura di Dardano e la città di Corito-Tarquinia nell'Eneide, in Latina Di-daxis. Atti del Congresso, Bogliasco 28-29 Marzo 1992, Università degli Studi di Genova (Compagnia dei librai), Genova, 1992; 7- Corito-Tarquinia e il porto dei "Ceretani", “Atti e Memorie, cit.”, 61, 1993; 8- Gli Etruschi e Corito-Tarquinia nell'Eneide (Risvolti scolastici), “Bollettino Informazioni I.R.R.S.A.E. Liguria”, 26, 1994; 9- Virgilio e gli Etruschi, “Aufidus” (Università di Bari), 24, 1994; 10- Tarconte e Mantova, Virgilio e Corito-Tarquinia, “Atti e Memorie, cit.”, 62, 1994; 11- Mantova, Corito-Tarquinia e Roma (Mantua, Corito-Tarquinia and Rome), in Il Messaggero Italiano, 4, 25, Manchester, Gennaio, 1997; 12- Corito-Tarquinia, “Archeologia”, 5, 1997; 13- I Troiani a Corito-Tarquinia (13 Agosto), “Bollettino Società Tarquiniense d’Arte e Storia (da ora in avanti BollSTAS)”, 25, 1996; 14- Cori(n)to-Tarquinia e la leggenda di Dardano, “Aufidus”, 31, 1997; 15- Ulisse in Etruria, “BollSTAS”, 26, 1997; 16- Virgilio e Cori(n)to-Tarquinia. La leggenda troiana in Etruria, Tarquinia, S.T.A.S, 1988; 17- Enea, Tarquinia e Roma, “Archeologia” 7/8/9, 1998; 18- I re Tarquiniesi: Demarato Corinto e suo figlio Lucumone, “BollSTAS”, 28, 1999; 19- Gli Elogi degli Spurinna, “Archeologia”, 11/12, 2000; 20- Odisseo in Etruria, “Aufidus” (Università di Bari), 42, 2000; 21-Corneto (oggi Tarquinia) Etrusca?, “BollSTAS”, 29, 2000; 22- Corneto Etrusca?, “Archeologia”, 1/2, 2001; 23- Odisseo e gli Etruschi. Fonti letterarie e documenti archeologici, “Archeo-logia”, 10/11, 2001; 24- La figura di Tarconte: un ponte mitostorico fra Tarquinia e Troia, in Anato-lisch und Indogermanisch (Anatolico ed indoeuropeo), Acten des Kolloquiums der Indogermanischen Gesellschaft, Pavia, 22-25 Settembre 1998 (Università degli Studi di Pavia, dipartimento Scienze dell’Antichità), Innsbruck, 2001, pp. 341-353; 25- Tarquinia e i Tirreni del mar Egeo, “BollSTAS”, 30, 2001; 26- Gli Etruschi, Tarquinia e il vino, “Archeologia” 8/9, 2002. 27- L’elogio di Tarconte, “Archeologia”, 12, 2002;
10
28- Le origini degli Etruschi nelle fonti etrusche, pubblicato in “BollSTAS”, 31, 2002; 29- La Corsica e Corneto, “Archeologia”, 2003, 1. 30- Corneto (Tarquinia) città etrusca davanti alla Corsica, “BollSTAS”, 32, 2003. 31- Gli Etruschi di Corneto, Tarquinia, 2005. 32- Il cielo di Tarquinia visto da Tagete, “Archeologia e beni culturali”, 2005. 33- I libri Tagetici. il calendario Brontoscopico, “BollStas”, 2005. 34- I Secoli Etruschi, “BollSocStorCiv”, 2005; 35- I Numerali Etruschi, “BollSocStorCiv”, 2006; 36- Tarquinia e i Libri Tagetici, “Nuova Archeologia”, 2006; 37- La leggenda di Odisseo in Etruria, “BollSocStorCiv”, 2006; 38 - Corito-Tarquinia, il DNA e l’origine degli Etruschi, pubblicato in “Nuova Ar-cheologia”, 2006; 39- I libri Tagetici. La partizione del cielo e del fegato, pubblicato in “BollStas”, 2006; 40- Le mura premedioevali di Corneto (Tarquinia), “Nuova Archeologia”, (Lu-glio - Agosto), 2008; 39- Virgilio, Erodoto, il DNA e l’origine degli Etruschi (Corito-Tarquinia), “Aufidus” (CNR, Università di Bari e di Roma Tre), 66-67 (2007). Uscito nel gennaio 2009.
STUDI MEDIOEVALI
• Il “Trattato di pace fra i Cornetani e i Genovesi”, “BollSTAS”, 23, 1994;
• I rapporti di Genova e della Liguria con Corneto e l’odierno alto Lazio nei notai liguri tra 1186 e il 1284, “BollSTAS”, 24, 1995;
• Anno 1385: il Papa cede Corneto in pegno ai Genovesi, “BollSTAS”, 25, 1996;
• I rapporti fra Corneto e Genova nei secoli XII e XIII, in Atti del Conve-gno di Studi “I pellegrini della Tuscia medioevale: vie, luoghi e merci”, Tarquinia 4-5/10/1997, (STAS, 1999).
OPERE LETTERARIE
• Poesie varie, in Poeti e Novellieri 1995, Genova, Silver Press, 1995.
• Poesie varie, in Fior da fiore, Genova, Golden Press, 1996.
• L’ultima Muraglia (poesie e racconti), Genova, Golden Press, 1997 (poesia prima classificata nel Premio “Janua 1997”).
• Poesie varie pubblicate nel Calendario dei Poeti, Genova, Golden Press, 1997.
• Alla mia terra, in Voci del 2000, Genova, Golden Press, 2000.
• Stelle e zanzare, in Voci del 2000 (ed. 2001), Genova, Golden Press, 2001.
• Bambino triste, in Voci del 2000 (ed. 2002), Genova, Golden Press, 2002.
OPERE FILOSOFICHE
• La Filosofia e la Pedagogia di John Dewey, Roma, 2010.
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C A P I T O L O P R I M O
ARUSPICINA BABILONESE, ITTITA, SIRIANA, GRECA, ROMANA ED ETRUSCA
A CONFRONTO
P R E M E S S A
Presso gli Assiri Babilonesi, gli Ittiti e gli Etruschi, la com-
prensione della volontà degli dèi, e con ciò la predizione
del futuro, era affidata soprattutto a quell’arte o scienza
che in lingua etrusca si diceva nethśra3, ed in quella latina
“haruspicina”. I Babilonesi chiamavano baru il sacerdore
che la praticava. Gli Etruschi lo chiamavano netśvis, e i
Romani haruspex4. L’arte si basava soprattutto sull’esame
a scopo divinatorio delle interiora degli animali sacrificati,
ma anche dei segni che venivano dal cielo, come tuoni,
lampi e fulmini. Il concetto fondante poggiava sulla convin-
zione che ci fosse una perfetta corrispondenza fra macro-
cosmo e microcosmo per cui nulla accade che sia fortuito;
così la volontà degli dèi può manifestarsi sia nelle interiora
degli animali sacrificati, soprattutto nel fegato, sia nei fe-
nomeni atmosferici. La credenza che stava alla base
dell’ispezione del fegato era che questo fosse la sede della
vita. Del resto, gli Indù la ponevano e la pongono nel respi-
3 Alessandro Morandi, Nuovi Lineamenti di Lingua etrusca, Erre Emme,
Roma, 1991, p. 158: vocabolo “formato verosimilmente con il suffisso -ra su una base neth- che ha varie rispondenze: gr. nēdùs (ventre), nēduia (intestini), germanico nati, nezi (pelle reticolata attorno agli intestini). 4 Secondo G. Devoto (Avviamento alla Etimologia Italiana . Dizionario
Etimologico, le Monnier, Firenze, 1967) il vocabolo è “composto di –spex, nome d’agente della rad. SPEK (osservare; lat. specio) e di *haru- parola indoeuropea connessa con sanscrito hira (vena)”. Haruspex però potrebbe anche derivare dal babilonese Baru (aruspice).
14
ro, e gli Ebrei e i Testimoni di Geova la pongono ancora
nel sangue.
Fig. 1- Medio Oriente ed Asia minore
Le divinità tutelari dell’aruspicina assiro-babilonese erano
Shamash, dio del sole, ed Adad, dio della tempesta. Il “Dio
della Tempesta”, con altri nomi, era anche la suprema di-
vinità maschile fra le popolazioni dell’Anatolia (f. 2): presso
gli Urriti era chiamato Teshub, ad Hattusa si chiamava
Tarhu, e in altre regioni era detto Taru, Tarhui, Tarhun o
Tarhunt, ed era raffigurato spesso come un toro. In Anato-
lia, questa divinità, comunque la si chiamasse, era anche
preposta alla fertilità, ai giuramenti, alla conclusione dei
trattati ed all’osservanza del diritto. E’ al nome di questo
dio che si riallaccia il nome anatolico di Taruntassa (una
delle capitali dell’impero ittita), ed in modo particolare quel-
lo della città di Wilusa-Taruisa/*Tarhuisa (Ilio-Troia, della
15
quale era protettore)5, Al suo nome si riporta pure il nome
etrusco della città di Tarchuna (Tarquinia, della quale
sembra fosse parimenti protettore) e del suo eponimo fon-
datore Tarchun (Tarconte): questi, come si diceva, era e-
migrato in Italia dall’Anatolia6. Al suo nome, infine si rial-
laccia quello di Tarchies (Tagete, il fanciullo divino che,
emerso dalle zolle di Tarquinia, dettò a Tarconte i precetti
dell’aruspicina).
Agli inizi del secondo millennio a.C., l’aruspicina assiro-
babilonese si presentava già come un corpo ben costituito.
Con aggiornamenti e commentari arriverà fino agli inizi del-
la nostra era. Essa si diffuse fra molti popoli del medio e
vicino Oriente. Ne abbiamo documentazioni archeologiche
in vari luoghi fra cui Mari (Siria), Alalah (Siria orientale),
Megiddo (Palestina), Tarso (Cilicia) ed Hattusa (capitale
dell’impero ittita).
Soprattutto gli Ittiti ebbero una ricca scienza delle predizioni.
La grande maggioranza dei loro testi divinatori consiste di
5 Per la alternanza Taruisa *Tarhuisa vd. A. Palmucci, Virgilio, Erodoto
e il DNA degli Etruschi (Corito Tarquinia), “Aufidus” (Dipartimento di Scienze dell’Antichità – Università di Bari; Dipartimento di Studi del Mondo Antico – Università di Roma Tre; CNR), 62-63, 2007, pp. 93-126. Il "Dio della Tempesta" è menzionato fra le tre divinità protettrici di Ilio-Troia nell'atto di vassallaggio col quale Alaksandu, re di Wilusa (I-lio-Troia), nel 1280 a.C. chiese di rientrare nella protezione dell'impera-tore ittita Muwatalli II. La predilezione per Ilio-Troia del Dio della Tem-pesta si ritrova anche nell’Iliade di Omero (IV, 46) dove il supremo Zeus, definito al momento “dio adunatore di fulmini”, afferma che la cit-tà di Ilio-Troia gli è cara più d’ogni altra perché i suoi abitanti gli aveva-no tributato da sempre onori e culti. 6 V. Georgiev, La lingua e l'origine degli Etruschi, Nogard, Roma, 1979;
vd. pure A. Palmucci, La figura di Tarconte: un ponte mitostorico fra Tarquinia e Troia, in Anatolisch und Indogermanisch (Anatolico ed indo-europeo), Acten des Kolloquiums der Indogermanischen Gesellschaft, Pavia 22-25 Settembre 1998 (Università Studi Pavia, dipartimento di Scienze Antichità), Innsbruck, 2001, pp. 341-353; Virgilio, Erodoto e il DNA degli Etruschi (Corito Tarquinia), “Aufidus” (Dipartimento Scienze dell’Antichità – Università di Bari; Dipartimento di Studi del Mondo Antico – Università di Roma Tre), 62-63, pp. 93-126.
16
copie ottenute da originali scritti in lingua babilonese, o di tra-
duzioni. Questo materiale è per lo più anteriore alla fine
dell’impero ittita che avvenne attorno al 1200 a.C.
Fig. 2- Tarhui (il Dio della Tempesta)
Sono tali e tante, come vedremo, le somiglianze fra l’aru-
spicina mesopotamica, l’ittica, la greca e l’etrusca che è
lecito pensare che la pratica dell’aruspicina sia passata
dalla Mesopotamia in Anatolia e da qui in Grecia, in Pale-
stina e sulle coste occidentali dell’Italia centrale al tempo
delle leggendarie migrazioni che intercorsero fra l’oriente e
l’Italia. Oggi, peraltro, i genetisti hanno trovato qualche
somiglianza fra il DNA degli Etruschi e quello dei popoli
17
compresi nel bacino orientale del mediterraneo.
Non possiamo tuttavia escludere che gli Etruschi praticas-
sero già una propria lettura del fegato degli animali: nel mito
etrusco, Tarconte (cfr. Tarhunta), già istruito dal lidio Tirreno
nell’arte dell’aruspicina, stava arando i campi di Tarquinia
(cfr. Taruisa/*Tarhuisa “Troia”) quando da una zolla smos-
sa più profondamente emerse un divino fanciullo chiamato
Tarchies (cfr. Tarhui) che gli fornì “nuove informazioni sulle
cose segrete” (vd. pp. 63-69). La figura di questo divino fan-
ciullo, che spontaneamente emerge dalla zolle della propria
madre terra, è significativo dell’elemento autoctono non solo
dell’aruspicina, ma della stirpe; tuttavia il suo nome Tarchies
(Tagete) e quello di Tarconte richiamano quello del dio ana-
tolico-troiano Tarhui o Tarhunt. Si diceva, peraltro, che Tar-
conte, era figlio di Telefo (re della Misia) e di Iera o di Astio-
che sorella del re di Troia. Egli sarebbe venuto in Etruria
dove avrebbe fondato Tarquinia ed avrebbe convissuto con
Enea ventuto da Troia7.
Gli Etruschi dovettero perfezionare la loro arte anche at-
traverso contatti diretti con la Mesopotamia. Una tarda oc-
casione può essere stata ad esempio quella che si diede
nel 323 a.C. quando una delegazione di Etruschi si recò a
Babilonia per incontrare Alessandro8.
7 Licofrone, Alessandra, v. 1240, ss. , con Parafrasi, Scòli e Commento
di Giovanni Tzetze. 8 Arriano, La Spedizione di Alessandro, VII, 15,5.
19
A P P A R A T O T E C N I C O 1. LA FACCIA VISCERALE DEL FEGATO. Per gli aruspici della
Mesopotamia, la parte del fegato che aveva significanza
ominosa era la faccia superiore, quella che oggi è chiama-
ta “faccia vescicolare”. Era divisa in due settori, destro e
sinistro, che i Babilonesi chiamavano Ali. I Greci e i Ro-
mani li chiameranno Lingue (gr. Glossai; lat. Linguae e-
minentes o Fibrae)9. Tutta la faccia era poi divisa in diver-
se sezioni che prendevano il nome sia dalla loro configura-
zione fisica che dal loro significato simbolico10. Ce n’erano
di due tipi.
- Sinu (carne), cioè le parti costituenti del Fegato come la
Cistifellea, la Crescenza e il Dito.
- Usurtu (disegno), cioè i segni e i solchi, come la Pre-
senza e il Sentiero, che erano procurati dal contatto con al-
tri organo interni; oppure i legamenti, come la Forza e la
Base del Trono, che connettevano il fegato ad altri organi
anatomici; oppure parti del sistema vascolare.
Gis-hur, che significa disegno, è un termine generico che
a volte indicava tutte le sezioni della facciata.Ogni sezione
era divisa a sua volta in un centro (cioè il centro vero e
9 Esichio, Lexicon, s.v. Glossai (lingue): “Suoni, e parti ominose del
fegato nella divinazione”; A. Cornelio Celso (I sec.): “Iercur in quattuor fibras dividitur”; Festo (I sec.), s.v. Fiber: “Genus bestiae quadripes. Plautus: Sic me subes cottidie, quasi fiber salicem. Quo nomine e-xtremae orae fluminis appellantur, unde et fibras iocineris et fimbrias vestimentarum dicimus» ;Paolo Diadoco : “laxis resonare fibris (ri-suonare con larghe corde vocali)”; Isidoro, Origines: “Fibrae iecoris sunt extremitates sicut extremae partes foliorum in vitibus, sive quasi linguae eminentes (Le fibrae del fegato sono le parti laterali come quelle delle foglie delle viti o meglio come lingue prominenti)”. 10
Alcuni elementi erano così sottili che oggi non hanno nome in anatomia.
20
proprio e la sua area), una parte alla sua destra, ed
un’altra alla sua sinistra.
Ogni centro, ogni destra ed ogni sinistra era a sua vol-
ta suddiviso in una testa, una mezzeria ed una base. Così
ogni sezione risultava composta di nove sottosezioni.
Sulla base della forma fisica delle sue parti, il fegato fu
dunque tappezzato da una molteplicità di sezioni, ognuna
col suo significato simbolico positivo o negativo.
Indicativamente, la parte destra era positiva, mentre la si-
nistra era negativa:
La metà destra mi è pertinente, la sinistra è del
nemico, quando tu fai un estispicio per il benessere
del re, per le guerre, per la campagna, per prendere
una città, per guarire il malato, per la pioggia, per in-
traprendere un’impresa e quant’altro11.
Nel celebre modello di fegato del primo millennio, illustra-
to da Nougayrol, “destra” e “sinistra” sono in effetti sinonimi
di positivo e di negativo. Ma quale fosse per i Babilonesi la
parte destra e quale la sinistra del fegato è rimasto agli
studiosi molto problematico, tanto più che ogni sezione a-
veva una propria particolare destra e un propria particolare
sinistra, non sempre corrispondenti a quelle del fegato
stesso12. Noi crediamo però che la cosa sia risolvibile. Vediamo.
11
Vd. U. Koch Westenholz, Babylonian Liver Omens, The Carsten Nie-buhr Institute of Near Eastern Studies (University of Copenhagen), Copenhagen, 2000, p. 38 e n. 6: (Multalbitlu, tavoletta 2-3,I, 59-61, “CT” 20, 43-48). 12
Sul modello (BM, 50494) riportato e illustrato da J. Nougayrol, “Re-vue d’Assirologie et d’Archéologie orientale”, (62), 31-50, è scritto: “la parte destra della cima della presenza è destra, la parte destra della mezzeria della Presenza è sinistra, la parte destra della base della mezzeria della Presenza è destra”.
21
Nel modo in cui, nel museo di Atene, la statua (ca 410 a.C.)
della sacerdotessa Diotima di Mantinea mostra nella mano sini-
stra un fegato divinatorio, la parte della faccia ominosa
dell’organo che comprende il cosiddetto Dito del Fegato (pro-
cesso piramidale) si trova alla sinistra del corpo della sacerdo-
tessa, la parte destra alla sua destra, la parte superiore verso la
sua testa, e quella inferiore verso i suoi piedi (fig. 3).
Così è anche per il fegato che è nella mano sinistra della
statua (IV-III sec. a.C.) dell’aruspice etrusco di Volterra (f. 27)
nonché per il fegato che è nella mano sinistra del divino
Tagete, mitico fondatore dell’aruspicina, nella scena graffi-
ta sul celebre specchio etrusco di Tuscania (f. 18). Così è
pure per il fegato di altre figure etrusche meno famose. Dai
reperti iconografici esaminati ricaviamo dunque che per gli
22
aruspici greci ed etruschi la parte sinistra del fegato che
tenevano in mano per esaminare era quella che compren-
deva il Dito del fegato e guardava la parte sinistra del cor-
po dello stesso aruspice13. Non possediamo corrispondenti
documenti iconografici babilonesi ed ittiti di aruspici con fe-
gato in mano. Abbiamo solo modelli di fegato. Anche que-
sti, comunque, come quelli greci ed etruschi, presentano
sempre quella sporgenza ch’essi chiamavano Dito o Pol-lice del fegato (processo piramidale). Per i Babilonesi,
questa sporgenza era il simbolo del nemico (vd. oltre). O-
ra, poiché, per loro, la parte del fegato che “appartiene al
nemico” era la sinistra, si può ragionevolmente supporre
che, come per i Greci e gli Etruschi, anche per i Babilonesi
e gli Ittiti la parte la parte sinistra del fegato fosse quella
che conteneva il Dito. Come si vede, lo studio dell’aruspicina
babilonese potrebbe illuminare quella etrusca, e viceversa.
Il fegato poteva anche presentare variazioni morfologiche
dovute sia a malattie che ad influenze esterne. Si tratta dei
13
La Kock Westenholz (op. cit. , p. 39 e n. 107) sostiene invece che “il fe-gato era visto come appariva nel sacrificio animale adagiato sul dorso”, e vorrebbe che anche le rappresentazioni etrusche mostrassero “gli aruspici che ispezionano il fegato con l’orlo dorsale lontano da loro”.
23
cosiddetti “segni fortuiti”. Questi avevano in genere valore
negativo, specie se posti sul lato destro; ma, se posti sul
lato sinistro, potevano assumere anche valore positivo. In
pratica avveniva come nei nostri calcoli algebrici: (+ x + =
+); (- x - = +); (+ x - = -); (- x + = -)14. Ulla Jeyes ha giustamente notato che il collegare alcune
caratteristiche fisiche a valori positivi o negativi non è e-
sclusivo dell’aruspicina mesopotamica, ma tocca un tasto
della psicologia umana della percezione: è universalmente
riconosciuto che il normale, il sano, il grande, il dritto, il
lungo, il largo ed il lucido suscitano associazioni favoreli;
l’anormale, invece, il rotto, il piccolo, lo storto, il corto, lo
stretto e l’opaco suscitano associazioni sfavorevoli15.
L’aruspice non poteva eludere di dichiarare favorevole o
sfavorevole l’esito d’una consultazione; però poteva,
all’interno dello stesso sistema interpretativo, trovare la
possibilità per riflessioni creative ed espedienti politici.
Presso gli Etruschi, addirittura, l’aruspice poteva cercare di
render vano il responso negativo dichiarando che “Tagete,
iniziatore dell’aruspicina, aveva finto quelle cose”16.
***
La sequenza con la quale le sezioni del fegato venivano
ispezionate fu stabilita fin dal Vecchio Periodo Babilonese,
e rimase tale per tutti i successivi periodi17. Secondo la ta-
voletta Multabiltu, essa era la seguente:
(1) la Presenza; (2) il Sentiero; (3) la Parola Piacevole;
(4) la Forza; (5) la Porta del Palazzo; (6) il Benessere; (7)
14
Vd. U. Kock Westenholz, op. cit. p. 43. Se però, dice la Kock, la pro-tasi contiene due o più termini, essi potrebbero essere trattati come e-lementi individuali, per es. (+ x -) x (- x +) = +; oppure essi potrebbero rinforzarsi l’uno con l’altro (+ x -) + (- x +) = -. 15
Vd. U. Yeyes, Old Babylonian Extispicy, Nederlands Historisch-Archaelogisch Te Istambul, Istambul, 1989, p. 51. 16
Lucano, De Bello Civili, I, 584. 17
J. Nougayrol, “Journal of Cuneiform Studies”, 1967 (21), 232-233.
24
la Cistifellea; (8) la Sconfitta dell’esercito nemico; (9) la
Base del Trono; (10) il Dito o Pollice; (11) il Giogo; (12)
la Crescenza.
Con direzione antioraria, l’ispezione incominciava dunque
dalla Presenza perché sul fegato questo segno poteva an-
che mancare; e se il segno mancava voleva dire che il dio
invocato si rifiutava di rispondere e che era inutile proce-
dere all’esame delle altre parti elencate. A sua volta, la
Crescenza (processo papillare) era l’ultima ad essere i-
spezionata; e, per il fatto d’esser l’ultima, essa poteva rias-
sumere ed anche condizionare tutto il significato ominoso
dell’ispezione.
Secondo testimonianze d’epoca tarda, poi, alle dodici se-
zioni del fegato corrispondevano i dodici mesi dell’anno
babilonese (da marzo-aprile a febbraio-marzo) con i loro
rispettivi segni zodiacali e dèi18.
18
Di questa associazioni non si conosce ad oggi alcuna fonte tradi-zionale: abbiamo solo un testo Tardo Babilonese proveniente da Uruk e riportato da Koch Westenholz (op. cit., p. 24). In esso le prime sei sezioni corrispondenti all’Ala Destra del fegato sono elencate nell’ordine d’ispezione tradizionale sopra riferito; le altre, corrispondenti all’ Ala Sinistra, sono invece elencate con qualche lacuna e confusione od errore. L’ispezione partiva dall’ Ala Destra e proseguiva in senso antiorario verso sinistra. (1) La Presenza - Enlil, dio dell’aria; Nisan (marzo-aprile); co-
stellazione Ariete. (2) Il Sentiero - Shamash, dio del sole e protettore dei viag-
giatori; mese Ayaru (aprile -maggio); costellazione Toro. (3) La Parola Gradevole – dio Nurku; mese Simanu (maggio-
giugno); Orione. (4) La Forza – dio Ninurta; mese Dumuzu (giugno- luglio); co-
stellazione Cancro. (5) La Porta del Palazzo – dio Belet-ekalli; mese Abu (luglio-
agosto); costellazione Leone. (6) Il Benessere – Adad, dio del tuono e della tempesta; mese
Ululu (agosto-settembre); costellazione Corvo. (7) La Cistifellea – dio Anu; mese Tasritu (settemebre –
ottobre); costellazione Bilancia.
25
Esaminiamo ora le varie parti del fegato babilonese. 2. IL DITO O POLLICE (SU.SI - UBANUM / U). In anatomia è
oggi detto "processo caudato” o “piramidale”. E’ simile a un
Dito pollice rispetto a una mano; la Lerderer preferisce in-
fatti chiamarlo Pollice. Nei modelli d’argilla babilonesi la
sua forma fu a volte riprodotta come quella d’una piramide
a tre lati (fig. 4). Questa fu divisa in varie parti non ancora
ben identificate: pianura, palazzo, larghezza, territorio. O-
gnuna di queste parti, conformemente ad ogni altra del fe-
gato, fu suddivisa in una testa, una mezzeria e una base,
con relative parti destre, centrali e sinistre. Insieme, le tre
teste delle tre parti formavano la testa del dito19.
Il Thulin nel lontano 1900 credette che la testa del Dito
corrispondesse a quella dell’intero fegato (vd. p. 40). Ma
da nessuna fonte babilonese, o da altra che sia, risulta che
il Dito avesse mai avuto quella denominazione. Esso, non
era visto come una testa, bensì come un dito pollice per la
sua posizione laterale; ed aveva sì una testa, ma la aveva
solo in proprio così come in proprio l’aveva ogni altra parte
ominosa del fegato.
(8) Il Dito – dio ? - ; mese Arahsamna (ottobre-novembre); costellazione Scorpione. N.B. Secondo l’ordine canonico, a-vrebbe dovuto essere elencato al decimo posto.
(9) N.B. Nell’ l’oridine canonico, qui ci sarebbe la Sconfitta dell’esercito nemico.
(10) La Crescenza – dio ? - ; mese Tebetu (dicembre-Gennaio); costellazione Vega. N.B. Secondo l’ordine canonico, avrebbe dovuto essere elencato al dodicesimo posto. Qui a-vrebbe dovuto esserci il Dito.
(11) Il Giogo – dio ? - ; mese Sabatu (gennaio - febbraio); co-stellazione Arturo.
(12) Il Fiume del Fegato – dio ? - ; mese Addaru (febbraio – marzo); costellazione Pleiadi. N.B. Questo segno non appar-tiene all’elenco canonico delle dodici sezioni. Qui avrebbe do-vuto esserci la Crescenza, che invece è al decimo posto.
19 H. Jeyes, op. cit. , p. 65 ss.; H. Koch-Westenholz, op. cit. , p. 69-70.
26
Fig. 5 – Fegato ovino
A - Processo papillare (babil. MAS o Sibtu = Crescenza, Cre-sta); gr. crotatos Lobòs = sommo Baccello; lat. Caput = Testa,
capitale; etr. Methlum = Testa, capitale, centro federale).
B - Vena porta, Porta del fegato (bab. Nar amuri = Porta del fegato; gr. Pylai = Porta).
C - Cistifellea (babil. Martu = Vescica; gr. Chole = Bile; lat. Fel
= Bile).
D - Processo caudato o piramidale (babil. Ubanu = Dito).
E - Impronta (babil. Manzànzu = Presenza divina; gr. Theos =
Dio; lat. Deus = Dio).
F - Impronta (babil. Padànu = Sentiero; gr. Keleythos = Sentie-ro).
G - Legamento venoso (babil. Pittuliya = Nodo; gr. Desmos = Nodo).
27
Il simbolo del Dito del fegato era “il nemico”, ed era op-
posto a quello della Crescenza (processo papillare; vd. ol-
tre). Esempio:
• Se la Crescenza s’è trasformata in un’arma, e si rivolge
verso il Dito, l’uomo trionferà sul suo nemico20.
Il simbolo del Dito, in quanto rappresentava il nemico, era
anche opposto a quello della Cistifellea che simboleggiava
il re, la sua famiglia e il trono. Esempi:
• Se la Cistifellea s’è voltata e ha circondato il Dito, il re
occuperà il paese nemico.
• Se la Cistifellea s’è sollevata e s’è impadronita della
testa del Dito, il re esproprierà una città straniera.
• Se il Dito s’è impadronito della testa della Cistifellea, il
nemico prenderà il paese del principe21.
C’è poi una serie di responsi dove il Dito simboleggia an-
che il concetto di nascosto o sinistro, come quel che acca-
de dietro le chiuse porte del palazzo reale: intrighi, menzo-
gne, tradimenti, magia nera, trasgressioni sessuali e altre
simili cose22.
3. IL GIOGO (NIRUM / SUDUM). Nel noto modello d’argilla
illustrato dal Nougayriol (ff. 6; 7)23, esso, visto verticalmen-
te, confina in basso con il Canale del Fegato, ed in alto
con il bordo superiore del modello; visto orizzontalmente,
confina alla sua sinistra con la zona della base del Dito del fegato, ed alla sua destra giunge fino all’estremità del mo-
20
A. Goetze, Old Babylonian Omen Testes, “Yale Babylonian Omen Textes” (10), 1947, p. 35, r. 7-8. 21
H. Jeyes, op. cit., p. 70. 22
H. Jeyes, op. cit., p. 70-71. 23
J. Nougayrol, Le foie d’orientation BM 50494, “Revue d’Assirologie et d’Archeologie Orientale“, (62), 1968, pp. 31-50 e ff. 1-9.
28
dellino. In verticale, il Giogo fu diviso in una Testa, una
Mezzeria, e un Collo24. La Mezzeria è divisa dal Collo per
mezzo del Nodo Destro (Kisirtu; gr. Desmos). Quest’ultimo
corrisponde, in natura, al “legamento venoso” che, come
un nodo, unisce le due ali della faccia superiore del fegato.
La Testa del Giogo è divisa a metà dalla Crescenza (pro-
cesso papillare). Un documento poi presenta il caso in cui
• il Giogo di fronte alla Crescenza è accuratamente divi-
so in due come i denti di un pettine25.
“Giogo” è il nome di una barra di legno che ha due incur-
vature laterali atte ad esser imposte sul collo d’una coppia
di buoi per aggiogarla e tenerla unita. Lo stesso nome è
stato traslato per indicare quella zona del fegato che, come
un giogo, ne unisce e “governa” le due ali, sinistra e destra
(ff. 6; 7)26. Ci sono poi alcuni responsi che utilizzano espli-
citamente il simbolo dei buoi aggiogati27.
Sono stati finora pubblicati solo pochi responsi tratti
dall’osservazione del Giogo28. In genere, essi parlano di
attacchi di varie specie di insetti e di genti nemiche come
quelle che abitavano Elam e Subartu29.
24
R. D. Biggs, “Qutnu, masrahu” and related terms in Babylonian extispicy, “Revue d’Assirologie et d’Archeologie Orientale ”, (63), 1969, p. 159 ss. 25
VAT 4102, 4, 6 in U. Jeyes, op. cit. , 162, n. 21. 26
M. I. Hussey, Anatomical Nomenclature in an Akkadian Omen Text, “Journal of Cuneiform Textes”, (2), 1948, pp. 21-32. 27
Ulla Koch-Westenholz, op. cit., p. 58. 28
Vd. documenti in Ulla Jeyes, op. cit., p. 71. 29
Vd. Elenco dei documenti in Ulla Koch-Westenholz, op. cit. , p. 57. L’Elam si trovava ad ovest del corso inferiore del Tigri, ed aveva per capitale Susa. Gli Elamiti ebbero da sempre stretti rapporti con Sumer e Babilonia, dove compirono incursioni e per qualche tempo dominarono. Infine furono sconfitti e sottomessi. Subartu era il nome della regione a nord della Babilonia comprendente più o meno l’Assiria e la Mesopo-tamia settentrionale.
29
Altri responsi, infine, associano simbolicamente il Giogo
alla città. La Jeyes, che lo ha notato, riferisce alcuni do-
cumenti:
• Se, nell’ispezione del fegato, manca il Giogo, la città e i
suoi abitanti periranno […]; se, poi, sulla testa o nella
mezzeria o sul collo del Giogo si trova una stella rossa,
il fuoco divamperà nei sobborghi o nella parte interna o
nel centro della città30.
Il fatto che città sia uno dei valori che i Babilonesi davano
a quella parte di fegato ch’essi chiamavano Giogo, trova
corrispondenza nell’aruspicina etrusca. Il Giogo si trova al
di sopra della Crescenza (processo papillare); ora, nei mo-
delli di fegato etruschi, nella zona contigua alla parte supe-
riore della Crescenza è scritto Metlvmth (f. 34) che signifi-
ca città31. La sua area, come quella del Giogo babilonese,
sporge verso entrambi i lati sinistro e destro della facciata
del fegato. Ne riparleremo a p. 36. Siamo di fronte a un
nuovo caso (vd. p. 20-22) in cui lo studio dell’aruspicina ba-
bilonese può illuminare quella etrusca, e viceversa.
In un tardo testo babilonese proveniente da Uruk, il Gio-go è associato al mese di Sabatu (Gennaio), alla stella Ar-
turo della Costellazione di Boote, ed alla costellazione
dell’Acquario (21 genn. - 21 febbr. ; astri guida: Saturno e
Urano), il gigante incaricato da Dio di rovesciare dal cielo
sul mondo l’acqua del diluvio per punire le nefandezze de-
gli uomini32.
= = =
30
Vd. U. Jeyes, op. cit. , p. 71. 31
G. Colonna, A proposito degli dèi del fegato di Piacenza, “Studi E-truschi”, 59, 1993. p. 130. 32
U. Koch-Westenholz, op. cit. , p. 24: “The Yoke [-------] the month sabatu, the Giant (Aquarius) [---] the costellation Yoke of the Land (Arcturus)”.
30
Fig. 6 -. Modello di Fegato (BM 50494)
da Babilonia (I millennio a.C). Londra, British Museum.
Nelle varie “caselle” di questo modellino fittile i Babilonesi riportarono
con scrittura cuneiforme tutti i nomi delle relative parti ominose del fe-
gato. Purtroppo, il modello è mutilo. Nella fig. 7, leggi la traduzione del-
le iscrizioni della parte centrale del modello.
31
Fig. 7 -. Modello di Fegato (BM 50494) da Babilonia (I millennio a.C). Londra, British Museum.
Traduzioni delle iscrizioni della parte centrale.
Si noti che la Crescrenza non solo ha una Testa, ma è pure conno-tata come una “Testa” con relativa Spalla. In alcuni responsi essa ha pure una Fronte (vd. p. 34). Il Giogo, come quello di un bovino, le so-vrasta tutte.
32
4. IL NODO (K I S I R T I). Il Nodo di Destra (Kisirti imitti) è
illustrato dal modellino del Neugayrol (ff. 6; 7)33 che ce ne
fornisce l’esatta ubicazione: giusto il suo nome, esso uni-
sce la mezzeria del Giogo del Fegato con il collo dello
stesso Giogo34.
Anche gli Ittiti, nelle loro pratiche divinatorie, lo chiamarono
Nodo: Pittuliya nella loro lingua35. Pure i Greci lo chiamaro-
no Nodo: Desmos nella loro lingua36. Nella moderna ana-
tomia mantiene il nome di “legamento venoso”.
Nei modelli etruschi (f. 34), corrisponde alla piega visibile
lungo il nastro superiore del fegato, sopra la zona del Me-
tlumt (città), nel punto in cui la casa del dio Veti tocca
quella della dea Cilen, cioè dove le due ali del fegato, de-
stra e sinistra, s’incontrano. Ne riparleremo a pag. 102.
5. IL FIUME E LA PORTA DEL FEGATO (NAR AMUTIM o TA-
KALTIN, ABUL LIBBIM)37. Quel che gli aruspici babilonesi
chiamavano Porta e Fiume del fegato corrisponde in ana-
tomia alla “vena porta” o semplicemente alla “porta”38.
Quest’ultima, in particolare, è la fessura attraverso cui la
33
J. Nougayrol, Le foie d’orientation BM 50494, “Revue d’Assirologie et d’Archeologie Orientale“, (62), 1968, pp. 31-50 e ff. 1-9. 34
I documenti menzionano anche un Nodo di Sinistra (Kisirti sumeli) che doveva trovarsi fra la base del Dito, la testa e il collo della Cistifel-lea. In base a ciò, Ulla Jeyes ha suggerito di identificarlo con il lega-mento che unisce il rene destro al fegato (U. Jeyes, op. cit., p. 74). 35
E. Laroche, Sur le vocabulaire de l’haruspicine Hittite, “Revue d’Assirologie et d’ Archéologie orientale“, 4, 1970, p. 127, ss. 36
Esichio, Lexicon, s.v. Desmos. 37
U. Jeyes, op. cit., p. 74. 37
Secondo Neugayrol “Testes hépatoscopiques d’époque ancienne conservés on Muée de Louvre “, XLIV, 1950, pp.1-44), Nar Amutin / ID BA (fiume del fegato) e Takaltin / TUN (borsa) sono sinonimi. Vd. pure U. Jeyes, op. cit. p. 74. 38
R. D. Biggs, Qutnu, Masrahu and related terms concerning Holes, “Journal of Near Eastern Studies”, (33), 1974, p. 167. Vd. pure U. Jeyes, op. cit. p. 74.
33
“vena porta” convoglia nel fegato il sangue ricco delle so-
stanze provenienti dall’assorbimento intestinale (fg. 5). Tali
sostanze, attraverso il fegato subiscono importanti modifi-
cazioni biochimiche. Il sangue, infine, entrato dalla “porta”,
e trasformato nel fegato, esce per ritornare al cuore. La
“porta” è il centro topico e vitale del fegato. Nel modello del Neugayrol (ff. 6; 7), il Fiume è diviso in
lato destro, centrale e sinistro, ed è posto sotto la Cre-
scenza (processo papillare). La Porta, in particolare, è e-
sattamente sotto la Crescenza.
I Greci chiamarono Pothamos (fiume) e Pylai (porte) quel che
i Babilonesi chiamavano Fiume del fegato e Porta del fegato. I
Romani chiamarono Venae (Vene) il Fiume, e Cellae (Celle) le
tre sezioni (destra, sinistra e centro) del Fiume e della Porta
come le tre celle dei templi (vd. p. 46). Gli Etruschi, nella ca-
sella contigua al “processo papillare” del modello bronzeo
di Piacenza scrissero Letham che pare possa essere la
forma etrusca del nome di Lete, il fiume infernale che dava
l’oblio ai trapassati prima di reincarnarsi (f. 34).
6. LA CISTIFELLEA (ZE O ES / MARTUM). La Cistifellea si
divide in una testa, un centro e un collo39. In alcuni casi è
chiamata Re‘um (Pastore), termine con il quale a volte è
denominato il re. Essa, infatti, simboleggia il re, la sua fa-
miglia e il trono.
Gli Ittiti la chiamarono ZE (zehili “psiman”), i Greci Do-
chai Choles40, i Romani Fel. Pare che in qualche modo i Babilonesi connettessero la ci-
stifellea anche alle acque41. Gli Etruschi la divisero in quattro
39
Il “dotto cistico” è attaccato al Collo. Nel modello di fegato del Neu-gayrol, come d’altronde in natura, il suo peduncolo parte dalla Porta del fegato sotto la Crescenza. Il lato destro è quello alla sua destra, ed il sinistro è quello alla sua sinistra. 40
E. Laroche, “Revue d’Assiriologie et d’Archeòlogie orientale”, (64), 1970. p. 133; Esichio, Lexicon, s.v. Doche.
34
caselle42, e la consacrarono a Nettuno e alla potenza delle
acque marine: l’imperatore Augusto ne trovò una doppia il
giorno in cui vinse la battaglia navale di Azio43.
7. LA CRESCENZA (MAS o SIBTUM)44. La Crescenza era
l’ultima parte del fegato ad essere ispezionata (vd. p. 24);
così poteva riassumere e addirittura condizionare il signifi-
cato complessivo del responso. Il suo nome assiro vien fat-
to derivare da wasabu (crescere in dimensione)45. Pari-
menti, gli Ittiti la chiamarono Zi (Crescenza, Gomitolo)46. In
natura, essa corrisponde al “processo papillare”47: si trova
nella parte alta del centro del fegato, sopra la “vena porta”
ed il peduncolo della Cistifellea. Il suo nome ancor oggi
esprime l’immagine d’una Crescenza a forma di capezzolo
ovvero piccola testa. Nel modello di fegato del Neugayrol,
essa risulta divisa in lato destro e sinistro; verticalmente,
poi, in una spalla e una testa (vd. f. 7). Alcune fonti men-
zionano pure una fronte (putum)48.
41
J Nougaryol segnalò che una delle iscrizioni segnate sulla cistifel-lea d’un modello di fegato caldeo, trovatro a Mari, sembrava significa-re “e la pioggia nel paese nemico” (“Comptes rendus de l’Acadèmie des inscriptions et Belles Lettres”, 1955). 42
Perché vi compresero quella del dotto cistico, 43
Plinio, Storia naturale, XI, 195. 44
Il nome Sibtum è usato a volte come maschile, altre come femminile. 45
Vd. U. Koch-Westenholz, op. cit. , p. 64. Ne sono date varie traduzio-ni. J. Nougayrol: fr. Excroissance (Escrescenza); Ulla Jeyes: ingl. Increase (Aumento); R. Leiderer: ted. Auswuchs (Escrescenza). J. W. Meyer fa invece derivare il termine da sabatu (“Alter Orient und Altes Testament”, XXXIX, 1987, p. 172) che egli traduce con ted. Greifen (afferrare). Sotto questo aspetto, Sibtum potrebbe significare Mano oppure Dito medio della mano, contrapposto ad Ubanum inteso come Dito pollice. Un re-sponso menziona, infatti, due Crescenze ditiformi. 46
Vd. Alfred Boissier, Mantique Babilonienne et mantique hittite, Parigi, 1935, p. 27, n. 3. 47
M. I. Hussey, Anatomical Nomenclature in an Akkadian Omen Text, “JCS”, 2, 1948, pp. 21-22. 48
U. Jeyes, op. cit., p. 74.
35
Certi responsi, poi, distinguono una Crescenza e una
Crescenza del Giogo (Sibut Nirim). Uno di essi dice:
• Se la Crescenza s’è trasformata in un’arma, e si rivol-
ge verso il Dito, l’uomo trionferà sul suo nemico; ma se
la Crescenza s’è mutata in un’arma e punta in direzio-
36
ne della Crescenza del Giogo il suo nemico trionferà
su di lui49.
Nella sentenza appena citata, la sezione della Crescenza
punta verso il Giogo; nel modello del Neugayrol (ff. 6; 7)
sembra invece che la sezione del Giogo invada quella del-
la Crescenza. In qualche modo, Il loro valore poteva esse-
re intercambiabile50. Gli Etruschi infatti ne fecero un’unica
zona: nel loro celebre modello bronzeo di “fegato di Pia-cenza” (f. 18), in quella parte che corrisponde al Giogo dei
Babilonesi, e che corre lungo la base superiore della pro-
tuberanza che i Babilonesi usavano chiamare Crescenza
(oggi “processo papillare”), gli Etruschi scrissero Metlvmth
(f. 34). Questa parola, secondo G. Devoto e G. Colonna,
significa “città” (lat. Urbs)51 o, meglio, a nostro avviso, “cit-
tà capitale” (lat. Caput) (vd. pp. 103-105). Si tenga presen-
te che, in alcuni responsi babilonesi, il Giogo simboleggia
proprio la città (vd. par 3 a p. 29) e che, in taluni casi, la
stessa Crescenza poteva avere la valenza di città capita-le. Un modello con tre Crescenze presenta infatti la se-
guente didascalia:
• Presagio per Accad (capitale dell’antica Babilonia) concer-
49
Vd. U. Jeyes, op. cit., p. 204, n. 206. 50
Al centro del fegato, in alto, si legge “spalla della Crescenza”, alla sinistra della spalla si legge “testa della sinistra del Giogo”, e sotto la spalla si legge “testa della Crescenza”. Quest’ultima si trova in mezzo fra la “testa della destra del Giogo“ e una ripetizione della “testa della sinistra del Giogo”. Sembrerebbe che la testa della destra e quella del-la sinistra del Giogo occupino la posizione che dovrebbe spettare alla sinistra ed alla destra della testa della Crescenza. Tutta la sequenza di teste è comunque indicata con l’unico nome di Crescenza nella no-menclatura scritta lungo il Fiume del Fegato 51
G. Colonna, A proposito degli dèi del fegato di Piacenza, “Studi E-truschi”, 59, 1993. p.130.
37
nente Rimus e Manastusu (sono i nomi di due re)52.
Ma la Crescenza estendeva la propria valenza anche a
quella di madre, di patria e di terra coi suoi prodotti e profitti;
ciò diversamente dal Dito che simboleggiava il nemico.
Presentiamo due significativi esempi di valore di ventre
materno.
• Se la Crescenza è simile all’uccello pietra, la moglie
dell’uomo darà alla nascita un maschio53;
• se la Crescenza manca, e al suo posto usuale c’è un
buco, il bambino non ancora nato della donna incinta
morirà54.
La Crescenza poteva presentarsi anche doppia o multi-pla; e ciò nella stragrande maggioranza dei casi aveva si-
gnificato positivo. Eccone alcuni esempi55.
• Due Crescenze: l’uomo vedrà la ricchezza.
• Se due Crescenze sono consecutive, il piccolo tesoro
dell’uomo diverrà grande, e l’uomo prospererà.
• Se ci sono due Crescenze e sono pieghettate come
una fune, il […] siederà sul trono.
• Se ci sono due Crescenze, il raccolto del paese entre-
rà nel Palazzo.
• Se due Crescenze si succedono l’una all’altra, il picco-
lo tesoro dell’uomo diverrà grande, l’uomo prospererà.
• Se una Crescenza è sovrapposta all’altra, consumerai
il raccolto della terra del nemico.
52
M. Rutten, Trente-deux modèles des foies en argile inscrits provenent de Tell-Hariri (Mari), “Revue d’Assiriologie et d’Archeòlogie orientale”, (35), 1938, p. 41 e f. 2. 53
U. Jeyes, op. cit., p. 139, nn. 27-29. 54
U. Jeyes, op. cit., p. 146, nn. 41-43 55
Gli esempi che sono tratti da U. Jeyes, op. cit., pp. 72; 137-143.
38
• Se ci sono tre Crescenze, il […] prenderà il controllo e
salirà sul [trono (?)].
• Tre Crescenze: il re prenderà il controllo dei beni di
qualcuno e li darà ad un altro.
• Se ci sono quattro Crescenze: significa cambiamento
di direzione.
• Se ci sono cinque Crescenze, tu consumerai il […] del
tuo nemico.
• Quattro Crescenze: le regioni si divoreranno l’una con l’altra56.
Due e a volte anche più Crescenze avevano dunque si-
gnificato positivo. Nell’epatoscopia etrusca e romana la
funzione positiva delle duplici Crescenze è svolta dalla
presenza duplicata del Caput (testa) del fegato.
La Crescenza simboleggia anche la vittoria e la salita al
trono; ed è in contrasto col Dito (oggi processo piramidale)
che è il simbolo del nemico e del rivale in genere:
• Se la Crescenza s’è trasformata in un’arma, e si rivolge
verso il Dito l’uomo trionferà sul suo nemico57.
• Se la Crescenza è grande come il Dito, il domestico sarà
potente come il suo padrone, o il padrone della domestica
l’amerà ed ella sarà pari alla sua padrona58.
Cattivo segno era invece se la Crescenza era bucata o
divisa o mancante59:
• Se la Crescenza è forata, il pidocchio infesterà.
56
Questi ultimi due esempi appartengono ai rari casi in cui la moltepli-cità delle crescenze ha significato negativo.
57 A. Goetze, Old Babylonian Omen Testes, “Yale Babylonian Omen
Textes” (10), 1947, p. 35, r. 7-8. 58
In U. Koch-Westenholz, op. cit. , p. 23. 59
I responsi che seguono sono tratti da U. Jeys, op. cit. , pp. 72; 137-143.
39
• Se un buco si trova nella parte destra della Crescenza,
l’uomo impazzirà.
