edizioni e/o dama · 2020. 9. 10. · la signora col cagnolino i correva voce che sul lungomare...
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Edizioni e/oVia Camozzi, 1
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Titolo originale dei racconti: Damasobačkoj; Propaščee delo; Poceluj;
Nesčast’e; Učitel’ slovesnosti; Ispoved’,Ili Olja, Ženja, Zoja
Copyright © 1994 by Edizioni e/o
Grafica/Emanuele Ragniscowww.mekkanografici.com
ISBN 9788866321613
Anton Cechov
LA SIGNORA COLCAGNOLINO
Racconti d’amore
Traduzione dal russodi Raffaella Belletti
La signora col cagnolino
I
Correva voce che sul lungomare
fosse comparso un nuovopersonaggio: la signora colcagnolino. Dmitrij Dmitrič Gurov,che si trovava a Jalta già da duesettimane e vi si era ormaiambientato, cominciò anch’egli a
interessarsi ai nuovi venuti.Seduto alla terrazza del caffèVernet aveva visto passare sullungomare una giovane signorabionda di piccola statura, con incapo un cappellino, dietro la qualetrotterellava un volpino bianco.
In seguito l’aveva incontrata nelparco cittadino e nel giardinopubblico diverse volte al giorno.Passeggiava da sola, indossandosempre lo stesso cappellino, con ilvolpino bianco. Nessuno sapevachi fosse e la chiamavanosemplicemente così, la signora colcagnolino.
«Se è qui senza marito e senza
conoscenti» pensava Gurov,«varrebbe forse la pena di farne laconoscenza».
Sebbene non ancoraquarantenne, egli aveva già unafiglia di dodici anni e due figliginnasiali. Lo avevano fattosposare presto, quando era ancorastudente del secondo corso, eadesso sua moglie sembrava divent’anni più vecchia di lui. Erauna donna alta, dalle sopraccigliascure, diritta, grave e austera, unadonna, come ella stessa amavadefinirsi, pensante. Leggeva molto,nello scrivere non usava il «segnoduro»1, non chiamava il marito
Dmitrij, bensì Dimitrij, ma nelprofondo dell’animo lui laconsiderava limitata, gretta,inelegante, la temeva e non stavavolentieri in casa. Avevacominciato ormai da tempo atradirla, e lo faceva spesso; perquesto probabilmente diceva quasisempre male delle donne, e quandoin sua presenza si parlava di loro ledefiniva così:
– Razza inferiore!Gli sembrava che le amare
esperienze vissute lo avessero resoabbastanza esperto da farglielechiamare come più gli piaceva, etuttavia senza la «razza inferiore»
non avrebbe potuto vivereneanche due giorni. In compagniadegli uomini si annoiava, era adisagio, taciturno e freddo, mentrequando si trovava in mezzo alledonne si sentiva libero, sapeva dicosa parlare e come comportarsi; eperfino tacere gli riusciva facilecon loro. Nel suo aspetto, nelcarattere, in tutta la sua naturac’era un che di seducente, diinafferrabile che rendeva le donneben disposte nei suoi confronti e leattraeva; egli ne era consapevole,ed era a sua volta sospinto da nonso quale forza verso di loro.
Una reiterata esperienza, in
verità un’amara esperienza, gliaveva insegnato da tempo che ognirelazione, che sulle prime rendecosì gradevolmente varia la vita esi presenta come un’avventurafacile e piacevole, per le personeammodo – soprattutto i moscoviti,difficili all’entusiasmo, indecisi, – sitrasforma inevitabilmente in unvero e proprio problema assaicomplesso e tale da rendere indefinitiva penosa la situazione. Maad ogni nuovo incontro con unadonna interessante questaesperienza si dileguava chissàcome dalla memoria, si avevavoglia di vivere e tutto sembrava
semplice e divertente.Ed ecco che una volta, verso
sera, mentre stava pranzando nelparco, la signora col cappellino siavvicinò lentamente andando aoccupare il tavolo accanto al suo.La sua espressione, il portamento,l’abito, la pettinatura, tutto glidiceva che apparteneva alla buonasocietà, era sposata, si trovava aJalta per la prima volta, sola, e chevi si annoiava… Nei raccontisull’immoralità dei costumi localic’era molto di falso, egli lidisprezzava e sapeva che eranoper lo più inventati da persone cheavrebbero peccato anch’esse
volentieri, se solo ne fossero statecapaci; ma quando la signora sisedette al tavolo accanto, a trepassi da lui, quei racconti di faciliconquiste, di gite sui monti, glitornarono alla mente, e d’un trattoil pensiero allettante di unarelazione rapida e fugace, diun’avventura con una donnasconosciuta di cui si ignora perfinoil nome e il cognome, si impadronìdi lui.
Con un gesto affettuoso chiamòa sé il volpino e quando gli si fuavvicinato lo minacciò col dito. Ilvolpino cominciò a ringhiare.Gurov lo minacciò di nuovo.
La signora si volse a guardarlo esubito abbassò gli occhi.
– Non morde, – disse, e arrossì.– Gli si può dare un osso? – E al
cenno affermativo di lei, le chieseaffabilmente: – Siete arrivata aJalta da molto?
– All’incirca da cinque giorni.– Io invece sono qui ormai da
due settimane.Rimasero un po’ in silenzio.– Il tempo passa in fretta, ma
intanto qui è una tale noia! – disselei senza guardarlo.
– È soltanto un’abitudine direche qui ci si annoia. Ilborghesuccio che vive chissà dove,
a Belevo o a Žizdra, quando è a casasua non si annoia, ma appenaarriva qui: «Ah, che noia! Ah,questa polvere!». Lo si crederebbegiunto da Granada.
Lei si mise a ridere. Quindicontinuarono entrambi a mangiarein silenzio, come sconosciuti; dopopranzo, però, si avviarono unoaccanto all’altra ed ebbe inizio unaconversazione scherzosa, leggera,come suole avvenire tra personelibere, soddisfatte, alle quali èassolutamente indifferente doveandare o di che parlare.Passeggiavano e parlavano dellastrana luce del mare; l’acqua era di
un colore lilla così tenue e caldo,percorsa da una striscia doratagettata dalla luna. Parlavanodell’afa lasciata dalla giornatacalda. Gurov raccontò che era diMosca, che aveva studiato filologiama lavorava in banca; che untempo si era preparato per cantarein un teatro d’opera privato, maaveva abbandonato, che a Moscaaveva due case… E da lei venne asapere che era cresciuta aPietroburgo ma si era sposata a S.,dove viveva ormai da due anni, cheavrebbe soggiornato a Jalta ancoraun mese circa, e forse sarebbestata raggiunta dal marito, che
voleva anch’egli riposare un po’.Non seppe spiegargli in alcunmodo dove lavorasse il marito, sealla direzione provinciale o allagiunta provinciale dello zemstvo2,cosa che parve ridicola anche a lei.Gurov venne inoltre a sapere che sichiamava Anna Sergeevna.
Poi, una volta nella sua stanza,egli pensò a lei e a come il giornoseguente l’avrebbe probabilmenteincontrata. Doveva essere così.Mentre si coricava ricordò che solopoco tempo prima ella era unacollegiale e studiava, esattamentecome sua figlia adesso, ricordòquanta timidezza e quanto
imbarazzo vi fosse ancora nel suoriso, nel suo modo di conversarecon uno sconosciuto; dovevaessere la prima volta in vita suache si trovava sola in un similefrangente, con qualcuno che lacorteggiava, la guardava, leparlava con un unico fine segretoche lei non poteva non indovinare.Ricordò il suo collo sottile, fragile,gli occhi belli, grigi.
«Tuttavia c’è in lei qualcosa chesuscita compassione» pensò, ecominciò a prender sonno.
II
Dal loro primo incontro eraormai trascorsa una settimana. Eraun giorno di festa. Nelle stanze sisoffocava e nelle strade, spazzateda turbini di polvere, il ventofaceva volare via i cappelli. La seteli aveva assillati per tutta lagiornata, e Gurov si era recatospesso sulla terrazza del caffè peroffrire ad Anna Sergeevna oraacqua e sciroppo, ora un gelato.Non si sapeva dove trovare rifugio.
La sera, quando il vento si fu unpo’ placato, andarono al molo perassistere all’arrivo del piroscafo.Sulla banchina passeggiava moltagente che vi si era riversata, con in
mano mazzi di fiori, per riceverequalcuno. Qui saltavanochiaramente agli occhi dueparticolarità dell’elegante folla diJalta: le signore anziane eranovestite come le giovani, e c’era unagran quantità di generali.
A causa del mare agitato ilpiroscafo arrivò tardi, quando ilsole era già tramontato, e dovettefare a lungo manovra prima diattraccare al molo. AnnaSergeevna osservava il piroscafo ei passeggeri attraversol’occhialino, quasi alla ricerca diqualche conoscente, e quando sivolgeva verso Gurov le brillavano
gli occhi. Parlava molto, facendodomande frammentarie di cuisubito si dimenticava; poi nellacalca perse l’occhialino.
La folla elegante si andavadisperdendo, ormai non si vedevapiù nessuno, il vento si eracompletamente calmato, maGurov e Anna Sergeevnarimanevano, come in attesa che dalpiroscafo scendesse ancoraqualcuno. Anna Sergeevna ormaitaceva e odorava i suoi fiori, senzaguardare Gurov.
– Verso sera il tempo è un po’migliorato, – disse lui. – E adesso,dove andiamo? Vogliamo fare un
giro in carrozza?Lei non rispose.Allora egli la guardò fisso e
d’improvviso l’abbracciò e la baciòsulle labbra, fu investito dall’aromae dall’umidità dei fiori, e subito siguardò attorno, temendo chequalcuno li avesse visti.
– Andiamo da voi… – disse piano.E si avviarono svelti insieme.Nella stanza di lei si soffocava,
l’aria era impregnata dal profumoche ella aveva comperato nelnegozio giapponese. Gurov, nelguardarla ora, pensava: «Cheincontri avvengono nella vita!».Del passato gli era rimasto
impresso il ricordo di donnespensierate, benevole, rese allegredall’amore, che gli erano grate perquella sia pur brevissima felicità; dialtre – come ad esempio sua moglie– che amavano senza sincerità, condiscorsi superflui, in modoaffettato, isterico, dando a vedereche non si trattasse di amore, dipassione, ma di qualcosa di piùimportante; e di altre ancora, due otre, molto belle, fredde, sul cuivolto balenava d’un trattoun’espressione rapace, il desideriocaparbio di prendere, di strapparealla vita più di quanto potesseconcedere, e queste erano donne
non più giovanissime, capricciose,irragionevoli, autoritarie, pocointelligenti, e la cui bellezza,quando Gurov perdeva interessenei loro confronti, suscitava in luiodio, facendogli apparire comesquame i merletti della lorobiancheria.
Qui, invece, sempre quellatimidezza, la goffaggine dellagioventù inesperta, un sensod’imbarazzo; e un’impressione dismarrimento, come seall’improvviso qualcuno avessebussato alla porta. AnnaSergeevna, la «signora colcagnolino», aveva assunto un
atteggiamento particolare, assaiserio, verso quanto era successo,quasi si trattasse della sua caduta,così almeno sembrava, e ciò erastrano e fuori luogo. I suoilineamenti si erano sciupati,avvizziti, e ai lati del viso i lunghicapelli pendevano tristemente; erarimasta assorta in una posamalinconica, come la peccatrice diun vecchio quadro.
– Non sta bene, – disse. – Voi perprimo adesso non mi stimeretepiù.
Sul tavolo della stanza c’eraun’anguria. Gurev se ne tagliò unafetta e si mise a mangiarla
lentamente. Trascorsero insilenzio almeno mezz’ora.
Anna Sergeevna eracommovente, da lei spirava lapurezza della donna onesta,ingenua, inesperta; il suo volto eraappena illuminato da una candelache ardeva solitaria sul tavolo, mane appariva evidente la sofferenzainteriore.
– Perché dovrei smettere distimarti? – chiese Gurov. Non saineanche tu quello che dici.
– Che Dio mi perdoni! – disse lei,e gli occhi le si riempirono dilacrime. – È terribile.
– Sembra che tu voglia
giustificarti.– E come potrei giustificarmi?
Sono una donna cattiva, vile, io midisprezzo e non penso agiustificazioni. Non ho ingannatomio marito, ma me stessa. E nonsolo adesso, è già molto tempo chemi vado ingannando. Mio marito èforse un uomo onesto, buono, ma èpur sempre un lacchè! Non so cosafaccia là, in cosa consista il suolavoro, so soltanto che è un lacchè.Quando l’ho sposato avevovent’anni, ero tormentata dallacuriosità, avevo voglia di qualcosadi meglio; deve pur esserci, midicevo, un’altra vita. Volevo
vivere! Vivere e ancora vivere… Lacuriosità mi bruciava… voi non locapite, ma io, lo giuro davanti aDio, non riuscivo più a dominarmi,mi stava accadendo qualcosa, nonera possibile trattenermi, ho dettoa mio marito che ero malata e sonovenuta qui… E una volta qui non hofatto altro che camminare, come inpreda al delirio, come folle… edecco, sono diventata una donnavolgare, meschina, degna deldisprezzo di ognuno.
Gurov si era ormai annoiato adascoltare, lo irritava il tonoingenuo, quella confessione tantoinaspettata e inopportuna; se lei
non avesse avuto gli occhi colmi dilacrime, si sarebbe potuto pensareche scherzasse o recitasse unaparte.
– Non capisco, – disse a bassavoce, – cosa vuoi?
Ella nascose il viso sul suo pettoe gli si strinse contro.
– Credete, credetemi, viscongiuro… – diceva. – Io amo lavita onesta, pura, e il peccato miripugna, non so neanch’io cosa stiafacendo. Le persone semplicidicono: è stato il maligno atentarmi. E ora anch’io posso diredi essere stata tentata dal maligno.
– Basta, basta, – borbottava lui.
La guardava negli occhiimmobili, impauriti, la baciava, leparlava con voce sommessa eaffettuosa, e lei si calmò un po’ etornò a essere allegra; entrambi simisero a ridere.
Poi, quando uscirono, sullungomare non c’era anima viva, lacittà con i suoi cipressi avevaun’aria completamente inanimata,ma il mare continuava arumoreggiare e a infrangersi sullariva; una barca si dondolava sulleonde, e sopra vi baluginavasonnolenta una piccola lanterna.
Trovarono una vettura eandarono a Oreanda.
– Poco fa, giù nell’atrio, hosaputo il tuo cognome: sullatabella c’è scritto von Dideritz, –disse Gurov. – Tuo marito ètedesco?
– No, suo nonno, forse, eratedesco, ma lui è ortodosso.
A Oreanda si sedettero su unapanchina, non lontano dallachiesa, guardando in silenzio ilmare sotto di loro. Jalta era appenavisibile attraverso la nebbia delmattino, sulle cime dei montistavano immobili bianche nubi. Lefoglie degli alberi erano immote, lecicale frinivano e il monotono,sordo rombo del mare che
giungeva di laggiù parlava dellapace, del sonno eterno che ciattende. Così rumoreggiava, giù inbasso, quando là non c’eranoancora né Jalta, né Oreanda, cosìrumoreggia ora e rumoreggerà inmaniera altrettanto sorda eindifferente quando non ci saremopiù. E in questa costanza,nell’assoluta indifferenza verso lavita e la morte di ognuno di noi, sicela forse il pegno della nostrasalvezza eterna, dell’incessantemoto della vita sulla terra,dell’ininterrotta perfezione.Sedendo accanto alla giovanedonna, che all’alba appariva così
bella, Gurov, tranquillo e incantatoalla vista di quel paesaggio di fiaba– il mare, i monti, le nuvole, ilvasto cielo, pensava a come, insostanza, a ben vedere tutto èstupendo a questo mondo, tuttotranne ciò che noi stessi pensiamoe facciamo allorché dimentichiamoi fini supremi dell’esistenza e lanostra dignità umana.
Si avvicinò un uomo,probabilmente un guardiano, gettòloro un’occhiata e si allontanò.Anche questo dettaglio sembròtanto misterioso e bello al tempostesso. Videro arrivare il piroscafoda Feodosija, illuminato
dall’aurora, le luci ormai spente.– L’erba è coperta di rugiada, –
disse Anna Sergeevna rompendo ilsilenzio.
– Sì. È tempo di rientrare.Tornarono in città.In seguito presero l’abitudine di
incontrarsi a mezzodì sullungomare, facevano colazioneassieme, pranzavano,passeggiavano, contemplavano ilmare estasiati. Lei si lamentava didormire male e di avere lepalpitazioni, faceva sempre lestesse domande, agitata ora dallagelosia, ora dal timore che egli nonla stimasse abbastanza. E spesso,
nel giardino pubblico o nel parco,quando non c’era nessuno nellevicinanze, egli all’improvvisol’attirava a sé e la baciava conpassione. L’ozio assoluto, quei baciin pieno giorno, circospetti, con lapaura che qualcuno li vedesse, ilcaldo, il profumo del mare e ilcontinuo balenare davanti agliocchi di persone oziose, eleganti,sazie, lo avevano come rigenerato;diceva ad Anna Sergeevna quantofosse bella e seducente, era inpreda a una passione impaziente,non si allontanava neanche di unpasso da lei, mentre ella rimanevaspesso pensierosa e continuava a
chiedergli di confessare che non lastimava, non l’amava affatto, mavedeva in lei solo una donnavolgare. Quasi ogni sera sul tardiandavano fuori città, a Oreanda oalla cascata; e la passeggiata erapiacevole, e ogni volta le loroimpressioni eranoimmancabilmente bellissime emaestose.
Aspettavano l’arrivo del marito.Ma giunse una sua lettera in cuiannunciava di essersi ammalatoagli occhi, e supplicava la moglie ditornare a casa al più presto. AnnaSergeevna affrettò i preparativi.
– È un bene che io parta, –
diceva a Gurov. – È il destino che lovuole.
Partì in carrozza, e luil’accompagnò. Viaggiarono tutto ilgiorno. Mentre saliva sul vagonedel treno rapido e si sentivasuonare il secondo campanello,ella disse:
– Permettetemi di guardarviancora una volta… Ancora unavolta. Ecco, così.
Non piangeva, ma era triste,quasi fosse malata, col visopercorso da un tremito.
– Vi penserò… ricorderò, –diceva. – Il Signore sia con voi,rimanete. Non serbatemi rancore.
Noi ci diciamo addio per sempre, ènecessario che sia così, perché nonsarebbe assolutamenteconveniente incontrarci ancora.Beh, il Signore sia con voi.
Il treno si allontanò veloce, lesue luci ben presto scomparvero, eun minuto dopo non se ne sentivagià più il rumore, quasi che ognicosa si fosse accordata a bellaposta per interrompere quantoprima quel dolce deliquio, quellafollia. Rimasto solo sullapiattaforma con lo sguardo fissonella scura lontananza, Gurovascoltava lo stridere dei grilli e ilronzio dei cavi del telegrafo con la
sensazione di essersi appenadestato. E pensava che ecco, nellasua vita c’era stata un’altraavventura, un’altra storia, che siera anch’essa conclusa e di cui oranon rimaneva che il ricordo… Eraturbato, triste, e provava unleggero rimorso; perché quellagiovane donna che non avrebbemai più rivisto non era stata felicecon lui; egli era stato con lei gentilee affettuoso, ma nel suo modo ditrattarla, nel suo tono e nelle suecarezze trapelava pur sempreun’ombra di lieve scherno, la rozzapresunzione dell’uomo felice, perdi più con quasi il doppio dei suoi
anni. Lo aveva sempre definitobuono, straordinario, nobile;evidentemente le era apparsodiverso da com’era in realtà, edunque l’aveva involontariamenteingannata…
Lì alla stazione si sentiva giàl’odore dell’autunno, la sera erafresca.
«È tempo che anch’io torni alnord» pensava Gurov,allontanandosi dalla banchina. «Ètempo!».
III
A casa, a Mosca, tutto procedeva
ormai come in inverno, siaccendevano le stufe e la mattina,quando i figli si preparavano adandare al ginnasio e bevevano il tè,era buio e la governante accendevaun poco il lume. Erano giàcominciati i primi geli. Quandocomincia a cadere la neve, il primogiorno in cui si esce in slitta, fapiacere vedere la terra bianca, itetti candidi, si respira facilmente,a pieni polmoni, ed è allora chetornano alla mente gli anni dellagiovinezza. I vecchi tigli e lebetulle, bianchi di brina, hanno unaspetto benevolo, sono più vicini alcuore che non i cipressi e le palme,
e accanto a essi non si ha più vogliadi pensare ai monti e al mare.
Gurov era di Mosca, tornò nellasua città in una bella giornata digelo, e quando indossò la pelliccia ei guanti caldi, e andò a passeggiaresulla Petrovka, quando il sabatosera sentì il suono delle campane, ilrecente viaggio e i luoghi cheaveva visitato persero per lui ogniincanto. A poco a poco si rituffònella vita moscovita, e già divoravaavidamente da cima a fondo tregiornali al giorno, sostenendo dinon leggere per principio quelli diMosca. Era di nuovo attratto dairistoranti, dai circoli, dai pranzi di
gala, dalle ricorrenze, e si sentivanuovamente lusingato diaccogliere in casa sua noti avvocatie artisti, e di poter giocare a carteal circolo dei medici con unprofessore. Poteva ormaimangiarsi uIl’intera porzione disoljanka3 al tegame…
Ancora un mese, forse, e AnnaSergeevna, così gli sembrava, nellasua memoria sarebbe stata avvoltadalla nebbia e soltanto raramentegli sarebbe apparsa in sogno colsuo sorriso commovente, come gliaccadeva con le altre. Ma passò piùdi un mese, era ormai invernoinoltrato, e nella sua memoria
tutto era chiaro, come se si fosseseparato da Anna Sergeevnaappena il giorno prima. E i ricordiardevano con intensità semprecrescente. Sia che nel silenzio dellasera giungessero nel suo studio levoci dei figli che preparavano lelezioni, sia che sentisse unaromanza o il suono di un organettoal ristorante, o la tempestaululasse nel camino, all’improvvisoogni cosa gli riviveva nellamemoria: e quanto era successosul molo, e la mattina presto con lanebbia sui monti, e il piroscafo daFeodosija, e i baci. Camminava alungo per la stanza in preda ai
ricordi, sorridendo, poi i ricordi sitrasformavano in sogni enell’immaginazione il passato simescolava al futuro. AnnaSergeevna non gli appariva insogno, ma lo accompagnavaovunque come un’ombravegliando su di lui. Se chiudeva gliocchi, la vedeva quasi fosse viva egli sembrava più bella, più giovanee più tenera che nella realtà; e luistesso appariva migliore di quantonon fosse allora a Jalta. La sera leilo guardava dalla libreria, dalcamino, da un angolo, egli nesentiva il respiro, il dolce frusciodell’abito. Per strada
accompagnava con lo sguardo ledonne, cercandone qualcuna che lesomigliasse…
Già lo tormentava un intensodesiderio di dividere con qualcunoi propri ricordi. Ma in casa nonpoteva parlare del suo amore, efuori casa non c’era nessuno concui farlo. Non certo con gliinquilini, né in banca. E di cheparlare, poi? Era stato forse amore,quello? C’era forse stato qualcosadi bello, di poetico o di edificante, osemplicemente di interessante neisuoi rapporti con AnnaSergeevna? Era costretto a parlarevagamente dell’amore, delle
donne, e nessuno indovinava dicosa si trattasse, e soltanto lamoglie sollevava le scuresopracciglia e diceva:
– A te, Dimitrij, non si addicedavvero il ruolo del damerino.
Una notte, uscendo dal circolodei medici con il suo compagno digioco, un funzionario, non sitrattenne e disse:
– Se voi sapeste che donnaincantevole ho conosciuto a Jalta!
Il funzionario salì in slitta epartì, ma all’improvviso si voltò echiamò:
– Dmitrij Dmitrič!– Sì?
– Poco fa avevate ragione: lostorione aveva un cattivo odore!
Queste parole, così comuni,chissà perché d’un trattoindignarono Gurov, glisembrarono umilianti, sudicie. Checostumi rozzi, che gente! Che nottibalorde, che giorni insulsi,insignificanti! Giocarefreneticamente a carte, ingozzarsi,ubriacarsi, discorrerecontinuamente sempre delle stessecose. Occupazioni inutili econversazioni sempre uguali siportano via la parte migliore deltempo, le forze migliori, e alla finerimane una vita mutila, senz’ali,
una nullità dalla quale non si puòfuggire, evadere, come se si fossein un manicomio o in una squadradi condannati ai lavori forzati!
In preda allo sdegno, Gurov nonchiuse occhio per tutta la notte, epassò tutto il giorno seguente conil mal di testa. Anche le nottisuccessive dormì male, sedutotutto il tempo sul letto a pensare,oppure camminando da un angoloall’altro della stanza. Gli eranovenuti a noia i figli, la banca, nonaveva voglia di andare da nessunaparte, né di parlare di alcunché.
