fiamma abbagliante, di barry levy

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Danny Rothbart è un brillante, vivace, attraente e popolare teenager di Yeoville, Johannesburg. Sembra avere il mondo ai suoi piedi, ma ha un problema: non riesce a perdere la propria verginità, e dunque rischia di perdere il proprio prestigio. È troppo difficile confessare il suo disagio ai genitori, piuttosto all’antica, e così Danny sceglie di confidarsi con l’unico adulto di cui si fidi, il carismatico e liberale zio Harold. Quando quest’ultimo lo coinvolge in una relazione fatta di manipolazioni e abusi, Danny sembra perdere del tutto la possibilità di avere una vita felice. Il romanzo ha un ritmo sostenuto e, senza perdere mai il tono ironico, evoca con grande sensibilità la vita dei sobborghi di Johannesburg della metà degli anni ’70, in pieno apartheid, e in particolare della comunità ebraica di Yeoville.

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FIAMMA ABBAGLIANTE

di Barry Levy

Traduzione diGiovanna Zanella

Page 4: Fiamma abbagliante, di Barry Levy

Barry Levy, Fiamma abbagliante

Titolo originale: Burning Bright

Originally published by Kwela Books, Cape Town, South Africa

Copyright © 2004 by Barry Levy

Copyright © 2010 Del Vecchio Editore

Published by Agreement with Del Vecchio Editore

Grafica e impaginazione: Dario Lucarini

Editing: Ondina Granato, Carla De Caro

Redazione: Paola Del Zoppo, Vittoria Rosati Tarulli, Claudia De Iaco

www.delvecchioeditore.it

www.myspace.com/delvecchioeditore

Foto di copertina: Copyright © 2004 Yeyoung Chang

ISBN: 978-88-6110-010-7

Page 5: Fiamma abbagliante, di Barry Levy

c o l l a n a > n a r r a t i v a

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Grazie a Michael Rakusin

che mi ha mostrato che il cammino

ancora da percorrere era lungo,

ma non così lungo, e a Gael

che è stato con me a ogni passo

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Per Ian, che non ce l’ha fatta

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UNO

L’inizio

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Sono un fallito. La mia intera adolescenza è riassunta in queste tre pa-role: sono un fallito. Non è sempre stato così, credo, ma lo è stato per

parecchio tempo. Un’eternità, se ci basiamo sul metro degli ormoni ado-lescenziali in continuo fermento.

A dire la verità, vengo da una famiglia rispettabile e amorevole e nono-stante mio padre non me l’abbia mai detto apertamente, sono comunque sicuro che nelle sue continue uscite: «Ma dove hai la spina dorsale?», «Per-ché non dimostri un po’ di carattere?», «Che problema hai?», «Smettila diessere così dannatamente invertebrato!», fosse sottinteso quello che poisono diventato: un fallito.

Anche mia madre, a suo modo (per quanto riguarda lei è sempre stato unproblema di troppo amore, quel tipo d’amore che ti fa vivere con un co-stante senso di oppressione in corpo), ha contribuito a far sì che io diven-tassi un fallito.

Nonostante entrambi lo avessero intuito, predicendolo senza mai arrivarea dirlo apertamente (che sarei diventato un fallito) quello che ovviamentenon potevano sapere era che razza di fallito sarei diventato.

Per me ora è tutto un ricordo, una piccola zona d’ombra sotto la luce delsole, una macchia di sporcizia su un vetro trasparente che tengo rintanatoin un cantuccio della mia mente. Distorcendo in qualche modo la logicadei miei genitori: «Puoi anche perdonare, ma non devi mai dimenticare»in qualcosa con cui posso riuscire a convivere, ho cercato di addestrare mestesso a non perdonare mai, ma a dimenticare, dimenticare, dimenticare.Anche se mi rendo conto, anche ora, che la ferita, la macchia nera, il lividorimangono lì anche quando la memoria sbiadisce. E ogni volta vedo rie-mergere davanti a me il ricordo. Quel ricordo. Quello non se ne andrà mai.

Ora, guardandomi indietro, penso solo che io, Danny Rothbart il Vec-chio, avrei voluto esserci. Per vedere. Per prevedere.

***

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– Me lo sento. – La mia voce fa eco attraverso gli anni, e un sorriso di-spettoso si apre sulla mia pelle liscia.

– Perché ne sei così sicuro? – Chaz Bernstein mi risponde, con quella suavoce gracchiante che, come sempre, finisce in uno squittio.