• Se un buco si trova nel mezzo della Crescenza, morirà
una sacerdotessa o un sacerdote.
• Se un buco si trova nella parte sinistra della Crescen-za, i cani impazziranno60.
• Se nella […] della Crescenza c’è un buco, e la Cre-scenza lo ricopre, il nemico riempirà i pozzi davanti a
te (vuol dire che assedierà la città, e riempirà di terra i
pozzi dei cunicoli che vi portano l’acqua).
• Se sulla “fronte” della Crescenza ci sono sette buchi: una peste di roditori;
• Se [la testa (?)] della Crescenza è divisa, il cittadino
preferirà (vivere) in aperta campagna [e] l’uomo (il re
della città) finirà in rovina;
• Se la Crescenza è suddivisa, l’orzo mancherà;
• Se la Crescenza manca, e al suo posto usuale c’è un buco,
il bambino non ancora nato della donna incinta morirà.
***
La stessa localizzazione anatomica e gli stessi significati
ominosi della Crescenza (MAS/Sibtu) dei Babilonesi avrà
quella parte di fegato che il Greci, nella loro epatoscopia,
chiameranno Lobòs (Lobo) e, a volte, anche Kefalè (Te-
sta). Oggi, noi, in anatomia, la chiamiamo “processo papil-
lare” perché somiglia a una piccola testa (f. 5).
Il poeta Nicandro (II sec. a.C.), trattando del fegato di
maiale, spiegò:
• La cima del Lobo (acrotaton Lobòn) sporge dalla Tavola
(Trapeze)61, e si protende (neyei) vicino la cistifellea
(schedon Choles) e la Porta della Vena Porta (Pylàon)62.
60
Nel modello (BM 50494) illustrato da Neugayrol (op. cit., p. 40) la Spalla della Crescenza è chiamata anche Morso di Cane.
40
Questo Lobo (Lobòs) di cui tratta Nicandro tende verso la
Cistifellea e l’entrata della Vena Porta proprio come la
Crescenza (oggi processo papillare) di cui parlavano i Ba-
bilonesi; e non va scambiata con il Dito (oggi processo pi-
ramidale), come fece Thulin (vd. pp. 25; 40; 96)63: la Cre-scenza è vicinissima alla Porta del fegato, mentre il Dito è
discosto e si rivolge verso la parte opposta (f. 5).
***
Platone sosteneva che c’è una parte dell’anima che non
ascolta la ragione perché si lascia sedurre dalle appa-
renze. Un dio l’ha posta nel fegato perché, liscio e lucido e
dolce e amaro com’è, potesse riflettere i comandi dell’anima
appetitiva e rimandarli all’intelletto per suscitargli paura. Ciò
perché ogni volta, dice Platone, l’anima appetitiva, serven-
dosi dell’amarezza congenita nel fegato, si mostri a quella
razionale con figura minacciosa, e
diffondendo amarezza per tutto l’organo, vi presenti
i colori della bile; e sia piegando da eretto (ex or-
thou) il Lobo (cioè l’equivalete della Crescenza ba-
bilonese) e torcendolo, sia ostruendo e chiudendo
Serbatoi (dochàs) e Porte (pylas), provocasse do-
lori e nausee. Quando, al contrario, un’ispirazione
d’intelligenza disegna immagini di dolcezza, e calma
l’amarezza [...], essa dispone secondo le regole tut-
61
Vd. Esichio, Lexicon: “Dolou Trapeza = Epì toy epatos, semeion ev thytike (Tavola del Dolo = Sopra il fegato, segno in divinazione)”. Tavo-la del Dolo, cioè facciata della parte sfavorevole del fegato. 62
Nicandro, Theriaca , 560. 63
Per C. Thulin, si veda Realencyclopadie der Classicischen Altertum-swissensschaft, s.v. Haruspices, col. 2452. Thulin citò il passo ove Ni-candro parla del baccello che sporge dalla Tavola, ma omise con reti-cenza la parte ove Nicandro dice che lo stesso lobo si trova vicino alla porta del fegato. Thulin elude così di dover localizzare correttamente il Lobo nella zona accanto alla Porta: questa si trova nella parte centrale del fegato.
41
to ciò che nel fegato è eretto (cioè il Lobo), liscio e
libero (cioè i Serbatoi e le Porte del fegato)64.
Il Lobo per i Greci, come la Crescenza per i Babilonesi
(e, come vedremo, il Caput ovvero la Testa del fegato per
gli aruspici etruschi di Roma) poteva presentarsi anche i-
perplastico, doppio o diviso in due, e anche staccato e per-
fino assente o confuso nelle malformazioni patologiche
della vicina Porta e delle vena omonima. A seconda dei
casi, il significato poteva essere fausto o infausto. L’eroe
Prometeo, nella omonima tragedia di Eschilo (524-456
a.C.), dice di
saper ben distinguere la forma fausta e varia della
Cistifellea e del Lobo.
Euripide (480-406 a.C.), a sua volta, ci descrive il caso in cui
il Lobo non era congiunto alle viscere, e vicino ad
esso (pélas), l’entrata della Vena Porta (Pylai) ed i
condotti della Cistifellea (dochai chole) annunciavano
funeste aggressioni per chi lo stava esaminando65.
Senofonte (V-IV sec. a.C.) racconta poi di casi in cui
i fegati delle vittime sacrificate erano stati trovati pri-
vi dei Lobi (aloba ierà)66.
Nella Vita di Pirro, Plutarco (46 – 120 d.C.) racconta di
fegati trovati senza Lobo (ek tōn ierōn alòbōn)67.
64
Platone, Timeo, 71b-d. 65
Euripide, Elettra, 826 ss. 66
Senofonte, Elleniche, III, 4,15 e IV, 7,7. 67
Plutarco, Vita di Pirro, 30.
42
Plutarco ricorda pure che quando ad Alessandro un in-
dovino riferì
che era stato trovato un fegato privo del Lobo (ē-
par alobon), Alessandro esclamò: ahimè, è un cat-
tivo presagio!68
Lo stesso Plutarco narrò pure che il console romano
Marcello immolò due vittime, e nella prima
il fegato non aveva la Testa (epar ouk echon Kēfa-
lèn) [....]; nella seconda invece la Testa (kēfalè) mostrava uno sviluppo straordinario69.
Come si vede, Plutarco chiamava sia Lobo (Lobòs) che
Testa (kēfalè) quella protuberanza del fegato, che noi an-
cor oggi per la sua forma di piccola testa o capezzolo,
chiamiamo “processo papillare”70.
Plutarco infine, nella Vita di Silla, raccontò in greco che il
duce romano ebbe il seguente presagio di vittoria:
Presso Taranto fece un sacrificio, ed il Lobo che si
presentò aveva la forma d’una corona d’alloro dal-
la quale si dipartivano due nastri71.
Agostino, che rinarrò l’evento in lingua latina, si espresse così:
68
Plutarco, Vita di Alessandro, 73. 69
Plutarco, Vita di Marcello, 29. 70
Ancora Plutarco (Vita di Cimmone, 18) narrò che durante un sacrificio si trovò che “il Lobo non aveva la Testa (ton Lobòn ouk echonta kēfa-lén)”. In questo caso, Plutarco dovrebbe riferirsi in modo specifico a quella che per i Babilonesi era la “Testa della Crescenza”. Appiano (Bellum Civile, II, 116), poi, preferì il termine Testa (kēfalè) a quello di Lobo (Lobòs): egli narrò che, prima della morte di Cesare, si trovò che “alle viscere mancava la testa (e kēfalè tois splagchnois eleypen). 71
Plutarco, Vita di Silla, 27.
43
Quando Silla venne a Taranto e fece sacrifici in proprio
favore vide sulla Testa del fegato (in Capite iecoris) del
vitello qualcosa di simile a una corona d’oro72.
I Romani dunque chiamavano Caput (Testa) del fegato
quel che i Greci chiamavano Lobos (Lobo) o Kēfalè (Te-
sta), gli Ittiti Zi (Crescenza oppure Gomitolo) e i Babilonesi
MAS/Sibtum (Crescenza). Ancora oggi, questa parte del
fegato, per la sua sporgenza a forma di capezzolo, si chia-
ma “processo papillare”.
Come già abbiamo detto, il Thulin credette invece erro-
neamente che la Testa del fegato, che tanta importanza
aveva nell’epatoscopia greca, etrusca e romana, fosse ciò
che i Babilonesi chiamavano Dito, e che noi oggi chia-
miamo “processo caudato” (vd. p. 25). Questo Dito o “pro-
cesso caudato” si trova peraltro nella parte laterale del fe-
gato, mentre la Crescenza o Lobo o Testa o “processo
papillare” si trova nella zona mediana lungo la linea che di-
videva il fegato in due parti: la familiare e la ostile. Di
questa posizione mediana ed intermedia fra parte familia-re e parte ostile abbiamo una riprova in Tito Livio quando
racconta che durante una seduta d’aruspicina si trovò
Che la Testa (Caput) del fegato era staccata dalla
parte familiare73.
Come, poi, nella epatoscopia babilonese, una duplice
Crescenza aveva significato positivo, e la sua mancanza
lo aveva negativo, così, nell’aruspicina etrusco-romana, una
duplice Testa avevano significato positivo, e la sua man-
canza lo aveva negativo. Tito Livio, nella Storia di Roma,
scrisse che il console Marcello, il giorno prima d’essere
72
Agostino, De Civitate Dèi, II, 24. 73
Tito Livio, Storia di Roma, IX, 1: “Caput iocineris a familiari parte cesu”.
44
ucciso in battaglia,
immolò due vittime, ed, uccisa la prima, il fegato fu
trovato privo della Testa; nella seconda invece si
mostrò normale, e la Testa apparve anche aumenta-
ta. Ciò veramente non piacque all’aruspice perché le
viscere, già tronche e deformi, ora apparivano fin
troppo di buon augurio74.
Valerio Massimo (ca. 20/25 a.C. – dopo 31 d.C.), ripeté
che il console Marcello immolò due vittime.
La prima vittima cadde dinanzi al piccolo focolare, e
si trovò il fegato senza Testa, mentre la seconda
aveva una duplice Testa di fegato. Osservate que-
ste cose, l’aruspice col volto triste rispose che le vi-
scere non gli piacevano perché dopo le cose mutila-
te erano apparse le favorevoli75.
Plinio (23-79 d.C.) ricordò ancora che in quell’occasione:
nelle vittime mancò la Testa del fegato; e il giorno
dopo ne furono trovate due76.
Nella letteratura latina, oltre alle sopra riportate, le fonti
che rilevano il significato negativo della mancanza della
Testa del fegato sono numerosissime77.
74
Tito Livio, Storia di Roma, XXVII, 26: “Immolasse eodie quidam pro-diere memoriae consulem Marcellum, et prima ostia caesa iecur sine capute inventum, in secunda omnia comparuisse quae assolent, auc-tum etiam visum in capite; nec id sane haruspici placuisse, quod se-cundum trunca et turpia exta nimis laeta apparuissent”. 75
Valerio Massimo, Memorabilia, 16, 9: “Prima Hostia ante foculum cecidit, eius iecur sine capite inventum est, proxima caput iocineris duplex habuit. Quibus inspectis Haruspex tristi vultu non placere sibi exta, quia secundum truncata, laeta apparuissent respondit”. 76
Plinio, Storia Naturale, XI, 189: “caput iecoris defuit in extis: sequenti deinde die geminum repertum est”.
45
Significato negativo hanno anche due Teste quando sia-
no sovrapposte ed ambedue staccate o comunque irre-
golari nella forma. Seneca, nella tragedia Edipo, così de-
scrisse il fegato d’un toro sacrificato.
Il fegato è marcio e secerne un nero fiele; e, segno
sempre infausto per la unicità del potere (semper
omen unico imperio grave), ne emergono due Teste
di pari sporgenza; l’una e l’altra Testa è tagliata e ri-
coperta da una sottile membrana che però non ci
impedisce di osservare i segreti significati; il lato o-stile si gonfia con valida forza e spinge avanti (ten-
dit) sette vene; le attraversa un solco trasverso (limes oblicus) che non consente loro di ritornare in-
dietro (has omnis retro prohibens reverti limes obli-
cus secat)78.
Il poeta Lucano (39-65 d.C.) scrisse che l’aruspice etru-
sco Arunte, dopo aver immolato una vittima,
osserva il fegato umido di liquefazione, e scorge le
Vene minacciose dalla parte ostile. […] Poi vede
nella Testa delle Fibre crescere la massa di un’altra
Testa: una parte è sospesa, marcia e malata, l’altra
palpita e con rapido movimento muove le Vene in
modo malvagio79.
Nel merito, uno scoliaste spiegò:
77
Vd. gli ulteriori esempi riportati da G. Blecher, De Extispicio Capita Tria, Gissa, 1905, pp. 5-22. 78
Seneca, Edipo, 358 – 365. La faccia viscerale del fegato presenta tre solchi disposti a formare un H: un solco traverso e due solchi sagit-tali, destro e sinistro. Nel solco trasverso, che corrisponde all’ilo dell’organo, si trovano l’arteria epatica, la vena porta e i dotti epatici, oltre ai vasi linfatici e ai nervi, che costituiscono il peduncolo epatico. 79
Lucano, De Bello Civile, 621-625.
46
Le Vene hanno ognuna un valore diverso, quelle che
gli aruspici chiamano Celle: dei nemici, degli amici, ed
un’altra di tal modo (destra, sinistra e centro). Quando
essi dunque osservano il fegato rilevano quale Cella
non si muova, e quale parte palpiti80.
Da quest’ultimo importante documento si evince che gli
aruspici ertrusco-romani, come già quelli Babilonesi, divi-
devano la Vena Porta e la Porta stessa in tre parti, destra,
sinistra e centrale, che chiamavano Vene (Venae) oppure
Celle (Cellae) come nella antica tripartizione dei templi (vd.
par. 5 a p. 33).
***
Noi abbiamo già visto che presso i Babilonesi la Presen-za veniva indagata per prima. Ciò perché essa poteva
mancare, e se mancava significava che la divinità interpel-
lata si rifiutava di rispondere rendendo così vana la prose-
cuzione dell’indagine del fegato (vd. pp. 23; 49-50). Ciò
avveniva pure presso i Romani (vd. pp. 49-50). Noi abbia-
mo anche visto (vd. p. 24) che presso i Babilonesi, la Cre-scenza veniva invece indagata per ultima così come il Lo-bo (Lobòs) o Testa (Kēfalè) presso Greci, e la Testa (Ca-
put) presso i Romani. Ciò perché anch’essa, come la Pre-senza, poteva mancare; ma se era la Crescenza a man-
care, ciò significava morte, e così condizionava negativa-
mente ogni precedente interpretazione delle altri parti del
fegato. Il Dito invece non aveva queste caratteristiche.
Dunque, noi possiamo ancora una volta ribadire che ciò
che i Greci chiamavano Lobo (Lobòs) e Testa (kēfalè), e i
Romani chiamavano Testa (Caput) del fegato, e che noi
ancor oggi chiamiamo “processo papillare” per la sua
80
Scolio a Lucano, De Bello Civile, 621-625: “Diversae sunt Venae, quas haruspices Cellas dicunt, hostium, amicorum et alia huiusmodi. Cum ergo aspiciunt iocinera intelligunt quae cella nec ait, que pars salit”.
47
forma di piccola testa o capezzolo, corrisponde a ciò che i
Babilonesi chiamavano Crescenza, e non a ciò che essi
chiamavano Dito, e che noi oggi chiamiamo “processo pi-ramidale. Il Thulin era in errore quando nel lontano 1900
credette di poter identificare nel Dito la Testa del fegato.
Questo equivoco è diventato un grosso ostacolo per la
comprensione di quale fosse nell’aruspicina il “centro del mondo (lat. Caput; etr. Methlum)” dal quale determinare
quali fossero le parti favorevoli e quali le sfavorevoli del
“mondo” stesso e del suo riflesso nel fegato degli animali.
***
Caput, in lingua latina, significava testa, ma anche “Te-sta del fegato” e “città capitale”: Roma era caput mundi
(capitale del mondo).
L’equivalenza “testa” = “capitale” fu anche utilizzata nella
pratica interpretativa propria della divinazione etrusca.
Quando Tarquinio, re di Roma, fece scavare le fondamen-
ta per la costruzione del tempio Capitolino, fu dissotterrata
una testa umana ancora palpitante; il re inviò ambasciatori
in Etruria acciocché l’àugure Oleno Caleno gli spiegasse il
significato del prodigio; e Oleno sentenziò che il luogo do-
ve era stata trovata la testa (caput) sarebbe divenuto la
capitale (caput) del mondo (vd. p. 104).
8. LA PRESENZA (KI.GUB / MANZAZUM). Essa è la prima ad
essere presentata negli elenchi canonici dei segni ominosi.
Nei tardi testi del I millennio è connessa ad Enlil (dio
dell’aria), al mese di Nisan (Marzo-Aprile) ed alla costella-
zione dell’Ariete81.
81
R. Labat, Un calandrier babylonien des travaux des signes et des mois, Libraire Honoré Champion, Parigi, 1965.
48
La Presenza è stata identificata con il solco verticale che
si trova sul lobo destro del fegato: nell’odierno linguaggio
anatomico corrisponde all’ “impressione reticolare”. La
sua zona consiste in questo solco e nella sua area circostante.
Il solco è orientato verso il centro del fegato, e la base verso
il bordo destro. Esso fu diviso orizzontalmente in tre parti82:
1. testa, cioè la parte rivolta verso il centro del fegato, di-
visa a sua volta verticalmente in un centro (positivo),
una destra (positiva) e una sinistra (negativa);
2. mezzeria divisa verticalmente in centro (positivo), de-
stra (negativa) e sinistra (positiva);
82
La partizione che presentiamo è desunta da J. Nougayrol, op. cit. , p. 39; U. Koch-Westenholz, op. cit., pp. 52-53.
49
3. base, cioè la parte rivolta verso il bordo destro del fe-
gato, divisa verticalmente in centro (positivo), destra
(positiva) e sinistra (negativa).
La presenza del Manzazum significava che il sacrificio
era stato accettato dalla divinità, e che, attraverso l’esame
del fegato della vittima, essa avrebbe dato una risposta al-
la domanda del sacrificante. La sua assenza, invece, vole-
va dire che la divinità non si rendeva disponibile. E’ questo
il motivo per cui essa veniva analizzata per prima.
Dagli Ittiti la Presenza fu chiamata Sintahis e Sumuqan. I
trattati che ci sono pervenuti menzionano una parte destra
(favorevole), ed una parte sinistra (sfavorevole)83.
Al babilonese Manzazu (Presenza divina) i Greci diedero i
nome di Theos (Dio)84, proprio perché la presenza o meno
di quel solco significava la disponibilità o meno del dio.
Anche gli aruspici etrusco-romani lo chiamarono Deus (Dio).
Lattanzio Placido scrisse:
Nelle viscere c’è un segno che si chiama Dio
(Deus). Se questo appare integro dimostra che il
nume è propizio; se invece è dimezzato significa
che il nume è irato o certamente non presente85.
Non sappiamo come gli Etruschi chiamassero questo se-
gno: forse Ais che nella loro lingua significava “Dio”. Esso
è comunque presente, al centro dell’ala destra dei modelli
di fegato etruschi come quello che si vede in mano a Tage-
te nello specchio bronzeo di Tuscania nonché in quello fitti-
le di Faleri (f. 26) ed in quello bronzeo di Piacenza (f. 28).
83
Un testo specifica che “al di sopra della sede di Sumuqan si trova un Nodo (Pittuliya)” ( E. Laroche, op. cit., p. 131-132). Questo Nodo è il Nodo di Destra (Kisirti imitti) dei fegati babilonesi, ed univa la mez-zeria del Giogo con il collo del Gioco. 84
Esichio, op. cit. , s.v. Theos. 85
Lattanzio Placido, ad Stat. Theb. , V, 176.
50
In quest’ultimo, in particolare, esso è racchiuso entro una
casella circolare posta al centro d’una ruota di altre e sei
caselle contenenti nomi di dèi: 1 - Cilen (Fortuna), 2 - Sel-
va (Silvano), 3 - Letha (Lete?), 4 - Tlusc (Tusco?), 5 - Lusl
(?) e Velchans (Vulcano), 6 - Satres (Saturno). E’ probabi-
le che si tratti d’una rosa di dèi che potevano o meno esser
presenti nel sacrificio.
Fig- 10
Scena di sacrificio. Rilievo neo-assiro (BM ANE 124548.
Da uno degli edifici di Nimrud (ca. 860 a.C.).
51
9. IL SENTIERO (GIR / PADANUM). Sentiero nei modelli di
fegato orientali era il termine per il solco che corre orizzon-
talmente sotto la Presenza nella “impronta Absomal”. Era
la seconda sezione del fegato ad essere ispezionata, subi-
to dopo la Presenza. Essa a volte fu detta Corso (Kibsum)
perché simboleggiava il corso della vita umana. Altre volte
fu chiamata Campagna (Harranum) perché simboleggiava
pure la campagna militare. Se il Sentiero si presentava
doppio, era segno generalmente favorevole; se triplo era
sfavorevole.
Gli Ittiti lo chiamarono KASKAL-is ovvero Ka.gir, i Greci
Keleytos86. Nel modello etrusco di Piacenza si trova all’interno della casella di Letham nel punto esatto in cui sul bordo esterno del fegato le caselle di Letham e di Tluscv s’incontrano87. Questo, come poi vedremo, è anche il punto che separa le due sequenze di scrittura usate dal costruttore dell’oggetto (ff. 30; 31; 33); qui, come pure vedremo, si trova il Nord del fegato etrusco.
10. ALTRE SEZIONI DEL FEGATO BABILONESE. • La Cavità del Windcleft (Ruqqi Pitir Sarim) o Parola Piacente (Pu
Tabu). E’ un solco orizzontale posto fra il sentiero e la fessura om-
belicale. Simboleggia un responso piacevole.
• La Forza ( Dananum) o il Segreto (Puzrum). E’ il solco che sta al di
qua del lato sinistro della fessura ombelicale.
86
E. Laroche, “Revue d’Assiriologie et d’Archeòlogie orientale”, 64, 1970. p. 133; U. Koch-Westenholz, op. cit. , p. 58, n. 171; Esichio, op. cit. , s.v. Acheleytha 87
La posizione delle sottosezioni del Sentiero è la seguente. La testa è alla destra, e la base è alla sinistra vicinissima alla fessura ombelicale; il lato destro del Sentiero costeggia la base della Presenza. Le sotto-sezioni erano: La Cavità del Crogiolo (abomasal impression) ed il Re-stringimento/Quartiere (il rilievo sotto il Sentiero, formato dalla absomal impression, simboleggiante il quartiere delle armi).
52
• La Porta del Palazzo (Bab Ekallim) o Porta della Città (Abullum).
E’ la fessura ombelicale, simbolo del palazzo, del suo personale,
delle sue rendite e della porta della città. Si conoscono due sotto-
sezioni: il destro e sinistro Stipite della Porta, cioè le aree che sono
a destra e a sinistra della fessura ombelicale. La Perdita d’un Ser-
vitore è un termine speciale per lo Stipite destro.
• Il Benessere (Sulmum), detto pure il Sentiero a destra della Cisti-
fellea (Padan Imitti Martim). Si tratta di un solco verticale che sta
alla destra della cistifellea. E’ simbolo di sicurezza e prosperità so-
prattutto per la campagna. Era dedicato ad Adad (dio del Tuono e
della Tempesta), e collegato al mese di mese Ululu (agosto-
settembre) ed alla costellazione del Corvo (vd. n. 15).
• Il Sentiero alla Sinistra della Cistifellea (Padan Sumel Martim) o La
Sconfitta dell’Esercito del Nemico (Mihis Pan Umman Nakrim). Cor-
risponde al solco verticale che è sull’ala sinistra del fegato, e alla si-
nistra della cistifellea. Simboleggia forse la campagna del nemico.
• La Base del Trono (Nidi Kussem). E’ un solco che si trova
nell’impressione renale, e simbolizza forse la vita privata del re.
***
Seneca, nella tragedia Edipo88, nomina il Limes Oblicus
d’un fegato di toro sacrificato. Dovrebbe trattarsi di quello
che oggi si chiama Solco Trasverso. In questo solco, che
corrisponde all’ilo del fegato, si trovano l’arteria epatica, la
vena porta e i dotti epatici, oltre ai vasi linfatici e ai nervi,
che costituiscono il peduncolo epatico.
***
Le fonti babilonesi e romane parlano poi di Fessum (Fes-
sura/incisione) e di Fessa (Fessure/incisioni). Non sap-
piamo se con questi termini intendessero una particolare
fessura con le sue parti di destra e di sinistra, oppure le
fessure in generale.
88
Seneca, Edipo, vv. 345, ss.
53
Fig. 11- Fegato siriano. Proveniente da Mari (Tell-Hariri).
Fonte: Maggie Rutten, 1938.
Traduzione delle iscrizioni Faccia 1: Se il nemico si impadronisce del fossato (ap-
paiono questi segni sul fegato).
Faccia 2: Se una celebre città declina in abitanti ed edifici
(appaiono questi segni sul fegato)
54
Capitolo secondo
A R U S P I C I N A E T R U S C A
L’ORIENTAMNETO PRESSO GLI ANTICHI
1. LE ROSE DEI VÈNTI. Oggi le nostre bussole sono formate
da una scatola contenete un ago d’acciaio che di giorno e
di notte si volge verso il nord magnetico. Conseguentemente,
anche la rosa dei vènti e le carte geografiche sono orienta-
te in tal senso.
Ma in antico non era così. La cosiddetta bussola pelasgi-
ca, o pinax, era una rosa dei vènti girevole su cui erano di-
segnati i rombi dei vènti principali; si orientava a mano se-
condo il punto dove il sole nasceva, e serviva da guida nel-
la navigazione. L’odierno verbo “orientarsi” deve il suo uso
all’originaria significazione di “prendere l’oriente come punto di
riferimento”.
Il primo che collegò i vènti ai quattro punti cardinali fu
Omero89. Ovidio poi cantò che, quando il creatore ordinò il
caos e fece il mondo,
Euro si ritirò verso l’aurora e le giogaie che ricevono
dall’alto i raggi del mattino; e Zefiro si pose ad occidente,
Borea a settentrione, ed Austro a meridione90.
Dopo l’epoca omerica entrarono in uso rose sia ad otto
che a dodici vènti.
Se noi sovrapponiamo la rosa ad otto vènti a quella a do-
dici, ricaviamo sedici punti cardinali da dove provenivano i
relativi vènti. Non abbiamo, tuttavia, nessuna testimonian-
89
Omero, Odissea, V, 595. 90
Ovidio, Metamorfosi, I, 61-66; Virgilio, Eneide, I, 85-86; 102; 131
55
za che gli antichi avessero
realizzato bussole e rose
a sedici punte. Questi
strumenti appariranno con
sicurezza soltanto agli ini-
zi del medioevo. Gli Etru-
schi, però, avevano già di-
viso il cielo in sedici zone
delle quale l’orientale era la
prima ed era posta in alto,
come in tutte le antiche ro-
se dei vènti e carte nauti-
che. L’oriente era in alto
perché da lì nasceva il so-
le. Porfirio spiegava:
La sede del dio Mitra è quella degli equinozi. Egli ha in
mano il pugnale di Ariete (21 marzo - 21 aprile) e ca-
valca il Toro di Afrodite (21 aprile – 21 maggio). Sic-
come Mitra, come il Toro, è creatore e padrone di tut-
to, è posto al centro del cerchio equinoziale: ha alla
sua destra le regioni settentrionali, e alla sinistra quel-
le meridionali. A sud, poi, e collocato Cauto (il sole
nascente; cfr. etr. Cavtha, Catha = il Sole, vd. p. 100
e ff. 28 e 34) perché è caldo, ed a nord Cauto-pato (il
sole che tramonta) perché il vento del nord è freddo91.
C’era anche però chi per orientarsi si metteva con le spal-
le al nord perché è sull’asse nord sud che gira il moto est
ovest del sole92. Il levante restava comunque posizionato in
alto in tutte le rose dei vènti e carte nautiche. Ancora nel
medioevo e dopo la scoperta dell’America alcune mappe del
mondo furono posizionate con l’oriente in alto (ff. 12; 13).
91
Porfirio (234 d.C. - ?), L’antro delle Ninfe, 24. 92
Cicerone, Divinazione, I, 31; Livio, Storie, I, 18; Plinio, Storia Naturale, 18, 76.
56
2. IL TEMPLUM ETRUSCO. Frontino (3-103 d.C.), rifacendosi
a Varrone (116-27 a.C.) disse:
La prima formulazione dell’arte della delimitazione,
come Varrone trascrisse dalla disciplina etrusca93:
siccome gli aruspici divisero il mondo in due par-ti chiamarono destra quella che stava sotto set-tentrione, sinistra quella che era sotto la parte meridionale della terra, andando da oriente a occidente poiché è di là che il sole e la luna guardano. Alcuni architetti scrissero che i templi verso
occidente sono ben indirizzati. Gli aruspici con un’altra linea divisero la terra dal settentrione al mezzogiorno, e a partire dal mezzogiorno chiamarono àntica
93
In altra occasione, Varrone (De lingua latina, VII, 7) scrisse: “Le parti di questa specie di templum sono quattro e si chiamano: sinistra dall’est, destra dall’ovest, anteriore fino al sud, e posteriore fino al nord. Sulla terra, si chiama templum il luogo delimitato con determinate formule al fine di trarvi i presagi o prendervi gli auspici (Eius templi partes quattuor dicuntur, sinistra ab oriente, dextra ab occasu, antica ad meridiem, ostica ad septen-trionem. In terris dictum templum locus augurii aut auspicii causa quibu-sdam conceptis verbis finitus)”.
57
(anteriore) la parte di là, e pòstica (posteriore) quella di qua. Da questo fondamento i nostri padri
stabilirono il modo di misurare i campi. Portarono
prima due linee: una da oriente a occidente, che
chiamarono decumano, un’altra dal meridione al settentrione, che chiamarono cardine. Il Decumano
inoltre divideva il campo in destra e sinistra”94.
Igino (II sec. d.C.) ripeté quasi con le stesse parole:
I limiti non furono costituiti senza cognizione del mon-
do, poiché i decumani seguono il corso del sole, e i
cardines l’asse del polo. Infatti, dapprima questo modo
di misurazione risale alla disciplina degli aruspici etru-
schi [vel auctorum habet, quorum artificium]; siccome
costoro divisero l’orbita della terra in due parti se-condo il corso del sole, e chiamarono destra quella che si trovava a settentrione, e sinistra quella che era nella parte meridionale della terra, andando da oriente ad occidente perché è di là che il sole e la luna guardano; costoro poi con-dussero un’altra linea da mezzogiorno a setten-trione. Onde questa istituzione viene applicata alle so-
glie dei templi. Sulla base di questo modello gli antichi
94
Frontino, De Limitibus, in Gromatici Veteres, ed. C. Lacmann, 1848, p. 28: “Limitum prima origo, sicut Varro descripsit, a displiplin estrusca; quod aruspices orbem terrarum in duas partes diviserunt: dextram ap-pellaverunt <quae> septentrioni subiacere<t>, sinistram quae a meridia-na terra<e> esse<t>, <ab oriente ad> occasum quod eo Sol et Luna spectaret, sicut quidam architecti delubra in occidente<m> recte specta-re scripserunt. Aruspices altera[m] lineam a septentrione admeridianum diviserunt terram, <et> a meridiano ultra antica, citra postica nominave-runt. Ad hoc fundamento mariores nostri in agrorum mensura videntur constituisse rationem. Primum duo limites duxerunt; unum ab oriente in occasum, quem vocaverunt decimanum, alterum a meridiano ad septen-trionem, quem cardinem appellaverunt. Decimanum autem dividebat a-grum dextra et sinistra, cardo citra et ultra”.
58
inclusero la misurazione dei terreni con adeguate longi-
tudini. Dapprima stabilirono due linee: una che andava
da oriente a occidente, e la chiamarono decumano,
un’altra da mezzogiorno a settentrione che chiama-
rono cardo dal cardine del mondo95.
Da queste testimonianze si ricava che l’aruspice etrusco
per dividere l’orbita terrestre si poneva al centro
dell’orizzonte visibile dal suo punto di osservazione, ed a-
veva l’oriente alle sue spalle, l’occidente davanti a sé, il
meridione a sinistra, e il settentrione a destra. E’ questa
d’altronde la posizione assunta da Tagete, il mitico fonda-
tore della disciplina etrusca, durante la lezione d’aruspicina
raffigurata sullo Specchio di Tuscania (f. 18). L’augure ro-
mano si poneva invece con le spalle a nord; però, simil-
mente all’augure etrusco, divideva con il lituo il cielo da o-
riente a occidente, e dichiarava sinistra (cioè fausta) la parte
che andava da oriente a occidente, e destra (infausta) quel-
la che andava da occidente ad oriente96.
95
Igino, Constitutio Limitum, in Gromatici Veteres, ed. C. Lacmann, 1848, pp. 166-167: “Constituti enim limites non sine mundi ratione, quoniam de-cumani solis decursum diriguntur, Kardines a poli axe.Unde primum haec ratio mensurae constituta ab Etruscorum haruspicum [vel auctorum habet, quorum artificium] disciplina; quod illi orbem terrarum in duas partes secun-dum solis cursum diviserunt, dextram appellaverunt quau septentrioni su-biacebat, sinistram quae ad meridianum terrae esset, <ab oriente ad> oc-casum, quod eo sol et luna spectaret; alteram lineam duxerunt a meridiano in septentrionem. Ex quo haec constitutio liminibus templorum adscribitur. Ad hoc exemplo antiqui mensuras agrorum normalibus lonlitudinibus incluserunt primum duos limites constituerunt : unum, qui ab oriente in occidentem dirigeret. Hunc appellaverunt duodecimanum ideo, quod terram in duas partes dividat et ab eo omnis ager nominetur. Alterum a meridiano ad septentrionem, quem cardinem nominaverunt a mundi Kardine”. 96
Secondo Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane, II, 4-5), i Romani, per averlo appreso dagli Etruschi, prendevano gli auspici con il viso ri-volto ad Est. Secondo Plinio, poi, era sbagliato rivolgere il viso ad est perché ogni giorno il sole nasce da un punto diverso; corretto era per lui porsi con le spalle a nord e con il viso a sud, sì che in ordine de-scrittivo il primo settore del cielo era per lui quello del nord. Secondo lo
59
Vegezio (III-IV sec.) poi, dando notizie sui vènti, scrisse:
Cominciamo dal solstizio di primavera, cioè dal pun-
to cardinale est, dal quale nasce il vento Subsolano
(il vento dell’est); a destra esso ha vicino il Coro ( il
vento di nord est), a sinistra il Volturno (il vento di
sud est).
Anche per lui, dunque, la parte destra del cielo era quella
a destra del sorgere del sole (est > nord > ovest), e sinistra
era quella a sinistra (est > sud > ovest). Plinio conferma:
I moti di tutte le stelle erranti, tra i quali quelli del sole e della luna, vanno in senso contrario a
quello della volta, e cioè verso sinistra [...], solleva-
te e scagliate verso il tramonto della sfera (II, 32-33)
[...]. Tutti i vènti spirano secondo il proprio turno;
nella maggior parte dei casi, quello che cade dà ini-
zio al suo opposto; quando uno viene a cadere gli
subentra il più vicino; girano da sinistra a destra come fa il sole (II, 48) [...]. I fulmini da sinistra so-no considerati favorevoli perché l’alba avviene sul lato sinistro del cielo; e non si considera tanto
l’arrivo quanto il ritorno, sia che dal rimbalzo scaturisca
stesso Plinio, comunque, la parte “sinistra (favorevole)” e “la destra (sfavorevole)” restavano rispettivamente quella che partiva dall’est, e quella che partiva dall’ovest (Plinio, Storia naturale, XVIII, 76-77; II, 52-60). Anche Tito Livio (Storia di Roma, I, 18) ci narra che l’augure di Numa Pompilio si pose con il volto “rivolto a mezzogiorno”, e con il li-tuo che aveva in mano “ tracciò in aria lo spazio da oriente ad occiden-te, e proclamò fauste le parti verso mezzogiorno, ed infauste quelle verso settentrione”. Il fatto è che l’augure, in pratica, poteva posizio-narsi come voleva purché i suoi punti di riferimento interpretativi re-stassero invariati.
60
il fuoco, sia che il soffio d’aria torni indietro, compiuta
l’opera e consumato il fuoco (II, 55)97.
Sia il sole che la luna, dunque, come noi stessi possiamo
oggettivamente constatare, girano dalla sinistra del punto
in cui sono nati (est), passano per la parte sinistra del cielo
(est > sud > ovest), e tramontano (ovest). E’ questo il motivo
per cui, negli auspici, gli Etruschi giudicavano favorevole la
parte sinistra del cielo.
Per questo tipo di ispezione, - spiega Plinio, - gli Etruschi hanno diviso il cielo in sedici parti. La
prima va dal settentrione all’alba equinoziale, la se-
conda fino al mezzogiorno, la terza fino al tramonto
equinoziale, la quarta occupa lo spazio restante fra
il tramonto e il settentrione. Essi hanno poi nuo-vamente diviso queste in quattro parti, e fra di esse hanno chiamato sinistre le otto che si con-tano a partire da levante, destre le altre otto con-trapposte.
E’ chiaro che se il sole gira a partire dalla sinistra del
punto in cui è nato (est), esso passa per il meridione (sud)
e tramonta a ponente (ovest); “le otto zone sinistre che si contano a partire dal levante”, menzionate da Plinio,
sono dunque le otto zone che vanno dall’est all’ovest pas-
sando per il sud, mentre “le altre otto destre contrappo-
97
Plinio, Storia Naturale, II, 55 : Omnium autem errantium siderum mea-tus, interque ea solis et lunae, contrarium mundo agere cursum, id est laevum [...], attollantur ab eo rapiantur in occasum (II, 32-33) [...]. Ommes ventes vicibus suis spirant, maiore ex parte autem ut contrarius desinenti incipiat. Cum proximi cadentibus surgunt, a laevo latere in dextrum ut sol ambiunt (II, 48) [...]. Laeva prospresa existimantur, quoniam laeva parte mundi ortus est. Nec tam adventus spectatur quam reditus, sive ab ictu resilit ignis sive opere confecto aut igne consumato spiritus remeat.
61
ste” sono quelle che vanno dall’ovest all’est passando per
il nord. Questa divisione è la stessa che noi abbiamo già
visto riferita da fonti etrusche in Varrone, Frontino ed Igino:
“andando da oriente a occidente gli aruspici etruschi divisero il mondo in due parti, e chiamarono destra quella che stava sotto settentrione, sinistra quella che era sotto la parte meridionale della terra” (vd. pp. 56-58).
Fra di esse sono particolarmente di malaugurio, conti-
nua Plinio, quelle che fiancheggiano il settentrione da
ovest. Perciò è decisivo sapere da dove sono venuti
e dove sono andati a finire i fulmini. Il caso migliore
è quando ritornano verso le parti orientali. Quindi se
sono venuti dalla prima parte del cielo (cioè la prima
delle otto sinistre che si contano a partire da levan-
te), e alla stessa ritornano, ne risulterà la profezia
d’una fortuna grandissima […]. Gli altri fulmini sono, a
seconda della porzione di cielo cui appartengono, o
meno fausti, o di malaugurio98.
Più sinteticamente Cicerone disse: “Gli Etruschi divisero il
cielo in sedici parti”99.
98
Plinio, Storia Naturale, II, 55: In sedecim partes caelum in eo spectu divisere Tusci. Prima est a septentrionibus ad aequinoctialem exortum, seconda ad meridiem, tertia ad aequinoctialem occasum, quarta obtinet quod est reliquum ab occcasu ad septentriones. Has iterum in quaternas divisere partes, ex quibus octo ab exortu sinistras, totidiem e contrario appellavere dextras. Ex iis maxime dirae quae septentriones ab occasu attingunt. Itaque plurimum refert unde venerint fulmina et quo concesserint. Optimun est in exortivas redire partes. Ideo cum a prima caeli parte venerint et in tandem concesserint, summa felicitas portende-tur […]. Cetera ad ipsius mundi portionem minus prospera aut dira. 99
Cicerone, De Divinatione, II, 42. Le fonti riferite concernono, per loro espli-cita dichiarazione, la disciplina etrusca. Altre fonti fanno invece riferimento alle usanze degli àuguri greci e romani. Per i Greci la parte favorevole del cielo era la destra. Per i Romani pure; ma a volte, per influsso etrusco, era la sini-stra. Ne nacque una grande confusione. Cicerone infatti si chiedeva perples-so perché mai gli uccelli potessero fornire un auspicio valido sia dalla parte si-
62
Le testimonianze lettera-
rie che sulla pratica aru-
spicina abbiamo riferito
trovano conferma in vari
documenti archeologici. I
fuochi del candelabro
bronzeo di Cortona hanno
sedici punte, pari a quelle
delle zone del cielo che
simboleggiano (f.14).
A Tarquinia, lungo il co-
lumen della tomba delle Bighe e di altre, si vedono rosoni
con sedici raggi che, posti, come sono, al centro del tetto,
evidentemente ripetono le regioni del cielo (f.15). Peraltro,
tutte le tombe che hanno questi rosoni sono orientate ad
est od a ovest. Ma i reperti più eclatanti sono sono il dise-
gno graffito sul retro dello speccchio di Tagete (f. 18) tro-
vato a Tuscania, e le 16
caselle del cielo incise
sul bordo d’un fegato
bronzeo rinvenuto a
Piacenza (ff. 29-31;
34). Esaminiamoli.
T A G E T E E I L P A N T H E O N E T R U S C O
1. TAGETE E TARCONTE. Noi sappiamo, da autori latini, che
i libri dove gli Etruschi scrivevano di volta in volta la loro
storia si chiamavano Tusciae Historiae. Sappiano pure che
i testi che contenevano le norme della loro religione erano
nistra che dalla destra, ed osservava: “Per noi i segni da sinistra sembrano più propizi, per i Greci ed i barbari quelli di destra; e non ignoro che talvolta noi chiamiamo sinistri i presagi favorevoli anche se provengono da destra”( Cice-rone, op, cit., II, 80-82.).
63
raccolti un una serie di volumi che noi oggi chiamiamo Libri
Tagetici. Purtroppo, non possediamo più né gli uni né gli
altri, almeno nella versioni originarie; c'è però un mito che
gli scrittori romani e greci che lo hanno tramandato attri-
buivano ai Libri Tagetici100. Si tratta della nascita di Tagete,
detto Pavatarchies in lingua etrusca. Vediamo.
Nei primi decenni del VI sec. d.C., lo scrittore bizantino
Giovanni Lido (490 - ?) poté ancora leggere una versione
latina dei Libri Tagetici contenente brani in autentica lingua
etrusca. Egli, nel De ostentis 101, scrisse:
Quanto poi a noi, quelli d’Italia dico, poiché fu Ta-gete il creatore del sistema, conviene usare le sue
parole, preferibilmente secondo il loro stesso signifi-
cato: quei nomi, infatti, usati insieme ai più antichi
sono poco comprensibili e non troppo evidenti. Use-
remo poi anche gli altri, Tarconte l’aruspice, Tar-quito il [.?.] e Capitone il sommo sacerdote, così
da tessere una certa continuità dell’opera dalle pa-
role di tutti loro. Bisogna dunque per prima cosa e-
sporre chi era questo Tagete e chi sono gli altri e in
che modo i loro scritti trovarono credito accanto al co-
stume prevalente circa le cose sacre.
Tarconte, così chiamato di nome, era un aruspice,
uno di quelli istruiti dal lidio Tirreno, come egli stes-
so dice nel libro. Queste cose, infatti, ci vengono
narrate nel tipo di scrittura usato dai Tuschi poiché
100
Cicerone, op. cit., II, 50; Ovidio, Metamorfosi, XV, 553-559; Lucano, I, 634; Columella, X, 344-347; Censorino, Il giorno della nascita, IV, 13; Anobio, Adversum Nationes II, 69; Ammiano Marcellino, Rerum Gesta-rum Libri, XVII, 10,2; Servio, All’Eneide, I, 2; II, 781; VIII, 398; Macro-bio, Saturnali, V, 19,13; Marziano Capella, Le Nozze di Mercurio e Fi-lologia, II, 157; Fulgenzio, Serm. ant. , 4; Festo, Il significato delle pa-role, s.v. Tages; Commento Bernense a Lucano, I, 636; Isidoro, Etimo-logie, VIII, 9; 34-45; Giovanni Lido, De Ostentis, 2-3; I mesi, IV, 7,9. 101
Giovanni Lido, De Ostentis, II, 6, B.
64
allora in quei luoghi non era ancora comparso
l’Arcade Evandro. Era poi quello un tipo di scrittura
diverso e non comune a noi: se così non fosse non
ci sarebbe rimasto nascosto niente delle cose se-
grete e più necessarie.
Alcuni pensano che il libro sia di Tagete, poiché,
come in una specie di dialogo, Tarconte domanda, e Tagete risponde. Comunque, in questo libro, Tar-
conte dice che un giorno, mentre lavorava la terra,
gli capitò un fatto meraviglioso, tale che non aveva
mai udito che fosse accaduto a nessuno in nessun
tempo. Dal solco uscì fuori un bambino che sem-
brava neonato, non privo però dei denti e degli altri
segni dell'età adulta. Questo bambino dunque era
Tagete; e, come afferma anche Proclo Diadoco in
una sua opera, egli equivale alla divinità che i Greci
chiamano Hermes ctonio (cioè Mercurio infero).
Secondo le norme sacrali, il fatto fu velato da
un’allegoria poiché il discorso sulle cose divine non
fu tramandato chiaramente attraverso i profani, ben-
sì nella forma ora dei miti ora delle parabole: così
invece di dire che l’anima, perfetta e nel pieno delle
sue facoltà, entrò nella materia, si dice che il bambi-
no neonato fu tratto fuori dal solco.
Tarconte, dunque, il più vecchio (ỏ presbyteros),
poiché vi fu anche il più giovane (neoteros), quello
che guerreggiò ai tempi di Enea, sollevato il bambi-
no e collocatolo nei luoghi sacri, pensò di imparare
da lui qualcosa sulle cose segrete. Ottenuto poi ciò
che aveva chiesto, compose un libro delle cose trattate, nel quale Tarconte interroga nella lingua
comune degli Itali, e Tagete risponde attenendosi
alle lettere antiche e poco comprensibili a noi. Non-
dimeno, cercherò, per quanto possibile, di riferirvi
quelle cose facendo uso da un lato delle notizie
65
(cioè delle domande di Tarconte e delle risposte di
Tagete contenute nel testo etrusco) e dall'altra di co-
loro che le tradussero, ovvero di Capitone, di Fon-teio, di Vicellio, di Labeone, di Figulo e del natura-
lista Plinio.
I Libri Tagetici furono scritti in versi, secondo una metrica
etrusca a noi poco conosciuta102.
Nelle altre fonti dalle quali apprendiamo alcune varianti
dello stesso mito, colui che trae Tagete dalla madre terra è
un contadino o un sacerdote di nome Tarquinio che sta
arando un terreno nella campagna attorno a Tarquinia.
La più antica testimonianza che possediamo è quella di
Cicerone. Egli riferisce:
Si dice che, nel territorio di Tarquinia, mentre si
lavorava la terra, e un solco veniva impresso più
102
In altra parte del De ostentis, Giovanni Lido, trattando dei Terremoti, dice : “Vicellio stesso, il romano, dice questo con le medesime parole dei versi di Tagete, intorno a cui anche Apuleio più tardi riferì in forma libera e prosastica” (vd. p. 175).
66
profondamente, un certo Tagete balzò su d'improvviso,
e rivolse la parola all'aratore. Questo Tagete, a
quanto si legge nei libri degli Etruschi, aveva l'aspet-
to di un bambino, ma la sapienza di un vecchio.
Poiché il contadino, rimasto stupito da questa appa-
rizione, levò un alto grido di meraviglia, ci fu un ac-
correre in massa; e, in breve tempo, tutta l'Etruria convenne in quel luogo. Allora Tagete parlò lun-
gamente dinanzi alla folla di coloro che lo ascoltava-
no. Questi stettero a sentire con attenzione ogni sua parola e la misero per iscritto. Inoltre, l'intero
discorso fu quello in cui venne contenuta la scienza
dell'aruspicina. Essa poi si accrebbe con nuove co-
noscenze da ricondurre a quei princìpi. Abbiamo
appreso queste cose dagli stessi Etruschi. Essi con-
servano questi scritti, e li considerano fonte della lo-
ro disciplina103.
Cicerone va integrato con altri autori. Verrio Flacco (I sec.
a.C.-I d.C.) scrisse:
Si chiama Tagete il figlio di Genio, nipote di Gio-ve. Si dice che fanciullo diede l'insegnamento dell'a-
ruspicina ai dodici popoli dell'Etruria104.
