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Elementi di Teoria Keynesiana Approfondimenti di Macroeconomia Annamaria Variato Università degli Studi di Bergamo a.a. 20092010

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  Elementi di Teoria Keynesiana Approfondimenti di Macroeconomia   

 

 

Annamaria Variato Università degli Studi di Bergamo 

a.a. 2009‐2010

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L’importanza della Teoria Gene-rale Scusate la presunzione… Probabilmente sono keynesiana. Non credo all’esistenza di leggi econo-miche infallibili perché credo nell’esistenza di Dio. E benché abbia un’estrema fiducia nella medicina, mi sono ben chiari i rischi connessi all’esistenza di effetti collaterali…

(Anna Maria Variato)

analisi evolutiva della macroeconomia ha evidenziato lo stretto rapporto esis-tente fra sviluppi teorici e fatti empirici, ma anche sottolineato come le varie

scuole di pensiero abbiano in qualche modo tentato di relazionarsi al contributo keyne-siano, tanto per approfondirlo quanto per criticarlo. L’analisi tematica della macroeco-nomia (ossia l’approfondimento dei vari aspetti costitutivi della teoria macroeconomica a prescindere dalla loro collocazione temporale) non può pertanto prescindere dallo studio dei principali caratteri della teoria keynesiana, ed in particolare del contenuto della Teoria Generale, che più di ogni altro scritto di Keynes si è focalizzato sull’interpretazione sistemica della dinamica macroeconomia.

Le pagine che seguono rappresentano un tentativo di sintesi dei tratti essenziali dell’economia keynesiana, che vengono dedotti dalla lettura autentica della Teoria Ge-nerale. Si parlerà delle finalità della Teoria Generale (sono ancora applicabili al contesto attuale?), del metodo keynesiano (è condivisibile?), della caratterizzazione del sistema economico e dell’integrazione fra le sue parti (il percorso keynesiano può dirsi chiaro e compiuto, oppure è oscuro e lacunoso?)… Lo scopo ultimo di questa trattazione non è quella di indagare sui contenuti della Teoria Generale con l’interesse tipico dello storico economico, bensì quello di comprendere se la teoria keynesiana possa fornire ancora oggi validi elementi per la comprensione dei fenomeni macroeconomici, ossia elementi utili alla costruzione di paradigmi teorici di supporto alle scelte di politica economica.

 1.1  INNOVATIVITÀ DELLA TEORIA GENERALE  

L’

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Che cosa rende originale ed innovativa, ossia generale la teoria economica di Keynes che volle essere teoria dell’occupazione, dell’interesse e della moneta? L’osservazione dell’esi-stenza di un mercato del lavoro al cui funzionamento è connaturata la rigidità dei salari monetari, a cui consegue la rigidità dei prezzi, e la potenziale impossibilità di assorbire la disoccupazione attraverso manovre di riduzione salariale? L’enfasi sul ruolo giocato dalla domanda effettiva, il venir meno della legge di Say, ossia la constatazione del possibile fallimento della funzione riconosciuta al tasso di interesse nell’equilibrare risparmio ed investimento aggregato? L’importanza attribuita alla preferenza per la li-quidità, che porta, da un lato la moneta a non essere più mero strumento per facilitare le transazioni, ma a divenire riserva di valore, ossia ciò che oggi si definisce strumento fi-nanziario, e quindi elemento di speculazione; e dall’altro ad essere parte di una decisione di allocazione intertemporale delle risorse, che fondamentalmente concorre alla deter-minazione del tasso di interesse? Dunque non più la moneta neutrale della teoria di Cambridge, cui si affida il compito della determinazione dei prezzi, ma la moneta “seg-no”, indice della liquidità e della dimensione finanziaria di un sistema capitalistico evolu-to, termometro degli “umori” di una collettività animata da spirito imprenditoriale e da impulsi speculativi, che imperfettamente coordinati innescano cicli di espansione virtuo-sa o di rapida distruzione della ricchezza, la cui intensità e ricorrenza caratterizzano la dinamica delle economie capitalistiche…

A ben guardare ciascuno dei punti evidenziati riconduce ad uno specifico mercato: il mercato del lavoro, il mercato dei beni ed il mercato della moneta (e delle attività finan-ziarie). Insieme questi tre mercati consentono di valutare le condizioni di esistenza e stabilità dell’equilibrio macroeconomico. Si potrebbe essere allora indotti a pensare che l’innovatività di Keynes possa essere ricondotta all’aver evidenziato peculiarità dei mer-cati che fino alla pubblicazione della Teoria Generale non erano state sottolineate? Una simile sintesi sarebbe riduttiva ed iniqua tanto nei confronti di Keynes, quanto degli au-tori che lo precedettero o gli furono contemporanei.

In primo luogo, infatti, nonostante Keynes possa essere considerato il fondatore della macroeconomia moderna, sarebbe alquanto fuorviante ritenere che il panorama teorico antecedente alla pubblicazione della Teoria Generale fosse caratterizzato dal prevalere di una visione ortodossa e monolitica che acriticamente rappresentava la dinamica econo-mica come l’adattamento ottimale del sistema economico all’operare di forze di mercato rispondenti a leggi meccanicistiche in grado di coordinare il libero agire individuale. Equilibrio generale walrasiano e laissez-faire non erano esenti da critiche già prima di Keynes1; e fra i suoi stessi sostenitori era ben chiaro che tale modello fosse teoricamente

                                                                 

1 Oltre ai teorici del sottoconsumo a cui Keynes fece talvolta anche riferimento esplicito (vedi Malthus (18XX), Lauder-dale (xxxx), Sismondi (xxxx) e Hobson (1923)), non si può non ricordare i contributi di Wicksell (1898), Thorton (1802)

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valido in assenza di incertezza e disturbi di carattere monetario2. Come sottolineato da (D. Laidler, 1999) pag. 277:

“non c’era un vuoto nell’economia monetaria quando fu pubblicata la Teoria Generale. Non  esisteva  una  ortodossia monolitica  o  atrofizzata,  distaccata dalla realtà economica e quindi pronta per essere soppiantata. […] Piuttosto, la Teoria Generale deve essere concepita come il contributo a un corpo della letteratura vitale, composito ed in evoluzione che oggi noi conosciamo con il nome di macroeconomia”3. 

Indubbiamente Keynes mancò di sottolineare il proprio debito intellettuale ad econo-misti del suo tempo4: la necessità di persuadere5 gli economisti della necessità di una nuova teoria, formulando simultaneamente una teoria superiore e alternativa a quella classica ritenuta fallace, portò l’autore alla scelta di una dialettica forte e dai toni per certi versi dispregiativi. Questa scelta non fu certo priva di controindicazioni, perché indub-biamente contribuì ad accentuare il clima di conflittualità intellettuale, ma fu un risultato voluto6: grazie alla sua manifesta quanto controversa capacità di persuasione Keynes riuscì a porre le basi affinché la sua opera divenisse un punto focale rispetto al quale gli economisti del passato e le generazioni di economisti a venire avrebbero dovuto com-unque confrontarsi. Incidentalmente lo stile retorico keynesiano è stato mantenuto anche dai macroeconomisti successivi, che hanno enfatizzato gli elementi di contrappo-sizione dei loro contributi originali rispetto alla letteratura precedente, in luogo degli elementi di coesione7.

La discussione della portata e dei limiti della rivoluzione keynesiana, soprattutto in rela-zione alla sua dimensione dialettica esula di gran lunga dagli obiettivi del presente lavo-ro8, e non verrà perseguita ulteriormente. L’analisi della portata rivoluzionaria in termini sostanziali è invece rinviata al capitolo 5. A prescindere tuttavia dalla mitizzazione del                                                                                                                                                                                           e Jevons (1863); né d’altro canto si può omettere che all’inizio del 1900 economisti quali Von Hayeck (1931), Von Mises (1934) e Ohlin (1933), sebbene partendo da presupposti completamente differenti, espressero posizioni alternative e cri-tiche nei confronti del paradigma neoclassico-marginalista.

2 A titolo esemplificativo si veda Knight (1937). 3 Traduzione dall’originale. 4 I richiami ad economisti del passato sono per lo più contenuti nel capitolo 23; viene riconosciuto credito a Marshall nei capitoli precedenti, ed a Kahn per lo sviluppo del concetto di moltiplicatore (capitolo 10); ma soprattutto, si ritrovano elementi di critica all’indirizzo di Pigou, von Mises, Hayeck, Robbins, Allen (in particolare nell’appendice al cap. 14) e Robertson (cap. 22). Quindi gli elementi di contrapposizione o almeno di distinzione dalla letteratura contemporanea superano di gran lunga quelli di coesione. 5 Non bisogna dimenticare che Keynes fu un personaggio eclettico e sempre in bilico nella scelta fra discipline diverse e per taluni aspetti conflittuali come la filosofia e la matematica, e che dedicò al tema della persuasione una serie di saggi apparsi nel 1931. 6 In questa linea interpretativa si veda anche Gotti, M. "La "General Theory" Come Opera Aperta," A. Marzola and F. Silva, John M. Keynes Linguaggio E Metodo. Bergamo: Pierluigi Lubrina Editore, 1990, 185-230. 7 Gli esempi al riguardo potrebbero seguire numerosi, ma emblematico al riguardo sono certamente i contributi di Lucas. 8 Sul rapporto fra finalità della Teoria Generale e retorica dell’opera si rimanda all’interessante raccolta di saggi pubblicata a cura di Marzola, A. and Silva, F. eds. John M. Keynes. Linguaggio E Metodo. Bergamo: Pierluigi Lubrina Editore, 1990.

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ruolo di Keynes nel percorso che ha portato al consolidarsi della moderna teoria ma-croeconomica, resta il fatto che l’aspetto originalmente rivoluzionario per l’epoca, fu l’enfasi sulla necessità di adottare un approccio sistemico per la comprensione della di-namica capitalistica.

E questo aspetto ci riporta al secondo dei motivi per cui l’innovatività di Keynes non può essere ricondotta alla semplice proposizione di delucidazioni sul funzionamento di singoli mercati.

1.2  IL SIGNIFICATO MODERNO DELL’APPROCCIO MACROECONOMICO 

1.2.1  LE ORIGINI 

Che cosa significa possedere una visione sistemica? E più specificamente, era tale neces-sità del tutto sconosciuta agli economisti contemporanei o antecedenti a Keynes?

La risposta negativa che caratterizza il secondo quesito potrebbe indurre a ridimensio-nare notevolmente l’originalità del contributo Keynesiano, ma nel corso della tratta-zione risulterà evidente come il richiamo alla necessità di una speculazione di carattere sistemico non implicasse tanto considerazioni sull’oggetto di studio, quanto una rifles-sione sul metodo di studio. Ed in questo senso l’originalità di Keynes resta salva.

Per quanto riguarda l’oggetto di studio, infatti, già gli economisti classici possedevano senza dubbio una concezione sistemica della materia: studiavano le cause della ricchezza e della dinamica dell’accumulazione, nel tentativo di individuare le ragioni della prospe-rità o del declino delle nazioni. D’altro canto questa visione d’insieme era anche permea-ta da una forte componente etica o quanto meno filosofica: la ricerca delle fonti del “va-lore” era anche ricerca delle modalità di ripartizione del “surplus” fra le categorie che avevano concorso a produrlo. Esisteva cioè un’inscindibile relazione fra (i) analisi siste-mica, (ii) etica e (iii) teoria della distribuzione del reddito. (eventualmente produrre cita-zioni al riguardo). Il generale pessimismo che pervade la letteratura classica in merito alle possibilità del sistema capitalistico di perdurare indefinitamente, giustificato principal-mente da una inadeguata valutazione del ruolo del progresso tecnologico e degli annessi incrementi di produttività; nonché il prevalere di posizioni che portavano a ritenere che il conflitto distributivo fra le classi sociali si sarebbe risolto con il rovesciamento violen-to delle istituzioni vigenti, creò le condizioni favorevoli al consolidamento dell’approccio neoclassico marginalista. Rispetto a quanto l’aveva preceduto, tale ap-proccio “riduceva”9 il sistema economico ad essere la somma delle sue parti, ossia la somma di innumerevoli mercati, che singolarmente soggiacevano alle leggi della do-manda e dell’offerta, le quali a loro volta erano somma (o aggregazione) di azioni indivi-                                                                 9 Il termine in questo caso è usato in senso riduzionista e per nulla dispregiativo.

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duali ottimizzanti. Inoltre, enfatizzando il ruolo dell’azione individuale e del meccanis-mo di mercato, tale approccio stabiliva una sequenza causale fra allocazione e distribu-zione, subordinando la seconda alla prima, o meglio creando la finzione secondo la quale da un lato esiste l’economia positiva il cui scopo è lo studio dell’efficiente alloca-zione delle risorse, vale a dire l’economia “oggettiva” che elimina lo spreco (il male peg-giore in un sistema in cui le risorse sono irrimediabilmente scarse in rapporto agli infiniti usi e bisogni alternativi), e dall’altro esiste l’economia normativa che si occupa della dis-tribuzione, cioè l’economia “politica”, quella che stabilisce se il risultato raggiunto dal mercato sia anche accettabile a livello sociale, oppure debba essere alterato per ottenere un equilibrio più equo.