In dicembre, in occasione dellefeste, si preparò a partire, disse
alla moglie che andava aPietroburgo a brigare per un certogiovanotto, e partì per S. Perché?Non lo sapeva bene neanche lui.Aveva voglia di vedere AnnaSergeevna, di parlare con lei e, sepossibile, organizzare unconvegno.
Arrivò a S. di mattina eall’albergo occupò la stanzamigliore, dove tutto il pavimentoera rivestito di panno militaregrigio e sul tavolo c’era uncalamaio, grigio di polvere, con unuomo a cavallo che teneva uncappello nella mano sollevata, maaveva la testa staccata. Il portiere
gli diede le informazioninecessarie: von Dideritz viveva invia Staro-Gončarnaja, in una casadi proprietà non lontanodall’albergo, viveva bene,agiatamente, possedeva cavallipropri ed era conosciuto da tutti incittà. Il portiere pronunciava il suonome così: Drydyritz.
Gurov si diresse senza fretta invia Staro-Gončarnaja e si mise allaricerca della casa. Proprio davantia essa si stendeva una lungapalizzata grigia, irta di chiodi.
«Da una simile palizzata non sipuò che scappare» pensò Gurov,spostando lo sguardo da questa
alle finestre.Rifletteva: quello era un giorno
di festa, e probabilmente il maritoera in casa. Comunque, sarebbestato sconveniente farsi ricevere ecreare imbarazzo. Se avessemandato un biglietto, sarebbemagari capitato nelle mani delmarito e allora avrebbe rischiato dirovinare tutto. La cosa miglioreera affidarsi al caso. Continuòdunque a camminare su e giù perla strada e lungo la palizzata, inattesa che quel caso si presentasse.Vide entrare dal cancello unmendicante che fu assalito daicani, poi, un’ora dopo, gli
giunsero, deboli e vaghe, le note diun pianoforte. A suonare dovevaessere Anna Sergeevna. A untratto la porta principale si aprì ene uscì una vecchietta, dietro laquale trotterellava il volpinobianco a lui ben noto. Gurovavrebbe voluto chiamare il cane,ma all’improvviso cominciò abattergli il cuore e per l’emozionenon riuscì a ricordarne il nome.
Continuava ad andare su e giù,con un odio sempre crescenteverso la palizzata grigia, pensandogià con stizza che Anna Sergeevnasi era dimenticata di lui e forse sistava già divertendo con un altro,
cosa del tutto naturale per unagiovane donna costretta a vederedalla mattina alla sera quellamaledetta palizzata. Tornò nellasua stanza e sedette a lungo suldivano senza sapere che fare,quindi, dopo aver pranzato, dormìa lungo.
«Com’è sciocco e fastidiosotutto ciò» pensò al suo risveglio,guardando le finestre buie; era giàsera. «Chissà perché ho fattoquesta gran dormita. E stanottecosa farò?»
Sedeva sul letto, sul quale erastesa una coperta grigia dozzinale,come quelle degli ospedali, e si
scherniva con stizza: «Eccoti dunque la signora col
cagnolino… Eccoti l’avventura… Eadesso stattene seduto qui».
Già la mattina, alla stazione, gliera saltato agli occhi un cartellonescritto a lettere cubitali: si davaper la prima volta la Geisha4. Se nericordò e andò a teatro.
«È molto probabile che vada alleprime» pensava.
Il teatro era pieno. Anche qui,come in genere in tutti i teatri diprovincia, al di sopra dellampadario aleggiava unanebbiolina e il loggione si agitava
rumorosamente; in prima fila, inattesa dell’inizio dellarappresentazione, stavano in piedii bellimbusti locali, con le manidietro la schiena; anche qui, nelpalco del governatore, al primoposto sedeva la figlia delgovernatore avvolta in un boa,mentre il governatore stesso sinascondeva discretamente dietrola tenda, e se ne scorgevanosoltanto le mani; il siparioondeggiava, l’orchestra accordavaormai da tempo gli strumenti.Finché il pubblico continuò aentrare e a prendere posto, Gurovnon cessò di cercare avidamente
con gli occhi.Entrò anche Anna Sergeevna. Si
sedette in terza fila, e quando lascorse Gurov ebbe una stretta alcuore e comprese chiaramente cheora in tutto il mondo non c’era perlui persona più vicina, più cara epiù importante; lei, persa traquella folla di borghesucci, quellapiccola donna che non aveva nulladi speciale, con un volgareocchialino tra le mani, riempivaora tutta la sua vita, era la suapena e la sua gioia, l’unica felicitàche ora egli desiderasse per sé; e alsuono di quell’orchestra scadente,di quei miserabili violini di
provincia, egli pensava a quantofosse bella. Pensava e sognava.
Assieme ad Anna Sergeevna eraentrato e aveva preso postoaccanto a lei un giovanotto dallebasette corte, molto alto, un po’curvo; a ogni passo facevadondolare la testa, dandol’impressione di salutarecontinuamente qualcuno.Probabilmente era il marito, cheallora a Jalta, in un accesso diamarezza, lei aveva definito lacchè.In effetti nell’alta figura, nellebasette, nella leggera calvizie c’eraun che di modesto proprio dellacchè; aveva un sorriso melenso e
all’occhiello gli luccicava non soquale distintivo accademico, chericordava il numero sulle giacchedei camerieri.
Durante il primo intervallo il
marito uscì a fumare e lei rimase inpoltrona. Gurov, che aveva presoposto anch’egli in platea, le siavvicinò e con voce tremante,sforzandosi di sorridere, disse:
– Buona sera.Ella lo guardò e impallidì, quindi
lo guardò di nuovo con terrore,non credendo ai propri occhi, estrinse forte tra le mani il ventaglioe l’occhialino insieme, lottando
evidentemente con se stessa pernon svenire. Tacevano entrambi.Lei sedeva, lui stava in piedi,spaventato dal suo turbamento,senza decidersi a prendere posto alsuo fianco. Fu la volta dei violini edel flauto di essere accordati, ed’un tratto li invase la paura, comese da tutti i palchi li stesseroosservando. Ma ecco, ella si alzò esi avviò rapida verso l’uscita; lui laseguì, ed entrambi si aggiraronosenza meta per scale e corridoi, orasalendo, ora scendendo, mentredavanti ai loro occhi balenavanouomini in uniformi da giudice, dainsegnante e da nobile, e tutti con
distintivi; balenavano dame,pellicce sugli attaccapanni, eintanto la corrente d’ariadiffondeva l’odore dei mozziconidelle sigarette. E Gurov, al qualebatteva ancora forte il cuore,pensava:
«Oh Signore! Che senso ha tuttaquesta gente, questa orchestra…».
In quell’istante gli tornò ad untratto alla mente come, la sera cheaveva accompagnato AnnaSergeevna alla stazione, si fossedetto che era tutto finito e che nonsi sarebbero mai più rivisti. Invece,quanto era ancora lontana la fine!
Su una scala stretta e buia, con
la scritta «Ingresso all’anfiteatro»,ella si fermò.
– Come mi avete spaventata! –disse respirando affannosamente,tuttora pallida, stordita. – Ah,come mi avete spaventata! Sonoviva per miracolo! Perché sietevenuto? Perché?
– Ma cercate di capire, Anna,cercate di capire… – disse luisottovoce, concitato. – Vi supplico,cercate di capire…
Lei lo guardava con un’ariaimpaurita, implorante einnamorata, lo guardava fisso, pertrattenerne più saldamente ilineamenti nella memoria.
– Soffro tanto! – continuò lei,senza ascoltarlo. – In tutto questotempo non ho fatto che pensare avoi, sono vissuta del vostroricordo. E vorrei dimenticare,dimenticare, ma perché, perchésiete venuto?
Più in alto, sul pianerottolo, dueginnasiali fumavano e guardavanoin basso, ma a Gurov eraindifferente, attirò a sé AnnaSergeevna e cominciò a baciarle ilviso, le guance, le mani.
– Che fate, che fate! – diceva leiterrorizzata, cercando diallontanarlo da sé. – Abbiamoperso la testa. Partite oggi stesso,
partite subito… Vi scongiuro suquanto avete di più sacro, visupplico… Viene gente!
Qualcuno stava salendo su per lascala.
– Dovete partire… – continuavaAnna Sergeevna in un sussurro. –Mi sentite, Dmitrij Dmitrič? Verròio da voi a Mosca. Non sono maistata felice, mai! Noncostringetemi a soffrire ancora dipiù! Ve lo giuro, verrò a Mosca. Maora separiamoci! Mio amato,buono, mio caro, separiamoci!
Gli strinse la mano e cominciò ascendere in fretta, senza smetteredi guardarlo, e dai suoi occhi si
capiva che davvero non era felice.Gurov rimase un po’ lì in ascolto,quindi, quando tutto si fu chetato,cercò il suo attaccapanni e uscì dalteatro.
IV
E Anna Sergeevna cominciò ad
andare da lui a Mosca. Due o trevolte al mese lasciava S., dicendo almarito che si recava a consultareun professore riguardo a una suamalattia femminile, e il marito lecredeva e non le credeva. Arrivataa Mosca, prendeva alloggio allo«Slavjanskij bazar» e mandava
subito da Gurov un fattorino conun berretto rosso. Gurov andavada lei, senza che nessuno a Moscane sapesse nulla.
Una volta egli si stava dunquerecando da lei in una mattinad’inverno (il fattorino era stato dalui la sera prima ma non l’avevatrovato). Era in compagnia dellafiglia perché volevaaccompagnarla al ginnasio, che eradi strada. Cadeva una nevepesante, bagnata.
– Ora ci sono tre gradi soprazero, eppure nevica, – dicevaGurov alla figlia. – È perchésoltanto alla superficie della terra
la temperatura è così mite, neglistrati superiori dell’atmosfera essaè completamente diversa.
– Papà, e perché d’inverno nonci sono tuoni?
Lui le spiegò anche questo.Parlava, e intanto pensava che sistava recando a un appuntamento,e che non c’era, e probabilmentenon ci sarebbe mai stato, nessunoche ne sapesse qualcosa. Avevadue vite: una chiara, manifesta enota a tutti coloro che avevanobisogno che così fosse, piena diverità convenzionale e di ingannoaltrettanto convenzionale, in tuttosimile a quella dei suoi conoscenti
e amici, e un’altra che scorrevasegretamente. E per un singolareconcorso di circostanze, forsecasuale, tutto ciò che per lui eraimportante, interessante,necessario, in cui era sincero e noningannava se stesso, cherappresentava il nucleo della suavita, avveniva all’insaputa deglialtri, mentre tutto ciò che in luic’era di falso, l’involucro nel qualesi avvolgeva per nascondere laverità, come ad esempio il suolavoro in banca, le discussioni alcircolo, la sua «razza inferiore», lasua partecipazione ai ricevimentiin compagnia della moglie, tutto
ciò avveniva alla luce del sole. E sulproprio esempio egli giudicava glialtri, non credeva a quanto vedevae supponeva sempre che ogniuomo vivesse la sua vera vita, lapiù interessante, sotto il velo dellasegretezza, come sotto un velo ditenebre. L’esistenza di ognuno siregge sul mistero, e forse è in parteper questo che l’uomo civile siadopera tanto convulsamenteperché venga rispettato il segretoindividuale.
Accompagnata la figlia alginnasio, Gurov si recò allo«Slavjanskij bazar». Si tolse lapelliccia da basso, poi salì di sopra
e bussò piano alla porta. AnnaSergeevna, nell’abito grigio che luipreferiva, esausta per il viaggio el’attesa, lo aspettava dalla seraprima; era pallida, lo guardavasenza sorridere e appena entratogli si strinse al petto. Quasi non sifossero visti da un paio d’anni, illoro bacio fu intenso, prolungato.
– Beh, come vanno le coselaggiù? – egli chiese. – Che c’è dinuovo?
– Aspetta, ora ti dico… Nonposso.
Non riusciva a parlare, in predaalle lacrime. Gli voltò le spalle e sipremette il fazzoletto sugli occhi.
«Ebbene, che pianga un po’, iointanto mi siedo» pensò lui, e siaccomodò in poltrona.
Quindi suonò e ordinò che gliportassero il tè; mentre lo beveva,poi, lei continuava a starsene inpiedi, rivolta verso la finestra…Piangeva per l’agitazione, per ladolorosa consapevolezza del tristeandamento assunto dalla loro vita;si vedevano solo segretamente, sinascondevano alla gente, comeladri! Non era forse distrutta laloro esistenza?
– Su, smettila! – egli disse.Per lui era evidente che quel loro
amore non sarebbe finito tanto
presto, ma chissà quando. AnnaSergeevna si stava attaccando a luisempre di più, lo adorava, esarebbe stato impensabile dirle cheun giorno tutto ciò sarebbe dovutofinire; non vi avrebbe certocreduto.
Le si avvicinò e la prese per lespalle, per accarezzarla, scherzareun po’, e in quell’istante vide lapropria immagine allo specchio.
I suoi capelli cominciavano già aincanutirsi. E gli sembrò strano diessere tanto invecchiato negliultimi anni, tanto imbruttito. Lespalle su cui poggiavano le suemani erano calde e sussultavano.
Egli provò compassione per quellavita ancora così ardente e bella, maprobabilmente già vicina almomento in cui avrebbe iniziato adappassire e avvizzire, come lapropria. Perché lo amava tanto?Alle donne egli appariva semprediverso da quello che era, ed esseamavano in lui non l’uomo reale,bensì quello creato dalla loroimmaginazione e di cui andavanoavidamente alla ricerca nella lorovita; poi, quando si accorgevanodello sbaglio, continuavanocomunque ad amarlo. E neancheuna era stata felice con lui. Iltempo passava, egli conosceva
nuove donne, intesseva con lororelazioni e se ne separava, ma nonaveva amato neppure una volta; ditutto si era trattato, fuorchéd’amore.
E solo adesso, che aveva ormai icapelli grigi, si era innamoratocome si deve, veramente, per laprima volta in vita sua.
Lui e Anna Sergeevna siamavano come persone moltointime, vicine, come marito emoglie, come teneri amici;sembrava loro che il destino stessoli avesse predestinati l’unoall’altra, e riusciva incomprensibileperché lui fosse ammogliato e lei
maritata; erano come due uccelli dipasso, maschio e femmina, chefossero stati catturati e costretti avivere in gabbie separate. Si eranoperdonati a vicenda ciò di cui sivergognavano nel loro passato, siperdonavano tutto nel presente esi sentivano entrambi cambiati daquesto loro amore.
Prima, nei momenti tristi, egli sicalmava con ogni sorta diragionamenti che gli venissero inmente, ora invece era poco inclineai ragionamenti, provava unaprofonda compassione, volevaessere sincero, tenero…
– Smettila, mia cara, – diceva. –
Basta piangere… Adesso parliamoun po’, qualcosa troveremo.
Quindi si consultavano a lungo,parlavano di come liberarsi dellanecessità di nascondersi, diingannare, di vivere in cittàdiverse, di non vedersi per lunghiperiodi. Come liberarsi di questeinsopportabili pastoie?
– Come? Come? – chiedeva lui,prendendosi la testa tra le mani. –Come?
E sembrava che sarebbe bastatoancora poco e la soluzione sisarebbe trovata, e avrebbe avutoallora inizio una vita nuova emeravigliosa; e ad entrambi era
chiaro che la fine era ancora molto,molto lontana, e che la parte piùcomplicata e difficile era appenainiziata.
1 Lettera dell’alfabeto russopriva di un suono proprio, abolitacon la riforma ortografica del 1917,ma già in precedenza consideratainutile e non usata dagliintellettuali; delle tendenzeintellettualistiche della moglie diGurov testimonia anche l’uso dellaforma arcaica «Dimitrij» rispetto aquella più comune «Dmitrij»
[Tutte le note sono a cura dellatraduttrice].
2 Organo elettivo diautogoverno locale nella Russiazarista.
3 Piatto a base di carne o pescecon contorno di cipolle, cavoli,cetrioli e funghetti.
4 The Geisha, operetta delcompositore inglese James SidneyJones (1861–1946), composta nel1896 e rappresentata con un certosuccesso in Russia alla fine delsecolo.
Un affare finito male(Un caso da vaudeville)
Ho una terribile voglia di
piangere! Se potessi scoppiare inlacrime, penso che starei meglio.
Era una serata incantevole.Dopo essermi agghindato,pettinato e profumato, corsi da leicon l’aria di un Don Giovanni.Viveva in una dacia a Sokol’niki5.
Era giovane e bella, con trentamilarubli di dote, piuttosto colta eamava me, l’autore di questoracconto, come una gatta.
Giunto a Sokol’niki, la trovaiseduta sulla nostra panchinapreferita, sotto gli abeti alti esnelli. Nel vedermi, subito si alzò emi venne incontro raggiante.
– Come siete crudele! – cominciòa dire. – Com’è possibile tardarecosì? Eppure sapete bene quantanostalgia abbia di voi! Ah, comesiete!
Baciai la sua graziosa manina e,trepidante, tornai insieme a lei allapanchina. Palpitavo, languivo e mi
sentivo il cuore in fiamme e inprocinto di scoppiare. Il polso eramolto accelerato.
Non poteva essere altrimenti!Ero venuto per decideredefinitivamente la mia sorte. O lava o la spacca… Tutto dipendeva daquella sera.
Il tempo era splendido, maavevo ben altro per la mente. Nonprestavo neppure orecchioall’usignolo che cantava sopra lenostre teste, sebbene in ognirendez-vous appena appena degnodi rispetto sia obbligatorioascoltare l’usignolo.
– Perché tacete? – chiese lei,
guardandomi in viso.– Così… È una serata talmente
bella… Maman sta bene?– Sì, sta bene.– Mm… Dunque… Vedete,
Varvara Petrovna, desidero parlareun po’ con voi… Solo per questosono venuto… Ho taciuto, hotaciuto, ma adesso… basta, grazie!Non ne posso più di stare zitto.
Varja chinò la testa e con ditatremanti cominciò a tormentareun fiorellino. Sapeva di cosa volevoparlare. Dopo qualche istante disilenzio, continuai:
– Perché tacere? Per quanto sipossa tacere, per quanto si sia
timidi, presto o tardi bisogna daresfogo… al sentimento e alla lingua.Voi, forse, vi offenderete… forsenon capirete, ma… che fare?
Tacqui. Bisognava preparareuna frase adatta.
«Ma parla, dunque!»protestavano i suoi occhi.«Zuccone! Perché mi torturi?».
– Voi, certo, avete intuito già daun pezzo, – continuai dopo unabreve pausa, – perché ogni giornovengo qui e vi infastidisco gli occhicon la mia presenza. Come nonintuire? Voi, probabilmente, con laperspicacia che vi è propria, aveteindovinato già da tempo in me quel
sentimento che… (Pausa) VarvaraPetrovna!
Varja chinò ancora di più latesta. Le sue dita si muovevanoinquiete.
– Varvara Petrovna!– Ebbene?– Io… Ma come dirlo?! Si capisce
anche senza parole… Vi amo, ecco tutto… Che dire di
più? (Pausa) Vi amo pazzamente!Vi amo come… in una parola,raccogliete tutti i romanzi esistential mondo, leggete tutte ledichiarazioni d’amore in essicontenute, i giuramenti, le rinunce
e… saprete quello che… c’è ora nelmio petto… Varvara Petrovna!(Pausa) Varvara Petrovna!! Perchédunque tacete?!
– Che dirvi?– Forse… un no?Varja sollevò la testa e sorrise.«Ah, diavolo!» pensai. Ella fece
un sorriso, mosse le labbra eprofferì in modo appenapercettibile: «E perché un no?».
Le afferrai disperatamente unamano, disperatamente la baciai,quindi come un pazzo le presianche l’altra… Che tesoro! Mentregiocherellavo con le sue mani, mipoggiò la testolina sul petto, e fu
allora che per la prima volta miresi conto del rigoglio dei suoimagnifici capelli.
La baciai sulla testa, e mi venneun tale calore in petto, come se ciavessero messo un samovar. Varjasollevò il volto, e non mi rimasealtro che baciarla sulle labbra.
Ed ecco, quando Varja era ormaidefinitivamente nelle mie mani,quando la decisione diconsegnarmi trentamila rubli eragià pronta per essere firmata,quando, per farla breve, mi eroquasi assicurato una mogliegraziosa, un bel gruzzolo e unacarriera brillante, il diavolo volle
sciogliermi la lingua…Mi venne voglia di farmi bello
davanti alla mia promessa sposa, difare sfoggio dei miei princìpi e divantarmi. Del resto, non soneanch’io perché mi saltò inmente… Il risultato fu davverodisastroso!
– Varvara Petrovna! – cominciaidopoil primo bacio. – Prima diaccogliere la vostra promessa didiventare mia moglie, considero ilpiù sacro dei doveri, a scanso dieventuali equivoci, dirvi alcuneparole. Sarò breve… Voi, VarvaraPetrovna, sapete chi e che cosasono io? Sì, sono onesto! Sono un
lavoratore! Sono… sono fiero! Nonsolo… Ho un futuro… Ma sonopovero… Non possiedo nulla.
– Lo so, – disse Varja. – Ma ildenaro non dà la felicità.
– Sì, è vero… Ma chi parla didenaro? Io… io sono fiero della miapovertà. I pochi soldi cheguadagno con i miei lavori letterarinon li cambierei con le migliaia dirubli che… che…
– Ho capito. Ebbene…– Sono abituato alla povertà. Per
me non ha importanza. Sonocapace di saltare il pranzo per unasettimana… Ma voi! Voi! Davverovoi, che non siete in grado di
muovere un passo senza prenderela carrozza, che indossate ognigiorno un abito nuovo, che gettatevia il denaro e non avete maiconosciuto il bisogno, voi, per laquale un colore fuori moda è giàuna grossa disgrazia, davveroaccettate di separarvi per me daibeni terreni? Mm…
– Ma io ho denaro. Ho la miadote!
– Sciocchezze! Per sperperarequalche decina di migliaia di rublibastano pochi anni… E poi?Miseria? Lacrime? Mia cara,credete alla mia esperienza! So! Soquel che dico! Per lottare contro la
miseria c’è bisogno di una volontàdi ferro, di un caratteresovrumano!
«Ma di che scempiaggini vadocianciando!» pensai, e proseguii:
– Pensateci, Varvara Petrovna!Pensate al passo a cui state perrisolvervi! Un passo irrevocabile!Se avete la forza di lottare,seguitemi, se non l’avete,respingetemi! Oh! Meglio che ioresti privo di voi, che… voi dellavostra pace! Quei cento rubli cheogni mese mi rende la letteraturanon sono niente! Non bastano!Pensateci, finché non è troppotardi!
Balzai in piedi.– Pensateci! Dove manca la forza
ci sono lacrime, rimproveri,canizie precoce… Vi metto inguardia perché sono un uomoonesto. Vi sentite davvero tantoforte da dividere con me una vitache esteriormente non ha nulla incomune con la vostra, che vi èestranea? (Pausa)
– Ma ho la mia dote!– Quanto? Venti, trentamila
rubli! Ah, ah! Un milione? E poi,oltre a ciò, pensate che mipermetterei mai di appropriarmi diciò che… No! Mai! Io sono fiero!
Andai alcune volte su e giù
accanto alla panchina.Varja era soprappensiero. Io
trionfavo. Se era rimastapensierosa, voleva dire che mirispettava.
– Dunque, vivere con me tra glistenti, o vivere senza di me nellaricchezza… Scegliete… Ne avete laforza? La mia Varja ne ha la forza?
Parlai molto a lungo su questotono. Senza accorgermene, mi erolasciato andare. Parlavo, e nellostesso tempo avvertivo in me unosdoppiamento. Una metà di me siinfervorava per quanto dicevo,mentre l’altra fantasticava:
«Aspetta e vedrai, cara mia! Con
i tuoi trentamila rubli vivremo inmodo memorabile! Basteranno perun pezzo!».
Varja ascoltava, ascoltava… Allafine si alzò e mi porse la mano.
– Vi ringrazio! – disse, e lo dissecon una tale voce da farmi trasaliree fissarla. Negli occhi e sulleguance le brillavano le lacrime.
– Vi ringrazio! Avete fatto bene aessere sincero con me… Io sonoviziata… Non posso… Non sono allavostra altezza…
E scoppiò in lacrime. L’avevofatta grossa… Mi smarrisco semprequando vedo piangere una donna,a maggior ragione in questo caso.
Mentre pensavo al da farsi, ellasoffocò i singhiozzi e si asciugò lelacrime.
– Avete ragione, – disse. – Se iovi seguissi, vi ingannerei. Nonposso essere io vostra moglie. Iosono ricca, viziata, vado incarrozza, mangio beccacce ecostosi pasticcini. A pranzo nonmangio mai né minestra né zuppadi cavoli. La mamma mirimprovera continuamente… Nonposso fare a meno di tutto ciò! Nonposso andare a piedi… Mi stanco…E poi i vestiti… Vi toccherebbepagare tutti i conti della sarta… No!Addio!
E, con un tragico gesto dellamano, disse del tutto a sproposito:
– Sono indegna di voi! Addio!Detto questo, si volse e se ne
tornò a casa. E io? Io ero rimasto inpiedi come uno sciocco, senzapensare a nulla, la seguivo con losguardo e sentivo la terravacillarmi sotto i piedi. Quandotornai in me e ricordai dove mitrovavo e che enorme porcheriami aveva combinato la mia lingua,cacciai un urlo. Era già scomparsa,quando pensai di gridarle:«Ritornate!!».