Censorino (III sec.) disse:
Dicono che nel territorio di Tarquinia, mentre si
arava, sia stato tratto fuori il fanciullo divino di nome
Tagete il quale cantò la disciplina dell'aruspicina che
103
Cicerone, op. cit. , II, 50-51. 104
Verrio Flacco, De verborum significatione (Compendio di Festo), s.v. Tages: “Tages nomine Genii filius, nepos Iovis, puer dicitur disci-pulinam aruspicii dedisse duodecim populis Etruriae”.
67
i lucumoni che allora governavano in Etruria scris-
sero accuratamente105.
Nel commento a Lucano è scritto:
Tagete, in lingua etrusca vuol dire "voce mandata fuori dalla terra". Si dice che questo Tagete nac-
que all'improvviso mentre si lavorava la terra. Egli
scrisse i libri delle profezie.
Tagete. Dicono che la scienza dell'aruspicina fu
proclamata in Etruria. Si dice che Tarquinio, il fla-mine Diale (cioè il sacerdote di Giove), mentre a-
rava per fare la semina, scavò il figlio di Genio, e nipote di Giove. Egli dettò la scienza dell'aruspicina
ai dodici figli dei principi, e poi non comparve più.
Poiché nacque dalla terra fu chiamato Tagete (Ta-
ges = apo tes ges), che nella lingua etrusca vuol di-
re "voce mandata fuori dalla terra"106.
Genio, padre di Tagete, era detto anche Genio Gioviale:
uno dei quattro dèi Penati etruschi assieme a Fortuna,
Cerere e Pale107.
Nella vulgata romana, dunque, si diceva che Tagete fosse
il figlio del Genio di Giove, e che Tarquinio o Tarconte che
lo trasse dalla terra fosse il sommo sacerdote di Giove
(flamen Dialis), cioè colui che, nel nome dello Stato, cele-
brava i riti e le festività del dio.
Ora, se teniamo presente che Giovanni Lido trasse dalla
vulgata romana dei Libri Tagetici la notizia secondo cui
Tarconte, dopo aver sollevato il fanciullo dalla terra, lo
105
Censorino, De die natali, IV, 13. 106
Commento Bernense a Lucano, I, 636, H. Usener, p. 41. 107
Cesio, in Arnobio, Adversum nationes, III, 40. Per i Romani, i Penati erano invece Giove, Giunone, Minerva e Mercurio (Servio Danielino, Ad Verg, Aen. II, 296). Quest'ultimo è il Mercurio Infero greco con il quale, come riferiva Giovanni Lido, i Greci identificavano Tagete.
68
“andò a collocare nei luoghi sacri e pensò di imparare da
lui qualcosa sulle cose segrete”, possiamo ritenere che
nella vulgata romana si dicesse pure che i “luoghi sacri” dov’egli ricevette da Tagete “le cose segrete” fossero de-
dicati a Giove. Peraltro, Mario Torelli ha recentemente di-
mostrato che, in epoca romana, il tempio tarquiniese
dell’Ara della Regina, che è il più grande d’Etruria, era
dedicato proprio a Giove (etr. Tinia)108.
Ma il dio Giove, venerato a Tarquinia,
sotto il dominio di Roma, nel tempio
dell’Ara della Regina, era l’equivalente
romano del supremo dio etrusco Tinia
che i tarquiniesi dovettero aver venerato
nello stesso tempio all’epoca della loro
indipendenza. Del resto, le più antiche
testimonianze del culto di Tinia proven-
gono proprio da Tarquinia109. Pare poi
che a Tinia gli Etruschi assimilassero
Veltun/e, il dio della Federazione110. Nei
graffiti del famoso Specchio di Tuscania,
infatti, il dio Veltun/e è paternalistica-
mente accanto a Tagete mentre
quest’ultimo rivela a Tarconte l’arte di
esaminare il fegato degli animali (f. 18).
Nell’insieme del mito, secondo la vulga-
ta romana, Tagete è il figlio del Genio di
Giove (Tinia = Veltun/e?), e nasce a
Tarquinia dalle zolle della madre terra
smosse dall’aratro di Tarconte o di Tarquinio sacerdote di
Giove-Tinia (Veltun/e?); chi lo trae dalla terra lo va a de-
108
M. Torelli, Tarquitius Priscus Haruspex di Tiberio, in Archeologia in Etruria Meridionale, a cura di M. Pandolfini, Roma, 2006. p. 249, ss. 109
I. Krauskopf, in Dizionario della civiltà etrusca, a cura di M. Cristo-fani, s.v. Tinia. 110
M. Cristofani, Dizionario della Civiltà Etrusca, Giunti Martello, Fi-renze, 1985, p. 334.
69
porre nei luoghi consacrati, e al suo grido di richiamo tutti e
dodici i lucumoni delle città etrusche convengono sul po-
sto; da qui il fanciullo rivela la scienza dell’aruspicina a
Tarconte e ai lucumoni lì convenuti. E’ evidente che il rag-
gio d’azione del grido dello scopritore, che da Tarquinia si
stende per tutta l'Etruria, ripete, in chiave mitica, l'autorità
che Tarconte, Tarquinia e il sito stesso della rivelazione
esercitavano sull'intera nazione. Il concorso, poi, di tutta
l'Etruria sul centro donde era partito il richiamo riflette la
capacità aggregante che Tarconte e il luogo sacro aveva-
no verso i popoli che componevano la Federazione.
La documentazione archeologia risalente all'età del bronzo
e a quella del ferro, trovata sui colli di Corneto e di Tarquinia,
conferma le presunzioni di primato forniteci dal mito.
2. IL FEGATO DI TAGETE. I graffiti che sono sul retro dello
specchio di Tuscania (IV sec. a.C.) presentano la scena
seguente (f. 18).
♦ Nella parte alta dello specchio si vede l’aurora che guida
la quadriga del sole nascente. Sotto la quadriga si vede il
sole che sorge dai monti.
♦ Nella parte bassa, sotto terra, una divinità alata e con
armilla al braccio spinge in su con le mani il piano del ter-
reno sorreggendolo come se la scena sopra raffigurata
rappresentasse il mondo. Così il disco dello specchio e le
sue figure risultano disposti come le coordinate cosmiche
del templum augurale etrusco: l’oriente in alto e l’occidente
in basso (vd. pp. 56-58).
♦ Nel mezzo dello specchio, un giovanetto ha alle spalle il
sole che nasce dai monti. Con l’indice della mano destra
egli indica un punto nel fegato che tiene fra i polpastrelli
70
della sinistra. Al di sopra della sua testa è scritto pavatar-
chies111, che dovrebbe significare “il giovane Tagete”. Un
uomo barbuto osserva il giovane con molta attenzione. Al
di sopra della sua testa è scritto Avl Tarchunus (il Vecchio
Tarconte). Ricordiamo (vd. p. 64) che Giovanni Lido distin-
gueva il vecchio Tarconte (colui che trasse dalla terra il
giovane Tagte) dal giovane Tarconte (colui che portò aiu-
to ad Enea); Strabone poi raccontava che Tarconte era
tanto saggio da esser nato coi capelli bianchi112. Ora, in
lingua etrusca Avl è contrazione di Avile (Aulo) che do-
vrebbe a sua volta derivare da Avil (anno, età) e significa-
re “annoso, vecchio, canuto”. Nella scena dello specchio,
dovremmo dunque esser di fronte proprio al Vecchio Tar-conte perfettamente contrapposto al giovane (pava) Ta-gete (Tarchies). Per inciso, è pure verosimile che Giovanni Li-
do sia stato indotto a distinguere Tarconte il Vecchio dal Giova-
ne proprio perché nell’originale testo etrusco latino ch’egli para-
frasava aveva trovato scritto Avl (= vecchio) Tarchunus.
Notiamo pure che Tarconte ha nella mano sinistra un lun-
go bastone la cui punta in basso perfora il piano del terreno
fino alla testa del Genio alato. Questi ha il braccio ornato di armilla, come il dio Veltune (vd. oltre), e potrebbe trattarsi
del Genio di Veltune, padre di Tagete, cioè quella divinità
che nella vulgata romana figurava come il Genio di Giove.
♦ Accanto a Tarconte si vede una donna sopra la quale è
scritto Ucernei o Ucernet.
♦ Sul limite destro della scena un giovane dio nudo ha in
mano un ramoscello, e al di sotto d’un ginocchio un ce-
spuglio a tre rami, che spunta fra le crepe d’una zolla di
terra. Nella parte bassa, sotto la zolla, la divinità alata
spinge in su con le mani il piano del terreno; la sua testa è
111
Pava (fanciullo, giovane)? Cfr. gr. pais-paidos. 112
Strabone, Geografia, V, 2.
71
Fig. 18 – Lo Specchio di Tagete (da Tuscania).
Dalla sinistra dello specchio: Veltune (Vertumnus) dio della Federa-
zione Etrusca; Pavatarchies (Tagete) rivelatore dell’aruspicina; U-
chernei (Ocresia?) sacerdotessa; Avl Tarchunus (Aulo Tarcon-
te/Tarquinio) sacerdote e capo della Federazione; Rathlth (divinità del
corniolo). Tagete, mentre trae gli auspici dal fegato che ha in mano, ha
il sole nascente (Oriente) alle spalle, e l’occidente dinanzi a sé: que-
sta era la posizione degli aruspici e del fegato durante le sedute.
In basso, Genio alato e ornato di armilla come Veltune: è il Genio di
Veltune, padre di Tagete?
72
toccata dalla punta del bastone di Tarconte, che perfora il
terreno.
Il giovane dio nudo (di cui sopra) dovrebbe aver connes-
sioni col ramoscello che ha in mano e con quelli simili del
cespuglio che ha sotto il ginocchio. Al di sopra della sua
testa è scritto Rathlth, che è un forma etrusca di locativo
che, mentre indica che la figura sulla quale si trova è quel-
la del dio Rath, indica pure il luogo dove il dio Rath è ve-
nerato: forse un luco posto fra cespugli di cornioli sangui-
gni, dedicato ad una divinità divinatoria ctonia avente fun-
zione simile a quella di Apollo Sorano oppure di Apollo Corniolo (Karneios, Kranios) venerato dai Greci nei riti Mi-
sterici113. Per tradizione, dal corniolo deriverebbe il nome
di Corneto (oggi Tarquinia). Questa pianta, per gli Etruschi
era legata alle viscere della terra114, e ben si connettereb-
be al mito di Tagete che nasce dalla viscere della terra115.
Il nostro dio si trova, peraltro nella parte dello specchio
113
Pausania, La Grecia, III, 13,5 (Karneios); 2O,9 (Kranios); IV, 1, 7-9; 26, 7; 33, 4-6. Si diceva che i Greci avessero costruito il cavallo di Troia con il legno di un bosco di cornioli sacri ad Apollo sul monte Ida; ma, sapendo che il dio si sarebbe sdegnato, lo placarono con sacrifici e lo chiamarono Apollo Corniolo. Ad Andania, nella Messenia, il culto dei Grandi Dei era molto simile a quello di Eleusi, Tebe, Lemno e Samotracia. I Misteri venivano celebrati in un bosco di cipressi detto Karnasios alsos (= bosco di cornioli) perché sacro ad Apollo Karneios, cioè Apollo Corniolo. E' strano che il bosco dove si celebravano i Mi-steri fosse un bosco di cipressi, ma si chiamasse Carnasio come fosse un bosco di cornioli (anche un bosco di cipressi presso la greca città di Corinto si chiamava Kraneion come fosse di cornioli). E' probabile che in origine il luogo dove si celebravano i Misteri fosse stato un bosco di Cornioli, e che il nome fosse rimasto ad indicare ogni bosco dove si compiva il rito. 114
Come sappiamo da un frammento di Tarquinzio Prisco, che tradus-se in latino i Libri Tagetici, il corniolo sanguigno era una pianta legata agli Inferi (Macrobio, Saturnalia, III, 20,2-3). 115
Rath potrebbe anche essere una diversa forma di *Ras, il nome del condottiero eponimo dei Rasenna (= Etruschi).
73
che, secondo le coordinate cosmiche, dovrebbe corrispon-
dere a quella delle divinità terrestri.
♦ Sul lato sinistro della scena vediamo una figura maschi-
le nuda, barbuta, ornata di armilla al braccio sinistro, ed
armata di lancia in quello destro. Al di sopra, è scritto Vel-
tune. Ne tratteremo nel paragrafo che segue.
3. IL FANUM VOLTUMNAE. La “e” finale di Veltune potrebbe
essere la desinenza del nominativo di un raro teonimo in
“e”, ma potrebbe anche esser quella d’un comune locativo;
in quest’ultimo caso la forma Veltune indicherebbe il luo-
go specifico (il luco o il fanum) dove Veltun (lat. Vertum-
nus/Voltumna), il dio della Federazione Etrusca, era vene-
rato. In entrambi i casi è evidente che il dio aveva perti-
nenza col luogo della rivelazione di Tagete.
Ricordiamo che, nel mito, al richiamo di Tarconte, tutti e
dodici i lucumoni convennero a Tarquinia sul luogo della ri-
velazione per ricevere i dettami dell’aruspicina di Tagete.
Consideriamo pure che a Tarquinia sorse una scuola
d’aruspicina che i Romani istituzionalizzeranno nel Collegio
dei Sessanta Aruspici dove i capi d’ogni singola città della
Federazione Etrusca dovevano mandare i loro figli per ap-
prendere l’aruspicina (vd. pp. 141-145). Rammentiamo i-
noltre che Tito Livio raccontava che il tempio del dio era
chiamato Fanum Voltumnae ed era il luogo dove si riuni-
vano tutti i singoli capi delle dodici lucumonie della Fede-
razione Etrusca per eleggere il capo supremo e per pren-
dere tutte le decisioni politiche e militari116. Teniamo infine
presente che nella scena in esame Veltune ha una duplice
caratteristia:
116
Tito Livio, Storia di Roma, IV, 23 (434 a.C.); 25 (433 a.C.); 61 (405 a.C.); V, 17 (397 a.C.); VI, 2, (389 a.C.).
74
• è la divinità garante della pregnanza nazionale degli
insegnamenti di Tagete perché gli è accanto e lo
sovrasta su un fianco quale suo protettore,
• ma è pure il dio degli eserciti federali perché ha la
mano destra armata di lancia ed il braccio sinistro
ornato di armilla ch’era un’onorificenza militare. E’
dunque verosimile che il luogo della rivelazione di
Tagete, e con ciò Tarquinia, era il centro federale
dove sotto la protezione di Veltune si riunivano i lu-
cumoni per tutte le loro decisioni religiose, politiche
e militari.
Anche nella tradizione virgiliana, Corito (Tarquinia) è il luo-
go dove Tarconte, detentore delle insegne del potere fede-
rale, raduna i capi delle varie città, con i loro eserciti e le lo-
ro flotte, e conferisce ad Enea la “corona del regno etrusco”
(vd. pp. 217-223 con relative note)117.
Secondo, poi, una diffusa tradizione romana, proprio da
Tarquinia furono trasportate a Roma e conferite a Tarqui-
nio Prisco e le insegne etrusche del potere federale. Ve-
diamo. Il greco Strabone (ca. 60 a.C - ca. 20 d.C.), nella
sua Geografia scrisse:
Dopo la fondazione di Roma, venne Demarato por-
tando popolo da Corinto. Gli abitanti di Tarquinia lo
accolsero amichevolmente, e da una donna del pa-
ese gli nacque Lucumone (che in etrusco significa
re). Questi, fattosi amico di Anco Marcio re dei Ro-
mani, gli successe nel regno, e cambiò il suo nome
in quello di Lucio (= Lucumone) Tarquinio Prisco (V,
2,2) […]. Demarato aveva portato con sé dalla sua
patria una ricchezza tanto grande in Etruria, che egli
stesso non solo regnò sulla città che lo aveva accol-
to (Tarquinia), ma il suo figlio fu fatto re anche dei
117
Virgilio, Eneide, VIII, 478-507; 585-608; IX, 10; X, 148-156.
75
Romani (VIII, 6,20) […]. Da Tarquinio, e prima dal
padre, fu molto abbellita l'Etruria. Il padre, grazie al-
la quantità di artisti che lo avevano seguito da Corin-
to; il figlio con le risorse di Roma. Si dice pure che
da Tarquinia furono trasportati a Roma gli or-namenti dei trionfi, dei consoli e, in generale, di tutte le magistrature, così pure i fasci, le scuri, le trombe, i sacrifici, la divinazione e la musica di cui fanno uso pubblico i Romani (V, 2,2)”.
I particolari del trasporto a Roma delle insegne federali
etrusche furono raccontati da Dionigi d’Alicarnasso (fine I
sec. a.C.). Nelle sue Antichità Romane, egli scrisse che i capi delle singole città etrusche, dopo una guerra perdu-
ta contro Tarquinio Prisco re di Roma, si riunirono più volte
in concilio, lo riconobbero capo della loro Federazione, ed in-
viarono ambasciatori che trasferirono in Roma, e conse-gnarono a Tarquinio
le insegne della supremazia, con le quali essi adornano i propri re: una corona d'oro, un trono
d'avorio, uno scettro con l'aquila alla sommità, una
tunica di porpora con fregi in oro, e un mantello di
porpora ricamato, proprio come lo indossavano i re
della Lidia e della Persia [...]. Gli recarono anche,
come dicono, dodici scuri, portandone una da ogni
città. Era, infatti, usanza degli Etruschi che il re
d’ogni città camminasse preceduto da un littore re-
cante un fascio di verghe e una scure. Quando poi
si effettuava una spedizione comune delle dodici cit-
tà, le dodici scuri venivano consegnate a colui che
in quel momento aveva il potere supremo [...]. Per
tutto il tempo della sua esistenza, Tarquinio portò
dunque una corona d'oro, indossò una veste di por-
pora ricamata, tenne uno scettro d’avorio, sedé su
76
un trono eburneo; e dodici littori, recanti le scuri con
le verghe, gli stavano intorno se amministrava la
giustizia (III, 52).
A Tarquinia, littori con fasci si vedono su fregi di sarcofagi
e di pitture parietali di tombe (f.19); in una fossa votiva de-
gli inizi del VII sec. a.C., poi, sono state trovate le insegne
etrusche del potere: una tromba-lituo, uno scudo ed una
scure ripiegati insieme.
Fig. 19 – Tarquinia. Tomba del Convegno (III sec.a.C.).
Sulle due pareti di sinistra e destra si snoda un corteo regale. A co-minciare dalla parete di sinistra si vedono tre littori con fasci, un perso-naggio coronato, altri e tre littori con fasci, un altro personaggio coro-nato. Dopo quest'ultimo, proseguendo sulla parete di centro, c'è lo spazio per almeno altre e sei figure purtroppo perdute; seguono quat-tro littori di cui due con fasci, e due con doppie scuri e lance, simboli del potere supremo. Chiude il corteo un mesto personaggio seguito da un servo che, munito di sacco da viaggio, lo accompagna verso gli In-feri. Im alto, sopra il mesto personaggio, è scritto che si tratta di Larth figlio Arnth (il gentilizio è perduto) e che fu Zilch Cechaneri: secondo A. Maggiani ("StEtr", 62, p. 108) dovrebbe trattarsi della carica di capo supremo della Federazione Etrusca.
77
La tradizione romana che un Tarquinio fosse stato insie-
me capo della federazione etrusca e re di Roma trova ri-
scontro in Etruria nelle pitture della tomba François di Vul-
ci (f.20). Qui si vedono alcuni personaggi etruschi che sor-
prendono nel sonno e uccidono i capi disarmati d’una coa-
lizione di città etrusche: le vittime sono un soanese, un
volsiniano, un blerano e un Tarquinio romano (Tarchunie
Rumach). In linea con la tradizione sopra esposta, dob-
biamo considerare il Tarquinio romano il capo della coali-
zione. Il fatto che le vittime vengano sorprese nel sonno in
un’unica località fa pensare che l’eccidio avvenga durante
un concilio federale tenuto a Roma a o Tarquinia. Forse vi
partecipavano gli stessi assalitori.
***
Si ritiene che il nome di Veltun-e (lat, Voltumna) appar-
tenga ad una particolare connotazione del supremo dio e-
trusco Tinia. Ora, i Romani attribuirono le caratteristiche del
dio etrusco Tinia/Veltun-e al loro Giove. Infatti, nella vul-
gata romana e greca, Tagete è il figlio del Genio di Giove;
e Tarconte, che a sua volta è il sacerdote di Giove, lo
prende dal solco e lo va a deporre nei luoghi sacri a Giove
(vd. p. 45) perché qui il bambino gli riveli i segreti della di-
vinazione. Nell’originaria tradizione etrusca, invece, quale
78
è rappresentata sullo specchio di Tuscania, era stato Vel-
tun-e (e non Giove) il dio che aveva avuto la paterna fun-
zione di assistere Tagete durante i suoi insegnamenti a
Tarconte. Al dio etrusco Veltun-e/Tinia corrisponde dunque
il dio Giove della tradizione romana.
In epoca romana, peraltro, a Tarquinia, il grande tempio,
significativamente chiamato dell’Ara della Regina (f.21),
era dedicato proprio a Giove-Tinia118. Peraltro, le più anti-
che iscrizioni votive a Tinia, provengono da Tarquinia119.
Sulla destra, poi, della fronte del tempio di Giove/Tinia, c’è
una sontuosa vasca marmorea (f.22) d’epoca augustea sulla
quale è scritto che era utilizzata per i Ludi (pro ludis).
118
M. Torelli, Tarquitius Priscus Haruspex di Tiberio, in Archeologia in Etruria Meridionale, a cura di M. Pandolfini, Roma, 2006. p. 249, ss. 119
I. Krauskopf, in Dizionario della civiltà etrusca, a cura di M.Cristofani, s.v. Tinia.
79
Questa, come Torelli ha evidenziato, era il contenitore
dell’olio usato nei ludi atletici e religiosi che in epoca roma-
na si svolgevano nella vasta area antistante il tempio120.
Per il periodo etrusco, pubbliche gare atletiche sono numero-
samente documentate nelle pitture tombali di Tarquinia. Ricor-
diamo quelle delle Olimpiadi e delle Bighe. In quest’ultima
sono addirittura raffigurate anche le strutture lignee dello
“stadio” che racchiudeva i giochi, il pubblico che vi assiste-
va vivacemente, e la statua del dio guerriero (Veltune?)
che li proteggeva (f.23).
In cima alla gradinata del tempio esiste ancora un altare
di VI sec. a.C. sopravvissuto alle future ristrutturazioni
dell’edificio. Ai piedi dell’altare è stato oggi ritrovato un se-
polcro vuoto dello stesso VI secolo; accanto ad esso è sta-
ta pure rinvenuta un’epigrafe mutila che voleva ricordare
120
M. Torelli, op. cit. p. 260; Elogia Tarquiniensia, p. 164.
80
Fig. 23 – Tarquinia. Tomba delle Bighe (ca 500 a.C.). Le strutture lignee dello “stadio” che racchiudeva i Ludi, il pub-blico che vi assisteva vivacemente, l’ara del templum e la statua del dio guerriero (Veltune?) che li proteggeva.
Il titolare del cenotafio121. La prima riga contiene i resti del
nome di Tarconte, la seconda di Etruria, la terza di Tar-quinia, la quarta di Ham(axitos)122: Quest’ultimo era il
121
M. Bonghi Jovino, in L’Ara della Regina di Tarquinia, Università de-gli Studi di Milano, p. 21. 122
Per Hama(xitos), vd. A. Palmucci, “Archelogia”, 12, 2002.
81
nome di una città costiera della Troade, sulla strada che
da Troia portava alla città tirreno pelasgica di Larissa123,
al confine con la Misia124 di cui Telefo, padre di Tarconte,
era re (Hamaxitos era, dunque, un luogo che poteva sug-
gerire varie connessioni mitostoriche specialmente agli e-
truschi di Tarquinia). Il testo nel suo complesso poteva ri-
cordare Hamaxitos come luogo di partenza della mitica
migrazione che Tarconte aveva condotto dalla Misia in Ita-
lia con la conseguente fondazione di Tarquinia. Evidente-
mente, i Tarquiniesi, con la costruzione del più grande
tempio etrusco sul cenotafio di Tarconte (che non solo era
il fondatore eponimo della città e in subordine di tutte le al-
tre dell’Etruria propria e di quella Padana, ma anche
l’antico unico sovrano dell’intera nazione nonché il fonda-
tore della Etrusca Disciplina) intendevano significare il ruo-
lo della loro città quale madre della Federazione e dell’a-
ruspicina.
Ai piedi della scalinata del tempio s’è trovato anche un
cippo di marmo (II-III sec. d.C.) che in origine recava una
scritta di cinque righe. Le parole delle prime quattro furono
scalpellate (per damnatio memoriae?) già in epoca antica,
ma nella quinta riga si legge ancora Tarquinienses Foe-
der[ati]125. E’ possibile che il testo integrale contenesse
l’elenco dei popoli etruschi federati a Roma, compresi i
Tarquiniesi. Il tempio dinanzi al quale era il cippo dovrebbe
esser comunque quello della Federazione Etrusca in epoca
romana126. A Tarquinia, peraltro, si trova la quasi totalità
123
Tucidide, La guerra del Peloponneso, 8, 101,3; Strabone, Geogra-fia, IX, 5,19; XIII, 2. 124
Plinio, Storia naturale, 5, 124. 125
M. Torelli, Elogia Tarquiniensia, p. 16. 126
In quella etrusca il Fanum era verosimilmente sul colle della vicina Cor-neto (Corito), nel luogo della Corneto medioevale o presso il Casale di San-ta Maria del Mignone dove doveva trovarsi il luco di Silvano (cfr. Virgilio, Eneide, VIII, 597 ss.). Quella del dio Silvano/Fauno era una delle forme che Vertumnus sapeva assumere (Properzio, IV, 2.). Silvano, similmente a Gio-ve/Tinia e a Vertumnus era anche la divinità che proteggeva i confini e san-
82
delle attestazioni epigrafiche delle sepolture del capo della
Lega: lo Zilath mechl Rasnal o lo Zilch Cechaneri (f. 20)127.
***
Tito Livio spiegò che le riunioni dove gli Etruschi, durante
la prima metà del IV secolo, eleggevano il capo supremo
avvenivano al Fanum Voltumnae, cioè nel tempio di Vol-
tumna. Egli però non disse presso quale città si trovasse il
tempio; pose comunque Tarquinia a capo di un esercito
federale condotto contro Roma alla metà del secolo. In o-
gni caso, è da escludere ch’egli intendesse che il Fanum
fosse a Volsini. Egli, infatti, in altra occasione, parlerà di Vol-
sini, Perugia e Arezzo, e le presenterà tutte insieme come tre
distinte capitali d’Etruria, ognuna del proprio singolo Stato128.
Lo specchio etrusco sopramenzionato, dove si vede il dio fe-
derale Veltune presente a Tarquinia, è proprio del IV secolo.
Nello stesso secolo, nelle tomba François, come abbiamo vi-
sto, è un Tarquinio Romano, e non un Volsiniese, il capo del-
la coalizione alla quale la stessa Volsini apparteneva.
Quando poi Roma sottomise Tarquinia, il ruolo di centro,
limitato all’Etruria settentrionale ancora indipendente, do-
vette essere svolto da Volsini. E quando, nel 264 a.C., il
console M. Fulvio Flacco sottomise anche questa città, egli
stesso trasportò a Roma la statua di Vertumnus129. Il cul-
to del dio però preesisteva sul colle Aventino già dal tempo
di Romolo o di Tarquinio (vd. nota)130. Dopo la fine di Volsi-
civa i patti e i giuramenti. Non è da escludere peraltro che in epoca etrusca il tempio dell’Ara della Regina fosse dedicato a Veltune-Tinia/Silvano. 127
Per lo Zilath: CIE Tarquinia 5360 (TLE 87); 5472 (TLE 137); 5811 (TLE 174); ThLE, s.v. Zilath. Per lo Zilch: CIE, Tarquinia, 5385 (TLE 90); 5423 (TLE 126). Vd. A. Maggiani, Appunti sulle magistrature etru-sche, “StEtr” 62, 1996, p. 107. 128
Livio, op. cit., X,37: Tres validissimae urbes, Etruriae capita, Volsi-nii, Perusia, Arretium. Lo stesso significato ha “Caput Etruriae habeba-tur” di Valerio Massimo, Memorabilia, IX, 1. 129
Festo, s.v. Picta; Properzio, IV, 2. 130
Varrone (De L.L. V, 46; 74) dice che il culto di Vertumnus fu introdotto a Roma dagli Etruschi di Celio Vibenna venuti in aiuto di Romolo contro Tito
83
ni, altre città, come Chiusi o Arezzo, dovettero al momento
assumere il ruolo di centro federale per l’Etruria settentriona-
le; ma, completatasi l’occupazione romana, Tarquinia dovette
nuovamente estendere il suo primato sull’intera nazione. E’
qui infatti che ancora troviamo le sepolture di personaggi che
Tazio. Lo stesso Tito, poi, divenuto regnante assieme a Romolo, avrebbe eretto al dio un‘ara sull’Aventino. Nel vicus Tuscus, infatti, esisteva una sta-tua di Vertumnus, la cui base è stata oggi ritrovata (CIL VI 804). Il poeta lati-no Properzio infine fece dire al dio d’aver assistito all’arrivo di un certo Lu-cumone (Tarquinio?) a Roma in aiuto di Romolo contro Tito Tazio. Nei di-pinti della tomba François di Vulci, però, e nelle fonti letterarie più vicine agli Etruschi (Verio Flacco, Claudio e Tacito) la figura di Celio Vibenna non era connessa a Romolo, bensì a quel Lucumone di Tarquinia, che divenne re di Roma col nome di Tarquinio. E’ allora possibile che l’introduzione a Roma del culto di Vertumnus sia avvenuta, insieme alle insegne del potere federa-le, durante il regno di Lucumone Tarquinio Prisco.
84
in vita hanno rivestito la carica di presidente della Federa-
zione; ed è qui che i Romani, istituzionalizzarono l’antica
scuola di aruspicina nel Collegio dei Sessanta Aruspici do-
ve ognuno dei principi delle dodici città federate doveva invia-
re i propri figli a studiare. Nei rilievi del cosiddetto Trono di Claudio, eretto dagli Etruschi di Cere, sono rappresentati i
dodici popoli della Federazione; e Tarquinia, personificata da
Tarconte (o da Tagete) che ha in mano i Libri Tagetici, oc-
cupa ancora il primo posto della rassegna (f. 24).
La Tabula Peutingeriana (IV sec. d.C.) pose Tarquinia al
centro delle grandi vie di comunicazione (f. 25); inoltre,
mentre ogni altra città, Volsini compresa, vi fu raffigurata
con due torrette, solo Milano (capitale dell’Impero Roma-
no d’Occidente) e Tarquinia (capitale d’Etruria) lo sono da
due torrette poste su un piedistallo.
La città, peraltro, era la sede del consularis Tusciae. Qui
troviamo la sepoltura del praetor Etruriae P. Tullio Varro-
ne131. Dagli Acta Santorum (9 agosto), poi, sappiamo che,
attorno al 250 d.C., Secondiano fu inviato da Roma a
Centumcellae (Civitavecchia) ed a Colonia (Gravisca), il
porto di Tarquinia, dove fu processato perché cristiano, e
giustiziato da Marco Promoto, consularis Tusciae, la cui
residenza era evidentemente Tarquinia. Il martire su sepol-
to in Colonia. A Tarquinia dove il santo divenne patrono se
ne conserva ancora un braccio. Un governatore della Tu-
scia e dell’Umbria, poi, sotto Diocleziano, veniva chiamato
Tarquinius, nome che potrebbe essere significativo della città
dov’egli svolgeva la sua funzione132.
***
Durante l’impero di Diocleziano (284-305 d.C.) L’Umbria fu uni-
ta amministrativamente all’’Etruria. Ora, nel 1733 fu trovata a
Spello, in Umbria, presso l’anfiteatro, la copia marmorea di un pre-
sunto rescritto emanato dall’imperatore Costantino (274-337 d.C).
131
CIL, 3364. 132
L. Cantarelli, La diocesi italiciana, 1964, p. 116.
85
Fig. 25
In questa copia si legge che gli Umbri della città di Spello
avrebbero chiesto all’imperatore sia l’esonero di recarsi in
Etruria, a Volsini (dice il presunto rescritto), per celebrare
annualmente i giochi scenici e gladiatori, sia il consenso di
poterli separatamente celebrare nella loro città. L’imperatore
avrebbe acconsentito, fatto salvo che a Volsini gli Etruschi
86
avessero ancora potuto celebrare i loro ludi scenici e gladia-
tori. In cambio della concessione, Costantino avrebbe ac-
consentito e ordinato che il tempio pagano presso cui gli
abitanti di Spello avrebbero poi dovuto celebrare i loro gio-
chi scenici e gladiatori fosse stato dedicato alla gente Fla-
via cui egli stesso apparteneva133
Sebbene il presunto rescritto non contenga allusioni al
Fanum Voltumnae né a divinità federali come Voltumna o
Vertumnus, si è pensato che ci fossero buone ragioni per
ritenere che presso Volsini fosse comunque esistito il fa-
moso Fanum, centro federale degli Etruschi, del quale Tito
Livio aveva più volte parlato senza tuttavia precisare dove
si trovasse. Però la cosa, sostenne il Muratori, non è affat-
to pacifica perché il rescritto è un falso settecentesco134.
Egli osservò innanzitutto che l’indizione del presunto re-
scritto non è conforme ai canoni con cui tali atti venivano
redatti. Analizziamo il testo. Esso inizia così.
Copia di Sacro Rescritto
L'Imperatore Cesare Flavio Costantino, Massimo, Germanico, Sarmatico, Gotico, Vincitore, Trionfatore, Augusto e (i figli) Flavio Costantino, Flavio Giulio Co-stanzo, Flavio Costante:
• Per cominciare, manca il datum (cioè il luogo e la data
di emissione). Poiché lo stesso imperatore in preceden-
za (26 luglio del 322) aveva emanato una disposizio-
ne secondo cui gli atti legislativi non erano validi se
133
In cuius gremio aedem quoque Flaviae hoc est nostre gentis ut de-sideratis magnifico opere perfici volumus. 134
L. A. Muratori, Novus Thesaurus, pp. 1791-95.
87
mancavano di quel particolare135, potrebbe bastare que-
sto solo difetto per sostenere che il “rescritto” sia fal-
so136.
• Manca il nome del destinatario del presunto rescritto137.
• Costantino, nei decreti imperiali del tempo, ha la
qualifica di Augusto; i suoi figli (Costantino Juniore,
Costanzo, Costante) ed il suo nipote Dalmazio
hanno quella di Cesare con l’aggiunta frequente di
nobilissimo. Costante fu eletto nel 333, e Dalmazio
nel 335; e poiché il “rescritto” contiene i nomi dei
primi tre, ma non quello di Dalmazio, ne consegue
che l’atto dovrebbe essere stato emanato dopo che
Costate fu eletto Cesare, e prima che lo fosse Dal-
mazio, cioè fra il 333 ed il 335. Nel nostro rescritto
comunque manca ai figli di Costantino sia il titolo di
Cesare che la qualifica di nobilissimo. E’ questo un ul-
teriore indizio della falsità del documento138.
135
Cod. Theod., I, 1,1: Si qua posthae edicta sine constitutiones sine die et consule fuerint deprehensae, auctoritate careant. 136
In risposta, il Mommsen (Berichte der sachs. Gesellsch. d. Wiss., 1850) ha congetturato che il datum potesse essere stato inciso in alto o a lato del tempio che l’imperatore avrebbe ordinato di costruire. 137J. Gascou pensa ad una omissione del lapicida (J. Gascou, Le Rescrit d’Hispellum, “Mélanges d’Archeologie et d’Histoire”, 79, 1967, n° 2, p. 623). 138
Il Dessau pensa che l’omissione sia accidentale e dovuta alla ne-gligenza del lapicida. Sarebbe però strano che un superficiale lapicida abbia potuto copiare su un marmo da esporre alla cittadinanza un atto così importante senza la accorta assistenza delle autorità cittadine. Mommsen (op. cit) ha voluto azzardare che il “rescritto” sia stato e-manato prima che Costante fosse nominato Cesare, ma che il suo nome fosse stato ugualmente incluso; ora, per non umiliare Costante che non poteva esser definito Cesare non lo si sarebbe fatto nemmeno per gli altri. Andreotti giustamente obietta che la teoria del Mommmsen “è insostenibile nella sua stessa motivazione: un atto governativo doveva es-sere emanato con tutti i requisiti esteriori per la sua validità e, d’altra parte, senza l’aggiunta della menzione di persone non ancora partecipi del potere sovrano” ( R. Andreotti, Contributo alla Ddiscussione del Rescritto Costanti-niano di Hispellum, in Problemi di Storia e Archelogia dell’Umbria, “Atti del Convegno di Studi Umbri (Gubbio, 26-31 Maggio 1963)”. Andreotti però, in sostituzione di quella del Mommsen, costruisce una propria teoria se-
88
C’è poi da considerare quanto segue. Nel 325 d.C., l’imperatore Costantino, dopo aver com-posto nel Concilio di Nicea (a ca. Km. 130 da Costan-tinopoli) le controversie delle sette cristiane che trava-gliavano l’intero impero, emise da Berito (in Fenicia), sede di una scuola di giurisprudenza, un decreto in cui proibì per tutto l’impero i ludi dei gladiatori perché turba-
condo cui il “rescritto” si data nel breve lasso di tempo che va dalla morte di Costantino (22-05-337) alla proclamazione di Costantino Iu-niore, Costanzo e Costante a nuovi Augusti. Sarebbe accaduto che, dopo la morte di Costantino, i suoi parenti da parte della matrigna Te-odora, compreso Dalmazio, furono trucidati. Andreotti suppone che du-rante l’interregno gli atti di governo siano stati ancora emanati col no-me di Costantino: ciò però poneva il problema se negli atti emanati i tre figli del defunto imperatore dovessero esser chiamati Cesari oppure già Augusti. “Ciò spiegherebbe”, dice Andreotti, “la mancanza di qual-siasi data “ nel rescritto. Tuttavia, come ammette lo stesso Andreotti, l’iscrizione di Spello rimane incompleta perché priva di ogni qualifi-ca data ai figli di Costantino. Ciò sarebbe imputabile alle turbinose vi-cende che seguirono alla morte di Costantino. “La copia del rescritto”, conclude Andreotti, “dopo la fretta del primo entusiasmo , fu sostituita da un’altra o, più probabilmente, dimenticata. Il provvedimento conce-deva una celebrazione della Gens Flavia, ben presto inattuale per i tragici colpi inferti dal destino”. In sé, però, il testo del “rescritto” non consente di spostarne la data di emissione; e comunque Andreotti non spiega alla fine come o perché nell’iscrizione di Spello i figli dell’imperatore siano privi della qualifica di Cesare che loro competeva. Gascou (op. cit., p. 621) gli ha replicato che non c’è alcuna ragione di pensare che la cancelleria abbia sostituito la copia del “rescritto”, né che le autorità di Spello abbiano preso l’iniziativa di modificare la formula di un mes-saggio imperiale. Egli propone questa nuova ipotesi: “il rescritto deve essere stato redatto sia negli ultimi mesi di vita di Costantino sia nel periodo dell’interregno; ma esso non sarà stato inciso che dopo il 9 set-tembre 337: in quel momento il figli di Costantino erano stati dichiarati Au-gusti, ma l’esemplare pervenuto avanti quella data alle autorità di Spello portavano il titolo di Cesare per i figli di Costantino. Non era possibile, senza assurdità, dare il titolo di Augusto sia a Costantino che ai suoi figli. Per con-tro, dare ai figli il titolo di Cesare sarebbe stato anacronistico: le autorità di Spello, davanti a questa difficoltà, si sono risolute di non dare loro alcun tito-lo”. Anche a lui però si può obiettare che in sé il testo del rescritto non con-sente di spostarne la data di emissione; né è possibile sostenere che le au-torità di Spello avevano il potere di modificare la formula di un “rescritto” im-periale; né c’era alcuna necessità di farlo.
89
vano la sensibilità dei cittadini139. Eusebio di Cesarea, che conosceva personalmente Costantino e ne scrisse la vita in lingua greca, confermò che l’imperatore “proibì a tutti (diataxeti tois pasi) ... di non contaminare le città coi cruenti spettacoli dei gladiatori”140. Pare che i giochi tut-tavia non si estinsero completamente perché solo con una legge emessa da Onorio nel 402 si riuscì a ottenere la loro definitiva chiusura141. Costantino comunque non li ripristinò mai; e non si capisce come egli, nel presunto rescritto (333-335 d.C.), avrebbe potuto preoccuparsi non solo che in Etruria i giochi gladiatori fossero mante-nuti, ma che nell’Umbria, a Spello, ne fossero addirittura istituiti dei nuovi. Aggiungiamo che l’unità amministrativa di Etruria ed Umbria non fu mai revocata né da Costanti-no né dai suoi successori; così di nuovo non si capisce come mai egli che nel presunto rescritto si sarebbe pre-occupato di precisare che i nuovi ludi gladiatori da istituire in Umbria non abolivano comunque l’esistenza di quelli già esistenti in Etruria non si sia contemporaneamente preoccu-pato di precisare che la separazione dei ludi dell’Umbria da quelli d’Etruria non aboliva comunque l’unità amministrativa
139
L. I, De Gladiator., Cod. Theod. : “Cruenta spectacula in otio civili, domestica quiete non placent. Quapropter qui omnino Gladiatores esse proibemus eos, qui forte delictorum causa hanc conditionem adque sen-tentiam mereri consueverant, metallo magis facies insrvire ecc.” 140
Eusebio di Cesarea, Vitae Costantini, 4, 25. Vedi il testo greco e lati-no in L. A. Muratori, op. cit. p. 1794. Gascou ritiene tuttavia che Costan-tino non abolì mai i giochi gladiatori, ma che si limitò a commutare la pe-na di morte di coloro che per delitti che venivano assegnati ai ludi gladia-tori in quella dei lavori in miniera. Ma quali erano le vere intenzioni di Costantino si ritrovano pure nella sopra citata vita di Costantino, scritta da Eusebio di Cesarea, dove si dice che l’imperatore “proibì a tutti ... di non contaminare la città con i cruenti spettacoli dei gladiatori”. Come si vede, la legge valeva per tutti i giochi gladiatori, e non era limitata a nes-sun territorio né a nessuna categoria di persone. 141
Il Muratori opportunamente scrisse: “ Pretese il Gothofredo (1587- 1652 d.C.) che quella legge fosse solamente locale né si estendesse per tutti il romano imperio; e non per altro, se non perché sotto i successori di Costantino s’incontrano né più né meno gli spettacoli de’ gladiatori. Credo io d’avere abbastanza dimostrato, massimamente con l’autorità di Euse-bio, che veramente fu universale quel divieto di Costantino, ancorché i suoi figliuoli non sapessero poi sostenerlo: tanto erano impazziti i pagani dietro que’ barbarici e sanguinosi giuochi” (Annali, III, p. 367).
90
delle due regioni: ciò anche per non dare appiglio a cattive interpretazioni che avrebbero potuto creare future complica-zioni politiche sul piano amministrativo delle due regioni. Il Muratori ha poi osservato che Costantino, favorevole com’era verso il Cristianesimo non avrebbe mai ordinato agli abitanti di Spello di costruire un grande tempio pa-gano dedicato alla gente Flavia alla quale egli stesso ap-parteneva. Egli, per dirla con le parole del Muratori, non sarebbe stato “ethnichus et Cristianus (Cristiano e Paga-no)”. Questa sua espressione ha porto il fianco a una o-biezione apparentemente fondamentale. Gli è stato o-biettato che Costantino in effetti era proprio “pagano e cristiano” perché non aveva mai rinunciato alla carica di Pontefice Massimo, e che alcune volte non si era rifiutato di assecondare alcune usanze pagane; inoltre aveva preso il battesimo cristiano solo negli ultimi giorni della sua vita (a quel tempo non esisteva ancora il sacramento della confessione, così molti attendevano gli ultimi giorni della loro vita per farsi battezzare perché questo sacra-mento cancellava tutti i peccati). Tutto ciò è vero, ma comunque non si capisce come Costantino che, negli ul-timi anni della sua vita, “fece costruire il sepolcro suo presso il magnifico Tempio de gli Apostoli, eretto e dedi-cato da lui in Costantinopoli” (L. Muratori, Annali, III, an-no 335) , in quegli stessi ultimi tempi della sua vita, abbia permesso e ordinato agli abitanti di Spello di erigere un grande tempio pagano dedicato alla gente Flavia alla quale egli steso apparteneva. Se poi, come recentemen-te e stato sostenuto, il rescritto fosse stato emesso negli ultimi giorni della sua vita, e pubblicato addirittura dopo la sua morte, allora ci sarebbe da chiedersi come mai Costantino, che prossimo alla morte si fece battezzare cri-stiano, avrebbe mantenuto il proponimento di far costruire un tempio pagano a se stesso a costo della salvezza della sua anima. C'è infine da osservare che l'antica capitale, o centro religioso, degli Umbri non doveva essere Spello, bensì Gubbio. Si evince dalle famose Tavole Iuguvine del II sec. a.C. Spello, poi, nella Tabula Peutingeriana non è nemmeno citata, mentre Gubbio lo è. E’ tuttavia possibile che Volsini abbia mantenuto qualco-sa del ruolo centrale che, dopo la caduta di Tarquinia, dovrebbe aver assunto verso le ancor libere città della media valle del Tevere.
91
4. GLI INSEGNAMENTI DI TAGETE. Dapo l’ampia parentisi che
abbiamo aperto sul Fanum Voltumnae torniamo alla nostra
disamina sull’aruspicina etrusca.
Si raccontava che Tarconte, come abbiamo già detto, a-
vesse riunito in un’opera poetica le rivelazioni fattegli da
Tagete. Le singole partizioni del poema vengono chiamate
Libri Tagetici. Cicerone li enumerava come Libri Haru-
spicini, Libri Fulgurales e Libri Rituales142. Quest’ultimi,
a loro volta, si suddividevano in Libri Acheruntici, Libri
Fatales ed Ostentaria. Servio ci informa che Tagete scris-
se anche il Libro del Diritto della Terra Etrusca. Posse-
diamo poi la traduzione greca che Giovanni Lido fece di al-
cune riduzioni in latino dei Libri Tagetici. quali il Calenda-
rio Brontoscopico, il Poema sui Terremoti ed il Trattato
sui Fulmini (vd. cap. III).
I Libri Hauruspicini insegnavano la scienza o l’arte di
conoscere il volere divino attraverso l’esame delle viscere
degli animali, soprattutto del fegato delle pecore.
I Libri Fulgurales dettavano le regole per interpretare il
significato dei fulmini, dei lampi e dei tuoni. Da Cicerone e
da altre fonti latine sappiamo che gli aruspici etruschi
quando operavano dividevano con quattro linee (corri-
spondenti ai punti cardinali) la volta del cielo compreso nel
cerchio dell’orizzonte visibile dal loro centro. Suddivideva-
no poi ciascuna delle quattro parti in altre e quattro in ma-
niera che il cielo risultasse ripartito in sedici settori abitati
da altrettanti dèi o gruppi di divinità. In tal modo, essi pote-
vano sempre individuare da quale singola parte del cielo
fosse provenuto un fulmine, quale divinità lo avesse sca-
gliato, e quale fosse il significato profetico da attribuirgli143.
Tutto ciò apparteneva ai Libri Fulgurales; e, come testi-
142
Cicerone, De divinatione, I, 72. 143
Cicerone, op. cit., II, 42-45; Plinio, Storia naturale, II; 143; Servio, A Virgilio Eneide, VIII, 427.
92
monia Cicerone, questi rientravano in quel complesso di
norme aruspicali che Tagete avrebbe rivelato ai prìncipi di
tutta l’Etruria convenuti a Tarquinia.
L’osservazione e la divisione del cielo, attribuite a Tagete,
in singole dimore divine, dovettero esser state il risultato
dell’osservazione di quello spazio di cielo contenuto entro
l’orizzonte visibile da quel particolare luogo del territorio
tarquiniese in cui si diceva che Tagete fosse nato ed avesse
dettato le sue norme a Tarconte e ai Lucumoni ivi radunati.
5. LE PARTI OMINOSE DEL FEGATO DI TAGETE. Tagete, nella
scena che è sullo specchio di Tuscania (f. 18), stringe fra
le dita della mano sinistra la parte mediana di un fegato a-
nimale mentre con l’indice della mano destra indica una
circoscritta zona centrale che dovrebbe essere la Testa
del fegato: era questa, d’altronde la parte più ominosa
dell’organo aruspicino. Da questa zona mediana pende, a
destra, la parte destra del fegato (con il segno a mezzalu-
na indicante la presenza del Dio invocato), mentre, a sini-
stra, pende la parte sinistra del fegato (con il segno trian-
golare del Dito del fegato, e con quello
a goccia della Cistifellea). Questa im-
magine mostra quali fossero, nelle se-
dute di aruspicina, la sinistra e la de-
stra del fegato, e quali fossero la Te-sta, il Dito, la Cistifellea e il Dio.
a fianco: particolare della fig. 18
Nella stessa scena, il mitico rivelatore
dell’aruspicina ha alle spalle il sole na-scente dai monti. Quest’ultimo parti-
colare è rafforzato dalla presenza, nel-
la parte più alta dello specchio, della dea Aurora che gui-
da la quadriga del sole che sorge. Tagete ha dunque alle
93
spalle l’oriente, e dinanzi a sé l’occidente dove il sole, visto dall’Etruria, e da Tarquinia in particolare, muore la sera nel mar Tirreno. Abbiamo già visto che per gli an-
tichi era questa la postazione di orientamento delle ròse
dei venti, delle bussole e delle carte (vd. p. 54). Abbiamo
pure già visto che questa era la disposizione della principa-
le coordinata Est > Ovest del templum augurale etrusco
(vd. pp. 56-58).
