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Architettura italiana 1944-1981 di Manfredo Tafuri Storia dell’arte Einaudi 1

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Architettura italiana 1944-1981

di Manfredo Tafuri

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:in Storia dell’arte italiana, II. Dal Medioevo al Nove-cento, 7. Il Novecento, a cura di Federico Zeri, Einau-di, Torino 1982

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Indice

Storia dell’arte Einaudi 3

1. Gli anni della ricostruzione

2. Aufklärung I. Adriano Olivetti e la communitasdell’intelletto

3. Il mito dell’equilibrio. Il piano Vanoni el’Ina-Casa secondo settennio

4. Aufklärung II. Il museo, la storia, la metafora(1951-1967)

5. Nuove crisi e nuove strategie (1968-1975)

6. Due «maestri»: Carlo Scarpa e GiuseppeSamonà

7. Il frammento e la città. Ricerche e exempladegli anni ’70

8. Architettura come colloquio e architetturacome «invettiva civile»

9. Il «caso» Aldo Rossi

10. Il rigorismo e l’astinenza. Verso gli anni ’80

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1. Gli anni della ricostruzione.

Una difficile dialettica fra il conoscere e l’agire si impo-ne, all’indomani della Liberazione, agli architetti impe-gnati a dare risposte alla nuova realtà italiana1. Difficilea causa delle contraddittorie basi su cui poggiava la tra-dizione disciplinare, ma anche a causa della molteplicitàdi livelli imposta da quel conoscere. Tanto piú che sem-brava scontato, alle forze piú qualificate, che non potes-se esistere un conoscere sganciato dall’agire: l’incontrocon la politica attiva appare un imperativo. Attraverso unsusseguirsi di ideologie, comunque, gli architetti italianiprocedono in un’affannosa ricerca di identità, appoggia-ta di continuo a tematiche extradisciplinari. In tal senso,è sin troppo semplicistico individuare nel «rapporto conla storia» il filo rosso che lega le ricerche dell’età neorea-lista agli esiti estremi dei viaggi nella memoria di archi-tetti come Scarpa, Rogers, Gabetti e Isola, Aldo Rossi oFranco Purini. Tuttavia, se per Ridolfi, Albini o Rogersvale l’imperativo che connette «l’io sono» al «cosí furo-no», per le esperienze degli anni settanta vale piuttostoquello che stringe «l’essa è» dell’architettura alle scatu-rigini prime del suo essere. La ricerca della «grande casa»dell’architettura: anche questa, camuffata sotto vesti nonancora sospette di heideggerismo, è presente nelle primeesperienze posteriori al conflitto mondiale.

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Con un inevitabile ricorso allo schematismo, tuttavia.Il riesame del recente passato viene improntato a unalogica manichea, mentre il bisogno di autocritica nongiunge al cuore delle «unità discorsive» in cui il saperearchitettonico si era scomposto e in cui continuava ascomporsi. Quell’autocritica, cosí, si limita a questionidi «stile». I convulsi fermenti che agitano la culturaarchitettonica italiana dopo il ’45, espressi in coraggioseiniziative editoriali, con la presenza nei luoghi di deci-sione, con la formazione di gruppi e associazioni, con-vergono almeno su un punto: della tradizione formatada Persico e Pagano – vista frettolosamente come uni-taria – andavano raccolte principalmente le istanze«morali», quelle che sembravano condurre inevitabil-mente «al di là dell’architettura». Automaticamente,interi settori delle ricerche degli anni venti e trenta ven-gono messi fuori gioco: una rimozione provvisoria,comunque, destinata a pesare, nella forma del «risve-glio», in anni a noi più vicini.

Solo su un fondamento etico, infatti, potevano rico-noscersi solidali gli architetti tesi a introiettare i valoridella Resistenza, compatti almeno nel perseguire un«programma di verità». Ben piú complesso era definirei contenuti di quella verità e le forme di azioni conse-guenti. Che ci si trovasse di fronte a un ciclo nuovo dacostruire sembrava pacifico; altrettanto pacifica era lanecessità di fare i conti con un’«idea di ragione» che –come denunciava in quegli anni Elio Vittorini – avevamostrato la propria disfatta.

Non ci sembra cosí casuale che la storia dell’archi-tettura italiana del dopoguerra si apra con due opereconcepite come commossi omaggi a ideali che avevanocostituito, nel ventennio trascorso, fragili punti di ap-poggio per un’intelligencija costretta a ripiegare su sestessa. Il monumento alle Fosse Ardeatine a Roma(1944 sgg.) di Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini,

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Nello Aprile, Cino Calcaprina e Aldo Cardelli, e ilmonumento ai Caduti nei campi di concentramento inGermania dei Bpr (1946): un impenetrabile massosospeso, testimonianza muta al cospetto del luogo del-l’eccidio, e un reticolo metallico su base cruciforme inpietra, contenente al centro un’urna piena di terra deicampi tedeschi2.

Da un lato, una geometria che si compromette con lamateria, memore forse del progetto per il Palazzo del-l’Acqua e della Luce all’E 42 del gruppo Albini-Gar-della-Minoletti: in un solo segno è contratto il dolo-rante ricordo di un evento che rende retorico ogni com-mento. Dall’altro, un omaggio lirico ai miti illuministidegli anni trenta, espresso con esplicite allusioni al tra-liccio di Persico e Nizzoli nella Galleria di Milano e agli«oggetti prigionieri» di Duchamp, Giacometti e Melot-ti. Si è parlato, e a ragione, per il monumento dei Bpr,di «commemorazione di un ideale»3. Ma quel monu-mento, quel reticolo «troppo razionale» opposto all’im-mensità dell’eccidio, costituisce anche un momento diriflessione che dà senso al motivo della «continuità» piùtardi teorizzata da Rogers.

Una riflessione conclusiva sul passato, dunque, ilmonumento alle Fosse Ardeatine, alla luce delle succes-sive esperienze dell’ambiente romano; il punto di unasituazione culturale ritenuta ancora operante, il monu-mento dei Bpr nell’ambiente milanese. La lirica con cuici si volge all’indietro, affinché non sia permesso dimen-ticare, è però accompagnata da un impegno nella ricer-ca di strumenti specifici atti a contribuire al problemadella ricostruzione: immediatamente, quella cultura tesaal nuovo si mostra legata a pratiche discorsive tutte ope-ranti sin dagli anni venti e trenta. Nel dicembre 1945,al I Convegno nazionale per la ricostruzione edilizia, lavoce di Rogers si leva per lamentare l’assenza di unpiano nazionale, mentre Zevi indica come modello pos-

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sibile quello dell’edilizia di guerra statunitense, tentan-do di trasferire alla situazione italiana i risultati di unsecondo New Deal letto in modo impressionistico4.

È De Finetti, il vecchio allievo di Loos, erede spiri-tuale di un Illuminismo lombardo di stampo rigorista,del tutto estraneo alle polemiche sui destini del «moder-no» e autore di alcune «inattuali» proposte per il cen-tro di Milano, fra il ’44 e il ’51, a mostrare un maggiorrealismo, leggendo gli sviluppi del tessuto milanese allaluce del mercato fondiario e preconizzando una nuovalegge urbanistica in grado di provvedere ad adeguatidemani pubblici di aree5. Ma il nodo politico della rico-struzione sfugge agli architetti: le loro petizioni verto-no sulla globalità dell’intervento, rimanendo evasiverispetto all’attrezzatura tecnico-istituzionale che avreb-be dovuto permetterla. Del resto, un documento comequello redatto nel ’44-45 da Della Rocca, Muratori, Pic-cinato, Ridolfi, Rossi de Paoli, Tadolini, Tedeschi eZocca parla chiaro circa le ideologie che ispirano le ipo-tesi della cultura italiana in merito alla ricostruzione6:l’accento batte sull’agricoltura come settore prioritariodi intervento, su un’Italia contadina ristrutturata erazionalizzata attraverso un’urbanistica che punti suuna «migliore distribuzione della popolazione» e il po-tenziamento del turismo, salutato come sicura vocazio-ne economica del paese. Gli urbanisti italiani, di fronteal tema della ricostruzione, legano tenacemente la pro-pria tradizione disciplinare a scelte politico-economicheavanzate «in proprio». Piú che alla «supplenza», il lorolavoro tende alla «simulazione».

Non sembra comunque lecito riconoscere nelle espe-rienze urbanistiche del primo dopoguerra un reale saltometodologico rispetto alle elaborazioni della secondametà degli anni trenta e alle indicazioni contenute nellalegge del ’42. L’entusiasmo e le generose illusioni checaratterizzano il clima ciellenistico permettono piutto-

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sto di fissare in modelli i contenuti ancora fluidi di quel-le elaborazioni. Il piano ar, elaborato sin dal ’44 dalgruppo italiano dei Ciam per il capoluogo lombardo7,fissa le coordinate di un sistema urbano in cui struttu-re alternative si integrano a un consolidamento del patri-monio esistente: due assi attrezzati si incrociano legan-do una zona direzionale decentrata alla viabilità regio-nale8 un restauro conservativo è previsto per il centrostorico cosí liberato; nuclei integrati di residenza e pro-duzione sono localizzati presso Gallarate, Como, Vare-se, Monza, la Brianza, nella prospettiva di una riorga-nizzazione regionale, mentre l’agglomerato urbano veroe proprio viene limitato a una città di media grandezza.Lotta contro la speculazione, conservazione e valoriz-zazione dei nuclei storici, sviluppo unidirezionale di«città alternative» sono gli obiettivi che si vorrebbeintegrare, a Milano come a Roma. Nel ’46, una com-missione di cui fanno parte Luigi Piccinato, MarioRidolfi, Aldo Della Rocca, Franco Sterbini, IgnazioGuidi, Cherubino Malpeli e Mario De Renzi è chiama-ta ad elaborare un piano del traffico per la grande Roma;ne esce un programma urbanistico completo, offertocome base per una polemica che sfocerà nelle vicende delpiano del ’629.

Tutto ciò, tuttavia, rimane nei limiti della pura eser-citazione. Anche quando, come nel caso degli studi peril piano regionale del Piemonte, frutto dell’iniziativa diGiovanni Astengo e Mario Bianco, ci si confronta conuna tematica territoriale di complessa struttura econo-mica10, emerge la volontà di consolidare una disciplinadotata di una indiscussa tradizione. È opportuno peròdistinguere le tendenze che fra il ’44 e il ’48 caratteriz-zano l’approccio italiano all’urbanistica: il regionalismodel piano ar è in linea con quello che aveva ispirato ilpiano della Valle d’Aosta, patrocinato da Adriano Oli-vetti nel 1936-37, pur nella diversità dei contesti; quel-

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lo affrontato da Astengo e Bianco per il Piemonte èpiuttosto frutto di una petizione di principio e di unaricerca di metodologie analitiche. Saranno le pressionicontingenti a far precipitare l’esperienza urbanistica indogmatismi tenacemente vincolati a modelli di sviluppocittadino alla fine ineffettuali. Per suo conto, d’altron-de, il territorio italiano sfugge ad ogni pianificazione: nelcatalogo delle utopie vengono relegate le proposte delpiano ar o quelle emergenti dal concorso del ’46 per ilcentro direzionale di Milano, mentre il crollo progressi-vo delle speranze seguite alla lotta di liberazione spingegli architetti – specie quelli settentrionali, in presenzadi una committenza piú dinamica e di un apparato indu-striale rapidamente riassestatosi – a concentrare in mes-saggi formali le loro aspirazioni a nuovi ordinamenticivili.

Il confronto con la storia, che in modo piú o menoambiguo caratterizzerà il decorso della ricerca italiana,è d’altronde imposto da occasioni clamorose, come quel-la della ricostruzione dei ponti e della zona di Por SantaMaria a Firenze, distrutti da uno dei più gratuiti atticompiuti dalle truppe tedesche in ritirata. Nell’affan-noso tentativo di contrapporre le qualità della «civiltà»all’ignominia della barbarie, gli architetti toscani sicimentano in progetti e polemiche che si concludono conuna ricostruzione del tessuto storico povera e compro-missoria: rispetto alle indicazioni – anch’esse, tuttavia,viziate da incertezze e ambiguità – di Giovanni Miche-lucci, la vicenda fiorentina sfocia anch’essa in un falli-mento, lasciando però emergere problemi su cui sem-brerà degno impegnarsi a fondo11.

La cultura architettonica italiana sente subito, peral-tro, di dover fronteggiare molteplici nemici, e non tuttiesterni. Non si tratta solo della battaglia contro la «levadei morti» di cui parlava Guido Dorso, ma anche diquella che gli intellettuali sentono di dover ingaggiare

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con se stessi, con le proprie tradizioni, con il nodo cheli lega a istituzioni da sovvertire.

Sono esattamente questi i temi affrontati dall’Asso-ciazione per l’architettura organica (Apao) e dall’azionepersonale di Bruno Zevi, tornato in Italia dopo avercompletato i suoi studi negli Stati Uniti. Zevi esordiscecon un volume, Verso un’architettura organica (1945)scritto come «manifesto» non solo di una scelta storio-grafica ma anche di un principio di azione: la fondazio-ne dell’Apao e della rivista «Metron» è conseguentealle riflessioni depositate in quel volume, le cui lineemetodologiche saranno esplicitate piú tardi in Saper vede-re l’architettura12. Per Zevi, il «superamento» dell’ereditàdel cosiddetto «razionalismo» non prescinde dalla rivo-luzione delle coscienze da esso preconizzato. Anzi, ilrinnovamento dovrà completare e approfondire un’o-perazione il cui ascetico calvinismo non ha piú ragiond’essere dopo l’ampliamento alle masse del messaggiocontenuto nel terrorismo delle avanguardie. La lezionedi Wright, principalmente – ma anche quella di Aalto –dovrà essere assorbita per «liberare» le forme, per pie-garle a una «umana» fruizione dello spazio. Ma l’insi-stenza zeviana sulle valenze spaziali va colta nel suovalore di metafora. Lo spazio è protagonista là dove esi-ste scambio fra progettazione e fruizione, dove il suooscillare fra condizioni naturali e innaturali permette ilrecupero di «luoghi», dove si fa riconoscibile l’ambien-te di una società democratica. Singolare è l’integrazio-ne tentata da Zevi del metodo analitico della «scuola diVienna» con l’eredità crociana e con una volontà diintervento diretto della storia nell’azione contingente13.Certo, lontana da Zevi era l’intenzione di proporre una«maniera» linguistica. Ma il nuovo vessillo da lui agita-to come catalizzatore di energie altrimenti prive di cen-tri è troppo mitico per non divenire adatto ad ogni uso.L’Apao afferma, nel suo programma ideologico, di per-

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seguire una pianificazione urbanistica e una libertàarchitettonica come strumenti di costruzione di unasocietà democratica in lotta: la libertà sociale deve esse-re garantita dalla socializzazione dei grandi complessiindustriali, bancari e agrari14. Tale deciso appello rima-ne tuttavia generico e privo di relazioni con le scelte dacompiere nel settore edilizio. La politica viene evocata,piuttosto che praticata dall’Apao. I cui obiettivi speci-fici, comunque, sono anch’essi vaghi: l’equazionearchitettura organica = architettura della democrazia èutile piú che altro per riconoscersi, non certo per rico-noscere. Né le incertezze della cultura romana sonocompensate dal richiamo all’ortodossia proveniente dalMovimento studi di architettura (Msa) di Milano o dalgruppo Pagano di Torino: dietro le formule, si nascon-de un’incertezza di fondo che l’analisi storiografica nonriesce a rimuovere.

Eppure, riviste come «Metron», «Domus» – direttadal 1946 al 1947 da Rogers – o «La nuova città», diret-ta dal ’45 da Giovanni Michelucci, ereditano con diver-si orientamenti la vis polemica della «Casabella» diPagano: ma la prima rimane legata alle sorti dell’Apao,la seconda si presenta con un volto aristocratico, inci-dendo scarsamente sull’architettura militante15, la terzaè costretta in limiti localistici. Rimane comunque allapubblicistica di questo periodo il merito di aver amplia-to le pertinenze dell’analisi critica e di aver abbozzatouna revisione dell’eredità storica del cosiddetto «movi-mento moderno» che produrrà ben presto i suoi frutti.

Nel frattempo, le istanze tese alla formulazione di unlinguaggio nuovo, libero dalle ambigue ipoteche delrecente passato e capace di entrare in consonanza conle speranze riposte nell’ordinamento democratico e coni valori espressi dalla Resistenza, sfociano per vie diffe-renti nella vicenda neorealista16.

Sin troppo facile è tracciare le linee di un’archeolo-

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gia del neorealismo architettonico: la mostra sull’archi-tettura rurale alla VI Triennale di Milano (1936), chevede l’esordio di Pagano come fotografo, la villa a Por-to Santo Stefano di Quaroni (1938), il progetto di Ridol-fi per un’azienda agricola a Sant’Elia Fiumerapido(1940) sono lí a testimoniare una volontà antiretoricache suo malgrado entra in risonanza con le velleità ru-raliste della politica economica del regime, che nel volerreagire al «lasciarsi vivere soltanto» cerca parole primein una logica costruttiva legata al mito della «natura-lità», che nelle sperimentazioni lecorbusieriane con imateriali poveri scopre un’ideologia di ricambio. E vieneda fantasticare su un archeologo del futuro privo didocumenti che non siano grafici o costruiti, perplesso neldover collegare opere cosí distanti come quelle citate, aiquartieri progettati da Forbat per Karaganda (1932), agliedifici residenziali realizzati da Püschel ad Orsk (1935),ai progetti per case contadine di Mel´nikov (1918-19) oal folclore di maniera di Norristown, caposaldo della«conquista» rooseveltiana della regione del Tennessee.Impossibile isolare meccanicamente le anime della«tradizione del nuovo» in separate stanze: avanguardie,populismi, rétours à l’ordre convivono come maschereintercambiabili di un medesimo attore.

Che sceglie, nel caso del neorealismo italiano, la viadella descrizione. Descrizione, innanzitutto, di unincontro traumatico con uno specchio imprevisto – laconvenzione chiamata «realtà» – che restituisce a chiguarda immagini inquietanti; descrizione di emozioniprovate nello scambiare l’orgoglio della modestia conl’immodestia di una volontà di potenza frustrata; descri-zione di un viaggio «là dove altri erano» nella speranzadi poter cosí comprendere il presente di tutti. Di talecontaminazione fra il soggetto, la collettività, la parte eil tutto vive la stagione neorealista.

Autobiografica è infatti la narrazione dell’improvvi-

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so incontro dell’intellettuale con le masse subalternerese «auratiche» dalla Resistenza; autobiografica la rive-lazione di una speranza, che proietta su un’immaginesentimentale della realtà nazionale una volontà di rige-nerazione che somiglia all’espiazione di ataviche colpe;autobiografica la struttura di opere che della loro emar-ginazione fanno motivo di orgoglio. Cosí che uno slogansembra permeare il progetto del gruppo Quaroni-Ridol-fi per la Stazione Termini, il quartiere Tiburtino o LaMartella: «Io partecipo; dunque noi siamo».

Sartrianamente, quegli intellettuali prendevano posi-zione: sceglievano di identificare il destino della loro tec-nica e del loro linguaggio con quello di classi venuteimprovvisamente alla ribalta, ricche di un passato «per-dente» eppure intriso di valori, se esso aveva permessoloro di emergere, di profilarsi come portatrici di nuove«purezze». Poco importava se l’adesione somigliavatroppo a un bagno catartico, se l’esplorazione di quelletradizioni nascondeva un masochistico bisogno di iden-tificarsi con i perdenti, se la ricerca di radici nel focola-re contadino rimuoveva l’ansia per lo spaesamentoincontrato a contatto con la società di massa. Né si erain grado di valutare che pensando di agire come re magi,recanti in dono ai nuovi eletti il proprio engagement, siera letteralmente parlati da un disegno di cui inconscia-mente ci si faceva docili strumenti.

Ma nei primi anni del dopoguerra tale risvolto nonera avvertibile. L’orgoglio con cui si pronunciano lenuove parole è proporzionale alla volontà di cancellarequelli che vengono considerati i compromessi o gli erro-ri dell’anteguerra: il linguaggio della materia e dellarealtà popolare è invocato per annullare un passato fattodi adesioni intellettualistiche o opportuniste agli etimicostruttivisti, internazionalisti o neoclassici. È su talebase che prende forma l’opera piú eloquente della «scuo-la romana», il progetto presentato al concorso per il

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fabbricato viaggiatori della Stazione Termini dal grup-po Quaroni-Ridolfi (1947).

Non è forse azzardato leggere nel progetto del grup-po Quaroni, Ridolfi, Fiorentino, Cardelli, Caré e Cera-dini per la stazione Termini l’immagine di una faticosaliberazione. Liberazione, anzitutto, di una strutturadalla propria matericità: e ciò non contrasta affatto conl’espressionistica articolazione della copertura, «grantetto» al cospetto di una città pesantemente conforma-ta ma di incerto destino. Ma liberazione, anche, dacanoni tranquillizzanti, da «soluzioni». Arrivo e par-tenza «fanno problema», in questo progetto che nonrinuncia all’allegoria – il risucchio e l’espulsione – percontaminare le tonalità, per fare della piazza coperta unomaggio alle contraddizioni del presente17. Ma nellosforzo teso al recupero di una rappresentatività voluta-mente ambigua e nel fascio di tendini che trasmettonole loro tensioni ai sostegni a doppia forcella non è forseun’esagitazione che rassomiglia sin troppo a un esorci-smo della tecnica? Nello stesso 1947, Quaroni proget-ta la chiesa al Prenestino a Roma18, con un’idea ripresanella chiesa a Francavilla al Mare (1948-58): la formaaspira a ricongiungersi all’inventio tecnologica, ma anchea far sparire, nella levitazione del rappresentato, il sog-getto stesso del fare tecnico19.

Si tratta di un controcanto rispetto all’abaco della«piccola tecnica» del Manuale dell’architetto. Tormen-tosamente, e riproducendo una casistica di «generi» chenulla ha a che fare con la tipologia, si aprono sentieriobliqui al percorso di un’architettura insofferente aridursi a semplice dispositivo, e condannata nonostantetutto a denunciare tale propria carenza. La «liberazio-ne» sopra riconosciuta come contenuto di fondo delprogetto per la stazione Termini di quelli che si stannoavviando a divenire i maestri della «scuola romana» è,alla fine, indice di un’inconfessata aspirazione a elude-

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re l’indagine circa le condizioni di senso della progetta-zione, pur presentandosi come accorato punto interroga-tivo sulle strutture della comunicazione.

Ma il progetto Quaroni-Ridolfi per Termini diceanche altro. In esso l’oggetto e l’idea di città formanoun’unità: a differenza dello strutturalismo severo maesibito del progetto di Saverio Muratori per il concorsoper il nuovo Auditorium di Roma20, lí la gestazione diun linguaggio implicato nel dolore e nelle speranze delmomento parla epicamente. Monumentalmente, il neo-realismo pronuncia inediti etimi.

Tuttavia, non un’occasione unica bensí temi genera-lizzabili costituiscono il terreno naturale di crescita delneorealismo: sia Quaroni che Ridolfi incontrano subitoil problema della nuova committenza sociale. Per Ridol-fi, la cerniera che congiunge le opere degli anni trentaalla poetica populista è costituita da un’intensa ricercamanualistica21. Del ’40 è il suo Contributo allo studio sullanormalizzazione degli elementi di fabbrica, del ’42 i Pro-blemi dell’unificazione: l’indagine verte sugli elementiminimi, sul dettaglio, sul recupero di un sicuro «mestie-re», dove l’attenzione per la correttezza e la normaliz-zazione si riallaccia alle ricerche concretizzate negli arre-di fissi e nei particolari delle palazzine di via di VillaMassimo e di via San Valentino a Roma, per metternefra parentesi i modi del linguaggio. La porta è aperta perla tassonomia del Manuale dell’architetto, pubblicato nel1946 sotto il patrocinio del Cnr e dell’Usis: è quello cheabbiamo chiamato un abaco per una «piccola tecnica»,dedicato all’età della ricostruzione22. In esso il valoredell’«esperienza» viene esaltato; all’edilizia dell’Italiapostfascista viene consegnato un prontuario «da botte-ga». In realtà, la concretezza della tradizione costrutti-va che il Manuale esalta è frutto di una media di cultu-re regionali non immune da intellettualismo: l’esperan-to vernacolare che assume in esso forma tecnologica si

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riallaccia alla celebrazione del regionalismo in abito«folk» che era stato uno degli ingredienti ideologici delNew Deal. Il manuale destinato a divenire testo di rife-rimento per l’architettura tesa alla ricerca del «nazio-nal-popolare» funge da tramite rispetto alle esperienzedi una politica sperimentata oltre oceano e divenutamerce di esportazione.

Al Manuale e alle tipologie studiate da Ridolfi per ifascicoli normativi dell’Ina-Casa, tipiche espressioni del-l’ambiente romano, risponde il Problema sociale costrut-tivo ed economico dell’abitazione, opera di Diotallevi eMarescotti – già collaboratori di Pagano per il progettodi «città orizzontale» – edita a Milano nel 194823. Alculto del dettaglio costruttivo, il volume di Diotallevi eMarescotti oppone analisi sociologiche e tipologiche, conespliciti riferimenti ai modelli della Germania di Wei-mar, specie nel primo gruppo di tavole: la stessa orga-nizzazione dell’opera, per schede successivamente inte-grabili, ne caratterizza il contenuto, in presa diretta conla grande tradizione dell’architettura e dell’urbanistica«radicali» fra le due guerre. Ve n’era abbastanza perriservare un’accoglienza men che disattenta al Problemasociale dei due milanesi, destinato, a differenza delManuale ridolfiano, a divenire rarità bibliografica. Maper inquadrare storicamente quella sfortunata iniziativaeditoriale, è necessario considerarla una tappa interme-dia, nell’attività teorica di Marescotti, fra la mostra «Lacittà del sole» (Catania 1945) e lo studio sui problemidell’edilizia per il piano del lavoro proposto dalla Cgil24.L’impegno di Marescatti è in presa diretta con le riven-dicazioni del movimento operaio e del movimento coo-perativo: i suoi sbocchi limitati conseguono alla sconfit-ta delle sinistre alle elezioni del ’48 e all’avvento dellapolitica centrista, ma anche alle proprie interne utopie.Per Marescotti, infatti, i centri sociali cooperativi sonoluoghi di organizzazione autonoma dell’utenza con obiet-

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tivi antiburocratici: l’associazione cooperativa è salutatacome forma di azione politica dal basso, in polemica conogni gestione piramidale. Era inevitabile per Marescot-ti entrare immediatamente in conflitto con gli stessi par-titi di sinistra: fra Bottoni, che offrirà la sua tecnicalineare al movimento operaio organizzato, e le istanzeantiburocratiche di Marescotti, si apre un incolmabilevarco. Quello di Marescotti, tuttavia, è populismo ideo-logico espresso in forme ascetiche: i suoi quartieri perl’Iacp di Milano – Baravalle e Varesina del 1947, Man-giagalli del 1949 – sono fedeli agli studi sulla «casadell’uomo» elaborati dallo stesso Marescotti negli annitrenta, mentre il centro sociale e cooperativo «Grandi eBertacchi» (1951-53) costituisce il canto del cigno dellesue idee partecipative25.

D’altro lato, opere come la Casa del Viticultore diIgnazio Gardella (1945-46) e il Rifugio Pirovano a Cer-vinia di Albini (1949-51) testimoniano – come poco piútardi il quartiere di Cesate – la penetrazione anche aMilano delle ideologie populiste: anche se, specie nelrifugio albiniano, queste vengono accolte come valoreaggiunto di un aristocratico distacco dal materiale for-male. Vero è, piuttosto, che il volume di Diotallevi eMarescotti, il quartiere qt8 a Milano, alcune delle operedegli anni quaranta dei Bpr, come le case in via Alcui-no (1945), le testimonianze di fedeltà alla sintassi ele-mentarista di Figini e Pollini (casa in via Broletto del1947-48), di Ghidini e Mozzoni (la terragnesca villa aGallarate del 1948), di Piero Bottoni (edificio polifun-zionale in corso Buenos Aires, 1947-49), o il raffinatoascetismo di Asnago e Vender, autori, fra l’altro, del-l’edificio per uffici e abitazioni in piazza Velasca (1950),esprimono nel loro insieme una proposta radicalmentealternativa all’organizzazione della produzione ediliziadell’età della ricostruzione. Né è un caso che tale linea– perdente – si profili in un centro industrialmente

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sviluppato, laddove da Roma si afferma l’ipotesi – vin-cente – di una gestione dell’edilizia come sacca di con-tenimento della disoccupazione e settore subordinato almercato finanziario e speculativo.