Pieno di vergogna, me ne tornaia casa con le pive nel sacco. Alla
barriera non c’erano più tram acavalli. Soldi per una carrozza nonne avevo. Mi toccò andare a casa apiedi.
Tre giorni dopo tornai aSokol’niki. Alla dacia mi fu dettoche Varja era malata ed era inprocinto di recarsi col padre aPietroburgo, dalla nonna. Non miriuscì di sapere nulla di più…
Ora sono sdraiato bocconi sulletto, mordo il cuscino e mi dobotte in testa. Ho il cuorestraziato… Lettore, comeaggiustare la faccenda? Comerimangiarmi le parole? Cosa dirle oscriverle? Io non ho abbastanza
cervello! L’affare è finito male – ein che modo stupido è finito male!
5 Vasto parco alla periferia diMosca.
Il bacio
Il venti maggio, alle otto di sera,
tutte e sei le batterie della brigatadi artiglieria di riserva di N., inmarcia verso il campo, sifermarono a pernottare nelvillaggio di Mestečki. Nel belmezzo del trambusto, mentrealcuni ufficiali si affaccendavanoattorno ai cannoni e altri, riunitisi
a cavallo sulla piazza accanto alrecinto della chiesa, ascoltavano ifurieri di alloggiamento, da dietrola chiesa apparve una stranacavalcatura montata da un uomoin borghese. Il piccolo cavallosauro, dal bel collo e dalla codacorta, non avanzava diritto, ma unpo’ di sbieco, eseguendo con lezampe piccoli movimenti di danza,come se qualcuno gliele colpissecol frustino. Avvicinatosi agliufficiali, il cavaliere sollevò ilcappello e disse:
– Sua eccellenza il tenentegenerale von Rabbeck,proprietario di queste terre, invita
i signori ufficiali a favorire subitoda lui per il tè…
Il cavallo fece un inchino,riprese la sua danza e indietreggiò,sempre di sbieco; il cavalieresollevò nuovamente il cappello edopo un istante scomparve dietrola chiesa con la sua stranacavalcatura.
– Che diavoleria! – borbottaronoalcuni ufficiali dirigendosiciascuno verso il proprio alloggio.– Noi abbiamo voglia di dormire, edecco che spunta fuori questo vonRabbeck con il suo tè! Losappiamo, che razza di tè sarà!
Agli ufficiali di tutte e sei le
batterie era rimasto vivo il ricordodi un caso occorso l’anno prima,quando durante le manovre,assieme agli ufficiali di unreggimento cosacco, avevanoricevuto un identico invito per il tèda un conte proprietario del luogo,militare a riposo; il conte, ospitalee affabile, li aveva colmati digentilezze, aveva offerto loro damangiare e da bere e li avevatrattenuti a pernottare in casa sua.Tutto questo, certo, era statopiacevole, non si sarebbe potutodesiderare di meglio, ma il guaio èche il militare a riposo si erarallegrato in maniera eccessiva
della presenza di quella gioventù.Fino all’alba aveva raccontato agliufficiali episodi del suo felicepassato, li aveva condotti per lestanze, aveva mostrato loro quadripreziosi, stampe antiche, armirare, aveva letto lunghe lettere dipersonaggi altolocati, mentre gliufficiali estenuati, spossatiascoltavano, guardavano e,pensando con nostalgia ai loroletti, sbadigliavano discretamentedietro la manica; quandofinalmente il padrone di casa liaveva lasciati liberi era ormaitroppo tardi per andare a dormire.
Non sarebbe stato così anche
questo von Rabbeck? In ogni caso,non c’era niente da fare. Gliufficiali si vestirono, si ripulirono esi recarono in frotta in cerca dellacasa del proprietario. Sulla piazza,accanto alla chiesa, fu detto loroche dai signori si poteva arrivarepassando di sotto: si dovevascendere al fiume passando dadietro la chiesa e costeggiarne lariva fino al giardino, dove i viali liavrebbero condotti alla meta;oppure di sopra, prendendodirettamente dalla chiesa la stradache a mezza versta dal villaggiosfociava accanto ai granaipadronali. Gli ufficiali decisero di
passare di sopra.– Ma chi sarà questo von
Rabbeck? – ragionavano stradafacendo. – Non è quello che aPleven comandava la divisione dicavalleria di N.?
– No, quello non si chiamava vonRabbeck, ma semplicementeRabbe, e senza il von.
– Ah, che tempo splendido!All’altezza del primo granaio
padronale la strada si biforcava: unramo proseguiva diritto escompariva nella foschia serale,l’altro svoltava a destra verso lacasa padronale. Gli ufficialigirarono a destra e abbassarono il
tono della voce… Ai due lati dellastrada si susseguivano i granai inmura tura dai tetti rossi, massicci eausteri, molto simili alle casermedel capoluogo del distretto. Piùavanti brillavano le finestre dellacasa padronale.
– Buon segno, signori! – disseuno degli ufficiali. – Il nostro setterci precede; significa che fiuta lapreda!
Il tenente Lobytko, checamminava davanti a tutti, alto erobusto, ma completamenteimberbe (aveva passato iventicinque anni, ma chissà comesul suo viso tondo e ben nutrito
non appariva ancora ombra dipeluria), famoso nella brigata per ilsuo fiuto e per la capacità diindovinare a distanza la presenzafemminile, si girò e disse:
– Sì, qui debbono esserci delledonne. Me lo dice l’istinto.
Sulla soglia della casa accolse gliufficiali lo stesso von Rabbeck, unvecchio sulla sessantina di aspettodignitoso, in borghese. Stringendola mano agli ospiti si dichiaròmolto contento e felice, mapregava vivamente i signoriufficiali che per amor di Dio loscusassero se non li aveva invitatia pernottare in casa sua; erano
venute a trovarlo due sorelle con ifigli, i fratelli e alcuni vicini, sicchénon gli era rimasta neppure unastanza libera.
Il generale stringeva la mano atutti, si scusava e sorrideva, ma dalsuo viso si vedeva che, a differenzadel conte dell’anno prima, era benlungi dal rallegrarsi tanto degliospiti, e che se aveva invitato gliufficiali era stato solo perché, a suoparere, lo esigevano leconvenienze. E gli ufficiali stessi,salendo al piano di sopra per unascala rivestita di morbidi tappeti eascoltandolo, sentivano di esserestati invitati solo perché sarebbe
stato sconveniente non farlo, e allavista dei camerieri che siaffrettavano ad accendere le lucigiù nell’ingresso e sopra, inanticamera, cominciarono apensare di aver portato in quellacasa agitazione e scompiglio. Làdove, probabilmente per qualchericorrenza o qualche avvenimentofamiliare, si erano riuniti duesorelle con i figlioli, fratelli e vicini,poteva forse riuscire gradita lapresenza di diciannove ufficialisconosciuti?
Di sopra, all’ingresso del salone,gli ospiti furono accolti da unavecchia alta e snella dal viso lungo
e le sopracciglia nere, moltosomigliante all’imperatriceEugenia. Sorridendo cordiale esolenne, si dichiarava contenta efelice di vedere degli ospiti in casasua, e si scusava se per quella voltalei e suo marito si trovavanonell’impossibilità di invitare isignori ufficiali a pernottare incasa loro. Dal sorriso bello esolenne, che le scomparivaistantaneamente dal voltoogniqualvolta dava le spalle agliospiti per qualche faccenda, eraevidente che in vita sua dovevaaverne visti molti, di signoriufficiali, che ora non le importava
nulla di loro e se li aveva invitati incasa sua e si scusava, era soloperché lo esigevano la suaeducazione e la sua posizionesociale.
Nella grande sala da pranzo incui gli ufficiali furono fatti entrare,al capo di un lungo tavolosedevano prendendo il tè unadecina tra uomini e signore,giovani e anziani. Dietro le lorosedie, avvolto dal leggero fumo deisigari, nereggiava un gruppo diuomini, in mezzo al quale ungiovane magrolino dalle piccolebasette rossicce parlava ad altavoce in inglese con l’erre moscia.
Oltre il gruppo si scorgeva,attraverso la porta, una stanzailluminata con i mobili azzurri.
– Signori, siete così numerosiche è assolutamente impossibilefare le presentazioni! – disse ad altavoce il generale, cercando diapparire molto allegro. – Fateconoscenza da soli, signori, così,senza cerimonie.
Gli ufficiali, alcuni col viso moltoserio e addirittura severo, altrisorridendo in maniera forzata esentendosi molto a disagio,salutarono alla meglio e sisedettero a prendere il tè.
Più di tutti si sentiva a disagio il
capitano Rjabovič, un ufficialepiccolo, un po’ curvo, con gliocchiali e le basette da lince.Mentre alcuni dei suoi compagnifacevano il volto serio e altrisorridevano forzatamente, il suoviso, le basette da lince e gliocchiali sembravano dire: «Io sonol’ufficiale più timido, modesto eincolore dell’intera brigata!». In unprimo tempo, entrando nel salonee sedendosi per il tè, non avevapotuto in alcun modo soffermarela propria attenzione su unaqualsiasi persona od oggetto. Ivolti, gli abiti, le piccole caraffesfaccettate col cognac, il vapore
che saliva dai bicchieri, le cornici distucco, tutto si fondeva inun’unica generale, grandiosaimpressione, che suscitava inRjabovič ansia e il desiderio dinascondere la testa. Come ildicitore che si esibisca per la primavolta in pubblico, egli vedeva tuttoquanto gli stava davanti agli occhi,ma senza comprenderlo (i fisiologidefiniscono questa condizione incui il soggetto vede ma non capisce«cecità psichica»). Ma dopo poco,presa familiarità con l’ambiente,Rjabovič recuperò la vista ecominciò a guardarsi attorno. Dauomo timido e non avvezzo alla
vita di società, gli balzò innanzitutto agli occhi ciò che a lui erasempre mancato, e cioè lastraordinaria audacia dei nuoviconoscenti. Von Rabbeck, suamoglie, due signore attempate,una signorina in abito lilla e ilgiovane dalle basette rossicce, cherisultò essere il figlio minore di vonRabbeck, si disposero ad arte tra gliufficiali, quasi avessero fatto leprove in precedenza, e diederosubito avvio a un’accesadiscussione, in cui gli ospiti nonpotevano non intervenire. Lasignorina in lilla prese adimostrare con calore che gli
artiglieri avevano una vita moltopiù facile della cavalleria e dellafanteria, mentre von Rabbeck e lesignore attempate sostenevano ilcontrario. Cominciò unaconversazione incrociata. Rjabovičguardava la signorina in lilla chediscuteva con grande accanimentodi cose per lei estranee eassolutamente prive di interesse, eosservava sul suo viso l’apparire elo svanire di sorrisi affettati.
Von Rabbeck e la sua famigliacoinvolgevano abilmente gliufficiali nella discussione, senzaperdere d’occhio nel frattempo iloro bicchieri e le loro bocche,
controllando che bevessero tutto,che ognuno fosse a proprio agio ecome mai qualcuno non mangiassei biscotti o non bevesse il cognac. Equanto più Rjabovič guardava eascoltava, tanto più gli piacevaquella famiglia poco sincera, maperfettamente disciplinata.
Dopo il tè gli ufficiali passarononel salone. Il fiuto non avevaingannato il tenente Lobytko: nelsalone c’erano molte signorine egiovani dame. Quel setter deltenente aveva già puntato unagiovanissima biondina vestita dinero, e curvandosi spavaldamente,quasi appoggiandosi a un’invisibile
sciabola, sorrideva e civettavamuovendo le spalle. Stavaprobabilmente raccontandoqualche sciocchezzaassolutamente priva di interesse,perché la biondina guardava il suoviso ben nutrito concondiscendenza e chiedevaindifferente: «Davvero?». E daquell’imperturbabile «davvero» ilsetter, se fosse stato intelligente,avrebbe potuto concludere chedifficilmente gli avrebbero gridato«va’, afferra la preda!».
Risuonarono le note di unpianoforte; un valzer triste volòfuori del salone attraverso le
finestre spalancate, e chissàperché tutti ricordarono che oltrele finestre adesso era primavera,era una sera di maggio. Tuttisentirono che l’aria era soffusadell’odore delle giovani foglie delpioppo, delle rose e del lillà.Rjabovič, sul quale, sotto l’influssodella musica, aveva cominciato adagire il cognac bevuto, gettòun’occhiata alla finestra, sorrise eprese a seguire i movimenti delledonne, e gli sembrava ormai che ilprofumo delle rose, del pioppo edel lillà non provenisse dalgiardino, bensì dai loro volti e dailoro abiti.
Il figlio di von Rabbeck invitòuna fanciulla magrolina e fece conlei due giri. Lobytko, scivolando sulparquet, svolazzò verso lasignorina in lilla e sfrecciò con leiper il salone. Si erano aperte ledanze… Rjabovič stava accanto allaporta tra coloro che non ballavano,e osservava. In tutta la suaesistenza non aveva mai ballato, eneppure una volta gli era capitatodi cingere la vita di una donnaperbene. Gli piaceva moltissimoquando un uomo, sotto gli occhi ditutti, afferrava una fanciullasconosciuta per la vita e porgeva laspalla perché ella vi posasse la
mano, ma non gli riusciva in alcunmodo di immaginarsi nei suoipanni. C’era stato un tempo in cuiaveva invidiato l’audacia e laprontezza dei suoi compagni e incuor suo ne aveva sofferto; laconsapevolezza di essere timido,curvo e incolore, di avere il bustolungo e le basette da lince loumiliava profondamente, ma colpassare degli anni taleconsapevolezza era divenutaabituale e ora, nel guardare quelliche danzavano o parlavano ad altavoce, non li invidiava più, ma silimitava a provare un mestostruggimento.
Quando ebbe inizio la quadriglia,il giovane von Rabbeck si avvicinòal gruppo dei non ballerini e invitòdue ufficiali a giocare al biliardo.Gli ufficiali accettarono e siallontanarono con lui dal salone.Rjabovič, non avendo nulla da faree desiderando comunque prendereparte all’animazione generale, siincamminò dietro di loro. Dalsalone passarono in soggiorno,quindi in uno stretto corridoio avetrate, e di lì in una stanza dove alloro apparire le figure di treassonnati camerieri balzaronorapide su dai divani. Infine,percorsa una lunga serie di stanze,
il giovane von Rabbeck e gliufficiali entrarono in una saletta incui si trovava il biliardo. Il giocoebbe inizio.
Rjabovič, che non aveva maigiocato a niente altro che a carte,se ne stava accanto al biliardo eguardava indifferente i giocatori,mentre quelli, con le giubbesbottonate e le stecche in mano,andavano su e giù, si scambiavanobattute e gridavano paroleincomprensibili. I giocatori non glibadavano, e solo raramentequalcuno di loro, urtandolo colgomito o colpendoloinavvertitamente con la stecca, gli
si rivolgeva dicendo: «Pardon!». Laprima partita non si era ancoraconclusa, che lui si era giàannoiato, e fu invaso dallasensazione di essere di troppo e didisturbare… Ebbe voglia di tornarenel salone, e uscì.
Sulla via del ritorno gli capitò divivere una piccola avventura.Quando era ormai a metà strada, siaccorse di avere preso unadirezione sbagliata. Ricordavaperfettamente che camminfacendo avrebbe dovuto imbattersinelle tre assonnate figure deicamerieri, ma aveva giàattraversato cinque o sei stanze, e
sembrava che quelle figure fosserostate inghiottite dalla terra.Accortosi del proprio errore, tornòun po’ indietro, prese a destra e sitrovò in uno studio semibuio, cheall’andata non aveva visto; dopoesservi rimasto qualche istante,egli aprì indeciso la prima portache gli capitò sotto gli occhi edentrò in una stanzacompletamente buia. Di fronte sivedeva la fessura di una porta,dalla quale scaturiva una vividaluce; di là dall’uscio giungevanoovattate le note di una malinconicamazurca. Anche qui, come nelsalone, le finestre erano spalancate
e si sentiva il profumo del pioppo,del lillà e delle rose…
Rjabovič si fermò, esitante… Inquel momento, con sua meraviglia,sentì dei passi frettolosi e il frusciodi un abito, e una voce di donna,ansante, sussurrò: «finalmente!»,mentre due mani morbide eodorose, indubbiamente femminili,gli cinsero il collo; una caldaguancia si strinse alla sua e nellostesso tempo echeggiò il suono diun bacio. Ma subito colei che loaveva baciato diede un piccologrido e, così parve a Rjabovič, sistaccò da lui con disgusto. Egli sitrattenne a sua volta a stento dal
gridare e si gettò verso la vividafessura della porta…
Quando ebbe fatto ritorno nelsalone, il cuore gli batteva e lemani gli tremavano cosìvisibilmente, che si affrettò anasconderle dietro la schiena. Inun primo momento, tormentatodalla vergogna e dal timore chetutto il salone sapesse che erastato appena abbracciato e baciatoda una donna, si rannicchiava su sestesso e si guardava intornoinquieto, ma convintosi che nelsalone si continuava a danzare e achiacchierare tranquillamente, siabbandonò tutto a quella nuova
sensazione, prima di allora maiprovata in vita sua. Gli accadevaqualcosa di strano… Il collo,appena cinto dalle morbide maniodorose, gli sembrava cosparso diburro; sulla guancia, vicino al baffosinistro, dove la sconosciuta avevaimpresso il suo bacio, tremava unlieve, piacevole brivido, comequello provocato dalle gocce dimenta, e quanto più egli sfregavaquel punto, tanto più intenso sisentiva quel brivido; era tuttopervaso da capo a piedi da unanuova, strana sensazione, cheandava crescendo… Gli vennevoglia di ballare, parlare, correre in
giardino, ridere forte… Avevacompletamente dimenticato diessere curvo e incolore, di avere lebasette da lince e un’«ariascialba»(così una volta era statodefinito il suo aspetto in unaconversazione tra signore, che egliaveva involontariamenteorigliato). Quando gli passòaccanto la moglie di von Rabbeck,le rivolse un sorriso così aperto egentile, che quella si fermò e presea guardarlo con aria interrogativa.
– La vostra casa mi piaceimmensamente! – egli disse,aggiustandosi gli occhiali.
La generalessa sorrise e
raccontò che quella casaapparteneva già a suo padre,quindi chiese se i suoi genitorierano ancora vivi, se prestavaservizio da molto tempo, perchéera così magro e via dicendo…Ricevuta risposta alle suedomande, ella passò oltre, mentrelui, dopo quella conversazione,prese a sorridere ancora piùaffabilmente e a pensare di esserecircondato da persone eccellenti…
A cena Rjabovič mangiòmacchinalmente tutto ciò che gliveniva offerto, bevve e, senzaprestare ascolto a nessuno, cercòdi spiegarsi la recente avventura…
L’episodio aveva un caratteremisterioso e romantico, ma nonera difficile da spiegarsi.Probabilmente una signorina o unadama aveva fissato unappuntamento a qualcuno nellastanza buia, aveva atteso a lungo e,trovandosi in una forte eccitazionenervosa, aveva scambiato Rjabovičper il suo eroe; la cosa era tantopiù plausibile giacché Rjabovič,avanzando nel buio della stanza, siera arrestato esitante, assumendocosì l’aria di chi sia a sua volta inattesa di qualcosa… Così Rjabovič sispiegò il bacio ricevuto.
«Ma chi sarà stata?» pensava,
scrutando i volti delle donne.«Dev’essere giovane, perché levecchie non vanno agliappuntamenti. Che poi fosse coltas’intuiva dal fruscio dell’abito, dalprofumo, dalla voce…».
Fissò lo sguardo sulla signorinain lilla, e gli piacque molto; avevabelle spalle e belle braccia, un visointelligente e una splendida voce.Nel guardarla, Rjabovič desideròche fosse proprio lei e nessun’altrala sconosciuta… Ella però si mise aridere in modo affettato,raggrinzendo il lungo naso, che gliparve quello di una vecchia; spostòallora lo sguardo sulla biondina
vestita di nero. Questa era piùgiovane, più semplice e schietta,aveva delle tempie deliziose ebeveva in modo assai aggraziatodal bicchierino. Ora Rjabovičdesiderò che fosse quella. Ma benpresto si accorse che aveva un visobanale, e spostò lo sguardo sullasua vicina…
«È difficile indovinare» pensavasognante. «Se di quella in lilla siprendessero soltanto le spalle e lebraccia, si aggiungessero le tempiedella biondina e gli occhi di quellaseduta alla sinistra di Lobytko,allora…».
Ricompose mentalmente tutti
gli elementi e ottenne l’immaginedella fanciulla che lo aveva baciato,l’immagine che desiderava, ma chenon aveva potuto assolutamentetrovare intorno alla tavola…
Dopo cena gli ospiti, sazi edebbri, cominciarono a congedarsi ea ringraziare. I padroni di casaripresero a scusarsi di non poterlitrattenere per la notte.
– Molto, molto lieto, signori! –diceva il generale, e questa volta intono sincero (probabilmenteperché nel congedare gli ospiti si èmolto più schietti e benevoli chenell’accoglierli). – Molto lieto!Favorite di venirci a trovare
nuovamente al vostro ritorno!Senza complimenti! Ma doveandate? Volete passare di sopra?No, andate per il giardino, di sotto,è la strada più breve.
Gli ufficiali uscirono in giardino.Dopo lo sfavillio di luci e ilfrastuono il giardino sembrò loroassai buio e silenzioso.Procedettero in silenzio fino alcancelletto. Erano leggermenteubriachi, allegri, soddisfatti, ma letenebre e il silenzio li resero perqualche istante pensierosi. Aognuno di loro, come a Rjabovič,probabilmente era venuto lo stessopensiero: sarebbe giunto anche
per loro prima o poi il giorno incui, come von Rabbeck, avrebberoposseduto una grande casa, unafamiglia, un giardino, in cuiavrebbero anch’essi avuto lapossibilità di mostrarsi gentili,magari in modo ipocrita, con lagente, di renderla sazia, ubriaca esoddisfatta?
Appena usciti dal cancelletto,cominciarono tutti a parlare e aridere forte senza una ragione.Camminavano ormai lungo ilsentiero che scendeva giù al fiumee ne seguiva poi da vicino l’argine,aggirando i cespugli sulla riva, ifossati e i salici sospesi sull’acqua.
La riva e il sentiero si vedevanoappena, mentre la sponda oppostaera completamente immersa nelletenebre. Di quando in quandosull’acqua scura si riflettevano lestelle; tremolavano per poidileguarsi – ed era quello l’unicoindizio del rapido scorrere delfiume. C’era quiete. Sull’altra rivagemevano assonnati i beccaccini esu questa, in un cespuglio, senzabadare affatto al drappello diufficiali, proruppe in fortigorgheggi un usignolo. Gli ufficialistettero un po’ accanto alcespuglio, lo scossero, mal’usignolo continuò a cantare.
– Che tipo! – risuonaronoesclamazioni di approvazione. –Noi stiamo qui a due passi, e luinon ci degna della minimaattenzione! Che briccone!
Verso la fine il sentiero siinerpicava e nei pressi del recintodella chiesa sboccava sulla strada.Qui gli ufficiali, affaticati per lacamminata in salita, si sedetteroun poco a fumare. Sull’altra rivaapparve un debole lumicino rossoed essi, non avendo nulla da fare,cercarono a lungo di stabilire se sitrattasse di un falò, di un lume auna finestra o di qualcos’altro…Anche Rjabovič guardava la luce, e
gli pareva ch’ essa gli sorridesse egli ammiccasse quasi fosse aconoscenza del bacio.
Una volta nel suo alloggio,Rjabovič si svestì in fretta e sicoricò. Nella sua stessa izbaalloggiavano Lobytko e il tenenteMerzljakov, un ragazzo tranquillo,taciturno, che nella sua cerchiagodeva fama di ufficiale colto,sempre intento a leggere, nonappena gli era possibile, il«Messaggero d’Europa», che siportava dietro ovunque. Lobytkosi spogliò, camminò a lungo da unangolo all’altro della stanza conl’aria dell’uomo insoddisfatto e
mandò l’attendente a prendergliuna birra. Merzljakov si coricò,mise una candela vicino alcapezzale e si immerse nellalettura del «Messaggerod’Europa».
«Chi sarà stata?» pensavaRjabovič guardando il soffittoannerito dal fumo.
Gli sembrava di avere tuttora ilcollo cosparso di burro e vicino allabocca sentiva ancora quel brividocome danno le gocce di menta.Nell’immaginazione gli balenavanole spalle e le braccia della signorinain lilla, le tempie e gli occhi sinceridella biondina in nero, vitini di
donna, vestiti, spille. Cercava difissare la propria attenzione suqueste immagini, ma essesaltellavano, si dileguavano,vacillavano. Quando, sull’ampiosfondo nero che appare a ognunonel chiudere gli occhi, questeimmagini scomparivano del tutto,egli cominciava a sentire i passiaffrettati, il fruscio dell’abito, ilsuono del bacio e allora venivainvaso da una gioia intensa,immotivata… Mentre si stavaabbandonando ad essa, sentìl’attendente tornare e riferire chela birra non c’era. Lobytko siindignò terribilmente e riprese a
camminare su e giù.– Ebbene, non è un idiota? –
diceva, fermandosi ora davanti aRjabovič, ora davanti a Merzljakov.– Bisogna essere proprio unimbecille e uno sciocco, per nontrovare un po’ di birra! Eh? Non èuna canaglia?