Ricordiamo che i popoli più antichi non concepivano il
nord come un sopra, e il sud come un sotto. Per loro la
parte alta del cielo era quella orientale perché vi sorgeva il
sole. Virgilio, nell’Eneide, definì il mar Adriatico come quel-
lo che bagna la parte superiore dell’Italia, ed il Tirreno co-
me quello che ne bagna la parte inferiore; ed Elio Donato
annotò: “Ogni mare, dalla Sicilia alla Spagna, è chiamato
infero perché lì il sole tramonta dopo esser sceso nella
parte inferiore del cielo”. Isidoro di Siviglia, poi, spiegò:
”l’Adriatico e il Tirreno venivano chiamati Supremo ed Infe-
ro in base alla posizione del cielo perché l’Oriente è supe-
riore e l’Occidente è inferiore”144.
Ovviamente, anche la parte alta del fegato che è nelle
mani di Tagete è rivolta ad est, la bassa ad ovest, la si-nistra a sud, e la destra a nord.
Il già citato frammento di Varrone conferma che gli aru-
spici etruschi, con una linea da oriente a occidente, divise-
ro il mondo in due parti, e chiamarono destra quella che
stava a settentrione, e sinistra quella che stava a meridio-
ne. Gli aruspici, poi, dice ancora Varrone, con una nuova
linea dal nord al sud, divisero il mondo in altre e due parti,
e chiamarono anteriore (àntica) quella orientale, e poste-
riore (postica) quella occidentale (vd. p. 54)145.
144
Virgilio, op. cit., VIII, 149; Servio Danielino, ad loc.; Isidoro di Sivi-glia. Etymologiae, XIII, 16,7. 145
Vedi anche Dionigi Alicarnasso (Antichità Romane, IV, 60) là dove dice che l’aruspice etrusco: “traccerà col bastone un cerchio in terra e
94
Igino, poi, aggiunge che questa era pure la disposizione
dei templi (vd. p. 56-58).
Giovanni Lido infine esplicitamente spiega che, rispetto ai
principali punti cardinali, la parte sinistra del cielo corri-
sponde al Sud (De Ostentis, 4, 22).
I Romani chiamarono Decumanus la linea che andava
da est ad ovest, e chiamarono Cardo quella che andava
da nord a sud. L’aruspice, postosi al centro del templum
augurale, cioè nel punto di incrocio delle due rette (il me-
thlumth, come vedremo), aveva al di qua del Cardo, cioè
alle proprie spalle (Est), la parte àntica, e al di là del Cardo, cioè di fronte a lui (Ovest), la parte pòstica.
Tale ripartizione dello spazio celeste e terrestre risponde
al concetto che i Romani esprimevano con la parola tem-
plum. Questo concerneva la volta del cielo, ma si rifletteva
anche nello spazio ristretto e consacrato del recinto d’una
città o d’un santuario; e addirittura, si leggeva nel fegato
esaminato durante le sedute di aruspicina.
Nello specchio etrusco da noi studiato, Tagete è al centro
(methlum) del templum. Presso gli Etruschi, poi, il tempio
era di norma orientato ad Est. La facciata e il colonnato
costituivano la parte anteriore (àntica), la celle con i simu-
lacri divini costituivano la parte posteriore (pòstica).
L’altare era esterno, ed era rivolto verso la facciata del
tempio. Il sacerdote che vi compiva i sacrifici era rivolto
verso il tempio. Aveva dunque l’oriente alla spalle, e
l’occidente davanti a sé; nei sacrifici, poi, la vittima da im-
molare guardava verso oriente. Seneca, nella tragedia E-
dipo, ne conferma la posizione:
dirà: ecco il monte Tarpeo, questo è il suo lato che guarda ad oriente, questo a occidente, quest’altro a settentrione, e quest’altro a mezzo-giorno. E col bastone v’indicherà in successione (cioè da oriente ad occidente) ognuna delle quattro parti”.
95
La vittima opima s’è fermata dinanzi al sacro altare
[...]. Il toro non appena è stato posto verso il lato da
cui si leva il sole, sollevando in alto la testa, s’è di-
stolto con spavento dalla vista e dai raggi
dell’astro146.
L’aruspice aveva a sinistra la sezione meridionale del
mondo, detto anche parte familiaris perché di buon augurio
ed abitata dalle divinità celesti. A destra aveva la sezione
settentrionale detta anche parte ostilis perché di cattivo
augurio ed abitata da divinità infernali o della terra.
Gli aruspici suddividevano poi, come abbiamo già visto
(vd. pp. 54-58), ciascuna delle quattro parti in altre e quat-
tro in modo che il cielo risultasse ripartito in sedici settori
complessivi abitati da altrettanti dèi o gruppi di divinità147.
Con questo schema, ogni volta che dal cielo cadeva un
fulmine, costoro potevano determinare quale fosse stata la
divinità che lo aveva scagliato.
Dai reperti archeologici con figure di aruspice con fegato
riscontriamo ch’egli poteva posizionarsi anche con il volto
rivolto ad est (f. 38) o a sud, ma che l’orientazione del fe-
gato restava sempre la stessa di quella del fegato che si
vede nelle mani di Tagete (f.18): la parte alta ad est, la
bassa ad ovest, la destra a nord, e la sinistra a sud.
***
In Etruria, oltre alla figura di fegato che abbiamo visto nel-
le mani di Tagete, e ad un’altra che si vede nella mano
dell’aruspice di Arezzo (f. 38), sono stati trovati vari mo-
dellini: uno a Faleri, uno a Volterra, e un altro a Piacenza.
6. IL FEGATO DI FALERI. Il fegato di Faleri (f. 26) si presenta
146
Seneca, Edipo, 299-300; 302; 336-339: “Altum taurus attollens ca-put primos ad ortus positus expavit diem trepidusque vultum obliquat et radios fugit”. 147
Cicerone, De divinazione, II, 18; Plinio, Storia naturale, II, 52-60.
96
simile ad alcuni modelli di fegato babilonesi, ittiti e greci. E’
in terracotta, e nella sua parte sinistra, in alto, vicino al
bordo, presenta una protuberanza a forma di piramide,
quella che i Babilonesi chiamavano Ubanum (“Dito” o “Pol-
lice” per la sua posizione laterale), e che oggi, in anatomia,
si dice processo piramidale (per la sua forma di piramide)
o processo caudato (per la sua posizione caudale) (vd. f.
5). Questo “Dito” o “Pollice” o “Coda” del fegato simboleg-
giava per lo più una estraneità ostile, sinistra e separata
(vd. p. 25-26). Esso, poi, come ogni altra parte del fegato,
per i Babilonesi, aveva una testa, una parte mediana e una
base148. Thulin però cento anni fa scambiò la testa di que-
sto “Dito” o “Pollice” o “Coda” del fegato per quella
dell’intero fegato (vd. pp. 25; 40;).
Nella parte destra del fegato di Faleri si notano, poi, due se-
gni a forma di mezzaluna, simili a quelli che i Babilonesi, nei
loro modellini, chiamavano Manzàzu (presenza del dio invo-
148
U. Jeyes, op. cit., pp. 65-71.
97
cato) e Padànu (sentiero). In lingua greca (vd. p. 49), Man-
zàzum fu reso con Theòs (Dio), in quella latina con Deus
(Dio). La presenza o meno di questo segno nel fegato indi-
cava se la divinità era disponibile o meno a rispondere. Il Pa-
dànu (sentiero) simboleggiava invece il corso della vita uma-
na; in lingua greca fu reso con Keleythos (sentiero).
In alto, sulla zona centrale del modello di Faleri si nota
una seconda protuberanza più piccola del “processo pira-
midale o caudale”, ma più importante. E’ quella che oggi,
in anatomia, per la sua forma di capezzolo, è detta “pro-
cesso papillare” (vd. f. 5).
I Babilonesi la chiamavano Crescenza (MAS o Sibtu).
Per loro, essa simboleggiava il buon raccolto, il profitto, la
madre e la patria. Aveva un lato destro ed uno sinistro, una
spalla, una fronte ed una testa. Poteva essere anche dop-
pia e tripla; ne abbiamo già trattato (vd. pp 34 - 46), ma qui
ne ricordiamo alcuni esempi:
• due Crescenze voglion dire che l’uomo vedrà la ric-
chezza;
• se due Crescenze sono consecutive, il piccolo teso-
ro dell’uomo diverrà grande, e l’uomo prospererà;
• se una Crescenza è sovrapposta all’altra, consume-
rai il raccolto della terra del nemico149.
I Greci chiamarono “Lobo (Lobòs)” oppure “Testa (Kefa-
le)” quella che per i Babilonesi era la Crescenza. Anche i
Romani la chiamarono “Testa (Caput)”. Ancora oggi, que-
sta parte del fegato, per la sua sporgenza a forma di ca-
pezzolo o piccolo capo si chiama processo papillare. An-
che per i Romani, questo processo papillare poteva pre-
sentarsi doppio, ma pure diviso in due oppure staccato e
perfino assente. A seconda dei casi, il significato poteva
essere fausto o infausto (vd. p. 34, ss.).
149
U. Jeyes, op. cit. , 1989, p. 72.
98
Secondo Seneca, Il Caput (testa) del fegato delle vittime
sacrificate era il simbolo della suprema unità del potere
(omen unico imperio)150. Si diceva infatti che sulla testa del
fegato sacrificato da Silla, prima di ottenere il dominio di
Roma, fosse apparsa
qualcosa che aveva la forma d’una corona d’oro151.
Presso gli Etruschi, la corona d’oro era prerogativa del
sovrano di tutta la nazione152.
7. IL FEGATO DI VOLTERRA (f. 27). E’ posto sulla mano sini-
stra della statua dell’aruspice Aule Lecu. Qui, Aule è rap-
presentato semisdraiato sul coperchio del proprio sarcofa-
go con le gambe rannicchiate ed il busto sollevato e sorret-
to dal braccio sinistro poggiato col gomito e la mano mol-
lemente su due cuscini. Egli non è nell’atto di tenere una
seduta di aruspicina; tuttavia, con la stessa mano sinistra
che è poggiata sui cuscini, sorregge e mostra un fegato.
Questo, come negli altri modelli etruschi di fegato, presen-
ta quella protuberanza che i Babilonesi chiamavano Cre-
scenza, i Greci “baccello” o “Testa”, i Romani “Testa”, e
che i moderni chiamano “processo papillare”. Essa si tro-
va nella zona superiore della parte mediana del fegato. I-
noltre, è doppia o divisa in due: raddoppiamento o biparti-
zione che ripete il significato positivo che la Crescenza del
fegato assumeva presso i Babilonesi nel caso in cui essa
si presentasse raddoppiata. La bipartizione serve qui an-
che per indicare quale siano, nel modellino, la parte sini-
stra e la parte destra. Ciò secondo la divisione del mondo
in due parti operata dagli Etruschi, e riflessa anche nel fe-
gato: la sinistra favorevole (corrispondente alla parte sini-
150
Seneca, Edipo, 358-365. 151
Plutarco, Vita di Silla, 27; Agostino, De Civitate Dèi, II, 24. 152
Virgilio, Eneide, VIII, 505.
99
stra dell’aruspice), e la destra sfavorevole (rispondente alla
destra dell’aruspice).
8. IL FEGATO DI PIACENZA. In Emilia, presso Gossolengo,
in provincia di Piacenza, è stato trovato nel 1877 un mo-
dellino di fegato in bronzo (f. 28). Pesa gr. 635, è lungo
cm. 12, 6, largo 7, 6, alto 2,3; il processo piramidale è alto
3,7, le sue basi sono di 2, 4; il processo papillare è largo 2
ed alto 1,5; la cistifellea è lunga 5,6, larga 2 ed alta 1, 1. La
superficie inferiore è convessa e divisa in due da uno spar-
titore (f. 29), quello che in anatomia si chiama “sospensorio
epatico” o “legamento falciforme”. Questo parte da un pun-
to del lato esterno del bordo della superficie superiore del
modellino (f. 34), quello in cui la casa di Cilen (Fortuna)
tocca grossomodo quella di Veis (Vediove), attraversa
quasi tutta la parte centrale dell’oggetto dividendolo in due
settori, e giunge fino al buco rotondo (in anatomia è l’inizio
100
della “vena ombellicale”) che si trova al di sotto di un pro-
fonda incisura del fegato (in anatomia è detta “incisura
ombellicale”), lasciando così fuori competenza la breve
zona che si trova al di sotto dell’incisura, fra l’incisura stes-
sa ed il buco. Lungo uno dei lati del legamento corre paral-
lela la scritta Usils (del Sole), e lungo l’altro Tiurs (della
Luna). Ciò vuol dire che la parte dl fegato dove è scritto
“del Sole” appartiene al Sole, e sta ad indicare la parte si-
nistra e favorevole: l’Est, il Sud, la primavera, l’estate e le
ore diurne. Quella invece dove è scritto “della Luna” appar-
tiene alla Luna e sta ad indicare la parte destra e sfavore-
vole: l’Ovest, il Nord, l’autunno, l’inverno e le ore notturne.
P. S. La zona compresa fra il buco tondo e l’incisura om-
bellicale non attiene a questa divisione, ma segue quella
della faccia superiore del fegato. Ne è riprova il fatto che
nella corrispondente faccia superiore si trova scritto CA-THA (il nome del Sole morente) e FUFLUNS (Bacco, divi-
nità autunnale della vendemmia e del vino): ambedue i
nomi appartengono, come vedremo meglio in seguito, alle
divinità della parte occidentale del modellino. USIl, infatti,
in etrusco, indica il Sole nelle sue manifestazioni diurne,
invece CATHA è il nome del “Sole che tramonta”. CATHA,
peraltro, a Pirgi (Cere) e a Gravisca (Tarquinia) era vene-
rato presso il mare, in un tempio rivolto ad Ovest153.
La superficie superiore del modellino (f. 29) è concava e
solcata al suo interno da una fitta mappa di caselle conte-
nenti nomi di dèi. Lungo il bordo, poi, presenta una secon-
da serie di nomi divini dislocati a cerchio in una fila di sedi-
ci caselle pari al numero delle sezioni in cui gli Etruschi di-
videvano il cielo.
153
S. Fortunelli, Gravisca. Il deposito votivo del santuario settentriona-le, Edipuglia, Bari, 2007, p. 333.
101
9. LA BIPARTIZIONE DEL FEGATO. La facciata del fegato di
Piacenza (f. 28), come di quello di Tagete (f. 18), di Faleri
(f. 26), di Volterra (f. 27) e di Arezzo (f. 38), è strozzata nel
mezzo della parte bassa.
102
Nel mezzo della parte alta presenta quella stessa protu-
beranza che i Babilonesi, gli Ittiti, i Greci e i Romani deno-
minavano rispettivamente Crescenza, Gomitolo, Baccello-
Testa e Testa, e che ancor oggi noi, per la sua forma di
piccolo capo, chiamiamo “processo papillare”.
Diversamente però dal “processo papillare” del fegato di
Volterra, quello del fegato di Piacenza non è diviso in due.
Qui la divisione del modellino in lato sinistro e destro è rea-
lizzata dalla stessa divisione delle caselle. Al di sotto del
“processo papillare”, i segmenti delle caselle formano, in-
fatti, una linea che separa la parte sinistra del fegato dalla
destra. Questo allineamento, o questa linea, peraltro, è
grossomodo parallelo alla linea est > ovest che divide in
sinistra (meridionale) e destra (settentrionale) la faccia
convessa del modellino (f. 29).
103
Al di sopra del “processo papillare”, è scritto Metlvmth (ff.
31 nr. 12a; 34 nr. 12a). Il vocabolo sporge verso entrambi i
lati sinistro e destro della facciata; e, a differenza di tutte le
altre parole, che sono nomi di dèi, questo è un nome di
luogo; e, rispetto agli altri, è scritto rovesciato.
Secondo Pallottino, Metlvm-th è un locativo connesso al
concetto di “nazione e suo territorio154.
Per Morandi, il Metlvm-th è la “Assemblea”, intesa sia
come istituzione religiosa che come “struttura politica fon-
damentale” della Città o dello Stato. Egli poi aggiunge:
Nel fegato, che è equivalente al templum celeste,
l’aruspice individuerà, a destra e a sinistra del
Metlvm-th, gli spazi delle divinità secondo quanto la
disciplina prescrive155.
Secondo Devoto e Colonna, Metlum-th significa
“città” senza specificazione del nome perché “trat-
tandosi di un modello teorico di fegato spettava
all’aruspice consultante indicare di volta in volta il
nome del luogo156.
Ora, il mitico luogo dell’originaria rivelazione di Tagete
era Tarquinia; e noi potremmo intendere che in origine la
parola Metlum-th abbia indicato quella “città”, o comun-
que quel luogo del territorio della città, dove avvenne la ri-
velazione originaria e dove, al richiamo di Tarconte, con-
vennero e si unirono in “assemblea” tutti e dodici i capi
delle altre città. Proprio con la parola Caput, che in Latino
154
M. Pallottino, Etruscologia, Hoepli, Milano, 200, p. 511. 155
A. Morandi, Nuovi lineamenti di lingua etrusca, Erre Emme, Roma, 1991, pp. 203-206. 156
G. Colonna, A proposito degli dèi del fegato di Piacenza, “Studi E-truschi”, 59, 1993. p. 130.
104
vuol dire sia “testa” che “capitale”, gli aruspici etrusco-
romani chiamavano quella parte del fegato che i Babilonesi
chiamavano Crescenza, gli Ittiti Gomitolo, e i Greci Lobo
e Testa, e che noi ancor oggi chiamiamo “processo papil-lare” per la sua forma di capezzolo o piccola testa.
Del resto, l’equivalenza “testa = capitale” apparteneva
già alla originaria nomenclatura della divinazione etrusca.
Quando, a Roma, il re Tarquinio fece scavare le fonda-
menta per la costruzione del tempio Capitolino, fu dissot-
terrata una testa umana ancora palpitante di vita; il re inviò
allora ambasciatori in Etruria acciocché l’àugure Oleno Ca-
leno gli spiegasse il significato del prodigio; e Oleno sen-
tenziò che il luogo dove era stata trovata la testa (caput)
sarebbe divenuto la capitale (caput) del mondo157. Met-
lum, dunque, in etrusco, dovrebbe significare “testa”, “ca-pitale”; e il locativo Metlum-th potrebbe indicare il luogo
dell’emersione dalla terra della testa di Tagete (f. 16) e del
concorso dei dodici lucumoni, ed assumere così il
significato di “città capitale, centro, tempio federale,
assemblea federale, luogo dell’assemblea”158.
Nel museo di Tarquinia, sul rotolo che Laris Pulena apre
fra le mani della statua del proprio sarcofago, si legge che
Laris, a Tarquinia (Tarchnalth), esercitò per la città (Spu-
reni) la carica di lucumone (Tarchnalth spureni lucairce),
157
Dionigi d’Alicarnasso, Antichità romane, IV, 59-60: “Così l’indovino disse loro: Romani, dite ai vostri connazionali che il destino vuole che il luogo dove avete trovato la testa sia la testa di tutta l’Italia”; Tito Li-vio, Storia di Roma, I, 55: “Dicono che una testa (caput) d’uomo, non disintegrata, sia apparsa a coloro che scavavano le fondamenta del tempio. Ciò, senza dubbio, stava a significare che quella sarebbe stata la rocca dell’impero e la capitale (caput) del mondo”; Plinio, Storia na-turale, “XXVIII, 15: “Quando, scavando le fondamenta del santuario Tarpo, fu trovata una testa umana, furono inviati ambasciatori ad Ole-no Caleno, il più celebre indovino d’Etrruia”. 158
E’ evidente che questo caput non corrisponde al “dito”, o lobo pi-ramidale, del fegato babilonese, come voleva Thulin, e come ancora si vorrebbe (vd. pp. 23; 40).
105
e tenne per tre volte nel Methlum quella di capo nazionale
(Tenine cis [Zilath] Methlumt) (vd. p. 141, n.8).
Si noti che, nel rotolo di cui parliamo, la parola Methlumt appare come un toponimo del territorio di Tarquinia. Spur
indica Tarquinia come città capitale del proprio singolo Sta-
to; Methlum la connota invece come città capitale della
Nazione ovvero come sede del luogo del Concilio Federale.
La formula “amce Zilath Methlum” o “Zilath Meclum
Rasnas”, frequente a Tarquinia nelle iscrizioni funerarie
dovrebbe significare “fu presidente dell’Assemblea dei Rasenna (Etruschi)”.
Metlum è pure scritto su una moneta (ca. 300 a.C.) etru-
sca coniata verosimilmente dalla città sede del Methlumt (f. 40).
Il vocabolo Metlvmth, posto com’è al di sopra della pro-
tuberanza della parte centrale del fegato, starebbe dunque
ad indicare il centro (il caput del templum) presso Tarqui-
nia, dal quale si diceva che Tagete avesse diviso lo spazio
attorno, e la volta del cielo. Presso quel templum, comun-
que, come pure si diceva, erano convenuti, al richiamo di
Tarconte, tutti i lucumoni delle dodici città etrusche; e a
Tarquinia fu poi istituita una scuola di aruspicina, in seguito
istituzionalizzata dai Romani nel collegio federale dell’Ordine
dei Sessanta Aruspici, per il mantenimento e la composi-
zione del quale contribuivano tutte e dodici le città (vd. p.
141-144). Nel rotolo di Laris Pulena si nomina, fra l’altre
cose, una scuola (alumna), coi suoi giovani alunni (hu-
zrnatre) e la loro collegialità (alumnathura) della quale lo
stesso Laris era decano (parnich). Parleremo più diffusa-
mente del Collegio dell’Ordine dei Sessanta Aruspici
nelle pagine da 141 a 144.
Ovviamente, come ha osservato Colonna, la posizione di
centro del templum, indicata dalla parola Metlumth del
fegato di Piacenza, poteva essere ricollocata in una qua-
106
lunque altra parte di mondo in cui un aruspice poteva di
volta in volta fermarsi per operare159.
10. LE CASELLE DEL BORDO ESTERNO. Noi abbiamo preso
l’immagine dello specchio di Tagete (con le spalle ad Est),
l’abbiamo circondata con le sedici caselle che nel fegato di
Piacenza suddividono il cielo, ed abbiamo provato a rico-
struire il Pantheon etrusco così come si diceva che Tagete
lo avesse visto dal luogo della sua nascita (fg. 34).
Abbiamo poi numerato le caselle a cominciare da quella di
Uni (Giunone) per il motivo che ora esporremo.
Seguendo l’andamento della scrittura etrusca, che va da destra a sinistra, i nomi divini che riempiono le caselle del
bordo del modellino risultano disposti su due righe con-vergenti nel punto intermedio che é fra la casella di Lethm
(Lete?) e quella di Tluscv (Tusco?). Evidentemente,
l’autore del modellino, seguendo l’andamento della scrittu-
ra etrusca, riempì le caselle con nomi divini scrivendo da destra a sinistra, ma, giunto nel punto dove il bordo del fegato gira e per così dire torna indietro verso destra, egli
si trovò nella scelta di dover invertire l’ordine
dell’andamento della scrittura oppure di ricominciare dac-
capo (f. 30); ed egli è tornato daccapo.
159
Consideriamo che il modellino di Piacenza poteva essere utilizzato come sussidio didattico. Ora, poiché la parola Metlumth è scritta rove-sciata rispetto alle altre, la sua posizione doveva svolgere una funzio-ne didattica differente da quella delle altre. Infatti, se noi osserviamo la posizione che ha l’aruspice di Volterra rispetto al fegato che tiene in mano (f. 27), deduciamo che un insegnante di aruspicina aveva nella mano sinistra il fegato, e questo era posizionato con la parte contenen-te i nomi divini rivolta verso gli alunni in modo da renderglieli facilmente leggibili. Dall’alto, gli occhi del maestro, posizionati sopra il fegato, co-me quelli di Aule di Volterra, potevano invece agevolmente leggere il toponimo Metlumth. Agli alunni questa parola appariva rovesciata; co-sì era il maestro a pronunciarla e ad indicarla di volta in volta con l’indice della mano destra, proprio come fa Tagete nella scena dello specchio (fig. 34), e come fa l’aruspice del fegato di Arezzo (f. 38).
107
Ora, se noi torniamo indietro di otto caselle per ogni riga ci
veniamo a trovare nel punto intermedio ch’è fra la casella
di Tin Ne (Giove Nettuno) e quella di Uni Mae (Giuno-
ne,Genio).
Fig. 30 - Le frecce indicano che la scrittura dei nomi divini contenuti nelle 16
caselle del bordo esterno è disposta su due righe convergenti nel NORD del
fegato. Seguendo l’andamento della scrittura etrusca, che va da destra a sini-
stra, l’autore del modello deve aver cominciato a riempire le caselle partendo
da quella di Giunone (SUD). Dopo 8 caselle è giunto a quella di Lethm
(NORD) dove s’è fermato perché se avesse continuato a scrivere seguendo la
curva del fegato avrebbe dovuto tornare indietro e scrivere da sinistra a destra.
Così a ricominciato a scrivere ripartendo dalla casella di Giunone (SUD).
Anche la parte interna della faccia del fegato contiene caselle con nomi di dèi.
L’autore del modellino, dunque, dovette stendere le due
righe di otto caselle cominciando da qui, cioè dalla casella
di Giunone che è poi la dea che ha dato il nome al mese di
Giugno. Questa casella corrisponde al solstizio estivo (ini-
zio dell’estate), attiene all’ora del mezzogiorno ed all’inizio
108
della parte meridionale del cielo. E proprio secondo il ca-
lendario di Tagete, autore delle norme che regolano la let-
tura del fegato, l’anno etrusco iniziava, nel mese di giugno,
con il solstizio estivo160.
Casella 1 (Sud). E’ la sede di Giunone (etr. Uni), dea del calendario, che ha dato il nome al mese di Giugno col quale, secondo il Calenda-rio Brontoscopico di Tagete, iniziava l’anno. Casella 4 (Sud). E’ la sede di Nettuno (etr. Nethun), dio del mare do-ve tramonta il sole visto da Tarquinia. Casella 5 (Ovest). E’ la sede del Sole che tramonta (etr. Catha) nel mare di Nettuno. Casella 6 (Ovest). E’ la sede di Bacco (etr. Fuflun), divinità autunnale della vendemmia e del vino. Casella 9 (Nord). E’ il punto di incontro della direzione delle due scrit-ture di nomi nella doppia serie di 8 caselle. Casella 12 (Nord). E’ la sede di Vediove, il dio che gli Etruschi, se-condo il Liber Linteus, invocavano prima dell’alba (Est).
160
Tagete, in Giovanni Lido, Il Calendario Brontoscopico di Tagete, (vd. cap. III, 2).
109
Servio poi ci fa sapere che in Etruria anche le ore della
giornata si contavano a partire dal mezzogiorno, e che la
stessa cosa valeva per gli Ateniesi161.
Dunque, Uni (Giunone) abita nella prima casella del sud
(ff. 30; 31; 34). Conseguentemente, dopo quattro caselle,
dovremmo trovarci tra l’ultima casella del sud e la prima
dell’ovest. In effetti nell’ultima del sud abita Nethun (Net-
tuno), dio del mare dove il sole la sera va a tramontare, e
nella prima dell’ovest abita Catha che è proprio il dio del sole che tramonta (f. 30; 31; 34). In lingua etrusca, Usil è
invece il nome del Sole nelle sue manifestazioni diurne (f.
32). Catha, peraltro, nei porti di Pirgi (Cere) e di Gravisca
(Tarquinia) era venerato presso il mare in un tempio rivolto
ad ovest162. Subito dopo Catha, nella sesta casella, abita
Fuflun (Bacco), dio autunnale della vendemmia. Nell’ottava
casella, dove finisce l’ovest e comincia il nord, abita Letam
(Lete? Dea omonima del fiume infernale) (ff. 30; 34);
nell’undicesima, dove finiscono il nord e la notte, abita Ve-
tis (Veiove, epiteto di Giove fanciullo) (ff. 30; 31; 34), il dio
che gli Etruschi invocavano durante l’aurora163. Nella tredi-
cesima casella, dove comincia l’est, abita la dea Cilen
(Fortuna, ff. 30; 34 e pp. 123-129)164: la sua forza è supe-
riore a quella di ogni altra divinità. Nella quattordicesima
abita Tinia (Giove) insieme alla stessa Cilen (Fortuna): nel
tempio di Palestrina si vedeva la statua della dea Fortuna
161
Servio, All’Eneide, V, 738. 162
S. Fortunelli, Gravisca. Il deposito votivo del santuario settentriona-le, Edipulglia, Bari, 2007, p. 333. 163
Liber Linteus (Mummia Zagabria), XI: “ctnam thesan fler Veives thezeri”. 164
Il Grenier credeva invece di poter individuare in questo punto (fra Veiove e Cilen) il nord del Fegato (A.Grenier, L’orientation du foie de Plaisance, “Latomus”, 1946, p. 293 ss. ). Pallottino, che lo criticava, ri-tenne a sua volta di poter collocare il nord tra la casella di Cilen e quella di Tin Cilen (M. Pallottino, Deorum sedes, in Studi in onore di Aristide Calde-rini e Robertro Paribeni, Ceschina, Milano, 1956, pp. 23-234.
110
che allattava Giove e Giunone bambini165. Nella quindice-
sima casella abita Tinia (Giove) insieme a un gruppo di di-
vinità chiamate Thufltha. Nella sedicesima abita ancora
Tinia (Giove), stavolta insieme a Ne-thun (Nettuno).
Tinia (Giove) è il dio della luce mattutina (Tin in Etrusco
significa giorno). Egli con l’epiteto di Vetis (Giove fanciullo)
ben si pone nell’ultima casella del settentrione, quella che
precede la primavera e l’inizio del giorno; e con il nome di
Tinia (Giove / luce) altrettanto bene si colloca, assieme al-
la forza di Cilen (Fortuna), nelle tre prime case dell’oriente,
del giorno e della primavera. Anche per Marziano Capella,
il dio abita nelle regioni del mattino e della primavera (vd.
p. 132-133).
A proposito di questa posizione orientale e primaverile
occupata da Tinia (Giove) osserviamo che negli stessi Li-
bri Tagetici è scritto che i fulmini non si producono nelle
regioni fredde o calde del mondo, bensì in quelle tempera-
te ed umide come l’Italia, e “non di frequente in estate o in
inverno bensì in primavera e in autunno” (vd. cap. III, 5).
Plinio fece poi la stessa osservazione166. Ora, poiché pro-
prio Tinia (Giove) è per eccellenza il dio che scaglia il ful-
mine, le regioni del cielo dov’egli abita e da dove scaglia il
fulmine, non sono certo quelle invernali o del nord167. Alle
tre regioni orientali che nel fegato di Piacenza risultano
abitate da Tinia dovrebbero, poi, corrispondere i tre diversi
tipi di fulmine che il dio inviava168.
165
Cicerone, op. cit., II, 85. 166
Plinio, Storia Naturale, II, 135: “D’estate e d’inverno i fulmini sono rari (Hieme et aestate rara fulmina)”; Ibidem, : “vere autem in autumno cre-briora fulmina”; Cfr. Arrhian. ap. Stobaeum. ecl. phys. I, 29, 2, p. 238, 5. 167
Pallottino ritenne invece di poter collocare il nord tra la casella di Cilen e quella di Tin Cilen (M. Pallottino, Deorum sedes, in Studi in onore di A-ristide Calderini e Roberto Paribeni, Ceschina, Milano, 1956, pp. 223-234. 168
Seneca, Questioni naturali, II, 41. Nei Libri Etrushci si disse pure che il potere di scagliarli competeva anche altri dèi per un totale di do-dici (Servio Danielino, All’Eneide, I, 42; Mitografi Vaticani, III, 6).
111
L E S U D D I V I S I O N I D E L F E G A T O (f. 34)
Riprendiamo e approfondiamo il discorso su le “caselle” del
fegato di Piacenza esaminandole una per una. Chiediamo
scusa al lettore perché il discorso diventerà puntiglioso, ri-
petitivo e forse noioso, ma ciò sarà necessario soprattutto
per l’identificazione di Cilen con la dea Fortuna.
Da sotto il “processo papillare”, che indica il luogo del
Metlumth, parte la linea divisoria del fegato in destra e si-
nistra. Lungo la parte destra della linea è scritto Letham
(5a). Potrebbe trattarsi, come qualcuno ha supposto, del
nome etrusco della dea infernale Lethe. Da lei aveva pre-
so il nome il fiume dell’oblio. Questo scorreva negli Inferi
presso i Campi Elisi; e le sue acque, che facevano dimen-
ticare il passato, erano bevute dalle anime di coloro che,
purificate nell’aldilà, si accingevano a risalire sulla terra per
reincarnarsi. Esse costituivano la condizione per passare
dalla morte alla rinascita: una funzione che ben si adatte-
rebbe alla linea che nel fegato divide la notte al giorno. Ri-
troveremo il nome di Lethe anche nella casella 8a dove i-
nizia il nord: pare dunque che il nome di Lethe sia connes-
so al cardo N > S e al decumano E > O del fegato.
Lungo la zona che si trova alla sinistra della stessa linea
centrale del fegato, a partire dall’Ovest, si vede la casella
n. 4a dove è scritto Ercle (Ercole). Nelle caselle accanto a
questa è scritto tre volte il nome di Maris (una nella 5c del-
la cistifellea, e due nella 13a) ed una volta quello di Tlusch.
Nello spazio della 13a c’è anche il nome di Catha (Sole).
Ora, così come è vero che si diceva che il divino Tagete
era nato dalle zolle della terra di Tarquinia, e che avesse
insegnato l’arte dell’aruspicina a Tarconte e a tutti gli altri
lucumoni delle dodici città lì convenuti, é pure verosimile
che quell’arte, almeno in origine, fosse stata elaborata dai
112
Tarquiniesi, e che la divisione delle caselle del cielo e della
terra ripetesse in qualche modo il cielo e il panorama che
si vedevano da Tarquinia. E se Metlumth, come vogliono
Devoto e Colonna, significa “città”, o “concilio federale”,
come vuole Morandi, quella città o quel luogo di concilio
federale posto al centro del sistema cosmico riflesso nel
fegato non può esser che Tarquinia: ciò in alcuni casi po-
trebbe valere come chiave di lettura.
Ercle (Ercole), il cui nome è scritto nella casella 4a, era ri-
tenuto padre di Telefo a sua volta padre di Tirreno e di
Tarconte fondatore di Tarquinia. Egli era ritenuto anche
padre di Tusco (Tlusc ?), colui che diede il nome ai Tu-
sci169 donde il nome della città di Tuscania (lat. Tuscana),
20 km. a nord-est di Tarquinia. Ercole era dunque
all’origine della stirpe. Per gli Etruschi, egli era pure il pa-
dre dei tre Maris. Il loro nome è dislocato per tre volte sulla
sinistra della linea che parte dal Metlumth. Dall’altro lato,
come abbiamo visto, la linea è parte integrante della casel-
la di Letha, che è forse la divinità che dava il nome al fiu-
me dell’oblio170.
La linea divisoria del fegato va a terminare accanto alla
strozzatura che è nella facciata bassa del modellino, in
mezzo fra la casella di Catha (5), dio del sole, e quella di
Nethun-Nettuno (4) il dio del mare dove il sole tramonta.
Similmente, nei graffiti di uno specchio etrusco di Tusca-
nia, il dio sole ha alla sua sinistra la dea dell’Aurora (The-
169
Verrio Flacco, nella epitome di Festo, De Verborum Significatione: “ I Tusci avevano preso il nome dal re Tusco figlio di Ercole (Tuscos, quidam dictos aiunt a Tusco rege Herculis filio)”. 170
Il nome del fiume Marta, detto anche Mària, che dal colle di Corne-to (Tarquinia), in direzione nord-est > sud-ovest, va al mare potrebbe avere qualche connessione con quello dei fratelli Maris figli di Ercole. Il fiume è chiamato Mària nella Bolla di papa Leone quarto a Virobono vescovo di Tuscania (850 d..C). Vd. pure “Vico Mariano” nome usato nell’alto medioevo per chiamare la cittadina di Marta omonima del fiume.
113
san), donde egli sorge, ed ha alla sua destra Nettuno (Ne-
thun), dio del mare dove egli tramonta (f. 32).
La casella di Catha (il sole), oltre ad avere alla sua de-
stra quella di Nethun (Nettuno: il mare), ha alla sua sini-
stra quella di Fufluns (6) cioè di Bacco, divinità dell’uva e
del vino, connessa con la vendemmia e il solstizio autun-
nale. Catha (il sole) e Flufluns (Bacco) avevano, peraltro,
a Tarquinia un culto particolarmente connesso, come si e-
vince dalla lettura del rotolo di Lris Pulena. Ribadiamo
dunque che la casella di Catha indica l’Ovest, cioè il pun-
to dove, nell’equinozio d’autunno, tramonta il sole.
114
Ala sinistra: SETTORI DELLA PARTE MERIDIONALE (giorno-estate)
A) I QUATTRO SETTORI DEL BORDO ESTERNO
1: Uni(al) Mae(?) = (di Giunone, Mae). Giunone è la di-
vinità che ha dato il nome al mese di Giugno. Corrisponde
all’equinozio solstiziale, che è l’inizio dell’estate, attiene
all’ora del mezzogiorno e all’inizio della parte meridionale
del cielo. Secondo il calendario di Tagete, l’anno etrusco
iniziava, nel mese di Giugno, con il solstizio estivo171. La
stessa cosa valeva per gli Ateniesi; e, secondo Servio, le
ore della giornata, in Etruria e ad Atene, si contavano da
mezzogiorno172.
A partire dalla casa di Giunone, cioè dal Sud, e andando
da destra a sinistra secondo il modo di scrivere degli Etru-
schi, l’autore del modellino deve aver cominciato a incidere
la fila di 16 caselle coi loro nomi divini173. Noi abbiamo nu-
merato le caselle seguendo quell’ordine (ff. 30; 31; 34) 174. 171
Giovanni Lido, Il Calendario Brontoscopico locale basato sul corso della Luna secondo P. Nigidio Figulo, tratto dagli scritti di Tagete (De ostentis, c. 27-38): “Se è vero che gli antichi in ogni scienza augurale presero a guida la Luna poiché da lei dipendono i segni tratti dai tuoni e dai fulmini, a ragione dovremo parimenti regolarci sulla posizione della Luna. Perciò partendo dal Cancro e dal novilunio, secondo i mesi lunari, noi formuliamo l’esame giornaliero dei temporali. E’ a seguito di un simile esame che i Tusci hanno tramandato le osservazioni locali riguardanti le regioni colpite dal fulmine”(trad. nostra). Anche le Previ-sioni annuali che Giovanni Lido tradusse da Labeone, parimenti compi-late sugli scritti di Tagete, erano state formulate in base alla posizione della luna nel solstizio estivo. 172
Servio, All’Eneide, V, 738. 173
Pure per Marziano Capella le 16 zone partivano da oriente. Per i Romani, invece, come ancor oggi per noi, la scrittura andava da sini-stra a destra, il giorno cominciava dalla mezzanotte, la prima parte del cielo era il nord, il lato favorevole era il destro, e quello sfavorevole il sinistro. Un ignoto scoliaste di Orazio, invocato da Pallottino (Deorum
115
Dentro la stessa casella, appresso al nome di Giunone
troviamo scritto Mae. E’ un nome finora sconosciuto. Po-
trebbe però trattarsi di quel “Genio di Giunone Ospite
(Genius Iunonis Hospitae)” di cui parla Marziano Capella
nella sua divisione del cielo175. Da ciò si potrebbe anche
dedurre che Mae sia il nome etrusco di Genius o Genio Gioviale (Genio di Giove) padre dello stesso Tagete. In al-
cune fonti latine, poi, Giunone è considerata come
l’aspetto femminile di Genio176.
2: Tecvm(s) = di Tecvm. Divinità o gruppo di divinità
non ancora identificati.
3: di Lvsl = di Lvs. Divinità o gruppo di divinità non an-
cora identificati. Ritroveremo il nome, esattamente alla par-
te opposta, nella casella 11a del lato occidentale. Esso po-
trebbe appartenere a una stella o ad una costellazione che
in antico appariva e tramontava alla sera sul mare (a SO di
Tarquinia) per poi riapparire sui monti (a NE) prima del mattino.
4: di Neth(unsl) = di Nettuno. Nettuno è posto
nell’estrema parte meridionale del fegato. Egli è il dio del
sedes, in Studi in onore di A. Calderini, Milano, 1956), poi, riteneva pu-re che, a cominciare dal Nord, le prime case del cielo fossero abitate da Giove. Lo scoliasta però non si rifaceva alle sedici zone del cielo etrusco, come avrebbe voluto Pallottino, bensì alla credenza greca secondo cui l’olimpo degli dèi, era una gelida montagna delle regioni del nord della Grecia. 174
A. Grenier (L’orientation du foie de Plaisance, “Latomus”, 1946) as-segnava giustamente il n.1 alla casella di Cilen, però da questa faceva partire il Nord. M. Pallottino (op. u. cit.), poi, fece partire il Nord dalla casella di Tins Cilensl. Ciò per tentare di far corrispondere gli dèi delle 16 caselle del fegato etrusco (fine II sec. a.C.) con quelli delle 16 ca-selle tardamente menzionate da Marziano Capella nel VI sec. d.C. (vd. nota 5). Ma, poiché i riscontri non erano effettivi, egli volle soste-nere che il modello bronzeo del fegato etrusco fosse una copia sba-gliata di un ipotetico originale. 175
Genius Iunonis Hospitae è nella nona sede dell’elenco di dèi pro-dotto da Marziano Capella (vd. n. 5) Ora, poiché l’elenco di Capella, secondo l’uso ramano, cominciava dal Nord, il nono posto corrisponde alla prima casella del Sud così come noi l’abbiamo indicata. 176
Vd. G. Wissova , Religion und kultus der Romer, Munchen, 1902, p. 154.
116
mare. E’ significativo che su uno specchio etrusco (f. 32) si
vede il dio sole (Usil), aureolato, che ha alla sua sinistra
(est) la dea Aurora (Thesan), ed alla sua destra (ovest)
Nettuno (Nethun), il dio del mare dove in Etruria e, nel ca-
so specifico, a Tarquinia tramonta il sole. Appresso alla
casella di Nettuno, come vedremo, troveremo quella di Ca-
tha (il sole): fra le due caselle corre esattamente la linea
dell’equinozio d’autunno (21 settembre); e subito dopo Catha
troveremo Fufluns (Bacco), dio autunnale della vendemmia.
B) LE CASELLE INTERNE
1a: Tins Thuf(lthas) = di Giove e di Thufltha. Thufltha è
una divinità o un gruppo di divinità sconosciute. Il nome si
ritrova altre e due volte nella parte orientale del fegato. Da
questa divinità potrebbero aver preso il nome la città e i
monti di Tolfa, che si trovano ad oriente e a sud della città
di Tarquinia.
1b: Lasl = di Las. Divinità sconosciuta.
2a: Lethn(sl) = di Letham. E’ lo stesso nome che ab-
biamo trovato scritto lungo la linea mediana divisoria del
fegato, e che ritroveremo in 4c, in 8 ed in 8a. Potrebbe trat-
tarsi, come già abbiamo detto, della forma etrusca del no-
me di Lete, divinità connessa con le acque infernali177.
3a: Tur(?) = di Tur(?). Il nome potrebbe essere quello di
Turms (Mercurio) oppure di Turan (Venere).
4a: Hercl(es) = di Ercole. Ercole era il padre di Telefo.
Questi fu poi adottato da Corinto o Corito re della omonima
regione arcade. Da Telefo, infine, e da Astioche, figlia di
Laomedonte, re di Troia, nacquero Euripilo, Tarconte (fon-
datore di Tarquinia) e Tirreno eponimo della Tirrenia.
177
Stavolta potrebbe connettersi alle acque solfuree che ancora sgor-gano dalle sorgenti termali della antica Aquae Tauri, a sud di Tarqui-nia. Si diceva che fossero nate dalle terra forata dalle corna di un toro (Rutilio Namaziano, De reditu suo, v. 237 ss.).
117
C) CASELLE INTERNE (LA CISTIFELLEA)
Plinio scrisse: “Gli aruspici hanno consacrato la bile a
Nettuno e alla potenza dell’acqua; il divino Augusto ne tro-
vò una doppia il giorno in cui vinse ad Azio”178. Pare che
anche i Babilonesi connettessero la bile alle acque (vd. p.
34 e n. 14).
4b: Tunth(?) = di Tunth(?). Potrebbe trattarsi di Nettuno.
Ciò farebbe il paio col dio del mare della casella n. 4 con
la quale confina, e indicherebbe una zona costiera.
4c: Marisl Lath(?) = di Maris e di Lath(?) (Latona?). Ma-
ris richiama gli altri e due Maris di 13a2–13a3, ed il loro
padre Ercole della casella 4a. 4d: Leta(msl) = di Letham (Lete ?). E’ lo stesso nome
che abbiamo trovato scritto lungo la linea mediana del fe-
gato e in 2a, e che ritroveremo in 8 e in 8a. Potrebbe trat-
tarsi, come già abbiamo detto, della forma etrusca del no-
me di Lete, divinità connessa con le acque179.
4e: Neth(unsl) = di Nettuno. E’ lo stesso dio del mare180
che abbiamo trovato nella casella n. 4 e forse anche nella 4a.
Ala destra: I SETTORI DELLA PARTE OCCIDENTALE (sera, autunno)
A) I QUATTRO SETTORI DEL BORDO ESTERNO
5: Catha(s) = del Sole. Nella strozzatura che è nella fac-
ciata bassa del modellino, si trova la casella contente il
178
Plinio, Storia naturale, XI, 195. 179
Stavolta potrebbe connettersi alle paludi della valle del Mignone e della costa a sud di Tarquinia. 180
Le quattro caselle della Cistifellea dovrebbero occupare tutta la zo-na a sud del corso finale del fiume Marta dove si alternano e si con-fondono corsi d’acqua, paludi e lagune marine.
118
nome di Catha, personificazione divina del sole181. La ca-
sella è in mezzo fra quella di Nettuno (n. 4), dio del mare
dove tramonta il sole182, e quella di Fufluns/Bacco (n. 6),
divinità etrusca dell’uva e del vino, connessa con la ven-
demmia e il solstizio autunnale. La casella di Catha indica
dunque l’Ovest, cioè il punto dove, nell’equinozio d’autunno,
tramonta il sole. Catha e Fufluns avevano peraltro a Tar-
quinia un culto particolarmente connesso.
6: Fufluns(l) = di Bacco. Il nome è presente pure nella
casella 16b. Fufluns, chiamato anche Pacha (Bacco) è il
dio del vino; e come tale è connesso alla vendemmia e
all’autunno. E’ colui che trasformò in delfini i pirati Tirreni
che lo rapirono. La produzione del vino a Tarquinia, nel ter-
ritorio visibile ad occidente della città è ricordata da Plinio il
Vecchio quando loda i vini di Gravisca. Il commercio che
se ne faceva è testimoniato dalla parola etrusca vinum (vi-
no) scritta su un’anfora vinaria di V sec. a.C. trovata nella
stessa Gravisca (ch’era il porto di Tarquinia), e dal ritrova-
mento di una più tarda fabbrica (II sec. a.C) di anfore vina-
rie a Malta o Maltano, altro porto a occidente della città.
Analisi effettuate su falcetti pennati atti a lavorare la vigna
hanno fatto supporre che la cultura della vite sia stata in-
trodotta dalla Grecia a Tarquinia, e da questa nella rimante
Etruria183. Recentemente, poi, in uno dei pozzetti del Pian
di Civita di Tarquinia, sono stati trovati i resti di un
vinacciolo coltivato databile attorno al 925 a. C. La
scoperta dà adito, come dice Maria Borghi Jovino, “a
supporre che la coltivazione della vite sia stata praticata a 181
Oppure è il nome della “figlia del Sole” come si potrebbe evincere dall’elenco degli dèi che Marziano Capella incluse confusamente nelle sedici caselle del Cielo (vd. Tabella a p. 135). 182
In uno specchio etrusco il dio sole (Usil) ha alla sua sinistra la dea Arurora (Thesan) donde sorge, ed alla sua destra Nettuno (Nethun) dio del mare dove tramonta (vd. f. 32). 183
F. Delpino, L’ellenizzazione dell’Etruria Villanoviana, in Atti del 2° Conv. Inter. Etr., Firenze, 1985; G. Bartoloni, La cultura villanoviana, Roma, 1989 , p. 31.
119
coltivazione della vite sia stata praticata a Tarquinia prima
che altrove in area etrusca”184.