In estrema sintesi, la teoria neoclassico-marginalista relegò nell’ombra ciò che i classici non avrebbero invece mai messo in discussione: il principio per cui la comprensione della dinamica dei sistemi economici non può prescindere dal possedere una visione d’insieme, e che tale dinamica implica una simultaneità piuttosto che una consequenzia-lità fra temi allocativi e distributivi, ossia fra efficienza ed equità delle scelte.

Sostenere dunque che la macroeconomia sia nata alla fine degli anni ’30 del ventesimo secolo è forse una affermazione poco accurata, giacché quanto meno dal punto di vista sostanziale10, quanto ha preceduto l’avvento della teoria marginalista aveva più tratti in comune con la macroeconomia che con la microeconomia, così come le intendiamo oggi.

1.2.2  L’APPROCCIO MACROECONOMICO MODERNO 

Perché non vi è coincidenza fra equilibrio economico generale ed equilibrio macroeco-nomico? Che cosa rende differente l’equilibrio degli n mercati che compongono un sis-tema dall’equilibrio del sistema stesso?

Si è detto che si tratta di una questione metodologica più che di una questione relativa all’oggetto di studio. Ricorrendo al pensiero aristotelico si potrebbe semplicemente af-fermare che il tutto non equivale alla somma delle parti, ma possiede una propria ra-gione d’essere. Le esemplificazioni potrebbero poi seguire numerose.

In questa sede può essere utile un’esemplificazione attinente ad uno dei miei passatempi preferiti. Adoro comporre i puzzle. E’ un ottimo esercizio zen, che educa alla pazienza e allo spirito d’osservazione. Non potrei comporre nessun quadro se non osservassi at-tentamente le singole tessere, se non separassi la cornice dal centro, se non raggruppassi le diverse sfumature in gruppi omogenei. Eppure non arriverei alla fine se mi fermassi                                                                  10 Il vocabolo “macroeconomia” effettivamente è comparso all’inizio del ventesimo secolo e viene di norma attribuito a Lindhal.

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solamente a questo, se non sapessi che alla fine comporrò un’immagine dal significato complessivo e ulteriore rispetto alle singole componenti. Spesso la conoscenza della fi-gura intera che si deve comporre aiuta a sistemare le tessere. Ma mi è capitato di ricom-porre puzzle senza avere una figura di riferimento. Il rompicapo più complesso preve-deva persino una stampa ignota su entrambi i lati delle tessere…

Fra tutte le possibili esemplificazioni questa credo sintetizzi al meglio la necessità che l’economia sia costituita sia dalla macro che dalla microeconomia. Infondo, lo studio dei sistemi economici è come la composizione di un puzzle. Vi sono fasi storiche di grande cambiamento, nelle quali l’immagine di riferimento non esiste, e dunque non resta che affidarsi all’analisi dei particolari, che pezzo dopo pezzo porteranno ad una costruzione d’insieme; ma in assenza di rivoluzioni, dal passato vengono indicazioni che danno un’immagine di fondo, attendibile per quanto suscettibile di cambiamento, ed allora l’affidarsi alla visione d’insieme è condizione per unire assai più velocemente le singole tessere. Nessuna delle due strategie (affidarsi unicamente al micro o al macro) paga per se stessa, non fosse altro perché per perseguirla occorre assai più tempo. Personalmente ritengo che la sfida di un puzzle sia quella di ricomporre l’immagine intera, obbligando al tempo stesso ad una comprensione assoluta dei particolari. Forse la mia preferenza per la macroeconomia è data dal senso di assoluto che evoca: il tutto che trascende le parti, senza però prescindere dalle parti.

Questo esempio “pragmatico” credo faciliti la lettura del passaggio seguente, il cui con-tenuto è invece prettamente metodologico.

Che il richiamo di Keynes ad un approccio sistemico sia da intendersi soprattutto in senso metodologico diviene esplicito non appena si consideri che di per sé l’equilibrio economico generale cui giunge la scuola marginalista è equilibrio dell’intero sistema economico, essendo simultaneo equilibrio di tutti gli n mercati che compongono il sis-tema stesso.

La tesi della non equivalenza fra macroeconomia ed equilibrio economico generale è sintesi di filosofia classica e modernità. Da un lato è infatti il pensiero aristotelico che af-ferma che il tutto non equivale alla somma delle parti, ma possiede una propria ragione d’essere. Dall’altro è il tentativo di applicare questo pensiero al contesto proprio dell’economia, trovando un linguaggio utile a spiegare come e perché il tutto e le parti in economia tendenzialmente non coincidano.

Classica è l’osservazione che la coincidenza fra tutto e somma delle parti si ottiene a condizione di ipotizzare totale indipendenza fra le parti. Moderna è la contestualizza-zione alla teoria marginalista che deriva l’equilibrio economico da tacite ipotesi di indi-pendenza fra i mercati. Se all’interno dell’approccio di equilibrio economico generale

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esistesse la possibilità di considerare tutte le possibili interrelazioni spazio-temporali fra i mercati, il pensiero aristotelico rimarrebbe valido, ma verrebbe meno la contrapposi-zione fra approccio marginalista ed approccio keynesiano. Infatti la molteplicità di ra-gioni che a livello filosofico giustificano una differenza fra il tutto e la somma delle parti, nella teorizzazione economica si riconduce alla necessità di riconoscere una interdipen-denza organica fra i mercati.

1.3  L’APPROCCIO MACROECONOMICO NELLA TEORIA GENERALE 

La visione sistemica di Keynes viene sostenuta seguendo un percorso logico espositivo rigoroso che si snoda nella Teoria Generale. Anzitutto si parte dall’enunciare lo scopo dell’opera. Tale finalità viene perseguita attraverso un metodo molto preciso, che impli-ca innanzitutto (1) una contrapposizione critica nei confronti della posizione intellet-tualmente dominante dell’epoca. Keynes sottolinea quelli che a suo dire sono gli errori della teoria classica, e si sofferma particolarmente sulla fallacia di composizione. (2) Quindi passa alla parte costruttiva del suo ragionamento che è fatta di argomenti di ca-rattere generale e di caratterizzazione dei particolari relativi ai singoli mercati, che sos-tengono logicamente la tesi della Teoria Generale.

Passiamo ad esaminare nel dettaglio ciascuno di questi punti.

Come dimostrare fallacia della teoria classica? L’argomentazione procede per punti. E’ interessante notare che il libro si intitola Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, si spiegano nell’ordine occupazione, interesse e moneta, ma in realtà il nesso causale fra le variabili, a ben guardare, dopo avere studiato le variabili è esatta-mente invertito… La scelta espositiva è un percorso a ritroso. Come in un giallo vedia-mo la scena del delitto ma non sappiamo chi è il colpevole… In sostanza si parte dalla prima affermazione secondo cui il problema della disoccupazione non può essere risol-to solo guardando al mercato del lavoro, e non può essere visto come fenomeno di na-tura volontaria o frizionale. E, poco a poco, attraverso la definizione della domanda e dell’offerta aggregata, con annesse determinanti, si arriva ad esaminare il ruolo di tasso di interesse ed a giustificare perché questo non serva ad equilibrare investimento e ris-parmio; per giungere infine al ruolo della moneta e al meccanismo di fissazione dei prezzi. Prescindiamo dai prezzi che compaiono per ultimi e, nella catena causale, effetti-vamente dovrebbero rimanere ultimi: le ragioni della disoccupazione sono da ricercare nella natura stessa del capitalismo monetario, nella necessità di accumulare moneta che nasce dal vivere in un mondo incerto, ma anche dall’avidità umana.

La struttura logica della Teoria Generale si fonda su alcuni pilastri fondamentali che possono essere di seguito riassunti.

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Punto 1. La Teoria Generale studia le peculiarità delle economie monetarie di produ-zione L’analisi della Teoria Generale si applica ad un sistema capitalistico evoluto, ossia studia le economie monetarie di produzione. I caratteri di questo tipo di sistema sono due: a) vale nesso causale denaro merce denaro (piuttosto che merce denaro merce); b) si opera in un contesto di incertezza irriducibile o fondamentale. Bisogna ca-pire se i due fattori sono ugualmente necessari e rilevanti. Anche in questo caso la ris-posta di Keynes e quella dei suoi successori potrebbe non essere strettamente coinci-dente. Pur considerando entrambi i fattori, per Keynes era comunque preminente il primo, mentre a tutta evidenza i Post-Keynesiani (soprattutto americani) fanno esatta-mente il contrario. A prescindere momentaneamente dalla rilevanza dei due, vedia-mone le implicazioni. Se la finalità della dinamica capitalistica è l’accumulazione di mo-neta è perché si tratta di un bene particolare con funzioni e peculiarità distintive. Di fat-to Keynes sottolinea che non sono tanto le funzioni della moneta a distinguere una economia monetaria da una economia non monetaria; in questo caso infatti, se anche la moneta servisse da unità di conto, per agevolare le transazioni, se assolvesse ad una fun-zione di riserva di valore, ed in quanto tale rispondesse ad esigenze “speculative” che nascono dal dover fronteggiare l’ineliminabile incertezza in cui vengono intraprese le decisioni economiche, rimarrebbe comunque un “velo”, ossia uno strumento che age-vola il funzionamento dei sistemi capitalistici evoluti, mantenendosi in posizione di neu-tralità rispetto alla determinazione del livello o della variazione dell’attività reale (intesa come reddito, accumulazione e occupazione). La moneta è un bene particolare perché ha le caratteristiche ricordate da Keynes nel cap. XX (più specificamente un costo pres-soché nullo di detenzione, un costo nullo di trasformazione in attività liquida, un ren-dimento dalla detenzione molto basso perché associato ad un rischio intrinseco all’attività stessa altrettanto basso). Sono tali caratteristiche ad impedire che il rendimen-to della moneta scenda al di sotto di un certo limite e indirettamente sono queste a de-terminare il tasso di interesse prevalente sul mercato, il quale a sua volta sarà rigido ver-so il basso, portando ad un livello di investimento incongruo rispetto alla piena occupa-zione del lavoro. La moneta (o un bene con le sue caratteristiche) esisterebbe anche se non ci fosse incertezza? Ovvero l’incertezza da sola basterebbe a far saltare il mecca-nismo che porta al riequilibrio fra risparmi ed investimento? E’ possibile rispondere af-fermativamente ad entrambe le domande, tuttavia i sistemi ai quali darebbero vita non sono quelli che ci troviamo ad esaminare nella vita reale e quindi una ulteriore esplora-zione dell’argomento sarebbe in un certo senso oziosa.

Punto 2. Le caratteristiche del sistema economico non si inducono per semplice esten-sione delle leggi microeconomiche.

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Per capire che cosa succede nel sistema occorre evitare un errore fondamentale, ossia credere che le caratteristiche di un mercato (o parte, o microeconomiche) si estendano senza variazioni al sistema nel suo complesso.

La visione sistemica è essenziale alla comprensione della TG. Keynes non parla di mer-cati distinti, ma al contrario evidenzia le strette relazioni che esistono fra un mercato e l’altro, inserendole in una dimensione intertemporale. L’idea è senza dubbio buona, la trattazione un po’ meno soddisfacente, perché in realtà le considerazioni dinamiche so-no un po’ contorte ed i nessi causali specificati un po’ alla rinfusa…

Questo punto di fatto sottolinea due aspetti: 1) il problema della fallacia di composi-zione (pensare che proprietà micro siano anche proprietà macro); 2) problema della mancata considerazione dell’interdipendenza fra vari mercati. E’ importante sottolineare che possedere una visione macroeconomica non implica ragionare a prescindere dalla microeconomia. Per Keynes questo è chiarissimo

Punto 3. La dinamica economica è in continuo divenire, quindi tracciarne i nessi causali è per certi versi un’operazione arbitraria (come stabilire se è nato prima l’uovo o la galli-na).

I nessi causali si stabiliscono nel momento in cui si traccia la distinzione fra: a) dati del problema, b) variabili indipendenti (o esogene), c) variabili dipendenti (o endogene). Il confine fra a) e b) si traccia sulla base di scelte di politica economica: in sostanza si col-locano fra indipendenti le variabili che possono essere utilizzate come strumenti di poli-tica economica.

Punto 4. Descrizione del meccanismo che porta all’equilibrio macroeconomico. La struttura causale richiamata nella Teoria Generale segue un percorso del tipo:

a) partenza da dati del problema macroeconomico standard (struttura dei mer-cati, preferenze, tecnologie, struttura istituzionale, demografia, variabili di politica economica rilevanti…)

b) valutazione delle aspettative di rendimento dei nuovi beni di investimento (da cui discende prezzo di domanda) e del prezzo di offerta dei beni di in-vestimento: calcolo dell’efficienza marginale del capitale (MEK)

c) valutazione della preferenza per la liquidità (che determina la domanda di moneta Ld in parte, ma non la determina completamente perché per conos-cerne entità occorrerebbe anche conoscere Y) e offerta di moneta. N.B. Semplificando Ld=L(i) invece sarebbe possibile determinare i

d) noti i e MEK si determina I e) valutazione della propensione al consumo (e altre variabili fiscali)

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f) noti I e propensione al consumo, via moltiplicatore, si ottiene Y g) noto Y si determina residualmente S (=I) h) noto Y si determina N i) date le condizioni di offerta e i salari nominali si determina p.

Dalla sequenza (a) – (i) non c’è nessuna ragione per ritenere che Y sia quello di pieno impiego, perché N è determinato, non determinante. E con questo si giunge alla dimo-strazione che il risultato di sottoccupazione è il caso generale al quale la teoria economi-ca deve riferirsi.