– È naturale che qui non si possatrovare della birra, – disseMerzljakov, senza staccare gliocchi dal «Messaggero d’Europa».
– Sì? Credete? – insistevaLobytko. – Signore mio Dio,speditemi sulla luna, e anche lisaprò trovare subito birra e donne!Adesso vado e trovo ogni cosa… In
caso contrario datemi pure dellacanaglia!
Impiegò molto tempo a vestirsie a infilarsi i grossi stivali, poi insilenzio fumò una sigaretta e uscì.
– Rabbeck, Grabbeck, Labbeck, –si mise a borbottare, fermandosinell’andito. – Non ho voglia diandare da solo, diavolo! Rjabovič,non volete fare una passeggiata?Eh?
Non avendo ricevuto risposta sigirò, si spogliò lentamente e sicoricò. Merzljakov sospirò, mise daparte il «Messaggero d’Europa» espense la candela.
– Mm–sì… – bofonchiò Lobytko,
accendendosi una sigaretta al buio.Rjabovič si tirò la coperta fin
sopra la testa e, raggomitolatosi,cominciò a raccogliere nella suaimmaginazione le figure che vibalenavano e a riunirle in un unicoinsieme. Ma non venne a capo diniente. Ben presto si addormentò,e il suo ultimo pensiero fu chequalcuno lo stesse colmando dicarezze e rallegrando, che nellasua vita si fosse compiuto qualcosadi insolito, sciocco, mastraordinariamente bello e gioioso.Questo pensiero non lo lasciòneanche nel sonno.
Quando si svegliò, la sensazione
di burro sul collo e di freschezza dimenta vicino alle labbra non c’erapiù, ma come il giorno precedentegli salivano al petto ondate di gioia.Guardò pieno di entusiasmo lecornici delle finestre, dorate dalsole nascente, e prestò orecchio almovimento della strada. Propriovicino alle finestre qualcunoparlava ad alta voce. Il comandantedi battaglione di Rjabovič,Lebedeckij, che aveva appenaraggiunto la brigata, discorreva colsuo maresciallo a voce molto alta,poco avvezzo com’era a parlarepiano.
– Cosa c’è ancora? – gridava il
comandante.– Ieri durante la ferratura,
vostra signoria, è rimasto feritoGolubčik. Il veterinario gli haapplicato un impiastro di argilla eaceto. Adesso lo conducono indisparte per le briglie. Inoltre,vostra signoria, ieri l’operaioArtem’ev si è ubriacato e il tenenteha ordinato di legarlosull’avantreno dell’affusto diriserva.
Il maresciallo riferì ancora cheKarpov aveva dimenticato i nuovicordoni per le trombe e i palettidelle tende, e che la sera avanti isignori ufficiali si erano
compiaciuti di far visita al generalevon Rabbeck. Nel bel mezzo dellaconversazione alla finestraapparve la testa di Lebedeckij, conla sua barba fulva. Socchiuse gliocchi miopi sulle fisionomieassonnate degli ufficiali e li salutò.
– Tutto a posto? – chiese.– Il cavallo timoniere da sella si è
rovinato il garrese, – risposeLobytko, sbadigliando, – con ilcollare nuovo.
Il comandante sospirò, riflettéun istante e disse ad alta voce:
– Penso di fare ancora unacapatina da AleksandraEvgrafovna. Bisogna farle una
visita. Beh, addio. Vi raggiungeròverso sera.
Un quarto d’ora dopo la brigatasi mise in cammino. Mentrepercorreva il tratto di strada checosteggiava i granai padronali,Rjabovič gettò un’occhiata adestra, verso la casa. Le finestreavevano le persiane chiuse.Evidentemente tutti dormivanoancora. Dormiva anche colei che ilgiorno prima aveva baciatoRjabovič. Ebbe voglia diimmaginarla nel sonno. La finestraspalancata della camera, i ramiverdi che vi facevano capolino, lafrescura del mattino, il profumo
dei pioppi, del lillà e delle rose, illetto, la sedia con sopra il vestitoche il giorno innanzi frusciava, lepantofoline, il piccolo orologio sulcomodino: tutto questo se lo figuròin modo chiaro e netto, ma i trattidel viso, il caro sorriso delladormiente, proprio quello che erapiù importante e caratteristico,sfuggiva alla sua immaginazionecome mercurio tra le dita. Percorsamezza versta, si volse indietro: lachiesa gialla, la casa, il fiume e ilgiardino erano inondati di luce; ilfiume con le sue rive di un vividoverde, riflettendo in sé l’azzurrodel cielo e brillando qua e là come
argento al sole, era magnifico.Rjabovič gettò un’ultima occhiataa Mestečki, e fu invaso da una taletristezza, come se si separasse daqualcosa di molto intimo efamiliare.
Intanto, lungo la strada, sidispiegavano ai suoi occhi soltantoscene note da tempo, prive diinteresse… A destra e a sinistracampi di giovane segala e di granosaraceno in mezzo ai qualisaltellano i gracchi; guardi innanzi,e non vedi che polvere e collottole,ti volgi indietro, e vedi sempre lastessa polvere e facce… Davanti atutti camminano quattro uomini
con la sciabola, l’avanguardia.Dietro di loro un drappello dicantori, e dietro i cantori itrombettieri a cavallo.L’avanguardia e i cantori, come iportatori di torce in un corteofunebre, di quando in quandodimenticano la distanzaregolamentare e si spingono moltoavanti… Rjabovič si trova presso ilprimo pezzo della quinta batteria.Può vedere tutte e quattro lebatterie che lo precedono. A chinon sia militare questa lunga,pesante sfilata della brigata inmovimento sembra una baraondacomplicata e incomprensibile; è
incomprensibile perché attorno aun pezzo vi siano tanti uomini eperché sia trasportato da tanticavalli avviluppati in stranebardature, quasi fosse davvero unacosa tanto terribile e pesante. PerRjabovič è tutto chiaro, e perciòprivo del sia pur minimo interesse.Egli sa ormai da tempo perché allatesta di ogni batteria accantoall’ufficiale cavalchi un serioartificiere, e perché vengachiamato bilancino; proprio allespalle dell’artificiere sono visibili iconducenti del primo attacco e diquello di mezzo; Rjabovič sa che icavalli di sinistra, che essi
montano, si chiamano da sella, equelli di destra da briglia – tutto ciònon è affatto interessante. Ogniconducente è seguito da duecavalli timonieri. Uno di essi èmontato da un conducente con laschiena coperta dalla polvere delgiorno avanti e un arnese goffo eridicolo sulla gamba destra;Rjabovič sa a cosa servequell’arnese, che ai suoi occhi nonappare quindi ridicolo. Iconducenti, nessuno escluso,agitano macchinalmente lanagajka6 e di quando in quandolanciano un grido. Neanche ilcannone è bello. Sull’avantreno
sono ammucchiati sacchi di avenaricoperti di tela incatramata,mentre su tutto il pezzo sonoappese teiere, borse e sacchettimilitari, che lo fanno sembrare unpiccolo animale innocuo,circondato chissà perché dauomini e cavalli. Al suo fianco, dallato di sottovento, marciano i seiserventi agitando le braccia. Dietroal pezzo ricominciano altribilancini, conducenti e cavallitimonieri, dietro ai quali si trascinaun altro cannone, altrettantobrutto e poco imponente quanto ilprimo. Al secondo ne segue unterzo, un quarto con al fianco un
ufficiale, e così via. La fila si snodaper mezza versta. Essa si chiudecon un carriaggio accanto al quale,pensoso, con la testa dalle lungheorecchie abbassata, avanza unmuso assai simpatico: l’asinoMagar, che un comandante dibatteria ha portato dalla Turchia.
Rjabovič guardava indifferenteavanti e indietro, le collottole e lefacce; in un altro momento sisarebbe assopito, ma ora eracompletamente immerso nei suoinuovi, piacevoli pensieri.Dapprima, appena la brigata si eramessa in marcia, aveva cercato diconvincersi che la storia del bacio
non poteva avere altro interesseche come piccola avventurasegreta, che in sostanza era unacosa da nulla e considerarlaseriamente era quanto menosciocco; ben presto però avevadetto addio alla logica perabbandonarsi alle fantasticherie…Ora si immaginava nel salotto deivon Rabbeck, accanto a unafanciulla che somigliava allasignorina in lilla e alla biondina innero; ora, socchiudendo gli occhi,si vedeva in compagnia di un’altrafanciulla del tutto sconosciuta, daitratti del volto assai vaghi, ementalmente le parlava,
l’accarezzava, si piegava sulla suaspalla, s’immaginava la guerra e ildistacco, e poi di nuovo l’incontro,le cene con la moglie, i figlioli…
– Alle martinicche! – echeggiavail comando a ogni discesa.
Anch’egli gridava «allemartinicche!», timoroso che quelgrido lacerasse i suoi sogni e lorichiamasse alla realtà…
Nel passare davanti a una tenutapadronale, attraverso il recintoRjabovič gettò un’occhiata nelgiardino. Ai suoi occhi si presentòun lungo viale diritto come unalinea, cosparso di sabbia gialla efiancheggiato da giovani betulle…
Con l’avidità dell’uomo immersonelle fantasticherie, egli immaginòdei piedini femminili calpestare lasabbia gialla, e in modo del tuttoinatteso nella sua fantasia sidelineò chiaramente il viso di coleiche lo aveva baciato e che il giornoprima era riuscito a raffigurarsidurante la cena. Questa immaginesi fissò nel suo cervello e non lolasciò più.
A mezzogiorno dal fondo,
dov’era il carriaggio, echeggiò ungrido:
– Attenti! Fronte a sinistra!Signori ufficiali!
In una carrozza trainata da unapariglia di cavalli bianchi giunse digran carriera il comandante dibrigata. Si arrestò accanto allaseconda batteria e si mise a gridarequalcosa che nessuno capì. Allasua volta galopparono alcuniufficiali, tra cui anche Rjabovič.
– Ebbene, come va? Che novità?– chiese il generale, sbattendo gliocchi arrossati. – Ci sono infermi?
Ricevuta risposta il generale,piccolo e sparuto, biascicò, rimaseun attimo soprappensiero e disse,rivolgendosi a uno degli ufficiali:
– Il conducente del cavallotimoniere del terzo pezzo si è tolto
le ginocchiere e le ha appese,canaglia, all’avantreno. Che siapunito.
Alzò gli occhi su Rjabovič econtinuò:
– E mi sembra che le vostretirelle siano un po’ troppolunghe…
Dopo qualche altra osservazionenoiosa, il generale posò lo sguardosu Lobytko e fece un sorrisetto:
– E voi, tenente Lobytko, oggiavete un’aria molto triste, – disse.– Avete nostalgia della Lopuchova?Eh? Signori, ha nostalgia dellaLopuchova!
La Lopuchova era una signora
alta e prosperosa, che avevasuperato già da un pezzo iquaranta. Il generale, che nutrivauna vera e propria passione per ledonne imponenti, di qualunque etàesse fossero, sospettava la stessapassione anche nei suoi ufficiali.Questi sorrisero rispettosamente.Il generale di brigata, soddisfatto diaver detto qualcosa di moltospiritoso e mordace, scoppiò inuna sonora risata, diede uncolpetto sulla schiena delcocchiere e portò la mano allavisiera. La carrozza ripartì…
«Tutto ciò su cui ora vadofantasticando e che mi appare
impossibile e fuori del mondo, è insostanza molto usuale» pensavaRjabovič, guardando i nugoli dipolvere che volavano dietro lacarrozza del generale. «Sono tuttecose assai comuni, che vengonovissute da ogni uomo… Il generale,ad esempio, a suo tempo è statoinnamorato, ora è sposato e ha deifigli. Anche il capitano Vachter hauna moglie che lo ama, sebbeneabbia una bruttissima collottolarossa e sia senza vita… Sal’manov èrozzo e troppo tartaronell’aspetto, eppure ha avuto unastoria d’amore che si è conclusa colmatrimonio… Io sono come tutti
gli altri, e presto o tardi proveròciò che provano tutti… ».
E l’idea di essere un uomonormale e di avere una vitanormale lo rallegrò e rincuorò.Ormai si raffigurava lei e la propriafelicità arditamente, come più glipiaceva, e non poneva limiti allapropria immaginazione…
Quando, la sera, la brigata fugiunta a destinazione e gli ufficialiriposavano nelle tende, Rjabovič,Merzljakov e Lobytko sedetteroattorno a un baule per cenare.Merzljakov mangiava senza frettae, masticando lentamente, leggevail «Messaggero d’Europa», che
teneva sulle ginocchia. Lobytkoparlava senza sosta e continuava aversarsi birra nel bicchiere,mentre Rjabovič, al quale lefantasticherie dell’intera giornataavevano lasciato la testaannebbiata, beveva in silenzio.Dopo il terzo bicchiere era ormaiebbro e illanguidito, e fu invaso daldesiderio irrefrenabile dicondividere con i compagni le suenuove sensazioni.
– Mi è capitato uno stranoincidente da quei von Rabbeck… –cominciò, cercando di dare allapropria voce un tono indifferente escherzoso. – Ero andato, sapete,
nella sala del biliardo…E si mise a raccontare in
maniera assai dettagliata la storiadel bacio, ma dopo un minutoaveva già finito… In quel minutoaveva raccontato tutto, ed eraprofondamente sorpreso che ilracconto avesse richiesto cosìpoco tempo. Gli sembrava che delbacio si sarebbe potuto parlarefino al mattino seguente. Dopoaverlo ascoltato Lobytko, che eraun gran bugiardo e perciò noncredeva a nessuno, lo guardòdiffidente e ridacchiò. Merzljakovcorrugò le sopracciglia e concalma, senza staccare gli occhi dal
«Messaggero d’Europa», disse:– Che roba! Buttarsi al collo così,
senza chiamare per nome… Dovevaessere una squilibrata.
– Sì, doveva essere unasquilibrata… – convenne Rjabovič.
– Un caso simile è capitato unavolta anche a me… – disse Lobytko,facendo gli occhi spaventati. –L’anno scorso vado a Kovno…Prendo un biglietto di secondaclasse… Il vagone è pieno zeppo edè impossibile dormire. Do mezzorublo al controllore, e quello miprende il bagaglio e mi conduce inuno scompartimento… Mi corico emi metto sotto la coperta… È buio,
capite. Ad un tratto sentoqualcuno che mi tocca la spalla emi respira sul viso. Faccio dunqueun movimento con la mano, esento un gomito… Apro gli occhi e,figuratevi un po’, è una donna!
Occhi neri, labbra rosse comesalmone di quello buono, naricivibranti di passione, e un seno…due respingenti… – Permettete, –lo interruppe tranquilloMerzljakov, quanto al seno,capisco, ma come avete fatto avedere le labbra, se era buio?
Lobytko, per trarsi d’impaccio,cominciò a ridere della scarsaimmaginazione di Merzljakov. Ciò
disgustò Rjabovič, che si allontanòdal baule e si coricò,ripromettendosi di non confidarsimai più con nessuno.
Ebbe inizio la vita del campo… Igiorni scorrevano, assai similil’uno all’altro. In tutto questoperiodo Rjabovič aveva sentimenti,pensieri e comportamento dainnamorato. Ogni mattina, quandol’attendente gli portaval’occorrente per lavarsi,versandosi l’acqua fredda sullatesta immancabilmente ricordavache nella sua vita c’era qualcosa dibello e dolce.
La sera, quando i compagni
cominciavano a parlare d’amore edi donne, egli tendeva l’orecchio, sifaceva più accosto e assumeval’espressione che appareabitualmente sui visi dei soldatiche ascoltano il racconto di unabattaglia a cui abbiano preso parteloro stessi. E nelle sere in cui gli altiufficiali, dopo aver alzato un po’ ilgomito, facevano incursioni daDon Giovanni nel vicino«sobborgo» con alla testa il setterLobytko, Rjabovič, purprendendovi parte, ogni volta eratriste, si sentiva profondamentecolpevole e mentalmente chiedevaperdono a lei… Nelle ore di ozio o
nelle notti insonni, quando loinvadeva il desiderio di ricordarel’infanzia, il padre, la madre, e ingenerale tutto quanto gli erafamiliare e caro, immancabilmentericordava anche Mestečki, lostrano cavallo, von Rabbeck, suamoglie, che assomigliavaall’imperatrice Eugenia, la stanzabuia, la fessura luminosa sotto laporta…
Il 31 agosto faceva ritorno dalcampo, non però con l’interabrigata, ma soltanto con duebatterie. Per tutta la strada nonfece che fantasticare ed essereagitato, quasi si stesse recando nel
paese natio. Aveva una terribilevoglia di rivedere lo strano cavallo,la chiesa, l’insincera famiglia vonRabbeck, la stanza buia; la «voceinteriore», che tanto spessoinganna gli innamorati, chissàperché gli sussurrava chel’avrebbe immancabilmente vista…Ed era tormentato dalle domande:come l’avrebbe incontrata? di cosale avrebbe parlato? non si eradimenticata del bacio? Nellapeggiore delle ipotesi, pensava, seanche non l’avesse incontrata, perlui sarebbe stato piacevole già ilsolo attraversare la stanza buia ericordare…
Verso sera apparveroall’orizzonte la ben nota chiesa e ibianchi granai. A Rjabovičcominciò a battere forte il cuore.Non prestava ascolto all’ufficialeche gli cavalcava accanto e glidiceva qualcosa, aveva dimenticatotutto e osservava avidamente ilfiume che scintillava inlontananza, il tetto della casa, lapiccionaia sulla qualevolteggiavano i colombi, illuminatidal sole al tramonto.
Mentre si avvicinava alla chiesae poi, mentre ascoltava il furiere dialloggiamento, egli aspettava adogni istante che da dietro il recinto
comparisse l’uomo a cavallo einvitasse gli ufficiali per il tè, ma…il rapporto del furiere terminò, gliufficiali si sparpagliarono in frettaper il villaggio, e l’uomo a cavallonon compariva…
«Ora von Rabbeck verrà a saperedai contadini che siamo arrivati, emanderà a cercarci» pensavaRjabovič entrando nell’izba, senzacapire perché il compagnoaccendesse la candela e gliattendenti si affrettassero apreparare i samovar…
Fu invaso da una graveinquietudine. Si coricò, quindi sialzò e guardò dalla finestra se per
caso stesse arrivando il cavaliere.Ma il cavaliere non c’era. Si coricònuovamente, dopo mezz’ora sialzò e, non reggendoall’inquietudine, uscì in strada e siincamminò verso la chiesa. Sullapiazza, accanto al recinto, era buioe deserto… Tre soldati stavano rittiproprio all’inizio della discesa, etacevano. Alla vista di Rjabovič siriscossero e gli fecero il saluto. Eglirispose portando la mano allavisiera e cominciò a scendere per ilnoto sentiero.
Sull’altra sponda il cielo eratutto inondato di un colorepurpureo: stava sorgendo la luna.
In un orto due donne, parlando adalta voce, andavano strappandofoglie di cavolo; oltre gli ortinereggiava un gruppo di izbe… Suquesta riva tutto era come inmaggio: il sentiero, i cespugli, isalici sospesi sull’acqua… soltanto,non si sentiva l’audace usignolo, enon si spandeva il profumo delpioppo e dell’erba novella.
Giunto al giardino, Rjabovičgettò un’occhiata oltre ilcancelletto. C’era buio e silenzio…Si vedevano soltanto i bianchitronchi delle betulle più vicine eun breve tratto di viale, tutto ilresto si confondeva in una massa
nera. Rjabovič tendeva avidamentel’orecchio e scrutava, ma dopoessere rimasto così per circa unquarto d’ora senza cogliere né unsuono né un lume, ritornòlentamente sui suoi passi…
Si avvicinò al fiume. Davanti alui biancheggiavano il capanno deibagni del generale e i lenzuoliappesi ai parapetti di unponticello… Salì sul ponticello, virimase per alcuni istanti e senzaalcun motivo toccò un lenzuolo.Era ruvido e freddo. Egli guardò inbasso, l’acqua… Il fiume scorrevarapido e gorgogliava in modoappena percettibile attorno alle
palafitte dei bagni. Accanto allasponda sinistra si rifletteva la lunarossa; piccole onde correvano sulsuo riflesso, lo dilatavano e lolaceravano in mille pezzi, quasivolessero trascinarlo via…
«Che cosa sciocca! Che cosasciocca!» pensava Rjabovičguardando l’acqua che scorreva.«Com’è stupido tutto ciò!».
Ora che non si aspettava piùnulla, la storia del bacio, la suaimpazienza, le vaghe speranze e ladisillusione gli apparivano in unaluce ben chiara. Non gli sembravapiù strano che non fosse giuntol’uomo a cavallo mandato dal
generale e che mai più avrebbevisto colei che casualmente loaveva baciato al posto di un altro;al contrario, sarebbe stato stranose l’avesse vista…
L’acqua scorreva verso unameta ignota, con un fine ignoto.Scorreva nello stesso modo anchea maggio; nel mese di maggio essaera affluita nel fiume grande, dalfiume nel mare, quindi eraevaporata, si era trasformata inpioggia e forse era la stessa acquache ora scorreva davanti agli occhidi Rjabovič… A che scopo? Perché?
E tutto il mondo, tutta la vitaapparve a Rjabovič uno scherzo
incomprensibile, vano…Distogliendo lo sguardo dall’acquae rivolgendolo al cielo, si sovvennenuovamente di come la sorte, sottole spoglie di una donnasconosciuta, gli fosse statacasualmente benevola, si sovvennedelle sue fantasticherie e delleimmagini estive, e la sua vita glisembrò straordinariamentemisera, meschina e incolore…
Quando fece ritorno alla suaizba, non vi trovò neppure uno deicompagni. L’attendente gli riferìche erano andati tutti dal«generale Fontrjabkin»� , cheaveva mandato un uomo a cavallo
a invitarli… Per un istante nel pettodi Rjabovič divampò la gioia, maegli subito la soffocò, si coricò e adispetto della sua sorte, quasivolendo sfidarla, non andò dalgenerale.
6 Staffile usato dai cosacchi.
Infelicità
Sof’ja Petrovna, moglie del
notaio Lubjancev, una donnagiovane e bella sui venticinqueanni, camminava lentamentelungo un sentiero del bosco incompagnia del suo vicino di dacia,l’avvocato Il’in. Erano le cinque disera. Sul sentiero si eranoaddensate soffici nuvole bianche,
che in qualche punto lasciavanointravedere lembi di cielo di unazzurro brillante. Le nuvole eranoimmobili, come attaccate alle altesommità dei vecchi pini. C’erasilenzio e afa.
In lontananza il sentiero erainterrotto dal basso terrapienodella ferrovia, lungo il quale in quelmomento camminava chissàperché una sentinella armata difucile. Subito oltre il terrapienobiancheggiava una grande chiesa asei cupole con il tetto arrugginito…
– Non mi aspettavo di trovarviqui, – diceva Sof’ja Petrovna,guardando a terra e toccando con
la punta dell’ombrello le fogliesecche, – e ora sono contenta diavervi incontrato. Ho bisogno diparlarvi in modo serio e definitivo.Vi prego, Ivan Michajlovič, sedavvero mi amate e mi rispettate,smettetela di perseguitarmi! Miseguite come un’ombra, miguardate sempre con occhi torbidi,mi dichiarate il vostro amore, miscrivete strane lettere e… e io nonso quando tutto ciò avrà fine!Ebbene, a cosa porterà tuttoquesto, Signore mio Dio?
Il’in taceva. Sof’ja Petrovna fecealcuni passi e proseguì:
– E questo cambiamento
repentino è avvenuto in voi nelgiro di due o tre settimane, dopocinque anni che ci conosciamo.Non vi riconosco più, IvanMichajlovič!
Sof’ja Petrovna lanciò unosguardo furtivo al suo compagno.Egli fissava le soffici nuvolesocchiudendo gli occhi. Sul voltoaveva un’espressione cattiva,capricciosa e distratta, come unuomo che soffra e sia allo stessotempo costretto ad ascoltare dellesciocchezze.
– È stupefacente che non locomprendiate da solo! – continuòla Lubjanceva, stringendosi nelle
spalle. – Dovete capire che stateintessendo un gioco non troppobello. Io sono sposata, amo erispetto mio marito… ho unafiglia… Forse voi non attribuite laminima importanza a tutto ciò?Inoltre, come mio vecchio amico,conoscete le mie idee sullafamiglia… sui princìpi dellafamiglia in generale…
Il’in fece un grugnito di stizza esospirò.
– I princìpi della famiglia… –borbottò. – Oh, Signore!