7: Selvan(sl) = Silvano. Il nome di questo dio è presente
anche nella casella interna (7a) che è fra la 7 e la 8. Se-
condo Virgilio, egli era il dio dei Campi e del Bestiame; e,
presso Corito (Tarquinia), aveva un luco e un giorno di fe-
sta dedicatogli dai Pelasgi. Qui, Tarconte, dopo aver riunito
i vari re delle città etrusche, avrebbe fatto eleggere Enea
(venuto da Troia) a capo di tutta la Federazione etrusca.
Il culto del dio Silvano è documentato a Tarquinia da varie
scritte e reperti archeologici.
8: Lethn(sl) = di Lete?. Identificabile forse con la divinità
infernale Lete. Qui finisce la serie delle caselle della parte
occidentale del fegato, e con la prossima (9) inizia quella
del Nord. Avevamo già trovato il nome di Lete in altre ca-
selle (2a; 4c; 5a), e lo ritroveremo nella casella interna
(8a). Qui, nel punto esatto dove inizia il nord, si vede an-
che un segno ricurvo: è lo stesso che i Babilonesi chiama-
vano Padanu, e per loro simboleggiava il corso della vi-
ta umana.
B) CASELLE INTERNE
5a: Letham = di Lete? Lungo la linea mediana del fega-
to, come abbiamo già visto (p. 111), troviamo il nome di
Letham. Lo ritroveremo anche nella 8a dove inizia il nord.
Pare che esso sia connesso al cardo (N > S) e al decuma-
no (E > O) del fegato 6a: Cilen(sl) = di Fortuna (in connotazione negativa).
Ritroveremo Cilen nella casella 13 dove discuteremo la
sua identificazione (p. 123 ss.). 6b: Satres = di Saturno.
184
M. Borghi Jovino, Tarquinia, i luoghi della città etrusca, Tarquinia, 2001, p. 30.
120
7a: Selvan(sl) = di Silvano. Il nome del dio, presente
nella casella del bordo esterno (7), si ripropone qui nella
casella interna posta fra la 7 e la 8.
8a: Letha(msl) = di Lete? Dentro questa casella, nel
punto esatto dove inizia il nord, si vede un segno ricurvo: è
lo stesso che i Babilonesi chiamavano Padanu, e che per
loro simboleggiava il corso della vita umana. La casella
porta lo stesso nome della adiacente esterna 8 dove fini-
sce la parte occidentale del fegato. Essa è pure adiacente
alla casella esterna 9 dove inizia la parte settentrionale.
Avevamo trovato il nome di Lete anche nella casella 5a a-
diacente a Catha (5), lungo la linea che divide la parte sini-
stra dalla parte destra del fegato. Sembra che il suo nome
sia connesso al cardo (N > S) e al decumano (E > O) del
fegato. Il suo nome è presente pure nella casella 2a adia-
cente a Tecvm (2), e nella 4c adiacente a Nettuno (4).
Ala destra: I SETTORI DELLA PARTE SETTENTRIO-
NALE (notte, inverno)
A) I QUATTRO SETTORI DEL BORDO ESTERNO
9: Tluscv(s) = di Tluscv (Tusco?). Questo nome si tro-
va pure nella adiacente casella interna (9a)185. Tluscv po-
trebbe essere la forma etrusca del nome di Tusco (lat. Tu-
scus), l’eroe divinizzato, figlio di Ercole, che avrebbe dato il
nome ai Tusci.186 Il nome ritorna, infatti, assieme a quello
185
Questa punta verso la vicina città di Tuscania (lat. Tuscana). 186
Verrio Flacco (fine I sec. a.C.), nella epitome di Festo, De verbo-rum segnificatione, s.v. Tuscus. Flacco scrisse pure un libro perduto di Storia etrusca. Secondo una diversa versione, Tirreno, durante la mi-grazione dall’Asia in Italia, sarebbe morto in mare, conferendo il suo nome al mar Tirreno; suo figlio Tusco assunse così il comando della navigazione e condusse il popolo in quella parte d’Italia che dal suo nome chiamò Tuscia (Servio Dan., ad Verg. Aen., I, 67). Vd. A. Pal-mucci, Tarconte e Mantova, Virgilio e Corito-Tarquinia, “Atti e Memorie Accademia Naz. Virgiliana di Mantova”, 62, 1994; Virgilio e Cori(n)to-
121
di Maris, anche lui figlio di Ercole, sulla parte sinistra del
fegato, nella casella (13a e 13b) che è tra Cilen (13) ed
Ercole (13c).
10: Cels = della Terra?. 11: Cvl(sl) Alp(nus) = di Culsu e di Alpnu. Il nome
Culsu (= porta) appartiene a una divinità o di un gruppo di
divinità custodi della porta dell’oltretomba. Alpnu, poi, do-
vrebbe essere una divinità della notte. Alpnu e Culsu, in-
sieme come sono, dovrebbero corrispondere a Nocturnus
(Notturno) e agli Ianitores terrestres (Portinai terrestri) di
Marziano Capella (vd. Tabella a p. 135).
12: Vetisl = di Vedio/Veiove. Vedis (o Vedijovis, Vedio-
vis, Diovis, Veiovis) era uno dei nomi di Giove. A Roma gli
si dava sia il significato negativo di “Giove malevolo” che
quello positivo di “Giove bambino”. Una delle sue feste
cadeva alle none di Marzo, cioè pochi giorni prima
dell’equinozio primaverile. Ciò è in linea con il fatto che, nel
fegato di Piacenza, la casella del dio occupa l’ultimo posto
nella serie delle quattro caselle settentrionali. Dal testo e-
trusco della Mummia di Zagabria sappiamo, infine, che in
Etruria gli venivano fatte offerte all’alba (thesan fler Vei-
ves huthis): anche questa particolarità è in linea col fatto
che il dio occupa l’ultimo posto nella serie delle caselle not-
turne. La sua funzione sembra esser proprio quella di anti-
cipare il giorno. D’altronde Giove è il dio del giorno e della
luce; e proprio gli Etruschi chiamavano il giorno tin che è
lo stesso nome etrusco di Giove.
B) CASELLE INTERNE
9a: Tlusc(vs). la casella è adiacente sia alla 9 (della
quale ripete il nome) che alla 10. Ritroveremo il nome an-
che nella interna 13d.
Tarquina, Tarquinia, 1998, p. 255.
122
11a: Lvsl Velch(anas) = di Lvs e di Velchana (Vulca-
no). Lvs è una divinità (o gruppo di divinità) ancora scono-
sciuta. Abbiamo già trovato il nome nella casella 3 del bor-
do esterno, che è esattamente alla parte opposta del fega-
to; e, come abbiamo detto, potrebbe appartenere a una
stella, o ad una costellazione, che appare e tramonta alla
sera sul mare per poi riapparire sui monti del nord prima
del mattino.
12a: Metlvmth = Città? Concilio? Ne abbiamo parlato al-
la pagina 103 ss.
C) LA RUOTA DIVINA
Nel mezzo della parte destra, cioè occidentale e setten-
trionale del modellino bronzeo, si trova un piccolo cerchio
contente a sua volta un più piccolo semicerchio, quello che
gli aruspici etrusco-romani chiamavano Deus (“Dio”), gli It-
titi Sintahis o Sumuqan, ed i Babilonesi Manzazu (“Pre-
senza” del dio). Non sappiamo come lo chiamassero gli E-
truschi, ma possiamo ipotizzare che lo chiamassero Ais,
che nella loro lingua significava “Dio”.
Nella ispezione del fegato, questo segno era il primo ad
essere cercato perché la sua eventuale assenza voleva di-
re che la divinità interpellata si rifiutava di esser presente e
di rispondere. Questo segno, è perpendicolare ad un altro
simile (il Padanu = “Sentiero” dei Babilonesi) che si trova
all’interno della casella 8, nel punto esatto dove nel model-
lino inizia il Nord (ff. 30; 31; 34). Le due lunule sono pre-
senti pure nel modellino fittile del fegato di Faleri (f. 26).
Attorno al cerchietto contenente il Manzazu (Presenza del
dio), come se gli ruotassero attorno, si dispongono tutte e
sei le caselle della parte interna dell’ala destra, coi loro re-
lativi nomi di dèi: Cilen (6a), Satres (6b), Selva (7a), Le-
tha (8a), Tlusch (9a) e Lusls Velch (11a). Si tratta forse
123
della lista degli dèi che potevano o non potevano esser di-
sponibili per rispondere alla consultazione.
Ala sinistra: I SETTORI DELLA PARTE ORIENTALE
(mattino, primavera)
A) LE QUATTRO CASELLE DEL BORDO ESTERNO 13: CILEN(SL) = di Fortuna (vd. prossima casella). Il no-
me si ripete nella casella 14 assieme a quello di Tin (Gio-
ve). In una scena composta su una terracotta fittile di un
tempio etrusco di Bolsena, accanto a Mera (Minerva) c’è
una seconda figura femminile purtroppo mutila della testa
e degli oggetti che teneva con le mani. Sotto questa se-
conda figura è scritto Cilen (f. 33 A). Il nome, dunque, che
si trova nelle caselle numero 13 e 14 del fegato di Piacen-
za, è quello di una dea.
14: TIN(S) CILEN(SL) = di Giove e di Fortuna. Nella prima
casella il nome di Cilen è apparso da solo; ma ora, nella
seconda, è dopo quello di Tinia (Giove). Esso dovrebbe
dunque competere a una divinità femminile che abbia sia
funzioni proprie che legate a Giove. Potrebbe trattarsi del
nome di uno degli dèi Penati di Giove.
Arnobio187 riferiva quanto segue:
Nigidio Figulo (I sec. a.C.) tramanda che gli dèi Pe-nati sono Nettuno e Apollo, i quali un tempo, per
una condizione convenuta, cinsero di mura immorta-
li la città di Troia. Egli stesso, di nuovo, nel VI e nel
X libro, seguendo la disciplina etrusca, espone che
vi sono quattro generi di Penati: i primi sono di 187
Arnobio, Adversus nationes, III, 40.
124
Giove, i secondi di Nettuno, i terzi degli Inferi, i
quarti degli Uomini mortali […]. Secondo Cesio, infi-
ne, che pure seguiva gli Etruschi, essi sono Fortu-na, Cerere, Gioviale o Genio […]. Gli Etruschi li
chiamano “Consenti” e pure “Complici” perché in-
sieme nascono ed insieme muoiono; sono sei ma-
schi e sei femmine dai nomi sconosciuti; hanno
scarsissima pietà, ma sono ritenuti consiglieri e par-
tecipi di Giove Massimo188 […]. E c’è pure chi fra gli
dèi Penati include Giove, Giunone e Minerva189.
Anche Elio Donato diceva che, per gli Etruschi,
188
I Romani fecero propri questi dèi, ma diedero loro i nomi dei dodici dèi del pantheon ellenico. Marziano Capella (Le nozze di Mercurio e fi-lologia, I, 42) li chiamò “Cosenti Penati”, e li inserì in una delle sedici caselle del cielo, assieme a Giove e agli “Involuti”, che lui chiama O-pertanei. “Costoro”, spiegava, “sono in numero di dodici, compreso lo stesso Tonante; ed Ennio, in un distico li riunisce così: Giunone, Vesta, Minerva e Cere, Diana, Venere (6 femmine); Marte, Mercurio, Giove, Nettuno, Vulcano, Apollo (6 maschi)”. Seneca (Seneca, Questioni na-turali, II, 41), seguendo anche lui gli Etruschi, diceva che Giove man-dava tre tipi di fulmini. Il dio, di sua iniziativa, inviava benevolmente il primo; lanciava il secondo, che poteva essere benevolo o meno, “dopo aver preso atto della sentenza del Consiglio dei dodici dèi”; scagliava poi il terzo, ch’era malevolo, “dopo aver radunato a consiglio gli dèi che chiamano Superiori ed Involuti”. Secondo quanto poi riferiva Elio Dona-to, sui “Libri etruschi intorno alla fulguratura”, si leggeva che i fulmini competevano a Giove, Giunone e Minerva; e non solo, ma anche ad altri dèi, per un totale di dodici (Servio Dan., All’Eneide, I, 42; vd. pure Mitografi Vaticani, III, 6). Pare che gli dèi Consenti siano addirittura men-zionati assieme a Giove nel calendario rituale scritto in etrusco sulle tele che avvolgevano la cosiddetta Mummia di Zagabria. Secondo G. Facchet-ti (Lingua etrusca, Roma, 2000, p. 275), fra le prescrizioni mattutine è scritto: “Aurora di Giove! Aurora degli dèi <Consenti>! Voi, buoni invoco”. 189
Macrobio e Elio Donato, dissero che i Penati portati in Italia da Enea erano i Grandi Dèi (Giove, Giunone e Minerva), e che Tarquinio Prisco, esperto nella religione di Samotracia, ne riunì il culto in un’unica cella, e vi aggiunse Mercurio. Minerva, spiegavano, era l’alta cima dell’etere, Giove la mediana, e Giunone la zona inferiore che tocca la terra (Ser-vio Danielino, All’Eneide, I, 378; II, 296; 325; Macrobio, Saturnali, III, 4).
125
i Penati erano Cerere, Pale e Fortuna190.
Abbiamo già visto (pp. 61-62) che Cilen, la quale abita
nelle caselle 13 e 14, è una dea; e che nella 14 abita con
Giove. Potrebbe trattarsi di una divinità femminile apparte-
nente ai Penati del genere di Giove. Ora, Cesio e Donato
elencavano, fra i Penati etruschi, due dee: Cerere e For-tuna. Pure il tardissimo Marziano Capella incluse i Penati nella prima zona del suo ormai confuso elenco delle divini-
tà che abitavano i sedici settori in cui egli stesso ancora di-
videva il cielo (vd. Tabella a p. 135).
I Romani raffiguravano la dea Fortuna con il corno
dell’abbondanza nella mano sinistra, e con il timone del
destino nella destra (f. 33 B).
Ora, se noi raffrontiamo le statue romane della dea Fortu-na con quella di Minerva e Cilen, ci accorgiamo che gli
oggetti mancanti nelle mani di Cilen sono proprio il corno
dell’abbondanza ed il timone del destino. La sintonia fra le
due divinità è, poi, palese nelle figure di uno specchio di
Preneste dove si vede Fortuna che protettivamente pone
la propria mano sinistra sulla spalla sinistra di Minerva191.
Ci sono infine alcune statuette bronzee d’epoca romana
(sec. II) raffiguranti una divinità che è insieme Minerva,
Fortuna ed Iside (f. 33 C). Come Minerva, ha il seno co-
perto dall’egida con testa di Medusa, come Fortuna ha
sulla mano sinistra il corno dell’abbondanza, e nella destra
il timone del destino (oggi perduto). Sulla testa, poi, ha la
corona di Iside, dea egizia che i Romani identificarono
spesso con Fortuna. La stretta relazione che correva tra la
dea Fortuna (Cilen) e la dea Minerva, anzi la loro sia pur
tarda incorporazione in un’unica divinità spiega il motivo
per il quale nel Fegato di Piacenza manca il nome di Mi-
nerva: quello della dea Cilen lo comprendeva sia nella ca-
190
Servio Danielino, All’eneide, II, 325. 191
Gerard, ES I, tav. 62.
126
sella in cui appare da solo sia in quella in cui appare as-
sieme a quello del dio Giove192.
A) Dal tempio etrusco di Bolsena (II sec. a.C.). La dea Cilen (Fortuna) in coppia con Mera (Minerva). Alla statua di Cilen mancano la testa, il corno dell’abbondanza sulla mano sinistra, ed il timone del destino nel-la destra. La dea Mera (Minerva) è riconoscibile dall’egida che ha sul petto. B) Musei Vaticani. Statua romana della Fortuna (II sec. d.C.): ha sulla mano sinistra il corno dell’abbondanza, e nella destra il timone del destino. C) Statuetta bronzea romana di divinità femminili condensate (II sec. d.C.). La statua ha sopra la testa la corona di Iside, ha sul seno l’egida di Minerva, ha sulla mano sinistra il corno dell’abbondanza, e nella destra il timone del destino, ambedue propri della dea Fortuna.
Etimologicamente, la parola latina Fortuna deriva da for-
192
L. Bouke Van Der Meer, The Bronze Liver of Piacenza, J. C. Gieben, Amsterdam, 1987, pp. 90-96.
127
tus “destino”. Questo può essere buono o cattivo, ma la
sua azione è comunque più forte del governo di Giove. E’
questo il motivo per cui Fortuna, nel suo aspetto indiffe-
renziato, occupa la prima casella della parte orientale del
cielo, e precede quella di Giove. Nella sua connotazione
positiva è invece dentro la seconda casella insieme a Gio-
ve. Da qui, forse, il dio inviava il suo primo tipo di folgore:
quello che ammoniva benevolmente.
Nella suo aspetto negativo, la parola Cilen si trova poi in-
scritta anche in una delle caselle interne (la n. 6a) della
parte occidentale ed infausta del fegato di Piacenza (f. 34).
Sappiamo che, per i Romani, Fortuna rappresentava an-
che la natura feconda, e presiedeva alla produzione in ge-
nere. Nel più antico calendario, al primo (calende) di Aprile,
proprio agli inizi della primavera, cominciavano due giornate
di festeggiamenti in onore di Fortuna Primigenia. Questa
rappresentava la natura nel suo complesso, come fosse lei
a regolare il cielo e la terra, e da lei provenisse ogni cosa
divina ed umana; ed è per questo che la dea, nel tempio di
Preneste, era raffigurata nel momento in cui teneva sul
grembo Giove e Giunone bambini, e li allattava193.
Anche L. Bouke van der Meer, peraltro, con argomenti di-
versi dal nostro, è giunto ad identificare Cilen con la dea
Fortuna. Egli sostiene giustamente che il significato della
parola Cilen dipende dall’interpretazione dell’antefissa di
Bolsena, dove Minerva e Cilen sono rappresentate stret-
tamente insieme. Egli osserva che Cilen non ha il capo ve-
lato, e indossa il chitone e un mantello drappeggiato: ico-
nograficamente è una figura femminile che ha poco a che
vedere con Nocturnus, il dio che Pallottino pone al suo po-
sto nel fegato di Piacenza. Essa infatti non ha niente in
comune con le figure della notte presentate dalla scultura e
dalla letteratura greca e romana, bensì con la rappresen-
tazione della dea Fortuna quale si vede su uno specchio
193
Cicerone, La Divinazione, II, 85.
128
di Preneste dove ella pone protettivamente la propria ma-
no sinistra sulla spalla sinistra di Minerva.
Van Der Meer ricorda poi che una pratica di clavifixatio si
svolgeva sia a Roma nel tempio di Minerva sia a Vulsinii
nel tempio di Nortia che, similmente a Fortuna, era una
dea del destino. Infine, egli conclude:
Con l’interpretazione di Cilen come identica a For-tuna viene soppressa la teoria di Pallottino e Mag-
129
giani che il nord sul nastro periferico corrisponda alla
linea divisoria tra le caselle di Cilen e di Tin Cilen194.
Egli però ritiene erroneamente che il nord del fegato di Pia-
cenza si trovi fra la casella di Cilen e quella di Tin Cilen195.
Più avanti vedremo pure come la dea Cilen (Fortuna) del
fegato di Piacenza sia identificabile anche con la dea Nor-
tia o Norchia della quale parla il pur tardo Marziano Ca-
pella (vd. p. 137 ss).
15: TIN(S) THUF(LTHAS) = di Giove e di Thufltha. Alcuni
ritengono che il secondo nome appartenga a quegli “dèi Consenti” che Giove, secondo Seneca, consultava prima
di lanciare il secondo tipo di saetta, buona o cattiva (vd. n. 47).
16: TINSTH NE(THUNSL) = di Nettuno nella casa di Giove.
Qui Giove è in compagnia forse dei Penati di Nettuno.
Le ultime quattro caselle di cui abbiamo parlato apparten-
go alla zona del cielo che va dall’oriente equinoziale al
mezzogiorno solstiziale. Osservato da Tarquinia, l’orizzonte
di questo cielo corrisponde alle cime dei monti Cimini e dei
monti di Tolfa (Thufltha?). Lo spicchio di cielo dell’ultima
casella (Nettuno) è poi già sopra il mare.
B) CASELLE INTERNE 13a1: TLUSC(VS) = di Tusco? Tusco fu considerato figlio
di Ercole oppure di Tirreno.
13a2: MAR(ISL) = di Maris. Maris era figlio di Ercole.
13a3: MARI(SL) = di Maris. Il nome è ripetuto due volte
nella stessa casella. Si tratta dunque di due distinte divinità
194
L. Bouke Van Der Meer, L’orientation du foie de Plaisance, “Caesarodunum”, (54), 1986, supplemento, pp. 5-15 ; Cilens, in Secondo Congresso Internazionale Etrusco, Atti, Firenze 26 maggio – 2 giugno 1985, supplemento di “Studi Etruschi” , Giorgio Bretsschneider, Roma, 1989, III, p. 1199-1204. 195
L. Bouke Van Der Meer, The Bronze Liver of Piacenza, J. C. Gieben, Amsterdam, 1987, pp. 90-96.
130
omonime. Un terzo Maris è menzionato nella casella n. 4c.
Tutti e tre i Maris era ritenuti figli di Ercole. Il nome di
quest’ultimo è nella attigua casella n. 4a.
13a4: CATHA(S) = di Catha (dio del sole). La presenza
del nome del dio del sole nella casella sotto quella di Ci-
len, conferma che da quest’ultima casella inizia la parte o-
rientale del fegato.
15a: TINSTH NETH(UNSL) = di Nettuno nella casa di Gio-ve. Vengono ripetuti i nomi delle divinità della casella 16.
16a: THUFLTHAS = di Thufltha. Si ripete uno dei nomi
presenti nella casella 15.
16b: FUFLU(N)S(L) = di Bacco. Si ripete il nome presente
nella casella 6.
133
MARZIANO CAPELLA
Marziano Capella (IV-V sec. d.C.) non nomina fonti etru-
sche, né afferma di rifarsi a tradizioni di estrazione etrusca.
Ilaria Ramelli ha commentato a questo modo la sua cultura:
Le fonti da lui usate, come vedremo nel dettaglio,
sembrano per lo più fonti manualistiche e secon-darie,
voci di enciclopedia e libri di testo, per così dire, più
che trattati scientifici primari. Non sempre, anzi proba-
bilmente mai, Marziano consultò direttamente gli auto-
ri da lui menzionati, mentre non cita mai le sue fonti
effettive, che la critica ha potuto rintracciare nella
maggior parte dei casi, e che sono in genere compen-
di e compilazioni relativamente tarde196.
Dal tempo in cui in Etruria era stata “inventata” la divisio-
ne del cielo in sedici caselle, a quello in cui Marziano scri-
veva (IV-V sec d.C.) erano passati molti secoli: la lingua e-
trusca non si parlava più, e la divisione del cielo doveva
aver subìto le più svariate modulazioni.
Per noi, Marziano ha un generico valore da prendere,
come si dice, con beneficio d’inventario: dinanzi alle dirette
fonti etrusche (specchio di Tuscania; Fegato di Piacenza;
Libri Tagetici, ecc.), noi prendiamo la sua opera solo come
eventuale supporto. Vediamo.
Marziano Capella, ne Le Nozze di Mercurio e Filologia,
narra che Apollo accompagnò Mercurio al palazzo di Giove
per chiedere al sommo dio il consenso di sposare Filolo-
gia. Durante il viaggio, dice Marziano,
la terra, per aver visto Mercurio, dio della primavera,
levarsi in volo, s’illuminò di fiori; e la mite aria, per
196 I. Ramelli, Marziano Capella, Bompiani, Milano, 2001, p. XXXVI.
134
aver scorto Apollo, si mise a risplendere con tratti
sereni (I, 25)... Ecco poi che improvvisamente la
benda dei capelli di Apollo si trasformò in raggi, ed il
ramo d’alloro ch’egli teneva con la mano destra si
accese d’universale splendore; intanto, gli uccelli che
trasportavano il suo carro divennero cavalli alati ar-
denti di luce fiammeggiante; ed egli stesso, col suo
fulgido mantello aperto sulla soglia del cielo stellato,
brillò come sole splendente. Anche Mercurio si tra-
sformò in pianeta ed astro scintillante. Così ambe-
due, diventati più belli per la trasformazione, risplen-
dettero nel cielo attraverso la costellazione dei Ge-melli (21 Maggio-21 Giugno) loro famigliare, e subi-
to raggiunsero il palazzo di Giove. Questi era in
compagnia della sua sposa Giunone (I, 30).
Siamo dunque all’alba di un giorno fra Maggio e Giugno,
ed il palazzo dove Giove risiede con la sposa Giunone non
si trova nelle regioni settentrionali del cielo, come voleva
Pallottino (vd. p. 136 e n. 2), bensì si trova nelle prime re-
gioni del mattino e della primavera. L’anno etrusco, peral-
tro, cominciava col mese di Giugno (vd. pp. 107; 151; ff.
30; 31; 34). Ciò conferma la nostra identificazione delle tre
caselle di Tinia-Giove nelle regioni orientali del bordo e-
sterno del modello di fegato di Piacenza (vd. p. 108 ss).
Il sommo dio acconsente al matrimonio richiesto dal figlio
Mercurio, ma decide comunque di riunire in concistoro tutti
gli altri dèi per consultarli.
E subito - dice Marziano - lo scriba di Giove ricevet-
te l’ordine di convocare gli abitanti del cielo, ciascu-
no secondo il proprio ordine e nel modo conforme,
specialmente i senatori degli dèi, ch’erano chiamati
Penati (I, 41) ... E senza indugio i soldati di Giove
corsero per le diverse regioni del cielo. Poiché gli
135
dèi risiedevano per lo più singolarmente in luoghi
separati, e quantunque alcuni di loro, come animali,
lungo la scia della Zodiaco fossero titolari di una o
due dimore, usualmente tuttavia si trattenevano in
altre abitazioni (I, 44). Infatti, come si dice, tutto il cielo è distinto in sedici regioni; e si afferma che
nella prima (che è ad Oriente: vd. p. 133), dopo lo
stesso Giove, abitano gli dèi Consenti, i Penati, Sa-
lute, i Lari, i Favori segreti e Notturno; nella seconda
poi, si trova ancora Giove perché egli ha dimora an-
che lì ed in ogni altra regione...; e vi risiede pure
Giunone (I, 45-46)”.
Marziano continua elencando i numerosi dèi che abitano
nella rimanenti zone del cielo. Noi, per non riportare tutto il
testo, che sarebbe noioso, presentiamo nella pagina a
fianco una TAVOLA SINOTTICA che raffronta le sedici re-
gioni abitate dagli dèi di Marziano (I, 45-62) alle sedici ca-
selle abitate dagli dèi nel fegato di Piacenza.
Noi abbiamo numerato già in precedenza le caselle del
Fegato di Piacenza a partire da quella dove abita Giunone:
ciò per molte ragioni fra cui quella che, secondo gli aruspici
etruschi, l’anno cominciava all’inizio dell’estate col mese di
Giugno (v. pp. 107, 151; ff. 30; 31; 34). Marziano invece,
che non fa alcun riferimento a dottrine etrusche, è partito
da quella di Giove perché ai suoi tempi vigeva il calendario
romano che iniziava con la primavera. Perciò, nella nostra
sinossi fra le case divine del fegato di Piacenza e quelle di
Marziano, i numeri di partenza dei due elenchi non coinci-
deranno. Comunque, noi disporremo i due elenchi delle
case divine secondo l’ordine delle stagioni: questo ci con-
sentirà di osservare come le zone celesti di Marziano,
sembrano coincidere, sia pure in modo approssimato e
confuso, con quella che noi abbiamo ritenuto di trovare sul
Fegato di Piacenza.
136
Tavola Sinottica
Come si può riscontrare anche nella TAVOLA SINOTTI-
CA, il palazzo dove Giove risiede in compagnia della mo-
glie Giunone e di altri dèi si trova fra le regioni celesti del
mattino e della primavera, e precisamente nella seconda
137
regione elencata dallo stesso Marziano. Ciò in qualche
modo collima col risultato del nostro studio sul Fegato di
Piacenza dove le case di Giove si trovano nelle prime re-
gioni orientali del cielo.
Però, nell’elenco di Marziano, uno degli dèi che risiede nel-
la zona mattutina si chiama Notturno e porta lo stesso nome
dell’altro dio Notturno che, assieme ai Portinai Terrestri, abita nell’ultima zona della notte. Viceversa, nelle ultime zone
della notte abita Veiove (Giove Bambino) che gli Etruschi in-
vocavano all’alba, e la cui festa a Roma cadeva pochi giorni
prima dell’equinozio primaverile (vd. p. 121; f. 34).
Il fatto è che, nel cerchio del cielo, le ultime zone della
notte toccano le prime del mattino sicché nello sciogliersi
dell’ultimo buio il chiarore dell’alba precede ed annuncia
l’aurora (il sorgere del sole), e nell’aurora viceversa per-
mangono lontane strisce di zone d’ombra. Ciò giustifica sia
la presenza del dio Veiove (Giove Bambino) fra le ultime
zone della notte, sia il ripetersi del nome del dio Notturno,
per scivolamento del testo, nella prima zona di quelle del
mattino197.
***
Marziano Capella, poi, narra che, dopo che tutti gli dèi fu-
rono arrivati alla casa di Giove, il dio “Giano prese posto in
197 M. Pallottino (Deorum Sedes, in Studi in onore di A. Calderini,
Milano 1956), tuttavia, ha ritenuto che il dio chiamato Notturno cor-rispondesse alla divinità che nel fegato di Piacenza è chiamta Cilens, ha poi ritenuto che Giove (Tin), per gli Etruschi, abitasse nella prima delle regioni ch’egli riteneva settentrionali; e da quella regione (di Tins Cilens) ha fatto partire il conto delle sedici caselle del bordo e-sterno fegato. A tal fine ha invocato uno scolio ad Orazio dove Giove è piazzato nelle prima delle regioni settentrionali del cielo. La notizia contenuta nello scolio però non compete alle sedici zone del cielo e-trusco, ma riflette la credenza greca secondo cui l’Olimpo degli dèi, era una gelida montagna delle regioni del nord della Grecia. Pallotti-no, poi, siccome i riscontri fra l’ordine delle zone celesti di Marziano e quelle del fegato di Piacenza non erano effetivi, ha sostenuto che il modello bronzeo del fegato etrusco di Piacenza sia stato una copia errata di un modello originale.
138
piedi sulla soglia, mentre la Fama chiamava ciascuno per
nome quelli che dovevano entrare”(I, 63). All’interno del
“Concistoro del re” si pose Adrastea, poi Cloto, Lachesti e Atropo (scrivane di Giove). “Più in basso del trono del re
sedeva Giunone” che con la destra reggeva il fulmine, e
con la sinistra un timpano rumoroso per terrificanti rim-
bombi (I, 67). A lei stava accanto Vesta; poi furono convo-
cati il Sole e sua Luna; indi i figli di Giove (Marte e Dioni-so). “Vennero poi i Gemelli (Castore e Polluce) che han-
no identico volto, ma il primo risplende nella stella del gior-
no, il secondo in quella della notte”(I, 83). Sul Fegato di
Piacenza essi corrispondono forse alle caselle di Lus (vd.
p. 115; 122; f. 34).
Alla casa di Giove giunsero poi Ercole, Diana, Venere e
Vulcano (I, 84-87).
Infine - narra Marziano - anche la più vivace di tutte
le fanciulle s’agitava con salterina levità e flusso al-
terno, colei che alcuni chiamano Sorte, altri Nemesi ed altri ancora Tyche o Nortia. Costei, poiché porta-
va nel suo più largo grembo gli ornamenti del mondo
intero, li conferiva agli altri distribuendoli con movi-
menti repentini, ad alcuni afferrando i capelli con fare
di bambina, e ad altri percuotendo la testa con una
verga, e pure a quegli stessi coi quali era stata pie-
na di lusinghe feriva il capo con fitti colpi assestati
con le nocche delle dita piegate. Ella, poiché
s’accorse subito che i Fati stavano annotando tutto
quel che accadeva nel concistoro di Giove, corse
verso i loro libri e tavolette, e con una qualche arbi-
traria sicurezza afferrò e lacerò all’improvviso le co-
se ch’aveva visto di modo che alcuni avvenimenti
cambiassero repentinamente posto e sconvolgesse-
ro per così dire l’ordine delle cose. Gli altri eventi in-
vece, quelli che la conoscenza della realtà aveva
139
previsto e divulgato diffusamente, poiché non pote-
va farli diventare imprevisti, li faceva comunque di-
pendere dal proprio operato. Dopo di lei tutti gli altri
dèi vennero in gruppo. Giove allora sedette sul tro-
no, ed ordinò che tutti si sedessero secondo l’ordine
del merito (I, 88-90).
Come si vede, nel concistoro di Giove ci sono anche divi-
nità che non erano state precedentemente elencate. Fra
queste divinità Marziano pone la dispettosa fanciulla che
possiede vari nomi: Sorte (Sors o Sortis), Nemesi, e
soprattutto Tyche o Nortia.
Sorte (Sors o Sortis), in latino, significa destino.
Nemesi è il nome di una divinità greca, figlia di Giove e
della Necessità.
Tyche è pure una divinità greca, simboleggiava la buona
e la cattiva sorte; i Romani la identificarono con Fortuna.
Nortia è per noi la più importante perché era una delle
divinità etrusche della sorte. Il suo nome si ritrova in quello
della cittadina etrusca di Norchia, presso Tarquinia. Nel
suo tempio di Volsini, ogni anno veniva conficcato un chio-
do198. Nella letteratura romana era assimilata a Fortuna. In
un carme latino il poeta Orazio si rivolge alla dea Fortuna
e dice:
Dinanzi a te sempre incede spietata Necessità ser-
rando in mano chiodi di bronzo da piantar nelle travi,
e cunei, e arcigni raffi, e piombo fuso199.
La stessa operazione di fissar chiodi veniva condotta nel-
la cella destra del tempio Capitolino, cioè nella parte dedi-
cata a Minerva200. Questa dea, peraltro, a Bisenzio, in E-
198 Tito Livio, Storia di Roma, VII, 3,7. 199 Orazio, Carmi, I, 35-35. 200 Tito Livio, loc. u. cit.
140
truria, ebbe il soprannome di Nortina201. L’etrusca dea
Nortia, dunque, come già l’etrusca Cilen (vd. pp. 109-110;
123-129; f. 34), aveva stretti rapporti con Minerva, e come
la stessa Cilen era una divinità del destino.
Su uno specchio etrusco (f. 35), tuttavia, l’azione di con-
ficcare i chiodi è compiuta dalla parca Athrpa (gr. Atro-
pos). Il che ci indica che in Etruria la Fortuna (o il caso o il
destino), era personificata con nomi diversi: Cilen, Nortia
o Norchia, ed Athrpa. Per gli Etruschi, comunque, era an-
che una dea della cerchia degli dèi Penati di Giove (vd. p.
123 ss.): nel Fegato di Piacenza, infatti, Cilen si trova an-
che nella stessa casella di Tinia-Giove (vd. p. 123 ss. ; f.
34). La nostra bizzarra fanciulla arbitra dei destini, di cui
parla Marziano, dovrebbe dunque appartenere alla cerchia
di quei Penati che Marziano stesso include assieme a
Giove nella prima regione del cielo.
Come L. Bouke van der Meer ha opportunamente affermato,
con l’interpretazione di Cilens come identica a For-
tuna viene soppressa la teoria di Pallottino e Mag-
giani che il nord sul nastro periferico del fegato di
Piacenza corrisponda alla linea divisoria tra le casel-
le di Cilens e di Tin Cilen202.
201 G. Colonna, “Studi Etruschi”, 1966, 167, n. 3. 202 L. Bouke van der Meer, Cilens, in Secondo Congresso Internazionale Etrusco, Atti, Firenze 26 maggio – 2 giugno 1985, supplemento di “Studi Etruschi”, Giorgio Bretsschneider, Roma, 1989, III, p. 1199-1204.
142
IL COLLEGIO DELL’ORDINE DEI SESSANTA ARUSPICI
Sul luogo della rivelazione di Tagete sorse una scuola di
aruspicina istituzionalizzata poi dai Romani nel Collegio dei
Sessanta Aruspici. Numerose epigrafi contenenti nomi di
aruspici appartenenti al Collegio sono state rinvenute a Ro-
ma, ad Ostia e soprattutto a Tarquina dove il Collegio ave-
va sede (f. 36). Pare che una di queste debba riferirsi addi-
rittura a Tarconte. Nessuna epigrafe è stata trovata in altre
città etrusche.
Fig. 36 – Tarquinia. Lapide elogiativa di un membro del
Collegio dei Sessanta Aruspici.
Ricostruzione di M. Torrelli (Elogia Tarquiniensia).
A Tarquinia, la statua che è sul coperchio d’un sarcofago
che raffigura Laris Pulena che apre fra le mani un libro
d’aruspicina, contiene notizie sulle sua vita (f. 37). Fra le
altre cose, si nomina una scuola (alumna), coi suoi giovani
alunni (huzrnatre) ed una collegialità (alumnathura), della
quale Laris fu decano (parnich). Presentiamo qui un tenta-
tivo di traduzione dell’intero testo etrusco riservandoci di ri-
143
tornarci un una prossima specifica trattazione.
Laris Pulena di Larce figlio, di Larth nipote (LRIS - PULENAS – LARCES-CLAN-LARTHAL–PAPACS), / di Veltur nipote, pronipote di Laris figlio di Pule il greco (VELTHURUS-NEFTS-PRUMS-PULES-LARISAL–CREICES). / Egli questo libro aruspicino compose come Cereale ( AN-CN-ZICH-NETHSRAC-ACASCE–CREALS). A Tarquinia, ● nella città fu lucumone (TARCHNALTH–SPU/RENI-LUCAIRCE), durante la carica (IPA) fissò <nel mese di Agosto> i <giri> del Sole e (RUTHCVA-CATHAS-HERMERI–SLICACHE/M) i sacri ludi del Sole e i Baccanali (APRINTHVALE-LUTHCVA-CATHAS-PACHANAC); ● nella Scuola, l’Erma (ALUMNATHE-HERMU/), <nel tempio> di Crapisce (MELE–CRAPISCES), ed ogni pozzo del tempio di Culsu Leprina presso la sorgente costruì (PUTS-CHIM-CULSL-LEPRNAL-PSL-VARCHTI-CERINE), poi nella Scuola (PUL-ALUMNATH), poi l’Erma nel Collegio della Gioventù del Tempio (PUL-HERMU- HUZRNATRE-PSL); ● nel Centro Federale tenne la carica di <Zilath?> (TENIN [ E -5]-METHLUMT); poi l’Erma (pose) nel Conciliabolo (PUL-/HERMU– THUTUITHI). Addetto all’Altare, soprintendente all’offerta ... (MLUSNA -RANVIS–MLAMNA [-10/12]) ; [... e] fu patrono del Collegio degli Alunni (ALUMNATHURAS - PAR/NICH-AMCE). Fondò <l'ordine dei fedeli di Ermes> ( LESE-HERMERIER).
***
Tacito riferisce che, nell’anno 47 a.C., l’imperatore Claudio,
riferì in Senato attorno al Collegio degli Aruspici, af-
finché quell'antichissima disciplina d'Italia non ve-
nisse in disuso per pigrizia. Spesso nei momenti dif-
ficili per la repubblica gli aruspici erano stati chiama-
ti, per ammonimento dei quali le cerimonie furono
dapprima rinnovate, e poi compiute in maniera più
rituale. I priores degli Etruschi, di loro iniziativa o so-
spinti dal senato romano, avevano custodito quel-
l'arte e l'avevano propagata di famiglia in famiglia.
Questo ora avviene con minor diligenza per colpa
della comune trascuratezza verso le buone arti, e
perché prevalgono superstizioni straniere. E sebbe-
144
ne per ora tutto vada bene, bisogna pur render gra-
zia alla benignità degli dèi, affinché la posterità non
dimentichi i riti delle cerimonie tra le incertezze del
culto. Allora il Senato decretò che i pontefici esami-
nassero quelle cose dell'aruspicina che si dovevano
conservare e consolidare203.
I “priores dell'Etruria” che, nel discorso di Claudio, avevano
“di loro iniziativa” custodito l'arte dell'aruspicina, e “l'ave-
vano propagata di famiglia in famiglia”, ci richiamano alla
mente quella mitica folla (Cicerone), o quei lucumoni (Cen-
sorino), o quei dodici figli dei principes etruschi (Scoliasta
203 Tacito, Annali, XI, 15.
145
di Lucano), che erano convenuti a Tarquinia per ricevere
gli insegnamenti di Tagete (vd. pp. 65-67).
I priores dell'Etruria, dice Claudio, lo avevano fatto di lo-
ro iniziativa, oppure per impulso (impulsu) dei senatori ro-
mani. Possiamo cercare di ricostruire la delibera del Sena-
to Romano. C'è un passo de Le leggi, dove Cicerone dice:
Se tale è l'ordine del Senato, i prodigi e i portenti
siano annunciati agli aruspici; e l'Etruria insegni la
disciplina ai principi204.
Ne La Divinazione c'è, poi, un passo dove Cicerone tor-
na sull’argomento, especifica:
A quel tempo, presso i nostri padri, quando lo Stato
fioriva, il Senato giustamente decretò che, tra i figli
dei prìncipi, sessanta (cod. sex) presi dai singoli po-
poli dell'Etruria fossero istruiti nella Disciplina, affin-
ché un'arte così importante, a causa della povertà di
chi la praticava, non scadesse ridotta al livello del
pagamento e del guadagno205.
204 Cicerone, Le leggi, II, 9, 21: “Prodigia, portenta ad Etruscos haru-spices, si senatus iussit deferunto Etruriaque principes disciplinam doceto”. Che non si tratti di principes romani, ma etruschi, si evince dal confronto con il discorso di Claudio, dove si parla di “priores dell'Etruria”, e con il mito di Tagete, dove si parla di dodici figli di principes etruschi. Inoltre, dall'elenco fatto da Thulin, e integrato da M. Torelli, comprendente tutti gli aruspici attestati nelle fonti letterarie ed epigrafiche, figura che il luogo di origine dei personaggi è soltanto l'Etruria, almeno fino a tutto il primo secolo dopo Cristo.
205 Cicerone, La divinazione, I, 92: ”Bene apud maiores nostros senatus tum, cum florebat imperium, decrevit ut de principum filiis sexaginta (cod. sex) [ex] singulis Etruriae populis in disciplinam tra-deretur, ne ars tanta propter tenuitatem hominum a religionis auctoritate abduceretur, ad mercedem atque quaestum”. Per analogia con il numero dei membri del Collegio dei Sessanta Aruspici, archeologicamente documentato a Tarquinia, “sex” va corretto in “sexaginta ex”.
146
La notizia è ripetuta con qualche variante da Valerio
Massimo (I sec. a.C. – I d.C.):
A quel tempo, poiché lo Stato era fiorente e ricchis-
simo, dodici (cod. decem) figli dei prìncipi, con de-
creto del Senato, furono presi fra i singoli popoli del-
l'Etruria per imparare la disciplina delle cose sacre206.
Si tenga presente la tradizione, seguita anche dallo sco-
liaste di Lucano, secondo cui Tagete “dettò la scienza del-
l'aruspicina ai dodici figli dei prìncipi” (vd. pp. 65-67).
Dodici era il numero dei singoli popoli dell'Etruria.
Il luogo del Collegio dei Sessanta Aruspici era a Tarqui-
nia, come indica il mito, e come i ritrovamenti archeologici
hanno confermato. Nella città sono stati ritrovati numerosi
frammenti dei fasti del Collegio a cominciare da Tarconte e
fino ad almeno due aruspici di nome Tarquizio Prisco207.
I S E C O L I E T R U S C H I
Il bizantino Giovanni Zonara, che nella sua epoca poteva
ancora disporre di antiche fonti, scrisse:
La storia degli Etruschi fu composta da un uomo
sapiente (Tarconte / Tagete?). Egli disse infatti che
Dio creò tutte le cose e diede loro 12000 anni di vi-
ta. Nel primo millennio fece il cielo e la terra, nel se-
condo fece questo firmamento visibile chiamato cie-
lo, nel terzo il mare e tutte le acque della terra, nel
quarto i grandi lumi: il sole, la luna e le stelle, nel
206 Valerio Massimo, I, 1: “Ut florentissima tum et opulentissima civi-tate duodecim (cod. decem) principum filii senatus consulto singulis Etruriae populis percipiendae sacrorum disciplinae gratia traderentur”. 207 M. Torelli, Tarquitius Priscus aruspex di Tiberio, in Archeologia in Etruria Meridionale, a cura di M. Pandolfini, Roma, 2006, p. 249, ss.
147
quinto tutta l'anima degli uccelli e dei rettili, e i qua-
drupedi dell'aria, della terra e delle acque; nel sesto
l'uomo. E' dunque chiaro che i primi 6000 anni siano
passati prima della formazione dell'uomo, e che il
genere umano deve durare per i rimanenti 6000 an-
ni, in modo che tutto il tempo complessivamente ne
duri 12000.
Nell' ambito degli ultimi seimila anni, ad ogni nazione era
stato assegnato un periodo storico di dieci secoli, sintoniz-
zato con il volere degli Dei.
Da Varrone e Censorino sappiamo che
i Libri Fatali degli Etruschi delimitavano La vita u-
mana con dodici ebdomadi (cioè con 12 volte sette
anni) [...]. E fino a settanta anni si poteva evitare il
destino con mezzi religiosi; però dal settantesimo
anno in poi non si poteva chiedere né ottenere nulla
dagli Dei”208.
Quanto alla durata del propria nazione, sintonizzata con il
volere divino, gli Etruschi elaborarono una partizione tem-
porale della storia secondo cui l’Etruria aveva avuto inizio
con la venuta di Enea da Troia o con la fondazione della
prima città (Tarquinia?). Censorino spiegava che:
fra coloro che sono nati nello stesso giorno in cui
vanno fondate le città o gli Stati, colui che vive più a
lungo segna la lunghezza di un secolo con il giorno
della sua morte.
Poi, fra coloro che sono vivi in quel giorno,
208 Censorino, De die natali, II, 14,6.
148
di nuovo la morte di colui che abbia vissuto più a
lungo, determina la fine del secondo secolo, e così
via [ … ]. Perciò, nelle Storie Etrusche, che furono
composte durante l'ottavo secolo, è scritto dunque
che i primi quattro secoli furono ognuno di cento an-
ni, il quinto di centoventitre, il sesto di centodiciotto,
il settimo altrettanto, l'ottavo era in corso proprio a
quel tempo. Rimanevano ancora il nono e il decimo,
dopodiché sarebbe stata la fine del Nome Etrusco”209.
Plutarco, infine, diceva:
Quando poi, un secolo raggiunge la fine, e ne inizia
un altro, dalla terra o dal cielo si muove qualche se-
gno miracoloso210.
L'ottavo secolo ebbe fine nel 91 a. C. in connessione non
solo con le calamità e con i disordini civili profetizzati dalla
ninfa Vegoia, perché un giorno gli uomini avrebbero perdu-
to il rispetto della proprietà privata, ma pure con l'assorbi-
mento nella cittadinanza romana delle Città Stato etrusche
che fino a quel momento avevano goduto di una sia pur
formale autonomia politica. Il passaggio dall'ottavo al nono
secolo fu annunziato da un “aspro e lamentevole” suono di
tromba che si udì a cielo sereno e che spaventò tutti211.
Il nono secolo ebbe fine, invece, nel 44 a.C., con la morte
di Cesare, annunciata da funesti presagi comunicati all'im-
peratore da Spurinna, suo aruspice personale, e dal pas-
saggio di una cometa.
Cominciava intanto l'ultimo secolo della nazione etrusca,
e gli dèi avevano ordinato che la cosa dovesse restare se-
greta per gli stranieri, pena la morte del delatore. Ma l'aru-
209 Censorino, op. cit., XVII, 5,6. 210 Plutarco, Vita di Silla, 456. 211 Suida, Silla, s.v.
149
spice Vulcanius, nonostante conoscesse il divieto divino,
ne annunciò pubblicamente l'avvento durante i funerali di
Cesare; così in quello stesso momento egli fu colto da ma-
lore e morì. Il fatto fu narrato dall’imperatore Augusto nelle
memorie della sua vita212.
Pochi anni dopo, Virgilio, che certamente era al corrente
dei fatti avvenuti a Roma alla morte di Cesare, e della
chiusura imminente dei secoli etruschi, dichiarava che era
giunta l'ultima età dell'Oracolo Cumano e che di nuovo
stava per nascere il grande ordine dei secoli213.
Purtroppo, noi non sappiamo quando finì l'ultimo secolo.
Convenzionalmente se ne fissa la data nel 54 d.C. in occa-
sione della morte dell'imperatore etruscofilo Claudio, con-
comitante a prodigi e apparizioni di comete.
Con un po’ di fantasia, alcuni immaginano i sacerdoti e-
truschi che, riuniti in Concilio, decretano la fine della pro-
pria nazione, e bruciano i Libri Tagetici e le Tusciae Histo-
riae. C’è chi con questo suicidio culturale e politico giustifi-
ca la scomparsa delle testimonianze dirette della storia
degli Etruschi e della loro lingua. Il tutto sarebbe poi stato
aggravato dal nazionalismo dei Romani vincitori che a-
vrebbero sistematicamente ignorato od occultato o distrut-
to le più significative manifestazioni di quella civiltà.