Dal punto di vista linguistico, la «continuità» lom-barda e il populismo romano sembrano concordare alme-no su un punto: sulla messa fra parentesi del problema.Una comune linea riduzionista viene abbracciata. Siparla – anche in opere indubbiamente elaborate come laCasa al Parco di Gardella (1947) – con sintassi «pove-re», come a voler riflettere le condizioni del frangentestorico impedendosi di oltrepassarle.

Eppure, afone, nei confronti delle ricerche neoreali-ste, appaiono le testimonianze di continuità con l’espe-ranto moderno. Ed è significativo che su quest’ultimosi innesti la pratica sociale che muove l’opera di Ma-rescotti o di Bottoni: la forma che riveste le ricerche chepuntano a una produzione di massa e a una riforma pia-nificata dell’abitazione è affatto dimessa. D’altronde,non è certo con problemi formali che si confronta Bot-toni nel progettare, per l’VIII Triennale di Milano, ilquartiere sperimentale qt8. Iniziativa indubbiamenteinnovatrice, quella di Bottoni, che unifica una propostadi rivitalizzazione della Triennale con una chiamata araccolta delle forze vive della cultura architettonica ita-liana intorno al tema della residenza popolare. Il qt8, ilcui piano urbanistico diviene parte integrante del pro-getto di piano regolatore di Milano e dei piani di rico-struzione, è concepito come mostra permanente dinuove tipologie, di programmi costruttivi e igienici spe-rimentali, di una tecnologia basata sulla prefabbricazio-ne e l’industrializzazione: norme speciali vengono ela-borate da Luigi Mattioni in collaborazione con l’ufficiotecnico della Triennale – di cui Bottoni è commissario– mentre i diversificati tipi edilizi si attengono a unasciutto elementarismo26.

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Eppure, nel clima politico-economico definito dallastrategia di Luigi Einaudi, imprese come il qt8 o impo-stazioni del tema sociale dell’alloggio come quella diMarescotti assumono tratti utopistici. La stabilizzazionemonetaria einaudiana aveva allontanato il pericolo del-l’inflazione e ridotto progressivamente il deficit delloStato: ma a spese di un’aumentata divaricazione dellaforbice fra regioni settentrionali e regioni meridionali,senza risolvere il problema del passivo dei conti conl’estero, e soprattutto con un pauroso aggravio delladisoccupazione, che da 1 654 872 unità del 1946 toccaun massimo di 2 142 474 unità nel ’48. L’edilizia è chia-mata a «risolvere» il problema coscientemente creatodalla politica neoliberista: il piano Fanfani diviene leggenel febbraio 1949, originando la Gestione Ina-Casa, conil titolo Provvedimenti per incrementare l’occupazione ope-raia, agevolando la costruzione di case per lavoratori. Chia-re sono le finalità del piano: arginare l’aumento del tassodi disoccupazione, usare l’edilizia in funzione subordi-nata ai settori trainanti, tenendola ferma a un livellopreindustriale e in funzione dello sviluppo delle piccoleimprese, mantenere inalterato piú a lungo possibile unsettore della classe operaia fluttuante, ricattabile e nonmassificabile, fare dell’intervento pubblico un sostegnoper l’intervento privato.

Non certo le proposte di innovazione produttivaimplicite nella manualistica di Marescotti o nel qt8 pos-sono essere funzionali a tali obiettivi. Piuttosto, l’esal-tazione di una tecnologia povera e legata alle tradizioniregionali, cosí come si configura nelle tavole del Manua-le dell’architetto e nelle aspirazioni del neorealismo, entrain singolare consonanza con essi: la celebrazione del-l’artigianato, del localismo, della manualità, cosí comel’insistenza sull’organicità degli insediamenti, distanti –idealmente e spazialmente – dalla «città del compro-messo» formano gli ingredienti privilegiati della poeti-

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ca neorealista e delle esperienze del primo settennioIna-Casa27.

La politica urbanistica dell’Ina-Casa appare subito aipiú avvertiti antitetica a una «sana» pianificazione urba-na. Dislocati in aree lontane dai centri urbanizzati perusufruire di terreni a basso costo, i quartieri Ina-Casasfuggono a inquadramenti di piano o condizionano que-sti ultimi, stimolando la speculazione fondiaria e edili-zia che progressivamente li raggiunge ed accerchia,approfittando delle infrastrutture create dall’operatorepubblico. Non a caso, programma e gestione dell’entesono condizionati dal paternalismo di Arnaldo Foschi-ni: per suo tramite, si cala nella nuova realtà un ulterioremotivo di continuità con i risvolti populisti agiti nel ven-tennio fascista. Si pone quindi un «problema di coscien-za» agli architetti italiani riuniti nell’Apao: esso saràrisolto scegliendo la via della Realpolitik, ma con con-traccolpi non indifferenti sulla compattezza di quel grup-po di pressione.

«Manifesto» del neorealismo architettonico e insie-me dell’ideologia dell’Ina-Casa primo settennio è il quar-tiere Tiburtino a Roma, che vede riuniti, fra il ’49 e il’54, i due nuovi «maestri», Quaroni e Ridolfi, insiemea giovani e giovanissimi collaboratori, come CarloAymonino, Carlo Chiarini, Mario Fiorentino, FedericoGorio, Lanza, Sergio Lenci, Piero Maria Lugli, CarloMelograni, Giancarlo Menichetti, Rinaldi, MicheleValori: la «scuola romana» ha qui un ulteriore momen-to fondativo28. Esiliato dalla città, il Tiburtino volgesdegnosamente le spalle a quest’ultima. I suoi modellisono i luoghi della «purezza» popolare e contadina; diessi, il nuovo quartiere intende riprodurre la vitalità, la«spontaneità», l’umanità. Non piú le rigorose griglie oil terrorismo geometrico della Neue Sachlichkeit: l’in-tento è esaltare l’artigianalità che costituisce il modoobbligato di produzione del complesso, salutandola come

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antidoto antialienante. Ne esce una planimetria vaga-mente informale, solo marginalmente controllata tipo-logicamente, e un’architettura ricca di motivi strapae-sani, dai balconi in ferro battuto, alle coperture a tettotradizionale, al taglio delle finestre, alle sequenze dellescale esterne e dei ballatoi. Ma è proprio qui che, invo-lontariamente, la polemica antiavanguardista del neo-realismo si morde la coda. Il lessico popolare, elevato anorma linguistica, è assunto, specie nei blocchi control-lati personalmente da Ridolfi, come puro «materiale».La comunicazione, ricercata con tanta accoratezza,avviene grazie alla deformazione di quel materiale lin-guistico, grazie alla sua distorsione: il procedimento èesattamente quello preconizzato dal formalismo e dalleavanguardie tecnologiche. Il che contiene un ulteriorerisvolto. L’ansia conoscitiva nel neorealismo si rivelainfatti, sulla base di tali considerazioni, per quello cheè: ansia di un gruppo intellettuale di conoscere se stes-so, nei casi peggiori attraverso l’immersione nei teporidell’eterna pace contadina, in quelli migliori comeespressione di rancore e di traboccante volontà dicomunicazione.

Nonostante tutto, rimane nel Tiburtino uno schiaffoalla rispettabilità piccolo-borghese. Né città, né periferia,il quartiere, a rigore, non è neanche un «paese», bensí èun’affermazione, insieme, di rabbia e di speranza, anchese le mitologie che lo sostengono rendono la rabbia im-potente e la speranza ambigua. Uno «stato d’animo»tradotto in mattoni, laterizi e intonaci di scarsa qualità:come ogni stato d’animo, esso doveva essere «superato».Era necessario lasciar là il Tiburtino, fra la montagnasabina, le sconnesse zone industriali, la ferrovia e il quar-tiere di San Lorenzo, come testimonianza di un incon-tro unilaterale fra intellettuali e lotte popolari.

Poiché è chiaro che tutta la carica eversiva che pro-mana dall’antiformalismo del Tiburtino, da questo

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monumento all’incerta linea di confine che separa ladelusione dell’engagement, contiene, paradossalmente,un «grande sì» detto alle forze che dell’isolamento del-l’edilizia popolare fanno incentivo per la speculazione,dell’arretratezza tecnologica uno strumento di sviluppoper i settori avanzati, dell’eloquenza un motivo di sta-bilizzazione. Era necessario lasciar solo il Tiburtino. Siprocedette invece in direzione contraria, riducendo aformula quell’irripetibile episodio, che con troppa gene-rosità offriva materiali di facile uso e consumo.

Eppure, sia Ridolfi che Quaroni intuiscono che l’e-sperienza lí fatta è irripetibile: le loro diverse declina-zioni dell’ideologia populista battono ben presto nuovestrade.

Praticamente a ridosso dell’esperienza del Tiburtino,infatti, Ridolfi offre, calata nel vivo della periferia roma-na, una delle piú alte testimonianze dell’inquietudineintellettuale dei primi anni cinquanta, dimostrando lafecondità della propria disponibilità linguistica. Il nucleodi case alte in viale Etiopia a Roma, realizzato da Ridol-fi per l’Ina (1950-1954), accetta la densità edilizia diquello che non a caso è stato chiamato il «quartiere afri-cano»: anzi, la continuità della struttura cementizia esi-bita, la perentorietà volumetrica delle torri ad angolismussati, la violenza chiaroscurale si traducono in epicapopolare, ostentano la propria drammaticità come com-mento dolorosamente partecipe di una condizioneumana non riscattabile con «certezze» architettoniche.Per questo le orgogliose torri di Ridolfi adottano solu-zioni irripetibili. L’uso del colore, del ferro lavorato,della maiolica smaltata non introduce notazioni ironiche,bensí una «piccola scala» – quella alla quale ha ancorapossibilità di esprimersi il fare artigiano – che sottolinea,per scarti, la grande scala del complesso29. Assoluta-mente nuova, per lo stesso Ridolfi, tale composizione«per scarti». Indubbiamente, l’autore si trova, nel con-

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testo di viale Etiopia, in una situazione che lo spinge amettere fra parentesi ogni afflato sentimentale e ogninostalgia; la sapienza con cui egli tratta la doppia scalain cui sceglie di giocare il suo intervento – la sensibiliz-zazione delle intelaiature cementizie e delle coperturerispondono, con tonalità grave, alle «sfacciate» varia-zioni delle soluzioni di dettaglio – segnano, per Ridol-fi, il passaggio dal neorealismo al realismo.

Un realismo che, malgrado quanto è stato scritto incontrario30, non sembra colto da Mario Fiorentino nelleattigue torri residenziali realizzate fra il 1955 e il 1962sullo stesso viale Etiopia al ciglio della ferrovia: grazio-samente agnostiche, le torri di Fiorentino riducono letensioni ridolfiane, per proporsi come «civili» divaga-zioni in una violenta periferia. D’altra parte, il rischiocui la ricerca ridolfiana si espone è proprio questo: i suoistrumenti espressivi divengono facilmente commestibi-li: da Roma città aperta è sin troppo facile passare a Paneamore e fantasia. Ma la ricerca di Ridolfi procede per dia-gonali: nello stesso 1950, insieme a Wolfgang Frankl,suo collaboratore fisso, Ridolfi realizza un quartiere Inaa Cerignola, frutto di un attento studio del comporta-mento umano dei futuri abitanti e, ancor piú, di unasevera declinazione della tipologia e del gioco con lamateria31. Il fare sofferto è ancora quello delle torri diviale Etiopia; ma a Cerignola la densità delle allusionirapprese nella tessitura dei materiali e nell’asciuttezzadei volumi non permette «copie». Anche l’isolamentocui si condanna l’alto artigianato è atto – involontario– di realismo: la poesia concessa e stimolata dal ritardotecnologico è sublimazione di una transeunte contin-genza, e il canto che ne scaturisce sa di vivere una sta-gione colpevolmente felice. Che poi tale «colpa» fossevissuta in qualche modo da Ridolfi lo dimostra un’ulte-riore opera del 1950-51, la palazzina romana in via G.B. De Rossi. Un ritorno all’edilizia per il ceto medio,

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dunque: ma ora non è piú possibile al lirico dell’«altraRoma» affrontare il tema con il medesimo distacco uti-lizzato nell’anteguerra nella vicina palazzina in via diVilla Massimo o ai Parioli. Non v’è piú tipologia da pro-porre per quel ceto, nessun «modo di vita». Ne esce unespressionistico cozzare di forme, un irrequieto e dode-cafonico elenco di distorsioni geometriche, culminantinella tormentata trave cementizia a profilo spezzato chefa da basamento. Lo «schiaffo al gusto del pubblico»viene reiterato, in quest’opera ridolfiana. Alla scontro-sa dignità del quartiere di Cerignola si sostituisce a viaDe Rossi una sorta di «ritratto» della committenza:disgregata, inutilmente ansiosa, volgare in definitiva,essa appare, nella lettura di Ridolfi, singolarmente vici-na a quella che in diverse occasioni vorrà darne Viscon-ti. E un ulteriore confronto si impone. La palazzina divia De Rossi e le torri di viale Etiopia: due lingue perdue realtà compresenti, l’eccezione e la regola, anche sela prima non scalfisce la realtà da cui si divincola, e laseconda è obbligata a un semplice «commentare».

È questo il dramma cui la poetica ridolfiana va ineso-rabilmente incontro: il gioco delle manipolazioni dellamateria diviene sempre piú tormentoso, come nelle palaz-zine in viale Marco Polo (1952) e in via Vetulonia(1952-53) a Roma, colloquia con la struttura urbana diTerni – città cui il Nostro dedica una meticolosa e conti-nua opera di «cura urbanistica»32 – come nella magistra-le Scuola media in via Fratti, si staglia polemicamente aldi sopra di edifici eclettici, come nelle sopraelevazioni divia Paisiello (1948-49) e di via Mercadante (1954-55) aRoma, sottostà a un rigoroso imperativo geometrico nellenuove carceri di Nuoro, progettate nel 1953-5533. Ma allesoglie del «miracolo economico», la scomparsa progressi-va delle condizioni che avevano sostenuto il sorgere diquella poetica riducono quello che era stato un incontrofra l’urgere di un soggettivo bisogno di comunicare e le

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necessità imposte dalla situazione storica a una coerenzache sopravvive a se stessa parlando con inopportunanostalgia di un «cattivo» mondo scomparso.

Nel frattempo, la complessità della ricerca ridolfianacontribuisce ad alimentare polemiche disgreganti in senoall’Apao. L’attenzione della critica si rivolge quasi esclu-sivamente alle piú scoperte motivazioni populiste delneorealismo: ma non è certo questo un esito accettabi-le per chi, come Zevi, aveva proposto la formula «orga-nica» come strumento di arricchimento e non di ever-sione della tradizione «moderna». Nel 1950, la Storiadell’architettura moderna di Zevi precisa e sistema defi-nitivamente i concetti anticipati in Verso un’architettu-ra organica e in Saper vedere l’architettura. In un sugge-stivo racconto, le cui articolazioni molto debbono adesclusioni obbligate da una ricerca storiografica ancoraembrionale e ad azzardati giudizi ben presto smentiti daifatti, Zevi tenta di riportare il dibattito sui «destini»dell’architettura in ambiti non viziati da folclorismi o dacadute populiste. Non a caso, in quel volume egli nonriconosce nel neorealismo un’incarnazione, sia pure par-ziale, della poetica «organica», limitandosi ad indicare,come esempi di una tendenza nascente, il progetto diSamonà per l’Ospedale traumatologico di Roma, il risto-rante a Sabaudia di Claudio Dall’Olio, la palazzina dalui stesso progettata insieme a S. Radiconcini in viaPisanelli a Roma. Né Scarpa – non ancora «scoperto» –né Carlo Mollino vengono considerati in quel volume.Eppure, proprio Mollino, con la Stazione per slittoviacon albergo al Lago Nero in Val di Susa (1946 sgg.) econ i suoi oggetti di design, procedeva verso un’inte-grazione di membrature ridotte a scheletri animati inorganismi aerodinamici, che fornivano, come già la suasede della Società ippica a Torino (1935-39), una ver-sione originale e ironica dell’organicismo34. In effetti,una vera tendenza organica non prende piede in Italia,

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malgrado l’appassionata predicazione zeviana. Operecome il Villaggio del fanciullo a Trieste-Opicina (1949)di Marcello D’Olivo – una delle piú notevoli di queglianni –, o la villa a Mondello di Samonà (195o) riman-gono isolate insieme alle geniali riletture wrightiane diScarpa e a pochi exploits di maniera. Il dibattitosull’architettura organica rimane a livello letterario. Nel’51, Giulio Carlo Argan risponde implicitamente al dise-gno contenuto nella Storia zeviana con un volume pub-blicato anch’esso da Einaudi, dedicato a Walter Gropiuse la Baubaus. Non si tratta di una contrapposizione dilinee normative. Il Gropius ricostruito da Argan è erededell’etica protestante cosí come viene interpretata daWeber e da Troeltsch, è portatore di un mito europeodella ragione «che reca in sé i germi del dubbio e deldisinganno», è protagonista di un salvataggio in extre-mis «di un’idea di civiltà dall’inevitabile collasso dellaclasse dirigente». La «razionalità» di Gropius, comequella di Le Corbusier o di Mies – preciserà piú tardiArgan35 – nasce «da un’ultima illusione d’immunità por-tata nel vivo della mischia», dato che il concetto moder-no di libertà non è piú identificabile con una «sconfinataeffusione nell’immenso dominio della natura»: la fedeltàa quella lezione, già data come perdente sul piano ideo-logico, è considerata un’imprescindibile necessità.

Difficile lettura, quella di Argan, per la cultura ita-liana dei primi anni cinquanta. Considerate con unrispetto proporzionale all’incomprensione, le pagine diArgan formano un’élite di giovani storici, ma, comequelle di Zevi, non modificano sostanzialmente la vicen-da architettonica. La crisi dell’Apao e del Msa pone ilproblema, per conto suo, di nuovi modi di organizza-zione della cultura architettonica, che ha ancora daabbattere residui accademici particolarmente forti nellesedi universitarie. A Venezia, Giuseppe Samonà racco-glie alcuni dei protagonisti piú vivi del dibattito italia-

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no: Zevi, Albini, Gardella, Belgiojoso, Giancarlo DeCarlo, Scarpa, Luigi Piccinato, Giovanni Astengo con-tribuiscono a fare della scuola da lui diretta una roc-caforte avanzata; ma Venezia è subito isolata dal mondoaccademico, e «l’isola felice» è costretta a crescere su sestessa. L’Inu procede invece agitando il vessillo dellapianificazione, cercando un colloquio con le forze poli-tiche che avrà alterne fortune.

Ed è appunto vivendo da protagonista la battagliadell’Inu che Quaroni prosegue, dopo il Tiburtino, ilproprio tragitto. Anche per lui, quell’esperienza è supe-rata mentre si compie: senza poetiche, senza «lingue»,Quaroni si obbliga a un bagno nella realtà italiana, allaricerca di strumenti in grado di «potere». Prima unbreve periodo all’interno del Gruppo tecnici socialisti,poi l’impegno meridionalista, l’incontro con il movi-mento Comunità di Adriano Olivetti, le ricerche perl’inchiesta parlamentare sulla miseria36: Quaroni nonmette in questione solo gli strumenti della progettazio-ne urbana, ma anche le tecniche di analisi. Con un inter-rogativo di fondo, relativo alle strutture destinate a coa-gulare e rendere realmente sociale la domanda prove-niente dalla base.

Non casuale, al proposito, l’incontro di Quaroni conOlivetti. Il movimento di Comunità, infatti, tramite lasua azione capillare, l’organizzazione che tende ad offri-re agli intellettuali in nome dell’unità della cultura, i suoistrumenti editoriali, appare come una «repubblica degliintellettuali» in presa diretta con il sociale, priva delleremore nei confronti delle nuove scienze umane cheprovengono dai partiti di sinistra. L’anima terzaforzistadi molta intelligencija italiana trova cosí in Comunità unterreno obbligato. Il quale si concreta privilegiando,appunto, l’urbanistica, con riferimenti – propagandatisia dalla rivista «Comunità» che dalle edizioni del movi-mento – alla sociologia urbana e ai modelli di interven-

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to anglosassoni. I motivi populisti serpeggianti nell’etàdella ricostruzione si incontrano in tal modo con imodelli decentralisti e con un pensiero teso a recupera-re qualità comunitarie in insediamenti concepiti in alter-nativa alla «Dinosaur City»: i testi di Lewis Mumford,le Greenbelt Cities di età rooseveltiana, l’esperienzadella città-giardino possono cosí essere filtrati attraver-so l’ideologia olivettiana divenendo materia di riflessio-ne per nuovi esperimenti37. L’urbanistica diviene cosílinguaggio che pretende di ridurre a sintesi le molte lin-gue che governano la città: in essa, quella inquietantepluralità di tecniche trova una patria e una dimora.

Per Adriano Olivetti si tratta di un’azione in conti-nuità con quella intrapresa nell’anteguerra e che avevaportato ai progetti teorici di pianificazione della Valled’Aosta: alle sue idee presiede una concezione dell’im-presa come luogo da cui si irradii una razionalizzazioneneoumanistica dell’ambiente fisico. È quindi conse-guente il percorso che porta Olivetti alla presidenza del-l’Inu e alla vicepresidenza dell’Unrra-Casas, come è con-seguente quello che conduce lo stesso Olivetti, Quaro-ni e una serie di architetti romani ad agire nel cuore delsottosviluppo meridionale.

Proprio come vicepresidente dell’Unrra-Casas, Oli-vetti, sfruttando nuovi finanziamenti da parte del fondoErp (European Recovery Program) centra l’attenzionesul Mezzogiorno, nella prospettiva di un programma didecentramento industriale in regioni come la Campania,la Basilicata, le Puglie. Non si tratta, per lui, solo dichiudere la forbice del dualismo economico nazionale.Partire dal sottosviluppo significa anche intervenire inzone non compromesse, al fine di raggiungere equilibriterritoriali piú difficilmente ottenibili nelle regioni svi-luppate. I modelli newdealisti, e quello della TennesseeValley Authority in particolare, sembrano agire esplici-tamente in tale concezione38.

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L’attenzione si accentra sul «caso» dei Sassi di Mate-ra, l’agglomerato che aveva commosso la cultura italianadopo la lettura delle pagine del Cristo si è fermato a Ebolidi Carlo Levi, e che era stato definito sia da Togliatti cheda De Gasperi «vergogna d’Italia». Matera è cosí assun-ta – anche a causa delle lotte popolari che vi scoppianonel 1945 – a capitale-simbolo dell’universo contadino, eviene sottoposta ad analisi da sociologhi americani e ita-liani, da giornalisti, da economisti, da architetti39: nel1950, una relazione di Mazzocchi Alemanni e Calia peril Consorzio di bonifica della media valle del Bradanopropone una ristrutturazione agricola del territorio lega-ta alla creazione di borghi rurali e allo sfollamento deiSassi. È a questo punto che interviene Olivetti. Su suainiziativa, viene costituita, nel 1951, la Commissione distudio della città e dell’Agro di Matera, a cura dell’Inue dell’Unrra-Casas, per la quale lavorano Quaroni, Fede-rico Gorio, Tullio Tentori e Rocco Mazzarone con unimpegno pressoché volontaristico e fra difficoltà d’ognigenere. La legge n. 619 del 1952 per il risanamento deiSassi, infatti, usa in modo distorto le indagini della Com-missione, prevedendo l’inabitabilità di 2472 case sulle3374 censite e la creazione di borgate rurali per il trasfe-rimento delle famiglie evacuate. In realtà, in presenza diquella che è stata definita la «controriforma fondiaria»40,il caso di Matera esemplifica il ruolo assegnato al sotto-sviluppo dal grande capitale industriale: il sottosviluppostesso, infatti, va gestito come serbatoio di manodoperadi riserva per le aree industrializzate, e per questo ènecessario confermare la vocazione contadina del Sud,gonfiare artificialmente il settore terziario, attuare unapolitica di opere pubbliche nel Mezzogiorno che ne sti-moli il ruolo di consumatore41.

In tale ottica vanno inquadrati sia il villaggio Unrra«La Martella» che i quartieri Serra Venerdì, Lanera eSpine Bianche. La Martella viene progettata da Quaro-

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ni, con Gorio, Piero Maria Lugli, Michele Valori e Agaticome nucleo modello di intervento territoriale e digestione: alcuni dei progettisti del Tiburtino si trovanodi nuovo insieme a «scoprire» la realtà meridionale42. Neesce un insediamento aderente alla situazione geografi-ca e a suo modo plasmato come omaggio commosso aquella realtà: l’«unità di vicinato», rilevata nei Sassi,viene reinterpretata in un linguaggio a metà fra il popu-lista e l’astratto, nelle case dislocate secondo le curve dilivello e che hanno nella chiesa di Quaroni, dominata dauna torre sull’altare, il loro punto fisso di riferimento.Ma i conflitti fra l’Ente riforma e i criteri dei tecnici del-l’Unrra rendono inefficienti i servizi e fanno fallire gliobiettivi primi del villaggio: l’estremismo conservatoredel blocco agrario ha ragione sui progetti di riformaeconomica, sociale e fondiaria.

Per Quaroni si tratta di un duplice fallimento: l’im-pegno meridionalista trova come ostacoli interessi con-solidati e il conflitto fra i poteri si risolve negativamen-te a causa dell’ambiguità interna, anche, delle illusioni«terzaforziste». I Sassi, nel frattempo, contribuisconoad alimentare indirettamente l’ideologia comunitaria edecentralista: i nuovi quartieri materani di SerraVenerdì, di Spine Bianche, di Borgo Venusio, che rea-lizzano le linee portanti del piano regolatore redatto nel1952-56 da Luigi Piccinato43, sorgono come «paesi nelpaese», mentre incerto rimane il rapporto residenza-lavoro nello sviluppo urbano.

Il caso di Matera, su cui tanto si affanna la culturaitaliana, non è certo il piú grave del sottosviluppo nazio-nale: esso è però il piú «letterario», e ciò giustifica laconcentrazione degli interessi. In realtà, per città meri-dionali come Napoli, Bari o Palermo, opere pubblicheed edilizia fungono da mezzi di contenimento delladisoccupazione e come strumento di primo addestra-mento al lavoro per ceti agricoli da indirizzare verso

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l’immigrazione nelle regioni sviluppate, a formare unesercito di riserva atto a contenere i livelli salariali.

Di fronte a tale piano sotteso, la cultura architetto-nica e urbanistica non ha armi adeguate, né il riferi-mento – peraltro generico e sospettoso – ai partiti disinistra riesce a fornirne. Là dove gli architetti tentanodi calare la propria tecnica nella trasformazione dellestrutture si registrano scacchi cocenti: le città e i terre-ni periferici sono sedi delle piú sfrenate speculazioni,come conseguenza collaterale della politica neoliberistaimposta dai centri di potere.

Il che spiega come mai l’edilizia che dà forma allanuova Roma degli anni cinquanta non abbia nulla a chefare con lo sperimentalismo di Quaroni né con l’accoratolirismo ridolfiano. Per l’alta e la media borghesia è lípronta la tipologia della «palazzina», consacrata dalpiano regolatore del 1931 e perfettamente adeguata avellicare le ambizioni condominiali di una classe sostan-zialmente statica44; alle classi popolari sono riservati gliintensivi che si ammassano alla periferia; al sottoprole-tariato le «borgate» e i vani abusivi, che ancora neglianni settanta ammontano a cinquecentomila, ospitandoun quinto della popolazione romana. Ugo Luccichenti,Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti si incaricanodi rendere la «palazzina» oggetto di piacevole consumo:cordialmente, questa tipologia di compromesso si instal-la nelle fasce contigue al centro storico, a designare, coni suoi balconcini neoorganici o «alla Rietveld», le suevolumetrie obbligate ma che non rinunciano a esibizio-nismi, i suoi materiali ben curati, lo status symbol chead essa viene richiesto45. Né mancano interpretazioni«monumentali» della palazzina: Luigi Moretti, nella suaCasa del Girasole a viale Bruno Buozzi (195o), attribuiràa quel tipo edilizio le cadenze solenni del tempio, squar-ciato da una rampa ascendente. Si viene cosí a creareuna situazione paradossale. Il professionismo di Mona-

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co e Luccichenti o le rarefazioni formali di Luigi Morettibattono la via del «disimpegno» declinando alfabeti chehanno comunque le loro radici nella tradizione dell’a-vanguardia; l’engagement, per suo conto, sembra segui-re vie regressive. Il che ha persino una sua coerenza: lalingua del «Neues Bauen» mostrava la propria disponibi-lità, ma anche la propria aulicità. Chi voleva esser «com-prensibile» pensava bene di doversene allontanare, ripie-gando sulla deverbalizzazione architettonica.