Data la struttura logica sopra esposta è possibile analizzare in maggior dettaglio il conte-nuto della Teoria Generale.

1.4  LO SCOPO DELLA TEORIA GENERALE 

Keynes scrive la Teoria Generale con una serie di finalità: (i) finalità descrittiva: studiare le forze che concorrono alla determinazione del prodotto e del livello di occupazione delle economie monetarie; (ii) finalità critica: dimostrare che la teoria classica si concen-tra su una situazione particolare e di fatto irrilevante per l’economista che si occupi di spiegare la dinamica delle economie monetarie; (iii) finalità politica: sostenere l’auspicabilità dell’azione pubblica nell’economia, indicando gli strumenti necessari a tale azione; (iv) finalità sociologica: persuadere sia economisti che politici della correttezza delle tesi (ii) e (iii).

Tali obiettivi sono espressamente e inequivocabilmente esplicitati in vari passaggi della TG:

This book, on the other hand, has evolved into what is primarily a study of the  forces which determine  changes  in  the  scale of output and employ‐ment as a whole; and, whilst  it  is found that money enters  into the eco‐nomic  scheme  in  an  essential  and  peculiar manner,  technical monetary detail falls into the background. A monetary economy, we shall find, is es‐sentially one  in which changing views about the future are capable of  in‐fluencing the quantity of employment and not merely its direction  (vii pre‐fazione inglese) (enfasi aggiunta). 

In questo passaggio risultano evidenti: (1) il richiamo ad un’analisi di tipo sistemico vol-ta alla determinazione delle variabili macroeconomiche chiave (produzione ed occupa-zione), (2) il ruolo attribuito alla moneta, che deve essere considerata essenziale, benché non sia strettamente necessario delineare fin da subito, nei dettagli, gli aspetti tecnici che determinano la sua circolazione nel sistema economico, (3) la definizione di economia monetaria. Questi elementi costituiscono lo scenario che Keynes intende studiare e de-scrivere.

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The postulates of the classical theory are applicable to a special case only and not to the general case, the situation which it assumes being a limiting point of  the possible positions of equilibrium. Moreover,  the characteris‐tics of the special case assumed by the classical theory happen not to be those of the economic society in which we actually live (p. 3). (enfasi aggi‐unta) 

Fin dalle prime pagine Keynes esplicita che la teoria “classica” (intendendo l’approccio neoclassico marginalista e di equilibrio economico generale) si applica ad un caso limite in cui può trovarsi una economia reale, e non può dunque essere considerata come il punto di partenza per un’analisi di tipo generale.

Our final task might be to select those variables which can be deliberately controlled or managed by central authority in the kind of system in which we actually live (p. 247). 

La TG non è destinata al solo pubblico accademico, ma ha una precisa finalità pragma-tica: arrivare a costruire una teoria che serva a selezionare le variabili che l’autorità di po-litica economica può gestire al fine di raggiungere i propri obiettivi.

La fiducia nel potere persuasivo delle idee non potrebbe essere resa più esplicitamente (pertanto è ovvio che Keynes ritenesse che il suo contributo avrebbe prima o poi cam-biato il modo di concepire l’economia teorica ed applicata):

But apart from this contemporary mood, the ideas of economists and po‐litical philosophers, both when  they are  right and when  they are wrong, are more powerful  than  is commonly understood.  […]  I am sure  that  the power of vested interests is vastly exaggerated compared with the gradual encroachment of  ideas. Not,  indeed,  immediately, but after a  certain  in‐terval;  for  in the  field of economic and political philosophy  there are not many who  are  influenced by new  theories  after  they  are  twenty‐five or thirty  years of  age,  so  that  the  ideas which  civil  servants  and politicians and even agitators apply to current events are not likely to be the newest. But, soon or late, it is ideas, not vested interests, which are dangerous for good or evil. (pp. 383‐384). 

 

1.5  METODO DELLA TG 

Il metodo della TG è più in generale il metodo di Keynes. Ed in questo senso ven-gono richiamati alcuni importanti errori metodologici, che quasi in massima parte sono attribuibili all’approccio classico.

1. Generalità delle premesse For if orthodox economics is at fault, the er‐ror is to be found not in the superstructure, which has been erected with 

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great care for logical consistency, but in a lack of clearness and of general‐ity in the premisses. (v prefazione inglese). (enfasi aggiunta) 

Il primo errore anticipa una questione che viene successivamente ampliata (nel corso del capitolo 2) in merito alla presenza di ipotesi implicite nell’approccio classico, le quali da sole garantiscono il risultato di piena occupazione, imponendo un risultato, anziché derivarlo dalla soluzione del problema macroeconomico. Il punto importante, per Keynes è che si tratta di ipotesi implicite (da cui discende l’obiezione relativa alla man-canza di chiarezza) che però garantiscono l’equivalenza fra equilibrio economico gene-rale e macroeconomia, ossia la coincidenza fra tutto e la somma delle parti (da cui dis-cende l’obiezione di generalità delle premesse: come si è osservato nei paragrafi prece-denti questa coincidenza non è assicurata in generale, ma solo in caso di stretta indipen-denza fra le parti che compongono il sistema). E’ importante sottolineare che in questo passo Keynes sottolinea la coerenza logica interna della teoria classica; quindi non è a

tale coerenza che si indirizza la sua critica.

L’errore più rilevante commesso dai classici, secondo Keynes, si ricol-lega pertanto alla questione metodologica della fallacia di composizio-

ne. La mancata considerazione dell’interdipendenza organica fra le parti del sistema por-ta a definire una macroeconomia che ha proprietà teoriche inesistenti nella realtà. Per Keynes, l’interdipendenza organica è esclusa dall’operare di tre ipotesi di indipendenza implicite. Queste sono rispettivamente: (i) ipotesi di indipendenza delle variabili reali da variazioni della moneta (ossia ipotesi di neutralità della moneta); (ii) ipotesi di indipen-denza da variazioni del valore del prodotto fisico e dell’occupazione (ossia ipotesi di equilibrio di piena occupazione permanente); (iii) ipotesi di indipendenza da variazioni del livello del reddito (che implica che ciò che vale a livello microeconomico si estenda anche a livello macroeconomico). Nell’insieme, dunque, le ipotesi tacite della teoria classica implicano indipendenza logica da variazioni dei livelli o dei valori fra le varie va-riabili considerate11. Tale indipendenza non è verificata in generale nelle economie reali.

Per sostenere la correttezza delle proprie argomentazioni Keynes propone diverse situ-azioni nelle quali emerge il problema della fallacia di composizione (ossia del conflitto che esiste fra microeconomia e macroeconomia). Il primo esempio è costituito dal co-siddetto paradosso della parsimonia, attraverso il quale si dimostra come l’atto di ris-parmio che può essere ragionevole per l’individuo (dimensione microeconomica) possa determinare nell’aggregato un livello di risparmi tale da impedire il raggiungimento del pieno impiego:

                                                                 11 Per approfondimenti sulla questione si rinvia a Carabelli in Marzola, A. and Silva, F. eds. John M. Keynes. Linguaggio E Metodo. Bergamo: Pierluigi Lubrina Editore, 1990.

LA FALLACIA DI COMPOSIZIONE 

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The insufficiency of effective demand will inhibit the process of production in  spite  of  the  fact  that  the marginal  product  of  labour  still  exceeds  in value  the  marginal  disutility  of  employment.  Moreover  the  richer  the community,  the wider will  tend  to be  the gap between  its actual and  its potential production; and therefore the more obvious and outrageous the defects of  the economic  system. For a poor community will be prone  to consume by far the greater part of its output, so that a very modest meas‐ure of investment will be sufficient to provide full employment; whereas a wealthy  community will have  to discover much ampler opportunities  for investment  if  the saving propensities of  its wealthier members are  to be compatible with the employment of its poorer members. If in a potentially wealthy community the inducement to invest is weak, then, in spite of its potential wealth,  the working  of  the  principle  of  effective  demand will compel it to reduce its actual output, until, in spite of its potential wealth, it has become so poor that  its surplus over  its consumption  is sufficiently diminished  to  correspond  to  the weakness of  the  inducement  to  invest. But worse still. Not only is the marginal propensity to consume weaker in a wealthy  community,  but,  owing  to  its  accumulation  of  capital  being  al‐ready  larger,  the opportunities  for  further  investment are  less attractive unless the rate of interest falls at a sufficiently rapid rate; which 'brings us to  the  theory of  the  rate of  interest and  to  the  reasons why  it does not automatically  fall  to  the appropriate  level, which will occupy Book  IV.  (p. 31). 

Nella seconda esemplificazione si evidenzia il rapporto biunivoco fra domanda aggrega-ta e livello del reddito che esiste a livello macroeconomico, ma non vale a livello indivi-duale (nel senso che una variazione del reddito influenza la domanda del singolo indivi-duo, ma non vale in generale il viceversa):

Though an  individual whose transactions are small  in relation to the mar‐ket can safely neglect the fact that demand is not a one‐sided transaction, it makes nonsense to neglect it when we come to aggregate demand. This is  the vital difference between  the  theory of  the economic behaviour of the  aggregate  and  the  theory of  the behaviour of  the  individual unit,  in which we assume that changes in the individual's own demand do not af‐fect his income. (p. 85). 

Sempre nell’ambito della teoria del risparmio, si considera la relazione fra tasso di inte-resse e risparmio aggregato, che apre la possibilità di effetti più complessi di quelli impli-cati da considerazioni microeconomiche, ossia una sicura relazione positiva fra le due variabili:

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Thus, even if it is the case that a rise in the rate of interest would cause the community to save more out of a given income, we can be quite sure that a  rise  in  the  rate of  interest  (assuming no  favourable  change  in  the de‐mand‐schedule for  investment) will decrease the actual aggregate of sav‐ings. (p. 111). 

Un’ ulteriore e fondamentale considerazione in merito alla differenza fra micro e ma-croeconomia si ricava dalla descrizione del concetto di liquidità dell’investimento. Evi-dentemente il possesso di una qualsiasi attività, sia essa finanziaria o meno, si giustifica attraverso una scelta di portafoglio che porta l’individuo a gestire le proprie risorse sulla base di scelte combinate di rischio e rendimento. Il movente per detenere un’attività poco liquida (e di per sé anche solo per questo fatto più rischiosa) è dato dal maggiore rendimento che la stessa di norma assicura. Ogni individuo ha una personale propen-sione al rischio, ma a prescindere dalle preferenze individuali, se nel complesso esistono mercati per le attività rischiose è perché ciascun individuo a livello microeconomico spera di poter traslare il rischio del detenere tali attività (ovvero spera di poter vendere un titolo rischioso qualora le sue aspettative mutino, o quando ritenga di aver ottenuto un guadagno sufficiente, o per qualsiasi altro motivo…). Ma quello che vale per l’individuo non vale livello macroeconomico: se il mercato cambia idea in massa rispet-to ad una determinata attività, il concetto di liquidità della stessa viene meno. In altri termini la traslazione del rischio nell’aggregato è impossibile:

 It (classical theory) forgets that there is no such thing as liquidity of investment for the community as a whole. (p.155). 

Oltre alla fallacia di composizione un ulteriore errore metodologico si lega alla natura del percorso che porta all’elaborazione delle teorie economiche ed ha natura puramente in-tellettuale:

2. Economisti e dipendenza dalle idee passate It is astonishing what fool‐ish things one can temporarily believe if one thinks too long alone, particu‐larly in economics (along with the other moral sciences), where  it is often impossible  to bring one's  ideas  to  a  conclusive  test  either  formal or  ex‐perimental.  […]  The difficulty  lies, not  in  the new  ideas, but  in  escaping from the old ones, which ramify, for those brought up as most of us have been, into every corner of our minds. (vii prefazione inglese). 

Questo passaggio è solo implicitamente una critica all’approccio classico, ma più esplici-tamente porta l’attenzione sulla necessità che lo sviluppo della teoria economica nasca dal confronto delle idee, senza essere il frutto di pensiero individuale isolato. Una delle difficoltà insite nella dialettica delle idee è però determinata dalla dipendenza mentale da schemi acquisiti, che rende difficile l’abbandono di vecchie modalità di ragionamen-to, anche quando si dimostrino fallaci e superate, a favore di nuove idee.

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3.  Il metodo della speculazione economica The object of our analysis  is, not to provide a machine, or method of blind manipulation, which will fur‐nish an  infallible answer, but  to provide ourselves with an organised and orderly method  of  thinking  out  particular  problems;  and,  after we  have reached a provisional conclusion by isolating the complicating factors one by one, we then have to go back on ourselves and allow, as well as we can, for  the probable  interactions of  the  factors  amongst  themselves.  This  is the  nature  of  economic  thinking. Any  other way  of  applying  our  formal principles  of  thought  (without which,  however, we  shall  be  lost  in  the wood) will lead us into error. (p. 297). 