– Sì, sì… Io amo mio marito, lorispetto, e in ogni caso ho a cuorela serenità familiare. Preferirei
farmi uccidere, piuttosto cheessere causa di infelicità perAndrej e sua figlia… Vi prego, IvanMichajlovič, per amor di Dio,lasciatemi in pace. Torniamo aessere i buoni e cari amici di unavolta, e smettetela con questisospiri e questi gemiti che non vi siaddicono. La questione è risolta echiusa! Non parliamone più.Parliamo di qualcos’altro.
Sof’ja Petrovna guardò di nuovoin tralice il volto di Il’in. Il’inguardava in alto, era pallido e simordeva le labbra tremanti inpreda all’ira. La Lubjanceva noncapiva per cosa si fosse adirato e
perché fosse così sdegnato, ma ilsuo pallore la turbava.
– Non vi arrabbiate, siamoamici… – disse affettuosamente. –D’accordo? Qua la mano.
Il’in prese la piccola manopaffuta tra le sue, la strinse e laportò lentamente alle labbra.
– Non sono un ginnasiale, –brontolò. – L’amicizia con la donnaamata non mi lusinga affatto.
– Basta! Basta! La questione èrisolta e chiusa! Siamo arrivati allapanchina, sediamoci…
L’anima di Sof’ja Petrovna fucolmata da una dolce sensazione diquiete: la cosa più difficile e
spinosa era stata ormai detta, unatormentosa questione risolta echiusa. Ora poteva trarre unsospiro di sollievo e guardare Il’indritto in faccia. Lo guardava, e ilsentimento egoistico dellasuperiorità della donna amatasull’innamorato la blandivagradevolmente. Le piaceva che unuomo forte e grande, con un visovirile e cattivo e una gran barbanera, intelligente, colto e, a quantosi diceva, di talento, le sedesseaccanto obbediente e a testa bassa.Stettero seduti alcuni minuti insilenzio.
– Non è stato ancora risolto e
chiuso un bel niente… cominciòIl’in. – Sembra che leggiate da unlibro stampato: «Amo e rispettomio marito… i princìpi dellafamiglia…». So tutto ciò anchesenza di voi, anzi, posso dirvi dipiù. Onestamente e in tuttasincerità vi confesso che giudico ilmio comportamento delittuoso eimmorale. C’è forse bisogno di diredell’altro? Ma a che scopo ripetereciò che tutti sanno? Invece diinondarmi di parole pietose,fareste meglio a dirmi cosa devofare.
– Ve l’ho già detto: partite!– Sapete benissimo che sono già
partito cinque volte, e ogni voltasono tornato indietro a metàstrada! Posso mostrarvi i bigliettidel diretto, li ho ancora tutti,intatti. Non ho la volontà di fuggireda voi! Io lotto, lottotremendamente, ma a che diavoloserve, se mi manca la tempra, sonodebole, vile! Non posso lottarecontro la natura! Capite? Nonposso! Io fuggo da qui, ma essa mitrattiene per le falde della giacca. Èuna volgare, meschina debolezza!
Il’in arrossì, si alzò e si mise acamminare accanto alla panchina.
– Sono rabbioso come un cane! –borbottò, stringendo i pugni. – Mi
odio e mi disprezzo! Dio mio,insidio la donna di un altro comeun ragazzaccio depravato, scrivolettere idiote, mi umilio… ahh!
Il’in si afferrò la testa, grugnì e sisedette.
– E poi, la vostra ipocrisia! –continuò con amarezza. – Se sietecontro il mio gioco scorretto,perché siete venuta qui? Cosa vi ciha spinto? Nelle mie lettere vichiedo soltanto una rispostacategorica, netta: sì o no, e invecedi una risposta sincera ogni giornovoi fate di tutto per incontrarmi«casualmente» e mi ammannitecitazioni da libro stampato!
La Lubjanceva si spaventò eavvampò. Di colpo provòl’imbarazzo che deve invadere unadonna perbene quando vienesorpresa per caso senza vestiti.
– Sembra quasi che sospettiateun qualche gioco da parte mia… –mormorò. – Vi ho sempre datorisposte nette e… e oggi vi hosupplicato!
– Ah, che forse in questefaccende si supplica? Se mi avestedetto subito «andate via!», nonsarei più qui da un pezzo, ma voinon me l’avete detto. Non mi avetemai dato una risposta netta. Stranaindecisione! In fede mia, o vi
prendete gioco di me, o…Il’in non finì la frase e appoggiò
la testa sui pugni. Sof’ja Petrovnacominciò a ripercorrere il suocomportamento dall’inizio allafine. Ricordava che ogni giorno,non solo nelle azioni, ma anche neisuoi pensieri più riposti era statacontraria al corteggiamento diIl’in, ma al tempo stesso sentivache nelle parole dell’avvocato c’eraqualcosa di vero. E non sapendo diche verità si trattasse, per quantosi sforzasse di pensare, non sapevatrovare una risposta alle suelagnanze. Tacere eraimbarazzante, dunque disse
stringendosi nelle spalle:– Sicché, sarei anche colpevole.– Non vi faccio una colpa della
vostra ipocrisia, – sospirò Il’in. –L’ho detto così, tanto per dire.Questa ipocrisia è naturale e nell’ordine delle cose. Se tutta la gentesi mettesse d’accordo e di colpodivenisse sincera, andrebbe tutto arotoli, al diavolo.
Sof’ja Petrovna non era in venadi filosofeggiare, ma si rallegròdell’ occasione per cambiarediscorso e chiese:
– E perché?– Ma perché solo i selvaggi e le
bestie sono sinceri. Dal momento
che la civiltà ha introdotto nellavita la necessità di certe comoditàcome, ad esempio, la virtùfemminile, la sincerità è diventatasconveniente…
Il’in, in preda all’irritazione,cominciò a scavare col bastonenella sabbia. La Lubjanceva loascoltava e, sebbene non capissemolte cose, il suo discorso lepiaceva. Le piaceva soprattuttoche un uomo di talento parlasse alei, una semplice donna, «diqualcosa di intelligente»; e poi leprocurava una grande piacereguardare come si muoveva quelgiovane volto pallido, espressivo e
tuttora adirato. Molte cose non lecapiva, ma le appariva chiara lanobile audacia con cui l’uomomoderno, senza troppi dubbi etentennamenti, risolve i grandiproblemi e trae le conclusionidefinitive.
D’un tratto si accorse diammirarlo, e si spaventò.
– Scusate, ma non capisco, – siaffrettò a dire, – per quale motivovi siate messo a parlare diipocrisia. Vi ripeto ancora unavolta la mia preghiera: siate unamico caro, buono, lasciatemi inpace! Vi prego in tutta sincerità!
– Bene, continuerò a lottare! –
sospirò Il’in. – Solo, è improbabileche la mia lotta serva a qualcosa. Omi sparerò una pallottola in fronte,o invece… mi darò al bere nel piùstupido dei modi. Andròcomunque a finir male! Ogni cosaha un limite, anche la lotta controla natura. Dite, come si può lottarecontro la follia? Se bevete del vino,come potete vincere l’eccitazione?Cosa posso fare, se la vostraimmagine si è fissata alla miaanima e mi sta incessantementedavanti agli occhi, giorno e notte,come ora questo pino?Insegnatemi dunque quale attoeroico devo compiere per
liberarmi di questa condizioneabominevole, infelice, in cui tutti imiei pensieri, desideri, sogni nonappartengono a me, ma a qualchedemone che è penetrato dentro dime? Io vi amo, vi amo al punto chesono uscito dalla carreggiata, hoabbandonato il mio lavoro e lepersone care, ho dimenticato ilmio Dio! Mai nella vita avevoamato così!
Sof’ja Petrovna, nonaspettandosi che le coseprendessero una simile piega, siscostò da Il’in e lo guardò in visospaventata. Dagli occhi glisgorgavano le lacrime, gli
tremavano le labbra e su tutto ilvolto era diffusa un’espressionebramosa e supplichevole.
– Io vi amo! – mormorava,accostando gli occhi a quelli di lei,spalancati per la paura. – Siete cosìbella! Ora soffro, ma vi giuro chepasserei tutta la vita seduto così,soffrendo e guardandovi negliocchi! Ma… tacete, vi supplico!
Sof ‘ja Petrovna, quasi fossestata colta di sorpresa, cominciòsvelta svelta a cercare le parolecon cui poter fermare Il’in. «Me nevado!» decise, ma non ebbe iltempo di accennare il movimentodi alzarsi, che Il’in stava già in
ginocchio ai suoi piedi… Egli lecingeva le ginocchia, la guardavain viso e le parlava con passione eardore, fluentemente. In preda allapaura e alla confusione, lei nonsentiva le sue parole; chissà perchéora, in quel momento pericoloso,mentre le sue ginocchia eranopiacevolmente avvolte come in unbagno caldo, cercava con una certamalizia il senso dei proprisentimenti. Era irritata perché,invece di protestare la propriavirtù, tutto il suo essere eraricolmo di debolezza, pigrizia evuoto, come un ubriaco che se neinfischi di tutto; solo una parte di
sé piccolissima e lontana lastuzzicava malignamente dalprofondo dell’anima: «Ma perchénon te ne vai? Dunque le cosestanno proprio così? Sì?».
Cercando il senso dei proprisentimenti, non capiva come mainon avesse ritirato la mano allaquale Il’in si era attaccato comeuna sanguisuga, e per qualeragione, contemporaneamente alui, si fosse affrettata a guardare adestra e a sinistra, se mai qualcunoli stesse osservando. I pini e lenuvole erano immobili e liguardavano severi, come vecchisorveglianti che assistono a una
monelleria, ma in cambio di denarosi obbligano a non riferirla aisuperiori. La sentinella stavaimpalata sul terrapieno e guardavala panchina.
«Che guardi!» pensò Sof’jaPetrovna.
– Ma… ma ascoltate! – proferìinfine con voce disperata. – A cosacondurrà tutto ciò? Che accadràpoi?
– Non lo so, non lo so… –sussurrò lui, agitando la manocome per scacciare le domandesgradevoli.
Si sentì il fischio acuto e stridulodi una locomotiva.
Questo suono estraneo e freddodella prosaica vita quotidianariscosse la Lubjanceva.
– Non ho tempo… è ora! – disse,alzandosi in fretta. Ecco il treno…Sta arrivando Andrej! Devepranzare.
Sof’ja Petrovna si volse col visoin fiamme verso il terrapieno.Dapprima avanzò strisciandolentamente la locomotiva, dietroseguivano i vagoni. Non era iltreno locale, come pensava laLubjanceva, ma un merci. I vagonisi snodarono sullo sfondo biancodella chiesa uno dietro l’altro,come una lunga corda, e sembrava
non avessero fine!Ma ecco che finalmente giunse
la coda del treno, e l’ultimo vagonecon i fanali e il conduttorescomparve oltre il verde. Sof’jaPetrovna si girò bruscamente e,senza guardare Il’in, si avviòrapidamente indietro per ilsentiero. Aveva ormai ripreso ilcontrollo di sé. Rossa per lavergogna, offesa non da Il’in, no,ma dalla propria viltà,dall’impudenza con cui lei, unadonna virtuosa e onesta, avevapermesso a un estraneo diabbracciarle le ginocchia, orapensava a una sola cosa, come
tornare al più presto alla sua dacia,alla famiglia. L’avvocato riusciva amalapena a starle dietro.Svoltando dal sentiero in unostretto viottolo, gli gettòun’occhiata così rapida che videsoltanto la sabbia sulle sueginocchia, e gli fece cenno con lamano di lasciarla.
Tornata di corsa a casa, Sof’jaPetrovna rimase qualche minutoimmobile nella sua stanza,guardando ora la finestra, ora lasua scrivania…
– Disgraziata! – si rimproverava.– Disgraziata!
Quasi per dispetto, ricordò con
tutti i dettagli, senza tralasciarenulla, come in tutti quei giorniavesse rifiutato la corte di Il’in, mache qualcosa l’aveva spinta aspiegarsi con lui; anzi, quando eracaduto ai suoi piedi, ella avevaprovato uno straordinariasensazione di piacere. Ricordòtutto senza risparmiarsi ed ora,ansimando per la vergogna, sisarebbe presa volentieri a schiaffi.
«Povero Andrej» pensava,cercando nel ricordare il marito diassumere un’espressionepossibilmente tenera. «Varja,povera figlia mia, non sa chemadre ha! Perdonatemi, miei cari!
Vi amo tanto… tanto!».E, volendo dimostrare a se stessa
di essere ancora una buona mogliee madre, che il guasto non avevaancora intaccato quei «princìpi» dicui aveva parlato a Il’in, Sof’jaPetrovna corse in cucina e sgridòla cuoca per non avere ancoraapparecchiato la tavola per AndrejIl’ič. Cercò di immaginare l’ariaesausta e affamata del marito, locompianse ad alta voce eapparecchiò personalmente latavola per lui, cosa che prima nonaveva mai fatto. Quindi cercò lafiglia Varja, la prese in braccio el’abbracciò affettuosamente; la
bambina le sembrò scontrosa efredda, ma non volle ammetterlo esi mise a spiegarle quanto fossebuono, onesto e bravo il suo papà.
Tuttavia, quando poco dopoarrivò Andrej Il’ič, lo salutòappena. L’ondata di falsisentimenti era ormai passata senzadimostrarle niente, ma limitandosia irritarla e facendola stizzire perla loro ipocrisia. Sedeva accantoalla finestra, in preda allasofferenza e alla rabbia. Soltantonella disgrazia le persone possonocapire quanto sia difficile esserepadroni dei propri sentimenti e deipropri pensieri. In seguito Sof’ja
Petrovna raccontava che dentro dilei aveva luogo uno «scompiglio incui raccapezzarsi era difficile comecontare i passeri che sfrecciano nelcielo». Dal fatto, ad esempio, dinon essersi rallegrata dell’arrivodel marito e di non aver gradito ilsuo comportamento durante ilpranzo, ella concluse subito checominciava a odiarlo.
Andrej Il’ic, illanguidito dallafame e dalla stanchezza,aspettando che gli servissero laminestra si gettò sul salame e lomangiò con avidità, masticandorumorosamente e muovendo letempie.
«Dio mio» pensava Sof’jaPetrovna, «io lo amo e lo rispetto,ma… perché mastica in manieracosì rivoltante?».
Nei suoi pensieri c’era undisordine pari a quello dei suoisentimenti. La Lubjanceva, cometutti coloro che non sono avvezzi alottare con i pensieri sgradevoli,cercava con tutte le forze di nonriflettere sulla propria disgrazia, econ quanto più zelo si sforzava,tanto più nitido appariva nella suaimmaginazione Il’in, la sabbia sullesue ginocchia, le soffici nuvole, iltreno…
«Ma perché, sciocca, oggi ci
sono andata?» si tormentava. «Osono forse una di quelle personeche non sanno rispondere di sé?».
La paura ingigantisce le cose.Quando Andrej Il’ič era all’ultimaportata, ella aveva ormai preso lasua decisione: raccontare tutto almarito e sfuggire al pericolo!
– Andrej, ho bisogno di parlartiseriamente, – cominciò a dire dopopranzo, mentre il marito sitoglieva la giacca e gli stivali perstendersi a riposare.
– Ebbene?– Andiamo via di qui!– Mm… e dove? È ancora presto
per tornare in città.
– No, viaggiare, o qualcosa delgenere…
– Viaggiare… – borbottò ilnotaio, stirandosi. – È anche unmio sogno, ma dove prendere isoldi e a chi lasciare lo studio?
E, dopo qualche istante diriflessione, aggiunse: – In effetti,qui ti annoi. Parti da sola, se vuoi!
Sof’ja Petrovna acconsentì, masi rese subito conto che Il’in sisarebbe rallegrato dell’occasione esarebbe partito assieme a lei sullostesso treno, nello stesso vagone…Pensava e guardava il marito, sazioma tuttora languido. Chissà perchéil sua sguardo si soffermò sui suoi
piedi, minuscoli, quasi femminili,infilati in calzini a righe sulla cuipunta si arricciavano dei filetti…
Dietro la tenda abbassata unbombo batteva contro il vetro eronzava. Sof’ja Petrovna guardavai filetti, ascoltava il bombo e siimmaginava in viaggio… Vis–à–vissiede giorno e notte Il’in, senzadistogliere gli occhi da lei, adiratoper la propria impotenza e pallidoper la pena interiore. Egli si vantadi essere un ragazzaccio dissoluto,la rimprovera, si strappa i capelli,ma approfittando dell’oscurità ecolto l’attimo in cui i passeggeri siaddormentano o scendono a
qualche stazione, cade inginocchio davanti a lei e le stringele gambe, come allora sullapanchina…
Si accorse di fantasticare…– Ascolta, da sola non parto! –
disse. – Devi venire con me!– Quanti capricci, Sofočka! –
sospirò Lubjancev. – Bisognaessere seri e desiderare solo ciò cheè possibile.
«Verrai, quando saprai!» pensòSof’ja Petrovna.
Decisa a partire a qualunquecosto, si sentì fuori pericolo; i suoipensieri a poco a poco siriordinarono, ritornò allegra e si
permise persino di riesaminareogni cosa: per quanto pensasse efantasticasse, le sembravacomunque necessario partire!Mentre il marito dormiva, a poco apoco scese la sera… Lei suonava ilpiano in salotto. L’animazioneserale fuori delle finestre, il suonodella musica, ma soprattutto ilpensiero di essere una donnaassennata, di aver tenuto lontanauna sciagura, la rallegrarono deltutto. Al posto suo altre donne – lediceva la coscienza pacificata –avrebbero probabilmente ceduto esarebbero state trascinate nelvortice, mentre lei era quasi
bruciata per la vergogna, avevasofferto e ora fuggiva da unpericolo che forse non c’eraneppure! La sua virtù e la suarisolutezza la intenerirono alpunto che si guardò persino due otre volte allo specchio.
Quando fece buio arrivarono gliospiti. Gli uomini si misero agiocare a carte in sala da pranzo, lesignore occuparono il salotto e laterrazza. Per ultimo comparveIl’in. Era triste, cupo e sembravamalato. Si sedette in un angolo deldivano e vi rimase per tutta la sera.Solitamente allegro e loquace,questa volta tacque per tutto il
tempo, corrugando la fronte estrofinandosi il contorno degliocchi. Quando doveva rispondere aqualche domanda, sorrideva inmodo forzato con il solo labbrosuperiore e parlava a scatti,irritato. Quattro o cinque voltedisse una battuta, ma le suearguzie riuscirono rozze einsolenti. A Sof’ja Petrovnasembrava sul punto di scoppiare inuna crisi isterica. Soltanto ora,mentre sedeva al piano, si resechiaramente conto per la primavolta che quell’uomo infelice nonscherzava, che la sua anima eramalata e non trovava pace. Per
causa sua egli stava rovinando glianni migliori della carriera e dellagiovinezza, spendeva gli ultimisoldi per la dacia, lasciava in baliadella sorte la madre e le sorelle, masoprattutto si estenuava in unatormentosa lotta con se stesso. Peruna semplice questione di spiritoumanitario bisognava trattarloseriamente…
Si rese conto di tutto ciò tantochiaramente da averne una fitta alcuore, e se in quell’istante si fosseavvicinata ad Il’in e gli avesse detto«no!», la sua voce avrebbecontenuto una forza a cui sarebbestato difficile disobbedire. Ma non
gli si avvicinò e non disse nulla,non ci pensò neppure… Pareva chela meschinità e l’egoismo della suagiovane natura non si fossero maimanifestati in lei così forti comequella sera. Si rendeva conto cheIl’in era infelice e stava seduto suldivano come sui carboni ardenti, ledispiaceva per lui, ma nello stessotempo la presenza dell’uomo chel’amava fino a soffrirne colmava lasua anima di esultanza, dellasensazione della propria forza.Percepiva la propria giovinezza,bellezza, inaccessibilità e visto cheaveva deciso di partire! – quellasera si lasciò andare. Civettava,
rideva senza posa, cantava conparticolare sentimento eispirazione. Tutto la divertiva e lesembrava buffo. Le sembrava buffoil ricordo dell’episodio dellapanchina e della sentinella che liguardava. Le apparivano buffi gliospiti, le battute insolenti di Il’in,la spilla sulla sua cravatta, cheprima non aveva mai visto. Laspilla raffigurava un serpentellocon gli occhi di diamante; questoserpentello le sembrava così buffo,che sarebbe stata pronta a coprirlodi baci.
Sof ‘ja Petrovna cantava leromanze nervosamente, con una
sorta di fervore quasi ebbro e,come a voler stuzzicare il dolorealtrui, sceglieva quelle tristi,malinconiche, in cui si parlavadelle speranze perdute, delpassato, della vecchiaia… «Ma lavecchiaia si avvicina sempre più…»cantava. Ma a lei cosa importavadella vecchiaia?
«Credo che mi stia succedendoqualcosa di brutto…» pensava ditanto in tanto attraverso il riso e ilcanto.
Gli ospiti si congedarono amezzanotte. Per ultimo se ne andòIl’in. Sof’ja Petrovna ebbe ancoral’ardire di accompagnarlo fino
all’ultimo gradino della terrazza.Le era venuta voglia di spiegargliche sarebbe partita assieme almarito e di vedere che effettoavrebbe prodotto in lui questanotizia.
La luna era nascosta dietro lenuvole, ma c’era tanta luce cheSof’ja Petrovna distingueva le faldedel cappotto di Il’in e le tende dellaterrazza agitate dal vento. Sivedeva anche quanto fosse pallidoIl’in e come, sforzandosi disorridere, storcesse il labbrosuperiore…
– Sonja, Sonečka… mia adorata!– egli mormorò, impedendole di
parlare. – Mia cara, mia dolce!In un impeto di tenerezza, con la
voce velata dalle lacrime, lainondava di parole affettuose, unapiù tenera dell’altra, e le dava del«tu», come a una moglie o aun’amante. Inaspettatamente perlei, a un tratto le cinse la vita conuna mano e con l’altra l’afferrò peril gomito.
– Cara, mia delizia… – sussurrò,baciandola sul collo vicino allanuca, – sii sincera, vieni subito viacon me!
Ella si divincolò dall’abbraccio esollevò la testa per dare sfogo allasua indignazione e protestare, ma
l’indignazione non proruppe, etutta la sua celebrata virtù epurezza valsero solo a farlepronunciare la frase che in similicircostanze dicono tutte le donnecomuni:
– Siete impazzito!– Davvero, andiamo! – continuò
Il’in. – Ora, e laggiù, accanto allapanchina, mi sono convinto chevoi siete debole quanto me, Sonja…Neanche voi ce la farete! Voi miamate, e ora cercate invano divenire a patti con la vostracoscienza…
Vedendo che si stava scostandoda lui, egli l’afferrò per la manica di
pizzo e finì di dire in fretta:– Se non sarà oggi sarà domani,
ma dovrete cedere! A che servequesto indugio? Mia cara, dolceSonja, la sentenza è statapronunciata, a che pro rimandarnel’esecuzione? Perché ingannare sestessi?
Sof’ja Petrovna si staccò da lui escivolò in casa. Tornata in salotto,chiuse macchinalmente il piano,guardò a lungo lo spartito e sisedette. Non riusciva a stare inpiedi, né a pensare… Del grandeeccitamento e del fervore le erarimasta soltanto una terribiledebolezza, pigrizia e noia. La
coscienza le sussurrava che nellaserata appena trascorsa si eracomportata male, da sciocca, comeuna ragazzina bisbetica, che erastata appena abbracciata sullaterrazza, e sentiva ancora conimpaccio la stretta alla vita eattorno al gomito. In salotto nonc’era anima viva, ardeva un’unicacandela. La Lubjanceva sedevasullo sgabello rotondo davanti alpiano, senza muoversi, in attesa diqualcosa. E come approfittandodella sua estrema stanchezza edell’oscurità, cominciò a invaderlaun desiderio profondo eirresistibile. Come un serpente
boa, esso le bloccava le membra el’anima, cresceva di secondo insecondo e ormai non la minacciavapiù come prima, ma le stavadavanti chiaro, in tutta la suanudità.
Rimase seduta mezz’ora, senzamuoversi e senza impedirsi dipensare a Il’in, quindi si alzòpigramente e s’incamminò lentaverso la camera da letto. AndrejIl’ič si era già coricato. Ella sedetteaccanto alla finestra aperta e siabbandonò al desiderio. Non avevapiù «scompiglio» nella testa, tutti isuoi sentimenti e pensieri siaffollavano concordi attorno a uno
scopo unico e chiaro. Provò ancoraa lottare, ma subito rinunciò…Adesso le era chiaro quanto forte eimplacabile fosse il nemico. Percombatterlo era necessaria forza etenacia, ma la nascita, l’educazionee la vita non le avevano dato nullaa cui potersi appoggiare.
«Immorale! Infame!» sitormentava per la propriadebolezza. «È dunque così chesei?».
La sua onestà offesa era cosìsdegnata da questa debolezza, chesi apostrofò con tutte le paroleingiuriose che conosceva e si dissemolte verità offensive, umilianti.