Certo, era facile accusare di formalismo Moretti daparte della cultura «impegnata». Eppure, le sue case-albergo a via Corridoni (1948-50) 0 il complesso per abi-tazioni e uffici in corso Italia a Milano (1952-56), assaipiú della Casa Astrea a Roma (1949), sono qualificateda una scrittura sicura, non immune da tonalità irreali-ste per eccesso di astrazione. La sapienza del comporre,rivendicata da Moretti, investe organismi che traduco-no in lingua astratta forme classiche: il purismo elo-quente dei suoi edifici milanesi è fedele, in sostanza, allericerche più «metafisiche» degli anni trenta, quelle diTerragni comprese. Ma nel clima degli anni cinquantatale ricerca è destinata a rimanere isolata o ad essererespinta. Il lirismo di Moretti raggiunge ancora alti livel-li nella Villa Pignatelli a Santa Marinella (1952-54), per-seguendo uno spazio – come scrive il suo autore – estra-neo alle «avventure grandi e piccole» della vita quotidia-na: volumi incurvati e ciechi, intonaci mediterranei,allusioni arabizzanti proteggono una «casa gelosa, sara-cena, degli affetti e dei pensieri». Ben presto, tuttavia, leastrazioni morettiane pencoleranno verso grafie fini a sestesse, come nella Casa San Maurizio a Roma (1962), onel nuovo complesso termale di Fiuggi (1965)46.

Ma intanto, la Palazzina del Girasole, gli edifici mila-nesi e i pochi numeri della rivista «Spazio» diretta daMoretti fra il ’5o e il ’53, si appropriano, «da destra»,dell’eredità linguistica dell’avanguardia; magari per ten-

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tare di dimostrarne la non estraneità a una cultura chepaga i propri debiti all’accademia. Se nelle «aure»morettiane è comunque leggibile una sintassi inequivo-cabile, insieme a un legame diretto con le velleità dellasua committenza, nelle opere degli architetti impegnatisul fronte del rinnovamento e non attestati né sulla linea«organica» né su quella neorealista, è facile scorgereuna cautela che si nasconde dietro timide eleganze. L’e-dificio per abitazioni e uffici di Samonà a Treviso(1949-53) o l’Ospedale Inail a Bari dello stesso autore(1948-53) si affidano a formule sicure, mentre Gardel-la, con le sue case per impiegati ad Alessandria (1952),la Galleria d’Arte Moderna a Milano (1951-54), leTerme Regina Isabella a Ischia (1950-53), intesse tenuicolloqui fra vibrazioni dei volumi e tessiture di mate-riali47. La tacita parola d’ordine è sempre quella del supe-ramento dialettico del «razionalismo»: senza clamore,ma pervicacemente, la nuova qualità è cercata in varia-zioni basate sull’esaltazione della materia, sulla cordia-lità e l’indeterminazione delle forme, su un’empiriaassunta come metafora di una condizione artigianaleche costringe a produrre opere uniche dissimulate sottouna patina di modestia.

Eppure, è proprio tale condizione costrittiva a per-mettere ad Albini di pervenire a uno dei risultati piúnotevoli di tale fase di ricerca, l’edificio per l’Istitutonazionale delle assicurazioni a Parma (1950). Ricucendola smagliatura di un tessuto urbano ampiamente defini-to, Albini ricorre a una calibrata misura: l’intelaiaturacementizia ridotta a esile trama, a puro suggerimento rit-mico, entra in colloquio con una distillata modulazionedi pannellature e di vuoti48. Un design en plein air, dun-que, una correttezza formale fatta di precisione tecno-logica e di gusto irrealista – pensiamo anche alla scalainterna dell’edificio parmense – che verranno lette, enon solo da Rogers, come interpretazioni critiche delle

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preesistenze ambientali: l’opera di Albini può cosí esse-re accostata alla casa di via Borgonuovo dei Bpr a Mila-no, all’edificio di Samonà a Treviso, alla Borsa Merci aPistoia di Giovanni Michelucci (1947-50).

Il colloquio con «l’ambiente»: questo il tema cheemerge da tale complesso di opere e che sembra costi-tuire l’originalità dell’esperienza italiana in quegli anni.Il rivolgersi all’ambiente, peraltro, non è che la secon-da faccia del rivolgersi alla natura: si cerca «protezione»,ci si mette a riposo, ci si infila fra tiepide coltri. E anchea questo proposito si pencola fra due estremi: un’ecce-zionale spregiudicatezza nei confronti del lascito delleavanguardie; un’altrettanto eccezionale cautela nelladefinizione dei limiti concessi al dialogo con la storia. Inverità, «l’ambiente» non era considerato come struttu-ra storica in senso proprio; prevale l’atteggiamentoimpressionistico, il «saggio» in definitiva strumentale auna sospensione di giudizio.

È proprio Michelucci, a Firenze, a dar corpo a un’ar-chitettura che aspira costantemente a negarsi, per risol-versi nella vita vissuta49. Dopo le inospitali cifre meta-fisiche del Palazzo del Governo ad Arezzo (1939) e diVilla Contini-Bonacossi a Forte dei Marmi (1941), concui Michelucci sembra sconfessare i risultati raggiuntinella stazione di Santa Maria Novella, già gli schizzi perla ricostruzione della zona Ponte Vecchio a Firenze(1945) parlano di una forma urbana plasmata da flussiintrecciati di esistenze50. Una forma «che nasce con l’ur-genza e l’evidenza di un fatto vitale»: questo è l’obiet-tivo cui Michelucci tende con i delicati equilibri e l’o-stentata chiarezza della Borsa Merci di Pistoia, oggettoche si affida all’elementarietà dello spazio unico inter-no e all’evidenza della struttura per pervenire a una fis-sità albertiana posta in relazione diretta con le tipologiedel Rinascimento toscano. Nella chiesa di Collina a Pon-telungo (progetto 1947-50, terminata nel ’53) l’archi-

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tettura tende a immergersi nel paesaggio, a commentar-ne la desolazione, a segnare in essa una presenza umanaunicamente con variazioni sul tema del «casolare». Sitratta di una declinazione personale del neorealismo,materico come quello ridolfiano, ma privo degli accen-ti espressionistici in quello presenti. La ricerca miche-lucciana, fatta di adesioni spesso irriflesse a sensazionicontraddittorie, è fra le piú insofferenti, nel clima ita-liano del dopoguerra, alla fissazione di cifre o frasari:malgrado tutto, essa aspira a un’improbabile fusione dilingua ed esistenza. Ciò porta Michelucci a un’assimila-zione della «non-forma», o comunque all’accettazionetranseunte e provvisoria, quasi suo malgrado, di formedettate dal genius loci: ciò spiega, dopo l’omaggio allacampagna pistoiese compiuto nella chiesa di Collina,l’enfasi dimensionale dei due grattacieli allacciati pro-gettati per Sanremo (1952), la confidente essenzialitàdella chiesa della Vergine a Pistoia (1954-56)51, la niti-da strutturalità della Cassa di Risparmio di Firenze(1953-57)52, il delicato equilibrio raggiunto nell’edificioper abitazioni e negozi a via Guicciardini a Firenze(1955-57). Che la forma, per Michelucci, rappresenticomunque un arresto rispetto al fluire della vita è dimo-strato dall’ossessivo gioco di vibrazioni con cui egli inve-ste le superfici della chiesa di Larderello (1956-59); men-tre l’insofferenza per i limiti di ogni sintassi si fa esi-genza di liberazione fantastica: ne escono l’osteria delGambero Rosso a Collodi e la chiesa del Villaggio Bel-vedere a Pistoia (1959-61), esperimenti di fluidificazio-ne dello spazio e di ramificazione delle strutture. Sitratta di un preludio ai temi che Michelucci affronterànegli anni sessanta e settanta, a partire dalla «grandetenda» della Chiesa dell’Autostrada.

L’«ambiente», cui le poetiche degli anni cinquantarendono omaggio è comunque inconscia metafora diun’aspirazione alla contemplazione della staticità rifrat-

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ta da specchi in movimento. La consolazione che nederiva è certo inappagante; eppure, è questo il valoreperseguito. L’intervento in campagne dal volto ben defi-nito, o in centri di cui si accentua – non senza residuimentali di tipo giovannoniano – l’unitarietà, fa emergerela corale «socialità» dell’ambiente storico: si persegueuna classica utopia regressiva, quella della «comunità»contrapposta all’anonimato di una metropoli «in cui siva come in terra straniera». Siamo tornati alle ideologieolivettiane, al fantasma di Tönnies, al Mumford piùromantico. Con il medesimo atteggiamento, gli archi-tetti si adoperano a definire i loro strumenti di lavoroper affrontare il tema del quartiere. Ancora una socio-logia di importazione: al mito della città nucleare – nu-cleare = organico – corrisponde l’ideologia dell’unità divicinato di dimensione conforme, raccolta intorno aiservizi primari, alle scuole innanzitutto. L’unità quar-tiere si scinde in sottosistemi idillicamente organizzati,almeno sulla carta: piccole, controllabili «comunità» amisura di bimbo e per la pedagogia dell’adulto si som-mano fra loro, dando corpo a insiemi che sotto la ricer-ca di valori riaggreganti celano un’adesione a «paci»interclassiste.

La mitologia dell’unità di vicinato, in realtà, non è,per gli architetti italiani, che materiale compositivo: piúche per salvarsi l’anima, la sociologia entra nella defini-zione del quartiere come strumento di controllo figura-tivo e come garanzia di un rapporto con il reale. Da unlato, i limiti imposti dalle scelte a monte divengono ilimiti stessi del comporre: tutto si risolve nel microco-smo della sottounità urbana, considerata in possesso diun suo linguaggio. Dall’altro, l’articolazione di quel lin-guaggio è reticente: sistemato in codici, il neorealismoperde ogni vis polemica per divenire piuttosto stru-mento di dissimulazione. E si potrebbe anche osservareche la sintassi della modestia, divenuta generalizzata,

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permette persino a vecchi accademici di rientrare incampo: ma l’osservazione rimane marginale di fronteall’esigenza di sistema che trapela dalle realizzazioni delprimo settennio Ina-Casa.

Una mimesis di maniera sostituisce ora l’accoratezzaautobiografica. Si consideri pure la differenza di impo-stazione fra i vari quartieri come frutto di un omaggioa un malinteso genius loci: la contrapposizione ti-pologica, che è l’unico elemento emergente dalla tavo-lozza disordinata del quartiere a Borgo Panigale a Bolo-gna, vale quella, fondata su un ambientismo tanto espli-cito da divenire macchiettistico, del quartiere San Giu-liano a Mestre (1951-55), del gruppo Samonà-Piccinato.Ed è significativa, in quanto sintomatica di un clima, l’a-desione di un architetto come Giuseppe Samonà alla lin-gua dell’accattivante domesticità – non solo a San Giu-liano, ma anche nel quartiere Ina a Sciacca (1952-54) –qualora si consideri che dalla matita dello stesso erauscito, nel 1945, il progetto di sistemazione del quartieredel Lavinaio a Napoli, attento alle elaborazioni lecor-busieriane e sicuro nella sua monumentalità senza tem-po53. «Essere nel tempo» significa invece pagare unoscotto, fare professione di astinenza, fingersi disponibi-li con l’occhio fisso «al di là dell’architettura».

E ciò vale anche per i complessi realizzati a Milanoe a Torino. Nel quartiere di Cesate (1950 sgg.), Albini,Albricci, i Bpr e Gardella declinano con passiva pulizialinguistica un dialetto paradossalmente divenuto unesperanto54, mentre Figini, Pollini e Gio Ponti tentanoil recupero di valenze elementariste nei grandi blocchidisposti a turbina intorno a uno spazio centrale a verdenel quartiere di via Dessié a Milano (1951-1952). Sin-golare, comunque, la disinvoltura con cui la riduzionedel populismo a idioletto si stempera in complessi chepassivamente accettano tipologie fissate a priori. Dietrolo schermo dell’«impegno» e del moralismo, si cela una

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rinuncia: la contraddittorietà del clima intellettuale chesegue agli eventi del 1948 informa pesantemente la pro-gettazione dell’edilizia pubblica italiana. La quale risen-te, come si è accennato, anche delle influenze del NewEmpiricism scandinavo: attraverso la lezione dei quar-tieri di Backström e Reinius, principalmente, sembravapossibile recuperare valenze legate a una ricerca tipolo-gica e morfologica connessa in modo articolato alla cel-lula-tipo. Ma non era estranea a tale riferimento cultu-rale una ricerca di identità, risolta in una simulazione:l’immagine del piccolo interno di famiglia contadinaviene appiattita contro quella della rarefatta pace rag-giunta dalla «grande famiglia» socialdemocratica, model-lo provvisorio e sperimentale di una cultura che scontanel limbo dell’incertezza le proprie scelte terzaforziste.

Dalle aggregazioni continue sperimentate dal NewEmpiricism svedese e dalla cordiale ovvietà degli impa-ginati di facciata e dei dettagli, su cui quello stesso movi-mento gioca la propria ricerca di artificiosa naturalità,prendono le mosse sia il quartiere Unrra-Casas di SanBasilio a Roma, di Mario Fiorentino e S. Boselli(1949-55), che quello di Falchera a Torino, del gruppoAstengo-Renacco (1950-51). Per il primo di essi, la cri-tica piú spietata è quella che si risolve nello stato d’ani-mo cui non si sfugge a una visita del complesso nello statoattuale: ghetto per emarginati, il suo deperimento fisicoparla chiaramente circa le condizioni produttive che nehanno condizionato il sorgere, denunciando la dose diutopia che il «realismo» conteneva in sé. E il risultatoindubbiamente piú positivo di Falchera, basato, comeSan Basilio, su una successione di corti aperte di formapoligonale, non ha certo fra le sue cause ultime la realtàdi una Torino che va divenendo sempre piú una companytown in grado di collocare l’intervento pubblico all’in-terno delle proprie esigenze complessive55.

Da tale panorama in definitiva mediocre si staccano

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due esperienze, non foss’altro che per il loro caratteresperimentale: il quartiere di Villa Bernabò Brea a Geno-va, di Luigi Carlo Daneri (1951-54) e l’unità di abita-zione orizzontale al Tuscolano, a Roma, di AdalbertoLibera (1950-1951) ai margini del dignitoso complessoprogettato da Muratori e De Renzi56. Sia Daneri cheLibera prendono le loro distanze dal sottolinguaggiopopulista à la page, rivendicando con diversi strumentiuna fedeltà, che poteva persino suonare anacronistica,rispetto alle ricerche del rigorismo italiano anteguerra.In particolare, il complesso genovese dimostra che l’in-serimento nella natura è tanto piú valido quanto menosi sforza di essere mimetico, introducendo all’interno diuna morfologia aperta, ma rigorosamente calibrata, ele-menti di definizione tesi a saldare ipotesi linguistiche aipotesi produttive, come la prefabbricazione in cementoarmato, i pilotis che staccano i blocchi dal suolo, lastandardizzazione tipologica, la strada pensile interpo-sta ai piani. Ancora piú polemica appare l’unità di Libe-ra, scontrosamente chiusa nel proprio rigore teorico egeometrico. A un tessuto continuo, fatto di cellule a unsolo piano connesse in modo da formare una piastra sol-cata da percorsi pedonali, si contrappone un blocco aballatoi: le memorie delle tipologie olandesi degli annitrenta e degli studi di Pagano per la «città orizzontale»rivivono quindi nel complesso di Libera, valido cometestimonianza di una possibile alternativa al formulariocorrente, anch’esso rivolto all’indietro.

E rientra perfettamente nel disegno generale delpiano Fanfani – gestito con ammirevole agilità burocra-tica da un tecnico certo non di avanguardia, come Arnal-do Foschini – che le proposte di Daneri e di Libera ven-gano accuratamente isolate: esse sono ospiti «tollerate»all’interno dell’edilizia del primo settennio Ina-Casa. Epour cause. Anche se fra le righe, entrambe contengonoindicazioni produttive incompatibili con gli obiettivi

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del programma che liberalmente concede loro spazio.Cosí, l’accerchiamento dei «quartieri» da parte della

città speculativa – fenomeno previsto e calcolato, d’al-tronde – rende ben presto palese che neanche isole diutopia realizzata il disegno degli architetti riesce a pro-durre: il realismo si mostrava per quel che era, il fruttodi un compromesso inutile.

2. Aufklärung I. Adriano Olivetti e la «communitas»dell’intelletto.

Nel frattempo, le idee olivettiane puntano sulla tra-sformazione dell’ambiente di lavoro nell’impresa diIvrea: concentrandosi su una città, Olivetti vuol dimo-strare la concretezza delle sue teorie comunitarie, offren-do nello stesso tempo un’immagine «sociale» della ditta– in piena espansione fra il ’46 e il ’54 – e tentando dicontrapporre alle incertezze dell’intervento pubblico lecertezze di un intervento «illuminato» di tipo impren-ditoriale57.

L’alleanza fra la politica cultural-manageriale di Oli-vetti e l’immagine che ne viene offerta dagli architetti,peraltro, regge, negli anni cinquanta, a livello di manu-fatti, mentre rivela le sue crepe a livello di pianificazio-ne. La razionalità umana della «comunità del lavoro»deve mostrare la propria olimpica continuità: nell’in-grandimento della fabbrica, realizzato fra il 1947 e il1949, Figini e Pollini rimangono sostanzialmente fede-li all’impostazione da loro data al nucleo degli ultimianni trenta, e ancora nelle nuove officine Ico, che essirealizzano nel 1955-57, il linguaggio non si distacca daun monumentale ascetismo. Ma il volto sociale dell’in-dustria abbisogna di mediazioni: la communitas vivedelle proprie articolazioni e si proietta nella vita quoti-diana elargendo paterni sorrisi. Se il centro direzionale

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Olivetti a Milano, di Bernasconi, Fiocchi e Nizzoli(1955) adotta ancora un formulario International Style,il Centro studi e ricerche a Ivrea di Edoardo Vittoria(1952-55), ma ancor piú la fascia dei servizi sociali diFigini e Pollini (1954-57), il ristorante aziendale di Gar-della (1955-59), il centro di vacanze a Brusson, realiz-zato da Carlo Conte e Leonardo Fiori nel ’68, usano concordiale disinvoltura geometrie basate sul rombo, sul-l’esagono, o su spezzate irregolari58. La via «organica»qualifica gli spazi destinati alla riproduzione della forza-lavoro: il sorridente recupero della natura, da parte delristorante di Gardella, proteso ad abbracciare un giar-dino ricco di japonismes, è sintomatica testimonianza delprogramma olivettiano, d’altronde liberamente introiet-tato da parte dei suoi interpreti.

Onnicomprensiva, pertanto, deve presentarsi la«repubblica dell’intelletto». Ivrea accoglie opere diarchitettura come fossero quadri da collezione, miran-do a una qualità sempre meno legata a linguaggi precosti-tuiti. Per questo, accanto al Gardella del ristoranteaziendale e dell’ospedale, e a Figini e Pollini nella loroduplice versione, ecco il Quaroni autore della neutrianascuola elementare di Canton Vesco (1955) e delponte-diga a due livelli sulla Dora (1958), progettato conZevi, Adolfo De Carlo e Sergio Musmeci, ricco di impli-cazioni urbane ed esibito come «macchina» dalle fun-zioni complesse59; ma ecco anche il Ridolfi dell’asilo-nidodi Canton Vesco (1955-63), materica dissonanza incemento e pietra a vista, snodata all’interno del quar-tiere dominato dai blocchi residenziali di Nizzoli e Fioc-chi (1950-53)60. Le inquietudini ridolfiane – qui severa-mente controllate e ironicamente rivissute: vedi le aereegabbie che culminano sulle terrazze – vengono cosí acommentare la regolare griglia che dà forma al principalenucleo residenziale della «comunità» olivettiana, men-tre il quartiere Castellamonte, su piano del ’38 di Picci-

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nato, modificato e realizzato da Figini e Pollini, si arric-chisce, dal ’51 in poi, di ville per dirigenti e alloggi col-lettivi per impiegati progettati da Nizzoli e Oliveri,prima secondo canoni «internazionali», poi con matricilinguistiche che sembrano rifare il verso, senza convin-zione, alle compiaciute distorsioni dello Scharoun deldopoguerra. L’appel aux architectes olivettiano è intrisodi implicazioni pedagogiche: la «buona forma» è lí persaldare ogni differenza, per dimostrare che una «vitaaltra» attende chi vorrà entrare nella koiné permessa darapporti di produzione in cui capitale e lavoro adottanonuove forme di scambio; l’«officina di vetro» vuol esse-re omaggio alla trasparenza di tale scambio, tende adannullare – come, del resto, gli «organici» edifici dei ser-vizi – la realtà delle ineliminabili differenze, la realtà dellavoro a catena, le leggi, imperscrutabili ad ogni progettocomunitario, che regolano la strategia nazionale e inter-nazionale dell’impresa. La quale, ancora agli inizi deglianni cinquanta, tenta di concretizzare la politica meri-dionalistica di Adriano installando una fabbrica a Poz-zuoli, su progetto di Luigi Cosenza (1951 sgg.)61. Laregione del Canavese come alternativa alle concentra-zioni metropolitane settentrionali; un impianto nelMeridione del sottosviluppo, come esempio di possibi-le politica alternativa a quella imposta dal blocco dipotere. Intervenendo direttamente a Pozzuoli, Olivetticerca di provocare un’inversione di tendenza, sperandodi suscitare rotture e ripercussioni a catena nel sistemaeconomico napoletano. Non a caso, la sua è un’officinamodello, ad alta tecnologia e ad alti salari, i cui risvoltisociali vengono demandati a un letterato, Ottiero Ottie-ri, che nel ’55 è incaricato di selezionare i futuri operaidella nuova fabbrica fra i molti aspiranti attirati dal-l’impresa olivettiana: le lucide pagine di Donnarummaall’assalto rimangono a testimoniare il dramma e le spe-ranze frustrate di quel proletariato, insieme all’isola-

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mento in cui il tentativo di Olivetti è condannato avivere.

Nulla di quel dramma traspare però dalle terse volu-metrie di Luigi Cosenza, preoccupato di inserire nelgolfo di Napoli la sua «fabbrica verde», edificio che vuolapparire «antiindustriale», luogo di integrazione fra spa-zio del lavoro e spazio sociale. La «grande casa» dellacatena di montaggio si articola colloquiando con il pae-saggio, con la natura e con laghetti sinuosamente dise-gnati: la catarsi disalienante si rivela fatto privato del-l’architetto e delle sue forme.

La confluenza occasionale fra le ideologie del movi-mento di Comunità e le fuoriuscite ideologiche di archi-tetti alla ricerca di miti cui consacrare velleità extradi-sciplinari o il bisogno «di essere presenti» aveva comun-que basi troppo fragili per sopravvivere alla breve sta-gione in cui l’utopia olivettiana sembrava compensarel’irraggiungibilità delle istituzioni. La collezione archi-tettonica radunata a Ivrea ha, negli anni cinquanta, unsignificato simile a quello assunto dall’Istituto univer-sitario di architettura di Venezia diretto da Samonà.Due «carceri dorate» da cui l’evasione è difficile. Mauna koiné non si raggiunge semplicemente «rimanendovicini».

In un certo senso, l’aspirazione olivettiana che nonriesce a farsi realtà con l’architettura viene soddisfattanel settore del design. Come è stato acutamente osser-vato62, il mito americano – fordismo + riorganizzazio-ne societaria – informa in modo del tutto particolare laproduzione degli oggetti della Olivetti, a partire dallamacchina da scrivere mp1 del 1932. Nizzoli, principal-mente, e Xanti Schawinsky, con un grafico come Pin-tori e un letterato come Sinisgalli, interpretano in modofedele un progetto che punta sul dialogo, attraversol’immagine incorporata al prodotto, non con un pubbli-co e una società reali, bensí con un’ipotesi metastorica

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di pubblico e di società. Il «classicismo del nuovo»instaurato da Nizzoli con la Lexikon 80 (1948), la Let-tera 22 (1950) la Divisumma (1956), la Summa Prima 20(196o), non costituisce un’immagine credibile del pro-dotto, bensí fa entrare in circolo un’immagine signifi-cante del progetto politico-culturale complessivo che siinnesta sull’operazione di mercato.

Un mercato, peraltro, che va toccato anch’esso concanali conseguenti al carattere sovrasignificante dei pro-dotti: i luoghi normali di distribuzione appaiono ad Oli-vetti, già negli anni trenta, inadeguati; Schawinsky eNizzoli vengono incaricati di allestire spazi di esposizio-ne a Torino e a Venezia, in cui ciò che è messo in mostra,piú che l’oggetto, è il valore aggiunto cui esso allude, il«progetto» di cui esso è frammento63. Conseguen-temente, i negozi Olivetti, in Italia e all’estero, diven-gono preziosi scrigni spaziali, la cui qualità è affidata aun surrealismo architettonico che sospende il prodottonel vuoto: che lo isola, principalmente, dal suo contestomateriale tendendo a cancellarne il carattere di merce.Compiutamente surreali, infatti, sono i magazzini espo-sitivi Olivetti di New York – il primo ad essere creatoall’estero, sulla prestigiosa Quinta Avenue, su progettodei Bpr (1954) –, di Düsseldorf, su progetto di Gardel-la, di Venezia, su progetto di Scarpa (1957-58), di Pari-gi, su progetto di Albini e Helg (1958). Agli architetti ita-liani che piú d’altri avevano contribuito a rinnovare lamuseografia viene cosí affidato il compito di caricare glioggetti Olivetti di un’«aura» impalpabile64.

Meno felice, come si è accennato, è il rapporto diAdriano Olivetti con le operazioni urbanistiche da luistesso innescate a Ivrea e nel Canavese. Nel 1938,Adriano aveva patrocinato presso il comune di Ivrea laredazione di un piano regolatore, affidato a Luigi Pic-cinato: mai adottato dal consiglio comunale, è sulla scor-ta delle direttive da esso previste che sorgono i due

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quartieri di Canton Vesco e Castellamonte. Nel 1952,è ancora Olivetti a sollecitare lo studio di un piano didimensioni regionali: questa volta i progettisti sonoQuaroni, Fiocchi, Ranieri e Renacco, cui si affianca unavasta équipe di sociologhi, economisti, specialisti di pro-blemi agricoli e industriali. Per la cultura italiana sem-bra arrivato il momento di sperimentare tecniche dianalisi sui piú diversi aspetti della struttura territoriale,cogliendo l’occasione per mettere a punto stru-mentazioni interdisciplinari di alto valore scientifico. Inaltre parole, si trattava di dar sostanza allo slogan «l’ur-banistica per l’unità della cultura»: piú che il risultatofinale – il progetto di piano – interessa agli intellettualiil processo compiuto per giungere ad esso. D’altra parte,la complessa organizzazione impiantata per l’analisi delterritorio canavese, e che avrebbe dovuto sfociare inpubblicazioni modello, dimostra in che modo gli intel-lettuali meno organicamente legati all’ideologia olivet-tiana interpretassero, per se stessi, il concetto di «comu-nità»: sotto l’egida di un impresario illuminato, è la cul-tura che si ricementa, che compie un notevole sforzo persuperare le barriere delle specializzazioni, che si dispie-ga come coacervo di tecniche fra loro colloquianti. Ilmito dell’interdisciplinarità si salda, qui, a quello comu-nitario, rivelando però che l’unica reale comunità orga-nizzabile concretamente – ma in una ulteriore situazio-ne di eccezione – è quella dei clercs65.