Per quanto riguarda lo scopo della teorizzazione economica Keynes sottolinea che non deve tendere a fornire risposte infallibili, ma a suggerire un metodo per l’analisi della realtà complessa che ci circonda. In altri termini l’economista non deve essere né un in-dovino né un mago. Con specifico riguardo al modo in cui la speculazione deve essere condotta sia ha una evidente integrazione fra deduzione ed induzione. Infatti, il punto di partenza è la visione di insieme o sistemica. Ma poiché quest’ultima è troppo complessa da discernere, può essere utile, in prima approssimazione, delineare le caratteristiche delle parti (passando ad una versione semplificata del problema originario). Quindi, dalle parti si tenta di risalire al sistema cercando di stabilire le possibili interazioni fra le parti: poiché si considera l’aspetto di interazione sì può parlare di induzione intesa in senso ampio. In altri termini, Keynes condivide coni classici la necessità di indipendenza logica fra le parti, ma a differenza dei classici tale indipendenza è temporanea ed inoltre è esplicita. Questa scelta metodologica implica che il metodo keynesiano sia generale a livello logico, ma non necessariamente destinato a produrre risultati univoci, essendo molteplici le linee argomentative che si possono seguire per ricostruire le connessioni fra le parti.

4. Attacco a eccessi di matematizzazione Too large a proportion of recent 'mathematical' economics are merely concoctions, as imprecise as the ini‐tial assumptions they rest on, which allow the author to  lose sight of the complexities and interdependencies of the real world in a maze of preten‐tious and unhelpful symbols. (p. 298). 

Evidente in questo passaggio è l’avversione di Keynes per la formalizzazione delle teorie economiche se quest’ultima si traduce in un puro esercizio estetico e non in un tentativo di catturare la complessità della realtà economica. Quindi, appare evidente che il metodo keynesiano è anzitutto basato sulla scelta di un linguaggio espositivo non formalizzato. Questo aspetto ha costituito uno dei punti più attaccati negli anni successivi alla pubbli-cazione della Teoria Generale.

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5. Keynes Cassandra di se stesso As is often the case with imperfectly ana‐lysed  intuitions,  their  significance  only  became  apparent  after  I  had reached my own conclusions in my own way. (p. 353) 

Con questa frase Keynes commenta il contributo di un uomo d’affari appassionato d’economia monetaria (tale Silvio Gesell), sottolineando come quest’ultimo non fosse stato adeguatamente apprezzato nel mondo accademico, pur avendo espresso alcune intuizioni fondamentali in merito alla teoria del tasso di interesse e della moneta. Il mo-tivo di questo scarso successo viene individuato da Keynes nello scarso rigore espositi-vo delle argomentazioni proposte da Gesell, le quali, in ultima analisi hanno lasciato un margine troppo ampio per la libera interpretazione da parte dei lettori. Lo stesso Keynes ammette di aver sottovalutato l’importanza dell’autore ad una prima lettura, e di averlo rivalutato solo dopo aver maturato una propria visione degli argomenti da questi pro-posta. Paradossalmente, nel commentare il destino di Gesell, Keynes forniva una moti-vazione per la spiegazione della conflittualità interpretativa seguita alla pubblicazione della Teoria Generale. Benché non si possa infatti affermare che la Teoria Generale contenga intuizioni “imperfettamente” analizzate, si può certo dire che molte di esse appaiono ad uno stadio embrionale.

1.6  ERRORI DELLA TEORIA CLASSICA 

Come si è detto, l’inizio della Teoria Generale, oltre a contenere suggerimenti di natura metodologica generale, si configura come un poderoso ed esplicito attacco all’approccio neoclassico walrasiano. Oltre agli errori di metodo rilevati nel precedente paragrafo Keynes sottolinea con immagini suggestive e con vigore letterario la fallacia dell’approccio classico. Le citazioni che seguono sono un’esemplificazione dell’uso della parola a fini persuasivi, più che un esempio di come dovrebbe essere condotto il con-fronto fra posizioni teoriche alternative. Benché questo stile espositivo non sia attual-mente di norma accettato dagli editori di riviste scientifiche, ha comunque costituito un caso di “scuola” al quale gli economisti più autorevoli hanno fatto ricorso per affermare la supremazia della propria scuola di pensiero.

The  classical  theorists  resemble  Euclidean  geometers  in  a non‐Euclidean world who, discovering that in experience straight lines apparently parallel 

often meet, rebuke the lines for not keeping straight⎯as the only remedy for the unfortunate collisions which are occurring. (p. 16). 

The idea that we can safely neglect the aggregate demand function is fun‐damental to the Ricardian economics, which underlie what we have been taught  for more  than  a  century. Malthus,  indeed,  had  vehemently  op‐posed Ricardo's doctrine that it was impossible for effective demand to be deficient;  but  vainly.  For,  since  Malthus  was  unable  to  explain  clearly 

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(apart from an appeal to the facts of common observation) how and why effective demand could be deficient or excessive, he failed to furnish an al‐ternative  construction; and Ricardo  conquered England as  completely as the Holy Inquisition conquered Spain. Not only was his theory accepted by the city, by statesmen and by the academic world. But controversy ceased; the other point of view completely disappeared; it ceased to be discussed. The  great  puzzle  of  effective  demand with which Malthus  had wrestled vanished  from  economic  literature.  You will  not  find  it mentioned  even once in the whole works of Marshall, Edgeworth and Professor Pigou, from whose hands  the  classical  theory has  received  its most mature  embodi‐ment. It could only live on furtively, below the surface, in the underworlds of Karl Marx, Silvio Gesell or Major Douglas. The completeness of the Ri‐cardian victory  is  something of a  curiosity and a mystery.  It must have been due to a complex of suitabilities  in the doctrine to the environment into which  it was projected. That  it  reached  conclusions quite different from what the ordinary uninstructed person would expect, added, I sup‐pose,  to  its  intellectual prestige. That  its  teaching,  translated  into prac‐tice,  was  austere  and  often  unpalatable,  lent  it  virtue.  That  it  was adapted  to  carry  a  vast  and  consistent  logical  superstructure,  gave  it beauty. That  it could explain much social  injustice and apparent cruelty as an  inevitable  incident  in the scheme of progress, and the attempt to change such  things as  likely on  the whole  to do more harm  than good, commended it to authority. That it afforded a measure of justification to the free activities of the  individual capitalist, attracted to  it the support of the dominant social force behind authority. But although the doctrine itself  has  remained  unquestioned  by  orthodox  economists  up  to  a  late date,  its signal failure for purposes of scientific prediction has greatly  im‐paired,  in the course of time, the prestige of  its practitioners. For profes‐sional economists, after Malthus, were apparently unmoved by the lack of correspondence between  the  results of  their  theory and  the  facts of ob‐servation; a discrepancy which the ordinary man has not failed to observe, with the result of his growing unwillingness to accord to economists that measure  of  respect which  he  gives  to  other  groups  of  scientists whose theoretical results are confirmed by observation when they are applied to the facts. The celebrated optimism of traditional economic theory, which has led to economists being looked upon as Candides, who, having left this world  for the cultivation of their gardens, teach  that all  is  for the best  in the best of all possible worlds provided we will let well alone, is also to be traced,  I  think,  to  their having neglected  to  take account of  the drag on prosperity which can be exercised by an insufficiency of effective demand. For there would obviously be a natural tendency towards the optimum employment  of  resources  in  a  society which was  functioning  after  the manner of the classical postulates.  It may well be that the classical the‐

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ory represents the way in which we should like our economy to behave. But to assume that it actually does so is to assume our difficulties away. (pp. 32‐34). 

Gli ulteriori errori richiamati da Keynes riguardano poi aspetti specifici dell’operare dei vari mercati e mettono in evidenza la molteplicità delle dimensioni che implicano una differenziazione fra approccio classico ed approccio keynesiano. Nel mercato dei beni, per esempio, viene sottolineato il legame fra risparmio ed investimento aggregato, che impedisce alle variazioni del tasso di interesse di essere il meccanismo di riequilibrio dei due aggregati, ed in ultima analisi di essere il meccanismo che assicura il raggiungimento dell’equilibrio di pieno impiego; si sottolinea come il risparmio abbia natura residuale rispetto al consumo, piuttosto che essere il frutto di una decisione di allocazione inter-temporale delle risorse; mentre sul fronte dell’investimento viene introdotto il concetto di efficienza marginale del capitale che, pur mantenendo un legame fra investimento e tasso di interesse, determina una sua inscindibile relazione con elementi di aspettativa a lungo termine, rendendolo instabile anche a fronte di una stabilità del tasso di interesse. Nel mercato della moneta la domanda è determinata della funzione di preferenza per la liquidità che a sua volta connette la detenzione di moneta a moventi speculativi oltre che alla necessità di effettuare transazioni; il tasso di interesse è tale da equilibrare il mer-cato della moneta e delle attività finanziarie. Infine, nel mercato del lavoro, la funzione di offerta e di domanda non sono definite in termini “nozionali” ossia derivati dall’aggregazione di comportamenti microeconomici che sottintendono la massimizza-zione dei profitti e dell’utilità: sul lato dell’offerta viene negata la rilevanza della decisione alternativa “lavoro-tempo libero”, mentre sul lato della domanda, pur non negando che le imprese perseguano la massimizzazione del profitto, non si trascurano elementi di ca-rattere istituzionale e di contrattazione; ciò che è più rilevante, rispetto al mercato del la-voro è però l’emergere di un equilibrio di disoccupazione involontaria, in netta antitesi con la visione classica.

1.7  LA PARTE COSTRUTTIVA DELLA TG 

La parte costruttiva della TG è strutturata nell’intento di trovare una spiegazione alla presenza di un equilibrio aggregato non necessariamente compatibile con il pieno im-piego. Come si è detto in apertura della trattazione, la giustificazione dell’equilibrio di sottoccupazione viene ricondotta al funzionamento del mercato monetario, ed al ruolo in esso esercitato dalla moneta e dal tasso di interesse, giustificazione che appare compi-utamente solo nel capitolo 17 (un appassionato di numerologia potrebbe attribuire un significato simbolico alla “scoperta del colpevole” proprio in questo capitolo…):

Perché non  si  raggiunge  il pieno  impiego 1.  It  is now apparent  that our previous statement to the effect that it is the money‐rate of interest which 

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sets a  limit  to  the  rate of output,  is not  strictly correct. We  should have said that it is that asset's rate of interest which declines most slowly as the stock of assets in general increases, which eventually knocks out the prof‐itable  production  of  each  of  the  others,�except  in  the  contingency,  just mentioned, of a special relationship between the present and prospective costs of production. As output  increases, own‐rates of  interest decline to levels at which one asset after another falls below the standard of profit‐able production;�until, finally, one or more own‐rates of interest remain at a  level which  is above  that of  the marginal efficiency of any asset what‐ever. (p. 229). 

Perché non si raggiunge il pieno impiego 2. Unemployment develops, that is to say, because people want the moon;�men cannot be employed when the object of desire  (i.e. money)  is something which cannot be produced and the demand for which cannot be readily choked off. There is no rem‐edy but  to persuade  the public  that green cheese  is practically  the same thing and to have a green cheese factory (i.e. a central bank) under public control. (p. 235). 

Perché non si raggiunge il pieno impiego 3. Our conclusion can be stated in  the most general  form  (taking  the propensity  to consume as given) as follows. No further increase in the rate of investment is possible when the greatest amongst  the own‐rates of own‐interest of all available assets  is equal  to  the  greatest  amongst  the  marginal  efficiencies  of  all  assets, measured  in terms of the asset whose own‐rate of own‐interest  is great‐est. In a position of full employment this condition is necessarily satisfied. But it may also be satisfied before full employment is reached, if there ex‐ists some asset, having zero (or relatively small) elasticities of production and substitution, whose  rate of  interest declines more closely, as output increases,  than  the  marginal  efficiencies  of  capital‐assets  measured  in terms of it (p. 236). 

 

1.8  DEFINIZIONI KEYNESIANE: ASPETTI SISTEMICI 

Prima di giungere alla determinazione dell’equilibrio di sottoccupazione Keynes definisce la varie parti del sistema economico, coerentemente con il

proprio metodo d’indagine, analizzando dapprima questioni di carattere generale e pro-cedendo via via nel dettaglio dei singoli mercati. Il capitolo 3 della TG viene dedicato alla spiegazione del principio della domanda effettiva, che scaturisce dalle preliminari de-finizioni delle funzioni di domanda e di offerta aggregata. Si può notare come Keynes definisca le funzioni in termini di livelli occupazionali piuttosto che di output aggregato, ma la natura sostanziale delle due funzioni è simile a quella di norma utilizzata nei ma-nuali di macroeconomia standard. Per ciò che concerne la definizione della domanda

AD E AS 

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aggregata, nel passaggio di seguito riportato appare evidente come Keynes intendesse la domanda effettiva (ossia il punto della domanda aggregata che determina l’equilibrio del sistema economico) pari alla somma delle remunerazioni dei fattori produttivi (si pensi alle identità di contabilità nazionale ed alla determinazione del PIL secondo il criterio della spesa e secondo il criterio del reddito, il primo somma di consumi, investimenti, spesa pubblica ed esportazioni nette, il secondo come somma della remunerazione dei fattori produttivi; nonché alla coincidenza fra il concetto di PIL e di valore aggiunto a livello aggregato):

Definizioni di AS e AD: Let Z be the aggregate supply price of the output from employing N men, the relationship between Z and N being written Z = f(N), which can be called the aggregate supply function. Similarly,  let D be the proceeds which entrepreneurs expect to receive from the employ‐ment of N men, the relationship between D and N being written D = f(N), which  can be  called  the aggregate demand  function. Now  if  for  a  given value of N  the expected proceeds are greater  than  the aggregate  supply price, i.e. if D is greater than Z, there will be an incentive to entrepreneurs to  increase  employment  beyond  N  and,  if  necessary,  to  raise  costs  by competing with one another for the factors of production, up to the value of N for which Z has become equal to D. Thus the volume of employment is given by the point of intersection between the aggregate demand func‐tion and the aggregate supply function; for  it  is at this point that the en‐trepreneurs' expectation of profits will be maximised. The value of D at the point of the aggregate demand function, where it is intersected by the ag‐gregate supply  function, will be called  the effective demand. Since  this  is the substance of the General Theory of Employment, which  it will be our object  to expound,  the succeeding chapters will be  largely occupied with examining the various factors upon which these two functions depend. (p. 25).  