Così, si diceva di non essere maistata una donna virtuosa, di nonessere caduta prima solo perchénon ne aveva avuto l’occasione,che la sua lotta di tutto quel giornoera stata un divertimento, unacommedia…
«Ammettiamo pure che io abbialottato» pensava, «ma che razza dilotta è stata! Anche le prostitutelottano prima di vendersi, ma sivendono comunque. Che bellalotta: andata a male in un giornocome il latte! In un giorno!».
Scoprì che non era il sentimentoa spingerla via da casa, né lapersonalità di Il’in, ma le
sensazioni che avrebbe provato infuturo… Una signora invilleggiatura, una donna dissolutacome ce ne sono tante!
«Quando la ma-adre uccisero alpi-iccolo uccellino» si sentìcantare qualcuno con forte voce ditenore oltre la finestra.
«Se bisogna partire, è tempo»pensò Sof’ja Petrovna.
Di colpo il cuore cominciò abatterle con una forza inaudita.
– Andrej! – gridò quasi. –Ascolta, noi… noi partiremo?Vero?
– Sì, sì… Te l’ho già detto: partida sola!
– Ma ascolta… – disse, – se tunon verrai con me, rischi diperdermi! Penso di essere già…innamorata!
– Di chi? – chiese Andrej Il’ič.– A te non deve importare di chi!
– gridò Sof’ja Petrovna.Andrej Il’ič si alzò, lasciò
penzolare le gambe fuori dal letto eguardò meravigliato la scurasagoma della moglie.
– Fantasie! – sbadigliò.Gli riusciva difficile crederci, ma
comunque si spaventò. Dopo avereriflettuto e avere rivolto allamoglie alcune domande pocoimportanti, espose il suo punto di
vista sulla famiglia, sultradimento… parlò fiaccamenteper una decina di minuti e sicoricò. Le sue sentenze non ebberoeffetto. A questo mondo ci sonotante opinioni, e una buona metàdi esse appartengono a gente chenon è mai stata infelice!
Nonostante l’ora tarda, in stradasi vedevano ancora passare deivilleggianti. Sof’ja Petrovna sigettò sulle spalle una mantellinaleggera, rimase un po’ in piedi apensare… Ebbe ancora larisolutezza di dire al maritoassonnato:
– Dormi? Vado a fare due passi…
Vuoi venire con me?Era la sua ultima speranza. Non
avendo ricevuto risposta, uscì.C’era vento e l’aria era fresca.Senza percepire né il vento, nél’oscurità, ella andava, andava…Una forza invincibile la spingeva ele pareva che, se si fosse fermata,l’avrebbe sospinta da dietro.
– Immorale! – mormoravamacchinalmente. – Infame!
Soffocava, ardeva per lavergogna, non si sentiva più legambe, ma ciò che la spingeva inavanti era più forte della vergogna,della ragione, della paura…
L’insegnante di lettere
Sul pavimento di travi si sentì
uno scalpitio di zoccoli; per primovenne condotto fuori dallascuderia il morello Conte Nulin7,quindi fu la volta del biancoGigante e infine di sua sorellaMaggiolina. Erano tutti cavallieccellenti e pregiati. Il vecchioŠelestov sellò Gigante e disse,
rivolto alla figlia Maša:– Ebbene, Marie Godefroy, in
sella. Oplà!Maša Šelestova era la più
giovane della famiglia; sebbeneavesse già compiuto diciotto anni,in casa non avevano ancora persol’abitudine di considerarla unabambina e continuavano perciò achiamarla Manja e Manjusja; daquando poi in città aveva fattososta il circo, da lei frequentatocon grande assiduità, tutti avevanocominciato a soprannominarlaMarie Godefroy.
– Oplà! – ella gridò, salendo ingroppa a Gigante.
Sua sorella Varja montò suMaggiolina, Nikitin sul ConteNulin, gli ufficiali sui loro cavalli ela lunga e bella cavalcata, ravvivatadalle macchie delle candide giubbedegli ufficiali e dei neri costumidelle amazzoni, si dispiegò al passofuori del cortile.
Nikitin notò che mentremontavano a cavallo e poiuscivano in strada, chissà perchéManjusja prestava attenzione soloa lui. Guardava inquieta lui e ilConte Nulin, e diceva:
– Voi, Sergej Vasil’ič, tenetelosempre per il morso. Non lasciateche si adombri. Fa solo finta.
E vuoi perché il suo Gigante erain grande amicizia col Conte Nulin,vuoi per caso, ella, come il giornoavanti e due giorni prima,cavalcava sempre accanto aNikitin. Lui guardava il suo corpominuto e snello in sella al fieroanimale bianco, il profilo delicato,il cilindro che non le donava affattoe la faceva più vecchia di quantonon fosse, la guardava con gioia,con commozione, con entusiasmo,l’ascoltava senza capire molto diquanto dicesse, e pensava:
«Parola d’onore, giuro davanti aDio che non sarò timido e oggistesso mi dichiarerò…».
Erano ormai passate le sei disera – l’ora in cui l’acacia bianca e illillà esalano un aroma tanto forte,che l’aria e gli alberi stessisembrano intorpiditi dal loroprofumo. Nel giardino pubblico giàrisuonava la musica. I cavallibattevano sonoramente gli zoccolisul selciato; da tutte le parti sisentivano risa, voci, sbattere dicancelletti. I soldati cheincrociavano facevano il saluto agliufficiali, i ginnasiali si inchinavanoa Nikitin, ed era evidente che atutti coloro che passeggiavano e siaffrettavano nel giardino a sentirela musica faceva molto piacere
veder passare la cavalcata. Ecom’era tiepida l’aria, comeapparivano soffici le nuvolesparpagliate disordinatamente nelcielo, com’erano dolci econfortevoli le ombre dei pioppi edelle acacie, ombre che siallungavano per tutta la larghezzadella strada e salivano fino aibalconi e ai primi piani delle casedalla parte opposta!
Uscirono dalla città e siavviarono al trotto per un’ampiastrada. Qui non c’era più l’aromadelle acacie e del lillà, non sisentiva la musica, ma in compensoc’era l’odore dei campi,
verdeggiavano la segala e il granonovelli, squittivano le arvicole,gracidavano i gracchi. Ovunquevagasse lo sguardo, dappertuttoera verde, soltanto qua e lànereggiavano i cocomeri e lontano,sulla sinistra, nel cimiterobiancheggiava una striscia di meliche stavano ormai sfiorendo.
Passarono davanti al mattatoio,quindi davanti alla fabbrica dibirra, superarono un folto gruppodi soldati della banda che siaffrettavano verso il parco fuoricittà.
– Poljanskij ha un ottimocavallo, non discuto, – diceva
Manjusja a Nikitin, indicando congli occhi l’ufficiale che cavalcavaaccanto a Varja. – Ma è un cavallodi scarto. Quella macchia biancasulla zampa sinistra èassolutamente fuori posto, e poi,guardate, rovescia la testaall’indietro. Ormai non c’è verso ditogliergli il vizio, e la rovesceràfinché non sarà crepato.
Manjusja era appassionata dicavalli come suo padre.
Soffriva quando vedevaqualcuno con un buon cavallo, edera contenta nel trovare qualchedifetto nei cavalli altrui. Nikitininvece non ne capiva nulla, per lui
era decisamente indifferentetenere un cavallo per le briglie oper il morso, cavalcare al trotto oal galoppo; sentiva soltanto diavere una posa innaturale, rigida, eche perciò gli ufficiali chesapevano tenersi in sella dovevanopiacere a Manjusja più di lui. E neera geloso.
Mentre passavano accanto alparco fuori città, qualcunopropose di farvi una capatina perbere dell’acqua di seltz. Cosìfecero. Nel parco crescevanosoltanto querce; solo da pocoavevano cominciato a germogliare,sicché ora attraverso le giovani
foglie si scorgeva tutto il giardinocon il palco, i tavolini, le altalene, sivedevano tutti i nidi dellecornacchie, simili a grandi berretti.I cavalieri e le loro dame siaffrettarono attorno a uno deitavolini e ordinarono dell’acqua diseltz. Cominciarono ad avvicinarsiloro i conoscenti chepasseggiavano nel parco. Tra glialtri si accostarono il medicomilitare con un paio di alti stivali eil direttore d’orchestra, in attesadei suoi musicisti. Il medicodovette scambiare Nikitin per unostudente, perché gli chiese:
– Siete venuto per le vacanze?
– No, vivo qui stabilmente, –rispose Nikitin. – Insegno alginnasio.
– Davvero? – si meravigliò ilmedico. – Così giovane e giàinsegnate?
– Come giovane? Ho ventiseianni… Ringraziando Iddio.
– Avete barba e baffi, maall’aspetto non vi si possono darepiù di ventidue, ventitré anni. Nondimostrate proprio la vostra età!
«Che porcheria!» pensò Nikitin.«Anche questo mi considera unosbarbatello!».
Trovava insopportabile chequalcuno portasse il discorso sulla
sua giovane età, soprattutto inpresenza di donne o di ginnasiali.Da quando era arrivato in quellacittà e aveva preso servizio, avevacominciato a odiare il suo aspettogiovanile. I ginnasiali non lotemevano, i vecchi lo trattavanocome un giovanetto, le donnepreferivano ballare con lui,piuttosto che ascoltare i suoilunghi ragionamenti. E chissàquanto avrebbe pagato perinvecchiare di una decina d’anni.
Dal parco proseguirono verso lafattoria degli Šelestov.
Qui si fermarono accanto alportone, chiamarono Praskov’ja, la
moglie del fattore, e ordinarono dellatte appena munto. Il latte poinessuno lo bevve, tutti siscambiarono occhiate, si misero aridere e galopparono indietro.Mentre tornavano, nel parco giàrisuonava la musica; il sole si eranascosto dietro il cimitero e iltramonto imporporava metà delcielo.
Manjusja cavalcava di nuovoaccanto a Nikitin. Lui volevacominciare a dirle con quantapassione l’amasse, ma temeva diessere udito dagli ufficiali e daVarja, e taceva. Anche Manjusjataceva, ed egli sentiva perché stava
in silenzio e perché procedeva alsuo fianco, ed era così felice che laterra, il cielo, le luci della città, lanera sagoma della fabbrica di birra– tutto si fondeva ai suoi occhi inqualcosa di bello e dolce, e glisembrava che il suo Conte Nulin silibrasse in aria e volessearrampicarsi su nel cielo diporpora.
Giunsero a casa. Sul tavolo delgiardino già bolliva il samovar e aun’estremità del tavolo, incompagnia dei suoi amici,funzionari del tribunaledistrettuale, sedeva il vecchioŠelestov, intento come al solito a
criticare qualcosa.– Questa è malcreanza! – diceva.
– Malcreanza e niente altro.Sissignori, proprio malcreanza!
Da quando si era innamorato diManjusja, a Nikitin piaceva tuttodegli Šelestov: la casa, il giardinoche la circondava, il tè serale, lesedie di vimini, la vecchia balia epersino la parola «malcreanza»,che il vecchio amava pronunciarespesso. L’unica cosa che non glipiaceva era la grande abbondanzadi cani e gatti, e i colombi egiziani,che gemevano tristemente in unagrande gabbia sulla terrazza.C’erano talmente tanti cani da
cortile e da salotto, che per tutto iltempo della sua conoscenza con gliŠelestov egli imparò ariconoscerne solo due: Muška eSom. Muška era una cagnettaspelacchiata dal muso peloso,cattiva e viziata. Odiava Nikitin;ogni volta che lo vedeva piegava latesta di lato, digrignava i denti ecominciava: «rrr… nga-nga-nga-nga… rrr…».
Quindi si accucciava sotto la suasedia. Quando Nikitin tentava dicacciarla via di lì, quellaprorompeva in un latratolacerante, e i padroni dicevano:
– Non abbiate paura, non morde.
È buona.Som invece era un enorme cane
nero, con lunghe zampe e unacoda rigida come un bastone. Disolito durante il pranzo e il tè siaggirava in silenzio sotto la tavolae sbatteva la coda contro gli stivalie le zampe della tavola. Era un canebuono e stupido, ma Nikitin nonpoteva soffrirlo, perché aveval’abitudine di poggiare il musosulle ginocchia dei commensali e diimbrattarne i calzoni di bava. Più diuna volta egli aveva provato acolpirlo sull’ampia fronte colmanico del coltello, gli dava deicolpetti sul naso, lo sgridava, si
lamentava, ma nulla riusciva asalvare i suoi calzoni dallemacchie.
Dopo la passeggiata a cavallo, iltè, la marmellata, i biscotti e ilburro sembrarono squisiti. Ilprimo bicchiere lo bevettero tutticon gran gusto e in silenzio, maprima del secondo cominciarono adiscutere. Le discussioni durante ilpranzo e il tè venivano avviateimmancabilmente da Varja. Avevagià ventitré anni, era bella, piùgraziosa di Manjusja, venivaconsiderata la più intelligente eistruita della casa e aveva uncomportamento serio, rigoroso,
come si addiceva a una sorellamaggiore che in casa occupava ilposto della madre morta. In virtùdei suoi diritti di padrona di casa, sipresentava agli ospiti in blusa,chiamava gli ufficiali percognome8, considerava Manjusjauna bambina e le parlava col tonodi una istitutrice. Si definiva unavecchia zitella, segno che eraconvinta che si sarebbe sposata.
Era capace di volgere
immancabilmente in disputaqualsiasi conversazione, persinosul tempo. Aveva come la passionedi prendere tutti in parola, di
coglierli in contraddizione, dicavillare su ogni frase.Cominciavate a parlare con lei diqualcosa, e lei già vi guardava fissoin volto e a un tratto viinterrompeva: «Permettete,permettete, Petrov, ieri l’altrodicevate esattamente il contrario!»
Oppure sorrideva ironica ediceva: «Noto però che cominciatea predicare i princìpi della terzasezione9. Mi congratulo».
Se avevate detto un’arguzia o uncalembour, sentivate subito la suavoce: «È vecchia!» oppure: «Èbanale!». Se poi a dire la battutaera un ufficiale, allora faceva una
smorfia sdegnata e diceva: «Spiritoda caserrrma!».
E quel «rrr» le usciva cosìsuggestivo, che immancabilmenteMuška le faceva eco da sotto lasedia: «rrr… nga-nga-nga»…
Ora la disputa del tè aveva presoavvio da un accenno di Nikitin agliesami del ginnasio.
– Permettete, Sergej Vasil’ič, – lointerruppe Varja. Dunque voi diteche gli studenti incontranodifficoltà. Ma chi ne ha colpa,permettetemi di chiedervi? Adesempio, avete dato agli alunnidell’ottava classe uncomponimento sul tema: «Puškin
come psicologo». In primo luogonon si possono dare temi cosìdifficili, e in secondo luogo, chepsicologo è mai Puškin? Beh,Šcedrin o, ad esempio, Dostoevskijsono un altro paio di maniche, maPuškin è un grande poeta e nientealtro.
– Šcedrin è una cosa, e Puškinun’altra, – rispose tetro Nikitin.
– Lo so, da voi al ginnasio non siriconosce Šcedrin, ma non èquesto il punto. Ditemi dunque,che psicologo è mai Puškin?
– Non è forse uno psicologo?Permettetemi di portarvi degliesempi.
E Nikitin cominciò a declamarealcuni passi dell’Onegin, quindi delBoris Godunov.
– Non ci vedo nessunapsicologia, – sospirò Varja. – Sichiama psicologo colui chedescrive i meandri dell’animoumano, mentre questi sonosplendidi versi e nulla più.
– Lo so io di quale psicologiaavete bisogno! – si offese Nikitin. –Avete bisogno che qualcuno miseghi un dito con una segasmussata e che mi metta a urlare asquarciagola – ecco la vostrapsicologia.
– Banale! Tuttavia, non mi avete
ancora dimostrato perché Puškinsarebbe uno psicologo.
Quando a Nikitin capitava dicontestare ciò che gli sembravaroutine, grettezza mentale oqualcosa di simile, di solito sialzava di scatto dal suo posto, siafferrava la testa con tutte e due lemani e si metteva a correregemendo da un angolo all’altrodella stanza. Anche adesso fu lostesso: saltò su, si afferrò la testa egirò gemendo attorno alla tavola,quindi si sedette un po’ discosto.
In sua difesa intervennero gliufficiali. Il capitano Poljanskijprese a convincere Varja che
davvero Puškin era uno psicologoe, a dimostrazione di ciò, citò dueversi di Lermontov; il tenenteGernet affermò che se Puškin nonfosse stato psicologo, non gliavrebbero certo eretto unmonumento a Mosca.
– Questa è malcreanza! –giungeva dall’altro capo dellatavola. – Così ho detto algovernatore: questa, vostraeccellenza, è malcreanza!
– Non discuto più! – gridòNikitin. – Altrimenti si rischia difinire alle calende greche! Basta! Etu vattene via, sporco cane! – gridòa Som, che gli aveva appoggiato la
testa e una zampa sulle ginocchia.«Rrr… nga-nga-nga»… si sentì da
sotto la sedia.– Ammettete di avere torto! –
gridò Varja. – Ammettetelo!Ma sopraggiunsero in visita
delle signorine, e la disputa siinterruppe da sé. Tutti passarononel salone. Varja sedette al piano ecominciò a suonare dei ballabili. Siballò dapprima un valzer, poi unapolca, poi una quadriglia col grand–rond, che il capitano Poljanskijguidò per tutte le stanze, quindi sitornò a eseguire un valzer.Durante le danze i vecchi sedevanonel salone, fumando e guardando
la gioventù. Tra loro si trovavaanche Šebaldin, direttoredell’istituto di credito cittadino,famoso per il suo amore per laletteratura e l’arte scenica. Avevafondato il locale «Circolo musical–drammatico» e prendeva lui stessoparte agli spettacoli, interpretandochissà perché sempre e soltanto laparte del servitore ridicolo oleggendo a cantilena Lapeccatrice10. In città lo chiamavanomummia, giacché era alto, assaimagro e scarno, e aveva sempreun’espressione solenne sul volto eocchi torbidi e immobili. Amavacosì sinceramente l’arte scenica,
che si radeva persino la barba e ibaffi, rendendosi ancora più similea una mummia.
Dopo il grand–rond egli siavvicinò esitante, quasi ditraverso, a Nikitin, diede un colpodi tosse e disse:
– Ho avuto il piacere di assisterealla disputa durante il tè.Condivido pienamente la vostraopinione. La pensiamo allo stessomodo, e mi farebbe molto piacerescambiare quattro chiacchiere convoi. Avete letto la Drammaturgia diAmburgo di Lessing?
– No, non l’ho letta.Šebaldin inorridì e agitò le mani
come se si fosse bruciato le dita,quindi, senza proferir verbo,indietreggiò, scostandosi daNikitin. La figura di Šebaldin, la suadomanda e la meraviglia apparveroridicoli a Nikitin, che tuttaviapensò:
«È veramente imbarazzante.Sono insegnante di lettere e nonho ancora letto Lessing. Bisogneràfarlo».
Prima di cena tutti, giovani evecchi, si misero a giocare alla«sorte». Si presero due mazzi dicarte: uno fu distribuito in partiuguali fra tutti i presenti, l’altro fuposato sul tavolo col dorso verso
l’alto.– A chi ha in mano questa carta,
– cominciò solennemente ilvecchio Šelestov, sollevando laprima carta del secondo mazzo, –tocca di andare subito nella stanzadei bambini e baciare la balia.
Il piacere di baciare la baliatoccò in sorte a Šebaldin.
Tutti fecero ressa attorno a lui,
lo condussero nella stanza deibambini e, tra risa e battimani, locostrinsero a baciare la balia. Silevarono schiamazzi, grida…
– Non così appassionatamente! –gridava Šelestov, piangendo per le
troppe risa. – Non cosìappassionatemente!
A Nikitin toccò di confessaretutti. Dopo che ebbe preso postosu una sedia al centro del salone,gli portarono uno scialle e glicoprirono la testa. Per primavenne a confessarsi Varja.
– Conosco i vostri peccati, –cominciò Nikitin, guardandonell’oscurità il suo profilo severo. –Ditemi, signora, per quale ragionepasseggiate ogni giorno conPoljanskij? Oh, non per nulla, nonper nulla si va con un ussaro!
– Banale, – disse Varja e siallontanò.
Poi sotto lo scialle brillarono deigrandi occhi immobili,nell’oscurità si delineò un dolceprofilo e si diffuse un profumocaro, da tempo familiare, chericordava a Nikitin la stanza diManjusja.
– Marie Godefroy, – disse luisenza riconoscere la propria voce,tanto era tenera e dolce, – in cosaavete peccato?
Manjusja socchiuse gli occhi egli mostrò là punta della lingua,poi scoppiò a ridere e si allontanò.Un istante dopo stava già in mezzoal salone, batteva le mani egridava:
– A cena, a cena, a cena!E tutti si diressero verso la sala
da pranzo.Durante la cena Varja cominciò
nuovamente a discutere, questavolta col padre. Poljanskijmangiava di gusto, beveva vinorosso e raccontava a Nikitin comeuna volta, d’inverno, in guerra,fosse rimasto tutta la notteimmerso fino alle ginocchia in unapalude; il nemico era vicino, sicchéera proibito parlare e fumare, lanotte era fredda, buia, soffiava unvento penetrante. Nikitinascoltava e con la coda dell’occhioguardava Manjusja. Lei lo scrutava
immobile, senza batter ciglio,come se fosse soprappensiero odistratta… Per lui era piacevole epenoso insieme.
«Perché mi guarda così?» sitormentava. «È imbarazzante.Possono accorgersene. Ah, com’èancora giovane, com’è ingenua!».
Gli ospiti cominciarono adandarsene a mezzanotte. QuandoNikitin uscì dal portone, al primopiano della casa sbatté unafinestrella e apparve Manjusja.
– Sergej Vasil’ič! – lo chiamò.– Cosa desiderate?– Ecco… – fece Manjusja,
chiaramente intenta a inventare
qualcosa da dire. – Ecco… Poljanskijha promesso di venire a giorni conla sua macchina fotografica e difotografarci tutti. Bisogneràriunirsi.
– Bene.Manjusja sparì, la finestra
sbatté, e subito dopo in casaqualcuno si mise a suonare ilpiano.
«Che casa!» pensava Nikitin,attraversando la strada. «Una casadove solo i colombi egizianigemono, e anche quelli perché nonsanno esprimere altrimenti la lorogioia!».
Ma non solo dagli Šelestov si
viveva allegramente. Nikitin nonaveva ancora percorso duecentometri, che da un’altra casagiunsero gli accordi di unpianoforte. Camminò ancora unpo’ e accanto a un portone scorseun contadino che suonava labalalajka. Nel giardino pubblicol’orchestra intonò un pot–pourri dicanzoni russe…
Nikitin abitava a mezza verstadagli Šelestov, in un appartamentodi otto stanze che aveva affittatoper trecento rubli all’anno insiemea un collega, l’insegnante digeografia e storia Ippolit Ippolityč.Questo Ippolit Ippolityč, uomo
non ancora vecchio, con unabarbetta rossiccia, il naso all’insù eil viso rozzo e ottuso come quellodi un artigiano, ma bonario,quando Nikitin tornò a casa sedevaal tavolo della sua stanza ecorreggeva le cartine dei suoiallievi. In geografia egliconsiderava la cosa più necessariae importante il disegno delle carte,e in storia la conoscenza dellacronologia; sedeva intere nottiintento a correggere le cartinedegli allievi e delle allieve con unamatita blu o a compilare tavolecronologiche.
– Che tempo splendido, oggi! –
disse Nikitin entrando nella suastanza. – Mi meraviglio di comepossiate starvene chiuso incamera.
Ippolit Ippolityč era un uomotaciturno; o taceva, o parlava dicose che tutti sapevano da unpezzo. Ora rispose così:
– Sì, un tempo splendido. Adessoè maggio, presto sarà proprioestate. E l’estate non è l’inverno.D’inverno bisogna accendere lestufe, mentre d’estate fa caldoanche senza stufe. D’estate apri lafinestra di notte, e fa comunquecaldo, mentre d’inverno, con ledoppie finestre, fa comunque
freddo.Nikitin rimase seduto accanto al
tavolo non più di un minuto, e fuinvaso dalla noia.
– Buona notte! – disse, alzandosie sbadigliando. – Volevoraccontarvi qualcosa di romanticoche mi riguarda, ma voi avete lavostra geografia! Se cominciassi aparlarvi d’amore, direste subito:«In che anno c’è stata la battagliasul fiume Kalka?».11 Al diavolo voi,le vostre battaglie e le vostrepenisole dei Čukči!
– Perché vi arrabbiate?– Ma sì, è irritante!E stizzito per non essersi ancora
dichiarato a Manjusja e per nonavere nessuno con cui parlare oradel suo amore, se ne andò nellostudio e si sdraiò sul divano. Lostudio era buio e silenzioso. Standodisteso e guardando nell’oscurità,Nikitin cominciò chissà perché apensare che tra due o tre annisarebbe andato per qualche motivoa Pietroburgo, che Manjusja loavrebbe accompagnato allastazione e avrebbe pianto; aPietroburgo avrebbe ricevuto dalei una lunga lettera in cui loavrebbe supplicato di tornare acasa quanto prima. Ed egli leavrebbe scritto… La sua lettera
sarebbe iniziata così: cara topolinamia…
– Proprio così, cara topolinamia, – disse e si mise a ridere.