Per tali ragioni, il piano di Ivrea rappresenta lasumma delle teorie e dei modelli circolanti nella cultu-ra italiana dell’epoca, coniugati, per dovere d’ufficio,all’idea olivettiana della «comunità» a misura d’uomo.Il piano, presentato senza fortuna nel ’54 e rimaneggia-to nel ’59, prevede un’espansione per nuclei a dimen-sione controllata e in simbiosi con centri minori di pro-duzione, la valorizzazione conservativa del centro sto-rico, uno sviluppo frazionato delle zone industriali, la

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creazione di due centri direzionali a raggio urbano e ter-ritoriale, uno dei quali al di là della Dora, legati dalponte poi progettato, come s’e visto, da Quaroni, Zevi,De Carlo e Musmeci.

Il processo che ha condotto al piano, tuttavia, e le dif-ficili relazioni fra intellettuali e interessi di impresadeludono profondamente. Per Quaroni quel processo sirivela di nuovo insoddisfacente o incompiuto: anche ilmito dell’interdisciplinarità appare in esso consunto. Ilriflesso di tali delusioni si manifesta in modo singolarealla X Triennale di Milano (1954). La mostra dell’urba-nistica, organizzata da Quaroni, Giancarlo De Carlo eCarlo Doglio, assume tonalità decisamente provocatorie:i tre cortometraggi lí presentati – specie Una lezione diurbanistica, al cui progetto collabora Elio Vittorini e cheha come protagonista Giancarlo Cobelli66 – rivolgono unsevero e caustico monito agli urbanisti, «perché preci-sino – come scrive De Carlo – in quali limiti sono dispo-sti ad affrontare il rischio di un confronto con la realtà:a portare nell’urbanistica la collaborazione di tutte leforze attive della cultura che vi sono implicate ed esco-gitare i mezzi che rendono possibile una effettiva capil-lare partecipazione della collettività». Ma la provoca-zione rimane senza effetto. «I Grandi Sacerdoti, inef-fabili – prosegue De Carlo67 – hanno respinto la provo-cazione con sdegno e non hanno risposto».

Il ripensamento sugli strumenti della pianificazioneproposto da intellettuali come De Carlo e Quaroni, inrealtà, toccava ancora di striscio il nesso piano - istitu-zioni - riforme di struttura. Al sostanziale fallimento deigenerosi tentativi dell’ Aufklärung urbanistica, nel Meri-dione e a contatto di Olivetti, non si riesce a risponde-re con analisi compiutamente politiche della situazionereale. Da parte sua, di fronte a quegli stessi fallimenti,l’ideologia comunitaria tenterà di tradursi per suo contoin politica diretta: nel ’58, Adriano Olivetti partecipa in

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prima persona alle elezioni politiche. L’anacronismodella via terzaforzista diverrà cosí pesantemente evi-dente. Del resto, alla fine degli anni cinquanta, il sognoolivettiano era già andato in frantumi, compromessodal tentativo di entrare nel mercato dell’elettronicagigante, da una crisi di finanziamenti e dalla perdita delcontrollo assoluto dell’impresa da parte degli Olivetti:Adriano, morto nel 196o, non assisterà alle trasforma-zioni dell’azienda, che, oltre a comportare una revisio-ne dei suoi programmi sociali, richiede un’immagineinternazionale di mercato ben diversa da quella propu-gnata negli anni cinquanta.

3. Il mito dell’equilibrio. Il piano Vanoni e l’Ina-Casasecondo settennio.

Le profonde modificazioni dell’economia italianaavviate nel corso della ricostruzione erano state condi-zionate dall’incalzare del capitale internazionale. Ilruolo trainante dell’impresa pubblica aveva peraltroavuto buon gioco nei confronti dei settori del padronatoancorato a nostalgie autarchiche: l’ingresso dell’Italianella Ceca, con la conseguente espansione della side-rurgia, trascina con sé, in particolare, il settore mec-canico, rendendo evidente la necessità di una strategiadi lungo periodo volta a una trasformazione dell’interasocietà. Alla fine del ’54, il piano Vanoni sembrarispondere a tale necessità: mantenendo un saggio di in-cremento del reddito nazionale annuo del 5 per centoe prevedendo posti di lavoro addizionali extraagricoli,il piano punta al potenziamento dell’efficienza e dellacapacità concorrenziale del sistema produttivo, fissan-do come obiettivo da raggiungere la creazione di quat-tro milioni di nuovi posti di lavoro. Il programma cheguiderà le linee di crescita del capitale di Stato è cosí

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fissato: le vicende della sua attuazione dipenderannostrettamente dalle variabili politiche messe fra parentesidal modello. Solo in tal modo, infatti, si spiega l’ab-bandono di alcuni «settori propulsivi» a favore di altri,che non tarderanno a rovesciarsi come un boomerangcontro la strategia dello sviluppo. Le grandi infrastrut-ture – autostrade e linee di distribuzione dei gas natu-rali – chiamate a riorganizzare il territorio fungono inrealtà da sostegno all’espansione dei consumi privati(settore dell’auto), accentuano il formarsi di aree metro-politane, si rivelano incapaci di guidare inversioni ditendenza nella geografia dello sviluppo. È il sogno del-l’equilibrio, alla base del piano Vanoni e dei tentativipiú avanzati del movimento cattolico di questi anni, cheva in frantumi di fronte a una strategia che, senza piano,punta sul blocco edilizio come garanzia di cementazio-ne fra i vari strati della borghesia proprietaria e diun’alleanza fra quest’ultima e la Confindustria, attra-verso le realizzazioni della rendita fondiaria e i suoi tra-vasi nel sistema produttivo68.

«La politica del settore edilizio – veniva scritto nelpiano Vanoni – dovrà promuovere o contenere gli inve-stimenti nell’industria delle costruzioni nella misura incui la domanda di beni di consumo diversi dal-l’abitazione sia rispettivamente insufficiente o eccessi-va in relazione al processo di espansione possibile». Ilprocesso di urbanizzazione scatenatosi in Italia neglianni cinquanta nulla ha a che fare con tale concezionedell’edilizia come «volano». Il malgoverno delle ammi-nistrazioni locali sembra divenire istituzionale, le normeedilizie e di piano regolatore vengono considerate menoche formali, l’offerta di case si espande in modo indi-scriminato comprimendo quella destinata ai ceti popo-lari o seguendo unicamente le leggi della speculazionesulle aree, l’aumento dei costi di costruzione porta a unprezzo triplicato, fra il 1953 e il 1963, dei nuovi fab-

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bricati, in corrispondenza di un prezzo decuplicato deisuoli edificabili, l’industria edilizia rimane frammentatae a basso livello organico di capitale, sfruttando tale suadeliberata arretratezza sia in senso economico che politi-co. Si valuti inoltre che i vani di abitazione annualmenterealizzati passano dai 543 ooo del 1951 a 1 970 ooo del1961, con una media annua di 1 400 000 vani, mentrela produzione edilizia, nel suo complesso, nel periodoconsiderato, si sviluppa a un tasso annuo del 12,1 percento circa, contro l’8,2 per cento dell’industria nel suocomplesso. Il tasso medio annuo delle retribuzioni nelsettore, per suo conto, registra il 4,5 per cento di aumen-to, per una massa di lavoratori che rappresenta il 28 percento dei lavoratori industriali complessivi.

Il piano Vanoni, dunque, funge piú da detonatore diun conflitto interno al movimento cattolico, risolto conla conferma del ruolo dirigente delle forze piú reazio-narie, che da indicatore di una linea effettuale di poli-tica economica. La realtà è che l’intreccio di poteri fun-zionale a uno sviluppo volutamente squilibrato, dispo-sto a pagare, con il rigonfiamento dei settori parassita-ri, i rischi provocati da pesanti inceppi per il meccanismocomplessivo, rende illuministico ogni tentativo disovrapporre a un quadro istituzionale cosí vischioso pro-grammi quadro che implichino spostamenti di interessie blocchi di alleanze storicamente impossibili.

Per collages di disposizioni settoriali, e non attraversodichiarazioni programmatiche, la politica edilizia italia-na viene piuttosto concretamente attuata. Alla leggeistitutiva dell’Ina-Casa si collegano altri due provvedi-menti, la legge Tupini sull’edilizia cooperativa (1951) ela legge Aldisio, che vara la costituzione di un fondo diincremento per l’edilizia: il fine è quello di sostenerecomunque, sulla base di meccanismi creditizi e finanziariche privilegiano la piccola impresa frazionata, l’offertadi case, spostando l’interesse – specie con la legge Tupi-

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ni – su un mercato accessibile ai ceti medi. L’aggrava-mento dell’urbanesimo selvaggio, conseguente a talerigonfiamento indiscriminato dell’offerta, ha come effet-to indiretto il potenziamento dei flussi migratori versole aree sviluppate e verso i centri urbani, provvedendol’industria di un esercito di riserva non qualificata, inbuona parte riassorbita in edilizia. Ciò spiega il bassolivello tecnologico cui l’edilizia stessa permane, ancheuna volta superate le condizioni contingenti della rico-struzione; il degrado e la congestione che attaccano learee centrali, per loro conto, sono funzionali, assieme almeccanismo del blocco dei fitti, a un lento ma progres-sivo rastrellamento di porzioni dei centri storici da partedelle immobiliari, in attesa che il mito dell’antico e l’e-saurirsi delle aree pregiate esterne ai centri determininoun mercato di lusso nei centri storici, grazie anche al per-manere in essi di gran parte delle funzioni direzionali.(Ciò quando, naturalmente, il centro storico non vienedirettamente e pesantemente aggredito dalla specula-zione, come a Milano).

Di fronte a tale dispositivo innescato dal blocco dipotere cui fanno capo le forze centriste con il benepla-cito della grande industria – che, fino a quando i feno-meni da esso indotti non si riveleranno frenanti, puòaspirare capitali, tramite i meccanismi finanziari, dallarendita di speculazione – la cultura urbanistica rispon-de in modo duplice. Da un lato, si apre un’intensa cam-pagna scandalistica all’insegna del moralismo: nel 1957viene fondata l’associazione Italia Nostra su iniziativadi Umberto Zanotti-Bianco; la rubrica di AntonioCederna sul «Mondo» colpisce periodicamente le male-fatte dei «vandali in casa», contribuendo ad arrestareoperazioni di sventramento e a salvare dalla lottizza-zione parchi e aree verdi; il processo per diffamazioneintentato dal sindaco di Roma Salvatore Rebecchinicontro «L’Espresso» mette in luce la portata e i mecca-

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nismi della speculazione sui suoli e l’intreccio fra cor-ruzione amministrativa e potere economico.

D’altro lato, si procede verso un’astratta precisazio-ne degli strumenti disciplinari, alla ricerca di una «tec-nica indeterminata»: indeterminata, anzitutto, perchépriva di referenti e di soggetti i cui interessi colliminocon quelli dell’«equilibrato territorio», e indeterminataperché costretta a continue petizioni di principio a pro-posito delle condizioni prime chiamate a giustificarnel’esistenza, come la fine del mercato liberistico dei suolio almeno il controllo pubblico degli stessi. Non è sicu-ramente un caso che l’Inu proceda, fra il 1952 e il 1958,a un esame di tutte le possibili scale di intervento, men-tre i pochi piani redatti nel paese vengono evasi o resiinoperanti tramite il meccanismo delle «varianti».

Rimane per gli architetti la progettazione dei quar-tieri Ina-Casa: l’esperienza compiuta nel campo nonrisulta consumata invano, ed è a partire da una revisio-ne autocritica che i suoi limiti vengono forzati fino a toc-care le soglie di nuovi terreni di ricerca.

Le ipotesi comunitarie e il disimpegno linguistico cheavevano caratterizzato l’ideologia del quartiere, nelcorso del primo settennio Ina-Casa, risultano infatticonsumate agli inizi del secondo settennio. È ancoraQuaroni a riassumere le fila dell’esperienza compiuta, inun memorabile saggio pubblicato sulla rivista «La Casa»,e a compiere un’autocritica che sfocia, nel 1957, nelquartiere San Giusto a Prato69. Non è sicuramente estra-nea, alla radicale revisione quaroniana, l’esperienzaarchitettonica compiuta nel ’56 con i progetti per lechiese genovesi del San Gottardo e della Sacra Famiglia.Se la prima, rimasta allo stadio di idea, tende a diveni-re cerniera urbana aderente alla struttura fisica del sito– un nodo di traffico a livelli ascendenti –, la secondasfrutta abilmente un’area stretta da presso da edifici eda un alto muro di sostegno intersecato da due strade a

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livelli diversi: la chiesa, dominata da un torrione com-patto squarciato sullo spigolo, funge ancora da soluzio-ne di continuità fra percorsi cittadini intersecati, fulcrovisivo ricco di epos che si staglia al centro di un flussoascendente di scalinate. L’equilibrio fra la ricerca di uncodice inedito, ormai scevro di concessioni a romanti-cismi, e quella tesa a far colloquiare un oggetto forte-mente strutturato con il luogo urbano è uno dei piú altiraggiunti da Quaroni70.

Le chiese genovesi da un lato, il progetto del pontesulla Dora a Ivrea dall’altro, si legano strettamente alprogetto per il quartiere di San Giusto. La complessitàdella città non è dominabile scindendo la stessa in ele-menti finiti; eppure, questa è la «condizione» impostadalla politica dell’Ina-Casa. Non rimane che assumeretale contraddizione e darle voce.

La composizione si snoda a partire da un moduloplanimetrico a torre, si amplia in un secondo modulo «acorte» in cui si ripete una disposizione «a turbina» dellecellule, si svincola infine dalla figura geometrica prefis-sata nell’aggregarsi libero e continuo delle corti.

Con un brusco e significativo scarto rispetto alla«poetica del quartiere» – contraddetto solo dal tratta-mento ancora «paesano» degli alzati – Quaroni si appre-sta, a Prato, a definire i materiali che sfoceranno nellapiú problematica delle sue opere dei tardi anni cin-quanta, il complesso Cep di San Giuliano a Mestre. Lecorti chiuse non fanno piú riferimento ad enunciatisociologici: è il tessuto che qui conta, il suo aprirsi e ilsuo rimanere fedele a moduli plurimi. Il quartiere non«risolve» più; ad esso non è piú richiesto alcun riscat-to. Esso è solo ciò che può essere, né intende nobilita-re la propria emarginazione.

Ed è sintomatico ritrovare temi consimili – la cortechiusa assunta come modulo, la definizione di unamaglia estensibile, una disciplina consapevole – in un

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altro quartiere chiave del secondo settennio Ina-Casa,quello di via Cavedone a Bologna, anch’esso del 1957,realizzato da una équipe guidata da Federico Gorio e cheha fra i suoi membri Marcello Vittorini e LeonardoBenevolo71. A puri residui vengono ridotte le persistenzepopuliste: è il tipo urbano ciò che ora conta e insiemeun controllo tecnologico che sembra preludere a nuoveipotesi di progettazione. Il neorealismo è comunqueaffossato senza una critica all’altezza dell’esperienza; ilricorso a una morfologia collaudata, come quella delcortile chiuso, evita palesi riferimenti storicisti; il ten-tativo di imporre una severa misura «realista» si risol-ve in semplificazioni reticenti. L’irraggiungibilità dellacittà, che nel progetto di Quaroni è denunciata fra lerighe, nel quartiere di via Cavedone è accettata con ras-segnata serenità.

Comunque, un’apertura sperimentale caratterizza lafase aperta con il secondo settennio: ancora a Bologna,nel complesso di via della Barca (1957-62), realizzato dalgruppo guidato da un rigorista della vecchia guardiacome Giuseppe Vaccaro, le unità di vicinato sono inter-pretate come tessuto continuo interrotto dal lungo edi-ficio porticato e ricurvo posto sull’asse mediano. Dinuovo, il quartiere tenta di uscire dal suo isolamento,preleva motivi dalla città storica, articola le sue funzio-ni accostandole timidamente. Il décalage ideologico, evi-dentissimo, fa di questi quartieri delle esperienze «diattesa»; ma permette anche di concentrarsi in ricerchein cui invenzioni tipologiche e aggregative vengonosfruttate per il loro valore di immagine: è il caso deiquartieri di Galatina (Lecce) e di Ascoli Piceno (1958)realizzati dal gruppo Cicconcelli con l’apporto determi-nante di Luigi Pellegrin. Estremamente riflessa la lezio-ne wrightiana assorbita da Pellegrin. Ben diverso daquello di Carlo Scarpa, anche il wrightismo di Pellegrinrifiuta soluzioni di maniera, rivelandosi piuttosto stru-

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mento per una meditazione sulle qualità dello spazio edegli oggetti: le sue scuole a Urbino e Sassari (1956, incollaborazione con C. Cicconcelli), o le case d’abitazio-ne progettate per Roma mostrano chiaramente la lineaanalitica di questo solitario sperimentatore. Che neiquartieri di Galatina e di Ascoli dimostra che l’afasia cuila maggior parte dei progettisti dell’Ina-Casa si auto-condanna è anacronistica. Specie a Galatina, la reitera-zione delle cellule tipo, orientate a 45° rispetto allamaglia viaria, le aggettivazioni e il dosaggio degli ele-menti di raccordo permettono al complesso di raggiun-gere una sua identità; e sia pur convulsa e fatta di inquie-te cesure.

Al primato dell’indagine propugnato da Quaroni sicontrappone cosí la ricerca di risultati finiti di Ciccon-celli e Pellegrin, mentre solo come variazioni di collau-date esperienze tipologiche e linguistiche sono apprez-zabili gli interventi Ina-Casa di Ridolfi a Napoli (appar-tamenti in via Campegna e a via Chiaina, 1956) a Cone-gliano (1958-6o) a Mareno (1958), a Treviso (1956-58),in cui il disinteresse per la scala della progettazione e laconcentrazione degli interessi sul manufatto edilizio mo-strano i loro limiti.

E ancora un risultato concluso in se stesso è il quar-tiere di Forte Quezzi a Genova (1958 sgg.), del gruppoDaneri72, forse il piú spettacolare complesso residenzia-le del secondo settennio Ina-Casa. Si tratta anzitutto diuna dimostrazione di coerenza personale: dalle case allafoce al Lido di Albaro (1938 sgg.) al quartiere BernabòBrea, al complesso di Forte Quezzi, Daneri compensa lelimitazioni linguistiche autoimpostesi con approfondi-menti che non disdegnano il riferimento a modelli rico-noscibili, come, per l’ultimo caso citato, la serpentina ei blocchi «danzanti» sulle colline di Algeri del Plan Obusdi Le Corbusier. Ma nei sinuosi blocchi che a ForteQuezzi sembrano voler commentare il paesaggio,

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seguendo fedelmente le curve di livello, frantumandosiin unità tipologicamente complesse, arricchite di servi-zi interni, loggiati, percorsi pedonali, è anche il tentati-vo di consolidare un frammento urbano che «si espone»come contraddizione vivente. Il piano pedonale pubbli-co che interrompe i due blocchi centrali va letto conte-stualmente al difficile colloquio instaurato con il sito:elasticamente, il complesso si contrae e si espande, siapre «a teatro» e si chiude in se stesso. Serenamente,Daneri parla qui delle ormai non più tollerabili condi-zioni imposte dai programmi dell’intervento pubblico:alla problematica ricerca di Quaroni, egli risponde conun’immagine e una struttura che mettono in tensione,l’una contro l’altra, la finitezza dell’intervento e la suaaspirazione frustrata a divenire parte della città.

In fondo, gli esempi emergenti del secondo settennioIna-Casa – cui dovrebbero aggiungersi le molte realiz-zazioni di routine, spesso di sconcertante provinciali-smo, come il villaggio residenziale a Ricciano (Pescia) delgruppo Gori o il quartiere di Acilia, del gruppo Perugi-ni - Del Debbio (1957-59) – rendono evidente che lasempre maggiore marginalità dell’edilizia pubblica e lasua strumentalità si prestano solo a brillanti forzature oa sperimentazioni che rimandano ad altre intenzionalità.Parlando «d’altro», ci si sporca le mani salvando l’ani-ma; assumendosi i limiti del reale, si disegnano sugge-stive «cifre sbagliate».

Ma ciò che è maggiormente significativo è che inquesti quartieri l’ideologia dell’«abitare» sopravvive a sestessa come simulazione. Simulata, infatti, è la «ricercadel luogo» a Forte Quezzi; simulata la ricerca tipologi-ca a Galatina; simulata la metodologia con cui vorreb-be convincere il quartiere di San Giusto. Il quartierenon risiede in città; eppure è funzionale a una dinami-ca che viene occultata con la sua realizzazione: chi èchiamato a far da protagonista in tale gioco non può che

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appellarsi a una «onesta dissimulazione». Il bagno nelrealismo produce cosí il sonno della ragione. I mostrinon si faranno attendere. Si tratterà del rovescio dellostato d’animo che aveva generato le mitologie dell’im-mediato dopoguerra: al realismo come ideologia si sosti-tuirà ben presto il recupero dell’utopia.

Ma bisognava bruciare fino in fondo i motivi che ave-vano dato luogo all’autobiografia come rispecchiamen-to, o, perlomeno, era necessario far compiere loro unsalto di scala.

4. Aufklärung II. Il museo, la storia, la metafora(1951-1967).

Alle frustrazioni sofferte nel corso dell’esperienza diprogettazione dell’edilizia pubblica, la cultura architet-tonica italiana ha da contrapporre i successi ottenuti nelsettore del design, e, ancor piú, quelli ottenuti nel campodella museografia. Indubbiamente, nell’arredo delle«case dell’arte», i migliori architetti italiani liberanoaspirazioni altrimenti represse: qui, il rapporto con lastoria è obbligato e diretto, e strettamente intrecciato acompiti pedagogici73. L’architettura del museo sembrariassumere, depurati da molte scorie contingenti, i temiprincipali dibattuti negli anni cinquanta: dal ruolo «civi-le» della forma a quello dell’incontro fra la memoria eil nuovo, al recupero di una rappresentatività legata adoccasioni privilegiate. In tale quadro, l’allestimento diPalazzo Bianco a Genova, ad opera di Franco Albini(1950-51), costituisce immediatamente un riferimentod’obbligo per una cultura tesa a salvaguardare, in ognioccasione, rassicuranti equilibri74. In effetti, l’allesti-mento albiniano è un capolavoro del suo genere: all’e-stremo rigore esplicato nella tecnica museografica si uni-sce una raffinata neutralità dell’arredo nei confronti

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delle opere esposte; tale, però, da lasciar trasparire infiligrana i segni interpolati, ridotti a rispettose glosseinterlineari di frammenti di testo pazientemente rico-struiti.

Lo «stile» museale di Albini rimane cosí definito; piùtardi, esso si esprimerà nel restauro e nella sistemazio-ne di Palazzo Rosso a Genova (1952-61), per raggiun-gere un apice nel Museo del Tesoro di San Lorenzo(1952-56)75. Tre tholoi di diverso diametro, nello spaziosotterraneo del San Lorenzo, intersecano un invaso esa-gonale dotato di escrescenze. Si tratta di un preciso pro-gramma allegorico, cui non è estraneo l’intervento diCaterina Marcenaro: al sacello del Santo Graal si uni-sce il ricordo del Tesoro di Atreo. L’esoterismo dei rife-rimenti è comunque sublimato da Albini. La dialetticadegli spazi, la variata incidenza della luce, il colloquiofra la forma delle teche vitree e l’ambigua allusività de-gli organismi agganciati fra loro rendono omaggio a unodegli ingredienti piú originali della poetica albiniana:una vena surreale tanto piú sottile quanto piú risolta inetimi tecnologicamente inappuntabili. L’architectureensevelie di Albini possiede un proprio linguaggio. Pro-tetta dal mondo esterno, in essa il dialogo fra l’elegan-za tecnologica – ulteriore strumento di supremo distac-co – e le forme esalta una dimensione irreale: la dimen-sione, per l’esattezza, dell’astrazione come «immaginesospesa». Si tratta della medesima astrazione che, negliallestimenti albiniani, gioca come reagente a contatto dioggetti storici magicamente spaesati all’interno di inva-si effimeri. Cosí, nella mostra didattica «L’evoluzionedella bicicletta» (Triennale 1951), nelle Sale dei «Tes-suti genovesi del xvi secolo» e del «Miracolo della scien-za» (Venezia, Palazzo Grassi, 1952), nel Salone d’Onoredella X Triennale di Milano (1954), nella piú recentesistemazione della mostra palladiana nella Basilica diVicenza, Albini crea capolavori di virtuosismo rappre-

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sentativo, non alieni da suggestioni oniriche. Una liri-ca, questa di Albini, affidata a telai eretti, appesi, sospe-si, controventati, che – come ha notato Fagiolo – sem-brano «larve o surrogati della struttura architettoni-ca»76: la severità albiniana allude a un’assenza senza maisconfinare nel tragico.

Fra «l’astrazione magica» dell’Albini «arredatore» equella dell’Albini autore del Museo di San Lorenzo esi-ste una continuità diretta, assai meno percepibile nelleopere in cui – come nel complesso gradonato degli uffi-ci comunali dietro Palazzo Tursi a Genova (1952-62) –alla lirica dell’intérieur si sostituisce il gioco formale enplein air77. Eppure, sarebbe errato pensare che l’archi-tettura per i musei costituisca per Albini un capitolo insé concluso: se all’allestimento di Palazzo Bianco corri-sponde il Palazzo dell’Ina a Parma, è indubbio che ilMuseo del Tesoro di San Lorenzo, anche nel suo recu-pero di valenze allegoriche, apre ai progetti per La Rina-scente a Roma. Ma negli anni cinquanta è la «misura»degli interventi albiniani a fare testo. Di fronte al mor-morio sommesso dei pur apodittici segni di Albini, leinvenzioni museografiche di Carlo Scarpa appaionotroppo parlanti: la critica, anche quella favorevole almaestro veneziano, non nasconderà la propria perples-sità nei confronti dell’opera di Scarpa al Correr (1953)78.

Da un lato, dunque, il «lasciar essere» di Albini, dal-l’altro la magistrale narratività di Scarpa: l’alternativanon dà ancora scandalo. Quest’ultimo esplode piuttostonel 1956, quando si apre al pubblico il Museo del Castel-lo di Milano, opera dei Bpr, che offre il fianco a una ser-rata polemica, puntualmente ripresa, due anni dopo, achiusura di cantiere di un’ulteriore opera dei Bpr e desti-nata a divenire sintomatica del clima milanese della finedegli anni cinquanta: la Torre Velasca79. In realtà, chidiscuteva separatamente del Museo del Castello e dellaVelasca non si accorgeva di affrontare un medesimo

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problema. L’assunto verte sulla manipolabilità dei reper-ti: per i Bpr, e per Rogers in particolare, che aprirà ildibattito sulle preesistenze ambientali su «Casabella»80,solo la manipolazione – leggi l’appropriazione median-te il contatto fisico – rende storico un cantiere archeo-logico. Il quale sarà, indifferentemente, un museo o unacittà. Attraverso l’intervento – il progetto –, la storiaassume un volto: le molte eredità che nel progetto siincontrano daranno luogo a contaminazioni, a opere inqualche modo «sporche»; ma sarà quell’impurità a per-mettere il «gioco dei riconoscimenti». L’architettura,contaminandosi con gli antichi reperti, riconosce la legit-timità della propria tradizione; quei reperti potranno diconverso usare il «nuovo» come cartina di tornasole,come specchio da interrogare e da cui trarre un princi-pium individuationis.

Nell’allestimento del Museo del Castello l’operazio-ne compiuta è eloquente: contro le caute interpolazionialbiniane, i Bpr scelgono la via di una scenografia con-tinuamente e pesantemente presente, che introduce –nel pavimento da città medievale della Sala degli Scar-lioni, nello «steccato» della Sala delle Asse, nella dispo-sizione onirica della Sala Verde delle armature, nell’ap-parecchiatura che recinge la Pietà Rondanini – poliva-lenti risonanze fra pezzo esposto e macchina espositiva.L’ansia comunicativa fa da protagonista: soggetto diessa è la relazione fra memoria privata e memoria col-lettiva; o meglio, il problema di come far parlare unamemoria privata – quella dell’intellettuale – considera-ta, «per elezione», depositaria di doveri rispetto allamemoria collettiva.