AD e domanda effettiva: The aggregate demand  function relates various hypothetical quantities of employment  to  the proceeds which  their out‐puts are expected  to yield; and  the effective demand  is  the point on  the aggregate  demand  function which  becomes  effective  because,  taken  in conjunction with  the  conditions of  supply,  it  corresponds  to  the  level of employment which maximises  the  entrepreneur's  expectation  of  profit. (p.55). 

Domanda effettiva: Furthermore,  the effective demand  is  simply  the ag‐gregate  income (or proceeds) which the entrepreneurs expect to receive, inclusive of  the  incomes which  they will hand on  to  the other  factors of production, from the amount of current employment which they decide to give. (p. 55). 

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Il secondo aspetto di carattere sistemico preso in considerazione nel capitolo 5 ed approfondito nel capitolo 12 riguarda le aspettative. Le

aspettative sono il vero motore dell’attività economica, ed in particolare dell’attività im-prenditoriale. Secondo Keynes l’andamento effettivo delle variabili economiche non è il vero parametro di interesse per gli imprenditori: ciò che è rilevante è l’eventuale discre-panza fra aspettativa (si potrebbe dire valore atteso delle variabili ex-ante) e valore effet-tivo (si potrebbe dire realizzazione ex-post). Nella misura in cui esista una discrepanza, gli individui sono indotti a rivedere le proprie aspettative (e conseguentemente le proprie scelte), in modo più o meno radicale, viceversa si verificherà una stabilità delle scelte. Il sistema economico si aggiusta peraltro con ritardo ed asimmetricamente al mutamento delle aspettative. Ciò significa, rispetto all’asimmetria dell’adattamento, che la risposta ad errori di previsione “negativi” (per esempio si prevedeva un aumento della produzione del 2% ma si è ottenuto solo l’1%) ha maggiore impatto della risposta ad errori “positi-vi”. Tale asimmetria è del tutto plausibile in quanto il verificarsi di eventi non corretta-mente previsti implica conseguenze economiche tangibili, con la distinzione che l’evento negativo riduce le possibilità di sopravvivenza - espansione dell’impresa, mentre l’evento positivo ne amplia le opportunità. In ogni caso, sottolinea Keynes, la revisione delle aspettative non può implicare effetti immediati, a prescindere dalla natura dell’evento. Se, per esempio, la crescita della domanda è inferiore al previsto e si pre-sume che ciò sia sintomatico dell’inizio di una fase recessiva, non è possibile ridurre la produzione ricorrendo al licenziamento in tronco, né smantellare istantaneamente il ca-pitale eventualmente eccedente; viceversa, a fronte di un aumento inatteso della do-manda, che segnali l’inizio di una fase espansiva stabile, non è possibile adeguare imme-diatamente la produzione (a meno che non si disponga di capacità produttiva in eccesso o si ricorra al lavoro straordinario).

Fatti salvi i processi di aggiustamento è la loro differente connotazione qualitativa ap-pare evidente che nella visione keynesiana le aspettative rappresentano una variabile fondamentale per la comprensione della dinamica economica. Infatti:

[…] a mere change in expectation is capable of producing an oscillation of the same kind of shape as a cyclical movement, in the course of working it‐self out. […] But the actual course of events  is more complicated still. For the  state of expectation  is  liable  to  constant  change, a new expectation being superimposed  long before the previous change has fully worked  it‐self out; so that the economic machine is occupied at any given time with a number of overlapping activities, the existence of which is due to various past states of expectation. (pp. 49‐50). 

ASPETTATIVE 

Page 23: Elementi di Teoria Keynesiana

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Ma come si formano le aspettative, quale grado di stabilità posseggono ed in che modo influenzano l’attività del sistema economico? Keynes distingue fra aspettative a breve termine (convenzionalmente tra 1 e 5 anni) ed aspettative a lungo termine. Ed in questa distinzione Keynes adotta, almeno implicitamente, la logica marshalliana che distingue fra breve e lungo periodo in relazione alla flessibilità dei fattori produttivi.. Entrambe sono rilevanti nella determinazione delle decisioni produttive e occupazionali correnti, benché in modo differente. Le aspettative a breve termine, infatti, determinano il livello produttivo corrente delle imprese e le scelte occupazionali correnti, in modo diretto. Quindi output e occupazione a livello aggregato dipendono direttamente dalle aspetta-tive a breve termine. Le aspettative a lungo termine influenzano output ed occupazione indirettamente. Infatti, questo tipo di aspettative determina le decisioni di investimento delle imprese, ossia le scelte che portano all’accumulazione del capitale. Una volta de-terminato il livello di capitale ottimale, le imprese scelgono il livello di output che mas-simizza il profitto atteso e di conseguenza il livello occupazionale congruente con le due variabili.

La separazione fra aspettative a breve ed a lungo termine nel ragionamento keynesiano è essenziale alla definizione del meccanismo di formazione delle stesse, che in ultima analisi ne determina il relativo grado di stabilità nel tempo. L’aspettativa a breve termine si caratterizza infatti per una maggiore dipendenza dagli eventi recenti e si forma sostan-zialmente sulla base di un percorso adattivo: i risultati del recente passato, in condizioni di stabilità economica, costituiscono una buona approssimazione delle aspettative a breve termine. Quindi l’aspettativa a breve termine si caratterizza per la possibilità di conferirne una connotazione quantitativa analiticamente determinabile. Volendo ricor-rere al linguaggio statistico attuale (che però non era proprio al ragionamento di Keynes essendo fra l’altro successivo alla pubblicazione della TG) l’aspettativa a breve termine di una data variabile può essere rappresentata come il valore atteso di un processo sto-castico autoregressivo di ordine n nel quale gli eventi più lontani hanno peso via via de-crescente. E’ bene notare che la stabilità dell’aspettativa a breve termine dipende dalla stabilità delle condizioni economiche aggregate: non bisogna essere indotti nell’errore di ritenere che l’aspettativa a breve termine, per il meccanismo di formazione che la carat-terizza, sia più stabile rispetto all’aspettativa a lungo termine, perché ciò è vero solo nella misura in cui il sistema non sia sottoposto a perturbazioni continue.

Più complessa è la definizione delle aspettative a lungo termine. Anche l’aspettativa a lungo termine si forma sulla base della medesima sequenza logica che porta alla formu-lazione dell’aspettativa a breve termine: (1) l’individuo opera in un ambiente incerto, nel quale il peso degli eventi passati è determinato dal grado di incertezza stesso (quanto maggiore è l’incertezza, tanto minore è l’affidamento che si può fare sull’evidenza passa-ta, soprattutto se lontana); (2) in assenza di cambiamenti attesi di rilievo, è lecito atten-

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dersi che gli eventi più lontani abbiano minore rilevanza rispetto agli eventi più recenti; (3) la confidenza nelle aspettative formulate dipende dal successo di queste ultime (un individuo che commette sistematici errori di previsione avrà scarsa confidenza nelle proprie aspettative, e le stesse saranno instabili; mentre un individuo le cui previsioni si dimostrano tendenzialmente corrette, non ha motivi per rivedere spesso le proprie as-pettative).

Il punto che distingue i due tipi di aspettative è il fondamento sul quale le stesse vengo-no costruite. Mentre nel caso dell’aspettativa a breve termine si dispone di una base “oggettiva” per l’approssimazione dei valori attesi (costituita come si è detto da una qualche trasformazione dei valori passati), nel caso dell’aspettativa a lungo termine non esiste nessun elemento oggettivo sul quale fondare il proprio calcolo. Su questo punto, i passaggi forse più noti della TG sono i seguenti:

The outstanding fact is the extreme precariousness of the basis of knowl‐edge on which our estimates of prospective yield have  to be made. Our knowledge  of  the  factors which will  govern  the  yield  of  an  investment some years hence  is usually very  slight and often negligible.  If we  speak frankly, we have to admit that our basis of knowledge  for estimating the yield  ten  years hence of  a  railway,  a  copper mine,  a  textile  factory,  the goodwill of a patent medicine, an Atlantic  liner, a building  in  the City of London  amounts  to  little  and  sometimes  to  nothing;  or  even  five  years hence. In fact, those who seriously attempt to make any such estimate are often  so much  in  the minority  that  their behaviour does not govern  the market (p. 149‐150). (enfasi aggiunta) 

In  estimating  the prospects of  investment, we must have  regard,  there‐fore, to the nerves and hysteria and even the digestions and reactions to the weather of those upon whose spontaneous activity it largely depends. We should not conclude from this that everything depends on waves of ir‐rational psychology. On the contrary, the state of long‐term expectation is often steady, and, even when  it  is not, the other factors exert their com‐pensating  effects. We  are merely  reminding ourselves  that human deci‐sions affecting the future, whether personal or political or economic, can‐not depend on strict mathematical expectation, since the basis for mak‐ing such calculations does not exist; and that it is our innate urge to activ‐ity which makes  the wheels  go  round,  our  rational  selves  choosing  be‐tween the alternatives as best we are able, calculating where we can, but often  falling  back  for our motive on whim or  sentiment or  chance.  (pp. 162‐163). (enfasi aggiunta) 

E’ importante sottolineare che l’indisponibilità di una base oggettiva per il calcolo dei rendimenti netti attesi, da cui discende la decisione di investimento (o qualsiasi altra de-

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cisione economica a lungo termine) non implica l’impossibilità di decidere, ma sempli-cemente un modo non matematico di attuare la decisione stessa. L’approssimazione matematica possibile per la determinazione dei valori attesi a breve termine, viene sosti-tuita da approssimazioni “convenzionali” nel lungo termine, il cui contenuto è pura-mente qualitativo. La conoscenza oggettiva viene pertanto sostituita dalle convenzioni (dalla cosiddetta conventional wisdom) accettate e condivise da una data collettività, a pres-cindere dal valore di verità intrinseco che le caratterizza. Un esempio del rapporto fra convenzione e verità è costituito dalla concezione tolemaica del sistema solare, unita all’idea della non sfericità del globo terrestre. Oggi sappiamo che tale convinzione era del tutto falsa, ma il suo riconoscimento come convenzione valida ha segnato il corso della storia ed il destino di molti individui per lungo tempo. Questa esemplificazione il-lustra due delle caratteristiche fondamentali della conoscenza convenzionale rilevanti ai fini della costruzione keynesiana: 1) la natura non oggettiva della convenzione che la rende strutturalmente più fragile di una conoscenza oggettiva; 2) la non necessaria in-stabilità della convenzione stessa: quest’ultima non è soggetta a revisione continua; tut-tavia, le convenzioni sono più soggette a “rivoluzioni”, ossia a cambiamenti repentini e drastici che intervengono dopo periodi di prolungata stabilità. E’ chiaro, comunque, che il meccanismo di formazione delle aspettative a lungo termine evidenzia la presenza di una ineliminabile fonte di instabilità nel funzionamento del sistema economico.

Poiché le aspettative a lungo termine concorrono a determinare il livello dell’investimento aggregato si comprende il canale principale attraverso il quale hanno origine le fluttuazioni economiche nella spiegazione keynesiana.  

Fortemente collegata alla questione delle aspettative è la riflessione sulla natura intertemporale delle decisioni. Keynes non nega in al-cun modo che le scelte correnti siano connesse alle scelte future. La semplice considerazione del ruolo attribuito alle aspettative ne è

una prova evidente. Ciò che mette in discussione, come sempre, è la modalità seguita dalla teoria classica per illustrare il legame intertemporale fra le variabili economiche. Nella prima considerazione critica si afferma:

Il legame fra presente e futuro per  classici: They are fallaciously suppos‐ing  that  there  is a nexus which unites decisions  to abstain  from present consumption with decisions  to provide  for  future  consumption; whereas the motives which determine  the  latter are not  linked  in any simple way with the motives which determine the former (p. 21). 

Per i classici consumo e risparmio risultano dalla massimizzazione dell’utilità individuale e dalla medesima decisione di allocazione temporale delle risorse, mediata dal tasso di

CONSIDERAZIONI INTERTEMPORALI 

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interesse che rappresenta il tasso di preferenza intertemporale, mentre l’investimento viene determinato dalla massimizzazione del profitto intertemporale che porta alla scelta del livello ottimale del capitale. Sostanzialmente investimento e risparmio sono funzioni determinate indipendentemente. Nella teoria keynesiana ciò non avviene, ed ancora una volta si sottolinea la differenza fra grandezze determinate a livello microeconomico e grandezze aggregate. Nel primo passaggio si sottolinea la complessità del legame fra consumo e investimento, mentre nel secondo si chiarisce come si determina il legame fra presente e futuro:

Il  rapporto  intertemporale  fra C  ed  I  (il  conflitto  fra breve  e  lungo pe‐riodo): Consumption  is satisfied partly by objects produced currently and partly by objects produced previously, i.e. by disinvestment. To the extent that consumption is satisfied by the latter, there is a contraction of current demand, since to that extent a part of current expenditure fails to find its way back as a part of net income. Contrariwise whenever an object is pro‐duced  within  the  period  with  a  view  to  satisfying  consumption  subse‐quently,  an  expansion  of  current  demand  is  set  up.  Now  all  capital‐investment  is destined to result, sooner or  later,  in capital‐disinvestment. Thus  the  problem  of  providing  that  new  capital‐investment  shall  always outrun  capital‐disinvestment  sufficiently  to  fill  the  gap  between  net  in‐come and consumption, presents a problem which  is  increasingly difficult as capital  increases. New capital‐investment can only take place  in excess of  current  capital‐disinvestment  if  future expenditure on  consumption  is expected  to  increase.  Each  time  we  secure  to‐day's  equilibrium  by  in‐creased  investment we are aggravating  the difficulty of  securing equilib‐rium to‐morrow. […] The obstacle to a clear understanding is […] an inade‐quate appreciation of the fact that capital is not a self‐subsistent entity ex‐isting apart  from  consumption. On  the  contrary, every weakening  in  the propensity  to consume  regarded as a permanent habit must weaken  the demand for capital as well as the demand for consumption. (pp. 105‐106). 