– Te lo dico io, amico, te lo dico io… – Ah, certo…– Certo… Lo sai quanto ci sono andato vicino…– E allora perché non hai concluso? – Il ciclo.– Come no. Questa l’ho già sentita.– Be’, te lo ripeto adesso, uomo a uomo, faccia a faccia. Questa è la notte

giusta. Stasera stessa non sarò più un ragazzino. Questa sera stessa diven-terò un uomo.

– Come vuoi. Vedremo.Mi strofinai il mento col palmo della mano, difficile dire quale fosse più

liscio, il palmo o il mento, entrambi erano così morbidi e paffuti. A sedicianni non avevo ancora neanche un pelo da radere su tutto il viso e mentregli altri ne avevano in abbondanza, persino sulle spalle (peli che si allun-gavano e ritorcevano sui polpacci come tante zampe di ragno, nere, e ciuffivirili che campeggiavano in bella mostra sui toraci e si allargavano sulleascelle), in me non c’erano grossi cambiamenti. Qualche pelo in più quae là, ma in ogni caso il mio corpo sembrava aver raggiunto un deprimentepunto di stagnazione. Se non fossi cresciuto quella poca manciata di cen-timetri da quando avevo tredici anni, la gente avrebbe creduto che ne avessiancora dodici, chiedendomi senza neanche un dubbio: «Quando è il tuobar mitzvah, figliolo?».

– Un giorno li raggiungerai tutti. Non avere tanta fretta di crescere, – midiceva mia madre quando mi sorprendeva a scrutarmi sotto le ascelle o agonfiare il torace liscio come la seta davanti allo specchio del bagno. Mal’unica cosa che sembrava crescere in me erano i capelli, e i miei genitorimi tormentavano perché li tagliassi. Tipico: ti cresce qualcosa e ti diconodi eliminarla, non ti cresce niente e si domandano cos’hai che non va.

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In confronto, il mio migliore amico Chaz Bernstein era già un uomofatto, almeno fisicamente. Lungo, alto, terribilmente goffo e sgraziato, al-meno lui ne aveva di peli da radere. Non era proprio un bel vedere, in re-altà: piccoli aculei neri, come una spruzzata di cioccolato fondente, checrescevano tra enormi piramidi di brufoli rossastri. Se non l’avessi cono-sciuto così bene sono sicuro che mi sarebbe sembrato, così come a tuttiquelli che lo incontravano per la prima volta, affetto da qualche male in-curabile. Ma il punto è che lui si radeva, e nel linguaggio universale quellodoveva essere senz’altro un punto a favore, soprattutto tra le ragazze. Perlo meno si accorgevano che esistevi, e non poteva che essere un passo nellagiusta direzione. Gli aculei sul mento, non importa se simili a una spruz-zata di cioccolato fondente, dovevano per forza essere un vantaggio.

Con questi pensieri oscuri che rimbombavano come un martello pneu-matico nella mia testa, passai le mani sul mio bel visino liscio come la setae poi per tranquillizzarmi affondai la mano nella tasca del giubbino dijeans, e lì lo trovai. Il pacchetto gommoso di carta argentata. Lo accarez-zai delicatamente, lo sentivo tra le dita, gli dicevo: «Stanotte! Stanotte!».

Non appena vidi Chaz girarsi, chinandosi come al solito sul suo accen-dino con la faccia tra le mani, decisi di recuperare il pacchetto argentatodalla tasca del giubbino e di trasferirlo, pronto per l’azione imminente,nella tasca dei pantaloni, pensando a mio zio Harold e ai suoi consigli suipreservativi e roba così.

La rapida spirale di memorie adolescenziali fece un balzo indietro al-l’ultima festa, con quelle ragazze nuove di Orange Grove. Quelle che ciaveva presentato qualcuno, che conoscevano qualcuno, che frequentavanoqualcuno che metteva sempre la musica sbagliata: i Bee Gees, ovviamente,i dannati Bee Gees. Quando di buona musica ce n’era in abbondanza, comegli Stones, Lou Reed, Bob Marley, i Who, i Pink Floyd, i Frijid Pink. Maeccole lì, piccole allodole felici che canticchiavano in continuazione queidannati Bee Gees, Love to Love You Baby di Donna Summer e Rod Ste-wart, sempre così sopra le righe. Che importava? Non ci mettevo molto:mi bastava muovere le anche nel mondo giusto, una scrollata sensuale delle