Si tratta dei medesimi «doveri» cui, a suo modo,intende rispondere la Torre Velasca, costruita dai Bprsu incarico della Rice su un’area devastata dai bombar-damenti a 450 metri da piazza del Duomo81. La proget-tazione del complesso polifunzionale – negozi, spazi

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commerciali, uffici, studi, abitazioni – inizia nel 1950-51, nel momento in cui la società immobiliare comple-ta l’acquisizione dei suoli in tale zona strategica del cen-tro milanese; la struttura è in ferro, e la torre si presentacome un monolito, geometricamente e metricamentedefinito, scomposto nei tre elementi caratterizzantianche la soluzione realizzata: una protome introduttivasulla via Velasca, un corpo verticale a lastra scandito dapilastri, un doppio cubo aggettante. Scartata per il suoalto costo la soluzione in ferro, dal ’52 al ’55 prendepiede il progetto definitivo, costruito fra il ’56 e il ’57:la Torre è ora un solido compatto, percorso da costolo-ni in cui si addensano le interne tensioni dell’immaginechiamata a stagliarsi come unicum nella skyline milane-se. Il raccordo fra il blocco verticale e il corpo dilatatosuperiore avviene ora per mezzo di puntoni inclinati: laVelasca, orgogliosamente avvolta nella sua matericità, sidilata come magma energetico verso il cielo, assumendol’aspetto di una torre medievale paradossalmente ingi-gantita. Un «omaggio a Milano» compiuto dunque construmenti non ancora tacciabili di storicismo. La Vela-sca si installa in città commentando liricamente un cor-pus urbano in via di sparizione: ancora una volta, dalleintenzioni riposte nelle pieghe di un solo oggetto siattende una catarsi.

Come il Museo del Castello Sforzesco, infatti, laVelasca intende «insegnare a vedere»: le risonanze inte-riori che hanno generato questa forma chiamano le«coscienze» a un’epoché collettiva, a una riconsidera-zione radicale del nuovo alla luce del temps perdu cheesso stimola a ritrovare. Non per nulla Enzo Paci è il«filosofo» di «Casabella», accomunato a Rogers dallalezione insieme ricevuta da Antonio Banfi. Ma prin-cipalmente la Velasca, avvolta nella sua ambigua aurafatta di significati ritrovati per analogie e sottintesi, è lía costituire un simbolo riassuntivo delle aspirazioni del-

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l’architettura italiana degli anni cinquanta: nel grandemuseo costituito dalla città storica, sembra dato trova-re una «casa» che consoli i segni del loro straniamento,che li protegga dal futuro, che li illuda circa la validitàdelle loro istanze «morali».

Con risultati formalmente meno interessanti, ma sullamedesima linea di ricerca, è un’ulteriore opera dei Bpr,il complesso di piazza Statuto – corso Francia a Torino(primi studi 1955-56, realizzazione 1959): il tema delle«preesistenze storiche» alimenta, in modo determinan-te ormai, la discontinua esperienza dei Bpr, che dall’e-pos dispiegato nella Velasca passano all’enfasi strutturaledella torre torinese fino a ripiegare su piú caute allitte-razioni nella ristrutturazione di Casa Lurani Cernuschia via Cappuccio a Milano (1959)82. Si tratta di un’ar-chitettura di riflessione: su tutto queste opere rifletto-no – sul passato, sulle città, sul possibile colloquio fraintellettuali e masse – meno che su se stesse. Mediatedall’insegnamento teorico di Rogers, esse sono destina-te a generare un nuovo capitolo nell’autobiografismodell’architettura italiana. Allegoria dello stato d’animoche le muove è la tomba che, in collaborazione conCarlo Levi, i Bpr erigono a Rocco Scotellaro nel cimi-tero di Tricarico (1957): una reminiscenza arcaica inmuratura che lascia intravedere, dalla spaccatura dalcontorno digradante, la valle del Basento. Sulla pietra,i versi del poeta, ricchi di una contenuta nostalgia, cheè anche degli architetti: «Ma nei sentieri non si tornaindietro | Altre ali fuggiranno dalle paglie della casa |Perché lungo il perire dei tempi | L’alba è nuova, ènuova»83. Eppure, la «nuova alba» sembra preclusa auna cultura che sceglie sempre piú, per riconoscersi, lavia della «pensosa sospensione». Una via che viene bat-tuta, contemporaneamente ai Bpr, da Ignazio Gardella,con la sua casa alle Zattere di Venezia, terminata nel ’58.

Rispetto alla Torre Velasca, la casa alle Zattere costi-

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tuisce una sorta di pendant, tale, comunque, da poteressere salutata, all’epoca, come indice di un clima stori-cistico pericolosamente evasivo. Che la casa alle Zatte-re, con le sue calcolate dissimmetrie, il frastagliarsi deiparticolari, il suo impaginato di facciata presentato come«commento» alla tipologia del palazzo gentilizio lagu-nare, cercasse un confronto volutamente ambiguo conl’eccezionalità del sito è indubbio. Il revisionismo quiespresso da Gardella vive un equilibrio instabile frararefazione di strumenti linguistici, intimismo e pru-denza formale: lo stesso, in fondo, che aveva caratte-rizzato le Terme Regina Isabella a Ischia, la chiesa diCesate (1956-58) e il complesso turistico-alberghieroalla Colletta, Arenzano, realizzato nel ’56 in collabora-zione con Marco Zanuso, eppure ricco di tonalità che lorendono estraneo alla linea seguita dallo stesso Gardel-la nella Galleria d’Arte Moderna a Milano e nella mensaOlivetti a Ivrea, la piú «classica» delle sue opere deglianni cinquanta. Sembra quasi di incontrare due perso-nalità antitetiche in Gardella: ciò che le accomuna è ilgusto per la «revisione gentile»84.

Anche per Gardella i linguaggi sono là, già configu-rati: non rimane che giocare ai loro margini per eroder-li lievemente o per saggiarne la resistenza. In fondo,anche se non raggiungerà piú le altezze del dispensariodi Alessandria, la ricerca «ai margini» di Gardella neldopoguerra non è molto diversa da quella da lui stessoperseguita negli anni trenta.

Ma lo «scandalo» della casa alle Zattere, definita daArgan, con sapiente sottinteso, «la Ca’ d’Oro dell’archi-tettura moderna»85, travalica il problema del personaggioGardella, per inquadrarsi nel dibattito, accesosi a livellointernazionale, su quella che viene definita da Banham«l’infantile ritirata italiana dal movimento moderno».

Pietra dello scandalo, in realtà, non è la Velasca, néla casa alle Zattere, né la Borsa Merci a Pistoia di Miche-

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lucci, bensí un’opera di due giovani torinesi, RobertoGabetti e Aimaro Isola, la Bottega d’Erasmo a Torino(1953 sgg.) pubblicata in un memorabile numero di«Casabella continuità» del 1957. Progettata ed esegui-ta con alta raffinatezza, la Bottega d’Erasmo si presen-ta come una ben calibrata sintesi di sapienza com-positiva e di linguaggi allusivi: un vero e proprio flirt conl’età d’oro dell’architettura alto-borghese dell’Ottocen-to italiano ed europeo trapela – senza mai divenire cita-zione diretta – da un infittirsi di aggettivazioni cheinforma le superfici, spezzate e ripiegate, con una rap-presentatività ermetica e stupefatta. Rispetto alla Vela-sca, alla torre torinese dei Bpr o alla casa alle Zattere,la Bottega d’Erasmo ha il merito di eliminare ognimediazione, rendendo esplicito il nuovo referente chia-mato a convalidare la vocazione autobiografica degliarchitetti italiani. Ma la polemica non nasce da un’ana-lisi diretta dell’opera. È piuttosto la lettera di presenta-zione di Gabetti e Isola che accompagna le foto, a sol-levare in Gregotti, allora redattore di «Casabella», per-plessità, e a dettare a Rogers un commento che apre lapolemica sul cosiddetto «neoliberty»86. Ciò che scanda-lizza è l’affermazione di un fallimento del movimentomoderno, dei suoi ideali etici tradotti in diete formalidivenute superflue. Fintanto che il «recupero dellevalenze lasciate libere» dai padri fondatori sembravanon incrinare il castello del movimento moderno, ogniincursione in aree linguistiche eterodosse era giustifica-ta e ritenuta salutare; una volta eliminate – e per giun-ta verbalmente – le reti teoriche di protezione, controchi palesa una crisi sembra necessario lanciare anatemi.

Eppure, sia la Bottega d’Erasmo che le altre operesignificative di Gabetti e Isola – la Borsa Valori di Tori-no, realizzata, dal ’52 in poi, con Giorgio e GiuseppeRaineri, il progetto di concorso per un convento a Chie-ti (1956), o la sede della Società ippica torinese a Niche-

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lino (1959) – non presentavano scoperti revivalismi:rilette a distanza di tempo, esse non sembrano giustifi-care lo scalpore suscitato alla loro apparizione. Scalpo-re che, in gran parte, è dovuto al loro far emergere pro-blemi sottesi, alla loro capacità di far chiarezza – pereccesso di ambiguità – sul contenuto oscillante dell’in-trospezione repressa, dell’intimismo catartico, del mora-lismo teorico propri dei nuovi «maestri» italiani. Perchétutta quell’attenzione per le «preesistenze» e il conte-sto non era che un estremo tentativo di ancorarsi a unporto stabile, per sfuggire alla tempesta che rendevafragile la navicella dell’architettura, priva di fari capacidi illuminare gli iceberg minacciosi delle istituzioni87.

Ciò comportava una sorta di fobia per ogni codifica-zione linguistica: storia, preesistenze e movimentomoderno – insegnava Rogers – sono mediabili fra lorosolo facendo appello al «metodo», e sia pure al metodo«dell’ortodossia dell’eterodossia»88.

Gli echi della communitas vengono cosí assimilati albacio del principe che ha il potere di riportare alla vitala «bella addormentata», la struttura scenica, cioè,semanticamente neutra, delle avanguardie radicali edelementariste: il che permette di non precisare i limitidelle lingue usate, mentre il dogma della «continuità»risulta sempre piú compromesso.

Eppure, quegli stessi limiti possono essere forzati. Èsemplicemente questa l’operazione compiuta da Gabet-ti e Isola, e certo il termine «neoliberty» non rendeomaggio al fenomeno. Impalpabile è la storia cui i duetorinesi si rivolgono, cosí come impalpabile è quella cuisi rivolgono, sulla loro scorta, fra Milano e Novara, Vit-torio Gregotti, Gae Aulenti, Guido Canella89. Ciò chesembra accomunare gli sforzi di tale generazione è unarivolta contro i «padri», colpevoli di aver trasmesso illu-sioni duramente scontate e di cui si ostinano a celebra-re la «continuità». La borghesia che avrebbe dovuto rac-

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cogliere l’ascetico messaggio del purismo e delle avan-guardie ha dimostrato di non saper che fare delle dietespirituali proposte. Meglio disegnare per essa, ricono-scendola vittoriosa su ogni utopia illuminista, «poltro-ne per piangere», come faranno Gregotti, Meneghetti eStoppino – la «poltrona Cavour» del 1959 – richia-mandosi a fluenze timidamente memori del coup de fouetvandeveldiano, o mettersi alla scuola di un padre anti-co come Alessandro Antonelli, alternativo a Labrousteo Baltard, per dar vita ad opere artigianalmente curate,come il nucleo residenziale operaio della Bassi a Came-ri (1956), del medesimo studio novarese. Il quale eleg-gerà Perret come riferimento d’occasione per leggerviuna décadence coniugabile alle brumose atmosfere della«triste Torino», in polemica con la lettura canonicafatta nel ’55 da Rogers dello stesso Perret90: ne sortiràil palazzo per uffici nel centro storico di Novara (1959-60), omaggio involontario alla tematica delle «preesi-stenze ambientali».

Nel frattempo, i saggi di Canella sulla «scuola diAmsterdam» e su Dudok, come quelli di Gregotti eAldo Rossi su Antonelli (piú tardi, sarà finalmente riva-lutato il «Novecento» milanese, da Muzio a de Finettinon sottacendo l’apporto di Aldo Andreani), mutano laricerca sulla «preistoria del nuovo»91. Non si tratta piú,come per la rubrica della rivista di Zevi, «Ereditàdell’8oo», di annettere piú vaste zone del recente pas-sato all’anticamera di un mitico «movimento moder-no». La storia viene ora spezzata in tronconi disconti-nui, viene costruita come sistema discreto, prelevandoda essa campioni in ragione di esplorazioni introspettive.

Tale fenomeno non è esclusivo della cultura archi-tettonica. È sintomatico che proprio fra il ’54 e il ’57registi cinematografici come Fellini e Antonioni faccia-no slittare il linguaggio neorealista verso tonalità inti-miste o lo pieghino a descrivere il risultato di un con-

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nubio fra esplorazione del profondo e dimensioni oniri-che. Né è poco significativo che se nella Strada o nel-l’Avventura le vicende vengono sospese in spazi astorici,nella Dolce vita o nella Notte l’alienazione del soggettoincontra l’alienazione metropolitana. E che quell’alie-nazione fosse letta con occhi idealistici o messa in scenaalludendo a dimensioni fenomenologiche non intacca lasostanza del nostro discorso. Aver insistito sulle com-ponenti autobiografiche presenti nella poetica neoreali-sta ci permette ora di leggere una continuità fra le espe-rienze che la caratterizzano e quelle tese a un suo supe-ramento. In ballo è sempre una ricerca di identità, uninterrogativo circa la propria funzione, cui si rispondecon scavi nella soggettività tesi a ritrovare il cordoneombelicale che lega l’infelice savant alla collettività.

Gli strumenti scelti per operare quegli scavi sono aloro volta rivelatori: essi parlano di una solitudine ormaiaccettata, di un’incertezza sul proprio essere sociale cheappare l’unico discorso degno di venire comunicato. Lecomponenti irrazionaliste, specie da parte degli archi-tetti, sono severamente controllate. Eppure, la querelleriesce a scuotere l’ambiente internazionale. Come si èricordato, Banham tuona nel ’59 contro lo «storicismoitaliano» accusato di tradimento92: nella condanna ven-gono accomunati sia i giovani che nel ’6o bruceranno leloro velleità nella mostra «Nuovi disegni per il mobileitaliano», allestita da Gae Aulenti e Guido Canella93, siai loro «padri» immediati. Né basta. Rogers, Gardella eGiancarlo De Carlo vengono duramente attaccati per laVelasca, la casa alle Zattere e le case materane, al con-vegno di Otterlo: il solo De Carlo riuscirà a riscattarele accuse di deviazionismo riaffermando la spregiudica-tezza del suo impegno antiformalista – uno dei motiviche lo avevano condotto a uscire polemicamente dalgruppo dei dirigenti di «Casabella» – aderendo allericerche e alle iniziative del Team X.

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In difesa delle posizioni «neoliberty» interviene nel’58 Paolo Portoghesi, con un articolo su «Comunità»che costituisce un primo bilancio delle ricerche italia-ne legate all’enunciazione autobiografica e al recuperodi umanesimi disalienanti: non a caso, il saggio si inti-tola Dal neorealismo al neoliberty94. L’intervento por-toghesiano tende in realtà a costruire una koiné làdov’è una disseminazione tutt’altro che sedimentata diinteressi, con un chiaro risvolto autogiustificativo. Ilrecupero della dimensione storica, infatti, gioca perPortoghesi un ruolo ben diverso da quello, allusivo esommesso, degli ambienti piemontese e lombardo.Concentrato dapprima nell’analisi filologica e criticadell’opera borrominiana, letta come paradigma di unasofferta condizione umana collimante con un’ambi-guità che è parte del genius loci romano, poi in quelladell’architettura dell’eclettismo ottocentesco, Porto-ghesi non rinuncia a tradurre in progetti il bagno nelpassato da lui quotidianamente esperito. Base teoricaè una critica alle condizioni del «cattivo moderno» ealla notte della reificazione, inizialmente agganciataalle filosofie del progressismo cattolico95. Ne esconoprodotti che dell’ibrido fanno la loro ragione d’essere:le modulazioni neobarocche di Villa Baldi a Roma(196o-1962), in tal senso, vanno ben al di là del pro-grammatico e rarefatto monumentalismo del progettopresentato dallo stesso Portoghesi, con GianfrancoCaniggia e Paolo Marconi, al concorso per la Bibliote-ca Nazionale di Roma, preludendo a una «maniera»orgogliosa delle proprie involuzioni. Il canto di vitto-ria sulle «inibizioni dell’architettura moderna» vieneintonato in falsetto e su una partitura trascritta daqualcuno che ha scambiato per giochi grafici le nota-zioni musicali96.

Sarà però bene mettere da parte ogni moralismo neltentare di valutare il nuovo interesse per l’accademia,

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nel senso piú genuino del termine, serpeggiante fra lenuove generazioni alla fine degli anni cinquanta. Acca-demia significa trasmissibilità e perfezionabilità delleesperienze contro il dilettantismo – anche didattico –imperante; significa fedeltà a codici rigorosi cui attenersicontro ogni stucchevole empirismo; significa rivendica-re per la cultura cattolica – da cui in gran parte queglistimoli erano vissuti – un nuovo ruolo contro il lassismoetico imperante. In fondo, i giovani neoeclettici e isostenitori di una continuità senza residui con le mito-logie pevsneriane – pensiamo a Leonardo Benevolo –aspiravano a una medesima etica. Certo, si tratta didiverse accezioni di essa: ma l’arma da usare contro l’as-salto ben programmato di forze permeate di volgarità è,ancora una volta, l’appello moralistico.

È Saverio Muratori a farsi interprete delle istanzerigoriste e della «critica al moderno» serpeggianti comeantidoto al disordinato dibattito in corso. La lezione delneoclassicismo scandinavo cui, insieme a Fariello e aQuaroni, Muratori era ricorso nell’anteguerra nei pro-getti per la piazza imperiale dell’E42 lascia una tracciasignificativa in lui; lo strutturalismo severo dei suoi pro-getti per l’Auditorium romano e per il quartiere Tusco-lano I è solo una premessa per una ricerca di leggi ogget-tive che guidino il comporre, partendo da dati disloca-ti su diverse aree tematiche. Un’acuta percezione della«crisi dei valori» è nel pensiero di Muratori: la sua cri-tica al moderno «smarrimento», al relativismo, all’effi-mero, tende a ricostruire l’infranto appellandosi a leggicerte, ritrovate spezzando soggettivamente l’«oblio del-l’Essere» e vincendo la malattia che ha generato le attua-li «dissociazioni». La crisi, dunque, non va attraversa-ta, ma esorcizzata, per Muratori97. Non la storia, bensíciò che in essa appare resistente al mutamento vieneinvocato: da un lato, è la ricerca di forme adeguate amateriali dotati di interna coerenza – muratura cupola-

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ta o voltata –; dall’altro, la ricerca di sicurezze derivan-ti dall’analisi delle strutture urbane. Indubbiamente,l’analisi urbana, come si è sviluppata in Italia dagli annisessanta in poi, è debitrice agli studi muratoriani suVenezia e Roma98. Quegli studi, d’altra parte, spostava-no gli interessi sulla struttura dei tessuti antichi, ren-dendo anacronistico il dibattito sulle «preesistenze» edando diverso spessore al tema stesso dei centri storici.È piuttosto il passaggio non dialettico di Muratori dal-l’analisi al progetto a inquinare il suo apporto: la suapolemica contro il soggettivismo e «l’esilità del moder-no» – Fahrenkamp versus Mies – sfocia in un organismoindubbiamente pregevole, come la sede dell’Enpas aBologna (1957), ma anche nel mediocre risultato dellasede centrale della Democrazia cristiana all’Eur(1955-58), pago del suo polemico anacronismo. Non acaso, le prime rivolte studentesche nelle facoltà di archi-tettura si rivolgono contro la didattica di Muratori aRoma, scelta come punto debole di un’istituzione sordaalle più vive istanze del momento.

Rimane il fatto che il ricorso alla storia si risolvecomunque in ricerca di assoluti, opposti all’urgere diforze disgreganti o in omaggio a una speranza di palin-genesi. L’appello alla totalità nasconde dissimulate no-stalgie per un lavoro intellettuale svolto in forma ritua-le e con panni sacerdotali.

Ciò è vero, nonostante le apparenze, persino per latravagliata storia della pianificazione urbanistica di que-gli anni. Se Quaroni, come s’è visto, cerca in complessie sempre nuovi modi di intervento punti di attacco allerealtà delle città e dei territori non fossilizzati in sche-mi a priori, Luigi Piccinato e Giovanni Astengo conso-lidano una disciplina che si rivela sempre piú inoperan-te, ma dotata di modelli divenuti canonici e di tecnichedi analisi non prive di raffinatezza. La pianificazioneregionale, ufficialmente varata nel ’52, auspice il mini-

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stro dei lavori pubblici Salvatore Aldisio in concomi-tanza con il congresso dell’Inu dedicato a quel tema,vede Astengo impegnato nella redazione dei due volu-mi dei Criteri di indirizzo, ricchi di indicazioni metodo-logiche. Ma il «buongoverno» del territorio evocato conl’immagine dell’affresco senese del Lorenzetti è solo unsogno per philosophes. Gli studi per i piani della Cam-pania, del Piemonte, della Lombardia, del Veneto,rimangono, in assenza di leggi sull’uso del suolo, di isti-tuzioni responsabili e di reali volontà politiche, pureesercitazioni99. All’urbanistica scientifica auspicata daAstengo non rimane che ripiegare sulla scala dei picco-li comuni ricchi di memorie storiche; ma proprio adAssisi, Astengo sperimenterà una delle sue piú bruciantisconfitte. Né, per suo conto, il «modello» ripetuto daPiccinato nei piani regolatori di Matera, l’Aquila, Pado-va, Siena, Benevento, Carrara, avrà maggior fortuna.Non si tratta solo di carenze dovute all’eccessiva com-piutezza di quel modello. L’urbanistica di Piccinato hauna sua coerenza anche al di là di esso: l’individuazio-ne di assi preferenziali, la collocazione di nuclei dire-zionali alternativi al cuore storico, la tecnica dellozoning interpretano le possibilità offerte dalla legge del’42 portando a compimento l’opera dei «padri» delladisciplina. (E non si tratta solo di Stübben o Eberstadt,ma anche del Piacentini della proposta per Roma del1916). Ma è l’ipotesi economica su cui la disciplina stes-sa è fondata a renderla esornativa; per comprenderlo,saranno necessarie analisi storiche disincantate, impen-sabili nel clima da crociata in cui si muove l’urbanisticain Italia negli anni cinquanta. Un clima in cui l’uso deltermine «pianificazione» è già guardato con sospetto ela cui misura è offerta dalla travagliata vicenda del pianoregolatore di Roma100.

La decisione relativa al varo di un nuovo piano perla capitale viene presa nel 1954, dopo una relazione del-

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l’assessore liberale Storoni tenuta nel dicembre del ’53in Campidoglio, che segue le linee tracciate apposi-tamente dalla sezione laziale dell’Inu: le campagne dellastampa progressista contro la speculazione edilizia e lacorruzione amministrativa sembrano sul punto di pro-durre effetti concreti di vasta portata, e la cultura roma-na coglie l’occasione per coalizzarsi in una battaglia dilungo respiro. Mentre la sezione laziale dell’Inu fungeda organismo di pressione e la popolazione – fino al livel-lo delle scuole superiori – è sensibilizzata sempre piú alproblema, la Grande Commissione per il piano procedefra compromessi e confusioni di competenze e il Cet –il Comitato di esecuzione tecnica in cui spiccano le per-sonalità di Quaroni e di Piccinato101 – elabora uno sche-ma che diviene subito oggetto di polemiche e di studi.Il piano del Cet rappresenta, insieme, una summa dellamodellistica corrente e un’ipotesi decisamente innova-tiva. Il tema della salvaguardia del centro storico attra-verso un’espansione unidirezionale e lo spostamento inzone cerniera delle strutture terziarie si cala nella realtàromana concentrandosi in un’«invenzione» urbanisticadecisiva: le zone di espansione orientali si saldano al ter-ritorio e al nucleo storico attraverso una struttura dire-zionale attestata su un asse attrezzato e sui tre poli diPietralata, di Centocelle, dell’Eur. Il disegno conven-zionale dello zoning e l’imprecisato rapporto residen-za-lavoro costituiscono i limiti dello schema: che nellasituazione data, tuttavia, caratterizzata dall’assenza dipiani economici o di semplici prospettive di industria-lizzazione proiettabili nello spazio, rimane il piú avan-zato prodotto della cultura urbanistica italiana di que-gli anni.

La semplice prospettiva di un piano è comunque suf-ficiente a coalizzare le forze della grande e piccola spe-culazione, insieme alle loro espressioni politiche e cul-turali. Con argomentazioni pretestuose – l’assenza di un

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piano intercomunale – l’elaborato del Cet viene accan-tonato, e dopo faticose polemiche, nel giugno del ’59,l’amministrazione comunale adotta il «piano della giun-ta», un documento sostanzialmente rispecchiante i desi-derata dei costruttori e dei proprietari terrieri. Quaro-ni, che in verità aveva mostrato scetticismo sin dalleprime battute della vicenda, considerando immaturo ilclima per una reale pianificazione, rifletterà la soffertadelusione di larga parte dell’intelligencija romana in unsaggio magistrale, Una città eterna: quattro lezioni da 27secoli102. Ma la vicenda del piano di Roma non si svolgesenza conseguenze storiche indirette. Anzitutto, rima-ne assodato che lo stesso strumento del piano è un’ar-ma spuntata: e non solo per difetto di una volontà poli-tica che lo sostenga o di un appoggio di massa. Il suointervento restrittivo in un solo settore di un singolo set-tore economico – l’uso del suolo – non giustifica le spe-ranze tese a diversi assetti sociali e produttivi, accumu-late su di esso da una cultura troppo attenta ai propritradizionali strumenti e ora venuta a confronto con inte-ressi ancora nevralgici per lo sviluppo capitalista. Perpoter offrire ai partiti politici contributi realmente tec-nici, è necessario entrare direttamente nel «gioco» e tra-sformare, con esso, la propria attrezzatura culturale.Ma il dibattito quotidiano sul piano ha anche reso fami-liare all’opinione pubblica il tema del futuro urbano. Ladenuncia non appartiene piú solo alle colonne del«Mondo», dell’«Espresso», del «Contemporaneo» o aiquotidiani dei partiti di sinistra: di là a poco, la specu-lazione urbanistica napoletana verrà descritta da Rosiper il pubblico cinematografico in Mani sulla città.

Mentre l’Inu si appresta a sferrare la sua ultima gran-de provocazione in quanto organismo indipendente, conil Codice dell’urbanistica, l’urbanistica italiana, in pos-sesso della piú bella rivista internazionale specializzata,si vede costretta a ripiegare su posizioni di denuncia.

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Nel frattempo, sul versante architettonico, emergonosporadicamente ipotesi che sottintendono nuovi approc-ci alla definizione della forma urbana.

Parallelamente alle tendenze storiciste e intimiste, sisviluppa infatti una tendenza che viene subito definita«neorazionalista», mentre sollecitazioni linguistiche pro-venienti dalle ricerche piú sperimentali e meno «orto-dosse» iniziano a distaccare il problema della scritturaarchitettonica da quello dei suoi referenti. È un con-corso a fungere da catalizzatore per forze che si dispon-gono in campo con insegne mutate. Nel 1957, al con-corso per la nuova Biblioteca Nazionale di Roma, loca-lizzata nell’area del Castro Pretorio, non risultano pre-senti né i Bpr, né Albini, né Gardella, né Quaroni, né irevisionisti settentrionali: piú giovani energie si impe-gnano, insieme a quell’eterno fanciullo che è GiuseppeSamonà, ad interpretare l’occasione del concorso comestimolo per una revisione delle acquisizioni divenuteincerte o addirittura come pretesto per una dichiarazio-ne programmatica103. Le proposte dei gruppi emergentisi fronteggiano sdegnosamente. I progetti dei gruppiBenevolo-Giura Longo-Melograni e del gruppo Manie-ri-Nicoletti (consulente Giuseppe Vaccaro) sono radica-li nella loro decisa ripresa del metodo e degli stilemi diun International Style ripercorso criticamente: nel ’58,tale affermazione di continuità ortodossa suona pole-mica, colpendo sia le tendenze storiciste – documenta-te, peraltro, da alcuni elaborati presentati al medesimoconcorso – sia i revisionismi piú cauti, sia la tradizioneneorealista. Si tratta di un’operazione che travalica laqualità dei singoli progetti: rispetto all’anonimato cui siconsacra l’afono progetto vincente del gruppo Vitelloz-zi-Castellazzi, la tradizione rivendicata in particolareda Benevolo, Giura Longo e Melograni appare porta-trice di un metodo adeguato a un’Italia che si va inse-rendo nel consesso economico internazionale e che di

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conseguenza non può permettersi di vedere disperse leproprie energie in ricerche marginali. Per Benevolo, inparticolare, si tratta anche dell’annuncio di una svoltaautocritica: il populismo dei suoi primi progetti – comequello presentato al concorso per il quartiere TorreSpagnola a Matera – è qui sconfessato; la linea che locondurrà a disegnare la sua Storia dell’architettura moder-na, negli anni immediatamente successivi, è già traccia-ta con sicurezza.