Certamente, la concezione della ineluttabilità del destino
storico e personale dovette influenzare in senso negativo il
comportamento degli Etruschi negli ultimi secoli della loro
storia, e favorire la scomparsa totale della loro lingua e del-
la loro nazione. Ne sono testimonianza le cupe rappresen-
tazioni infernali affrescate sulle pareti delle tombe.
Dalla loro parte, i Romani non furono molto rispettosi ver-
so la civiltà degli Etruschi come invece lo furono verso
212 In Servio, All’Ecogla IX di Virgilio, 47; All’Eneide di Virgilio, VIII, 526. 213 Virgilio, Ecogla IV. 213 in Servio, All’Ecogla IX di Virgilio, v. 47; All’Eneide di Virgilio, VIII, 526.
150
quella dei Greci. Nessuno scrittore latino o greco si prese
la briga di comporre un trattato di lingua etrusca. Il greco
Dionisio di Alicarnasso, che dedicò una parte della sua o-
pera Antichità Romane alla storia dei popoli italici prima di
Roma, trattò degli Etruschi solo marginalmente ed in chia-
ve negativa giustificandosi con il rimando ad un suo futuro
lavoro che però mai scrisse.
Virgilio, poeta mantovano che si vantava di sentirsi etru-
sco, dovette ricorrere a numerosi espedienti di copertura
per poter presentare ai Romani, nell'Eneide, una versione
delle loro origini che li ricollegava alla etrusca città di Corito
(Tarquinia). La qual cosa poi non piacque ugualmente né
ai Romani né ai Greci, tanto é vero che lasciarono in om-
bra questo aspetto dell'opera del poeta.
Oggi, comunque, l’analisi, degli aspetti etruscofili di alcuni
passi virgiliani è proficua di spunti per aggiunger qualcosa
alle nostre conoscenze sugli Etruschi.
L'imperatore Claudio, poi, scrisse in greco un trattato di
storia etrusca; ma il suo lavoro fu oggetto di scherno da
parte dei Romani, e non ci e stato tramandato.
Tuttavia, una delle cause, se non la principale, dell’oblio
in cui il mondo antico lasciò scivolare gli Etruschi dovette
essere la componente arcaica della loro pur raffinata civil-
tà. Essi rimasero sempre più isolati in un mondo dominato
dalla mentalità greco-latina; e, con la loro arcaica religiosi-
tà, infastidivano anche le nuove generazioni di Cristiani
che si affacciavano alla storia. Scrittori etruschi come Aulo
Cecina e Tarquizio Prisco avevano ben trattato, in opere
scritte in lingua latina, la scienza aruspicina e la storia degli
Etruschi, ma i monaci cristiani non ce le hanno tramandate.
151
C A P I T O L O T E R Z O
I L I B R I T A G E T I C I
1. I LIBRI TAGETICI. Il bizantino Giovanni Lido (VI sec.d.C.),
nell’opera su I Prodigi, sostiene d’aver letto sia in etrusco
che in latino quei Libri Tagetigi che si dicevano scritti in
forma poetica da Tarconte su dettatura di Tagete stesso.
Egli narra:
Tarconte era un aruspice, com’ egli stesso dice nel
libro, uno di quelli istruiti dal lidio Tirreno […]. Costui
dice che un tempo, mentre lavorava la terra [...], da
un solco uscì fuori un bambino [...]. Questo bambino
era Tagete [...]. Tarconte dunque, sollevatolo e po-
stolo nei luoghi sacri, pensò di imparare da lui qual-
cosa sulle cose segrete. Ottenuto poi ciò che aveva
chiesto, compose un libro delle cose trattate, nel
quale egli interroga nella lingua comune degli Itali, e
Tagete risponde attenendosi alle lettere antiche e
poco comprensibili a noi. Nondimeno cercherò, per
quanto possibile di riferirvi quelle cose facendo uso
da un lato delle informazioni (cioè di quel ch’era
contenuto nel testo etrusco) e dall’altra di coloro che
le tradussero in Latino, cioè di Capitone, di Fon-teio, di Vicellio, di Labeone, di Figulo e del natura-
lista Plinio214.
Coerentemente, Lido, nel proseguo della sua opera, tra-
duce alcuni testi “Tagetici” dal Latino in Greco. I testi latini
non esistono più, ma esistono ancora alcune delle tradu-
214 Giovanni Lido, De ostentis. Proemio, 3, Teubneri, Lipsia, 1887.
152
zioni greche di Giovanni Lido; e, poiché queste non sono
mai state riportate nella lingua italiana, lo abbiamo fatto noi.
2. IL CALENDARIO BRONTOSCOPICO (NIGIDIO FIGULO)215. Da A. Palmucci, I libri Tageti – Il Calendario Brontoscopico, “Bollettino della società tarquiniense d’arte e storia”, (34), 2005, pp. 19-40; Tar-quinia e i Libri Tagetici, “Nuova Archeologia”, Sett.-Ott. 2007, inserto.
Giovanni Lido: Traduzione letterale del Calendario
Brontoscopico locale, basato sul corso della Luna, se-
condo il romano FIGULO, tratto dai “Libri Tagetici”.
Se è vero che gli antichi in ogni scienza augurale han pre-
so a guida la Luna poiché è da lei che dipendono i segni
tratti dai tuoni e dai fulmini, a ragione dovremo parimenti
regolarci sulla posizione della Luna. Perciò partendo dal
Cancro e dal novilunio, secondo i mesi lunari, noi formu-
liamo l’esame giornaliero dei temporali. E’ a seguito di un
simile esame che i Tusci hanno tramandato le osservazioni
locali riguardanti le regioni in cui hanno origine i tuoni.
GIUGNO
1- Se tuonerà si avranno messi abbondanti fuorché per
l’orzo. Pericolose malattie prenderanno l’uomo.
2- Se tuona, le madri partoriranno con meno dolore; il be-
stiame morrà; ci sarà abbondanza di pesci.
3- Dopo il tuono ci sarà un caldo molto secco, così non so-
lo i frutti secchi ma pure i molli diverranno del tutto tostati
dalla siccità.
4- Se tuona, l’aria sarà umida e piovosa tanto che per
l’umidità le messi marciranno e andranno perdute.
215
Giovanni Lido, De ostentis. Teubneri, Lipsia, 1887pp. 62-68.
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5- Se tuona, sarà segno infausto per la campagna. Coloro
che governano i borghi e le città minori (polichne) avranno
turbamenti.
6- Se tuona, una nociva bestiolina nascerà all’interno delle
messi mature.
7- Se tuona, verranno malattie che non uccideranno, tutta-
via, molte persone. I frutti secchi andranno bene; i freschi pe-
rò si seccheranno.
8- Se tuona, preannuncia forte pioggia e morte di frumento.
9- Se tuona, le greggi periranno per l’incursione dei lupi.
10- Se tuona, ci saranno frequenti morti, ma anche fertilità.
11- Se tuona, avremo calori inoffensivi. Abbondanza per lo Stato.
12- Se tuona, accadranno le stesse cose del precedente giorno.
13- Se tuona, è minaccia rovina d’un uomo molto potente.
14- Se tuona, l’aria sarà caldissima, tuttavia si avrà un rac-
colto molto abbondante, ed anche grande abbondanza di
pesci fluviali. Nondimeno i corpi saranno presi dalla debolezza.
15- Se tuona, i volatili saranno fortemente infastiditi per
l’estate, e i pesci morranno.
16- Se tuona, questo è non solo il presagio della diminu-
zione del raccolto, ma anche quello della guerra. Un uomo
molto fortunato scomparirà.
17- Se tuona, si avranno calori estivi e abbondanza di ratti,
topi e locuste; ma l’anno apporterà al popolo ricchezza, e
anche omicidi.
18- Se tuona, si presagisce una disastrosa penuria di frutti.
19- Se tuona, gli animali nocivi ai frutti moriranno.
20- Se tuona, si presagiscono dissenzioni nel popolo.
21- Se tuona, è presagio di penuria di vino, ma di abbon-
danza d’altre produzioni e d’una moltitudine di pesci.
22- Se tuona, il caldo sarà disastroso.
23- Se tuona, è annuncio di gioia, fine dei mali e cessazio-
ne di malattie.
24- Se tuona, promette abbondanza di beni.
25- Se tuona, guerre e mali saranno innumerevoli.
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26- Se tuona, l’inverno nuocerà alle messi.
27- Se tuona, ci sarà un pericolo militare per chi detiene il
potere supremo.
28- Se tuona, si avrà ricchezza di messi.
29- Se tuona, le cose della c i t t à r e g i n a (tes ba-
silìdos poleos) miglioreranno.
30- Se tuona, tra poco tempo si avranno molti morti.
LUGLIO
1- Se tuona, per la luna nuova, ci sarà abbondanza, ma
flagello per il bestiame.
2- Se tuona, ci sarà del buono in autunno.
3- Se tuona, annuncia un inverno duro.
4- Se tuona, si avranno quantità di perturbazioni atmosferi-
che portatrici di penuria.
5- Se tuona, si avrà un raccolto abbondante, e la caduta
d’un arconte eccellente (archontos agatou).
6- Se tuona, è un presagio di malattia mortale per gli schiavi.
7- Se tuona, la pioggia nocerà alle messi.
8- Se tuona, vuol dire pace per le Comunità (tois coinois),
ma la malattia e la tosse secca prenderanno le greggi.
9- Se tuona, annuncia presenza degli dèi immortali e in-
cremento di molti beni.
10- Se tuona, le acque fluviali saranno salubri.
11- Se tuona, significa caldo, grandi piogge e pure una
scarsità di frumento.
12- Se tuona, ci sarà durante l’estate un freddo inatteso
che sarà causa di perdita di frutti.
13- Se tuona, indica la presenza di rettili molto nocivi.
14- Se tuona vuol dire che il potere di tutti (panton dyna-
mis) toccherà ad un sol uomo molto iniquo per gli affa-ri dello Stato.
15- Se tuona, ci saranno dissensi nel popolo, ed anche
penuria di frumento.
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16- Se tuona, il re dell’Oriente (o anatoles basileùs) subi-
rà la guerra e la malattia a seguito del calore secco.
17- Se tuona, annuncia la successione di un grande ar-conte (megàlou archontos).
18- Se tuona, significa cattivo raccolto dovuto ad una piog-
gia continua.
19- Se tuona, annuncia guerra e strage d’uomini potenti (dynaton); si avranno molti frutti secchi.
20- Se tuona, presagisce caldo malsano.
21- Se tuona, si avranno dissensi fra i sudditi, ma non a lungo.
22- Se tuona, significa cose buone per le faccende pubbli-
che, e mal di testa per gli uomini.
23- Se tuona, avranno fine i dissensi nel popolo.
24- Se tuona, significa sommo infortunio per un sommo uomo.
25- Se tuona, è terribile per la giovinezza ed i raccolti: è
tempo pure di malattie.
26- Se tuona, dopo tanta abbondanza ci sarà scarsità.
27- Se tuona, presagisce malattie eruttive del corpo.
28- Se tuona, ci sarà penuria d’acqua, e grande abbon-
danza di rettili nocivi.
29- Se tuona, indica prosperità.
30- Se tuona, certi uomini, spinti dalle furie, si abbandone-
ranno a crimini atroci.
AGOSTO
1- Se tuona, le cose dello Stato saranno un po’ migliori,
regnerà l’abbondanza.
2- Se tuona, indica insieme malattie e penuria di cibo.
3- Se tuona, annuncia al popolo processi e assemblee.
4- Se tuona, la fame vesserà uomini ed animali.
5- Se tuona, annuncia che le donne saranno più assennate.
6- Se tuona, ci sarà abbondanza di miele, ma penuria di
acqua d’altri alimenti.
7- Se tuona, significa vènti truci e malattie.
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8- Se tuona, presagisce malattie per gli animali quadrupe-
di, ma poco pericolose.
9- Se tuona, presagisce buona salute a favore della mag-
gior parte degli uomini.
10- Se tuona, indica dolori e crimini per la moltitudine.
11- Se tuona, si avrà un’annata abbondante, ma per gli
uomini ci sarà una dannosa invasione di rettili.
12- Se tuona, ci sarà abbondanza di foraggio e di ghiande,
però mali per i bambini.
13- Se tuona, la sofferenza invaderà i corpi sia degli uomi-
ni che degli animali.
14- Se tuona, presagisce guerra per le Comunità (tois
coinois), e abbondanza per le messi.
15- Se tuona, le cose verteranno al peggio.
16- Se tuona, promette una profonda pace.
17- Se tuona, fra gli uomini, i perversi soffriranno.
18- Se tuona, minaccia guerra interna (polemon emfylion).
19- Se tuona,, donne e schiavi oseranno stragi. 20- Se tuona, minaccia morte per i buoi, le greggi e gli af-fari pubblici (tais pràgmasin).
21- Se tuona, annuncia al popolo sia abbondanza che dissensi.
22- Se tuona, gli affari andranno abbastanza bene durante
tutto l’intero anno.
23- Se tuona, indica caduta di fulmini, e minaccia di morte.
24- Se tuona, minaccia morte per giovani nobili.
25- Se tuona, predice inverno freddo e penuria di frutti.
26- Se tuona, significa guerra.
27- Se tuona, minaccia insieme guerra e inganni.
28- Se tuona, significa abbondante raccolto e morte di buoi.
29- Se tuona, dice che non avverrà nessun cambiamento.
30- Se tuona, minaccia malattie per la città (te polei) sulla
quale erompe il tuono.
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SETTEMBRE 1. Se tuona, annuncia fertilità e gioia.
2. Se tuona, ci saranno dissensi nel popolo.
3- Se tuona, annuncia pioggia e guerra.
4- Se tuona, presagisce rovina per un uomo potente, ed
anche preparativi di guerra.
5- Se tuona, annuncia abbondanza d’orzo, ma molto meno
di frumento.
6- Se tuona, le donne avranno un potere più grande di quel che loro conviene.
7- Se tuona, minaccia malattia e anche strage di schiavi. 8- Se tuona, rivela che nello Stato i più potenti meditano
cose subdole, ma che non entreranno nella futura gestione
delle cose pubbliche.
9- Se tuona, minaccia che soffierà un vento malsano.
10- Se tuona, tra le regioni sulle quali il tuono eromperà, e
su altre, accadranno motivati dissidi.
11- Se tuona, i clienti dei nobili tenteranno qualcosa di
nuovo nelle Comunità (en tois coinois).
12- Se tuona, predice che il tempo delle messi sarà piovo-
so, e che ne seguirà fame.
13- Se tuona, minaccia grave fame.
14- Se tuona, minaccia malattie.
15- Se tuona, annuncia grandi piogge, ma tuttavia prosperità.
16- Se tuona, annuncia grandi ma sterili piante.
17- Se tuona, minaccia penuria di viveri necessari.
18- Se tuona, significa insieme fame e guerra.
19- Se tuona, gli alberi produrranno frutti, ma si avranno
malattie e sedizioni popolari.
20- Se tuona, minaccia morte di un uomo eminente, e guerra.
21- Se tuona, minaccia per il popolo disastri e malattie.
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22- Se tuona, significa abbondanza, ma anche un inverno
grave e piovoso.
23- Se tuona, predice mancanza di cose necessarie alla vi-
ta durante l’inverno dell’anno in corso.
24- Se tuona, presagisce mancanza d’acqua. Ci sarà negli
alberi abbondanza di bacche, ma alla fine dell’autunno le
tempeste le distruggeranno.
25- Se tuona, a seguito dei disordini dello Stato, un tiran-no salirà al potere. Egli perirà, ma i potenti andranno incontro
a mali intollerabili.
26- Se tuona, il cattivo principe (dynastes= dominatore,
signore, principe) perirà per volontà di Dio.
27- Se tuona, quelli che hanno il potere (dynatoi) si divi-
deranno e si distruggeranno vicendevolmente.
28- Se tuona, ci saranno prodigi annunzianti gravi eventi, e
bisogna stare attenti che il fuoco non cada in qualche luogo.
29- Se tuona, minaccia siccità nociva.
30- Se tuona, le Comunità (ta coinà) passeranno da una
situazione meno buona ad una migliore.
OTTOBRE 1- Se tuona, minaccia che un tetro tiranno prenderà il
comando dello Stato.
2- Se tuona, ci sarà abbondanza e distruzione di topi terrestri.
3- Se tuona, annuncia tempeste e turbini che distrugge-
ranno gli alberi; e ciò sarà indizio di grandi tempeste per le
Comunità (tois coinois).
4- Se tuona,, gli inferiori prenderanno il posto dei supe-riori, e la temperatura dell’aria sarà più salubre.
5- Se tuona, ci sarà incremento di tutto ciò che necessita
alla vita, fuorché di frumento.
6- Se tuona, promette futura abbondanza, ma raccolto
meno gioioso, ed autunno pressoché senza frutti.
7- Se tuona, ci saranno molti legumi, però meno vino.
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8- Se tuona, c’è d’aspettarsi terremoti con muggiti. 9- Se tuona, presagisce morte per le fiere.
10- Se tuona, annuncia la rovina d’un uomo stimato.
11- Se tuona, predice cambiamenti di vènti buoni alle piante.
12- Se tuona, si avrà abbondanza, ma si avranno fulmini.
13- Se tuona, si avranno commerci vantaggiosi e soprattut-
to abbondanza; il dominatore importuno della repubbli-ca non durerà a lungo.
14- Se tuona, minaccia sia guerra che morte di greggi.
15- Se tuona, si avrà penuria, vento secco e bruciante che
soffia sulle messi.
16- Se tuona, gli uomini saranno debilitati a tal punto che
saranno pressoché irriconoscibili.
17- Se tuona, felicità per un uomo opulento, e per le per-
sone d’alto rango.
18- Se tuona, indica importazione d’abbondante raccolto.
19- Se tuona, presagisce la caduta (ptosis) d’un principe (dynastes = dominatore, principe) o l’espulsione d’un re (basileùs). E così discordie; ma abbondanza per il popolo.
20- Se tuona, presagisce insolite piaghe; e, per la moltitu-
dine una grande miseria dovuta alla discordia.
21- Se tuona, vi saranno malattie che portano la tosse e le
decomposizioni nel petto.
22- Se tuona, indica al popolo malattie e varie sofferenze.
23- Se tuona, contro ogni speranza il popolo sarà felice.
24- Se tuona, per la dissensione dei prìncipi il popolo di-
venterà superiore.
25- Se tuona, si avrà un terribile spavento dovuto a calamità.
26- Se tuona, le belve aumenteranno, ma avranno fame.
27- Se tuona, è indizio di piogge frequenti.
28- Se tuona, ci sarà scarsità di viveri.
29- Se tuona, si avrà un’annata di malattie.
30- Se tuona, annunzia abbondanza, diminuzione di nemi-
ci, e gioia per la repubblica.
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NOVEMBRE 1- Se tuona, annucia discordie per la città (te polei).
2- Se tuona, predice abbondanza.
3- Se tuona, accadranno avvenimenti per i quali gli infe-riori supereranno i superiori. 4- Se tuona, il frumento sarà migliore.
5- Se tuona, annuncia turbe per la repubblica, e malattie
per uomini e bestie.
6- Se tuona, i vermi noceranno al frumento.
7- Se tuona, minaccia malattie per uomini e animali che vi-
vono in occidente.
8- Se tuona, bisogna mangiar molto per poter evitare le
imminenti malattie.
9- Se tuona, alcuni plebei subiranno il supplizio del pa-lo. Si avrà un raccolto abbondante.
10- Se tuona, finiranno le inopportune dispute tra i prìn-cipi (tois cratousin). Un vento bruciante vesserà gli alberi.
11- Se tuona, bisogna ringraziare gli dèi immortali perché
spirerà il vento proveniente da oriente.
12- Se tuona, molte cose appariranno agli uomini nel sonno.
13- Se tuona, il tempo sarà favorevole ai guadagni, ma
non alla salute: si avranno malanni nati da vermi intestinali.
14- Se tuona, qualche volta i rettili noceranno agli uomini.
15- Se tuona, vi sarà grande quantità di pesci, ma la peste
colpirà gli animali acquatici; la condizione della repubblica
diverrà migliore.
16- Se tuona, si avrà una generazione di locuste e di topi
di campagna. Pericolo per il re (to basilei). Ci sarà abbon-
danza di frumento.
17- Se tuona, annuncia abbondate pascolo per le greggi.
18- Se tuona, si annuncia guerra ed affanno per gli abitan-ti delle città.
19- Se tuona, è prosperità per le donne.
20- Se tuona, annuncia una fame non lunga.
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21- Se tuona, i topi moriranno, e si avrà abbondanza non
solo di frumento, ma di foraggio e di pesce.
22- Se tuona, annunzia un’annata felice.
23- Se tuona, soffierà un vento malsano.
24- Se tuona, un castello utile allo Stato passerà ai nemici.
25- Se tuona, predice una guerra pericolosa e preannuncia
un vento malsano.
26- Se tuona, annuncia guerra interna (pòlemon emfylion)
e molti morti. Si avranno piogge nocive.
27- Se tuona, si presagiscono le stesse cose.
28- Se tuona, molti dell’ Assemblea (tes syncléton) se ne
andranno per scoraggiamento.
29- Se tuona, i peggiori agiranno meglio; i frutti attesi morranno.
30- Se tuona, gli uomini vivranno più religiosamente. Nes-
suno stupore dunque se i cattivi diverranno moderati.
DICEMBRE 1- Se tuona, annuncia concordia e un’annata felice.
2- Se tuona,, copia di pesci e soprattutto di frutti.
3- Se tuona, per la scarsità di pesci gli uomini abuseranno
delle greggi.
4- Se tuona, l’inverno sarà duro, ma ci sarà abbondanza.
5- Se tuona, minaccia malattie di scabbia.
6- Se tuona, nel sonno gli uomini avranno sogni divini che
avranno esiti calamitosi.
7- Se tuona, sono annunciate a tutti le stesse cose.
8- Se tuona, indica malattie veementi, abbondanza di frutti,
e perdita di greggi.
9- Se tuona, sarà la rovina d’un uomo famoso.
10- Se tuona, annuncia morte per malattie agli uomini. I
pesci aumenteranno.
11- Se tuona, il solstizio estivo sarà caldo, e si importeran-
no molte cose.
12- Se tuona, presagisce malattie dovute al flusso del ventre.
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13- Se tuona, annuncia abbondanza, ma anche malattie.
14- Se tuona, annuncia sia guerra civile che abbondanza.
15- Se tuona, molti partiranno per la guerra; ma saranno
pochi quelli che torneranno.
16- Se tuona, annuncia una cosa nuova nello Stato.
17- Se tuona, annuncia la nascita di piccole locuste; si a-
vrà tuttavia un buon raccolto.
18- Se tuona, ci sarà una terribile guerra.
19- Se tuona, indica l’intensità della guerra.
20- Se tuona, predice penuria di cose necessarie.
21- Se tuona, minaccia vento caldo malsano a respirare.
22- Se tuona, l’estate sarà torrida e molto feconda.
23- Se tuona, predice agli uomini malattie non pericolose.
24- Se tuona, predice guerra civile; morte per animali silvestri.
25- Se tuona, è partenza di milizie per la guerra, ma la co-
sa sarà ben gestita.
26- Se tuona, minaccia malattia per i servienti.
27- Se tuona, il re (o baliseùs) sarà utile a molte cose.
28- Se tuona,, generazione di locuste.
29- Se tuona, annuncia salutare magrezza per i corpi.
30- Se tuona, predice ribellione contro il regno (catà tes
basileìas), e appunto guerra.
GENNAIO 1- Se tuona, soffierà un vento rapido ma innocuo.
2- Se tuona, ci sarà una guerra inaspettata.
3- Se tuona, per i belligeranti ci sarà un danno dopo la vit-
toria; ma si avrà abbondanza.
4- Se tuona, il popolo sarà d’accordo verso la pace.
5- Se tuona, significa salute per il bestiame.
6- Se tuona, presagisce malattie che portano la tosse, e
annuncia abbondanza di pesci e frutti.
7- Se tuona, annuncia guerra servile (doulamachìa) e
numerose malattie.
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8- Se tuona, il dominatore (signore, principe) dello Stato
(o dynastes tes politeias) correrà pericoli da parte del popolo.
9- Se tuona, il re dell’ Oriente (o anatoles basileùs) af-
fronterà un pericolo.
10- Se tuona, annunzia violento movimento di vento, buon
raccolto di frumento, e sterilità di altre messi.
11- Se tuona, indica una fame vessante anche le bestie.
12- Se tuona, gli uomini soffriranno agli occhi; si avrà ab-
bondante quantità di viveri e pesci.
13- Se tuona, minaccia malattie.
14- Se tuona, minaccia penuria, generazione di topi, e
morte di quadrupedi.
15- Se tuona, preannuncia rivolta di schiavi, loro puni-zione, e abbondanza di frutti.
16- Se tuona, indica che il popolo sarà vessato dal re (ypò tou basiléos).
17- Se tuona, minaccia malattie senza pericolo.
18- Se tuona, predice cose che spaventeranno il popolo.
19- Se tuona, il re (o baliseùs) vincerà, e lo stesso popo-lo otterrà una posizione più elevata. 20- Se tuona, ci sarà abbondanza importata da fuori; i cor-
pi saranno vessati dal morbo della tosse.
21- Se tuona, il re (o basileùs), dopo aver teso molte in-sidie, diverrà egli stesso oggetto di complotti. 22- Se tuona, ci sarà abbondanza, ma pure molti topi e cervi.
23- Se tuona, significa buon ordine per la città (te polei).
24- Se tuona, annuncia abbondanza e insieme malattia.
25- Se tuona, ci sarà una guerra servile (doulomachya).
26- Se tuona, molti saranno trucidati da colui che ha il potere (pros tou cratountos), ma poi sarà il suo turno.
27- Se tuona, annuncia malattie senza pericolo.
28- Se tuona, avremo abbondanza di pesci marini; però le
greggi moriranno.
29- Se tuona, condizioni atmosferiche malsane e mortali.
30- Se tuona, minaccia numerose morti.
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FEBBRAIO 1- Se tuona, minaccia guerra e rovina di uomini ricchi.
2- Se tuona, predice meno grano, più orzo, aumento di be-
stie selvagge e diminuzione d’uomini.
3- Se tuona, avverrà un dissidio interno (stasis emfilios).
4- Se tuona, saranno sconvolti non solo l’aspetto, ma an-
che la mente degli uomini.
5- Se tuona, ci sarà ricchezza di messi, ma morte di uomini.
6- Se tuona, morte di frutti secchi, soprattutto d’orzo.
7- Se tuona, minaccia per gli uomini disastri non lunghi.
8- Se tuona, avverrà un grande avvenimento per lo Stato (te politeia). Nasceranno pesci; bestie selvagge periranno.
9- Se tuona, ci sarà poco orzo.
10- Se tuona, le bestie selvagge noceranno agli uomini.
11- Se tuona, le donne partoriranno felicemente.
12- Se tuona, predice morti numerose; vènti inopportuni.
13- Se tuona, ci sarà abbondanza, si avrà tuttavia un dis-sidio politico (stasis politiké).
14- Se tuona, minaccia perdita di fanciulli ed anche funesta
invasione di rettili.
15- Se tuona, l’aria sarà pestilente; ci sarà una generazio-
ne di bestie selvagge e di rettili.
16- Se tuona, cose fauste per il popolo, infauste per i po-tenti (dynatois) a causa di dissensi.
17- Se tuona, l’estate sarà molto feconda.
18- Se tuona, grave vento, e pustule per i corpi.
19- Se tuona, ci sarà moltitudine di rettili e di lombrichi.
20- Se tuona, annuncia aria pura.
21- Se tuona, annuncia abbondanza.
22- Se tuona, aria malsana, ma non mortale.
23- Se tuona, predice deformità agli uomini; morte agli uccelli.
24- Se tuona, preannuncia salute agli uomini, e morte ai
pesci ed ai rettili.
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25- Se tuona, vuol dire momento negativo per le cose vo-
luttuarie; infatti ci saranno guerre e gravi tempeste.
26- Se tuona, presagisce caldo, mancanza d’acqua, ed
anche eruzioni cutanee.
27- Se tuona, al popolo annuncia dissidio.
28- Se tuona, predice che ci sarà abbondanza, ma pure
che soffierà vento malsano.
29- Se tuona, annuncia guerra e abbondanza.
30- Se tuona, significa insieme cose buone e lunghi dis-
sensi per il popolo.
MARZO
1- Se tuona, per tutto l’anno si avranno risse e divisioni.
2- Se tuona, le precedenti predizioni cesseranno.
3- Se tuona, rovesci per gli affari di Stato, e penuria.
4- Se tuona, ci sarà infinita abbondanza.
5- Se tuona, la primavera sarà assolata, e l’estate feconda.
6- Se tuona, le stesse predizioni del giorno precedente.
7- Se tuona, si leverà un forte vento; il principe della città (o craton) farà cambiamenti.
8- Se tuona, significa piogge.
9- Se tuona, presagisce morte di uomini, ed anche nascita
di bestie selvagge.
10- Se tuona, morte di quadrupedi.
11- Se tuona, predice pioggia violenta e nascita di locuste.
12- Se tuona,, un principe dello Stato (dynatos tou poli-
temaia), o un capo d’esercito (strategos), correrà un peri-
colo; in proposito, avverranno combattimenti; le bestie sel-
vagge attaccheranno gli uomini.
13- Se tuona, ci sarà abbondanza; le bestie selvagge mor-
ranno; i pesci aumenteranno; i rettili molesteranno le abita-
zioni, ma non saranno nocivi.
14- Se tuona, annuncia abbondanza, presagisce morte di
uomini, ed una generazione di bestie selvagge.
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15- Se tuona, significa caldo, mancanza d’acqua, e grande
quantità di topi e di pesci.
16- Se tuona, annata salubre, ma priva del necessario.
17- Se tuona, accadrà un fatto inatteso al popolo; numero-
se morti per uomini e quadrupedi.
18- Se tuona, annuncia forte pioggia, malattia, nascita di
locuste e poco raccolto.
19- Se tuona, estate secchissima e pestifera.
20- Se tuona, gli uomini vivranno meglio e più riccamente.
21- Se tuona, abbondanza dopo la guerra, ma calori funesti.
22- Se tuona, morte di uccelli, abbondanza di viveri.
23- Se tuona, annuncia dissensi.
24- Se tuona, significa abbondanza.
25- Se tuona, si saranno avvenimenti nuovi per il popolo.
26- Se tuona, predice acquisizione di schiavi importati. 27- Se tuona, annuncia abbondanza importata da fuori.
28- Se tuona, ci sarà abbondanza di pesci marini.
29- Se tuona, le donne conseguiranno maggior gloria.
30- Se tuona,, un possente (dynatos) sarà signore del regno (encratès basileìas): la cosa procurerà gioia.
APRILE
1- Se tuona, minaccia dissidio interno, e rovina di fortune.
2- Se tuona, è segno di giustizia recante buone cose ai
buoni, e cattive ai cattivi.
3- Se tuona, annuncia abbondanza proveniente da fuori.
4- Se tuona, predice l’ira dei più forti contro genti degne.
5- Se tuona, significa primavera secca, ed annata salubre.
6- Se tuona, avverranno guerre interne (polemoi emfylioi).
7- Se tuona, annuncia fausta e copiosa abbondanza.
8- Se tuona, annuncia forte pioggia mortifera.
9- Se tuona, annuncia vittoria (niken) per il Regno (te ba-
sileìa), e gioia per i potenti (tois dynatois).
10- Se tuona, gli uomini onesti incrementeranno i loro beni.
167
11- Se tuona, identica significazione.
12- Se tuona, predice piogge, abbondanza, e morte di pesci.
13- Se tuona, presagisce morte ad uomini e bestie.
14- Se tuona, annuncia salute e abbondanza.
15- Se tuona, significa peste.
16- Se tuona, annuncia abbondanza e insieme generazio-
ne di topi campestri.
17- Se tuona, indica abbondante raccolto.
18- Se tuona, indica dissensi e speranze umane frustrate.
19- Se tuona, un uomo potente nella città (in civitate) rovi-
nerà insieme la sua fortuna e la sua autorità.
20- Se tuona, indica l’ira degli dèi.
21- Se tuona, preannuncia raccolto fortunato, ma anche
guerra per lo Stato.
22- Se tuona, ci sarà morte di mosche.
23- Se tuona, annuncia pioggia utile alle semine.
24- Se tuona, ci saranno dissensioni dei potenti (dichò-
noia ton dynaton), ma i loro progetti saranno scoperti.
25- Se tuona, pace per tutto l’anno.
26- Se tuona, si annuncia molta speranza per il raccolto,
però esiguità di messi.
27- Se tuona, appariranno prodigi in modo meraviglioso.
28- Se tuona, il popolo sarà chiamato alle armi.
29- Se tuona, prevarrà il favonio.
30- Se tuona, abbondanza di cose fauste.
MAGGIO 1- Se tuona, annuncia successo e ignominia al popolo.
2- Se tuona, minaccia fame.
3- Se tuona, predice abbondanza importata da fuori.
4- Se tuona, predice aria temperata, e frutti abbondanti.
5- Se tuona, si produrrà un cambiamento nelle cose, e il
frumento sarà maggiore dell’orzo; i legumi moriranno.
168
6- Se tuona, vuole significare che i raccolti matureranno
prima e si rovineranno.
7- Se tuona, ci sarà abbondanza di uccelli e di pesci.
8- Se tuona, cattivi presagi per il popolo.
9- Se tuona, significa peste non troppo perniciosa.
10- Se tuona, si annunciano turbamenti, forti piogge, disa-
strosi straripamenti di fiumi, abbondanza di lucertole e rettili.
11- Se tuona, c’è da sperare abbondanza in terra e in mare.
12- Se tuona, ci sarà morte di pesci.
13- Se tuona, annunzia innalzamento del livello dei fiumi, e
malattie per gli uomini.
14- Se tuona, annucia guerre orientali (anatolicòs pòle-
mos) e molte rovine.
15- Se tuona, annuncia abbondanza.
16- Se tuona, bisogna fare pubbliche preghiere a causa di
quel che ci minaccia.
17- Se tuona, significa pioggia.
18- Se tuona, sedizione e poi guerra e penuria di vitto.
19- Se tuona, qualcuno, col favore del popolo, arriverà al
colmo della fortuna.
20- Se tuona,, abbondanza nell’Oriente (perì tèn anato-
lèn), non così in Occidente (epì dysin).
21- Se tuona, bisogna costituire pubbliche preghiere a
causa di quel che ci minaccia.
22- Se tuona, significa forti piogge e morte di pesci marini.
23- Se tuona, annuncia pioggia abbondante e feconda.
24- Se tuona, grandi mali, così i sudditi (toùs ypecoòus)
verranno meno (leipothymesai) per lo scoraggiamento.
25- Se tuona, speranza di remissione e diminuzione di mali.
26- Se tuona,, fortuna per quelli che operano nella coltiva-
zione dei campi.
27- Se tuona, avverranno prodigi, e appariranno comete.
28- Se tuona, sarà la stessa cosa.
29- Se tuona, significa guerra settentrionale (pòlemon
arktòon), ma senza pericolo per la vita pubblica.
169
30- Se tuona, gli steli saranno spezzati dal vento.
P. S. Nigidio ha giudicato che questo diario brontoscopico
non ha valore generale, ma solo per Roma (tes Ròmes).
***
Giovanni Lido, in fondo al testo di Nigidio, pone una pro-
pria nota dove informa che l’autore del Calendario giudica-
va che i responsi valevano solo per Roma. La notizia con-
trasta con almeno due punti dell’opera (vd. 30 ag.; 10
sett.): potrebbe trattarsi di un autoschediasma o della nota
di un copista. Il Calendario, comunque, anche se certa-
mente adattato ai bisogni dei Romani, proviene dai Libri
Tagetici, e come tale mantiene sia la struttura di un primis-
simo anno etrusco basato sui cicli lunari, sia la nomencla-
tura delle istituzioni monarchiche del tempo delle sue pri-
me stesure.
Siamo dinanzi a un calendario lunare che inizia alla metà
dell’anno solare con il novilunio del solstizio estivo. Allo
stesso modo per gli Etruschi ogni nuova giornata partiva
da Mezzogiorno. Questo modo di scandire gli anni e i gior-
ni era usato anche dagli Ateniesi.
Da questo calendario si può ricostruire il quadro politico e
amministrativo dell’Etruria. C’è innanzi tutto una città regi-na (29 giugno). Questa, nelle intenzioni di Tagete che, in
Tarquinia, aveva dettato a Tarconte i libri dell’Etrusca Di-
sciplina (o di chi altro li abbia compilati col suo nome) sarà
stata Tarquinia. Secondo i linguisti, il nome di questa città,
etimologicamente, avrebbe proprio il significato di Città
Regina o Sovrana o Dominatrice216. Si diceva, comunque,
che Tarconte ne fosse stato l’eponimo re fondatore, e che
216 V. Georgiev, La lingua e l'origine degli Etruschi, Roma, 1979; vd. pure A. Palmucci, La figura di Tarconte: un ponte mitostorico fra Tarquinia e Troia, in Anatolisch und Indogermanisch (Anatolico ed indoeuropeo), Acten des Kolloquiums der Indogermanischen Gesel-lschaft, Pavia 22-25 Settembre 1998 (Università Studi Pavia, dipar-timento Scienze Antichità), Innsbruck, 2001, pp. 341-353.
170
Tagete vi fosse nato. Cicerone narrava che in occasione di
quella nascita tutta l’Etruria convenne a Tarquinia217. Altri
spiegavano che vi convennero i dodici lucumoni o prìnci-pi delle altre città218. Nella città regina risiedeva evidentemente il re. Costui è
nominato spesso (19 ott.; 16 nov.; 27 dic.; 19 e 21 genn.;
30 mar.). Egli governa il regno (30 mar.; 9 apr.): verosi-
milmente la Federazione. Anche Virgilio, nell’Eneide,
chiama “regno” la federazione Etrusca (VIII, 505-507).
Abbiamo poi gli Stati, ovvero le città stato, comandate da
un capo variamente denominato dynastes (26 sett.; 19
ott.), dynatòs (12 marzo; 19 lugl.; 27sett.; 16 febbr.), ar-
chon (5 e 17 lugl.) e kraton (7 marzo; ecc.), il cui significa-
to generale è di “principe” o di “colui che ha il potere”. Si
tratta verosimilmente di quelle stesse figure che le fonti la-
tine sopra menzionate chiamano lucumoni o principi del-
le città. A volte questi governanti sono buoni, altre volte
sono cattivi (16 genn.), e vengono abbattuti (19 sett.; 8, 21
e 26 genn..). I re vengono espulsi (19 sett.).
Se il re del regno ottiene una vittoria egli può elevarsi (19
genn.) Quando vince, i capi delle città esultano (9 aprile);
ciò perché evidentemente fanno parte della Federazione
che ha vinto la guerra. A volte questi capi si dividono e si
distruggono a vicenda ( 27 sett.; 10 nov.); altre volte alle fi-
ne si pacificano (10 nov.).
Ci sono pure guerre servili (7 e 25 genn.; 6 apr.), e
schiavi che si rivoltano e vengono puniti ( 15 genn.).
Abbiamo poi le città minori, dette polichne, i castelli e i
borghi, ognuno con il suo governante (5 giugno). Il calen-
dario menziona poi una volta dei sudditi che defezionano
per scoramento (24 maggio.): più che di sudditi si trattava
217 Cicerone, Divinazione, II, 50. 218Verrio Flacco, De significatione verborum (compendio di Festo), s.v. Tages; Censorino, De die natali, IV, 13; Commento Bernese a Lucano, I, 636, H, Husner p. 41.
171
forse di alleati. Molto spesso si nomina il popolo, qualche
volta gli schiavi, e una volta i plebei. A quest’ultimi capita di
subire il supplizio del palo (9 nov.).
I responsi del calendario si preoccupano anche del re dell’Oriente (16 lugl.; 9 genn.), di guerre orientali (14
maggio) e settentrionali (24 maggio), nonché di paragoni
fra situazioni economiche orientali ed occidentali (20
maggio). Ciò forse per il ricordo di antichi apporti di gente
dall’Oriente (Troiani, Misi e Lidi come vorrebbero le tradi-
zioni). Nel re dell’Oriente potrebbero adombrarsi vari per-
sonaggi mitici.
• Enea, il troiano che, secondo Virgilio ricondusse a Corito
(Tarquinia) i profughi troiani e divenne capo della federa-
zione Etrusca.
• Tarconte, figlio di Telefo re della Misia, e di Astioche so-
rella del re di Troia. Egli avrebbe fondato tutte le città della
federazione Etrusca, ed avrebbe dato il suo nome a Tar-
quinia. Sarebbe anche l’autore dei Libri Tagetici.
• Tirreno, figlio di Ati, re della Lidia. Giovanni Lido ricorda
che costui avrebbe condotto presso i Sicani d’Etruria una
colonia di Lidi. Giovanni nella sua versione greca dei Libri
Tagetici scritti da Tarconte, sostiene pure che lo stesso
Tarconte in quei Libri avrebbe affermato che Tirreno lo a-
vrebbe istruito nei Misteri dei Lidi.
All’interno della Federazione e delle città che la copongo-
no i rapporti non sono sempre felici né tanto meno pacifici:
vi sono sedizioni, dissensi (24 apr.) e cattivi potenti che
prendono il potere (14 lugl.).
Le donne a volte prosperano (19 nov.), ed hanno un ruolo
importante nella vita sociale; ma capita che commettano
crimini insieme agli schiavi (19 ag.). Spesso gli uomini so-
no contrariati dal loro comportamento (6 sett,; 5 ag.): si
tenga presente il caso di Volsini dove gli schiavi si ribella-
rono, presero il potere e sposarono le consenzienti donne
dei loro padroni.
172
***
Da questo calendario apprendiamo pure che gli Etruschi
coltivavano cereali, allevavano ovini e bovini, pescavano e
mangiavano pesci sia marini che fluviali, avevano paura
delle fiere e delle cavallette.
La loro terra era oggetto di
piogge a volte anche eccessi-
ve sì che potevano verificarsi
disastrose inondazioni. Al con-
trario, si avevano anche tempi
di siccità e carestia. In en-
trambi i casi, gli Etruschi erano
costretti a far venire dall’estero
svariati beni dei loro consumi
alimentari.
Fig. 38 – Aruspice di Arezzo.
3. TRATTATO DI BRONTOSCOPIA (FONTEIO).
Giovanni Lido: Traduzione letterale del Trattato di Broncoscopia del romano Fonteio219.
Con la Luna nel Capricorno, se tuonerà di giorno predice
il tentativo fallito di un tiranno che vorrà impadronirsi delle
regioni dallo stretto al Nilo. Ci sarà soprattutto mancanza di
cose da mangiare: il Nilo si ritirerà, ci sarà dissenso tra figli
e genitori, e scompiglio fra alcuni capi. I Persiani e coloro
che abitano in Europa occidentale resteranno in pace. Se
poi (tuonerà) durante la notte, genti barbare si combatte-
ranno fra loro, verranno anche fatte delibere che muteran-
219
Giovanni Lido, op. cit.. , pp. 88-92.
173
no il trattato di pace con Roma220, e i nemici occuperanno
in breve tempo alcuni territori dello Stato. Faziosi spuntati
dalle zone del sole calante amministreranno lo Stato con-
tro il diritto. Quasi tutti saranno tormentati da sorte più du-
ra. E ci saranno aspri inverni, naufragi e terremoti distruttivi.
Con la Luna nell’Acquario, se tuonerà di giorno significa
rovina per persone illustri, e gravi incendi. Raccolto beni-
gno, ma cavallette, bestie ed uve non buone. E, peggio
d’ogni cosa, i fantasmi molesteranno i corpi con malattie, e
le acque dolci si altereranno, gli uomini inferiori rapiranno
la fortuna ai migliori, i più grandi cadranno nel peggiore. La
pace sarà turbata per l’ineguaglianza delle leggi, e ci sarà
ingresso di stranieri nella amministrazione della cosa pub-
blica. Se tuonerà di notte, l’occidente rinunci alla pace; le
messi in Asia saranno come quanto meglio desiderate, e i
magistrati durante la carica, in se stessi, non affliggeranno
molto i loro sottoposti.
Con la Luna nei Pesci, se durante il giorno si sarà verifi-
cato un tuono annuncia aumento di acque sia fluviali che
marine; e minaccia caligine nell’aria, e morte di pesci. Gli
animali selvaggi poi eviteranno le reti; ma sarà il momento
opportuno per piantare alberi. Il tempo sarà malsano, e i
governanti si comporteranno irregolarmente.
Con la Luna in Ariete, se di giorno ci sarà stato un tuono
minaccia proscrizione per Arabi e pestilenza per Persiani.
Se accade di notte, i nemici turberanno Asia ed Europa, e i
naviganti non saranno liberi da pericoli. Ci sarà abbondan-
220
Letteralmente: anche a causa di deliberazioni le cose della pace
romana si smuoveranno (kaì dogmátōn eneka tà tẽs Rōmaikẽs eirē-nēs saleythēsetai). Non mi sembra corretta la traduzione del CSHB: “pax orbi Romani propter persuasiones turbabitur”.
174
za di frutti, e rovina d’una persona potente. Anche la Co-
munità sarà lontana dalla prosperità.
Con la Luna nel Toro, se tuonerà di giorno annuncia
grandi piogge, grandini e deviazione di fiumi. Anche pesce
abbondante, ma coloro che si affacciano sulle regioni ma-
rine saranno molto tristi. Il raccolto sarà buono, ma la pe-
stilenza colpirà i giumenti. Se tuonerà di notte significa pe-
nuria di frutti, cielo primaverile con piogge e grandini. Le
donne abortiranno, e mancherà l’acqua dolce. Avverranno
gravi sollevazioni di eserciti, e un tiranno infelice mole-sterà l’Oriente senza però ottenere i suoi intenti.
Con la Luna nei Gemelli, se tuonerà di giorno la Comu-
nità sarà religiosissima. Se di notte, al contrario.
Con la Luna nel Cancro, se di giorno nasce e muore un
tuono, ci saranno scompigli per i pubblici affari, e le cose
muteranno in peggio. I raccolti verranno meno alle aspetta-
tive. E anche il mare sarà letale per i naviganti: moriranno
uomini, ma ci saranno pesci. Se tuona di notte, sventure colpiranno Etiopi e Persiani. Gli occidentali soffriranno la
fame tanto che per l’indigenza cercheranno rifugio anche
in Egitto.
Con la Luna nel Leone, se accade di giorno tuoni presa-
gisce un’insidia contro il Regno (kathà tẽs basileías =
Federazione Etrusca?). Ci saranno nuovi mali, e condanne
a morte tra il popolo. Ci saranno messi abbondanti, ma sa-
ranno saccheggiate dal nemico soprattutto a occidente. I
magistrati domineranno ed opprimeranno i sottoposti. Se
tuonerà di notte il Regno (ẽ basileía) sarà insidiato, e par-te dell’Oriente finirà sotto genti straniere (ypò Barba-
rois). La violenza delle piogge nocerà ai frutti molli. Rettili
175
mortiferi insidieranno i giumenti. Alcuni potenti della vita
pubblica cadranno.
Con la Luna nella Vergine, se tuonerà di giorno lo stato
dell’aria sarà più umido, e non ci sarà abbondanza di frutti
secchi, tanto che gli uomini saranno più facilmente inclini ai
delitti. Ci sarà pure rovina di sesso femminile. Se tuonerà
di notte, s’avventerà la peste sugli occidentali: le bestie
s’accosteranno agli uomini tanto che questi si ridurranno a
nascondersi nei covi. Ci sarà rovina di uomini potenti, e
penuria di frutti secchi.
Con la Luna nella Libra, se tuonerà di giorno ci si aspet-
tino cose fauste per tutti fuorché per gli Egiziani. Se di not-
te, la gioventù prenderà le armi e morirà in battaglia. Ci sa-
rà abbondanza di frutti, ma questi saranno consumati da
genti straniere.
Con la Luna nello Scorpione, se di giorno ci sarà un
tuono o un fulmine, gli Arabi saranno turbati. Ci sarà penu-
ria di frutti, e gli uomini saranno in concorrenza fra loro.
L’Assiria sarà oppressa dalla fame. Se di notte, avverran-
no incendi, rovine di città marittime, rovina di frutti e di
quadrupedi, incursione di bestie d’ogni specie: per la qual
cosa bisogna pregare che queste vengano uccise anche
dalla caduta di fulmini.
Con la Luna nel Sagittario, se tuonerà di giorno minac-
cia eccidio di Persiani, e il loro re (basileys) sarà ucciso a
tradimento; verrà abbondanza di frutti, e ci saranno inverni
sereni, e da una parte morte di uomini, ma dall’altra as-
soggettamenti di città. Se poi tuona di notte, annuncia
piogge violente e patimento per le gravide, e malattie e
morti improvvise, tanto da sopravanzare i frutti e mancare
176
i consumatori. Si avranno terremoti e venti fortissimi, e una
persona potente e molesta per lo
Stato sarà annientata.