Sdraiato stava scomodo. Mise lemani sotto la testa e sollevò lagamba sinistra sulla spalliera deldivano. Così si sentì a suo agio.Intanto la finestra avevacominciato a impallidirevisibilmente, in cortile si levaronogli schiamazzi dei galli assonnati.Nikitin continuava a pensare acome sarebbe tornato daPietroburgo, a come Manjusja loavrebbe accolto alla stazione e, conun grido di gioia, gli avrebbe
buttato le braccia al collo; oppure,ancora meglio, avrebbe giocatod’astuzia: sarebbe arrivato di nottequatto quatto, si sarebbe fattoaprire dalla cuoca, quindi sarebbeentrato in punta di piedi in camerada letto, si sarebbe spogliato senzafare rumore e poi – patapumfete,nel letto! Lei si sarebbe svegliata e– oh, gioia!
L’aria si era fattacompletamente bianca. Non c’erapiù né lo studio né la finestra. Sulterrazzino d’ingresso della fabbricadi birra, la stessa davanti alla qualeerano passati quel giorno, sedevaManjusja e diceva qualcosa. Poi
prese Nikitin sotto braccio e andòinsieme a lui nel parco fuori città.Là egli vide le querce e i nidi dellecornacchie, simili a berretti. Unnido cominciò a dondolare, ne fececapolino Šebaldin e gridò forte:«Non avete letto Lessing!».
Nikitin rabbrividì in tutto ilcorpo e aprì gli occhi. Davanti aldivano stava ritto Ippolit Ippolityče, con la testa all’indietro, simetteva la cravatta.
– Alzatevi, è ora di andare alavorare, – disse. – E poi non si puòdormire vestiti. Così l’abito sisciupa. Bisogna dormire nel letto,dopo essersi spogliati…
E, al solito, cominciò a parlarelungamente e in tono posato dicose ben note a tutti da un pezzo.
La prima lezione di Nikitin era dilingua russa, nella seconda classe.Quando alle nove precise egli feceil suo ingresso in questa classe, là,sulla lavagna, erano scritte colgesso due grandi lettere: M.S., chestavano con tutta probabilità perMaša Šelestova.
«Hanno già subodorato la cosa,canaglie…» pensò Nikitin. «Macome fanno a sapere tutto?».
La seconda ora, di letteratura,era in quinta. Anche qui sullalavagna c’era scritto M.S., e
quando, finita la lezione, egli uscìdalla classe, alle sue spalle risuonòun urlo, come nel loggione di unteatro:
– Urrà–à–à! Šelestova!!L’aver dormito vestito gli aveva
lasciato un leggero mal di capo e ilcorpo pervaso da un indolentesfinimento. Gli alunni, cheaspettavano da un giorno all’altroche le lezioni fossero sospeseprima degli esami, non facevanoniente, languivano per la noia ecombinavano monellerie. AncheNikitin languiva per la noia, nonfaceva caso alle monellerie e diquando in quando si accostava alla
finestra. Di là vedeva la strada,vivamente illuminata dal sole.Sopra le case il cielo azzurro,trasparente, gli uccelli, e in unpunto remoto, oltre i verdi giardinie le case, una vasta, infinitalontananza con i boschettiazzurrini e il fumo di un treno incorsa…
Ecco che in strada, all’ombradelle acacie, sono passati dueufficiali in giubba bianca intenti agiocherellare coi frustini. Eccopassare su un break un gruppo diebrei con barba bianca e berretto.Una governante passeggia con lanipotina del direttore… Som è
corso chissà dove in compagnia didue bastardi… Ed ecco, in unsemplice abito grigio e calze rosse,tenendo in mano il «Messaggerod’Europa», è passata Varja.Probabilmente è di ritorno dallabiblioteca civica…
Le lezioni non sarebbero finitetanto presto, alle tre! E dopo lelezioni non si poteva andare a casa,e nemmeno dagli Šelestov, mabisognava recarsi da Vol’f per laripetizione. Questo Vol’f, un riccoebreo convertitosi al luteranesimo,non mandava i figli al ginnasio, mafaceva venire a casa gli insegnantidel ginnasio e pagava cinque rubli
a ripetizione…«Che noia! Che noia! Che noia!».Alle tre si recò da Vol’f, dove
restò, o almeno così gli parve, perun’eternità. Ne uscì alle cinque, ealle sette doveva già essere diritorno al ginnasio per il consigliodei professori: bisognava redigerel’orario degli esami orali dellaquarta e della sesta classe!
Mentre, a tarda sera, si stavarecando dal ginnasio a casaŠelestov, il cuore gli batteva forte eaveva il volto in fiamme. Se unasettimana o un mese prima ognivolta, accingendosi a fare la suadichiarazione, preparava tutto un
discorso con tanto di prologo edepilogo, adesso non aveva prontaneppure una parola, nella testaaveva una gran confusione esapeva soltanto che quel giorno sisarebbe sicuramente dichiarato eche non poteva assolutamenteaspettare più a lungo.
«La inviterò in giardino» andavameditando, «e dopo una brevepasseggiata mi dichiarerò…».
In anticamera non c’era animaviva; entrò nel salone, quindi insala da pranzo… Neanche là c’eranessuno. Al primo piano si sentivaVarja che discuteva con qualcunoe il rumore delle forbici della sarta
a giornata nella stanza dei bambini.Nella casa c’era una stanzetta
che aveva tre denominazioni:piccola, di passaggio e buia. Vi sitrovava un armadio vecchio ecapiente che conteneva medicine,polvere da sparo e arnesi da caccia.Di là un’angusta scaletta di legno,sulla quale dormivano sempre deigatti, conduceva al primo piano.Qui c’erano due porte: una davasulla stanza dei bambini, l’altra insalotto. Quando Nikitin vi entròper salire al piano di sopra, la portadella stanza dei bambini si aprì esbatté tanto forte, da far tremaresia la scala che l’armadio; irruppe
Manjusja in un abito scuro, con unpezzo di stoffa in mano e, senzafare caso a Nikitin, sgusciò verso lascala. – Aspettate… – la fermòNikitin. – Buona sera, Godefroy…Permettete…
Ansimava, non sapeva che dire;con una mano teneva quella di lei,con l’altra la stoffa azzurra. E lei,un po’ spaventata, un po’sorpresa, lo guardava con gli occhisgranati.
– Permettete… – continuòNikitin, temendo che scappassevia. – Ho bisogno di dirviqualcosa… Soltanto… non è questoil posto adatto. Non posso, non
sono in grado… Capite, Godefroy,non posso… ecco tutto…
La stoffa azzurra cadde a terra, eNikitin prese Manjusja per l’altramano. Lei impallidì, mosse lelabbra, quindi indietreggiòscostandosi da Nikitin e venne atrovarsi nell’angolo tra la parete el’armadio.
– Parola d’onore, vi assicuro… –disse lui piano. – Manjusja, parolad’onore…
Ella rovesciò la testa all’indietroe lui la baciò sulle labbra e, perprolungare il bacio, le prese leguance tra le mani; poi, chissàcome, fu lui che si ritrovò
nell’angolo tra l’armadio e laparete, e lei gli si avvinghiò con lebraccia al collo e gli si strinse colcapo contro il mento.
Quindi corsero entrambi ingiardino.
Il giardino degli Šelestov eragrande, di circa quattro ettari.Oltre a una ventina di vecchi acerie tigli e un abete, vi crescevanosoltanto alberi da frutto: ciliegi,meli, peri, un castagno selvatico,un olivo argentato… C’erano anchemolti fiori.
Nikitin e Manjusja correvanoper i viali in silenzio, ridevano, diquando in quando, a scatti, si
scambiavano domande a cui nondavano risposta, e sul giardinointanto splendeva la mezzaluna, esulla terra, dall’erba scuradebolmente illuminata dallamezzaluna, si protendevanoassonnati i tulipani e gli iris, quasichiedendo che anche a lorovenissero fatte dichiarazionid’amore.
Quando Nikitin e Manjusjatornarono in casa, gli ufficiali e lesignorine erano già riuniti eballavano la mazurca. Di nuovoPoljanskij guidò il grand–rond pertutte le stanze, di nuovo dopo ledanze si giocò alla sorte. Prima di
cena, quando gli ospiti passaronodal salone nella stanza da pranzo,Manjusja, rimasta sola con Nikitin,gli si strinse e disse:
– Parla tu a papà e a Varja. Io mivergogno…
Dopo cena egli parlò col vecchio.Ascoltatolo, Šelestov rifletté unistante e disse:
– Vi sono molto grato perl’onore che concedete a me e a miafiglia, ma permettete mi di parlarvida amico. Non mi rivolgerò a voicome un padre, ma da gentleman agentleman. Dite, per favore, comemai avete voglia di prenderemoglie così presto? Soltanto i
contadini si sposano presto, ma là,si sa, è per malcreanza, voi inveceperché lo fate? Che piacere c’è amettersi le catene quando si ètanto giovani?
– Ma non sono affatto giovane! –si risentì Nikitin. – Ho giàcompiuto ventisei anni.
– Papà, è arrivato il maniscalco!– gridò Varja dall’altra stanza.
E il colloquio si interruppe.Varja, Manjusja e Poljanskijaccompagnarono a casa Nikitin.Quando furono vicini al suocancelletto, Varja disse:
– Come mai il vostro misteriosoMitropolit Mitropolityč non si fa
mai vedere da nessuna parte?Potrebbe venire da noi.
Quando Nikitin entrò nellastanza del misterioso IppolitIppolityč, questi era seduto sulletto e si stava togliendo ipantaloni.
– Non vi coricate, colombello! –gli disse Nikitin, ansimando. –Aspettate, non vi coricate!
Ippolit Ippolityč si infilò allasvelta i pantaloni e chieseallarmato:
– Cosa c’è?– Mi sposo!Nikitin si sedette accanto al
collega e, guardandolo con
stupore, quasi meravigliandosi dise stesso, disse:
– Figuratevi, mi sposo! Con MašaŠelestova! Oggi le ho fatto laproposta di matrimonio.
– Ebbene? A quanto pare è unabrava ragazza. Soltanto, è moltogiovane.
– Sì, giovane! – sospirò Nikitin esi strinse preoccupato nelle spalle.– Molto, molto giovane!
– È stata mia allieva al ginnasio.La conosco. In geografia andavacosì così, ma in storia – male. E inclasse era distratta.
D’un tratto Nikitin provò chissàperché compassione del collega, e
gli venne voglia di dirgli qualcosadi affettuoso e di consolante.
– Colombello, perché non visposate? – chiese. – IppolitIppolityč, perché, ad esempio, nonsposate Varja? È una ragazzameravigliosa, eccellente! È vero, lepiace molto discutere, ma incompenso ha un cuore… checuore! Proprio adesso ha chiesto divoi. Sposatela, colombello! Eh?
Sapeva perfettamente che Varjanon avrebbe mai sposato quelnoioso individuo col naso all’insù,ma cercava tuttavia di convincerloa prenderla in moglie. Perché?
– Il matrimonio è un passo serio,
– disse Ippolit Ippolityč dopo averriflettuto. – Bisogna esaminareogni cosa, ponderare, così da ungiorno all’altro non è possibile. Ilbuon senso non guasta mai, e inparticolar modo nel matrimonio,quando l’uomo, cessato di esserescapolo, inizia una nuova vita.
E si mise a parlare di cose bennote a tutti da un pezzo. Nikitinnon stette ad ascoltarlo, salutò eandò nella sua stanza. Si spogliò infretta e in fretta si coricò, permettersi a pensare al più prestoalla sua felicità, a Manjusja e alfuturo; sorrise, e d’un tratto sisovvenne di non avere ancora letto
Lessing.«Bisognerà leggerlo…» pensò.
«Del resto, perché dovrei farlo?Che vada al diavolo!».
Ed estenuato dalla felicità, siaddormentò di colpo e sorrise finoal mattino.
Sognò lo scalpitio degli zoccolidei cavalli sul pavimento di travi;sognò che venivano condotti fuoridalla scuderia dapprima il morelloConte Nulin, poi il bianco Gigante,quindi sua sorella Maggiolina…
II
«Nella chiesa c’era una gran
folla e molto frastuono, a un certopunto c’è stato persino qualcunoche ha gridato, e l’arciprete chestava unendo in matrimonio me eManja ha guardato la folla al disopra degli occhiali e ha detto intono severo:
– Non andate in giro per lachiesa e non fate rumore, ma statein silenzio e pregate. Bisogna averetimor di Dio.
Testimoni per me erano duecolleghi, per Manja il capitanoPoljanskij e il tenente Gernet. Ilcoro vescovile cantavamagnificamente. Il crepitio dellecandele, lo sfavillìo, gli abiti
eleganti, gli ufficiali, la moltitudinedi volti allegri, soddisfatti, nonchéuna certa aria particolare, eterea diManja, e in generale tutta lasituazione e le parole dellepreghiere nuziali micommuovevano fino alle lacrime,mi colmavano di solennità.Pensavo: com’è fiorita, che piegapoetica e bella ha preso la mia vitanegli ultimi tempi! Due anni fa eroancora studente, vivevo instanzette di poco prezzo sulNeglinnyj12, senza soldi, senzaparenti e, così almeno misembrava allora, senza futuro. Orainvece insegno nel ginnasio di una
delle migliori città delgovernatorato, vivo agiatamente,sono amato, viziato. È per me chesi è riunita ora questa folla, per meardono i tre lampadari, tuona ilprotodiacono, i cantori fanno delloro meglio, ed è per me questagiovane, elegante, gioiosa e teneracreatura, che tra non molto sichiamerà mia moglie. Ho ricordatoi primi incontri, le nostre gite fuoricittà, la dichiarazione d’amore e iltempo, che, quasi a farlo apposta,era stato meravigliosamente belloper tutta l’estate; e quella felicità,che un tempo sul Neglinnyj mi eraapparsa possibile soltanto nei
romanzi e nelle novelle, ora laprovavo veramente, mi pareva diaverla tra le mani.
Dopo la cerimonia nuziale tuttisi sono affollati disordinatamenteattorno a me e a Manja, peresprimere la loro sinceracontentezza, congratularsi edaugurarci felicità. Un generale dibrigata, un vecchio sullasettantina, si è congratulatosoltanto con Manjusja e le ha dettocon una stridula voce senile, cosìforte da echeggiare in tutta lachiesa:
– Spero, mia cara, che anchedopo il matrimonio rimarrete
quella rosa che siete.Gli ufficiali, il direttore e tutti gli
insegnanti hanno sorriso perconvenienza, e anch’io mi sonosentito sul viso un sorriso cortesee affettato. Il carissimo IppolitIppolityč, insegnante di storia egeografia, che dice sempre coseben note a tutti da un pezzo, mi hastretto forte la mano e ha dettocon sentimento:
– Finora non eravate sposato evivevate solo, ma ora siete sposatoe vivrete in due.
Dalla chiesa ci siamo trasferitinella casa a due piani senzaintonaco che ho ricevuto assieme
alla dote. Oltre a questa casa, aManja vengono assegnati circaventimila rubli, nonché un terrenoincolto a Melitonovo dove, aquanto si dice, c’è una granquantità di polli e anatre che,senza sorveglianza, stannodiventando selvatici. Di ritornodalla chiesa mi sono stiracchiato,mi sono sdraiato sul divano allaturca del mio nuovo studio e misono messo a fumare; provavo unasensazione di dolcezza, comodità eintimità mai conosciute in vitamia, e intanto gli ospiti gridavanourrà e in anticamera una cattivaorchestra suonava fanfare e ogni
genere di porcheria. Varja, lasorella di Manja, ha fatto irruzionenello studio con in mano unacoppa e con una stranaespressione tesa, quasi avesse labocca piena d’acqua; volevachiaramente continuare la suacorsa, ma d’improvviso si è messaa ridere, quindi è scoppiata insinghiozzi, e la coppa è rotolata aterra tintinnando. L’abbiamoafferrata sotto braccio e l’abbiamocondotta via.
– Nessuno può capire! –mormorava poi nella stanza piùlontana, distesa sul letto dellabalia. – Nessuno, nessuno! Dio mio,
nessuno può capire!Ma tutti capivano benissimo che
era di quattro anni più vecchia disua sorella Manja e non si eraancora sposata, e che nonpiangeva per invidia, ma per latriste consapevolezza che il suotempo stava fuggendo, anzi forseera già fuggito. Al momento dellaquadriglia era già nel salone, colviso gonfio di pianto e coperto dauno spesso strato di cipria, ed io hovisto il capitano Poljanskij tenerledavanti un piattino con il gelato,che lei mangiava col cucchiaino…
Sono ormai passate le cinque delmattino. Avevo messo mano al
diario per descrivere la miacompleta, multiforme felicità, epensavo di scrivere cinque o seipagine che domani avrei letto aManja, ma, cosa strana, nella miatesta tutto si è confuso, è diventatovago, come un sogno, e mi ritornachiaro alla mente soltantol’episodio di Varja, ed ho voglia discrivere: povera Varja! Ecco, me nestarei sempre qui a scrivere:povera Varja! A proposito, glialberi hanno cominciato astormire: pioverà; i corvigracchiano e la mia Manja, che si èappena addormentata, chissàperché ha un’espressione triste sul
volto».In seguito Nikitin non toccò per
lungo tempo il suo diario. Daiprimi d’agosto fu impegnato negliesami di riparazione e diammissione, e dopo l’Assunzioneripresero le lezioni. Di solito sirecava al lavoro verso le nove delmattino e già verso le diecicominciava ad avere nostalgia diManja e della sua nuova casa, e asbirciare di frequente l’orologio.Nelle classi inferiori chiamavaqualcuno degli alunni a dettare e,mentre i ragazzi scrivevano,sedeva sul davanzale a occhi chiusie fantasticava; sia che sognasse del
futuro o che ricordasse il passato,tutto gli risultava ugualmentesplendido, simile a una fiaba. Nelleclassi superiori si leggeva ad altavoce Gogol’ o la prosa di Puškin, equesto gli infondeva sonnolenza,nella sua immaginazionesorgevano persone, alberi, campi,cavalli da sella, ed egli diceva conun sospiro, quasi ispiratodall’autore:
– Com’è bello!Durante la ricreazione Manja gli
mandava la colazione in untovagliolo candido come la neve, elui la mangiava lentamente, conpause, per prolungare il piacere,
mentre Ippolit Ippolityč, la cuicolazione di solito consistevasoltanto in un panino, lo guardavacon rispetto e invidia, e gli dicevaqualcosa di scontato, come:
– Senza cibo gli uomini nonpossono vivere.
Dal ginnasio Nikitin si recava
alle lezioni private, e quandofinalmente verso le sei facevaritorno a casa, provava gioia eansia insieme, come se fosse statolontano per un intero anno.Correva su per le scale ansimando,trovava Manja, l’abbracciava, labaciava e giurava di amarla, di non
poter vivere senza di lei,l’assicurava di essersiterribilmente annoiato, e lechiedeva timoroso se stesse bene eperché avesse un viso così pocoallegro. Quindi pranzavano in due.Dopo pranzo si sdraiava sul divanodello studio e fumava, mentre leigli sedeva accanto e raccontavaqualcosa a bassa voce.
Ora i giorni più felici erano perlui le domeniche e le feste, quandorimaneva a casa dalla mattina allasera. In questi giorni egli prendevaparte a una vita ingenua mastraordinariamente piacevole, chegli ricordava un idillio pastorale.
Non si stancava di osservare comela sua assennata e positiva Manjaandasse sistemando il loro nido, elui stesso, volendo dimostrare dinon essere di troppo in casa,faceva qualcosa di inutile, adesempio tirava fuori dalla legnaia ilcalesse e lo esaminava da tutte leparti. Manjusja con tre muccheaveva messo su una vera e proprialatteria, e in cantina e in dispensateneva una gran quantità dibrocche di latte e di vasi di panna,che conservava tutti per il burro. Avolte Nikitin le chiedeva per celiaun bicchiere di latte; leis’impauriva, perché questo non
rientrava nell’ordine delle cose, malui l’abbracciava ridendo e diceva:
– Su, su, ho scherzato, tesoromio! Ho scherzato!
Oppure si faceva gioco della suapedanteria, quando lei, adesempio, trovando nell’armadio unpezzetto di salame o di formaggioandato a male, duro come la pietra,diceva con aria grave:
– Questo lo mangeranno incucina.
Egli le faceva notare che unpezzetto così piccolo sarebbepotuto servire soltanto per unatrappola per topi, ma leicominciava a dimostrare con
calore che gli uomini noncapiscono niente di economiadomestica e che la servitù non sisarebbe stupita neanche se leavessero mandato in cucina mezzoquintale di antipasti; lui alloraconcordava e l’abbracciavaentusiasta. Quello che di giustoc’era nelle sue parole, gli sembravastraordinario, sorprendente;quello che invece divergeva dallesue convinzioni era a suo parereingenuo e commovente.
Talvolta lo assaliva un estrofilosofico e cominciava a disquisiresu qualche tema astratto, mentrelei lo ascoltava fissandolo con
curiosità.– Sono infinitamente felice con
te, gioia mia, – diceva sfiorandole iditini, o sciogliendole e di nuovorifacendole la treccia. – Ma nonguardo a questa mia felicità come aqualcosa che mi sia capitato percaso, quasi fosse piovuto dal cielo.Questa felicità è un fenomenoassolutamente naturale,conseguente, logicamente sicuro.Io credo che l’uomo sia l’arteficedella propria felicità, e ora io godoappunto di ciò che ho creato dame. Sì, lo dico senza smancerie,questa felicità l’ho creata da me emi appartiene di diritto. Tu
conosci il mio passato. La perditadei genitori, la povertà, l’infanziainfelice, la gioventù triste: è tuttauna lotta, il cammino che mi sonoaperto verso la felicità…
In ottobre il ginnasio subì unagrave perdita. Ippolit Ippolityč siammalò di risipola alla testa emorì. I due ultimi giorni prima dimorire rimase senza conoscenza edelirò, ma anche nel delirio dicevasolo cose ben note a tutti:
– La Volga sfocia nel MarCaspio… I cavalli mangiano avena efieno…
Il giorno del suo funerale alginnasio non si fece lezione. I
colleghi e gli alunni portarono ilcoperchio e la bara, mentre il corodel ginnasio cantò «Oh santoIddio» lungo tutta la strada fino alcimitero. Al corteo parteciparonotre sacerdoti, due diaconi, tutto ilginnasio maschile e il corovescovile in caffettano di gala. Allospettacolo di quei funerali solenni,i passanti che vi si imbattevano sisegnavano e dicevano:
– Dio conceda a ognuno dimorire così.
Tornato a casa dal cimiteroNikitin, turbato, cercò nellascrivania il suo diario e vi scrisse:
«Hanno appena deposto nella
tomba Ippolit Ippolitovič Ryžickij.Pace alle tue ceneri, modesto
lavoratore! Manja, Varja e tutte ledonne presenti ai funerali hannoversato lacrime sincere, forseperché sapevano che quest’uomopoco interessante e depresso nonera mai stato amato da nessunadonna. Volevo dire una parolaaffettuosa sulla tomba del collega,ma mi hanno avvertito che ciòpoteva risultare sgradito aldirettore, perché non amava ildefunto. Dopo il matrimonio èquesto il primo giorno, mi pare,che mi sento l’anima oppressa…».
Poi per tutto l’anno scolastico
non ci furono avvenimenti dirilievo.
L’inverno fu uggioso, senzagelo, con neve bagnata; alla vigiliadell’Epifania, ad esempio, per tuttala notte il vento soffiò lamentosocome in autunno e dai tettisgocciolò la neve, e al mattinodurante la benedizione delle acquela polizia non lasciò avvicinarenessuno al fiume, perché,dicevano, il ghiaccio si era gonfiatoe scurito. Ma, nonostante il cattivotempo, la vita di Nikitin scorrevaaltrettanto felice che in estate.Anzi, vi si era aggiuntoun’ulteriore svago: imparò a
giocare a vint. Una sola cosa avolte lo preoccupava e irritava,impedendogli, a quanto sembrava,di essere pienamente felice: i cani ei gatti che aveva ricevuto con ladote. Nelle stanze, soprattutto almattino, c’era sempre un odore diserraglio, che non si riusciva amitigare in alcun modo; spesso igatti si azzuffavano con i cani. Allarabbiosa Muška davano damangiare dieci volte al giorno, ecome prima essa non riconoscevaNikitin e gli ringhiava:
– Rrr… nga-nga-nga…Una volta, durante la
Quaresima, a mezzanotte stava
tornando a casa dal circolo, doveaveva giocato a carte.
Pioveva, era buio e le stradeerano piene di fango. Nikitinavvertiva un senso di amarezzanell’anima e non poteva capire inalcun modo da cosa derivasse:dall’avere perduto dodici rubli alcircolo, o dal fatto che uno dei suoicompagni di gioco, al momento diregolare i conti, aveva detto cheNikitin aveva quattrini a palate,alludendo chiaramente alla dote?Non gli dispiaceva per i dodicirubli, e le parole del compagno noncontenevano nulla di offensivo,eppure era contrariato. Non aveva
neanche voglia di tornare a casa.– Uff, che sensazione spiacevole!