Una linea, tuttavia, che non può apparire che ridut-tiva a chi, come Samonà, considera la stessa architettu-ra moderna come un vasto coacervo di problemi tuttilasciati aperti e quindi tutti degni di riflessione, al difuori di ogni visione «prospettica». Nel 1953-58,Samonà aveva sapientemente assunto come materiale delcomporre lo strutturalismo di Perret, nei blocchi dellaPalazzata di Messina, e aveva dimostrato che nessuna«oggettività» era in quel «materiale», da lui manipola-to con severità non priva di enfasi. Ma l’unità raggiun-ta attraverso la scomposizione degli elementi era giàstata da lui sperimentata, insieme a Egle Trincanato,nella sede dell’Inail del 1950-56 presso San Simeone aVenezia, con una fraseologia fatta di frammenti e didivertite grafie104. La sapienza del compositore è nellasua capacità di «commentare», di completare e di chio-sare una stilistica, ma anche di completare e commen-tare un sito urbano. Nel progetto di Samonà per laBiblioteca Nazionale di Roma il tema di fondo è immu-tato, anche se cambiato risulta il modello di riferimento.Ora, è il linguaggio materico e monumentale dell’ultimoLe Corbusier ad essere rivisitato; ma si tratta solo di uncodice assunto sotto condizione, di un pretesto usato perdichiarare la necessità di una maestria «classica», peruscire da un dibattito divenuto angusto e che rischia dicompiacersi del proprio provincialismo. La sicurezzacon cui la fraseologia lecorbusieriana viene ricomposta

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da Samonà in una austera struttura binaria – una L alta,legata diagonalmente a una piastra tormentata da segniermetici – rimane a ricordare una delle tante occasionimancate dell’architettura italiana del dopoguerra, ma èanche la ragione dell’isolamento di questa esperienza. Almetodo propugnato da Benevolo, Samonà risponde conla pregnanza della lingua, della «parola piena»: troppopiena per essere compresa nei suoi significati trasmissi-bili in quegli anni, eppure profetica di un clima che avràbisogno di sollecitazioni internazionali à la page peraffermarsi.

Non un risultato, bensí un acerbo ma denso manife-sto programmatico presenta invece Carlo Aymonino.Anche Aymonino è alla ricerca di una via d’uscita dallesecche del realismo impoverito che aveva caratterizzatola sua precedente esperienza professionale; anch’egliripercorre la storia dell’architettura moderna alla ricer-ca di referenti che parlino di una complessità che nonescluda valenze simboliche; anch’egli è disposto a intra-prendere, momentaneamente, un’operazione di rilettu-ra. La polivalenza del segno e la componibilità deglispazi: in Aalto, Aymonino cerca una fonte per una scrit-tura fatta di accumulazioni e di scatti insofferenti; si-gnificativo è che alla fine del suo percorso egli incontrile edulcorate aggregazioni di Willem Marinus Dudok105.

Chiaramente provvisorio è il dualismo della Biblio-teca Nazionale aymoniniana, che comunque, alla pub-blicazione dei risultati del concorso, appare come unanovità carica di promesse, e certo fra le piú inattese. Chela poetica complessità abbracciata da Aymonino avessele sue radici proprio nel neorealismo implicitamentesconfessato era invece, all’epoca, piú difficile da coglie-re. Eppure, persino la ricerca di organismi che in qual-che modo assumono su di sé la polisemia urbana, e chenella città si pongano come variabili legate a una tema-tica morfologica – tema che caratterizza da ora in poi l’o-

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pera di Aymonino – trova nell’esperienza del Tiburtinouna lontana origine. Nei progetti per l’Istituto tecnicoindustriale di Lecce e per quello di Brindisi, nel condo-minio in via Arbia (196o-61), e nell’intensivo di viaAnagni a Roma (1962-63), Aymonino metterà a puntoil suo lessico fatto di affabulazioni: ma le ricerche allascala edilizia sono per lui solo esperimenti in vitro,momenti minimi di un’elaborazione che attende dipotersi confrontare con la scala urbana.

Del resto, il recupero del valore rappresentativo del-l’immagine è una tentazione costante per l’architetturaitaliana alla fine degli anni cinquanta. Essa è presente aMilano nell’opera di Vico Magistretti, professionistaabile e capace di modulare inquiete aggregazioni volu-metriche, come nell’edificio della Società «L’Abeille»(con G. Veneziani, 1959-6o), domina l’Istituto Mar-chiondi Spagliardi a Milano Baggio di Vittoriano Viganò(1953-57), subito salutato come esempio di «brutali-smo» parallelo a quello giapponese e di derivazionelecorbusieriana106, con piú superficialità, informa l’ope-ra di Caccia-Dominioni107 e rende pensosa quella di Figi-ni e Pollini – pensiamo non solo alla chiesa della Madon-na dei Poveri a Milano (1952-54), ma anche alla casa divia Circo (1954-57) – viene magistralmente coniugato daGino Valle a una poetica capace di superare l’og-gettivismo di Mangiarotti o l’eleganza astratta di MarcoZanuso108.

Anche Valle è impegnato in revisioni linguisticherisolte in etimi di sapore costruttivista109. La sua colloca-zione geograficamente periferica, ma in presa diretta conuna committenza concreta, lo allontana dalle ideologieimperanti ma anche dalla voga autobiografica. L’altoprofessionismo da lui mostrato nel condominio di viaMarinoni a Udine (1958196o), nel monumento alla Resi-stenza nella stessa città (progetto di concorso del 1958,realizzazione del 1967-69), nel condominio in via San

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Francesco a Trieste (1955-57), introduce a un’opera – gliuffici della Zanussi a Porcia (Pordenone), del 1959-61 –che lo impone all’attenzione internazionale. L’immaginedell’industria è qui offerta nella sua polivalenza: le agget-tivazioni strutturaliste parlano della qualità possibile dellavoro industriale, ne traducono la realtà in serena nar-razione formale. Ai tormentati appelli dell’alta culturaarchitettonica italiana, Valle risponde con un antintel-lettualismo pago del proprio corretto e sicuro inserimentonel mondo della produzione: gli uffici della Zanussi pre-ludono cosí a una ricerca che si continuerà senza scossefino ad oggi, tesa a pervenire a una realistica conoscen-za delle capacità di incidenza della progettazione su unarealtà industriale ridotta all’immediato.

Negli anni cinquanta, all’interno di un dibattitopreoccupato di definire le aree in cui il valore della testi-monianza può dissipare le nebbie dell’alienazione, l’o-pera di Valle appare coraggiosa. La tensione che in-forma l’organismo e le soluzioni di dettaglio degli uffi-ci Zanussi accetta una tradizione che è al contrario dis-sipata dalla piatta esercitazione di Melchiorre Bega peril grattacielo Galfa a Milano (1958), ma anche da quel-la, piú pretenziosa ma ugualmente vuota, del grattacie-lo Pirelli di Ponti, Fornaroli e Rosselli (1955-58).

Eppure, l’edificio di Valle è confinato come oggettoper visite di architetti nella provincia veneta, e le operedi Gio Ponti e Melchiorre Bega dànno forma al nuovoorganismo terziario milanese: i loro abiti internazionalisono in sintonia con il bisogno di sicurezza che i cetidirigenti dell’Italia del «miracolo» contrappongono aisussulti della coscienza alto-borghese espressi dalla TorreVelasca.

Quel bisogno di sicurezza, peraltro, non è estraneo avaste fasce della cultura architettonica. In tal senso, il«ricorso a Bakema» avvertibile nell’Istituto di farma-cologia alla Città Universitaria romana, di Dall’Olio e

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Lambertucci (1957-6o), vale l’esperanto efficientista delterso volume degli uffici in via Torino a Roma di Libe-ra, Calini e Montuori (1956-1958)110: il formulario«internazionale», manipolato peraltro con sicurezza daarchitetti del calibro di Libera e Moretti, associati perl’occasione a Vittorio Cafiero, Amedeo Luccichenti eVincenzo Monaco, dà contemporaneamente vita al Vil-laggio Olimpico a Roma (1957-6o), in una zona arric-chita dalla presenza dello Stadio Flaminio e del Palaz-zetto dello Sport di Vitellozzi e Pier Luigi Nervi111. Ilcomplesso olimpico rimane fra i pochi interventi dellafine degli anni cinquanta nella capitale dotato di una suadignità: i lunghi blocchi arcuati definiscono un pae-saggio urbano capace ora di recuperare i valori dellastrada ora di affermare una poetica dell’indeterminatoqui esente dagli eccessi retorici che caratterizzano alcu-ne delle contemporanee e successive opere di Moretti,come la palazzina a Monte Mario (1961-62) o il com-plesso residenziale Watergate a Washington (1959-61).Rimane però il fatto che il quartiere al Flaminio è unframmento della «Roma delle Olimpiadi»: di una co-lossale operazione speculativa, cioè, innestata sull’e-vento sportivo e alternativa a una sia pur minimalerazionalizzazione dello sviluppo urbano112.

Il professionismo romano è dunque capace di ribat-tere positivamente alla problematicità di un’alta cultu-ra che non nasconde il proprio disorientamento, e pro-prio a proposito del nesso disciplina-politica che essarivendica come proprio. Sulle pagine di «Casabella» ildibattito si sposta sul terreno della storia, mentre si ini-zia a prendere in considerazione con occhi nuovi laricerca extraeuropea; ma anche quel dibattito appare oralimitato, compromesso da un élitismo improduttivo.L’insofferenza si manifesterà ben presto con tentatividestinati a breve vita, che vedono alcuni esponenti dellenuovissime generazioni riunirsi intorno a nuove riviste

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come «Superfici» o «Argomenti di Architettura», e gio-vani architetti raccogliersi nella Società di architetturae urbanistica (Sau). Piú che come gruppo di tendenza,la Sau si pone, dal ’57 al ’63, come un’eclettica asso-ciazione di moralisti alla ricerca di un’ideologia. Solo ungenerico moralismo, infatti, poteva riunire architetticome Benevolo, Aymonino, Valori, Giuseppe Cam-pos-Venuti, Melograni, Vittoria, Bruschi, Manieri,Moroni, Insolera. L’insistenza sui problemi di metodoe sull’«impegno» all’interno dei grandi problemi postidalla realtà italiana forma un curioso contrasto con i pro-dotti di quegli architetti, attestati – a meno di pocheeccezioni – su formule minimali e pronti a dissolvere ilgruppo ai primi impatti con la politica concreta113.

Al tentativo «di gruppo» della Sau risponde, nel ’59,l’iniziativa «in grande» di Zevi, che dichiara finita l’e-poca dei cenacoli di tendenza e si fa promotore dell’I-narch. Produttori, architetti, tecnici dell’edilizia a tuttele scale, imprenditori sono chiamati a collaborare all’in-terno di un organismo nazionale: al limite, a far scon-trare in una sede unitaria i loro opposti interessi. L’ac-cusa di corporativismo è sdegnosamente respinta daZevi, che sottolinea la funzione dialettica che l’incon-tro organizzato di forze comunque destinate a compor-si fra loro può esercitare114.

L’Inarch non agirà con le tensioni che avevano carat-terizzato la vita dell’Inu, e i grandi obiettivi auspicatida Zevi nel suo discorso di promozione rimarranno ingran parte inevasi. Ma anche la formazione dell’Inarchva registrata come un sintomo delle confuse aspirazio-ni della fine degli anni cinquanta: né se ne comprende-rebbero le ragioni storiche sottovalutando che di lí apoco il dibattito sulla formula politica del centro-sini-stra dilanierà i grandi partiti italiani e provocherà aggiu-stamenti e ridimensionamenti nell’intero schieramentoculturale.

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È condizionata da tale clima che viene alla luce, nel196o, la Storia dell’architettura moderna, di LeonardoBenevolo. Far chiarezza a costo di semplificare con non-curanza, e tracciare una linea coerente e progressiva cheattraversi sicura la «tradizione del nuovo» sono al cen-tro del progetto storico benevoliano: il Modern Move-ment teorizzato nel ’36 da Pevsner diviene qui un soli-do edificio, alla cui ombra ansie e inquietudini possonotrovare riposo e appagamento. Rassicuranti anche gliesiti scelti come exempla nelle pagine finali: schiacciatal’allucinante testimonianza dell’ultimo Mies in una let-tura inesorabilmente riduttiva, considerati con scetticacompunzione i «furori» di Le Corbusier e di Wrightanni cinquanta-sessanta, «attuali» risultano – come con-tinuatori della giganteggiante ortodossia gropiusiana –Bakema e Van den Broek e Arne Jacobsen. Ma ciò cheinteressa Benevolo non è la contrapposizione di una lin-gua a un’altra. Anzi, il suo sforzo è dimostrare che ilmovimento moderno nasce e si sviluppa come progettodi complessiva ricollocazione delle attività umane in uncontesto che ha come obiettivo la riforma della vitaassociata nelle sue varie espressioni e alle sue diversescale.

In definitiva, la Storia benevoliana si colloca, nel196o, come una sorta di diga contro i deviazionismi, maanche come un rappel à l’ordre, oltre che come summatranquillizzante. Vaghi sono sia il sociologismo che l’in-terpretazione della politica che informano l’opera diBenevolo. Ciò che per lui conta è che, alle soglie di unanuova fase storica delle trasformazioni del paese, gliarchitetti possano ritenersi sciolti dalle ipoteche figura-tive che Zevi, Rogers o i revivalisti fanno pesare su diloro: il metodo benevoliano è assai piú erede del ridu-zionismo postneorealista di quanto non apparisse almomento. Tuttavia, la revisione storiografica di Bene-volo, tesa anch’essa a individuare radici politiche nei

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modelli di lavoro intellettuale, appare decisamente inritardo. Il suo ottimismo, a distanza di nove anni dallatormentata lettura compiuta da Argan del Gropius diWeimar, riflette una posizione di difesa.

Neanche un’opera indubbiamente di alta qualità,come la nuova sede della Rinascente realizzata da Albi-ni e Franca Helg in piazza Fiume a Roma (196o-61)appare però in sintonia con i nuovi problemi115. Nel pas-saggio dal primo progetto (1957-59) all’esecuzione, la«macchina» albiniana subisce un sensibile calo di ten-sione: una struttura in ferro sapientemente denunciatacontro un volume totalmente cieco è sostituita da un’in-crespata cortina di cemento inerte color rosa, incisa dalreticolo strutturale e interrotta, verso la piazza, da untroppo gradevole finestrone. Come oggetto che vogliaostentare la propria reificazione, la Rinascente è ecces-sivamente colloquiale con l’intorno urbano; come speri-mentazione sulla tematica delle «preesistenze», essa simostra troppo spaesata. L’equilibrio raggiunto con l’e-dificio dell’Ina parmense si è rotto. La Rinascente diAlbini e Helg rende palese che quel tema si è esaurito,insieme alle motivazioni che ad esso facevano da sup-porto. Ad altre dimensioni il problema del colloquiocon le strutture esistenti va ora posto: una linea alter-nativa inizia a profilarsi dalle analisi sulla forma fisicadella città e del territorio che si sviluppano all’internodell’Inu, senza integrarsi, se non verbalmente, alla con-sueta attività di denuncia o all’individuazione di canaliburocratici di intervento.

Si badi bene: spesso tale linea alternativa è battutadai medesimi protagonisti dell’architettura come auto-riflessione, mantenendo come obiettivo di fondo il rag-giungimento di «parole piene» nelle tecniche di inter-vento sulla città e sul territorio inconsciamente paralle-lo alla ricerca di parole piene nel settore dell’oggetto.Singolare coincidenza, questa, che non tarderà a pro-

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durre i suoi effetti nel tentativo di ricongiungere le duescale operative attraverso l’invenzione di una soluzionedi continuità funzionante come magnete ricoagulanteforze in divaricazione.

Non è certo casuale che nella tavola rotonda del Con-vegno di Lecce dell’Inu116 (1959), Giancarlo De Carlo,Piero Moroni, Quaroni e Eduardo Vittoria concordinonel ritenere usurato il termine «urbanistica», ma soloper ricomprenderne i significati nel termine «architet-tura». Eppure, dopo aver in tal modo operato una sin-tesi artificiale, da essa si riparte per riempirla di senso,travalicando ogni limitazione di scala e ogni tecnica dicomunicazione. Protetta da una parola, la volontà dipotenza è libera di spaziare nel terreno magico della«città-regione»: coniando termini, il controllo sognatosi estende alle nuove dimensioni sollecitate dalla sco-perta dell’implosion creata dai mass media, dal «pro-gresso tecnologico, dall’assenza di limiti che i muta-menti di scala nella vita e nella scena urbana» sembra-no introdurre. Di nuovo, l’intellettuale tenta di ricono-scersi entrando in una stanza dagli specchi ricurvi edescrivendo lo shock provato di fronte all’immagine chene risulta. Non si tratta più della stanza dolorante dellarealtà contadina e meridionale, ma del soggiorno meta-fisico e tecnologicamente iperattrezzato installato in unipotetico missile: il «paese dei barocchi» viene abban-donato a favore di un viaggio nel territorio delle «cittàinvisibili».

Nel medesimo 1959, un volume di Giuseppe Samonà,L’urbanistica e l’avvenire delle città europee, apre anch’es-so, con maggior riflessività, il tema della scala extraur-bana: gli esempi della Greater London e dei grandsensembles francesi sono assunti a pretesto di una lettu-ra della forma fisica dell’ambiente che allude a profon-di ridimensionamenti disciplinari. Due elementi emer-gono da tale complesso di fermenti: da un lato, l’accen-

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to si sposta sul visibile; dall’altro, ciò che è messo in crisiè l’urbanistica come «modello», con un inconsapevolerecupero di tematiche «regionaliste». Crisi del modello,comunque, senza referenti istituzionali: la critica alla«città come forma» o alla poetica del quartiere lascialibera la valenza politica che in qualche modo era con-tenuta (o compressa) in quegli strumenti operativi. Ope-razione duplice, dunque, quella che si compie allo sca-dere degli anni cinquanta. Azzerando, almeno teorica-mente, l’usurata relazione piano-istituzioni, si fa emer-gere il problema di nuovi soggetti e nuove tecniche pernuove istituzioni; riconvogliando immediatamente iltema emerso nell’alveo rassicurante della «volontà diforma», si impedisce al problema stesso di esplodere.

Le istanze avanzate nel corso della tavola rotonda diLecce hanno piuttosto modo di esprimersi in occasionedi un ulteriore concorso, destinato, come i molti altri chesegnano le tappe della nostra storia, a divenire una pie-tra miliare per il dibattito culturale, risolvendosi in unnulla di fatto dal punto di vista realizzativo. Nello stes-so 1959, infatti, gli urbanisti italiani giungono puntua-li all’appuntamento fissato loro dal concorso per unquartiere Cep alle Barene di San Giuliano (Mestre), inuna zona prospicente la Venezia lagunare117.

È il progetto del gruppo diretto da Quaroni a solle-vare un dibattito di ampie ripercussioni. In effetti, quelprogetto segna una tappa decisiva per la cultura archi-tettonica internazionale: in esso, Quaroni concentra irisultati positivi desunti dal suo incessante criticismo,l’intuizione di inediti metodi progettuali in sintonia conun design a grande scala, una spregiudicata lettura dellamorfologia storica lagunare, l’attenzione per una comu-nicazione visiva destinata a un pubblico di massa epolistratificato. L’aleatorietà informe dello zoning e larigidità formale della definizione architettonica vengo-no respinti a favore di un town design precisato nella

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trama delle relazioni fra le sue principali componenti elasciato indeterminato per quanto riguarda la formadelle singole parti. Ma è proprio un’estetica dell’inde-terminato che qui Quaroni ricerca. I grandi edifici semi-circolari, che si concatenano specchiandosi nella lagunae formando un’enorme cerniera da cui si diparte un tes-suto urbano che esplode a raggera verso l’entroterra,alludono alla lezione urbana del tessuto storico vene-ziano: un’allusione non perseguita tramite rimandivisuali, bensí percepibile a livello strutturale. La poli-stratificazione della città, l’intersecarsi delle sue imma-gini polisense, l’eclettismo che l’informa sono accolti daQuaroni in un’organizzazione di segni a grande scalainformati a un vitalismo che influenza anche gli stru-menti della progettazione: la scoperta dell’immensa ric-chezza comunicativa dell’aleatorio si traduce in un«piano-processo», in un’«opera aperta» a livello urba-no. Le molte invenzioni tipologiche che Quaroni abboz-za per la configurazione dei tessuti da lui connotatiinformalmente non sono vincolanti; le configurazioniarchitettoniche vengono liberate dal disegno urbano: adesse viene restituita una piena autonomia all’interno diuno schema fissato come puro sistema relazionale.

Non sono solo l’ideologia del quartiere e la microso-ciologia che l’accompagnava ad essere definitivamentesepolte dal progetto di Quaroni per il Cep di San Giu-liano. L’intera fase sperimentale attraversata dai com-plessi del secondo settennio Ina-Casa trova in esso unasoluzione e un punto di svolta. Una nuova disciplina sifa qui strada, alla cui origine è certo la riflessione qua-roniana sulle metropoli statunitensi, ma anche una cri-tica – ben piú profonda di quella poi espressa da Alexan-der – ad ogni ipotesi di sviluppo urbano per «addizioniconformi»: il manifesto che si fa leggibile in questo pro-getto non a caso diverrà fondamentale per ricerchetutt’oggi in corso.

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Eppure, lo stesso Quaroni trova difficile dar imme-diatamente seguito alla difficile svolta impostata. Neglistudi e nella soluzione finale del piano di lottizzazionedi Lido di Classe a Ravenna (con D’Olivo, AntoninoManzone e Antonio Quistelli), la ricerca iniziata nel’59 prosegue con risultati originali; ma nel ’62 il pro-getto del gruppo Quaroni per il centro direzionale diTorino ricade nell’equivoca identificazione della pro-gettazione urbana con un’architettura dilatata.

Per piú versi, comunque, il progetto quaroniano peril Cep di San Giuliano apre al nuovo clima degli annisessanta. Esso appare infatti in un momento in cui si vaprofilando una nuova realtà agli occhi degli intellettualiitaliani: la rapidità della crescita economica e le profon-de trasformazioni nella società e nei comportamenti,indotte dalla convulsa urbanizzazione e dal diffondersidelle comunicazioni di massa, provocano la formazionedi modelli interpretativi che ben presto spiazzano quel-li del decennio precedente. Ai miti neorealisti si sosti-tuiscono ora quelli tecnologici, magari letti attraversouna riconsiderazione del lascito delle avanguardie stori-che: non si tratterà quindi della tecnica celebrata trion-falmente da Pier Luigi Nervi nel Palazzo e nel Palaz-zetto dello Sport a Roma, o nel Palazzo del Lavoro aTorino, né di una semplice assunzione dei nuovi riti del-l’affluent society. Si tratta, piuttosto, di nuove ricerchepremute, da un lato, da una realtà che sembra travolge-re in una corsa sfrenata ogni modello stabilizzato, dal-l’altro, da una crisi di strumenti che si riflette nelleinquietudini da cui hanno origine i ripensamenti diLibertini e Panzieri, di Franco Fortini, di Elio Vittori-ni, del «marxismo eterodosso».

Un diffuso clima antiideologico si diffonde a partiredai fermenti che provengono da tale coacervo di rifles-sioni, mentre dalle tesi di Colombo sulla necessità –anche e principalmente per le aree industrializzate del

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Nord – di investimenti produttivi nelle regioni sotto-sviluppate, e di Saraceno sull’impiego del capitale pub-blico per un sistema economico autopropulsivo e ten-dente al pieno impiego, dalla tendenza dell’imprendito-ria piú avanzata a puntare su una crescita della doman-da globale, dalle ipotesi sul controllo del mercato daparte dello Stato tramite la pianificazione degli investi-menti (nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, 1962), esce unquadro favorevole all’istituzionalizzazione di una poli-tica di piano.

L’Inu, presentando nel 196o il proprio progetto diCodice dell’urbanistica compie, in tal senso, un’azioneconclusiva e contemporaneamente di apertura: finiti itempi delle contrapposizioni astratte, sembra ora ilmomento di aprire un colloquio più articolato con i par-titi, e il quadro perfetto del Codice costituirà, per fram-menti, l’occasione per alcuni dei piú significativi scon-tri politici. Ma è un’intera concezione dell’urbanisticaa rinnovarsi agli inizi degli anni sessanta.

Piú tecniche debbono ora investire il territorio: nonsi tratta piú dell’invecchiato mito dell’interdisciplinarità,riflesso a sua volta della «repubblica dell’intelletto» oli-vettiana. La fondazione di organismi di ricerca come l’I-stituto lombardo di scienze economiche e sociali (Eses),in cui sono attivi un urbanista come De Carlo e un eco-nomista come Sylos-Labini, sposta i termini del collo-quio fra le tecniche, rendendo molto più articolato, fral’altro, il rapporto fra analisi e interventi. Nel ’62, il con-vegno organizzato dall’Ilses a Stresa fa il punto sulleesperienze internazionali e individua come precipua latematica della città-regione118. È la fine del «modello»,della forma globale da imporre alla dinamica urbana, cheviene decretata al Convegno di Stresa. De Carlo, nelchiudere i lavori del Convegno, parla della città-regio-ne come di un insieme di relazioni dinamiche istituiteall’interno di una galassia territoriale di insediamenti

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specializzati, resi omogenei da quello stesso arco di inter-relazioni. Ed è chiaro che l’intervento su un insieme incontinua mutazione non può pretendere di pervenire auna «forma», a meno di non far compiere un salto con-cettuale a quest’ultima: l’attacco che De Carlo e Qua-roni avevano sferrato nel 1954 contro la tradizione urba-nistica italiana si rovescia in positiva ipotesi metodolo-gica. Lo stesso piano di Roma appare, alla luce dellenuove considerazioni, sin troppo preoccupato a impor-re un impossibile controllo sulla forma complessiva dellacittà. Gli studi per il piano intercomunale di Milano, chevedono attivo, fra gli altri, lo stesso De Carlo, si appel-lano ancora a uno scheletro formale – un disegno «a tur-bina», le cui estremità fungono da teste di ponte terri-toriali per un organismo policentrico – ma solo comesupporto per successivi interventi, non tutti «disegna-bili»119.