4. IL POEMA SU I TERREMOTI (VICELLIO)221. Da A. Palmucci, I Libri Tagetici – La partizione del cielo e del fegato, il
DNA degli Etruschi e il poema su I Terremoti, “Bollettino della Società
Tarquiniense d’arte e storia”, (35), 2006, pp. 20 - 24
Giovanni Lido: Il romano Vicellio dice questo con le
stesse parole dei versi di Tagete, intorno a cui anche Apu-
leio più tardi riferì nel discorso in libera prosa.
SOLE NELL’ARIETE. Se accade un terremoto in Asia, è mi-
naccia di male per la Celesiria (a NE del mar Nero), la Pa-
lestina e la Giudea; se in Europa, per Britanni, Galli, Ger-
mani, Bastarni (oggi Polacchi). I prìncipi intraprenderanno
spedizioni contro il nemico, ma queste saranno infruttuose;
infatti, gli strateghi, con milizie decimate, si ritrarranno sen-
za aver raggiunto lo scopo. E in Oriente il detrimento sarà
221
Giovanni Lido, op. cit., 110-117.
177
più per i maschi che per le femmine: l’Ariete, infatti, è un
segno maschile.
SOLE NEL TORO. Se capita che ci sia un terremoto in Asia
superiore, sia agli Etiopi che sono presso il fiume Indo
(forma poetica per Etiope), sia al lido dell’Asia minore, sia
alle isole Cicladi e a Cipro incomberà rovina dovuta ad in-
fezione. Così specialmente le stesse bestie da tiro delle
suddette regioni moriranno; vi saranno calori pesanti e pe-
stilenti, immani inondazioni di fiumi, e d’estate mancanza
d’acque fluviali. Fra gli esseri animati, sino essi o meno ra-
zionali, le femmine avranno le disgrazie maggiori di tutti. Il
Toro, Infatti, è un segno femminile.
SOLE NEI GEMELLI. Se in una qualunque parte del mondo
accade un terremoto, la maggior fame accadrà nell’Asia
Maggiore in Ircania, nell’una e l’altra Armenia, in Matiana
(oggi Kurdistan); in Africa o piuttosto in Europa (perché
parte dell’Europa è Africa), affliggerà la Marmarica (regio-
ne tra l'Egitto e le Sirti), l’agro Nasamonio (Libia settentrio-
nale) e in genere la regione arida ch’è davanti alla grande
Sirte (insenatura fra Cirene e Cartagine), a tal punto che il
volgo spinto dalla necessità insorgerà contro i nobili di
quelle regioni per scacciarli; e nessuno, a causa delle ca-
lamità, manterrà fede all’altro, nemmeno le madri ai figli. E
vi saranno rovine e distruzioni di edifici, e crudeli incendi.
Oltre a ciò un tiranno cruentissimo sconvolgerà le leggi a
tal punto che non saranno risparmiate nemmeno le cose
sacre. E fra gli esseri animanti quei danni assaliranno
maggiormente i maschi, specialmente quelli che si servono
della ragione, poiché i Gemelli sono un segno maschile ed
hanno aspetto umano.
178
SOLE NEL CANCRO. Se capita che in una qualunque parte
del mondo avvengano scosse, nell’Asia superiore confi-
nante coi Persi ci saranno turbamenti. In queste zone, inol-
tre, pestilenti malattie invaderanno i corpi degli uomini illu-
stri, così che alle città verranno meno i prìncipi. Chiunque
dopo di loro avrà il supremo potere; e per decreto del vol-
go, di loro stessi e degli ottimati i figli tolti ai genitori an-
dranno all’estero. Nell’Asia inferiore, la Bitinia e tutta la Fri-
gia, in Europa la Colchide (ora detta Lazica), in Africa la
Libia e la Numidia saranno vessate da mali. Vi saranno e-
clissi di Luna, poiché il Cancro è la casa della Luna. Peg-
giori accidenti poi accadranno alle femmine, soprattutto a
quelle che si prostituiscono: poiché il cancro è un segno
femminile e proprio della dea Venere. Infatti, Venere e luna
sono la stessa cosa.
SOLE NEL LEONE. Se avviene un terremoto, è cosa infau-
sta in Asia per l’intera Fenicia e per l’Orchenia (Arabia), in
Europa per Itali, Siculi e Galli; non accadrà nulla di buono
anche in tutta la Libia. Il bestiame, infatti, morirà d’inedia. E
incomberanno piogge e nubi di locuste; i bruchi, poi, nuo-
ceranno ai raccolti. Ci saranno perdite d’uomini fin quasi a
dividere ogni unione. I leoni, nei luoghi in cui nascono, ag-
grediranno gli uomini in modo più feroce; nei luoghi dove
secondo natura non esistono sapravverrà febbre acuta.
Maggiori mali sperimenteranno i maschi, soprattutto coloro
che abitano le terre del sole nascente, perché il leone è un
segno maschile e solare.
SOLE NELLA VERGINE. Se quando il sole entra nella Vergi-
ne accadono terremoti, la Grecia, l’Acaia, Creta, Babilonia,
la Mesopotamia, l’Assiria, le isole Cicladi incapperanno in
mali non mediocri. Infatti, vi accadranno crolli di terra; e i
genitori accompagneranno i figli con dolore; anche gli in-
verni saranno secchi, e le vergini saranno ridotte in schia-
179
vitù. Al di là degli altri frutti autunnali, spunterà l’olivo. Tra
gli esseri viventi, poi, cattive cose accadranno più alle
femmine che ai maschi: infatti, la Vergine è un segno
femminile.
SOLE NELLA LIBRA. Se in questo tempo avviene il terremo-
to, molestie non mediocri colpiranno in Asia superiore la
Battriana (Afghanistan), la Casperia (Iran) e la Serica (Cina
occidentale), in Africa poi la Trogloditica (sul mar Rosso,
divisa fra Egitto, Sudan ed Etiopia), Tebe d’Egitto e la città
di Oasi (Egitto orientale). Infatti, quelli che comandano
danneggeranno quei luoghi al punto che la moltitudine di-
sperata insorgerà contro di loro. Le cose sacre saranno ro-
vinate da tante inesplicabili scelleratezze sì che nessuno
vedrà esaudite le sue preghiere. Gli indigeni saranno ban-
diti lontano dalle loro città. I luoghi detti saranno scompi-
gliati da eserciti barbari, e seguirà la fame (e come potreb-
be non avvenire!), soprattutto per gli uomini. Infatti il segno
della Libra è maschile.
SOLE NELLO SCORPIONE. Quando il sole transita nello
Scorpione, e capita che avvenga uno scuotimento della
terra, saranno arse da veementi incendi in Asia superiore
la media Siria o Commagene (fra Siria e Cappadocia) e la
Casperia (Iran), in Europa l’Italia e l’Etruria, e dalle parti
del sole calante la Mauritania e la Getulia (Algeria); e
nemmeno gli stessi santuari saranno risparmiati. Avver-
ranno guerre perniciose per la gioventù, lucrose per i con-
dottieri: i barbari occuperanno i luoghi dell’autorità Romana. Maggiore sarà poi il detrimento per le donne,
poiché lo scorpione è un segno femminile.
SOLE NEL SAGITTARIO. Se capita che la terra tremi quando
il sole arriva nel Sagittario, nell’Asia maggiore l’Arabia feli-
ce, in Europa l’Etruria, la Gallia e la Spagna avranno de-
180
trimenti non lievi. Il bestiame morirà d’inedia; l’oceano ri-
donderà oltre modo, così la stessa Calpe (monte presso
Gibilterra) sarà inondata; la forza delle acque creerà peri-
coli alle città. E oppresso dalla penuria delle cose necessa-
rie il sesso maschile morirà ovunque: poiché il Sagittario è
un segno maschile.
SOLE NEL CAPRICORNO. Se per caso avviene un terremoto
quando il sole, dopo esser tornato dalla meta australe, vie-
ne nel Capricorno, nell’Asia superiore tutta l’India, Ariana
(Iran), Gedrosia (Pakistan SO), in ogni parte della Frigia
inferiore e l’Ellesponto, in Europa la Macedonia e la Tracia
dall’Illirico fino al corso inferiore del’Istro (Danubio) saran-
no turbate non poco da genti confinanti. I torrenti inonde-
ranno le piantagioni, nello stesso tempo gli animali saran-
no infettati da malattie. Nasceranno guerre civili, e una
moltitudine di falsi sogni e vaticini; anche intere città sa-
ranno avvolte in ogni parte dalle onde marine.
SOLE IN ACQUARIO. Se quando il sole è in Acquario c’è un
terremoto, nell’Asia superiore, l’Ossiana (oggi Turkmeni-
stan), la Sogdiana (ad E del mar Caspio), l’Arabia minore e
l’Azania (Corno d’Africa), in Libia l’Etiopia minore ed in Eu-
ropa la Tracia fino all’Illirico, saranno turbate. Infatti gravi
guerre piomberanno loro; e la Macedonia sarà travagliata
da durissime avversità fin quali alla distruzione totale.
SOLE NEI PESCI. Se il sole è nei Pesci, e la terra trema, la nostra Lidia dell’Asia minore (*), la Cilicia (costa setten-
trionale dell’Asia minore) e la Panfilia (Turchia meridiona-
le), e nella Libia la Nasamonitide (Libia settentrionale) e la
Garamantica (Sahara libico) saranno rovinate da nemici
esterni ed interni. Le città ed il porto del Ponto saranno
vessati da arrivi di pirati; molte delle regioni che abbiamo
nominate s’agiteranno fra loro senza motivo; e vi saranno
181
abbondanti acquazzoni e piogge, e così pure preghiere i-
nutili e mancanza di frutti che nutrono. Le sementi verran-
no meno per l’umidità della terra; il mare sarà torbido, e
quasi innavigabile. Ma poco dopo, senza crederlo, le cose
volgeranno al meglio; ed, in breve, la felicità sarà corri-
spondente al male che l’ha preceduta.
(*) N.B. Se l’affermazione “nostra Lidia dell’Asia minore” non è un’interpolazione di Giovanni Lido, che era un Lidio, si deve pensare che gli Etruschi credessero veramente d’essere imparentati con genti dell’Asia Mimore. Vedi anche i riferimenti fatti da Tagete all’Oriente e ai suoi re, contenuti nel Calendario Brontoscopico. Al tempo delle mitiche migrazioni di Troiani, Misi e Lidi dall’Anatolia in Italia, comunque, la Troade e la Misia facevano parte del regno di Arzawa (la futura Li-dia), ed erano vassalli dell’impero ittita.
182
5. TRATTATO SU I FULMINI. Giovanni Lido: Osservazioni generali, secondo la Lu-na, sui fulmini e su altre condizioni, tradotte letteral-mente dal testo di Labeone, tratti dal solstizio esti-vo222.
Se la luna, nell’undicesimo grado del Cancro, si trova in
Ariete avverranno tempeste, tuoni, grandinate, scuotimenti
di alberi per vènti più impetuosi, vortici d’aria, raccolti co-
stosi, aria secca e calore pestilente.
Se è nel Toro si avrà scarsezza di cibarie, soprattutto
d’olio; tuttavia quelle cose che si pesano con la bilancia
costeranno poco.
Se, al tempo del solstizio, la luna è nei Gemelli l’annata
avrà due facce. Infatti, al tempo umido seguirà siccità, e il
frumento darà minor raccolto; ma il vino e soprattutto l’olio
saranno più abbondanti.
Se la luna, durante il solstizio estivo, si troverà nel Can-cro, come s’è dimostrato, l’anno sarà fertile d’ogni frutto
sia asciutto che umido; è dunque credibile che ci si debba
aspettare abbondanza.
Se la Luna, sorgendo nel Leone, capita nel solstizio esti-
vo, ci si aspetti atmosfera tonante e procellosa. Il tempo
sarà nebuloso e caliginoso a tal punto che, per l’eccesso
d’umidità grondante dall’alto, i frutti asciutti daranno minor
raccolto, e i molli maggiore.
222
Giovanni Lido, op. cit.., 93-107.
183
Se, nel solstizio estivo, la Luna è nella Vergine l’annata
sarà sterile e quasi priva di frutti. Ci sarà tuttavia qualche
sollievo inaspettato sia per i frutti asciutti che per quelli umidi.
Se, quando giunge il solstizio estivo, la Luna è nella Libra
vuol dire che l’anno sarà fertile; e produrrà di certo ogni
genere di frutti secchi, anche se sarà umido e piovoso.
Quelle cose che si pesano con la bilancia saranno care; il
vino e l’olio, poi, carissimi.
Se, nel solstizio estivo, la luna è sorpresa nello Scorpio-ne l’anno sarà secco e tardivo nei frutti; si avranno grandi-
nate e burrasche; le sementi e qualunque cosa è sotto la
terra andrà perduta: così ci sarà assolutamente fame e ro-
vina di uomini.
Se la Luna occupa il Sagittario in conversione col centro
estivo ci saranno inondazioni, vapori, piogge con grandini,
morte di volatili, naufragi non piccoli, diminuzione di frutti
sugosi, abbondanza di secchi.
Se la Luna, nel solstizio estivo, occupa il Capricorno,
l’aria abbonderà di pioggia a tal punto che i frutti verranno
raccolti con difficoltà, e di contadini si pentiranno dello zelo
avuto nel seminare. Ma quasi per insperata decisione divi-
na vi sarà abbondanza di vino e di olio; e la condizione
dell’aria non sarà affatto malsana.
Con la Luna nell’Acquario o nei Pesci, c’è da prevedere
più o meno la medesima aspettativa di frutti. Inoltre ci sa-
ranno meno pesci, soprattutto fluviali, e tutti quelli che sia-
no fuori del mare, diminuiranno.
184
I FULMINI
Parlare della natura delle cose e di come gli antichi crede-
vano che i fulmini nascessero, avendone essi sufficiente-
mente studiato la ragione, non è ormai più opportuno; né il
nostro assunto era questo, bensì quello di indagare in qual
modo nella disciplina dei Tusci (Thouscōn paradosis) i
fulmini sono distinti, e cosa annuncino cadendo. A proposi-
to, bisogna sapere che i fulmini non cadono per tutto
l’anno. Infatti, non si verificano frequentemente in estate e
in inverno223, bensì in primavera e in autunno224, sotto il
sorgere delle Pleiadi e di Arturo. Si sa, infatti, che i fulmini
non cadono in Scizia né, come dirò brevemente, attorno al
cardine settentrionale, né attorno all’australe: ciò per lo
stato freddo e caldo del cielo in quei luoghi225. In Italia, essi
cadono molto spesso perché lì l’aria è ovunque per lo più
temperata226. Tutta la regione, infatti, viene a trovarsi sotto
l’Appennino, ed è sotto l’azione di venti come l’Aquilone, il
Favonio e il Maestrale delle Alpi. La parte meridionale, poi,
è soffiata costantemente dall’Austro, e non da quell’Austro
secco e grave, ma soprattutto da quello che feconda ogni
cosa. Esso nasce da quel grande mare che dall’Atlantico si
estende fino a Gade; e con afflato refrigerante tempera il
vaporifero e pestilente calore dell’Austro meridionale. Cau-
sa efficiente della giusta temperatura della regione è anche
223 Crf. Plinio, Storia Naturale, II, 135: “D’estate e d’inverno i fulmini sono rari (Hieme et aestate rara fulmina)”. 224 Ibidem: “vere autem in autumno crebriora fulmina”; Cfr. Arrhian, ap. Stobaeum. ecl. phys. I, 29, 2, p. 238, 5. 225 Cfr. Plinio, op. cit., II, 135: “quae ratio inmunem Scythiam et circa rigentia fulminum casu praestat, e diverso nimius ardor Aegyptum”; Arrhian. l, s. p. 238, 9 ss. 226 Cfr. Plinio, op. cit., II, 136: “qua ratione crebra in Italia, quia mobilior aer mitiore hieme et aestate nimbosa semper quodammodo vernat vel autumnat”.
185
il fatto che la sua parte superiore (oriente) è bagnata dal
mar Ionio (Adriatico), e quella inferiore (occidente) dal Tir-
reno. Per questo gli animali partoriscono anche due volte
all’anno, e il formaggio “né manca a Bacco né le messi al
giusto momento” (Omero, Odissea, XII, 76). Queste sono
le cose in lode dell’Italia.
Diversa e non univoca è la natura dei fulmini. Dagli anti-
chi alcuni furono chiamati “fumosi” (psolòentas; lat. fumi-
da), altri “splendenti” (argētas; lat. candida), “irrompenti” (skēptoùs; lat. irruentia), “folgori che accendono e bru-ciano” (prēstēras; lat. presteres). Non tutti, infatti, agiscono
allo stesso modo. Vi sono anche di quelli che tornano ver-
so le nubi squarciate da dove si erano staccati.
Le “folgori che accendono e bruciano (prēstēras)” sono
chiamate “incandescenti” (diàpyroi; lat. ardentia); quelle
che sono senza fuoco, “tifoni” (Tyfōnes; lat. Typhones), e
più ancora i “ritornati” (aneiménoi; lat. remissa), “uragani” (eknefìai; lat. ecnephiae). “Egide” (aigides) si chiamano
quelle che vengono giù in una massa di fuoco. La tradizio-
ne le pone attorno all’egida di Giove, volendo significare
che l’atmosfera è la causa delle tempeste e dei turbamenti.
Vi sono pure fulmini d’altro genere. I Libri (tà Biblìa)227 li
chiamano “elicoidi” (elikìas; lat. intorta) perché cadono
con andamento elicoidale. A questo proposito è da consi-
derare la natura e la difficoltà della sua osservazione. Infat-
ti, sebbene tutti siano venuti dall’alto aere e col concorso
delle nubi, non operano ognuno allo stesso modo. Capita
spesso che, fra questi, quello detto “splendente”, e che gli
antichi chiamano anche “chiaro” (lampròs ; lat. clarus) in
raffronto agli altri, cadendo in una giara, e comunque in un
vaso di vino o d’acqua, lasci integro il coperchio, ma, finito
dentro, annienti il contenuto228. Capita parimenti che pene-
227 Ovviamente i Libri Etruschi ovvero Tagetici. 228 Cfr. Plinio, op. cit., II, 137: “tertium est quod clarum vocant miri-ficae maxime naturae, quo dolia exauriuntur intactis operimentis”.
186
trando a quel modo in cassette contenenti oro o argento,
liquefaccia le cose che son dentro, e lasci intatte le ester-
ne229. E fra tutti, dice il grande Apuleio (Plinio?), massi-
mamente meraviglioso è quel che accadde a una moglie
gravida, e non ad una qualunque, ma proprio a Marcia,
quella che sposò M. Catone minore. Quel fulmine, che è
detto “chiaro” o “bianco splendente”, cadendo su di lei, la
preservò completamente illesa, e sciolse il suo parto, sen-
za alcun senso di dolore, fino al punto che neppure essa
stessa avvertì qualcosa, quantunque non fosse lontana dal
parto230. Tale è l’esimia forza propria della natura del ful-
mine “splendente”.
In generale, poi, fra tutte le cose nate dalla terra, il lauro ed
il fico si conservano illesi e non vengono minimamente colpiti
dai fulmini231. Essi sono, infatti, peculiari al sole. Onde si dice
che Apollo ami Dafne (il lauro), come il sole; e, mutatosi in
leone, invece che in fuoco, non nuoccia al lauro232.
Fra i volatili, l’aquila, fra i marini il vitello marino: per
questo si ritiene che l’aquila sia armata di fulmine e pecu-
liare di Giove233. La testimone esperienza ha dimostrato
che la foca è pochissimo colpita dalla caduta dei fulmini234.
Per questo, le tele delle navi su cui salgono i re (basileis)
sono state cucite con pelli di foca.
229 Cfr. Plinio, op. cit., II, 137: “aurum et aes et argentum liquatur in-tus sacculis ipsis nullo modo ambustis ac ne confuso quidem signo ce-rae”. 230 Cfr. Plinio, op..cit., II, 137: “Marcia princeps Romanorum icta gravida partu exanimato ipsa citra ullum aliud incommodum vixit”. 231 Cfr. Plinio, op. cit. II, 146: “ex his quae terra gignuntur lauri fru-ticem non icit”; Plutarco, Symp. , V, 9,4. 232 Cfr. Plinio, op. cit. XV, 134: “(laurus) grata Apollini visa [ ... ] quia manu satarum receptarumque in domos fulmine sola non ici-tur”; 135: “laurus quidem manifesto abdicat ignes crepitu et qua-dam detestatione”. 233 Cfr. Plinio, op. cit. II, 146: “ne volurius (percit fulmen) aquilam, quae ab hoc armigera huius teli fingitur”. 234 Cfr. Plinio, op. cit., II, 146: “pavidi ... tabernacula pellis belua-rum, quas vitulos appellant (tutissima putant), quoniam hoc solum animal ex marinis non percutiat”.
187
Non capita mai che il fulmine, staccatosi dal cielo, scenda
nella terra più a fondo di cinque piedi. Per la terra, è que-
sto, infatti, il massimo numero235.
Talora i fulmini cadono pure a cielo sereno. Se questo
accade, non occorre più indagare il sole nei segni zodiacali
(Zōdìois) o qualche comprovata interpretazione del futuro,
ma denunciare subito rivolgimenti e rovine per lo Stato e
per tutta la regione dove l’evento è accaduto.
Inversamente, Nigidio, nel suo Esame dei sogni, fornisce
una diversa interpretazione dei fulmini. Egli dice che, nella
pratica, il fulmine rappresenta in generale qualcosa di fu-
nesto per tutti, anche quando non causi danni; ma che per
coloro che in sogno immaginano di vederlo, esso costitui-
sce il felice presagio d’una brillante fortuna.
D’altra parte vale la pena indagare la Luna su altri prodigi.
L’antichità aveva indagato il sole sui soli fulmini. E certo è
dimostrato che il sole è causa e dispensatore di natura
calda e di fuoco, e soprattutto di quel fuoco, dico, col quale
la luna non ha niente a che fare. Infatti cos’è più efficace
del fulmine? Cosa è più infuocato? Per cui, giacché non
solo è fuori dall’umidità, ma dissolve pure tutte le cose che
in qualche modo gli si espongono, è ovvio che la luna è a-
liena dai fulmini. Ha, infatti, natura umida, ed è posta in
una fascia umida: dunque non può dare presagi per mezzo
del fulmine. Il sole, inversamente, è la causa del fulmine.
Per questo dai mitografi è chiamato sia Giove che Elio, e
porta il fulmine, e sua ministra è l’aquila236. E pure tutte le
cose che hanno natura calda sono congiunte al sole. Giu-
235 Cfr. Plinio, op. cit., II, 146: “nec umquam quinque altius pedibus descendit in terram”. 236 Cfr. Plinio, op. cit. II, 82: “latet plerosque magna caeli adsectatione compertum a principibus dotrinae viris (i.e. Babyloniis, cf. II, 191) su-periorum trium siderum ignes esse qui decidui ad terras fulminum nomen habeant, sed maxime ex his medio loco siti, fortassis quondam contagium nimii umoris ex superiore circolo atque ardoris ex subiecto per hunc modum egerat, ideoque dictum Iovem fulmina iaculari”.
188
stamente, dunque, gli antichi, nella teoria dei fulmini (epì
tēs tōn keraynōn theōrias; lat. In Fugurali disciplina), hanno
osservato il sole e non la luna. Noi, quindi, li seguiremo, e
riporteremo alla lettera le loro parole.
Sole in Ariete. Se il fulmine cade sulla terra, bisogna
considerare quale albero colpisca. Cadendo, infatti, non
suole vagare, ma precipita direttamente giù con fragore e
senza errare. Che se tocca la vite, vi sarà diminuzione di
vino; se poi qualche albero, annuncia diminuzione dei suoi
frutti. Se cade nel fiume, lo stesso fiume diventerà carente
d’acqua, e i pesci moriranno. Se poi cade nel mare, biso-
gna osservare il luogo in cui la fiamma viene rapita. Infatti,
soprattutto quel luogo, ma non quello solo, bensì pure la
zona attorno, sarà turbata dalla guerra o dalle insidie dei
pirati. Se cade in un luogo di proprietà statale o d’uso co-
mune, annuncia guerre civili, sedizioni e rivolgimenti politi-
ci. Esso non solo muterà il luogo stesso in cui si abbatte,
ma ne distruggerà pure la fortuna. Se il fulmine colpirà il
muro (della città) senza provocare danni, significa arrivo di
nemici. Se poi parte del muro presenterà un danno, biso-
gna osservare da quale parte del templum augurale è ve-
nuto il prodigio, e verso quale regione del cielo guarda la
parte del muro colpita, e aspettarsi che da lì provenga il
nemico. Se il fulmine colpisce un luogo consacrato, si pre-
vedono pericoli per i personaggi importanti dello Stato e
per quelli che hanno a che fare con il Regno. Se cade sulle
statue minaccia varie e continue difficoltà nelle cose. Così,
come, infatti, gli antichi considerarono le statue quali carat-
teri ed ornamenti delle città, così essi ritennero infausti i lo-
ro danni.
Sole in Toro. Se il fulmine cade sopra un albero fruttifero
significa abbondante nascita per i suoi frutti, ma cose dan-
nose per i bovini. Se cade in un fiume, l’acqua imputridirà
189
di peste, il tremore invaderà i corpi degli uomini, ed avver-
rà la fine dei pesci fluviali. Se in questo periodo il fulmine
precipita nel mare, il fatto preannunzia cose buone per i vi-
cini. Coloro che praticano la pirateria si troveranno in con-
dizioni meno buone. Se precipiterà sulle mura sarà infau-
sto per gli animali: questi, infatti, o morranno o saranno ru-
bati dai nemici. Se poi anche una parte delle mura sarà ro-
vinata dalla caduta del fulmine, questo fatto minaccia epi-
demie per le greggi delle campagne ed incursioni di nemici
non facilmente contrastabili; ci saranno pure altre perdite
molto dannose. Se nello stesso periodo il fulmine colpisce
un luogo sacro, ciò minaccia calamità nei luoghi pubblici.
E’ opportuno che coloro che attendono a tali santuari fac-
ciano in modo che le cose minacciate siano scongiurate.
Se il fulmine cade su una casa ordinaria o regale, il fatto
annuncia per i proprietari inaspettate disgrazie.
Sole in Gemelli. Al sorgere di questo segno, qualora il
fulmine cade su un albero fruttifero sarà dannoso per i con-
tadini e per gli alberi da frutto, ed anche per i fiumi e le fon-
ti: l’acqua diverrà pestilente cosicché ogni età sarà infetta-
ta. Se cade in mare minaccia arrivo di nemici. La maggior
parte dei vicini morirà di malattia o sarà consegnata ai ne-
mici, e così resteranno pochi superstiti. Se il fulmine cade
in un’area pubblica mentre soffia l’Austro, minaccia per gli
uomini somma rovina: saranno due a pretendere il pote-re del Regno (katà tēs basileías = verso il Regno Federa-
le?), essendosi divisi l’Assemblea (tēn boulēn). Poco
dopo ambedue periranno, ma per causa loro molti corre-
ranno pericoli. Se in questo periodo il fulmine si scaglierà
con impeto sulle mura, pronostica le stesse cose: infatti, ci
saranno guerre favorevoli al nemico. Bisogna anche con-
siderare da quale regione del cielo il fulmine si sia stacca-
to: occorre sorveglianza e cautela da quella parte perché è
quella la via donde verrà il nemico.
190
Sole nel Cancro. Se durante la levata del Cancro il ful-
mine cade in un bosco, il caldo della stagione sarà più tol-
lerabile; tuttavia ci sarà scarsità d’acqua. Se cade in mare,
quella zona sarà turbata da flotte nemiche e da battaglie
navali, però non a lungo. Le cose infatti cominceranno a
migliorare, i nemici saranno messi in fuga e le loro flotte af-
fondate. Se invece il fuoco si porta in un luogo pubblico,
animali, serpenti e giumenti avranno molestie, e pure gli
uomini; e ci sarà un male più violento portato da quelli per-
ché infiammato dalla grave stasi dell’aria. Se precipita sulle
mura significa incendi, e si smuoverà una guerra non buo-
na per la cosa pubblica. Se il muro è distrutto interamente
dall’impeto del fulmine, bisogna temere incendi nelle parti
principali della città (póleōs). Questi incendi saranno pro-
vocati da doli ed insidie. Seguirà una guerra non piccola, e
ci saranno danni ai luoghi.
Sole nel Leone. Durante questo tempo, se il fulmine ir-
rompe in qualunque luogo o parte sia del fiume che del
mare significa rovina per i re (toĩs basileũsi) e per coloro che esercitano il potere (kaì toĩs ẻn dynasteĩais sēmeĩ-
tei); e di ciò non si potrà discutere. Nessuna meraviglia se
per gli uomini pubblici spunteranno universali calamità. In-
fatti, com’è naturale, correranno pericolo insieme ai re
(toĩs basileũsi). E fra i combattenti non ci sarà un vincitore;
anzi, ci sarà totale rovina sia di quelle stesse autorità, sia
di quelli che avevano combattuto per loro. Ma la cosa peg-
giore di tutte è che verranno meno anche le sostanze del
popolo; e le città (aỉ pòleis), arse da incendi, andranno in
rovina.
Sole nella Vergine. Quando il sole è giunto nella Vergi-
ne, se cade giù un fulmine è minaccia di rovina per le don-
191
ne virtuose, e sciagura per la stessa regina (basilídi)237 e
per i suoi figli. Ci sarà riduzione dei demi (tõn démōn); an-
che la vigna deluderà la speranza; le calamità affliggeran-
no le vergini e le spose fino al punto che cadranno persino
nelle mani dei nemici.
Sole nella Libra. Se accade che un fulmine cada quando
il sole è entrato nella costellazione della Libra, ogni ingiu-
stizia e ingordigia e brama di potere assaliranno la cosa
pubblica, al punto che sarà recata ingiuria alla stesse cose
divine. Dai re (tõn basiléōn) saranno rimossi dalle cariche
pubbliche i cittadini onesti. Le cose vendute a misura e pe-
so non daranno il giusto. Soprattutto poi sarà gravissima
l’aspra esazione delle pubbliche tasse. Le leggi saranno
disprezzate. I demi (oỉ dẽmoi)238 poi si sommuoveranno ir-
ragionevolmente; e si manifesterà in ogni maniera anche
l’ira della divinità.
Sole nello Scorpione. Se il fulmine cade su un albero
quando il sole è entrato nello Scorpione, promette ricchez-
za per il proprietario dell’albero, ma l’agricoltura diminuirà.
La navigazione sarà rischiosa, il mare sarà assalito da fitti
fulmini, e avverranno molti naufragi. E, se il fulmine precipi-
tando colpirà un luogo pubblico, un giovane crudele si im-
possesserà del Regno (tẽs basileías), correndo insieme a
lui dissoluti e corrotti. Se il fulmine cade sulle mura bisogna
temere guerra dai confinanti, e danni alla gioventù. Però i
nemici incorreranno in mali senza fine tanto d’apparire a
loro preferibile la morte.
237 B. G. Niebur (Corpus Scriptorum Historiae Bizantinae, Weberi, Bonne, 887, p. 346) tradusse in latino arbitrariamente: “Augustae”, intendendo la moglie dell’imperatore romano.. 238 B. G. Niebur (op. cit., p. 346) tradusse in latino arbitrariamente : “tribus populi Romani (le tribù del popolo romano)”.
192
Sole nel Sagittario. Se quando il sole è entrato nel Sa-
gittario il fulmine cade in una selva, minaccia incendio alle
navi. Se esso cade in un fiume significa guerre e battaglie
navali tanto che da questo assalto molti rimarranno soli. C’è pericolo soprattutto d’una vittoria di Persiani, ed indi-
genza per le città assediate dai nemici. E se la forza del
fulmine si indirizza verso il tramonto del sole vuol dire
guerre civili. Saranno tuttavia discordie temporanee, e le
cose cominceranno ad andare per il meglio, soffocati gli
stessi autori dei disordini, e in tal modo la vita pubblica go-
drà della pace.
Sole nel Capricorno. Di questo tempo, se il fulmine cade
in qualsiasi luogo significa gioia universale, pace per le cit-
tà (taĩs pólesi = città della Federazione?), fertilità per i
campi, e lode ai Re dello Stato e ai loro grandi (ẻpainón
te toĩs basileũsi tẽs politeías kaì toĩs megistánois aủtõn).
Sole nell’Acquario. Se il fulmine cade in questo periodo
minaccia straripamento di fiumi e rovina di contrade.
L’estate sarà torrida, ed olio e vino diminuiranno, cosicché
molti, spinti dalla povertà, emigreranno.
Sole nei Pesci. Se il fulmine cade quando il sole è entra-
to nei Pesci, c’è minaccia di tempeste marine, accadranno
funesti naufragi e perdita di pesci, e soprattutto il mare sa-
rà infestato da predoni. Un nobile giovane, tuttavia, elimi-
nerà con la guerra queste piraterie, e diverrà famoso per la
sua vittoria.
E’ stato dimostrato più sopra che i fulmini non cadono in
Scizia né in Egitto, tuttavia se per caso in quel tempo ca-
dono in queste regioni la cosa significa eventi fausti per gli
abitanti.
193
6. FRAMMENTI DA AUTORI VARI.
Lattanzio, Commento alla Tebaide di Stazio, IV, 516: “In-
numerevoli, poi, filosofi e magi, e pure i Persiani ritengono
vero che, oltre agli dèi conosciuti e venerati nel templi, ve
ne sia un altro supremo e più signore di tutti, ordinatore
d’altri numi della cui stirpe è solo il Sole e la Luna. Gli altri,
poi, quelli che, come si dice, vanno portati in giro nella sfe-
ra (gli dèi dello zoodiaco), splendono in virtù del suo spiri-
to: questo secondo la testimonianza innanzitutto di Pitago-
ra, di Platone di Tagete stesso”.
Cicerone, La divinazione, II, 28: “Gli Etruschi, almeno,
hanno per autore della propria disciplina il fanciullo arato
fuori; noi chi?”.
Ovidio, Metamorfosi, XV, 552: “E le ninfe si commossero
per il nuovo accadimento, ed il figlio dell’amazzone sbalor-
dì non diversamente da come quando il contadino tirreno
vide nel mezzo del campo la fatale zolla scuotersi da sé
per la prima volta, senza che nessuno la muovesse, e su-
bito perder la forma della terra e prender quella umana, ed
aprir bocca per (predire) le sorti dell’avvenire. Gli indigeni
lo chiamarono Tagete, e lui per primo insegnò alla gente
etrusca come scoprire le vicende future”.
Festo, Sul significato delle parole: “Tagete di nome, figlio di Genio (Genio Gioviale), e nipote di Giove. Si dice che
da fanciullo diede l’insegnamento dell’aruspicina ai dodici
popoli dell’Etruria”.
Arnobio, Adversum nationes, II, 69: “Prima che il tusco
Tagete raggiungesse le sponde della luce, c’era forse chi
sapesse o si curasse di conoscere o d’imparare se i colpi
dei fulmini o le vene delle interiora annuncino qualcosa?”.
194
Censorino, Sul giorno di nascita, IV, 13: “Anche nell’agro
tarquiniese dicono che arando fosse stato tratto fuori (dalla
terra) il divino fanciullo chiamato Tagete, il quale cantò la
disciplina dell’aruspicina, che i Lucumoni dominanti allora
in Etruria scrissero accuratamente”.
Macrobio, Saturnalia, V, 19,13: “Citerò le parole del curio-
sissimo e dotto Carmina, il quale nel secondo libro intorno
all’Italia dice che prima anche i Tusci usavano spesso il
vomere di bronzo per fondare le città. Lo trovo anche nei
loro sacri (libri) Tagetici”.
Marziano Capella, Le nozze di Mercurio e Filologia, II,
156-157: “Tagete emerse dal solco, e subito indicò il rito
del popolo”.
Marziano Capella, ibidem, VI, c. 37: Tirreno <<che, bene-
detto dalla fecondità del suolo, occupò la regione
dell’Etruria, famosa sia per l’alleanza di Enea indigete sia
per l’origine dei rimedi, e per aver arato fuori (dalla terra) lo
stesso Tagete>>.
Servio, All’Eneide, I, 2: “Certo non a caso (Virgilio) chiama
Enea profugo per destino, bensì secondo la Disciplina E-
trusca. Infatti, nel libro intitolato Testo del diritto
dell’Etruria (ius terrae?), è scritto con le parole di Tagete
che quello il cui genere discende dagli spergiuri dev’essere
per destino esule e profugo”.
Servio, All’Eneide, VIII, 398: “Ma i Libri Etruschi dicono
che questa proroga dei disastri imminenti può essere otte-
nuta prima di tutto da Giove, poi dai Fati, perciò anche qui
(Virgilio) dice: Nè il padre onnipotente né i Destini lo vieta-
vano. ... Ma bisogna saper che secondo i Libri dell’A-
195
ruspicina e i Testi sacri Acheruntici, i quali, come dico-
no, compose Tagete, i destini vanno per qualche ragione
prorogati di dieci anni. Quel che ora Vulcano dice possa es-
ser accaduto non è dunque contrario, perché i destini si pro-
rogano soltanto, ma non si cambiano mai interamente”.
Servio, Alle Egloche, IV 43: “Nei Libri degli Etruschi, in-
fatti, si tramanda che se quest’animale (ariete) apparirà co-
lorito d’una tinta strana ed insolita, si preannuncia
all’imperatore felicità in ogni cosa”.
Isidoro di Siviglia, Etimologie, VIII, 9,34-35: “Dicono che
un certo Tagete avesse tramandato agli Etruschi l’arte
dell’aruspicina. Egli dettò anche l’aruspicina ... e poi non
comparve più. Poiché favolosamante si dice che mentre un
contadino arava, costui saltò subito fuori dalle zolle, dettò
l’aruspicina, e nello stesso giorno morì. I Romani tradusse-
ro questi libri dalla lingua etrusca nella loro propria”.
Giovanni Lido, Sui mesi, fr.2: “Secondo i cosiddetti clima-
tarchi, Tagete ritiene che fra la gente di qualsiasi luogo
nascono i demoni loro sottoposti, i quali dimostrano la loro
potenza nelle azioni umane; come i Traci sono avidi per le
rapine ed avidi per l’influenza di Marte, e quelli d’Oriente
caldi e avidi d’oro e vigili per l’abbondanza di esso, poiché
sottoposti ai demoni solari e indirizzati per natura”.
Giovanni Lido, Sugli ostenta, 54, c: “Lo stesso Vicellio, in-
fatti, il romano, dai versi di Tagete ( su cui più tardi anche
Apuleio riferì con discorso prosastico e libero) dice questo
con le stesse parole (si parla di terremoti che annunciano
altri guai)”.
Lucano, Sulla guerra civile, I, 584: “Gli dèi assecondino
quel che abbiamo veduto; non si dia alcuna fede alle Fibre,
196
e si faccia come se Tagete, l’iniziatore dell’arte aruspicina,
abbia finto queste cose. A questo modo il tusco vaticinava
volgendo i cattivi presagi, e nascondendo molto”.
Servio, All’Eneide, III, 781: “Tusci poi sono detti per la fre-
quenza dei sacrifici, cioè apò thyein. Consta infatti che ri-
cevettero l’aruspicina da Tagete, come ricorda Lucano (I,
636): ma Tagete, fondatore dell’aruspicina, abbia finto
queste cose”.
Commento bernense a Lucano, I, 636: “Tagete, in lingua
etrusca significa voce mandata fuori dalla terra. Si raccon-
ta che questo Tagete nacque all’improvviso mentre si ara-
va la terra. Egli scrise i Libri delle profezie.
Tagete. Dicono che la scienza dell’aruspicina fu proclama-
ta in Etruria. Poiché Tarquinio, il flamine diale, mentre a-
rava per fare la semina, si dice che arando scavò il nipote
di Giove, figlio di Genio (Genio Gioviale). Questo ai dodici
figli di principi dettò la scienza dell’aruspicina e poi non
comparve più. Egli, siccome nacque dalla terra, fu chiama-
to Tagete, apò tes ges, che nella lingua etrusca vuol dire
voce mandata fuori dalla terra”.
Columella, Sulla vita rustica, X, vv. 337-347: “Affinché gli
agricoltori non soffrissero questi malanni, la stessa espe-
rienza delle cose ed il lavoro indicarono sistemi di salvezza
per i poveri agricoltori; l’usanza, poi, come maestra, tra-
mandò loro di placare i venti furiosi e di respingere le tem-
peste per mezzo delle cerimonie tusche; così, la cattiva
Ruggine, perché non seccasse le piante ancor verdi, veni-
va placata col sangue e con le viscere d’un cucciolo lattan-
te. Si dice, dunque, che il tirreno Tagete fissò al confine
del paese la testa di un asinello scuoiata; e che Tarconte,
per allontanare i fulmini del grande Giove, circondò spesso
la propria casa con bianche viti”.
197
Orosio, Historiarum Adersus Paganos Libri Septem, XXI,
15,6: “Il rivelatore di questa disciplina fu uno di nome Ta-gete: costui, secondo quanto si favoleggia, fu visto emer-
gere all’improvviso dalla terra nelle parti dell’Etruria”.
Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri, XVII, 10: “E-
gli, che incitava spesso sia i singoli che tutti quanti ad agire
con coraggio, ora sembrava sconsigliare di combattere: si
mostrava abietto e timido, temendo forse la morte che
s’avvicinava. Nei Libri Tagetici o Vegoici si legge, infatti,
che quelli che stanno quasi per esser colpiti dal fulmine di-
ventano deboli tanto da non udire né il tuono né altri più
forti suoni”.
Cfr. Servio, All’Eneide. II, 72: “Questi libri (i Sibillini vendu-
ti a Tarquinio dalla donna di nome Amaltea) si conservano
nel tempio di Apollo, e non sono solo essi, ma anche quelli
di Marcio e della ninfa Begoe la quale aveva scritto sull’arte dei fulmini presso i Tusci”.
Macrobio, Saturnalia, III, 7,2: “Ma nei Libri degli Etruschi
si tramanda che se quest’animale (ariete) apparirà colorito
d’una insolita tinta. Si preannuncia per l’imperatore felicità
in ogni cosa. Su ciò, v’è un Libro di Tarquizio, trascritto
dall’Ostenetario Etrusco, dove si dice che, se la pecora o
l’ariete è spruzzato di tinta purpurea o aurea, aumenta al
principe dell’ordine o della stirpe l’abbondanza con massi-
ma felicità; la stirpe moltiplica la progenie nello splendore e
la rende più gioiosa.”.
Festo, Sul significato delle parole, W. M. Lindsay, p. 358,
v. 21: “Rituali si chiamano i Libri degli Etruschi dove è
prescritto con quale rito si fondano le città, e si consacrano
le are e i templi; con quali cerimonie le mura, con quale di-
ritto le porte; come si dividono le tribù, le curie e le centu-
198
rie; come si istituisce ed ordina l’esercito; ed altre siffatte
cose che riguardano la guerra e la pace”.
Fulgenzio, Sermoni antichi, IV, 11: “Labeone che, in quin-
dici libri, spiegò gli insegnamenti di Tagete e Bacilide, dice
così: Se le fibre del fegato hanno il colore di sandracca, bi-
sogna allora mettere in moto le pietre maniali, cioè quelle
che gli antichi usavano trascinare come cilindri per i confini
per porre rimedio alla mancanza di pioggia”.
Fulgenzio, Sermoni antichi, IV, 48: “Praesegmina, sono le
parti del corpo tagliate, come dice Tagete, nei (libri) aru-
spicini: amputati i praesegmina”.
Arnobio, Adersus Nationes , VII, 26: “Né l’Etruria genitrice
e madre della superstizione conobbe l’idea e la forma
(dell’incenso) come indicano i riti delle cappelle (VII, 26)...
Né ciò che affermano i magi …, né ciò che promette
l’Etruria nei Libri Acherontici, che cioè dopo aver offerto il
sangue di certi animali a certi numi le anime diventano di-
vine e vengono liberate dalle leggi della mortalità. Queste
sono lusinghe vane e fomenti di voti inutili … Può l’Etruria
ammazzare quante vittime vuole (ciò non giova nulla) (II, 62)”.
Macrobio, Saturnalia, v, 19, 13. – F. Eyssenharde, p. 333,
v. 6: “Ma citerò le parole del curiosissimo e dotto Carmina
il quale, nel secondo libro sull’Italia, dice così: che inizial-
mente dunque anche gli Etrusci usavano di solito il vomere
bronzeo, mentre si fondavano le città. Lo trovo anche nei
loro Sacri (Libri) Tagetici; e presso i Sabini coltelli di
bronzo coi quali si rasavano i sacerdoti”.
199
F R A M M E N T O D E L L A N I N F A V E G O I A
(Riportiamo questo passo anche se non appartiene ai Libri Tagetici)
Gromatici Veteres: Parimenti di Vegoia ad Arunte Veltim-
no: devi sapere che il mare fu separato dalla terra. Quando
Giove scelse per sé il territorio dell’Etruria, stabilì e co-
mandò che fossero misurati i terreni e contrassegnati i po-
deri. Ma, conoscendo l’avarizia degli uomini e l’avidità loro
per il possesso dei terreni, volle che fossero distinti con
termini ... Quegli che li avrà toccati e smossi per aumenta-
re il proprio possesso con danno altrui sarà per questo de-
litto punito dagli dèi. Se ciò faranno i servi, essi cambie-
ranno il padrone con un altro più cattivo; ma se il delitto sa-
rà stato perpetrato con la consapevolezza del padrone, la
sua casa sarà in breve soppiantata, e tutta la sua famiglia
perirà; gli esecutori poi del delitto saranno afflitti da gravis-
simi morbi, colpiti da ferite, e paralizzati nelle loro membra.
Di più la terra sarà allora sconvolta da tempeste o turbini; i
frutti saranno danneggiati e distaccati dalle piogge e dalla
grandine, periranno per gli eccessi del caldo, e cadranno
per malattie. Vi saranno molte discordie civili. Sappiate che
questo avverrà quando si commetteranno delitti simili. Ri-
cordati perciò di non ingannare, né tenere un duplice lin-
guaggio, e poni il giusto freno nel cuor tuo (Trad. Nogara,
Gli Etruschi e la loro civiltà, 1933, p. 240).
200
I LIBRI ACHERONTICI
Servio, ad Verg. Aen., VIII, 398:
Ma i Libri Etruschi dicono che questa proroga dei di-
sastri imminenti può essere ottenuta prima di tutto da
Giove, poi dai Fati, perciò anche qui (Virgilio) dice: “Nè
il padre onnipotente né i Destini lo vietavano”. ... Ma
bisogna saper che secondo i Libri dell’Aruspicina e i
Testi sacri Acheruntici, i quali, come dicono, compo-
se Tagete, i destini vanno per qualche ragione proro-
gati di dieci anni. Quel che ora Vulcano dice possa
esser accaduto non è dunque contrario, perché i de-
stini si prorogano soltanto, ma non si cambiano mai
interamente.
Limitatamente alla vita umana, Varrone e Censorino ci in-
formano che
i Libri Fatali degli Etruschi delimitavano La vita umana
con dodici ebdomadi (cioè con 12 volte sette anni) [...].
E fino a settanta anni si poteva evitare il destino con
mezzi religiosi; però dal settantesimo anno in poi non
si poteva chiedere né ottenere nulla dagli Dei239.
Oltre a questa proroga della brevità della vita, c’è un pun-
to della dottrina acherontica capace di rendere immortali le
anime degli uomini e trasformarle in dèi. Dice Arnobio:
Nè l’Etruria genitrice e madre della superstizione co-
nobbe l’idea e la forma (dell’incenso) come indicano i
riti delle cappelle (VII, 26) ... Né ciò che affermano i
239 Censorino, De die natali, II, 14,6.
201
magi … , né ciò che promette l’Etruria nei Libri Ache-
rontici, che cioè dopo aver offerto il sangue di certi a-
nimali a certi numi le anime diventano divine e vengo-
no liberate dalle leggi della mortalità. Queste sono lu-
singhe vane e fomenti di voti inutili [ … ] Può l’Etruria
ammazzare quante vittime vuole (questo non giova a
nulla) (II, 62)240.
Servio, a sua volta, ricorda che Labeone, nel trattato “Gli
dèi Animali (De diis animalibus)”, aveva detto che esistono
sacrifizi in base ai quali le anime degli uomini si trasforma-
no in dèi che per la loro origine son detti appunto “Animali
(Animales)”.
Labeone è anche l’autore del Trattato sui fulmini” composto
secondo la disciplina dei Tusci (Thouscōn paradosis), e tra-
dotto dal Latino in Greco da Giovanni Lido (vd. p. 181 ss.).
LA TEGOLA DI CAPUA. Nel 1899 si è rinvenuta nella necro-
poli etrusca di Capua, in Campania, una lastra di terracotta
alta c. 62, e larga cm. 47 recante un’iscrizione di 62 righe
con andamento alternato e rovesciamenti di lettere. La si
fa risalire al 470 a.C. circa. Il suo stato di conservazione è
molto cattivo: restano leggibili circa trecento parole pun-
teggiate anche sillabicamente. Il testo è diviso in dieci se-
zioni. La loro comprensione è molto difficile e discussa.