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spalle (e chi se ne fregava della musica), qualche battutina simpatica, unosguardo misto di superiorità e disprezzo, un ballo e un abbraccio, e poi,quasi per caso, finivo in camera con una di quelle ragazze di Grove. Men-tre Chaz con i suoi occhi da ranocchio, per non parlare di Peter e Aaron, eperfino il cinico Solly (lui già ben comodo su un divano con una delle ra-gazze) mi seguivano con lo sguardo, verdi di invidia, con quell’espres-sione ostile alla “ma come diavolo fa?”. Guardavano me, petto in fuori,che imboccavo spavaldamente una porta verso l’oscurità. E ci ero arrivatocosì vicino, cristo santo, ero stato a tanto così dal momento culminante;nonostante l’intrusione dei dannati Bee Gees.

Ma che problema avevano? Per quale motivo ti facevano andare avantisenza battere ciglio e poi sul più bello ti bloccavano? Così, all’improv-viso? Mentre l’unica cosa che avresti voluto è che le cose si fossero spintesolo un pochino più in là. Era come se conoscessero esattamente il puntoin cui fermarsi, e ogni volta lo spostassero quel tantino più in là. Anche perme, anche se sembrava che mi ci facessero arrivare così facilmente. Allafine arrivava sempre la bandiera rossa, quella dannata bandiera rossa, cheti faceva sentire come affetto da chissà quale malattia. Come potevano ti-rarsi indietro ogni volta, dopo aver lasciato vagare le tue dita ed essersipersino svestite per te – be’, quasi svestite – mentre gli altri facevano delloro meglio in un salone pieno di pessima musica, senza riuscire a na-scondere quei pensieri pieni di invidia.

Tornai indietro con la memoria a quella volta sul treno quando, tornandoa casa dalla visita ai parenti a Bulawayo insieme a Solly (l’unico che avevaavuto il permesso di accompagnarmi in quel viaggio a nord alla fine delterzo anno), avevamo incontrato quelle ragazze che facevano le guide.Quelle stupide. Il meglio – be’, più o meno – di Boksburg, tutte ai nostripiedi. Mi ero arrampicato sulla cuccetta più in alto con una di loro, ci era-vamo tolti tutti i vestiti fino a restare completamente nudi: ero rimastocompletamente nudo con una ragazza, per la prima volta, la prima volta!Solly, di sotto, cercava come poteva di strusciarsi con le altre, ma nono-stante la maglietta quasi a brandelli non aveva speranze, e mi chiedeva,

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nella debole, verdognola luce notturna: – Come sta andando, Danny?Quando devono scendere queste qui? – Pur sapendo benissimo che iostavo arrivando al momento cruciale: un guastafeste, che tentava di osta-colarmi con i suoi trucchetti psicologici, solo perché lui non sarebbe ar-rivato da nessuna parte. Non ci si sarebbe neanche avvicinato. Ero soloal terzo anno (be’, alla fine del terzo anno) e c’ero già così vicino, per-ché (e lui lo sapeva benissimo) ce l’avevo praticamente fatta. Ma alloraperché si era fermata all’ultimo momento? Perché aveva schioccato im-provvisamente la frusta? Perché aveva addomesticato la tigre del circo?Perché, perché? Avrebbe potuto, anzi dovuto essere già passato. Il ciclo.Una vera, dannata bandiera rossa. Un piccolo pene di cotone bianco giàsul posto. Che mi importava di cos’altro c’era lì dentro? Ero così gio-vane, e avevo quell’ambizione, quell’enorme ambizione: anch’io avreipotuto facilmente infilarmi lì dentro. E per di più, ancora al terzo anno,segnare il mio primo punto, un record! E alla fine delle vacanze, nellamia stanza, Chaz, Peter e Aaron, e anche quel musone di Solly si sareb-bero congratulati con grandi pacche sulle spalle. E avrebbero percepitolo splendore. Seduto lì, in mezzo a loro, sarei stato una fiamma splen-dente. Anche se la mia faccia, liscia come seta, non avesse mostrato il mi-nimo cambiamento, sarei stato un sole: un sole adolescente attorno a cuigli altri ruotano, imparano, aspirano, schiattano per l’invidia. Io. Fiammaabbagliante. Incontenibile.

– C’è qualcosa nell’aria stasera… Lo senti…? Come se dovesse succe-dere qualcosa di grosso. – Chaz soffiò una nuvola di fumo nell’aria neb-biosa.