Immediatamente, la «grande scala» entra a far partedel bagaglio mitologico della cultura architettonica ita-liana. Chi pensa di dover aderire all’invito di Vittoriniad appropriarsi della nuova realtà creata dall’universoindustriale si avvicina all’automazione e alla ciberneti-ca, o ai modelli dell’economia spaziale, subendo il fasci-no dell’incontrollabile e proiettando in immagini futu-ribili le proprie dissimulate emozioni. Rispetto al popu-lismo e al sociologismo degli anni cinquanta, i riferi-menti e i modi di approccio risultano mutati, ma non gliatteggiamenti intellettuali. Avviene, cosí, che le apertureprovocate dalle analisi dell’Ilses e dai risultati del Con-vegno di Stresa si compongono con le suggestioni cheprovengono dai progetti di Kenzo Tange per la baia diBoston e per Tokyo (196o), pubblicati con grande rilie-vo: «Casabella» vive una nuova stagione, con un susse-guirsi di numeri monografici dedicati alla realtà ameri-cana, ai centri direzionali, alla «città-territorio», al pianointercomunale milanese, ai grandi concorsi nazionali e

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internazionali. Gli studi del Lynch sulla struttura deiluoghi urbani e sulla loro riconoscibilità si fondono conimmagini che provengono da una cultura che elegge latecnica a feticcio: importante è sacrificare al nuovototem, non conoscere la realtà in esso sublimata. Lafebbre per la «grande dimensione» cerca ancora luoghiove deporre forme. Disperando di poter investire livel-li generali, quei luoghi vengono individuati fra i ganglidell’organismo territoriale, letto come struttura in muta-mento incessante: di quel campo magnetico si spera dipoter definire almeno lo scheletro portante, l’ossaturainfrastrutturale e i suoi cervelli. I centri direzionaliappaiono come nuclei dirompenti e di coagulo delleforze interagenti nel territorio: i progetti elaborati daglistudenti della facoltà di architettura di Roma nel1961-62, nel tentativo di definire la struttura direzio-nale della capitale120 e quelli di architetti come Aymoni-no, Canella, Quaroni, Samonà, Aldo Rossi per il con-corso per il centro direzionale di Torino (1962) canta-no le loro apologie al terziario, relazionandosi, come«macchine» cariche di promesse, a una dimensioneregionale. La sintesi fra architettura e urbanistica, pre-conizzata nel ’59 alla tavola rotonda di Lecce, sembraora trovare il proprio campo di applicazione. Le mega-strutture che popolano le riviste di architettura – subi-to criticate da Ceccarelli come espressioni di un’«urba-nistica opulenta»121 – o che, come nel caso del progettodi Aymonino e P. L. Giordani per il centro direzionaledi Bologna, rimangono fra le velleità delle amministra-zioni comunali italiane, vanno però valutate in quantosintomi122. Si tenta di progettare ciò che fuoriesce da pos-sibilità previsionali, si tenta di entrare, con lo strumen-to del disegno, nella cittadella in cui si suppone troneg-giare il Potere, si cerca di sottoporre quel luogo sacralea una forma, in un inconscio esorcismo compensatorio.Se il realismo aveva tentato di unificare la lingua del

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«popolo» e quella dei colti, ora quegli stessi colti cerca-no di dare una lingua ai nuclei anonimamente pensantiin cui essi – per semplicità – radunano i centri del do-minio.

Il fenomeno si verifica in Italia con caratteri parti-colari, ma è diffuso a livello internazionale123. Esso riflet-te, fra l’altro, un profondo disagio nei confronti deilimiti propri dell’architettura e il trauma per il profilarsidel planning come disciplina del tutto autonoma. Men-tre prende piede la nuova «internazionale dell’utopia»,quel disagio si manifesta anche in dimensioni piú tradi-zionali, con gesti di insofferenza accolti come rispostearchitettoniche alle provocazioni dell’Action Painting:il caso piú clamoroso è quello della chiesa micheluccia-na all’imbocco dell’autostrada Firenze-Bologna (proget-to 1961-62, inaugurazione 1964)124.

Con la Chiesa dell’Autostrada, Michelucci dà vita aun singolare tentativo di forzare la logica architettoni-ca, esponendo una vera e propria battaglia fra la mate-ria, dotata di forze prorompenti, e la struttura, piegataalle piú paradossali deformazioni. Non dai sofferti labi-rinti autobiografici riposti nelle pieghe della cappella diRonchamp, proviene tale insofferente coacervo di spazie di oggetti informali, bensí da una sorta di contesta-zione permanente, vissuta da Michelucci nei confrontidell’imperativo formale. Ancora un luogo che chiamaalla partecipazione, che fa appello all’esperienza vissutae che disdegna la geometria in quanto costrizione. Per-sino a contatto con la pista della velocità – o proprio per-ché a contatto con essa – l’architettura cerca di negarela possibilità di un «comporre». Scomposta, la Chiesadell’Autostrada sembra voler costituire un monito perl’automobilista disattento: non lo obbliga a fermarsi percontemplare, bensí gli presenta un ammasso di materia-li violentati per mostrare l’innaturalità del «falso moder-no». Il neoespressionismo michelucciano si fa strada

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sperimentando una intera gamma di variazioni su temiinformali: un linguaggio fatto di lacerazioni, di mem-brane, di scavi fiabeschi o onirici, di avvolgenze e di per-corsi intrecciati, di materia e di coaguli strutturali èparlato da Michelucci, con sempre maggior coerenza,nella chiesa di Borgomaggiore a San Marino (1961-66),nella chiesa di Longarone (1966-78), forse il capolavo-ro della sua ultima fase, in quella di San Giovanni Bat-tista ad Arzignano presso Vicenza (1965-67), mentre inuna serie di progetti – per le chiese e i centri parrocchialidi Montalbano Jonico e di Sesto Fiorentino, per unmemorial michelangiolesco nelle Alpi Apuane, per uncomplesso termale presso Massa Carrara, per la siste-mazione della limonaia di Villa Strozzi a Firenze125 – ladinamica del segno e l’inviluppo delle forme raggiungo-no un horror vacui di sapore piranesiano.

È nei primi anni del ’6o, comunque, che le nuovericerche di Michelucci informano largamente la «manie-ra» della scuola fiorentina126. Nel quartiere di Sorganepresso Firenze (1963-66), che solleva una vasta polemicain merito alla sua localizzazione, Leonardo Ricci e Leo-nardo Savioli traducono, per vie indipendenti, il «furor»michelucciano in brutalismo strutturale: il lungo bloccoresidenziale di Ricci scardina con impazienza i nessi sin-tattici alla ricerca di un rinnovamento tipologico, men-tre Savioli, nella casa in via Piagentina a Firenze (1964),progettata con Danilo Santi, gioca su escrescenze mate-riche, su enfatizzazioni oggettuali, su paradossi formali.Il tutto viene portato all’eccesso da Ricci nel progetto peril Villaggio degli ulivi a Riesi, in Sicilia (1963): qui ino-spitali caverne si aprono come fossili di animali preisto-rici, a mimare un «assoluto naturale» memore delle orga-niche amebe di Finsterlin, ma anche degli habitacles diAndré Bloc o dell’approdo gestuale di Fredrick Kiesler.

Dietro tanta ansia di pienezza semantica sono stimoliculturali diretti: la rimeditazione sulla stagione espres-

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sionista, anzitutto, ma anche la volontà di comunicareun’incertezza e insieme il fastidio che si prova nei con-fronti di quest’ultima, l’angoscia, infine, per una «per-dita» compensata con i sempre piú insistenti tentativi diapplicare all’analisi architettonica i risultati della ricer-ca semiologica. Non è un caso che da tale clima esca, nel1964, la mostra su «Michelangiolo architetto» (Roma,Palazzo delle Esposizioni), in cui Zevi e Portoghesifanno del Buonarroti un furente iconoclasta che, al disopra dei secoli, porge la mano sia a Pollock che a FrankLloyd Wright127. Con la mostra michelangiolesca, la «cri-tica normativa» tocca forse il suo punto piú basso: la rin-venzione di Michelangelo – sia che si tratti del Miche-langelo delle fortificazioni fiorentine, che di un impro-babile «Michelangelo urbanista» – è funzionale infattia un’ipotesi di retroguardia; la stessa che Zevi batteràriproponendo la figura di Erich Mendelsohn, pochi annipiú tardi. Ad intellettuali delusi e frustrati viene infat-ti proposta una poetica fatta di eroiche sublimazioni: e,quel che piú conta, una poetica che spinge a vestire gliabiti del dolente furore come se fosse in gioco una que-stione di prêt-à-porter. Il neoespressionismo italiano –interpretato in forme professionalmente smaliziate daMarcello D’Olivo nella Villa Spezzotti a Lignano Pine-ta (1958) o nella città di vacanze a Manacore del Gar-gano (1964), oltre che da Guido Canella, per il quale ènecessaria una diversa disamina – appare piú che altrocome un cosmetico labilmente sovrapposto a un voltodisciplinare raggrinzito e consunto. E come ogni cosme-tico, anche questo serve a non prender coscienza del per-ché di quel decadimento, serve ad illudersi di vivere unaperenne giovinezza, invece di chiedersi quali siano iruoli adeguati alle nuove condizioni che si profilano. Glientusiasmi della critica per la chiesa michelucciana del-l’Autostrada si saldano cosí alle proposte che celebranocome attuale l’estetica dell’«ambiguo traditore».

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L’etica che emerge dai modelli che tale tipo di sto-riografia propone è, significativamente, quella del per-dente, di chi ha bisogno di essere sconfitto per cantareil proprio eroismo. E v’era da rimanere perlomeno per-plessi quando poi quella critica riteneva suo dovere indi-care, nella produzione contemporanea, come esempi dilinguaggio «anticlassico» e di anticonformismo, le piat-te esercitazioni tecnologiche dell’Habitat di Moshe Saf-die a Montreal e le eleganti e rarefatte disarticolazionidell’edificio in via Campania a Roma, dello studio Pas-sarelli (1963-65)128.

Il disorientamento della critica riflette però l’incertoriassestamento dei ruoli di fronte a una piú precisatadomanda politica e a una massificazione ancora confu-sa dei bisogni. Le vecchie ostilità nei confronti dellescienze sociali, da parte comunista, sono svanite; mainsieme risultano miseramente consumati i miti del-l’impegno generico e quelli legati ad astratti umanesimi.Nel vuoto creatosi, i partiti di massa chiedono supportitecnici. In mancanza di progetti di riorganizzazionecomplessiva del lavoro intellettuale, questi ultimi ven-gono offerti sulla base di strumenti in disuso. Tipico, alproposito, il compromesso che nel dicembre del ’62 per-mette al comune di Roma di adottare un piano regola-tore redatto da una commissione già composta con l’oc-chio fisso alla politica di centrosinistra129. Il sovradi-mensionamento del piano, l’incertezza fra le direttrici diespansione, lo zoning – generico per i settori esistenti odi completamento, basato su inadeguati modelli nuclea-ri per quelli di nuovo impianto – si sommano a una strut-tura direzionale ereditata dallo schema del Cet: una tec-nica incerta viene a soccorso di una politica urbanasostanzialmente statica. L’unico spunto innovativo nonera nel disegno, ma nelle norme che lo accompagnava-no, là dove era prevista la formazione di un «osserva-torio urbanistico», memore dell’Outlook tower ged-

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desiana, atto a seguire la dinamica dello sviluppo terri-toriale e urbano. Non a caso, quella indicazione rimarràlettera morta.

A confermare che il piano del ’62 è solo un inope-rante disegno, una disseminazione di attrezzature, ser-vizi e insediamenti rende sempre meno significativa l’i-potesi del sistema direzionale orientale, compromesso,inoltre, dalla progressiva saturazione dei suoli. È l’Eur,anzitutto, che pesa, a sud, come Business District dalvolto efficiente e luogo residenziale dei ceti medio-alti:l’internazionalismo da parata dei grattacieli dell’Eni edel Ministero delle Finanze – quest’ultimo di C. Ligini,G. Marinucci e R. Venturi (1958-62) – nella zona pro-spicente il lago, insieme al Palazzo dello Sport di Nervie Piacentini, configura la «porta» urbana da sud, men-tre i palazzi per uffici di Luigi Moretti e Vittorio BallioMorpurgo (1963), nella loro sofisticata astrazione, fun-gono da propilei sul lato opposto dell’asse mediano. Lasicurezza e l’ottimismo dell’Italia che si «modernizza»in pieno miracolo economico trapelano dal nuovo Eur,l’unico reale polo direzionale della capitale: un polo cheparla – e non poi tanto sotto metafora – degli elementidi continuità che legano le espressioni ufficiali del ven-tennio fascista a quelle del regime democristiano130. Èancora Moretti, nel ’62, a confermare, con il suo quar-tiere Incis presso l’Eur, la direzionalità dell’insedia-mento polifunzionale che la gestione del commissariostraordinario Virgilio Testa riesce a innestare sulle spo-glie degli edifici realizzati per l’E 42131. In tono minore,si tratta di modelli linguistici e tipologici affini a quellidel quartiere Olimpico: ma sia l’intervento dell’Incis,che i lunghi blocchi iperrazionalisti di Pietro Barucci peril nucleo direzionale di piazzale del Caravaggio (1968)sostengono un’edilizia speculativa che nessun program-ma pubblico si incarica di coordinare, fra la CristoforoColombo e il dorato suburb di Casal Palocco.

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Non solo l’Eur e l’asse da esso segnato vengono con-solidati in palese contrasto con le direttive del pianoregolatore. Fra il ’59 e il ’69 vengono realizzate a piaz-zale Clodio, su progetto del gruppo Perugini-Montedu-ro, le nuove Preture, la cui pur notevole castigatezza lin-guistica, in gran parte dovuta alla matita di Vittorio DeFeo, non riesce a riscattare l’infelice localizzazione,mentre la realizzazione del progetto Vitellozzi per la Bi-blioteca Nazionale al Castro Pretorio (1959-67), il palaz-zo per gli uffici Rai-Tv a viale Mazzini di Berarducci eFioroni (1963-65), gli sporadici interventi nella zona dipiazza Fiume – via Veneto – dalla Rinascente albinianaal puristico prisma per uffici di Montuori e Calini in viaPo – punteggiano la fascia contigua al centro storico,rendendo almeno problematica una riconversione di ten-denza132.

Il sistema orientale, cardine del dibattito che avevacondotto al compromesso del ’62, rimane cosí oggettodi sperimentazioni accademiche, seguite da una singo-lare iniziativa, che vede architetti del calibro di Qua-roni, Zevi, Fiorentino, i Passarelli, Morandi, con la con-sulenza di Gabriele Scimemi, associati nello studio Asse,costituitosi per la progettazione dell’intero sistema dire-zionale (1967-70)133. Si tratta, evidentemente, di un’im-presa che intende raccogliere l’intero schieramento dellacultura architettonica romana con fini promozionali:all’immobilismo delle istituzioni, la cultura risponde coni propri strumenti, offrendo gratuitamente alla città ilproprio progetto, nella speranza di rimuovere, con unadeguato battage pubblicitario, le remore che bloccanoil rinnovamento dell’organizzazione urbana. Quantoesce da tale ultimo appello alla libertà concessa alla sepa-ratezza del laboratorio sperimentale è una «macchinainutile» che cerca di svincolarsi dalla propria condizio-ne reificata tramite appelli a codici geometrici che giac-ciono muti. L’orrido che scaturisce da una condizione

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di astinenza porta all’eccesso il gioco perverso che erastato impostato in aule universitarie ansiose di nuovapurezza. L’animale mostruoso rimane lí come testimo-nianza di una nevrosi collettiva, di un’impotenza privadi pathos, dell’anacronismo di operazioni ancora parte-cipi di atmosfere terzaforziste.

Pur di non farsi «tecnici» si compete con la tecnica,obbligandola a uno sposalizio sterile con universimetaforici privi di spessore. Eppure, da soli, i Passarel-li avevano dimostrato di saper compitare correttamen-te e con sicura professionalità molteplici lingue, Riccar-do Morandi rimaneva il piú valido e inventivo struttu-ralista italiano. Quaroni proseguiva la sua tormentataricerca indulgendo a modulazioni kahniane nel centrogovernativo alla Kasbah di Tunisi (1966-67), elaboran-do sistemi di controllo per il disegno urbano ricchi di sol-lecitazioni, come nel piano regolatore di Bari (1965-73)e negli studi per il lungomare della stessa città, tornan-do a una sofferta riflessione sugli strumenti della confi-gurazione con il progetto per la chiesa di Gibellina(1970), in cui lo scontro fra purezza e impurità perse-gue una dialettica che rassomiglia a una confessione per-sonale. Solo Fiorentino riuscirà a trarre, dall’esperienzadello studio Asse, un risultato: ma bisognerà attenderel’occasione del complesso al Corviale.

Non era piú tempo per forzate koiné, né per riaffer-mare primati improbabili per un lavoro intellettualetroppo incerto sulle proprie finalità per potersi fare alfie-re di messaggi progressivi. Le speranze sollevate dalprimo centro-sinistra, d’altronde, erano indirizzate a unrinnovamento degli strumenti legislativi su cui si appun-tano sforzi e attenzioni. È in tale periodo che matura laformazione di ruoli direttamente implicati nella gestio-ne dei vari settori dell’edilizia e dello sviluppo urbano,con riferimenti precisi alle strategie dei partiti politici,e di quello socialista in particolare. Non si tratta sola-

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mente di miti tecnocratici. L’esigenza piú sentita è dicreare rinnovate impalcature tecnico-istituzionali ade-guate a un’efficiente strategia di riforme; solo in segui-to, anche sulla base delle nuove delusioni sofferte, la cul-tura architettonica si porrà il problema di un ripensa-mento teorico. Ma sin dalla prima metà degli anni ses-santa, tecnici come Michele Achilli, Baldo De Rossi,Giuseppe Campos-Venuti, Marcello Vittorini, EdoardoSalzano, Federico Gorio cercano collocazioni all’inter-no degli enti gestiti piú o meno direttamente dai parti-ti di sinistra, scavalcando i ruoli tradizionali legati allefigure dell’architetto o dell’urbanista. Tutt’altro chetrasparenti i compiti da essi svolti in organismi come laGescal, l’Ises, le amministrazioni comunali o addiritturain Parlamento. Comunque, il loro impegno è antiteticorispetto a quello di chi attende catarsi dalla manipola-zione delle forme e dalla concitata elaborazione dimodelli. Anche per loro l’illusione proviene da una let-tura del reale ancora ideologicamente distorta. Diffici-le però ignorarne, al di là dei risultati e di ogni morali-stica considerazione, l’apporto concreto, non foss’altroche nella demolizione di discipline consunte o nelladelimitazione del loro possibile uso.

Tale è il clima che vede la cultura architettonicaaffrontare il tema posto dalla nuova legge per l’acquisi-zione pubblica dei suoli per l’edilizia economica e popo-lare, la «167» del 1962. Rispetto all’esproprio genera-lizzato caldeggiato dalla sinistra socialista e dal partitocomunista, la nuova legge è indubbiamente compromis-soria, e non sostituisce certo i progetti di legge che laDemocrazia cristiana riuscirà ad accantonare scon-fessando il proprio ministro, Fiorentino Sullo, fattosiinterprete dei voti dell’Inu e delle istanze di riforma.Anzi, congelando porzioni di aree urbane, piuttosto cheda calmiere nel mercato dei suoli la «167» agirà nelsenso opposto: ma in un comune come Roma essa appa-

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re un buon punto di appoggio per sferrare una battagliaper riforme a piccola scala.

In prima linea vengono posti il coordinamento deglienti operanti nel settore dell’edilizia economica e popo-lare e l’integrazione del loro intervento con quello deiprivati tramite l’inquadramento nei piani regolatori – iprogrammi «167» sono infatti intesi come piani parti-colareggiati – mentre la Gescal, formatasi nel ’63, sosti-tuisce l’Ina-Casa inserendosi nei programmi suddettisulla base di un piano decennale, e l’Ises sostituiscel’Unrra-Casas rivolgendosi all’edilizia sociale con finalitàtuttavia indeterminate134. Tutt’altro che facile si riveleràl’uso di tali nuovi istituti. Gli interventi rimangonoinferiori al fabbisogno, il centro studi della Gescal, sucui si appuntano molte speranze di rinnovamento tipo-logico e produttivo, si rivela una sacca di contenimentoper tecnici e non sopravvive a un biennio; il controllodello sviluppo urbano sfugge ai disegni dell’operatorepubblico. Ciò non toglie che nella progettazione deiquartieri «167» si concentri la rinnovata volontà diforma a scala urbana preannunciata a livello teorico esperimentale alla fine degli anni cinquanta. Nel proget-to per il quartiere a Tor de’ Cenci, Aymonino e MariaLuisa Anversa rivolgono un deferente omaggio al Cepquaroniano di San Giuliano, racchiudendo lo spazio indue semicerchi planimetrici affacciati; nei progetti peril quartiere al Casilino (1964-65), il gruppo guidato daQuaroni sperimenta dapprima una morfologia fatta disegni elastici, per poi attestarsi su forme che sembranoispirarsi alle ricerche visive della «op art» e giungereinfine a una soluzione «a ventaglio», come metaforicaesplosione di un nucleo nascosto; nel quartiere di Spi-naceto, realizzato fra il ’64 e il ’7o dal gruppo PieroMoroni - Nico di Cagno, domina invece una contami-nazione tipologica scambiata per ricchezza, una grafiacontrabbandata come forma, un variare non necessario.

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Solo con i quartieri del Corviale e di Vigne Nuove135 aRoma e Gallaratese a Milano, la «167» sarà interpreta-ta con risultati degni di nota: ma allora le illusioni sul-l’efficacia del nuovo strumento legislativo si sarannodel tutto volatilizzate.

Al confronto con la realtà, il dibattito sollevato dallascoperta della «nuova dimensione» e dall’individuazio-ne del town design come autonomo strumento di confi-gurazione è destinato a ripiegare su se stesso, entrandoben presto in crisi. Man mano, inoltre, che le illusionisul primo centro-sinistra vengono a cadere, anche inuovi rimedi tecnico-politici si rivelano affetti da sin-drome demiurgica. Come è stato scritto, in quegli anni«l’architetto che vuole sfuggire al cliché dell’artista cadein un nuovo e definitivo ruolo pagliaccesco [...] il suolivre de chevet diventa l’ultimo numero del “Journal ofthe A.I.P.”, diserta le mostre d’arte e il bollettino del-l’Istat lo appassiona piú di Gadda o Montale»136. Forseingeneroso un cosí reciso giudizio su un gruppo intel-lettuale che, in qualche modo, tentava di spostare su ter-reni poco esplorati il dibattito sulla progettazione. Da«intellettuali organici» essi tentavano di passare a «tec-nici organici»; ma la teoria era ancora un’astrazioneindeterminata e il campo di battaglia conteso dalle forzepolitiche cosparso di mine. Ve n’era abbastanza per darluogo a uno smembramento degli stessi termini deldibattito, che si riflette anche nell’opera dei piú impe-gnati progettisti. I «maestri», anzitutto: queste «museinquietanti» che avevano incatenato intere generazioniai loro dubbi e ai loro incessanti ripensamenti perdonopian piano il loro ruolo di punti centrali di riferimento137.Sia Gardella che Albini appaiono proteggersi dietroscritture empiriche dall’assalto di problemi consideratiscetticamente: l’eleganza rarefatta della metropolitanamilanese (1962-63), della Villa Corini a Parma(1967-70), delle Terme Luigi Zoja a Salsomaggiore (pro-

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getto 1963, realizzazione 1969-1970), o del palazzodegli uffici Snam a San Donato Milanese (1970-72),ben poco aggiunge alla poetica albiniana, così come irisultati raggiunti da Gardella nel complesso turistico diPunta Ala (1962-65) o piú tardi nella chiesa di Sant’En-rico a Metanopoli (1963-66) parlano di uno spaesamentoche verrà smentito solo dalle opere più recenti138. Dalcanto loro, i Bpr non oltrepassano la soglia di un afonoprofessionismo nel quartiere Iacp di Gratosoglio a Mila-no (1963 sgg.), e anche in opere «di esportazione»,come la sede Olivetti di Barcellona (1965), dànno evi-denti segni di stanchezza. Le tematiche che li avevanoportati al centro del dibattito internazionale risultanopalesemente esaurite: l’edificio da essi realizzato in piaz-za Meda a Milano, nel suo tentativo di colloquiareallusivamente e caricandosi di ambiguità con il tambu-ro cilindrico della cupola pellegriniana del San Fedele econ le opere adiacenti di Figini e Pollini e di Caccia-Dominioni, vive come specchio deformante del sistemaimmobiliare milanese139.

Né la ricerca di una linea di coerenza, come quellaperseguita da Ridolfi nelle sue opere ternane degli annisessanta – case Staderini (196o), Briganti (1962), Pal-lotta (1961-63), Franconi (196o), o il complesso po-lifunzionale fratelli Fontana (196o-64) – oltrepassa limi-ti scontati: il «ben fare» ridolfiano, specie nelle opera-zioni di ricucitura del tessuto urbano della città di Terni,eletta a luogo di mediazione fra i mondi diversi checonvivono nella poetica di questo sempre più appartatoartigiano della forma, perde ogni tonalità barocca, perricaricarsi di improvviso «furor» espressivo in un pro-getto singolare, che in qualche modo segna per Ridolfil’addio definitivo alla battaglia culturale; quello per unmotel Agip in località Settebagni a Roma, nei pressi del-l’Autostrada del Sole (1968)140. Come ripercorrendo ipropri inizi, la torre disarticolata e sottomessa a violen-

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ta torsione del motel Agip cita esplicitamente – igno-randone le valenze novecentiste – la «torre dei risto-ranti» progettata da Ridolfi nel ’28: a contatto con irisultati di un «miracolo economico» fittizio, l’architettoviolenta le proprie forme, le rappresenta come squassateda un vento impetuoso, rappresenta se stesso nelmomento in cui domina una geometria difficile, rea-gendo, stupefatto, a un universo superindividuale da cuiè attratto e respinto al contempo. Non è forse un casoche la torre ridolfiana per l’Agip, con la sua planimetriadi base a forma di stella a dieci punte, ricordi uno deigrattacieli che appaiono in Metropolis di Fritz Lang.

Anche per Ridolfi il cerchio si chiude. Il «realismo»,qui, lascia parlare la «passione per la notte» che si eraannidata nelle sue pieghe; la stessa che conduce lo stes-so Ridolfi a concentrarsi con sospetta frenesia nei pro-getti per la Casa Lina alle Marmore (1966), per la CasaDe Bonis (1971-75) a Terni, o per l’ampliamento di unacasa d’abitazione a Norcia (1976-77), testimonianzeestreme di un volontario esilio141. Infatti, nella concita-zione iperartigianale di quei progetti, a piante stellari,poligonali ed ovali si uniscono citazioni ed allusioni checon «l’onestà professionale» non hanno nulla a che fare:tanto, da far pensare che qui Ridolfi si sia impegnato aconsumare materiali compositivi e a macerare tecnologie,in continuità con uno dei filoni della sua poetica espres-so sin dalle torri di viale Etiopia e palese nella Scuolamedia di Terni. L’immagine del crollo imminente, cri-stallizzata nella torre dell’Agip, si rivela cosí decisa-mente allegorica.

Tuttavia, né la coerenza ridolfiana, né quella di CarloScarpa – un altro esiliato, ma con diverse finalità –costituiscono «lezioni» per le nuove generazioni neglianni sessanta. A loro modo, «maestri» rimangono per laloro didattica socratica e spesso piú per il non-detto cheper il detto, Samonà e Quaroni; ma il loro insegnamen-

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to fatto di ermetici suggerimenti si chiude sempre piúnell’ambito delle loro aule universitarie, alimentandospinte sempre meno controllate e ben presto rese alea-torie dai processi di trasformazione disciplinare e isti-tuzionale. È però significativo che il loro contributo piúproduttivo non provenga, nel corso degli anni sessanta,dai loro progetti, quanto da intenzioni che da questi ulti-mi solo raramente traspaiono: il design a grande scalache caratterizza le ricerche degli allievi di Quaroni vivela sua stagione come esperimento da coniugare alle piúdisparate sollecitazioni linguistiche, per ricavarne effet-ti boomerang da sottoporre a piú attenti vagli. Ugual-mente, la «maniera grande» dispiegata da Samonà nellasede della Sges-Enel a Palermo (1961-63) o nelle ammic-canti aggettivazioni del progetto di concorso per la sededell’Istituto nazionale di previdenza e credito dellecomunicazioni nella stessa città (1963), persegue uncomporre che ben poco ha a che fare con le sperimen-tazioni da lui stesso condotte in occasione dei concorsiper il centro direzionale di Torino, per il Tronchetto diVenezia, per la «metropoli dello stretto»142.

Fatto sta, che l’ansia di porsi alla testa di trasforma-zioni strutturali nell’ambito della società e del territo-rio si scinde da declinazioni critiche di lingue sicure,compiute magari per riframmentarle ed esaurirne le pos-sibilità, come nella cooperativa in via Palmanova a Mila-no, di Gregotti, Meneghetti e Stoppino (1962-67), nelleconcitate articolazioni della casa in via Conservatorio aMilano di Magistretti (1966), nelle geometrie scompo-ste in giochi affabulatori di Nino Dardi143, nella sapien-te reinterpretazione del lessico brutalista dei Collegiuniversitari di Urbino di Giancarlo De Carlo (1963-66),nell’espressionismo addolcito di Carlo Aymonino (edi-ficio pluriuso a Savona, 1963-66, progetto di concorsoper il Teatro Paganini a Parma, 1964), o in quello, benpiú angry, di Canella, Achilli, Brigidini e Lazzari, come

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si esprime nel centro civico di Segrate (1965). Ma si trat-ta di opere che lasciano insoddisfatti i loro stessi auto-ri: le intenzioni prevalgono di continuo sulle capacità ole possibilità di dar loro sostanza.