Nelle 10 sezioni alcuni hanno voluto vedere un calendario
composto di 10 mesi. Ciò in base a una credenza che an-
che gli antichi romani avrebbero avuto un calendario di 10
mesi241. Noi sappiamo, però, che per gli Etruschi l’anno,
che si faceva risalire a Tagete, era di 12 mesi, e comincia-
va con la luna nuova susseguente al solstizio estivo (21
240 Arnobio, Adversus Nationes , II, 62; VII, 26. 241 Censorino, De die natali, XXIII, 30: “alcuni credevano che i mesi siano stati 10 come una volta accadeva presso gli Albani dai quali i Romani ebbero origine. I loro 10 mesi mesi comprndevano nel com-plesso 304 giorni” che andavano da Marzo a dicembre.
202
Giugno). Alcuni per affermare il presupposto dei dieci mesi
hanno voluto trovare nel testo nomi di mesi non altrove do-
cumentati, e spesso in contrasto coi nomi dei mesi che noi
già conosciamo da antiche glosse. Ci sembrano perciò più
nel giusto coloro che hanno pensato a nomi divini. Per gli
uni e per gli altri è comunque evidente il senso prescrittivo
e funerario del testo, e la derivazione da un più antico for-
mulario sacrificale legato a quei Libri Acherontici che si di-
cevano dettati da Tagete a Tarconte.
In merito a ciò, qualche interesse ha il vocabolo tarchuth
che si incontra nel testo. Esso potrebbe avere qualche rife-
rimento diretto o indiretto a nomi come Tarquito, Tarche-zio, Tagete (Tarchies) e Tarconte.
203
LA TAVOLA CORTONESE
La Tavola (III-II sec. a.C.) fu rinvenuta nel 1992 nei pressi
di Cortona. Contiene un’iscrizione di quaranta righe in lin-
gua etrusca, dove si riporta un atto di arbitrato per una e-
redità contrastata. La soluzione del caso viene rimessa alla
legge Tarchiana242. Sappiamo infatti che esisteva un Te-
sto di diritto della terra d’Etruria la cui composizione gli
antichi facevano risalire a Tagete (etr. Tarchies)243.
242 Giulio M. Facchetti, Lingua etrusca, Newton & Compton, Roma, 2000, p. 198 ss. 243 Servio, All’eneide, I, 2.
204
C A P I T O L O Q U A R T O
I l L i b e r L i n t e u s
della
M u m m i a d i Z a g a b r i a
1. IL LIBER LINTEUS. Nel 1848, il collezionista croato Mihajlo
Baric, durante un suo viaggio in Egitto acquistò, non sap-
piamo come, una ben conservata mummia femminile, della
quale non si conosce il luogo del rinvenimento. Quando le
bende della mummia furono srotolate si notò che questa
aveva i capelli rossi, e che una parte delle sue bende con-
teneva segni di scrittura. Più tardi, Jacob Krall, nel 1892,
riconobbe che le bende erano composte da un liber linteus
(rotolo di lino) redatto in lingua etrusca.
Poiché il contenuto del documento è di carattere liturgico,
è stato supposto ch’esso sia stato utilizzato per le celebra-
zioni religiose di una comunità etrusca emigrata in Egitto.
Ma gli Etruschi non mummificavano; ed è anche poco pro-
babile che una comunità religiosa etrusca abbia ridotto o
abbia lasciato che altri avessero ridotto a benda per
mummia un proprio libro sacro. E’ più probabile che il Liber
Linteus abbia fatto parte delle fonti etrusche inserite
dall’imperatore Claudio nei venti Libri di Etruscologia (Tyr-
rhenikà) ch’egli scrisse in greco, e che depositò nella bi-
blioteca d’Alessandria d’Egitto attorno alla metà del I sec.
d.C.244 In quegli anni egli aveva già risvegliato la nunzio-
nalità dell’Ordine dei Sessanta Aruspici, esistente da lunga
data a Tarquinia (vd. p. 141 ss); e pare che la sua prima
moglie, Urgulanilla, fosse stata di famiglia tarquiniese. A
244
Svetonio, Vita dei Cesari: Claudio, XLII.
205
Tarquinia, peraltro, esisteva una intensa produzione di li-
no245. Tutto questo potrebbe indicare anche quale fosse
stata la prima fonte dalla quale uno scrivano incaricato da
Claudio potrebbe aver ricopiato il Liber. Probabilmente, lo
scriba estrasse e riassunse dall’archivio del Collegio dei
Sessanta Aruspici uno dei Libres Rituales attribuiti a Tage-
te, perché l’imperatore lo potesse inserire nei propri Libri di
Etruscologia che poi depositò nella biblioteca d’Alessandria
d’Egitto.
Più tardi, dopo la morte, la figura e le opere di Claudio fu-
rono ridicolizzate anche da Seneca e da Nerone. Ne parla
lo stesso Seneca nei Ludi per la morte di Claudio; ed è
probabile che fra gli Egizi, anche per l’incomprensibilità
della lingua etrusca con la quale il Liber era scritto, e per il
disinteresse verso gli ormai tramontati Etruschi, il rotolo di
lino sia passato nelle mani di un rigattiere e poi finito in
quelle di un imbalsamatore.
2. GRAFIA, CONTENUTO E DIVINITÀ DEL LIBER. Il nostro Libro è
stato ricomposto per una lunghezza di m. 13,5 e per una al-
tezza di cm. 39. Quel che ne rimane appare scritto con in-
chiostro nero per un totale di 12 colonne di circa 35 righe
ciascuna. Esso doveva esser avvolto su se stesso o ripiega-
to come un codice. Il suo testo è ripartito in paragrafati sepa-
rati da spazi vuoti o da linee tracciate con inchiostro rosso.
Esaminando la grafia si nota che epsilon e digamma
hanno forma eretta secondo un modello diffuso soprattutto
in Etruria meridionale. Il segno a tridente, poi, usato per
chi, phi, ypsilon, rho nonché la figura rettangolare del se-
gno h rimandano alla forma recente dell’alfabeto utilizzato
in Etruria meridionale a partire dalla fine del II sec. a.C.
E’ stato poi notato che lo scriba, nelle numerose riprodu-
zioni di una stessa parola, ha utilizzato una grande quanti-
tà di varianti ed oscillazioni grafiche (t/th; c/ch; ai/ei; s/ś/z).
245 Tito Livio, Storia di Roma, XXVIII, 45.
206
Specifichiamo che la s (sigma) era usata nell’Etruria meri-
dionale mentre la ś (tsade) lo era in quella settentrionale.
Ora, nella lingua etrusca, le aspirazioni di alcune conso-
nanti (c > ch; t > th) e la riduzione dei dittonghi (ai > ei > e)
non furono parallele, ma si realizzarono nel corso del tem-
po. Quindi, le riscontrate diversità di scrittura implicano che
differenti tradizioni grafiche confluirono e sedimentarono
nel testo nel corso di numerose ricopiature fatte da scribi
che di volta in volta utilizzavano le variazioni grafiche dovu-
te al momento storico in cui essi scrivevano ed alla regione
alla quale appartenevano. Proprio la natura cultuale del te-
sto dovette determinare l’accumulo di differenti tradizioni
grafiche senza che queste compromettessero l’originario valo-
re semantico delle parole. E’ tuttavia probabile che il parti-
colare scrivano del testo arrivato in nostro possesso venis-
se dall’Etruria settentrionale: ciò perché nello scegliere fra
la “ś” settentrionale e la “s” meridionale egli ha scelto più
volte quella settentrionale, almeno nei casi in cui questa
connotava la desinenza del genitivo246. Come vedremo, la
lingua e il contenuto del testo riflettono comunque gli am-
bienti della Scuola di Aruspicina esistente a Tarquinia dove
anche in epoca tarda convenivano, per decreto del senato
romano, i figli di tutti i prìncipi delle città etrusche per ap-
prendere l’arte (vd. p. 141). Certamente, questi figli dei
prìncipi dovevano saper scrivere o avere i loro scribi, meri-
dionali e settentrionali; ed ognuno di loro doveva ricopiare
con la propria regionale grafia l’originaria stesura dei Libri
Tagetici. Peraltro, in alcune versioni del mito si diceva che
Tagete avesse dettato le sue norme a tutti i figli dei principi
etruschi convenuti a Tarquinia (vd. p. 165 ss.).
Anche la lingua presenta varianti. Queste sono dovute al-
la permanenza di arcaiche formule rituali. Molti sostantivi,
246 Lo scriba scelse 99 volte la ś (tsade) settentrionale, e 12 volte la s (sigma) meridionale.
207
poi, e nomi di dèi ripetono frequentemente quelli presenti
nelle iscrizioni tarquiniesi, particolarmente nel “Rotolo di
Laris Pulena” (vd. p. 141 e n. 8).
Evidentemente, i Libri Tagetici da un lato mantenevano il
contenuto e le formule rituali originari, e dall’altro si aggior-
navano sia nella lingua che nel contenuto. Infatti, Cicerone
che conosceva quei Libri, scrisse:
Tagete parlò lungamente dinanzi alla folla di colo-
ro che lo ascoltavano. Questi stettero a sentire at-
tentamente ogni sua parola e la misero per iscritto.
Inoltre, l'intero discorso fu quello in cui venne conte-
nuta la scienza dell'aruspicina. Essa poi si accrebbe
con nuove conoscenze da ricondurre a quei princìpi
[...]. Gli Etruschi conservano questi scritti, e li consi-
derano fonte della loro disciplina247.
Quando, dunque, in un frammento della prima colonna del
“Libro”, noi troviamo scritto ZICHRI . CN . THUNT [.?.] (= si
deve scrivere questo nell’uno [libro?]) noi possiamo cautamen-
te supporre che, nel testo integrale, chi parlava sia stato Tage-
te e chi scriveva sia stato Tarconte o comunque l’insieme dei
dodici lucumoni convenuti sul luogo della rivelazione.
Fig. 41- LIBER LINTEUS. IL FRAMMENTO DELLA PRIMA COLONNA
247 Cicerone, De Divinazione , II, 50-51.
208
Ciò consente anche di ipotizzare che quando nel prose-
guo del “Libro” incontreremo la formula ZICHNE . ŚETI-RUNEC (= scritto e <stabilito> / scrisse e <stabilì>), le pre-
scrizioni rituali che seguono alla formula siano quelle che
si dicevano scritte da Tarconte o dai lucumoni sotto detta-
tura di Tagete.
***
Quanto all’epoca a cui risale la stesura originaria del testo
contenuto nel Liber, qualche significato dovrebbe avere il
fatto che nelle righe finali della IX colonna si dice:
nel giorno 27 il servizio divino si deve disporre nella
sede del lucumone/di Lucumone (LAUCHUMNETI).
Lucumone, in lingua etrusca, significa re, ma fu anche
usato come nome personale; e Strabone (I sec. a.C.) rac-
conta che questo era l’originario nome etrusco di quel re di
Tarquinia, che divenne anche re di Roma e vi trasferì le in-
segne del potere federale (vd. pp. 74-77). L’originara ste-
sura del testo del Liber dovrebbe comunque essere avve-
nuta a Tarquinia in epoca monarchica, vale a dire prima
dell’ultimo decennio del VI secolo avanti Cristo quando la
città passò ad un regime repubblicano governato da magi-
strati248. Peraltro, nei Libri Tagetici (soprattutto nel Calen-
dario Brontoscopico) che abbiamo riportato in Italiano dalla
248 Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane, V, 3-4) racconta che Tarquinio il Superbo, detronizzato a Roma dai membri repubblicani della sua stessa famiglia (Tarquinio Collatino e Bruto figlio di Tarqui-nia), si recò nella città di Tarquinia perché questa intercedesse per fargli riavere almeno i suoi beni personali (507 a.C.); a tal fine cor-ruppe i Magistrati della città, e questi lo condussero dinanzi alla As-semblea del Popolo. Tarquinia era dunque repubblica prima di Roma; e, forse dietro questa tradizione si cela il fatto che Roma divenne re-pubblica quando Tarquinia non permise più di regnare ai Tarquini di Roma.
209
traduzione greca di Giovanni Lido, ci sono frequenti riferi-
menti a regni ed a regnanti.
Fig. 42 - Tarquinia. Sarcofago (IV-III sec. a.C.). Porta di ingres-
so agli Inferi: potrebbe essere stata raffigurata sulla falsariga
della porta occidentale della città di Tarquinia.
***
Il testo del Liber Linteus consta di 12 colonne di scrittura.
Queste contengono prescrizioni rituali pertinenti diverse
festività.
I colonna
Nei pochissimi frammenti che restano non si nominano dèi.
II colonna
Contiene rituali per offerte agli “dèi Superni (AISERAŚ ŚEUŚ)”.
210
III colonna
Si parla di un rito da fare in onore di CRAPŚTI. Il nome di
questo dio si ritrova solo a Tarquinia sul rotolo di Laris Pu-
lena, dove è chiamato CRAPISCE (vd. p. 141, n. 8). Que-
sto nome etrusco, peraltro, è comparabile con quello latino
di GRAVISCA che era il porto di Tarquinia. Si è pure cer-
cato un parallelo fra il nome di CRAPŚTI o CRAPISCE e
quello della divinità umbra Grabovio.
Ritroveremo il nome di CRAPŚTI nella quarta e nella se-
sta colonna. I suoi riti, rispetto a quelli degli altri dèi, occu-
pano il maggiore spazio e si ripetono più volte.
IV colonna
Si ripete il rito in onore di CRAPŚTI. Si nomina pure un
dio CEMNA-CH che L. B. van der Meer ha identificato con
Iuppiter Ciminius (Giove Cimino), noto anche da un’iscrizione
latina249, il cui nome rimanda a quelli del lago Cimino e del-
la selva Cimina che si trovavano nel territorio di Tarqui-
nia250. La Tabula Peutingeriana indica poi un Lucus (cod.
lacus) ed un monte Ciminus accanto a Tarquinia.
V colonna
Si parla di un rito rivolto agli “dèi Inferi e Superni (EISER ŚIC ŚEUC)”.
Si parla poi di un rito per la dea “Aurora (THESAN)” defi-
nita anche “Aurora di Giove (THESAN TINŚ)”, ed “Aurora
degli dèi Superni (THESAN EISERAŚ ŚEUŚ).
249
Dessau, ILS, 3078; CIL, XI, 2688 250
L. B. Van der Meer, Liber Linteus Zagabriensis, Leuven, 2007, p. 22; 90-91.
211
Fin dal VI sec. a.C., Thesan si trova su molti documenti
epigrafici ed iconografici provenienti in genere dall’Etruria
meridionale, soprattutto da Cere e dal gruppo dei vasi co-
siddetti “de La Tolfa”. Più tardi verrà raffigurata su numero-
si specchi in scene connesse con il mito greco: è noto uno
specchio di Tuscania. Fuori dal mito greco, ritroviamo la
dea su un altro specchio di Tuscania (f. 32) dov’ella e il dio
Nettuno si trovano rispettivamente alla sinistra ed alla de-
stra del dio Sole (USIL). Ricordiamo, in particolare, lo
specchio di Tagete (da Tuscania) dove la dea, posta nel
cielo al di sopra del divino fanciullo, guida la quadriga del
sole nascente (f. 18).
VI colonna
Nelle prime sei righe si parla forse di riti per Giano da
compiere nel mese di Maggio.
Nella settima riga, poi, si trova scritto: “ETNAM VELTHI-NAL ETNAM AISUNAL THUNCHERŚ ICH ŚACNICLA”.
C’è chi traduce: “sia delle umane (VELTHINAL) sia delle
divine leggi ...”. Ma si può anche provare a tradurre: “sia di
Velthina (VELTHINAL) sia dei collegi divini (AISUNAL
THUNCHERŚ) come quelli di questo santuario (ICH
ŚACNICLA)”. Nel nostro caso, Velthina potrebbe essere
una variante, anche solo grafica, di Veltune (il dio federale
che è accanto a Tagete nella scena graffita sul famoso
specchio di Tuscania).
Dalla nona riga si parla poi di un rito per LUS (Dioscuri?),
nome divino che si ritrova sul bordo del fegato di Piacenza.
Nella dodicesima riga si rinomina il rito per CRAPSTI (presente già nella terza e quarta colonna).
Dalla diciassettesima riga si parla di un rito per TINIA
(Giove). Tinia è la suprema divinità etrusca. Il suo nome si
ritrova nelle caselle del bordo del fegato di Piacenza. Iscri-
zioni dedicatorie sono state trovate e Tarquinia, Ferento,
212
Bolsena ed Orvieto. A Tarquinia, poi, gli era dedicato il co-
siddetto tempio dell’Ara della Regina, che era il più grande
d’Etruria251.
Nella riga diciannovesima si ordina pure di celebrare un
ludo per HIPNOS (Il dio del sonno). La figura di questa di-
vinità è stata riconosciuta negli affreschi di due tombe di
Tarquinia, quella della Pulcella, e quella dell’Orco II (f. 43).
VII colonna Dalla seconda riga si parla di un rito per VELTRE. In
questo nome è forse da vedere una delle forme etrusche
del nome latino di Vertumnus (cfr. etr. SATRE / lat. Sa-
251
Si apprende da un cippo marmoreo del primo impero, trovato a Tarquinia ed illustrato da M.Torelli, (Tarquitius Priscus Haruspex di Ti-berio, in Archeologia in Etruria Meridionale, a cura di M. Pandolfini, Roma, 2006. p. 249, ss.)
213
turnus), il dio che Varrone indicava come “principe
d’Etruria”. Si parla poi del Sole (USIL) e dell’Aurora (THE-SAN). Infine troviamo la frase: “ETNAM VELTHITE ET-NAM AISVALE” della quale si sono avute varie traduzioni.
A noi la migliore sembra essere: “sia sull’ara di Velta che
delle divinità minori”. Verosimilmente, VELTA, come VEL-
TRE, VELTHINE, e VELTHUNE dello specchio di Tagete,
sono i nomi della stessa divinità federale etrusca che i
Romani chiamavano Veltumna e Vertumnus. Si parla pure
di azioni da compiere nel CILTH CECHANE ( = tempio
superiore o federale - cfr. Maggiani, “StEtr”, 1996, p. 108).
VIII colonna
Nelle prime due righe si parla di un rito per la dea CULS.
In numerosi sarcofagi, la divinità si trova raffigurata sulla
porta degli Inferi, dotata di ali e provvista di fiaccola. Il no-
me si ritrova principalmente sul bordo del fegato di Piacen-
za e nel rotolo di Laris Pulena a Tarquinia.
Dalla riga ottava si espone poi il rito da tributare a NE-THUNS (Nettuno). Il suo nome si trova sul bordo del fegato
di Piacenza. Le sue rappresentazioni si ritrovano soprattut-
to a Tuscania, Vulci e sulle monete di Vetulonia.
IX colonna Si tratta ancora del rito per NETHUNS (Nettuno).
X colonna
Si nomina ancora il dio CEMNA-C (Cimino) e VELTHA.
XI colonna
Alla riga ottava si prescrive di collocarsi “IN VELTINES
CILTHS (nel tempio di Veltine/Veltune)”.
214
Si parla poi forse di CEL (la dea della Terra), e sicura-
mente di TUCHLA (Tuculca). Quest’ultimo è un dio infer-
nale raffigurato anche nella tomba dell’Orco a Tarquinia (f.
44).
XII colonna Tra l’altro si prescrive un rito da compiere “nel tempio di
Giunone Ursmna (UNIALTHI URSMNAL)”. URSMNA, epi-
teto di Giunone, rimanda al gentilizio di AVLE URSUM-NAS252, supremo magistrato (zilath) di Tarquinia (f. 45A) e
di LARTHI URSM(INI)253, una bellissima aristocratica che,
sempre a Tarquinia, negli affreschi della tomba Bruschi, è
raffigurata, con abiti riccamente panneggiati, corona sul
capo, e melograno in mano, nell’atto di guardarsi nello
specchio che una serva le pone dinanzi al viso (f. 45B).
252
M. Morandi Tarabella, Prosographia Etrusca, I, L’<<Erma>> di Bre-tschneider, Roma, 2004. p. 253
Corpus Iascriptiomun Etruscorum, 5457.
216
3. METHLUM (CAPITALE). Noi abbiamo già esposto come
Devolto e Morandi traducano il vocabolo etrusco MEL-THUM rispettivamente con “città” e “Assemblea”. Abbiamo
già anche sostenuto che MELTHUM dovrebbe più pro-
priamente corrispondere al latino Caput inteso come “città
capitale, concilio federale, testa”. Abbiamo già pure infine
sostenuto che il locativo METHLUM-TH dovrebbe indicare
quel particolare luogo della “città capitale” dove emerse la
testa di Tagete e dove tutti i lucumoni d’Etruria convennero
in “assemblea” per apprendere e scrivere gli insegnamenti
del divino fanciullo.
MELTHUM dunque dovrebbe significare sia “città capita-
le” che “assemblea capitale (cioè federale)”; ed il locativo
METHLUM-TH dovrebbe indicare il luogo specifico in cui si
teneva la stessa “Assemblea capitale (cioè federale)” (vd.
p. 103 ss.).
Nel Liber Linteus si trovano spessissimo espressioni che
contengono il vocabolo METHLUM (capitale, assemble-
a)254. Ora, le nostre considerazioni su METHLUM (capita-
le) e METHUMTH (luogo del concilio federale) ci consen-
tono di tentare una traduzione delle espressioni in cui il vo-
cabolo è contenuto.
Una delle formule più complete è
ŚACNICLERI.CILTHL. ŚPURERI. METHLUMERIC. ENAS. ŚVELERIC. SVEC (II 7-8).
che possiamo tentare di tradurre così:
In favore di questo sacro collegio del tempio, della
città e del concilio federale nostri (oppure “di Ene-
a”), e dei viventi e di ognuno.
254
Liber Linteus, II 3-4; II 7-8; III 21; 23-24; IV 4; 6; 17; 18-19; IV fr. 1-2; 4-5; V 3-4; 6-7; 13-14; VI 7-8; VII 18; VIII 10-11; 14; fr. 5-6; IX 2-3; 5-6; 9-10; 12-13; 21-22; XII 4; XII 11.
217
ŚACNICLERI = in favore di questo sacro collegio (van der Me-
er); CILTHL = del tempio (Pittau)255; ŚPURERI = in favore della
città (Pallottino); METHLUMERIC = e capitale /o centro federale
(Palmucci); ENAS = nostra / di Enea? (Van der Meer); ŚVELERIC = e in favore dei viventi (Pittau); ŚVEC = e ogni (Olzscha).
La formula trova peraltro un parallelo nelle Tavole Igubine
dove si trovano espressioni come la seguente:
Tefro Giovio salva, serba dell’arce Fisia, della città
Iguvina il nome, i maggiorenti, i sacerdoti, gli uomi-
ni, gli animali, gli individui, le messi salva (Tav. XIX).
4. ENEA, VIRGILIO ED IL CENTRO FEDERALE ETRUSCO. Nella
frase del Liber Linteus, appena esaminata, la traduzione di
ENAS costituisce un problema. Si ritiene comunemente
che debba significare “nostro/a”. Giovanni Colonna lo ha
tuttavia correlato a un presunto etnico *Eina-te256. Ciò im-
plicherebbe, come ha già pure osservato L. B. van der
Meer, l’esistenza di una città chiamata EINA o ENA.
L’ipotesi è ragionevole, perché nella formula del Liber Lin-
255
E’ anche probabile che in modo più specifico Cilth significhi “tem-pio”, inteso nel senso latino di “templum”, cioè di quell’orizzonte cele-ste o cosmo (riflesso anche materialmente in un luco, un edificio sacro e un fegato) del quale la dea *Cil o Cilen (Fortuna) occupava la primis-sima parte orientale delle sacre zone delimitate dai sedici spazi in cui lo stesso templum era costituito. Il Georghiev avvicina val’etrusco Cilth all’ittita Kelti- = termine oracolare (V. I. Georghiev, Introduzione alla storia delle lingue indoeuropee, Ed. dell’Ateneo, Roma, 1966, p. 270. 256
G. Colonna, La più antica iscrizione di Bologna, in Studi e Docu-menti di Archeologia, II, 1986, pp. 57-66; Il lessico istituzionale etrusco e la formazione delle città (specialmente in Emilia Romagna), in La formazione della città preromana in Emilia Romagna (Atti del Convegno, Bologna-Marzabotto, 1985), Bologna, 1988, pp. 131-143.
218
teus, a differenza di quella della Tavole Igubine, manca il
nome della città alla quale la formula dovrebbe riferirsi. Ma,
poiché EINA è anche il nome etrusco del troiano Enea,
come appariva scritto su un perduto specchio di Chiusi,
van der Meer si domanda perplesso cosa potrebbe mai il
nome dell’eroe troiano avere a che fare con le formule
propiziatorie del Liber Linteus nelle quali si troverebbe in-
serito. Noi vogliamo però far presente che Stefano di Bi-
sanzio, nel suo Trattato sulle città, elencava una città di Enea (Aineia) fra quelle esistenti in Etruria; e c’è pure da
tener presente che in lingua etrusca, dal nome etrusco di
EINA (Enea) si sono formati alcuni gentilizi come quello
degli EINA di Chiusi e degli EINA-NA di Tarquinia257. Tut-
tavia, van der Meer, pur ammettendo l’esistenza di una cit-
tà etrusca che portava il nome di Enea (Eina), esclude che
questa possa essere identificata con Tarquinia o con Chiu-
si. In alternativa postula che il vocabolo ENAS del Liber
Linteus possa significare “di noi”258.
Noi non escludiamo che ENAS possa significare “di noi”,
vogliamo però far presente che il nome di Enea potrebbe
non essere estraneo al contesto delle frasi in cui verrebbe
a trovarsi, e che il METHLUM (= centro/concilio federale)
di Enea potrebbe esser proprio Tarquinia.
Esiste infatti una lunga tradizione antica e moderna che
apparenta gli Etruschi con i Troiani, e identifica Tarquinia
con la virgiliana città di Còrito (oggi Corneto Tarquinia) che
era l’atiqua mater etrusca alla quale Enea, dopo la rovina
di Troia, avrebbe ricondotto i superstiti troiani.
La più antica raffigurazione della presa di Troia, e di Enea
che se ne allontana assieme alla moglie e ai figli, si trova
dipinta su un vaso etrusco della seconda metà del VII sec.
257
Vd, Thesaurus Linguae Etruscae, a cura di M. Pandofini Angeletti, CNR, Roma, 1978, p. 124. 258
L. B. van der Meer, Liber Linteus Zagabriensis, Peeters, Louvian, 2007, pp. 55-56.
219
a.C.259 Le figurazioni greche scendono invece alla fine del
VI sec. a.C.260 Appartengono a questo stesso periodo le
rappresentazioni etrusche (su anelli, vasi e statuette) di
Enea che emigra da Troia portando su una sola spalla il
padre Anchise (f. 46 A), il quale a sua volta porta in mano
il cesto dei Penati da trasferire nella nuova terra. Sul ca-
stone di un anello (f. 46 B) si vede addirittura Enea che
trasferisce in Etruria su una sola spalla la stessa TURAN
(nome etrusco di Afrodite, madre di Enea)261. Quando i
259
Enciclopedia Virgiliana, s.v. Enea, p. 232. 260
Dall'esame del Lexicon Iconographicum Mithologiae Classicae (s.v. Aineia) emerge che la quasi totalità dei vasi greci è stata trovata in Ita-lia, e soprattutto in Etruria: 6 a Vulci (il più antico è del 520 a.C.); 1 a Tarquinia (520 a.C.); 3 a Cere (510-490 a.C.); 1 in luogo non determi-nato (510 a.C.); 1 a Spina (450 a.C.). Questi vasi furono fatti in Grecia ad uso del mercato italico che ne faceva grande richiesta. La scena ti-pica è quella di Enea che lascia Troia portando sulla schiena il vecchio padre Anchise che gli si strige al collo. 261
Gli Etruschi svilupparono una propria produzione di vasi con scene di Enea che fugge da Troia. Ma la produzione etrusca contiene un im-portante particolare in più. Sul castone d’un anello (500-475 a.C.) di provenienza ignota, si vede Enea che sostiene il padre seduto su una sola spalla. In questa posizione, Anchise ha le braccia svincolate dal collo di Enea, e così può esibire su una mano il sacro cesto delle sta-tuette dei Penati di Troia. Anche in un vaso etrusco di Vulci (470-460 a.C.), Enea, accompagnato dal figlio, porta il padre seduto su una sola spalla, mentre la moglie lo precede portando sul capo un fagotto; ma non siamo sicuri che il fagotto contenga i Penati. La città di Veio ha pu-re restituito una serie di statuette, appartenenti alla prima metà del V sec.a.C., raffiguranti Enea che porta il padre su una sola spalla, ma senza il cesto dei Penati. Molto più tardi, a partire dal I sec. a.C., pure i Romani, per significare il trasferimento dei Troiani nel Lazio, faranno figure con Enea ed Anchise che abbandonano Troia. Ma i Romani non imiteranno il modello greco, bensì quello che gli Etruschi avevano raf-figurato sull'anello d’origine ignota (Tarquinia?) nel quale Anchise, se-duto su una sola spalla d’Enea, recava in mano il cesto dei Penari di Troia. E' ovvio che i Romani avevano recepito scena e significato dall’archetipo presente nell’anello etrusco. Su un altro castone d’anello (inizi V sec. a.C.), opera dello stesso artefice del precedente, si vede ancora Enea che trasferisce su una sola spalla in Etruria l’effige di sua madre Turan (Venere): il nome della madre è etrusco a significare l’origine etrusca dell’eroe.
220
Romani qualche secolo dopo avranno fatta propria la tra-
dizione etrusca, riprodurranno dagli Etruschi la scena di
Enea che porta in Italia su una sola spalla il padre Anchise
coi Penati di Troia, e daranno alla fatto il significato del tra-
sferimento in Italia della stirpe troiana.
Fig. 46 – Coppia di anelli etruschi (500 – 475 a.C.) di prove-nienza ignota (Tarquinia?), prodotti da uno stesso artigiano. Sui due castoni sono presentate figurazioni con soggetti paralleli. A). Enea porta da Troia in Etruria (a Corito Tarquinia?) su una sola spalla il vecchio padre Anchise. Questi a sua volta esibisce su una sola mano il cesto contenente le statuette degli dèi Pe-nati di Troia. B). Enea porta da Troia in Etruria su una sola spalla la propria madre divina. Anche questa esibisce qualcosa che pende da una sua sola mano. Attorno alla testa della dea, in lingua etru-sca, è scritto TURAN (Afrodite-Venere). L’autore degli anelli si rifaceva evidentemente ad una tradizio-ne etrusca secondo cui il troiano Enea aveva introdotto da Troia in Etruria sia i Penati di Troia sia il culto di sua madre TURAN (Afrodite-Venere).
221
D’altra parte esistono anche documenti letterari greci che
trattano di una venuta e di uno stanziamento di Enea in E-
truria, assieme a Tarconte262. Stanziamento tanto stabile
da poter egli concedere al sopravvenuto Odisseo una stri-
scia di costa etrusca sul mar Tirreno263. Enea sarebbe poi
passato nel Lazio. Virgilio infine nell’Eneide sostenne addi-
rittura, come già abbiamo anticipato, che una colonia di E-
truschi partì da Còrito (oggi Corneto Tarquinia) ed andò in
Asia Minore a fondare Troia. Quando poi i Greci, dice
Virgilio, ebbero distrutto la città, Apollo e gli dèi Penati co-
manderanno ad Enea di ricondurre in Etruria, a Còrito
(Corneto Tarquinia), i superstiti Troiani264. Virgilio, però, di-
versamente, dai suoi predecessori greci, non fa sbarcare
Enea direttamente in Etruria, ma nel Lazio, alla foce del
Tevere che egli diplomaticamente chiama “fiume etrusco”.
Enea, tuttavia, è respinto dai Latini del luogo, e si reca in
Etruria, presso il fiume Mignone265, a Còrito266 (Corneto
262
Licofrone, Alessandra, 1225-1249, ss. ; Tzetze, Commento alla A-lessandra di Licofrone, 1252, ss. 263
Parafrasi greca della Alessandra di Licofrone, 1242. Il testo della parafrasi è in E. Scheer, Lycophronis Alexandra, I, 1958, v.1242, p.102. Traduzione italiana in G. Buonamici, Fonti di Storia Etrusca, Fi-renze, 1939, p.106. 264
Virgilio, op. cit. , III, 94; 167; VII, 207; 240; VIII, 597- 601; IX, 10. 265
Virgilio, op. cit., 8, 597: "apud Caeritis amnis". Il poeta non specifica il nome del fiume, anzi lo definisce Caeritis perché il suo alto corso passava sul confine fra Tarquinia e Cere, oppure perché passava ac-canto alla cittadina di Caerium, che si trovava in territorio tarquiniese verso Cere (Per l’ubicazione di Caerium, vd. A. Palmucci, Corito-Tarquinia e il porto dei Ceretani, “Atti e Memorie dell’Accademia Na-zionale Virgiliana di Mantova”, 61, 1993, p. 16). Sia Elio Donato che Servio, antichi commentatori di epoca romana, esplicitarono che il fiu-me che il poeta definiva Caeritis era il Mignone, e lo localizzavano a nord di Centumcellae (oggi Civitavecchia), cioè fra Civitavecchia e Tarquinia dove in effetti sfocia. Vedi Servio, op. cit.: “ AMNIS, Minio di-cit ut qui Caerete domo qui sunt Minionis in arvis”( VIII, 597); Servio Dan., op. cit.: “AMNIS autem, aut taquit nomen, aut, ut quidam volunt, Minio dicitur”(VIII, 597); “MINIONIS, fluvius est Minio Tusciae ultra Centumcellas”(X,183). Ancora nel Medioevo, il fiume manteneva la doppia denominazione di Mignone e Cerito. Leandro Alberti diceva che
222
Tarquinia)267 per chiedere aiuto a Tarconte268. Questi, che
tradizionalmente era considerato l’eponimo di Tarquinia,
ed il capo fondatore della Federazione Etrusca, riunisce a
Còrito (Tarquinia) tutti i re delle varie città federate, con i
loro eserciti e le loro flotte, poi fonde le sue forze con quel-
le dei Troiani, rinuncia alla propria carica federale, ed invita
gli Etruschi ad eleggere lo stesso Enea a capo della Fede-
razione Etrusca. Enea, dunque, divenne capo di tutti gli
Etruschi; poi, assieme a loro e a Tarconte, tornerà via
il Mignone “esce dai monti, e dirittamente scendendo quivi mette capo alla marina; anche si nomina Cerito, per uscire de i monti vicini ai Ceri-ti; di poi vedesi Città Vecchia” (Descrittione di tutta Italia, p. 36). Per tutta la problematica, vedi i miei lavori elencati in bibliografia all’inizio di questo volume. 266
Virgilio, op. cit., 9,10: "Enea extremas Corythi penetravit ad urbes"; Servio Dan., All’Eneide, 9, 1: “DIVERSA PENITUS, valde diversa, id est longius remota, vel apud Pallanteum vel in Etruria, unde paulo post dicit: NEC SATIS EXTREMIS CORYTHI PENETRAVIT AD URBES LYDO-
RUMQUE MANUS”; 9,10: “CORYTHI PENETRAVIT […]; CORYTHI autem montis tusciae […]; PENETRAVIT, bene quia supra dixerat PENITUS (cod. T: PENETRAVIT, bene dicit PENETRAVIT quia supra dixerat PENITUS DI-
VERSA PARTE)”. Evidentemente, Corythus, o Corinthus come risulta scritto in altre fonti ed in uno degli stessi codici dell’Eneide, era il nome col quale Virgilio chiamava Tarquinia, derivato da quello di un centro attiguo che noi conosciamo col nome greco di Kyrniéta (Esichio) e con quello medioevale di Cornetus (detto anche Corgitus e *Crugentus). Durante tutto il Medioevo, questa città fu idenficata con l’antica Cor-ythum di virgiliana memoria. Per tutta la problematica inerente a Virgi-lio e Corito-Tarquinia vedi i nostri lavori elencati in Bibliografia 267
Per l’identificazione della virgiliana città di Corito con Tarquinia, vedi le mie opere elencate nella bibliografia di questo volume. 268
Servio informava che la natura pianeggiante del colle (evidentemente presso il Mignone) in cui si trovava l’accampamento di Tarconte non solo era menzionata in fonti scritte ancora esistenti ai suoi tempi (IV sec.), ma che la cosa poteva esser verificata andando sul luogo: “Intel-legamus, quod hodieque legimus et videmus, hanc collium fuisse natu-ram, ut planities esset in summo, in qua inierat castra Tarconis” (Ser-vio, op. cit., VIII, 603). Dunque, ai tempi di Servio, fonti scritte e abitanti del luogo sapevano ancora che fra Centumcellae e Tarquinia, nei pressi del Mignone (vd. nota precedente), c’era un colle dalla sommità pianeggiante sulla quale, si diceva, Tarconte aveva riunito l’esercito federale etrusco. Si trattava di un consueto luogo di riunioni federali.
223
truschi; poi, assieme a loro e a Tarconte, tornerà via mare
alla foce del Tevere dove sconfiggerà i Latini.
Si è sempre creduto che Virgilio avesse inventato questo
episodio, però se la parola ENAS che è scritta sul Liber
Linteus dovesse corrispondere veramente al nome di Ene-
a, la cosa confermerebbe il mitico legame fra Etruschi e
Troiani, e testimonierebbe l’esistenza in Etruria d’una tra-
dizione che fondeva Tirreni e Troiani. Non solo, ma a-
vremmo anche la testimonianza dell’esistenza d’una tradi-
zione etrusca alla quale Virgilio avrebbe attinto.
In proposito, Robert Beekes ha osservato:
Alberto Palmucci sostiene che ci sono prove che la
storia di Enea in Italia fu preceduta da una versione
dove il viaggio da Troia avvenne per l’Etruria. Se ciò
è corretto, è di grande importanza: quando i Romani
dicevano di venire da Troia, quella storia non era
romana, bensì etrusca269.
Oggi, poi, dopo la scoperta che il DNA degli Etruschi ha
qualche connessione con gli abitanti dell’Anatolia e, in
particolare con quelli dell’isola di Lemno (che era a poche
miglia da Troia), la posizione di Virgilio trova qualche con-
forto270. In particolare, Noi abbiamo più volte affacciato
l’ipotesi di scambievoli flussi di gente avventi fra la peniso-
la italiana, la penisola Anatolica (Troade, Misia, Lidia) e le
isole Egee (Lemno, Imbro, Samotracia, Lebro, Tenedo,
ecc.). L’elenco delle nostre opere si trova all’inizio dei que-
sto libro nella relativa bibliografia. Stiamo lavorando ad
un’opera di sintesi, riveduta, corretta ed aggiornata che
269
Vedi bibliografia e il testo inglese a p. 5. 270
A. Palmucci, Virgilio, Erodoto e il DNA degli Etruschi (Corito Tarqui-nia), “Aufidus” (Università di Bari, Università di Roma Tre, CNR), 62-63, 2007, pp. 93-126.
224
speriamo di terminare e di pubblicare in futuro, se Dio vor-
rà concedere ancora qualche anno alla nostra vita.
Dopo Beekes, Valeria Forte in suo lavoro sulle origini de-
gli Etruschi271 dice di riportare
“le opinioni degli etruscologi più rinomati del nostro
tempo, come Pallottino, Palmucci, Munzi ed altri”, e
continua specificando che “Alberto Palmucci, un e-
minente Etruscologo che vive in Italia” ha aperto “un
dialogo con studiosi europei ed americani sia in la-
vori accademici che in blog elettronici”.
“In sostanza, Palmucci”, dice ancora la Forte, “in-
troduce un elemento molto avvincente nel dibattito
sulle origini Etrusche quando sostiene che noi non
dovremmo presumere che un DNA genetico, comu-
ne tra Etruschi e popolazioni del Vicino Oriente,
provi l’origine degli Etruschi in Asia Minore. Palmuc-
ci specifica che gli Etruschi si son potuti muovere
dall’Italia verso le terre orientali, e questa migrazio-
ne ha potuto prendere la forma di un modello circo-
lare di partenza da e ritorno alle coste italiane. Per
convalidare questa ipotesi Palmucci fornisce toponimi,
analisi linguistiche, e dati archeologici”.
Dopo aver ricordato che Palmucci si rifà a “Virgilio,
per cui gli Etruschi partirono da Còrito, più tardi
chiamata Tarquinia, emigrarono ad Est e poi torna-
rono sulle spiagge etrusche”, la Forte conclude:
“Palmucci è uno dei più attivi classicisti ... ed uno
che a molti livelli partecipa al dibattito sugli Etruschi.
I suoi commenti ed opinioni sono supportate dalla
sua impressionante conoscenza della civiltà etru-
sca: egli li esprime nel blog di internet dove dibatte
con gli esperti di tutto il mondo”.
271
Vedi bibliografia e testo inglese a p. 5.
225
***
Dal nome anatolico del Dio della Tempesta, protettore di
Wilusa-Troia, variamente chiamato Taru, Tarhu, Tarhuis,
Tarhun, Tarhunna, Tarhunt e Tarhunta, derivarono i no-
mi di vari eroi, re e città anatoliche fra cui quello di Tarhun-
ta (re della Misia) e di Tarui-sa/*Tahui-sa (Vilusa-Troia)
della quale il dio stesso era protettore. Dal nome dello
stesso dio derivano peraltro anche il nome di Tarconte (etr.
Tarchunus; gr. Tarcho, Tarchon; lat. Tarco-Tarconis e
Tarcon-Tarcontis), mitico figlio del re della Misia, e fonda-
tore di Tarquinia (etr. Tarchu-na; gr. Tarchyna; lat.
Tarquinii)272. Se mai vennero coloni da Lemno, dalla Tro-
ade, dalla Misia e dalla Lidia in Italia, come vorrebbero le
tradizioni, costoro dovettero portar seco i nomi dei loro dèi
e delle loro città.
272
V. I. Georgiev, La lingua e l'origine degli Etruschi, Roma, 1979, p. 118; A. Palmucci, La figura di Tarconte: un ponte mitostorico fra Tar-quinia e Troia, in Anatolisch und Indogermanisch (Anatolico ed indoeu-ropeo), Acten des Kolloquiums der Indogermanischen Gesellschaft, Pavia 22-25 Settembre 1998 (Università degli studi di Pavia, diparti-mento Scienze dell’Antichità), Innsbruck, 2001, pp. 341-353; A. Pal-mucci, Virgilio, Erodoto e il DNA degli Etruschi (Corito Tarquinia), “Au-fidus” (Università di Bari, Università di Roma Tre, CNR), 62-63, 2007, pp. 93-126.
227
I N D I C E D E L L E F I G U R E
1) Cartina del Medio Oriente e dell’Asia Minore. ... p. 14.
2) Tarhui, il Dio della Tempesta. ... p. 16.
3) Statua di Diotima di Mantinea. ... p. 21.
4) Fegato babilonese. ... p. 22.
5) Fegato ovino. ... p. 26.
6) Modello di fegato babilonese (BM 50494). ... p. 30.
7) Modello di fegato babilonese (BM 50494). Trad. .... p. 31.
8) Fegato ittita. ... p. 35.
9) Fegato ittita da Bogazkey. ... p. 48.
10) Scena assira di sacrificio. ... p. 50.
11) Fegato siriano. ... p. 53.
12) Carta del Mediterraneo. Est in alto. ... p. 55.
13) Mappe a T-O. Est in alto. ... p. 56.
14) Lampadario di Cortona . ... p. 62.
15) Tarquinia. Tomba delle Bighe. Columen. ... p. 62.
16) Anello etrusco. Tarconte raccoglie Tagete. ... p. 65.
17) Aruspice. ... p. 68.
18) Tuscania. Lo specchio di Tagete. ... p. 71.
19) Tarquinia. Tomba del Convegno (250-150 a.C.). ... p. 76.
20) Vulci. Tomba François. ... p. 77.
21) Tarquinia. Tempio Ara della Regina. ... p. 78.
22) Tarquinia. Tempio Ara della Regina. Vasca. ... p. 79.
23) Tarquinia. Tomba delle Bighe. Vertumnus?... p. 80.
24) Cerveteri. Trono di Claudio. ... p. 83.
25) Tabula Peutingeriana. Milano, Tarquinia, Volsini. ... p. 84.
26) Faleri. Modello fittile di fegato. ... p. 96.
27) Volterra. Sarcofago con aruspice e fegato. ... p. 99.
28) Fegato di Piacenza. Modellino bronzeo. ... p. 101.
29) Fegato di Piacenza. Parte convessa. ... p. 102.
228
30) Fegato di Piacenza. Direzioni delle scritture. ... p. 107.
31) Fegato di Piacenza. Numerazione delle caselle. ... p. 108.
32) Tuscania. Specchio: Sole, Nettuno e Aurora. ... p. 113.
33) Tre statue della dea Fortuna. ... p. 126.
34) Case divine della volta celeste. ... p. 128.
35) Atropo pianta il chiodo. ... p. 141.
36) Tarquinia. Lapide d’un membro dei 60 aruspici. ... p. 142.
37) Tarquinia. Sarcofago di Laris Pulena. ... p. 1423
38) Arezzo. Aruspice con fegato. ... p. 172.
39) Anello etrusco con aruspice e fegato. ... p. 176.
40) Moneta etrusca: Metl. ... p. 181.
41) Liber Linteus. Frammento della prima colonna. ... p. 207.
42) Tarquinia. Sacofago con la porta degli Inferi. ... p. 209.
43) Tarquinia. Tomba dell’Orco II. Hipnos. ... p. 212.
44) Tarquinia. Tomba dell’Orco II. Tuchulcha. ... p. 214.
45) Tarquinia.
A - Cippo funerario di Avle Ursumnas;
B - Tomba Bruschi. Effigi di Larthi Ursumnai. ... p. 215.
46) Coppia di anelli etruschi.
A Enea porta sulla
spalla il padre Anchise con il cesto degli dèi
Penati di Troia.
B Enea porta sulla spalla
la madre TURAN (Afrodite-Venere). ... p. 220.
229
I N D I C E G E N E R A L E
Notizie Biografiche.
Altre opere dell’autore.
Presentazione.
CAPITOLO PRIMO
Aruspicina babilonese, ittita, assira, greca, romana, etrusca.
Presentazione (di Giangranco Gazzetti) . ... p. 12.
Premessa. ... p. 13.
APPARATO TECNICO
1. la faccia viscerale del fegato. ... p. 19.
2. Il Dito o Pollice. ... p. 25.
3. Il Giogo. ... p. 27.
4. Il Nodo. ... p. 32.
5. Il Fiume e la Porta del fegato. ... p. 32.
6. La Cistifellea. ... p. 33.
7. La Crescenza. ... p. 34.
8. La Presenza. ... p. 47.
9. Il Sentiero. .... p. 51.
10. Altre sezioni del fegato babilonese. ... p. 51.
CAPITOLO SECONDO
Aruspicina etrusca
230
L’ORIENTAMENTO PRESSO GLI ANTICHI
1. Le rose dei vènti. ... p. 54.
2. Il templum etrusco. ... p. 56.
TAGETE E IL PANTHEON ETRUSCO
1. Tagete e Tarconte. ... p. 62.
2. Il fegato di Tagete. ... p. 69.
3. Il Fanum Voltumnae. ... p. 73.
4. Gli insegnamenti di Tagete. ... p. 91.
5. Le parti ominose del fegato di Tagete. ... p. 92.
6. Il fegato di Faleri. ... p. 96.
7. Il fegato di Volterra. ... p. 98.
8. Il fegato di Piacenza. ... p. 99.
9. La bipartizione del fegato. ... p. 101.
10. Le caselle del bordo esterno. ... p. 106.
LE SUDDIVISIONI DEL FEGATO. ... p. 111.
Ala sinistra del fegato : settori meridionali
A) I quattro settori del bordo esterno. ... p. 114.
B) Le caselle interne. ... p. 116.
C) la Cistifellea. ... p. 117.
Ala destra del fegato: settori occidentali
A) I quattro settori del bordo esterno. ... p. 117.
B) Le caselle interne. ... p. 119.
Ala destra del fegato: settori settentrionali
A) I quattro settori del bordo esterno. ... p. 120.
231
B) Le caselle interne. ... p. 121.
C) La Ruota Divina. ... p. 122.
Ala sinistra del fegato: settori orientali
A) I quattro settori del bordo esterno. ... p. 123.
B) Le caselle interne. ... p. 130.
MARZIANO CAPELLA. .... p. 133.
IL COLLEGIO DEI SESSANTA ARUSPICI. ... p. 142.
I SECOLI ETRUSCHI. ... p. 146.
CAPITOLO TERZO
I Libri Tagetici
1. I Libri Tagetici. ... p. 151.
2. Il Calendario Brontoscopico ( da Figulo). ... p. 152.
3. Il Trattato di Brontoscopia (da Fonteio). ... p. 172.
4. Il poema su I Terremoti (da Vicellio). ... p. 176.
5. Il trattato su I Fulmini (da Labeone). ... p. 182.
6. Frammenti (da autori vari). ... p. 193.
FRAMMENTO DELLA NINFA VEGOIA. ... p. 199.
I LIBRI ACHERONTICI. ... p. 200.
LA TEGOLA DI CAPUA. ... p. 201.
LA TAVOLA DI CORTONA. ... p. 203.
CAPITOLO QUARTO