– Vuoi dire dove stiamo andando…? – Alzai gli occhi verso di lui; era pa-recchio più alto di me.

– Voglio dire i tumulti nei sobborghi neri, gente che muore ammazzataper le strade… E se si trattasse di noi? Se stesse succedendo qui… ora,nelle nostre strade?

Guardai dritto davanti a me, soffiando fuori una densa colonna di neb-bia gelata. In quel momento mi era difficile capire di cosa stesse parlando.

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La sua mente poteva essere ovunque, ben lontana da dove erano concen-trati i miei pensieri.

– Eh già… cosa succederebbe?– Be’… cosa succederebbe? – Chaz tentò nuovamente di irrompere nei

miei pensieri.– Cosa succederebbe, cosa?– Lo sai, se fossimo noi qui, ora, a combattere contro la polizia, contro

la SAP? – Ah, capisco, – dissi, risvegliandomi dal torpore, un torpore in cui mi

sembrava di aver passato una buona metà della mia vita. – Noi non ci piegheremo, amico mio. Non ci piegheremo mai.Ci vidi, vidi tutti noi, seduti contro il recinto sul retro della scuola, che

ci alzavamo e iniziavamo la rappresaglia. Sarebbe stato verosimile? Peter,Solly, Aaron, Chaz e io che ci difendevamo con vigore, con i nostri nasigrandi, ben puliti e adunchi e le uniformi scolastiche perfettamente stiratecontro fruste e pallottole? Oh certo, ne avevamo parlato. Ne avevamo par-lato senz’altro. Detestavamo l’apartheid, detestavamo tutto quanto, anchese qualsiasi libro che parlasse di cambiamento, di differenti sistemi sociali,politici ed economici era bandito in Sudafrica. Avevamo letto BertrandRussell, e attraverso Russell avevamo imparato qualcosa di Marx e Lenine Bakunin e Kropotkin, i cui scritti e insegnamenti erano proibiti. Sape-vamo del comunismo e del socialismo e del vero significato dell’anarchi-smo, che non era certo quello che ci veniva ripetuto a casa e a scuola: chel’anarchismo significava che il mondo era andato sottosopra perché ai neriera stato concesso il diritto al voto. Eravamo anche riusciti a mettere lemani su una copia del proibito Let My People Go di Albert Luthuli e ora,per gentile concessione di mio zio Harold, avevamo anche una copia deldoppiamente proibito The Rise of the South African Reich di Brian Bun-ting. E quello era veramente estremo. Ma che cosa sapevamo veramentedell’apartheid? Dai nostri caldi e comodi letti, che la domestica rifacevaper noi ogni mattina, cosa ne sapevamo veramente di cosa significasseavere un diverso colore di pelle in Sudafrica? Dell’essere poveri, infred-

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doliti, affamati, senza educazione scolastica? Per cui, certo, ne avevamoparlato, ne avevamo parlato spesso, Chaz, Solly, Aaron, Peter, io, la com-briccola, la ciurma, i ragazzi. Ne avevamo parlato diligentemente, a lungo,con determinazione, come quando parlavamo di sesso: praticamente tuttoil tempo. Avevamo strofinato i pollici nel sangue come fratelli e giurato cheun giorno avremmo fatto qualcosa. Ma alla fine era proprio come per ilsesso: in teoria avevamo fatto centinaia di conquiste, in pratica l’unica cosache riuscivamo a fare era continuare a competere e sognare.

– Sì Chaz, – tornai a ribadire lentamente, quasi masticando le parole, –noi non ci piegheremo, amico. Non so come, ma non ci piegheremo!

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Page 21: Fiamma abbagliante, di Barry Levy

INDICE

pag. 11 Uno – L’inizio

pag. 293 Due – La fine

pag. 313 Note

Page 22: Fiamma abbagliante, di Barry Levy

c o l l a n a > p o e s i a

Qualche altro giardino di Jane Urquhart Tradotto da: Laura Ferri

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c o l l a n a > L ’ i t a l i a n a

Il trionfo dell’asino di Andrea Ballarini

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Page 23: Fiamma abbagliante, di Barry Levy

c o l l a n a > n a r r a t i v a

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c o l l a n a > n o t e a m a r g i n e

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Page 24: Fiamma abbagliante, di Barry Levy

Un’indagine senza importanzadi Robert HültnerTradotto da: Paola Del Zoppo

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c o l l a n a > n o i r

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