– disse, fermandosi accanto a unlampione.
Gli venne in mente che non glidispiaceva affatto per i dodici rubli,perché non se li era guadagnati.Ecco, se fosse stato un lavoratore,avrebbe conosciuto il valore diogni singolo copeco e non sarebbestato indifferente a una vincita o auna perdita. Anche tutta la suafelicità, ragionava, gli era toccatain dono, in cambio di nulla, e insostanza era per lui un lusso, comeuna medicina per un uomo sano;se egli, come la stragrande
maggioranza della gente, fossestato oppresso dallapreoccupazione per un tozzo dipane, avesse lottato per lasussistenza, se avesse avuto laschiena e il petto doloranti per lafatica, allora la cena,l’appartamento caldo e comodo ela felicità familiare sarebbero statiuna necessità, un premio e unornamento della sua vita; orainvece tutto ciò aveva unsignificato strano e indistinto.
– Uff, che sensazione spiacevole!– ripeté, perfettamente conscio dicome quei ragionamenti fosserogià di per sé un cattivo segno.
Quando arrivò a casa, Manja eraa letto. Respirava regolarmente,sorridendo, e dormivaevidentemente con grandepiacere. Accanto a lei stavaacciambellato il gatto bianco,faceva le fusa. Mentre Nikitinaccendeva la candela e si metteva afumare, Manja si svegliò e bevveavidamente un bicchiere d’acqua.
– Ho fatto una scorpacciata dimarmellata, – disse, e si mise aridere. – Sei stato dai miei? – chiesepoi, dopo un attimo di silenzio.
– No, non ci sono stato.Nikitin sapeva già che il
capitano Poljanskij, sul quale negli
ultimi tempi Varja faceva grandeassegnamento, aveva ottenuto iltrasferimento in uno deigovernatorati occidentali e stavaormai facendo le visite di congedoin città, e che perciò in casa delsuocero c’era un’atmosfera tetra.
– Stasera è passata Varja, – disseManja mettendosi a sedere. – Nonha detto niente, ma le si leggeva infaccia quanto patisse, poverina.Non posso soffrire Poljanskij. Ègrasso, inflaccidito, e quandocammina o balla gli tremano leguance… Non è il mio tipo.Tuttavia lo consideravo un uomoammodo.
– Io lo considero tuttora unuomo ammodo.
– Ma perché si è comportatocosì male con Varja?
– Perché male? – chiese Nikitin,cominciando a sentire una certairritazione verso il gatto bianco,che si stirava, inarcando laschiena. – Per quanto ne so, non hafatto proposte di matrimonio né siè impegnato con promesse.
– E perché veniva così spesso incasa nostra? Se non avevaintenzione di sposarsi, non dovevavenire.
Nikitin spense la candela e sicoricò. Ma non aveva voglia né di
dormire né di stare coricato. Glipareva di avere la testa enorme evuota, come un granaio, e che vivagassero nuovi, particolaripensieri sotto forma di lungheombre. Pensava che, oltre la tenueluce della lampada che sorridevaalla tranquilla felicità familiare,oltre il piccolo mondo in cuivivevano in modo così placido edolce sia lui che il gatto, c’eraancora un altro mondo… E tutto aun tratto fu assalito da una vogliaterribile, struggente, di andare inquest’altro mondo, per lavorareanche lui in qualche fabbrica o inuna grande officina, parlare da una
cattedra, scrivere, pubblicare, farbaccano, estenuarsi, soffrire… Glivenne voglia di qualcosa che loentusiasmasse fino all’oblio di sé,all’indifferenza verso la felicitàpersonale, le cui sensazioni sonocosì monotone. E d’un trattonell’immaginazione, quasi fossevivo, gli sorse il rasato Šebaldin eprofferì con orrore:
– Non avete neanche lettoLessing! Come siete rimastoindietro! Dio, come siete caduto inbasso!
Manja bevve dell’altra acqua.Egli lanciò un’occhiata al suo collo,alle spalle piene e al seno, e ricordò
la parola pronunciata quella voltain chiesa dal generale di brigata:una rosa.
– Una rosa, – mormorò, e rise.In risposta da sotto il letto
l’assonnata Muška ringhiò:– Rrr… nga-nga-nga…Una collera greve, come un
gelido maglio, gli si rigirònell’anima, ed ebbe voglia di dire aManja qualcosa di villano e perfinodi saltar su e colpirla. Gli venne ilbatticuore.
– Dunque significa, – chiese,cercando di frenarsi, – che dalmomento che io venivo in casavostra, dovevo immancabilmente
sposarti?– Certo. Lo capisci benissimo
anche tu.– Questa è bella.E dopo un minuto ripeté di
nuovo:– Questa è bella.Per non dire qualcosa di troppo
e calmare il suo cuore, Nikitin andònello studio e si stese sul divanosenza cuscino, quindi rimase unpo’ sdraiato in terra, sul tappeto.
«Che assurdità!» cercava diplacarsi. «Sei un educatore, lavorinel più nobile dei settori… Chebisogno hai di un altro mondo?Che sciocchezze!».
Ma subito dopo si diceva consicurezza che non era affatto uneducatore, bensì un impiegato,altrettanto privo di talento e dipersonalità di quel ceco cheinsegnava lingua greca; non avevamai avuto la vocazione perl’insegnamento, non sapeva nulladi pedagogia e non se n’era maiinteressato, non sapeva trattarecon i ragazzi; il valore di quantoinsegnava gli era ignoto, e forseinsegnava persino cose di cui nonc’era bisogno. Il defunto IppolitIppolityč era sinceramente ottuso,e tutti i colleghi e gli alunnisapevano chi fosse e cosa si
potevano aspettare da lui; invecelui, Nikitin, come il ceco, sapevanascondere la propria ottusità eingannava abilmente tutti, dando avedere che a lui, grazie a Dio,andava tutto bene. Questi nuovipensieri spaventavano Nikitin, cheli ricacciava, li definiva sciocchi,credendo che fosse tutta colpa deinervi e che lui per primo avrebbepoi riso di sé…
E davvero, sul far del mattino,già rideva del proprio nervosismoe si dava della donnicciola, ma gliera ormai chiaro che,probabilmente, aveva perduto persempre la pace e che nella casa a
due piani senza intonaco la felicitàper lui era ormai impossibile.Intuiva che l’illusione si eraesaurita e che era ormai iniziatauna nuova vita, tesa econsapevole, che mal si accordavacon la pace e la felicità personale.
Il giorno seguente, domenica, sirecò alla chiesa del ginnasio, doveincontrò il direttore e i colleghi. Glisembrava che tutti fosserooccupati soltanto a nasconderescrupolosamente l’ignoranza el’insoddisfazione della propria vita,e anch’egli, per non tradire la suainquietudine, sorridevacortesemente e parlava di inezie.
Quindi si recò alla stazione, doveassistette all’arrivo e alla partenzadel treno postale, e gli facevapiacere essere solo e non doverparlare con nessuno.
A casa trovò il suocero e Varja,che erano venuti a pranzo. Varjaaveva gli occhi gonfi di pianto e silamentava del mal di capo, mentreŠelestov mangiava molto e parlavadi quanto fossero inaffidabili igiovani moderni e di quanti pochigentiluomini vi fossero tra loro.
– Questa è malcreanza! – diceva.– Glielo dirò chiaro e tondo: questaè malcreanza, egregio signore!
Nikitin sorrideva amabilmente e
aiutava Manja a servire gli ospiti,ma dopo pranzo andò a chiudersinel suo studio.
Il sole di marzo splendevavivamente e attraverso i vetri dellefinestre i suoi caldi raggi cadevanosul tavolo. Era ancora soltanto ilventi del mese, ma già si andava incarrozza, e in giardinostrepitavano gli stornelli. Da unmomento all’altro sarebbe potutaentrare Manjusja, che gli avrebbecinto il collo con un braccio eannunciato che i cavalli da sella o ilcalesse erano stati condottidavanti al terrazzino d’ingresso, equindi avrebbe chiesto cosa
indossare per non sentire freddo.Cominciava una primaverameravigliosa come quella dell’annoprecedente, e promettevaidentiche gioie… Ma Nikitinpensava a come sarebbe stato belloadesso prendere un congedo eandare a Mosca, e là fermarsi sulNeglinnyj nelle ben note stanzette.Nella sala accanto bevevano il caffèe parlavano del capitano Poljanskij,e lui si sforzava di non sentire escriveva nel suo diario: «Dovesono, Dio mio?! Sono circondato davolgarità, da niente altro chevolgarità. Persone noiose,insignificanti, vasi di panna,
brocche di latte, scarafaggi, donnesciocche… Non c’è nulla di piùterribile, offensivo e angosciosodella volgarità. Fuggire via di qui,fuggire oggi stesso, altrimentiimpazzirò!».
7 Protagonista dell’omonimopoema di A.S. Puškin (Graf Nulin,1825).
8 Forma più familiare rispettoall’uso del nome e patronimico.
9 Polizia politica istituita daNicola I nel 1826.
10 Poesia di Aleksej Tolstoj
(1817–1875).11 Battaglia avvenuta nel 1223
tra i principi russi e i tartari che neuscirono vittoriosi.
12 Vicolo nel centro di Mosca.
Una confessione, ovveroOlja, Ženja, Zoja
(Lettera)
Voi, ma chère, mia cara,
indimenticabile amica, nella vostragentile lettera mi chiedete tral’altro perché non mi sia ancorasposato, nonostante i mieitrentanove anni?
Mia cara! Io amo con tutta
l’anima la vita di famiglia, e se nonho preso moglie è soltanto perchéal destino canaglia non è piaciutoche io mi sposassi. Sono stato sulpunto di ammogliarmi unaquindicina di volte, e se non l’hofatto è perché a questo mondotutto, e in particolare la mia vita, èsoggetto al caso, tutto dipende daesso! Il caso è tiranno. Vi citeròalcuni episodi a causa dei quali iotrascino tuttora la mia esistenza inuna spregevole solitudine…
Caso primo Era una splendida mattinata di
giugno. Il cielo era puro come ilpiù puro blu di Prussia. Il solegiocherellava sul fiume, facendoscivolare i suoi raggi sull’erbacoperta di rugiada. Il fiume e ilverde delle piante sembravanodisseminati di preziosi brillanti. Gliuccelli cantavano quasi seguisserouno spartito… Noi camminavamolungo un vialetto cosparso disabbia gialla, ed eravamo felici diriempire i nostri petti dei profumidi quel mattino di giugno. Gli alberici guardavano con tenerezza,sussurrandoci qualcosa chedoveva essere molto bello e dolce…La mano di Olja Gruzdovskaja (che
ora ha sposato il figlio del vostroispravnik13 riposava nella mia, e ilsuo piccolo mignolo tremava sulmio pollice… Le sue guanceardevano, e gli occhi… Oh, machère, che occhi meravigliosi!Quanta grazia, verità, innocenza,allegria, infantile ingenuità brillavain quegli occhi azzurri! Ioammiravo le sue trecce bionde e lepiccole orme lasciate sulla sabbiadai suoi piedini…
– Ho dedicato la mia vita allascienza, Ol’ga Maksimovna, –sussurravo, temendo che il suomignolo scivolasse via dal miopollice. – In futuro mi attende la
cattedra universitaria… La miacoscienza è colma di interrogativi…scientifici… È una vita di lavoro,piena di preoccupazioni, elevate…come… Ebbene, per farla breve,diventerò professore… Io sonoonesto, Ol’ga Maksimovna… Nonsono ricco, no… Ho bisogno di unacompagna che con la sua presenza(Olja si confuse e abbassò gli occhi;il mignolo cominciò a tremare)…che con la sua presenza… Olja!Guardate il cielo! È puro… maanche la mia vita è altrettantopura, infinita…
La mia lingua non fece in tempoa districarsi da questo garbuglio,
che Olja sollevò la testa, strappò lasua mano dalla mia e si mise abattere le mani. Incontro a noivenivano oche e paperotti. Oljacorse alla volta delle oche e,ridendo sonoramente, tese lemanine verso di loro… Oh,cos’erano quelle manine, ma chère!
– Ter… ter… ter… – intonarono leoche, sollevando il collo eguardando Olja di traverso.
– Oche, ochette! – gridò Olja,
tendendo una mano verso unpaperotto.
Il paperotto era più furbo dellasua età. Allontanatosi dalla mano
di Olja corse dal padre, un paperoassai grosso e stupido, edevidentemente si lamentò con lui.Il papero spiegò le ali. Quellabirichina di Olja allungò la manoverso un altro paperotto. Accaddeallora qualcosa di terribile. Ilpapero piegò il collo verso terra e,sibilando come un serpente, simosse minaccioso alla volta di Olja.Olja cacciò un urlo e tornò indietrodi corsa. E il papero dietro. Olja sivolse a guardare, cacciò un urloancora più forte e impallidì. Il suobel visetto di fanciulla ebbe unasmorfia di terrore e disperazione.Sembrava che a inseguirla fossero
trecento diavoli.Accorsi in suo aiuto e colpii il
papero sulla testa con un bastone.Ma quella canaglia di papero riuscìcomunque a morderle un lembodel vestito. Con gli occhi sbarrati, ilvolto alterato da una smorfia,tremando in tutto il corpo, Olja siabbandonò sul mio petto…
– Che fifona siete! – dissi.– Picchiate il papero! – ribatté
lei, e scoppiò in lacrime…Com’era poco ingenuo e
fanciullesco, bensì idiota, quelvisetto spaventato! Ma chère, ionon posso soffrire la viltà! Nonposso immaginarmi sposato a una
donna vile e pusillanime!Il papero aveva rovinato tutto…
Una volta calmata Olja, me neandai a casa, e quel visetto vile finoall’idiozia mi rimase a lungoimpresso nella mente… Olja avevaperduto per me ogni fascino.Rinunciai a lei.
Caso secondo Voi naturalmente sapete, amica
mia, che io sono scrittore. Gli deimi hanno acceso in petto la sacrafiamma, e io credo di non avere ildiritto di rinunciare alla penna.Sono un sacerdote di Apollo… Tutti
i battiti del mio cuore, tutti i mieisospiri, in breve, tutto me stessoho consacrato all’altare delle muse.Io scrivo, scrivo, scrivo…Toglietemi la penna, e sono morto.Voi ridete, non mi credete… Giuroche è così!
Ma voi certo sapete, ma chère,che il globo terrestre non è unluogo felice per l’arte. La terra ègrande e ricca, ma in essa non c’èun angolo dove possa vivere loscrittore. Lo scrittore è un eternoorfano, un esule, un caproespiatorio, un bimbo inerme… Iodivido l’umanità in due parti:scrittori e invidiosi. I primi
scrivono, mentre i secondimuoiono d’invidia e combinanoporcherie di vario genere contro iprimi. Io sono stato, sono e saròdistrutto dagli invidiosi. Mi hannorovinato la vita. Si sonoaccaparrati il potere per tutto ciòche riguarda l’attività letteraria, sidefiniscono redattori, editori ecercano con tutte le loro forze dimandare a picco la nostracongrega. Maledetti!!
State a sentire…Per qualche tempo io ho fatto la
corte a Ženja Pšikova. Voicertamente ricordate quella dolcee sognante bambina dai neri
capelli… Ora è sposata col vostrovicino Karl Ivanovic Wanze (àpropos: in tedesco Wanze vuoldire… cimice. Non ditelo a Ženja, sioffenderebbe). Ženja amava in melo scrittore. Credevaprofondamente, come me, nellamia vocazione. Viveva delle miesperanze. Ma era giovane! Nonpoteva ancora comprendere ladivisione dell’umanità in due partidi cui vi ho parlato! Non credeva inquesta divisione! Non ci credeva, eun bel giorno… fummo rovinati.
Vivevo nella dacia degli Pšikov.Ci consideravano fidanzati. Ioscrivevo, lei leggeva. Che critico
era, ma chère! Giusta come Aristidee severa come Catone. Dedicavo alei le mie opere… Una di essepiacque molto a Ženja, che avrebbevoluto vederla stampata. La inviaia una rivista umoristica. La mandaiil primo di luglio e attendevo unarisposta dopo due settimane.Venne il 15 luglio. Io e Ženjaricevemmo il tanto sospiratonumero della rivista. Losfogliammo in fretta e leggemmo larisposta nella rubrica dei lettori.Lei arrossì, io sbiancai. Nellarubrica al mio indirizzo era statopubblicato quanto segue:«Villaggio Šlendovo. A G.M.B. Non
avete un briciolo di talento. SaIddio che cumulo di sciocchezzeavete scritto! Non sprecateinutilmente francobolli e lasciateciin pace. Occupatevi di qualcos’altro».
Ebbene, era anche stupido…Saltava subito agli occhi che ascrivere erano stati degli sciocchi.
– Mmmmmm… – mugugnòŽenja.
– C-che mas-cal-zo-ni!!! –brontolai io. – Ma come? E voi,Evgenija Markovna, continuerete asorridere della mia divisione trascrittori e invidiosi?
Ženja rimase un po’ pensierosa e
sbadigliò.– Ebbene? – disse. – Forse
davvero non avete talento!Loro lo sanno meglio di noi. Lo
scorso anno con Fëdor Fëdorovičsono andata a pescare tuttal’estate, mentre voi scrivete,scrivete… Che noia!
Ma come? E questo dopo le nottiinsonni trascorse insieme ascrivere e a leggere! Dopo ilcomune sacrificio alle muse… Eh?
Ženja si raffreddò nei confrontidella mia arte di scrittore e, diconseguenza, anche verso di me.Ci separammo. Non poteva esserealtrimenti…
Caso terzo Voi certamente sapete, mia
indimenticabile amica, che io amoterribilmente la musica. La musicaè la mia passione, il mio elemento…I nomi di Mozart, Beethoven,Chopin, Mendelssohn, Gounod,non sono nomi di uomini, ma digiganti! Io amo la musica classica.Disdegno l’operetta, comedisdegno il vaudeville. Sono uno deipiù assidui frequentatoridell’opera. Chochlov, la Kočetova,Barcal, Usatov, Korsov14… chemeravigliose creature! Come mi
dolgo di non conoscere nessuncantante! Se ne conoscessi,effonderei davanti a loro la miaanima in segno di gratitudine. Loscorso inverno mi sono recato conparticolare assiduità all’opera. Nonvi andavo solo, ma con la famigliaPepsinov. Peccato che voi nonconosciate questa deliziosafamiglia! Ogni inverno i Pepsinovfanno l’abbonamento a un palco. Sisono dati alla musica con tuttal’anima… Fiore all’occhiello diquesta deliziosa famiglia è la figliadel colonnello Pepsinov, Zoja. Cheragazza, mia cara! Le sue labbrarosee bastavano da sole a far
impazzire un uomo come me!Snella, bella, intelligente… Iol’amavo… L’amavo alla follia,appassionatamente, in modoterribile! Quando le sedevoaccanto, il sangue mi ribolliva. Voisorridete, ma chère… Sorridete! Avoi è ignoto, estraneo l’amore delloscrittore… L’amore dello scrittoreè l’Etna e il Vesuvio messi insieme.Zoja mi amava. I suoi occhi siposavano sempre sui miei,costantemente fissi nei suoi…Eravamo felici. Eravamo a un passodalle nozze…
Ma fummo rovinati.Davano il Faust. L’autore del
Faust, mia cara, è Gounod, eGounod è un musicista eccelso. Nelrecarmi a teatro, strada facendodecisi di dichiarare il mio amore aZoja durante il primo atto, che ionon capisco. Il grande Gounod loha scritto inutilmente!
Lo spettacolo ebbe inizio. Io eZoja ci appartammo nel foyer. Ellami sedeva accanto e, tremando perl’attesa e la felicità, giocherellavamacchinalmente col ventaglio. Allaluce della sera, ma chère, era bella,terribilmente bella!
– L’ouverture, – così iniziai lamia dichiarazione, – mi ha indottoad alcune riflessioni, Zoja
Egorovna… Quanto sentimento,quanto… Tu ascolti e brami… Bramiqualcosa e ascolti…
Ebbi un singhiozzo e proseguii:– Qualcosa di straordinario…
Brami l’ultra terreno… L’amore? Lapassione? Sì, dev’essere così…l’amore (Un altro singhiozzo) Sì,l’amore…
Zoja sorrise, si confuse ecominciò ad agitare vigorosamenteil ventaglio. Ancora un singhiozzo.Non posso soffrire i singhiozzi!
– Zoja Egorovna! Ditemi, visupplico! Voi conoscete questosentimento? (Singhiozzo) ZojaEgorovna! Aspetto una risposta!
–Ilo… io… non vi capisco…– Mi è venuto il singhiozzo…
Passerà… Parlo di quel sentimentouniversale che… Lo sa il diavolo!
– Bevete dell’acqua!«Mi dichiaro, e poi vado al
buffet» pensai, e continuai:– Sarò breve, Zoja Egorovna…
Voi vi sarete certamente accorta…Ebbi un altro singhiozzo, e per la
stizza mi morsi la lingua.– Vi sarete certamente accorta
(Singhiozzo)… Mi conoscete dacirca un anno… Mm… Sono unuomo onesto, Zoja Egorovna! Unlavoratore! Non sono ricco, è vero,ma…
Un altro singhiozzo, e balzai inpiedi.
– Bevete dell’acqua!Feci alcuni passi accanto al
divano, mi premetti le dita sullagola e singhiozzai nuovamente. Machère, ero nella più terribile dellesituazioni! Zoja si alzò e si diresseverso il palco. Io la seguii. Mentrela facevo entrare nel palcosinghiozzai di nuovo e corsi albuffet. Bevvi cinque bicchierid’acqua, e il singhiozzo parvecalmarsi un po’. Fumai unasigaretta e mi diressi al palco. Ilfratello di Zoja si alzò e mi cedetteil suo posto, accanto alla mia Zoja.
Mi ero appena seduto, che tac… ilsinghiozzo ricominciò. Passaronocirca cinque minuti, e singhiozzaidi nuovo, e in un modo strano, conun rantolo. Mi alzai e mi misiaccanto alla porta del palco.Meglio, ma chère, singhiozzarevicino alla porta, che all’orecchiodella donna amata! Un altrosinghiozzo. Un ginnasiale del palcoaccanto mi guardo e scoppiò inuna fragorosa risata… Con qualepiacere scoppiò a ridere, lacanaglia! E con quale piacere gliavrei strappato un orecchio, a quelmascalzone di sbarbatello! Ride,mentre sulla scena si canta il
grande Faust! Sacrilegio! No, machère, quando eravamo ragazzi noi,eravamo di gran lunga migliori.Imprecando contro l’insolenteginnasiale, singhiozzai ancora…Anche nei palchi vicinirisuonarono le risa.
– Bis! – sussurrò il ginnasiale.– Che diavolo! – mi borbottò
all’orecchio il colonnello Pepsinov.– Potreste andarvene asinghiozzare a casa vostra,signore!
Zoja arrossì. Singhiozzainuovamente e, coi pugnifuriosamente stretti, corsi fuori delpalco. Mi misi a camminare per il
corridoio. Cammino, cammino,cammino – e continuo asinghiozzare. Cosa non provai amangiare e a bere! All’inizio delquarto atto me ne infischiai ditutto e me ne andai a casa. Unavolta arrivato, come per incanto ilsinghiozzo cessò… Mi diedi uncolpo sulla nuca ed esclamai:
– Singhiozza, adesso! Adessopuoi farlo, fidanzato fischiato! No,non fischiato! Non fischiato, ma…singhiozzato!
Il giorno seguente mi recai comeal solito dai Pepsinov. Zoja nonscese per pranzo e mi fece riferiredi non potermi incontrare perché
era indisposta, mentre Pepsinovportò il discorso su come alcunigiovanotti non sapesserocomportarsi decentemente insocietà… Imbecille! Non sa che gliorgani che provocano il singhiozzonon dipendono da stimolivolontari.
Stimolo, ma chère, significamotore.
– Se voi aveste una figlia come lamia, – mi si rivolse Pepsinov dopopranzo, – la dareste a un uomo chesi permette di ruttare in società?Eh? Dunque?
– La darei… – borbottai.– E fareste male!
Zoja per me era perduta. Nonaveva saputo perdonare i mieisinghiozzi. Per me era finita.
Debbo descrivervi anche gli altri
dodici casi?Lo farei, ma… basta così! Mi
pulsano le vene sulle tempie, dagliocchi mi scendono le lacrime e hoil fegato sottosopra… Fratelliscrittori, nel nostro destino c’èqualcosa di fatale! Permettetemi,ma chère, di augurarvi ogni bene!Vi stringo la mano e mando unsaluto al vostro Polja. Oh, hosentito dire che è un buon marito eun buon padre… Lode a lui! Mi
dispiace soltanto che beva comeuna spugna (non è un rimprovero,ma chère!). State bene, ma chère, efelice, e non dimenticate il vostroumilissimo servitore
Makar Baldastov
13 Capo della polizia distrettualenella Russia zarista.
14 Famosi cantanti d’opera russidella fine del secolo scorso.