Il legame fra presente e futuro per Keynes: It is by reason of the existence of durable equipment that the economic future is linked to the present. It is,  therefore,  consonant with,  and  agreeable  to,  our  broad  principles  of thought,  that  the  expectation  of  the  future  should  affect  the  present through the demand price for durable equipment. (p. 146). 

Centrale nella critica di Keynes è l’interpretazione della natura del tasso di interesse. Quest’ultimo nell’interpretazione classica determina l’equilibrio del mercato dei beni, perché il mercato della moneta non prevede un ruolo per questa variabile (si ricorda che la teoria classica della moneta è la teoria quantitativa). Keynes non discute sul fatto che il tasso di interesse rifletta considerazioni di carattere intertemporale, ma obbietta che quest’ultimo viene determinato sul mercato della moneta e delle attività finanziarie. An-

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cora più rilevante è l’obiezione secondo cui, il tasso di interesse possa determinare l’equilibrio del mercato dei beni: ciò in realtà può accadere solo se il livello di equilibrio del reddito è dato; se, infatti il reddito può mutare (e quindi si opera in un contesto dif-ferente dalla piena occupazione) la sola conoscenza del tasso di interesse non determina un solo equilibrio, ma differenti possibili configurazioni, corrispondenti a differenti li-velli di reddito. I passaggi salienti sono di seguito riportati:

Il ruolo del tasso di interesse nell’aggiustamento classico: If the rate of in‐terest were so governed as to maintain continuous full employment, virtue would resume her sway; the rate of capital accumulation would depend on the weakness of the propensity to consume. Thus, once again, the tribute that classical economists pay to her  is due to their concealed assumption that the rate of interest always is so governed. (p.112). 

Il  rapporto  fra  investimento e  risparmio: Thus  the  traditional analysis  is faulty because  it has  failed  to  isolate correctly  the  independent variables of the system. Saving and investment are the determinates of the system, not the determinants. […]The traditional analysis has been aware that sav‐ing depends on income but it has overlooked the fact that income depends on  investment,  in  such  fashion  that, when  investment  changes,  income must necessarily change in just that degree which is necessary to make the change in saving equal to the change in investment. (pp. 183‐184). 

La differenza fra interpretazione classica e keynesiana del meccanismo di aggiustamento del mercato dei beni in seguito a variazioni del tasso di interesse può essere illustrata graficamente. Per la comprensione della rappresentazione si svolga un esercizio di stati-ca comparata, nel quale la posizione di partenza del sistema considerato presenti un ec-cesso di risparmio sull’investimento. Nell’aggiustamento classico che opera sempre in condizioni di piena occupazione, l’equilibrio viene ristabilito attraverso una riduzione del tasso di interesse che implica una caduta del risparmio ed un aumento degli investi-menti. Il tasso di interesse continua a scendere fino a che non sia raggiunta l’uguaglianza fra investimento e risparmio aggregati. Graficamente il sistema passa dalla condizione identificata da i0 alla posizione identificata da in. L’aggiustamento keynesiano rende es-plicito il fatto che la funzione di risparmio aggregato scaturisce dalla decisione di con-sumo, ed è definita per un dato livello di reddito. Se il reddito può mutare, anche la fun-zione di risparmio, a parità di altre condizioni, subisce traslazioni. Pertanto, nella situa-zione di partenza si ha un eccesso di risparmio. Il tasso di interesse diminuisce. Questo stimola gli investimenti, che a loro volta determinano un aumento del reddito via pro-cesso moltiplicativo. L’aumento del reddito provoca un aumento del risparmio e dun-que la funzione del risparmio si trasla verso destra. Il processo di aggiustamento ha ter-mine quando viene raggiunto il nuovo livello di equilibrio del reddito che consentendo di stabilire la posizione della funzione del risparmio, consente di comprendere quale sia

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il tasso di interesse compatibile con l’equilibrio del mercato dei beni. In questo mecca-nismo di aggiustamento, evidentemente, le funzioni di risparmio e di investimento non sono indipendenti. Infatti I via moltiplicatore Y via funzione di consumo C

via relazione residuale S.

1.9  CONSIDERAZIONI SPECIFICHE 

1.9.1  MERCATO DEI BENI 

In merito alla teoria del consumo (di cui ai capitoli 8, 9 e 10 della TG) non si procede a particolari approfondimenti, dando per scontata la co-noscenza della teoria keynesiana che appare su tutti i manuali di macroe-conomia di base (e perché la stessa verrà ulteriormente ripresa nel capi-

tolo successivo). Si ricorda in questa sede che essa è necessaria, nella sua specifica for-mulazione che prevede un legame con il solo reddito corrente, e con una componente di consumo autonoma, a derivare il moltiplicatore standard. Pertanto, pur non essendo approfondita, la teoria del consumo è comunque fondamentale per la costruzione della visione macroeconomica keynesiana e per la comprensione della dinamica ciclica: è in-fatti l’entità del moltiplicatore a determinare la sensitività del reddito a variazioni delle componenti autonome della domanda aggregata.

i

S,I

I

S(YEP)

i0

in

I0 In= Sn S0

Meccanismo di aggiustamento classico

i

S,I

I

S(Y0)

i0

I0 In= SnS0

Meccanismo di aggiustamento keynesiano

S(Yn)

in

 

Più complesso è l’esame della teoria dell’investimento che appare de-cisamente più articolata di quella classica e non trova compiuta rap-presentazione nei manuali di macroeconomia standard. In ogni caso

TEORIA DEL CONSUMO 

TEORIA DELL’IN‐VESTIMENTO 

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si provvederà a fornirne una versione decisamente schematica. Prima di discutere dei dettagli più tecnici è possibile sottolineare che la teoria keynesiana dell’investimento si caratterizza per il fatto di enfatizzare il ruolo giocato dalla mancanza di informazione. Il vincolo informativo considerato da Keynes assume esplicitamente due forme. La prima ha carattere sistemico e si connette al tema dell’incertezza. Come osservato in preceden-za la decisione di investimento discende da una valutazione delle prospettive di rendi-mento a lungo termine, e tali aspettative non hanno un fondamento oggettivo. Benché ciascun individuo possa avere una differente capacità previsionale ed una propria pro-pensione al rischio, nessuno può in realtà prescindere dall’incertezza ed essere immune da errori. In questo senso l’incertezza ha una dimensione sistemica. Esiste però una ul-teriore fonte di limiti informativi, e questa discende dal fatto che gli individui sono ete-rogenei. Dall’eterogeneità individuale che non sottintende semplicemente una differen-za nelle preferenze e nelle opinioni personali, dato l’operare in un ambiente incerto ed estremamente complesso, nascono problemi di asimmetria informativa (Keynes non definiva il concetto con questi termini) che implicano ulteriori difficoltà nell’aggiustamento del sistema economico verso la posizione di pieno impiego ipotizza-ta dalla teoria classica. L’incertezza viene catturata dal concetto di efficienza marginale del capitale, mentre l’asimmetria informativa viene colta dai concetti di rischio del debi-tore e di rischio del creditore.

La determinazione del livello di investimento passa attraverso la conoscenza di due prezzi critici: il prezzo di domanda dei beni capitale ed il prezzo di offerta. Il primo è definito come il flusso scontato dei rendimenti attesi dall’investimento (che a sua volta implica una condizione di massimizzazione del profitto atteso); il secondo è il prezzo che induce i produttori di beni capitali ad attuarne la produzione (che in condizioni di concorrenza perfetta nella produzione di nuovi beni capitali implicherebbe coincidenza fra tale prezzo ed il costo di produzione). Per l’equilibrio del mercato dei beni di inves-timento deve verificarsi l’uguaglianza fra prezzo di domanda e prezzo di offerta. A questo punto, perciò si deriva l’efficienza marginale del capitale: essa non è altro che il tasso di attualizzazione del flusso dei rendimenti futuri attesi che consente di verificare l’uguaglianza fra prezzo di domanda e prezzo di offerta dei beni capitali. Immaginando che l’efficienza marginale del capitale (MEK) resti costante con riferimento ad un dato progetto di investimento, e che tale progetto dia luogo a un flusso di rendite future cos-tanti, si può scrivere:

∑ +=

n

ii

eid

t rRp

)1(

st

dt pp =

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30

∑ +=

n

ii

eis

t MEKRp

)1(

Dalla definizione dell’efficienza marginale del capitale risulta evidente che quest’ultima dipende dalla tipologia dei beni capitali (da cui discende sia la struttura dei costi per pro-durli e dunque il prezzo di offerta, ma anche il rendimento associato all’installazione di tali beni, che concorre alla determinazione del prezzo di domanda). Ogni progetto di investimento ha una propria efficienza marginale del capitale. Se il numero di progetti attivabili è sufficientemente ampio, dalla efficienza marginale individuale si passa all’efficienza marginale aggregata che evidenzia una relazione negativa fra efficienza marginale e livello dell’investimento.

Poiché il tasso di interesse, secondo Keynes non viene determinato sul mercato dei be-ni, ma sul mercato della moneta, una volta noti la scheda di efficienza marginale del ca-pitale a livello aggregato ed il tasso di interesse, si determina il livello dell’investimento aggregato. Keynes sottolinea che il concetto di efficienza marginale del capitale non coincide in generale con quello di produttività marginale del capitale, derivabile dall’analisi neoclassica. Queste ultime coincidono solo in condizioni di pieno impiego e di raggiungimento dello stato stazionario, nel quale viene meno la distinzione fra valori attesi e valori effettivi. La sostanziale differenza qualitativa fra le due grandezze è dun-que data dalla natura non oggettiva e convenzionale della prima, che si contrappone alla natura perfettamente determinabile della seconda.

pd, ps

MEK

I

pd

ps0 ps

1

MEK0

MEK1

I0 I1

Come accennato in precedenza, il processo di investimento può essere influenzato ne-gativamente dalla presenza di informazione asimmetrica, che porta a modificare il prez-zo di domanda ed il prezzo di offerta (ed in ultima analisi MEK). Il prezzo di domanda

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viene diminuito dall’insorgere del rischio del debitore, mentre il prezzo di offerta viene accresciuto dall’apparire del rischio del creditore.

Dalla definizione keynesiana, il rischio del debitore rappresenta “dubbi nella mente di chi rischia il proprio capitale”, con questo evidenziando la natura soggettiva di tale tipo di rischio, che si collega alla minore diversificazione del portafoglio di chi svolge un’attività imprenditoriale, o alla riduzione dei margini di sicurezza indotta dall’intraprendere investimenti in attività caratterizzate da un basso grado di liquidità (o liquidabilità). Per il fatto che al crescere dell’investimento, aumenta il rischio, oltre una certa soglia, il prezzo di domanda, come si è detto, diminuisce. Esso è influenzato dalle aspettative dell’imprenditore.

Il rischio del creditore, che determina il prezzo di offerta, ha invece natura oggettiva, perché si evidenzia nei contratti di credito nella forma di oneri maggiori al crescere dell’investimento, ossia del finanziamento richiesto. Al crescere dell’indebitamento, l’onere che deve essere sostenuto dall’impresa cresce sia in termini di stock che di flus-so, pertanto al crescere dell’investimento cresce anche il prezzo di offerta. Fondamentali per la determinazione di tale prezzo sono le aspettative di rendimento dei finanziatori.

Keynes sottolinea che la presenza di vincoli finanziari ha comunque effetti rile-vanti sull’andamento ciclico degli investimenti, non diversamente da mutamenti che si collegano all’andamento delle aspettative a lungo termine. Vincoli finan-ziari ed instabilità delle aspettative a lungo termine (da cui deriva l’instabilità della MEK) hanno effetti asimmetrici, nel senso che sono molto più deleteri nelle fasi di contrazione di quanto non siano propulsivi nelle fasi di espansione. Ciò è esemplificato nel passaggio di seguito riportato:

A collapse  in the price of equities, which has had disastrous reactions on the marginal efficiency of capital, may have been due to the weakening ei‐ther of  speculative confidence or of  the  state of credit. But whereas  the weakening of either  is enough  to cause a collapse,  recovery  requires  the revival  of  both.  For whilst  the weakening  of  credit  is  sufficient  to  bring about a collapse, its strengthening, though a necessary condition of recov‐ery, is not a sufficient condition. (p. 158). 

Il ruolo centrale attribuito alla dinamica della MEK è anche il cuore della spiegazione dell’andamento ciclico dell’investimento analizzato da Keynes. Infatti egli ribadisce che la stagnazione dell’economia può essere ricondotta ad un collasso delle aspettative e del-la MEK; il sistema economico non può essere avviato su un percorso di ripresa sempli-cemente modificando il tasso di interesse: la riduzione del tasso di interesse non è con-dizione sufficiente per produrre un aumento del livello dell’investimento aggregato perché a tal fine occorre anche la stabilità della MEK. Quando invece la MEK si mod-ifica il livello degli investimenti muta, anche se il tasso di interesse non subisce alcuna

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variazione. Il concetto viene chiarito nell’esemplificazione grafica seguente, che illustra l’effetto di una variazione positiva delle aspettative a lungo termine, opposta al caso classico in cui si considera stabilità delle aspettative e riduzione del tasso di interesse.

i

I

MEK0 = MEK1

i0

i1

I0 I1

Meccanismo di aggiustamento classico

I

MEK0

i0= i1

I0 I1

Meccanismo di aggiustamento keynesiano

MEK

MEK1

iMEK

 

1.9.2  MERCATO DELLA MONETA La rappresentazione del mercato monetario è essenziale per comprendere la nozione keynesiana del tasso di interesse e di moneta (specialmente della domanda di moneta).

Il tasso di preferenza intertemporale implica che l’individuo effettui due tipi di scelta: la prima, sul come ripartire le proprie risorse fra consumo presente e consumo futuro; la seconda sulla forma nella quale detenere le risorse non consumate (in forma liquida o investite in altro tipo di attività). Per Keynes la prima scelta porta alla determinazione della propensione al consumo e la seconda alla determinazione della preferenza per la liquidità, ed il tasso di interesse, in quanto espressione del tasso di preferenza intertem-porale dovrebbe essere sintesi di queste due scelte. La teoria classica porta alla coinci-denza fra tasso di interesse e tasso di preferenza intertemporale inteso solo nella prima accezione (scelta di consumo presente o futuro); nella teoria keynesiana, pur partendo dal presupposto che il tasso di preferenza intertemporale è dato dall’interazione delle due scelte, il tasso di interesse deriva di fatto dalla sola seconda accezione. Infatti:

Che cos’è il tasso di interesse The rate of  interest  is not the  'price' which brings into equilibrium the demand for resources to invest with the readi‐ness  to  abstain  from present  consumption.  It  is  the  'price' which  equili‐

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brates  the  desire  to  hold wealth  in  the  form  of  cash with  the  available quantity of cash. (p. 167). 

Come si determina  il  tasso di  interesse d’equilibrio  If  this explanation  is correct,  the quantity of money  is  the other  factor, which,  in conjunction with  liquidity‐preference, determines  the  actual  rate of  interest  in  given circumstances.  Liquidity‐preference  is  a  potentiality  or  functional  ten‐dency, which fixes the quantity of money which the public will hold when the rate of interest is given; so that if r is the rate of interest, M the quan‐tity of money and L the function of liquidity‐preference, we have M  =  L(r). This  is where, and how,  the quantity of money enters  into  the economic scheme. (pp. 167‐168). 

Come fatto relativamente alla questione della teoria del consumo non si procede ad ul-teriori approfondimenti degli aspetti relativi alla determinazione della domanda di mo-neta e dell’equilibrio del mercato monetario, dando per scontata la conoscenza di tali elementi da parte dei lettori..

Di seguito si riporta un passo della TG che illustra anche in merito al mercato moneta-rio la differenza fra impostazione classica ed impostazione keynesiana:

Critica alla dicotomia classica The right dichotomy  is,  I suggest, between the  theory of  the  individual  industry or  firm and of  the  rewards and  the distribution between different uses of a given quantity of resources on the one hand, and  the  theory of output and employment as a whole on  the other hand. […] Or, perhaps, we might make our  line of division between the theory of stationary equilibrium and the theory of shifting equilibrium �meaning by  the  latter  the  theory of  a  system  in which  changing  views about the future are capable of influencing the present situation). For the importance of money essentially  flows  from  its being a  link between  the present and the future. (p. 293). 

1.9.3  MERCATO DEL LAVORO 

La principale innovazione introdotta da Keynes in merito all’interpretazione del funzionamento del mercato del lavoro ri-guarda il concetto di disoccupazione involontaria. Come più volte

sottolineato la disoccupazione (involontaria) è un fenomeno che scaturisce dal operare sistemico dei vari mercati, e quindi non può essere ricondotto a caratteristiche apparte-nenti unicamente al mercato del lavoro stesso. In altri termini il mercato del lavoro non è un mercato indipendente dagli altri; dunque la disoccupazione che in esso si determi-na non si può risolvere semplicemente studiando la domanda e l’offerta di lavoro, ed in particolare pensando che la riduzione dei salari possa essere strumento adeguato a rias-sorbire il fenomeno. Infatti:

DISOCCUPAZIONE 

INVOLONTARIA 

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Che  cos’è  la  disoccupazione  involontaria: Men  are  involuntarily  unem‐ployed If, in the event of a small rise in the price of wage‐goods relatively to  the money‐wage, both  the aggregate  supply of  labour willing  to work for the current money‐wage and the aggregate demand for it at that wage would be greater than the existing volume of employment. (p. 15). 

W/P

Nd, Ns

Nd

Ns

W0/P0

W0/P1

N* Nd1 NEP Ns

1 Ns0

disoccupazione involontariadesumibile da lettura della TG

 

 

1.10  LA COMPOSIZIONE DELLE PARTI: L’INSTABILITÀ ENDOGENA DELLE ECONOMIE 

MONETARIE 

La parte finale della TG tenta di ricostruire il funzionamento del sistema economico stabilendo alcuni possibili nessi causali fra le variabili. Si parte dai dati del problema cos-tituiti dalle caratteristiche del mercato del lavoro, dalle condizioni che ne determinano l’offerta, dalle caratteristiche del capitale, dalla tecnologia prevalente, dalla struttura dei mercati, preferenze ed abitudini dei consumatori, assetto istituzionale e distribuzione del reddito…

Le variabili indipendenti del problema keynesiano sono la propensione al consumo, l’efficienza marginale del capitale e il tasso di interesse; mentre le variabili dipendenti so-no il livello dell’attività produttiva e l’occupazione misurati in unità di salario. Keynes sottolinea che la distinzione fra variabili dipendenti ed indipendenti costituisce una scel-ta arbitraria e valida in prima approssimazione, perché nessuna variabile di fatto è com-pletamente esogena rispetto al funzionamento del sistema economico.

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In ultima analisi le variabili indipendenti keynesiane si riconducono (1) alle tre leggi psi-cologiche fondamentali (propensione al consumo, propensione alla liquidità e aspetta-tive di rendimento dei beni capitali), (2) alla unità di salario determinata dal processo di contrattazione, (3) offerta di moneta determinata dalla Banca Centrale.

Sostanzialmente la spiegazione della dinamica ciclica ruota attorno alla variabilità dell’investimento.

1. Infatti il processo di investimento è radicato nell’incertezza (che per Keynes non può essere in alcun modo trattata attraverso formulazioni matematiche oggettive).

2. A causa dell’incertezza l’investimento è il risultato della bravura e della propensione al rischio individuali (in assenza di tale propensione che implica che gli imprenditori siano tendenzialmente “ottimisti”, il processo di investimento sarebbe inattuabile).

3. Nei sistemi capitalistici moderni esiste una sofisticata organizzazione dei mercati fi-nanziari, che consente il finanziamento delle attività di investimento attraverso una plu-ralità di strumenti, garantiti da un sistema giuridico che contempla differenti forme so-cietarie. Il dato più rilevante di questa complessità organizzativa è rappresentato dalla separazione fra proprietà e controllo delle imprese da cui discende un processo di so-cializzazione o traslazione del rischio d’impresa. La possibilità di traslare il rischio dell’investimento (ossia di suddividerlo fra un numero più ampio di soggetti, o di pas-sarlo pressoché interamente ad altri) rende la decisione di investimento reversibile, nel senso che un individuo sa di poter rivedere le proprie decisioni in un momento succes-sivo. Questo meccanismo indubbiamente rappresenta una condizione che agevola lo sviluppo economico e lo rende più rapido, ma al tempo stesso è un fattore di destabiliz-zazione endogeno. Infatti, la limitazione della responsabilità individuale rispetto all’attuazione dell’investimento può indurre a comportamenti azzardati o persino frau-dolenti (per riferirsi ad esempi recenti di tale fenomeno basta pensare ai casi Cirio e Parmalat, ma la storia del capitalismo moderno è disseminata di episodi simili che for-tunatamente non sono una peculiarità italiana), i quali implicano una sottostima del ri-schio effettivo dell’investimento stesso.

4. Un ulteriore meccanismo in grado di aggravare l’instabilità determinata dalla socializ-zazione del rischio è rappresentato dalla presenza di speculazione. E’ importante sot-tolineare che in Keynes questo termine è utilizzato con un accezione differente rispetto a quella comunemente intesa, che assimila questa attività all’arbitraggio. Effettivamente, tanto arbitraggisti quanto speculatori giocano “contro” il mercato, ma lo fanno in modo assai diverso, provocando per questo, dinamiche dei prezzi delle attività che compra-vendono esattamente opposte. L’arbitraggista interviene sul mercato quando riscontra la presenza di disequilibri (per esempio uno stesso bene che, a parità di altri elementi quali costi di trasporto e tassazione, viene venduto su due mercati differenti a prezzi diversi).

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Tipicamente agisce in modo da realizzare in guadagno da tale discrepanza (nell’esempio comprerebbe il bene nel mercato in cui il prezzo è inferiore per rivenderlo su quello in cui il prezzo è più elevato). La sua azione, soprattutto se imitata da altri che individuano la medesima possibilità di guadagno, finisce col modificare la domanda e l’offerta di mercato, portando i prezzi nella “giusta direzione” ossia verso l’eliminazione dello squi-librio iniziale (nel primo mercato il prezzo tenderà a salire, per aumento della domanda, mentre nel secondo tenderà a diminuire per aumento dell’offerta, portando all’annullamento progressivo del margine di profitto dell’arbitraggista). L’attività dello speculatore è invece più complessa, per il fatto di fondarsi su elementi non oggettivi. In particolare lo speculatore cerca di trarre guadagno dalla discrepanza fra le aspettative di rendimento associate ad un’attività (non necessariamente finanziaria), a prescindere dal fatto che tali aspettative siano riconducibili a rendimenti oggettivi che potrebbero realiz-zarsi in futuro. Se lo speculatore fosse un individuo con una capacità previsiva superi-ore a quella del mercato, e fosse in grado di valutare correttamente una discrepanza fra rendimento atteso da un investimento e rendimento effettivo a posteriori, non esiste-rebbe nessuna differenza fra attività dello speculatore e quella dell’arbitraggista, anche se il secondo opererebbe su dati certi, ed il primo su variabili attese. Ma lo speculatore non si preoccupa dello squilibrio che può sussistere fra un’aspettativa ed un dato ignoto ma “vero”; sapendo di operare in un contesto nel quale gli equilibri si fondano su conven-zioni (le quali non sono vere, ma sono semplicemente unanimemente condivise), cer-cherà di anticipare l’andamento del mercato sfruttando l’eventuale discrepanza fra as-pettative connesse alla convenzione corrente ed aspettative connesse ad una conven-zione futura. Tanto più la convenzione futura si allontana dalla realtà oggettiva, quanto maggiore sarà l’effetto destabilizzante dell’azione dello speculatore, che porta i prezzi a convergere nella direzione della convenzione piuttosto che in quella dell’equilibrio og-gettivo. L’esempio può essere facilmente costruito pensando che sul mercato sia pre-sente un titolo oggettivamente sopravvalutato (ossia che porta ad attribuire all’impresa un valore assai superiore alle future opportunità di profitto). Un arbitraggista ed uno speculatore hanno nel proprio portafoglio questo titolo. L’arbitraggista sceglie di ven-derlo semplicemente perché sa che prima o poi la sopravvalutazione verrà corretta dal mercato, e quindi decide di incamerare fin da subito la differenza positiva fra prezzo di mercato corrente e prezzo futuro. Il suo comportamento contribuisce a far cadere il prezzo del titolo sopravvalutato. Lo speculatore prima di vendere si pone un quesito: ma il mercato davvero ritiene che il titolo sia sopravvalutato? Se la risposta è negativa anziché la sua scelta è quella di acquistare, non quella di vendere. Ed il comportamento dello speculatore produce una tendenza al rialzo dei prezzi, che rafforza l’errore di so-pravvalutazione, confermando una convenzione errata. Ovviamente la bolla speculativa non può mantenersi a tempo indefinito e prima o poi scoppia, con tutti i dannosi effetti redistributivi della ricchezza che sono tristemente noti ai risparmiatori. Ci si potrebbe

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domandare perché lo speculatore agisca in questo modo, pur sapendo le conseguenze cui porterà il proprio comportamento. La risposta è semplice, per quanto cinica: lo spe-culatore guadagna dalla propria attività anche se questa è dannosa per il sistema nel suo complesso; ciò che è rilevante, dal suo punto di vista, è semplicemente riuscire a “tro-vare la scialuppa di salvataggio prima che la nave affondi”…

Il male oscuro del  capitalismo  finanzario  The  social object of  skilled  in‐vestment should be to defeat the dark forces of time and ignorance which envelop our  future. The actual, private object of  the most  skilled  invest‐ment  to‐day  is  'to beat  the gun', as  the Americans  so well express  it,  to outwit the crowd, and to pass the bad, or depreciating, half‐crown to the other fellow. (p. 155). 

La distinzione fra speculazione e impresa If  I may be allowed to appropri‐ate  the  term speculation  for  the activity of  forecasting  the psychology of the market, and the term enterprise for the activity of forecasting the pro‐spective yield of assets over their whole  life,  it  is by no means always the case that speculation predominates over enterprise. (p. 158). 

5. Si è visto come l’attività speculativa si confronti con le convenzioni. L’esistenza di convenzioni, per quanto possa apparire paradossale, sono una condizione che garan-tisce in generale la stabilità del sistema, per quanto fragile. Infatti, la presenza di incer-tezza intrattabile impedirebbe qualsiasi attività orientata al futuro, e quindi lo sviluppo dei sistemi economici, se la mancanza di conoscenza non fosse sostituita da una qua-lunque convenzione condivisa che crea l’aspettativa che uno scenario futuro sia destina-to a prevalere rispetto ad altri. Benché le convenzioni non siano accettate da tutti, sono la condizione per la “tranquillità” di molti, che in ultima analisi condizionano la dinami-ca dei sistemi. Ovviamente le convenzioni possono essere rovesciate in modo repenti-no, ed in occasione di tale eventualità il sistema economico sperimenta quantomeno in-versioni cicliche.

I punti precedentemente illustrati spiegano che l’instabilità è connaturata alla dinamica capitalistica e spiega perché l’investimento effettivo può essere insufficiente a garantire l’attivazione di un livello dell’attività produttiva compatibile con il pieno impiego delle risorse. L’instabilità secondo Keynes viene aggravata da elementi che si presentano man mano che il capitalismo passa dalla fase di avvio alla maturità: (a) si accentua la finanzia-rizzazione dell’economia che accentua la separazione fra proprietà e controllo; (b) si ri-corre maggiormente al finanziamento degli investimenti tramite emissioni azionarie e ciò rende il processo di investimento più sensibile alle variazioni dei corsi azionari, che a loro volta sono regolati dall’attività speculativa; (c) si accentuano i cosiddetti effetti di “bootstrap” che implicano la conferma di aspettative errate, che poi portano ai feno-meni quali scoppi delle bolle speculative; (d) si accentuano i problemi di asimmetria in-

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formativa che rendono più stringenti i vincoli finanziari da parte dei finanziatori ed in particolare di quelli di tipo bancario…

Per tutti questi motivi Keynes, che a tutta evidenza fanno propendere per una inelimi-nabilità della instabilità della dinamica capitalistica, suggerisce l’opportunità dell’intervento pubblico il quale dovrebbe essere attuato allo scopo di contenere “gli ec-cessi” che il sistema produce autonomamente.

I passaggi che seguono sintetizzano le intuizioni appena esposte:

La causa primaria delle fluttuazioni cicliche: a cycle,  is mainly due to the way  in which  the marginal efficiency of  capital  fluctuates  […]We do not, however, merely mean by  a  cyclical movement  that upward  and down‐ward tendencies, once started, do not persist  for ever  in the same direc‐tion but are ultimately reversed. We mean also that there  is some recog‐nisable degree of regularity  in the time‐sequence and duration of the up‐ward and downward movement. (pp. 313‐314). 

Il percorso che porta alla ripresa economica when disillusion falls upon an over‐optimistic  and  over‐bought market,  it  should  fall with  sudden  and even catastrophic  force. Moreover,  the dismay and uncertainty as  to  the future which accompanies a collapse  in  the marginal efficiency of capital naturally precipitates a sharp  increase  in  liquidity‐preference and hence a rise in the rate of interest. […].If a reduction in the rate of interest was ca‐pable  of  proving  an  effective  remedy  by  itself;  it might  be  possible  to achieve a recovery without the elapse of any considerable interval of time and by means more or less directly under the control of the monetary au‐thority. But, in fact, this is not usually the case; and it is not so easy to re‐vive the marginal efficiency of capital, determined, as  it  is, by the uncon‐trollable and disobedient psychology of the business world. […]This  is the aspect of  the slump which bankers and business men have been  right  in emphasising,  and  which  the  economists  who  have  put  their  faith  in  a 'purely monetary' remedy have underestimated. (pp. 316‐317). 

L’impossibilità di annullare il ciclo The explanation of the time‐element in the trade cycle, of the fact that an interval of time of a particular order of magnitude must usually elapse before recovery begins,  is to be sought  in the  influences which  govern  the  recovery  of  the marginal  efficiency  of capital. (p. 317). 

La necessità della  stabilizzazione  ciclica  In  conditions of  laissez‐faire  the avoidance of wide  fluctuations  in employment may,  therefore, prove  im‐possible without  a  far‐reaching  change  in  the  psychology  of  investment markets such as there  is no reason to expect.  I conclude that the duty of ordering the current volume of investment cannot safely be left in private hands. (p. 320). 

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Come controllare l’instabilità The right remedy for the trade cycle is not to be found in abolishing booms and thus keeping us permanently in a semi‐slump;  but  in  abolishing  slumps  and  thus  keeping  us  permanently  in  a quasi‐boom.  The  boom which  is  destined  to  end  in  a  slump  is  caused, therefore, by the combination of a rate of interest, which in a correct state of expectation would be  too high  for  full employment, with a misguided state of expectation which, so long as it lasts, prevents this rate of interest from being in fact deterrent. A boom is a situation in which over‐optimism triumphs over a rate of interest which, in a cooler light, would be seen to be excessive. (p. 322). 

Come  ridurre  I eccessivo The  remedy would  lie  in various measures de‐signed to  increase the propensity to consume by the redistribution of  in‐comes or otherwise; so that a given level of employment would require a smaller volume of current investment to support it. (p. 324). 

E’ interessante notare come la visione keynesiana contraddica uno dei principi classici più radicati (ed assai vivo ancora ai giorni nostri). Infatti, a fronte del verificarsi di situa-zioni di disoccupazione Keynes sottolinea l’assoluta inutilità del ricorso a meccanismi di flessibilità salariale, spiegandone le motivazioni principali:

Ruolo destabilizzante della flessibilità salariale 1. In other words, the ex‐pectation of a relative stickiness of wages in terms of money is a corollary of  the  excess  of  liquidity‐premium  over  carrying‐costs  being  greater  for money  than  for  any  other  asset.[…]  That money‐wages  should  be more stable  than  real wages  is  a  condition  of  the  system possessing  inherent stability.  Thus  the  attribution  of  relative  stability  to  real  wages  is  not merely a mistake in fact and experience. It is also a mistake in logic, if we are  supposing  that  the  system  in  view  is  stable,  in  the  sense  that  small changes  in  the propensity  to  consume and  the  inducement  to  invest do not produce violent effects on prices. (pp. 238‐239). 

Ruolo  destabilizzante  della  flessibilità  salariale  2.  It  follows,  therefore, that  if  labour were to respond to conditions of gradually diminishing em‐ployment by offering  its services at a gradually diminishing money‐wage, this would not, as a rule, have the effect of reducing real wages and might even have the effect of  increasing them, through  its adverse  influence on the volume of output. The chief result of this policy would be  to cause a great  instability of prices, so violent perhaps as to make business calcula‐tions futile in an economic society functioning after the manner of that in which we live. To suppose that a flexible wage policy is a right and proper adjunct of a system which on the whole is one of laissez‐faire, is the oppo‐site of the truth. (p. 269). 

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Un’ultima, ma non meno importante riflessione, riguarda il rapporto fra dinamica ciclica ed apertura dell’economia. Benché le considerazioni sui rapporti con l’estero non siano uno degli argomenti principali della TG, Keynes non manca di sottolineare che la scelta degli obiettivi di politica economica, e l’effettiva possibilità di scelta degli strumenti più opportuni per perseguirli non può prescindere dalla considerazione del grado di apertu-ra dell’economia. La scelta del regime di cambio introduce infatti un vincolo ulteriore nel problema dell’autorità di politica economica, ed inevitabilmente produce conflittua-lità ed instabilità che non esisterebbero se il sistema fosse autarchico.

Instabilità “importata”  It  is the policy of an autonomous rate of  interest, unimpeded by international preoccupations, and of a national investment programme directed to an optimum  level of domestic employment which is twice blessed in the sense that it helps ourselves and our neighbours at the same  time. And  it  is  the simultaneous pursuit of  these policies by all countries  together  which  is  capable  of  restoring  economic  health  and strength  internationally, whether we measure  it by  the  level of domestic employment or by the volume of international trade. (p. 349). 

 

1.11  LA TEORIA GENERALE HA RIVOLUZIONATO LA TEORIA ECONOMICA? 

Le pagine precedenti hanno illustrato i punti fondamentali della visione keynesiana. Da qualsiasi punto di vista si osservi il sistema economico, sia nella sua interezza, sia nell’operare delle singole parti, appare evidente che la TG ha rappresentato un tentativo di proporre una visione alternativa a quella fornita dalla spiegazione classica. Gli elemen-ti di innovazione sono molteplici e complessi, e per questo intrinsecamente controversi.

Forse, l’osservazione fondamentale è che Keynes ebbe il coraggio dell’eresia, ma lo spinse solo fino ad un certo punto… Sottolineò il ruolo delle aspettative, ossia dell’incertezza fondamentale che è il motivo che trasforma la moneta da unità di conto in riserva di valore, ma poi ritornò sui suoi passi, perdendo alcuni pezzi fondamentali (per effetto di quella necessità di semplificare il contesto dell’analisi connaturato al me-todo che egli stesso proponeva): il consumo come scelta intertemporale, la decisione di investimento che dipende dal prezzo dei beni di investimento piuttosto che dal tasso di interesse (con tutte le confusioni che ne conseguono perché il tasso di interesse poi deve assolvere ad una molteplicità di funzioni), la domanda di moneta troppo in trappo-la della liquidità e troppo poco come scelta di portafoglio, non un solo grafico che aiuti a capire quale mercato del lavoro avesse in mente (lavorava sulla domanda di lavoro no-zionale oppure no?)...

Uno dei problemi fondamentali di Keynes, infondo, è quello di evidenziare la necessità di un approccio aggregato (o macroeconomico) e dinamico, ma di finire poi con

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l’utilizzare strumenti che appartengono all’armamentario dell’equilibrio parziale e della statica comparata (come se fosse caduto vittima dello stesso errore di dipendenza da idee passate da cui esortava a sfuggire nella prefazione della TG). Dal punto di vista del-la dinamica, la perdita più rilevante non è tanto costituita dal fatto che le eventuali equa-zioni implicite al ragionamento possano non contenere il fattore tempo in termini sos-tanziali, quanto semmai nell’accantonamento del ruolo essenziale svolto dal tempo in presenza di scelte irreversibili, che rendono del tutto rilevante la potenziale divergenza fra valori attesi ex-ante delle variabili economiche e realizzazioni ex-post (temi della scuola svedese cui Keynes non diede alcun credito).

Questo suo coraggio “a metà” ha lasciato ai suoi successori ad un bivio: demolire quan-to fatto perché incompleto, oppure emendare le debolezze e completare il quadro. La macroeconomia che conosciamo oggi è la risultante di questi tentativi che hanno con-osciuto popolarità alterne. Certamente l’applicazione di schemi keynesiani alle economie reali ha contribuito ad evitare che si ripresentassero le condizioni di una nuova Grande Depressione, e questo rappresenta il lato positivo della macroeconomia keynesiana; d’altro canto questo stesso modo di operare ha creato (nella sua intrinseca imperfe-zione) effetti “collaterali” per certi versi imprevisti, che hanno indirizzato gli economisti verso nuove spiegazioni, o “cure”…

Dopo la pubblicazione della Teoria Generale, dopo la comparsa dello schema IS-LM, dopo la sintesi neoclassica, la critica post-keynesiana, la nuova macroeconomia classica e la nuova economia keynesiana ha ancora senso cercare una Teoria Generale e soprattut-to quali ne sono i caratteri? Esiste un approccio, oggi, che possa costituire una sintesi superiore a quanto lo ha preceduto? …

La risposta a questi quesiti è lasciata alla libera interpretazione del lettore, ma è evidente quale sia l’orientamento di chi scrive. Queste pagine sono il risultato del lavoro di chi guarda al passato sapendo che nessuna identità si costruisce senza memoria. La mia identità di economista di oggi si fonda su un passato lontano ormai più di mezzo secolo da Keynes: la teoria economica che conosco, ricorda passi di Hicks, Schumpeter, Kal-dor e Robinson, si è formata sui testi di Samuelson e Fisher, si è confrontata con le ipo-tesi di Friedman, Lucas, Taylor e Woodford, ha subito il fascino di Tobin, Minsky ed Hayeck, ha tentato di legare Davidson a Stiglitz… Posso definirmi keynesiana e al tem-po stesso, mi rendo conto che se oggi mi trovassi in una stanza con Keynes non parle-remmo un linguaggio comune. Per questo non ho la pretesa di ritenere che le pagine di questo capitolo siano una sintesi oggettiva di ciò che è l’economia keynesiana; esse sono soprattutto la sintesi di ciò che ancor oggi, di quell’originale messaggio, e dei suoi emen-damenti, a mio parere debbono continuare a costituire una memoria pulsante, sulla qua-le edificare il progresso della scienza economica.