Per valutare correttamente la sperimentazione archi-tettonica della metà degli anni sessanta è necessariorifarsi al convulso dibattito aperto dalle neoavanguardieletterarie, musicali e pittoriche – con il sostegno di edi-tori come Feltrinelli e di riviste come «Il Verri», «Quin-dici», «Marcatré», ecc. – che a loro modo rispondonoalle esortazioni lanciate da Vittorini dalle pagine del«Menabò». In ballo, è la funzionalità del linguaggio, lasua capacità ad emettere informazioni attraverso lo stru-mento dello scarto, della trasgressione, della «distorsio-ne semantica». Il rinnovato interesse per la semiologiae per la linguistica ha infatti al suo fondo un’interpre-tazione del materiale formale come plesso disponibile direlazioni: la teoria dell’informazione, divulgata daUmberto Eco, offre per suo conto un sostegno alla poe-tica dell’aleatorio, dell’«opera aperta», del magma lascia-to in perenne attesa di completamenti operati dai frui-tori. Per un’arte che ha smarrito significati e che persignificanti aggrovigliati non è in grado di proporre orga-nizzazioni privilegiate, la vague neoavanguardista appa-rirà un approdo in certo modo rassicurante. La polemi-ca nei confronti dell’opera, inoltre, rimette in gioco unarelazione del tutto fossilizzata tra ideologia e scrittura;ne emerge, dominante, il tema della lingua depurata dascorie sovrastrutturali: anche se non facile appare lascelta fra i due versanti degli «apocalittici» e degli «inte-grati».

Con un risultato fondamentale: parlando di musica,di letteratura o di arti figurative, si stava riconoscendouno dei caratteri precipui del progetto moderno, quellodi costituirsi come dominio-previsione del caso, cometecnica che si apre al divenire, come insieme di strate-

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gie che cattura l’imprevisto. Nel ripensamento sulleavanguardie non v’era nostalgia per l’irrazionale, mariconoscimento delle nuove forme in cui si dà il proget-to (politico e quindi tecnico, anzitutto). Non v’è tracciaperò di una qualche coscienza di ciò nel dibattito archi-tettonico di quegli anni. I numeri della rivista «Ediliziamoderna» diretti da Gregotti esplorano l’area della poli-semia in un ampio ventaglio di forme, mentre un pro-getto come quello di Maurizio Sacripanti per il nuovoteatro di Cagliari (1965) partecipa sia della poetica del-l’aleatorio che di quella dell’evento programmato144.D’altronde, le ricerche di Aymonino e Canella nonerano già pienamente immerse in un’atmosfera polisen-sa, ambigua, contraddittoria? Senza gli ammiccamentidi Bob Venturi, gli architetti italiani avevano assorbitola lezione dei Seven Types of Ambiguity. Anche questaera una forma di realismo: polisensa è la realtà non piúsintetizzabile esperita in un territorio letto come conti-nuo flusso di sovrapposte informazioni. Assorbire quel-l’inquietante contraddittorietà in oggetti che contestinoil loro carattere finito significa tentare un controllo suquanto un’interpretazione riduttiva della razionalitàsembrava essersi lasciato sfuggire. Alla Triennale del’64, dedicata al «tempo libero», tutto ciò ha modo diesprimersi superando i confini segnati dal tema. Specienel «caleidoscopio» introduttivo, organizzato da Gre-gotti, Meneghetti, Stoppino, Peppo Brivio e UmbertoEco, in una serie di percorsi dominati dall’Omaggio aJoyce di Luciano Berio, da film di Tinto Brass riflessi seivolte da specchi, da una banda sonora composta da Bale-strini e da immagini di Achille Perilli, le tecniche dicomunicazione travalicano l’una nell’altra: ma anche nelsettore italiano, curato da un gruppo coordinato da GaeAulenti e Aymonino, viene usata senza parsimonia latecnica del collage, dello shock a effetti multipli, dellohappening145.

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Lo spaesamento artificiale che domina gli antri magi-ci della XIII Triennale proietta nelle sfere dell’immagi-nario – magari con l’aiuto della Corsa al mare di Picas-so ingigantita e replicata – alcuni dei problemi cardinedell’Italia del «miracolo». Ma ora l’indagine sulle capa-cità informative delle tecniche di comunicazione nonverbale batte una strada che si divarica sempre piú daquella della conoscenza analitica, anche se su «Ca-sabella» i temi che si susseguono sono quelli delle costeitaliane, delle infrastrutture terziarie, del verde attrez-zato a scala urbana. Quella medesima Triennale, tutta-via, era introdotta da un enigmatico ponte in ferro asezione triangolare e spezzato in due tronconi slittati fraloro: in tal modo Aldo Rossi collega ieraticamente l’e-dificio di Muzio al parco. Contro gli sprechi linguisticiche si consumano all’interno della mostra, il ponte diRossi parla solo dei confini della visione. La contrappo-sizione è significativa, e a suo modo profetica rispettoagli sviluppi delle ricerche che si stavano consolidando:né il suo senso sfugge a Polesello, che, commentando ilponte di Rossi, fa riferimento al «mistico» di Witt-genstein146.

L’intravista possibilità di superare la poetica dell’og-getto per dar vita a un’architettura fatta di sole relazio-ni ha un ulteriore sbocco: nel 1965-1966 prima al XConvegno Inu di Trieste, poi in un numero monograficodi «Edilizia moderna» dedicato alla geografia del terri-torio, si pone il problema di un intervento sul paesag-gio capace di colloquiare con i suoi segni divenuti par-lanti147.

La trasformazione della natura in cultura, qui auspi-cata, non ha nulla a che fare con l’utopismo che avevavissuto la sua stagione felice fra il ’62 e il ’64, né è cari-ca di messaggi ideologici. Anche questo è un segno deimutamenti vissuti dagli intellettuali: le analisi sulla sto-ria del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni e le

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indagini di Lévi-Strauss sulla forma conseguente a par-ticolari strutture antropologiche sostengono ricerchesulla leggibilità del territorio e degli insediamenti cheintendono superare lo psicologismo naïf di Kevin Lynch.Da esse usciranno sia i progetti di Luciano Semerani eGigetta Tamaro per Trieste (1969 sgg.), che i progettia grande scala di Gregotti e Purini148.

L’effetto provocato da tale accavallarsi di tematichee di suggestioni, con sempre piú frequenti scambi conricerche provenienti da aree esterne a quelle dell’archi-tettura, allarga all’infinito il ventaglio delle ipotesi: seda un lato il «bla-bla-bla» denunciato da De Carlo alConvegno Inu del ’65 era una pesante realtà non certosuperata a tutt’oggi, l’elevamento della qualità com-plessiva della current architecture sostiene le esperienzedi punta, mentre l’indagine storiografica inizia a porsiin modo nuovo il problema del proprio rapporto con l’at-tività dei progettisti.

Ancora una volta, sono i risultati di un concorso apermettere un bilancio del nuovo clima culturale e unaverifica della vischiosità delle istituzioni. Nel 1967, ilconcorso per i nuovi uffici della Camera dei Deputati aRoma, sfociato in un risultato nullo, offre un’ulterioreoccasione sbagliata di confronto per l’architettura ita-liana, colta dai migliori «per parlare d’altro»149.

La localizzazione dei nuovi uffici in pieno centro sto-rico e accanto al corpo realizzato da Ernesto Basile,infatti, è indice di una sostanziale incapacità da partedell’operatore pubblico di programmare in modo sem-plicemente «conveniente» i servizi di base della comu-nità. Solo Italo Insolera rifiuta il tema dato e presentauna proposta di interventi e destinazioni d’uso estesa aun vasto settore del tridente: un’ulteriore supplenzavolontaristica, tuttavia. Le carenze del bando di con-corso non provocano invece «scandalo» a Quaroni, aSamonà, ad Aymonino, a Portoghesi, a Sacripanti, deci-

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si a sfruttare l’occasione con un atteggiamento «al di làdel bene e del male»: il loro problema è come saggiare ilimiti della rinnovata fiducia nello strumento specificodella forma. Certo, tutto ciò avviene avant le déluge: ed’altra parte, per presentarsi come atti di fede nellacatarticità della scrittura architettonica, quei progettiappaiono troppo scossi da incontrollati incubi. Fatto è,che il disincanto con cui l’intelligencija italiana affron-ta tale concorso è indice di una neutralità ideologicaormai generalizzata, conseguente al nuovo clima cui siè sopra accennato, e di cui l’impegno disciplinare coprea malapena le radici.

Ciò non toglie – anzi permette – ad architetti comeQuaroni e Samonà di offrire saggi fra i piú elevati dellaloro produzione. Perfettamente a suo agio nel cuore del-l’odiata-amata Roma, Quaroni non esita ad informare ilproprio progetto a un faticoso e variato accumularsi diepisodi e frammenti, alla ricerca di una lingua monu-mentale, capace di commentare un contraddittorio rap-porto con il genius loci. Un telaio geometrico formato daquattro assi agganciati al contesto urbano penetra lachiusa massa dell’edificio, che si staglia tuttavia comesolenne e polivalente cerniera, sintesi neobarocca diistanze razionalizzatrici e informali affabulazioni.Rispetto ai grovigli geometrici quaroniani, simboli scon-trosi di una figuratività onnivora, il progetto di Giu-seppe e Alberto Samonà appare piú riflesso e mediato.Se gli antecedenti quaroniani sono in Poelzig e nei grat-tacieli miesiani del ’19 e del ’21, quelli di Samonà sonoin Le Corbusier, citato esplicitamente nella main ouver-te che si staglia alla sommità del progetto: in particola-re il Musée de la Ville et de l’Etat, del 1935, sembraessere stato oggetto di meditazione per i progettisti. Mala trama aerea dei sostegni in ferro che sostengono volu-mi slittati a varie quote, l’inversione paradossale dellefunzioni fra pesi e sostegni, il gioco delle trasparenze,

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caricano di ironia appena trattenuta la proposta di Sa-monà: un’ironia che sembra memore sia di atmosfere«alla Klee», che delle rarefatte artificiosità della pittu-ra pompeiana del «terzo stile». L’elaborato di Samonàaveva un precedente, il progetto per la nuova sede com-partimentale dell’Anas di Palermo; ma la nuova disin-voltura della sua scrittura architettonica prelude alle sueprove piú impegnative degli anni settanta, e in partico-lare ai progetti per la Banca d’Italia a Padova e per il tea-tro di Sciacca.

Piú scontate le prove di Aymonino, di Nino Dardi odi Luigi Pellegrin: «ludi geometrici», declinati con varieinflessioni, i loro progetti – come del resto, quello diPortoghesi – costituiscono solo tappe di avvicinamentoa «maniere» in via di consolidamento. D’altronde, nellaridda delle ipotesi linguistiche che traspaiono dai moltiprogetti presentati al concorso, risulta evidente l’assi-milazione delle lezioni di Louis Kahn, di Giurgola, diPaul Rudolph: non foss’altro, la cultura architettonicaitaliana appare ora informata e scaltrita sul piano for-male. Con due estremi: i progetti di Maurizio Sacripantie del gruppo romano Grau. Sacripanti aveva già speri-mentato, come si è visto, un linguaggio architettonicoampiamente partecipe della poetica dell’aleatorio con ilprogetto per il teatro di Cagliari, oltre che con il pro-getto vincente al concorso per il grattacielo Peugeot150.Il motto con cui egli si presenta al concorso per gli uffi-ci della Camera è «omaggio a Mafai»; ma per esso sareb-be stato piú appropriato il motto «omaggio a Rau-schenberg», con il sottotitolo: «e un fiore per Sant’E-lia». Infatti, il progetto di Sacripanti si presenta comeun’orgia di spazi esplosi, di oggetti ammassati e violen-tati, di vuoti allucinati: l’architettura è ridotta a rap-presentazione di uno sfasciume che ha del morboso, diuna nausea provocata da oggetti osceni puntualmenteesibiti. Su quello sfacelo si innesta l’esaltazione del mito

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macchinista: Sant’Elia si ricongiunge a Rauschenberg.Sacripanti proseguirà la sua ritrattistica dell’angosciacontemporanea nel progetto per il padiglione di Osaka,mentre piega a struttura fruibile il polo macchinistadella sua poetica nel progetto per il nuovo Museo Civi-co di Padova: le sue junk sculptures battono una stradache si ammorbidirà appena nei progetti piú recenti151.Puntualmente, alla «rabbia» di Sacripanti risponde l’a-pollinea astrazione del gruppo Grau. Seguendo una poe-tica già precedentemente sperimentata – pensiamo alprogetto di concorso per il nuovo Palazzo dello Sport diFirenze – il Grau rende iperbolica la ricerca di una logi-ca formale chiusa nel suo sforzo di autoverifica. Sinto-matica di una generazione che con sdegno rifiuta ideo-logismi sovrapposti alla specificità dell’architettura, laricerca del Grau esibisce in modo provocatorio un atteg-giamento le cui radici sono nella «verifica dei poteri»preconizzata nei primi anni sessanta da Fortini, anchese, nel caso particolare, le sue neoumanistiche astrazio-ni salutano come fonte teorica l’estetica dellavolpiana.La forma si ritira nel suo mondo e non colloquia conl’«altro». Il Grau non reggerà a lungo tale posizione –si veda il suo progetto di concorso per l’Archivio diStato di Firenze (1972), inquinato da velleità sim-boliche152 –; ma nel ’67, le ermetiche tavole in cui mani-pola le sue geometrie hanno il merito di evidenziare unatendenza al recupero di un’autonomia assoluta dell’og-getto, che serpeggia nel clima italiano: pensiamo, adesempio, ai progetti del gruppo Manieri - De Feo e diGian Ugo Polesello, presentati al medesimo concorso.Lo spaccato sulla consistenza della cultura architettoni-ca italiana alle soglie del ’68, permessa dall’analisi deglielaborati del concorso romano, ci riconduce a un diffu-so stato di ansia, non coperto certo dalle ricerche piúapparentemente sicure di se stesse. Una fase di «attesa»,dunque, per un’architettura che vaga alla ricerca di

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nuovi ruoli dopo aver constatato l’usura di miti vecchie recenti: né convince nessuno la disinvolta soddisfa-zione con cui l’autorispecchiamento viene ostentato153.

5. Nuove crisi e nuove strategie (1968-1975).

Alle soglie del ’68, peraltro, le incertezze del lavorointellettuale si scontrano con pesanti dati emergentidalla realtà, relativi alla struttura stessa della professio-ne. Un’inchiesta condotta presso la facoltà di archi-tettura del Politecnico di Milano, relativa agli anni1963-69, rivela che solo il 36 per cento dei laureati inarchitettura svolge realmente la professione: il 57,5 percento di loro risulta impiegato in lavoro salariato e il 6,5per cento risulta disoccupato o impiegato in lavori estra-nei. Si aggiunga a ciò che, nei primi anni settanta, circail 6o per cento dei laureati in architettura sopravvive conl’insegnamento nelle scuole primarie e secondarie, inun quadro generale che registra, per il 1968, un totaledi disoccupazione giovanile pari a seicentomila personecirca, pari al 1o per cento sul totale della forza-lavoro.La situazione è ben lungi da «livelli frizionali»: essaappare piuttosto patologica.

E non basta. Un calcolo approssimativo dei metricubi realizzati in Italia da architetti dava, nel ’74, unacifra oscillante fra il 2 e il 3 per cento sul totale: e nonsarà inutile far osservare che la storia che stiamo trac-ciando si fonda su una selezione all’interno di tale per-centuale minima di opere in qualche modo qualificate.Inoltre, la genericità del titolo di architetto, specie dopogli eventi degli anni sessanta, appare un anacronismocaro solo a inguaribili nostalgici: né l’apertura di corsidi laurea di urbanistica – nel 197o a Venezia, su inizia-tiva di Astengo, nel ’75 a Reggio Calabria – risponde aun’articolazione fondata su analisi della situazione con-

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creta della disciplina. Anzi, mentre quest’ultima sismembra e si aprono nuovi settori di intervento, l’ipo-tesi del town planning celebrata da quei corsi di laureafossilizza un’area disciplinare da coinvolgere piuttosto inuna impietosa discussione critica, mentre gli sbocchiprofessionali ad essa connessi rimangono compromessidalla mancanza di un riconoscimento professionale deltitolo di studio. Se si valuta che nel frattempo la per-centuale dell’edilizia pubblica, rispetto a quella privata,passa dal 25 per cento del 1951 al 6 per cento del ’68 –per toccare punte minime del 2 per cento dal ’73 in poi– si è in grado di completare un abbozzo della struttu-ra del settore, da porre a confronto sia con le contorsioniformali degli architetti «che progettano per non pen-sare», sia con l’esplosione contestativa del ’68. Esplo-sione che, per quanto riguarda le facoltà di architetturao le istituzioni culturali all’architettura connesse, noncomporta che modifiche di superficie, ripensamenti fret-tolosi, atteggiamenti demagogici che si risolvono indébâcles collettive. Gli effetti delle contestazioni diret-te contro l’Inu o la Triennale di Milano o il blocco delleattività didattiche rivelano solo la fragilità di quegli isti-tuti e delle loro funzioni. Il tentativo di far parteciparelo «studente-militante» alle lotte che si svolgono nei can-tieri edili e nelle borgate porterà da un lato alla forma-zione dei comitati di quartiere, ma dall’altro darà luogoa un’accademizzazione dell’analisi del «disagio urbano»,in un’accezione in definitiva misera dell’intervento poli-tico e in un distorto tentativo di estrarsi soggettiva-mente dall’area degli «sfruttatori».

Le analisi piú spregiudicate del «marxismo degli annisessanta», le nuove ondate di lotta del movimento ope-raio, le inedite forme assunte da quelle stesse lotte per-corrono tracciati che con il verbalismo demagogico impe-rante nelle facoltà di architettura hanno ben poco a chefare. Eppure, sulla scia del ’68 e dei suoi slogan piú con-

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sumabili prendono piede movimenti già delineatisi neglianni precedenti, pronti ad occupare gli spazi lasciativuoti dalla cultura oggetto di piú immediata conte-stazione. Di nuovo, si fa appello all’avanguardia, e que-sta volta per il suo potere dissacrante. Il gruppo fioren-tino Archizoom, nato da un corso tenuto da Savioli eSanti sullo «Spazio di coinvolgimento» in cui – grazieanche agli interventi di Ugo La Pietra e Ettore Sottsass– si tenta un uso propositivo delle acquisizioni dellapop art, punta su un’arte come terapia psicofisica-libe-ratoria, priva di codici, rivolta a un’utenza chiamata apartecipare a un’orgia nullificante e catartica.

Le tesi dell’«architettura radicale» sono cosí defini-te154. Da un lato, esse ereditano le velleità eversive vivesin dai primi anni sessanta nell’ambiente fiorentino; dal-l’altro, esse si fregiano di intenti antistituzionali, appel-landosi al ceppo «negativo» delle avanguardie storiche.

Non piú lo sperimentalismo del Gruppo ’63, bensíteatri per azioni psichedeliche, in cui si spera di trasci-nare un mitico proletariato. La No Stop City del gruppoArchizoom o il Monumento continuo (1969) del Super-studio fanno del progetto una registrazione di materia-le onirico trascritto con un’ironia «che non fa ridere»:nelle vignette che illustrano la No Stop City, strutturaurbana continua priva di architetture, i neoprimitiviche nell’assoluta nudità dell’ambiente usufruiscono dimacchine microclimatizzanti sembrano messi lí ad espli-citare un mostruoso connubio fra un anarchismo popu-lista e istanze liberatorie attinte dal Maggio francese.

Per questa via non era difficile avviarsi a un luddi-smo intellettuale tanto piú irresponsabile quanto piúverbalmente dedotto dalla frettolosa lettura delle rivistedella «nuova sinistra», dai «Quaderni rossi», a «Classeoperaia», a «Contropiano»: ma se Strum e 9999 rifiu-teranno del tutto il progetto, i gruppi Archizoom eSuperstudio, o Ettore Sottsass riversano nel design la

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loro carica ironica: i loro prodotti riescono a conquista-re il mercato rimasto precluso ai piú lambiccati oggettineoliberty; le loro dissacrazioni, a giustificare le qualiviene addirittura evocata la figura di Duchamp, vengo-no alla fine riconosciute internazionalmente dalla mostraorganizzata da Emilio Ambasz al Museum of ModernArt di New York (1972), «Italy. The new DomesticLandscape». Per qualche anno, la bandiera dell’antide-sign, dietro cui si fa strada un’astuta operazione di mer-cato, conquista anche la testata di «Casabella» – nel ’64,la direzione era stata tolta a Rogers dall’editore, cheinconsapevolmente segnava cosí la conclusione di unciclo culturale – mentre critici come Menna o Restanyprofetizzano «civiltà estetiche» e «arti totali». All’e-stremo opposto, si collocano tendenze che con questehanno in comune l’atteggiamento iniziale di sfida allasocietà dei consumi. L’interesse con cui, sin dai primianni sessanta, è seguita in Italia l’opera di Louis Kahnsi compone con una lettura tendenziosa dell’estetica diGalvano Dalla Volpe. Se l’aleatorio è la forma estremadi un universo che sacrifica se stesso alle merci cosícome esse governano, il recupero del concetto di«opera», della sua «organicità semantica», della totalitàdi esperienza che essa presuppone sembra costituire l’u-nico contributo specifico offerto alla conoscenza dal-l’attività di progettazione. In Kahn, inoltre, si crede divedere un recupero del tempo storico libero da roman-ticismi: le allusioni kahniane al tardo antico o a Pirane-si appaiono scelte di «antecedenti logici», frutti di«astrazioni determinate». In realtà, ciò che permette diguardare a Kahn subito dopo aver chiuso la Critica delgusto è l’istanza di «ordine» che traspare sia dalla suaopera di architetto che da quella di teorico. Trascurabi-le sembra l’afflato mistico che si accompagna a quell’i-stanza; la pienezza del segno e dell’organizzazione for-male che proviene dalle opere kahniane fa di queste ulti-

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me dei teoremi estrapolabili dal contesto che tuttavia necondiziona l’esistenza. Accolto con diffidenza prima,con deciso atteggiamento di ripulsa poi da Zevi, che siattesta in una linea di difesa dei codici «anticlassici», l’o-pera di Kahn diviene immediatamente familiare nellefacoltà di architettura. Fra il ’63 e il ’65 si ripete il feno-meno che negli anni cinquanta aveva attirato l’attenzio-ne sui «giovani delle colonne» milanesi: studenti di voca-zione marxista elaborano progetti stigmatizzati come«accademici» da accademici ravveduti, esprimendo cosíla loro inappagabile esigenza di chiarezza.

Il rigorismo della composizione come «recupero dellatonalità» era già stato di Muratori, negli stessi anniveniva perseguito dalle prime opere di respiro di AldoRossi e Giorgio Grassi e si colora di diverse intonazioninelle opere e nei progetti del gruppo Grau, dallo studioStass, di Vittorio De Feo. E se le esasperazioni geome-triche del Grau rimangono nella sfera del puro pro-gramma, opere come l’unità residenziale alla Serpentaraa Roma e il progetto per il centro direzionale di Gros-seto dello Stass, o l’Istituto tecnico per geometri a Terni(1968), di De Feo e Errico Ascione, fanno dell’autove-rifica motivo di orgoglio. De Feo, in particolare, dimo-stra che è possibile assumere contemporaneamente lelezioni di Ridolfi, di Kahn e di Venturi, nel suo Istitu-to ternano, e che Complexity and Contradiction in Archi-tecture possono essere assunte senza cadere nei traboc-chetti in cui rimarranno impigliati i fautori recenti del«Post-Modern». Ne usciranno la composizione serratadel progetto per insediamento turistico ad Abbadia SanSalvatore (1970), l’immagine pop della stazione tipodella Esso (1971), il laconico omaggio a De Chirico (maanche a Malevi™) del progetto di concorso per il Palaz-zo Municipale di Legnago (1974)155.

In tali opere – ma anche nelle prime esperienze pro-gettuali di Franco Purini e Laura Thermes, stimolate sia

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dallo sperimentalismo di Sacripanti che dal dubbio siste-matico di Quaroni – l’architettura tenta di riconoscersi.Bruciate tutte le ideologie cui aveva sino ad allora fattoappello, ad essa rimane l’esercizio autoriflessivo. Dal-l’abbraccio populista al ripiegamento nell’autobiogra-fia, all’esplosione utopica, al «segno in quanto tale»: unpercorso a scatti marca le tappe di una ricerca somi-gliante ai frustrati sforzi compiuti dall’agrimensore perraggiungere l’ineffabile Castello.

Non a questi intellettuali, comunque, era possibilerivolgersi, alla fine degli anni sessanta, per tentare di dareuna sostanza tecnica di respiro alla strategia socialistadelle riforme logorata dal compromesso quotidiano, dal-l’abilità dell’avversario, dalla crescente divaricazione fral’incerta marcia all’interno delle istituzioni e i movimentidella «nuova» classe operaia. Dietro le serene autocon-templazioni formali del Grau, dello Stass, di De Feo, maanche di Quaroni e Samonà, è lecito scorgere l’acco-glimento dell’invito a farsi «candidi come serpenti». Nonessi, bensì Giorgio Ruffolo, Marcello Vittorini, Giovan-ni Astengo, Baldo De Rossi sembrano ora i tecnici ingrado di dare veste politica a un programma di ampiez-za nazionale, la cui urgenza è sottolineata dal paradossaledegrado idro-geologico e delle risorse storico-ambienta-li. Nel luglio del 1966, sotto il peso di migliaia di vaniabusivamente costruiti di fronte alla Valle dei Templi,crolla un’intera porzione della città di Agrigento; nelnovembre dello stesso anno le acque dell’Arno sommer-gono Firenze, distruggendo un incalcolabile patrimonioartistico e documentario, mentre i Bastioni della Sere-nissima si rivelano insufficienti a salvaguardare la Vene-zia lagunare e l’opinione pubblica è scossa dal disastro delVajont. La risposta tecnico-politica proveniente dall’areasocialista prende il nome di Progetto 8o.

Chi nel ’70, tuttavia, all’apparire del Progetto 8o,prodotto da un gruppo di lavoro presso il ministero del

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bilancio, pensò di trovarsi di fronte a una piena esplici-tazione di un «piano del capitale», dimostrò solo diconfondere un astratto exploit con una strategia reale.Le analisi e le proposte del Progetto 8o sono in sostanzafrutto di un’esercitazione che, dietro l’ambizione e lavelleità dei programmi, nasconde una situazione di stal-lo e un ottimismo tecnologico intrinseco alla neutralitàpolitica del progetto. Nessuna modifica di fondo delsistema produttivo nazionale è in esso prevista, né l’os-satura istituzionale e la gestione delle leve economicheerano state modificate per permettere operanti modifi-che strutturali. Non rimaneva che proteggersi dietrocortine fumogene: attraverso la parola d’ordine delle«vocazioni territoriali» viene aggiornata quella facentecapo al mito dell’equilibrio. Ancora una volta, a un siste-ma che si fonda su squilibri vengono proposte «corre-zioni» impraticabili. Il che non significa che la «pro-gettualità deserta» di quel documento (Asor Rosa) siadel tutto inutile. Essa serve, perlomeno, a polarizzare undibattito e a tenere occupati intellettuali, in un momen-to politicamente incerto. Comunque, gli strumenti cheil Progetto 8o finalizza al controllo del territorio e al rias-setto produttivo si estendono a livello nazionale: il «rie-quilibrio» è perseguito attraverso la riorganizzazione disistemi metropolitani, di un sistema infrastrutturalenazionale e di un sistema, anch’esso nazionale, per iltempo libero156.

L’«invenzione» urbanistica fondamentale chedovrebbe permettere di raggiungere gli obiettivi èappunto quella dei «sistemi metropolitani». Il Progetto8o assume su di sé l’intera mitologia della città-regione,distinguendo in sistemi di riequilibrio, sistemi basatisulle grandi conurbazioni esistenti, sistemi alternativi: le«ceneri di Geddes» possono cosí essere utilizzate per unultimo infuso offerto a un malato di cui si dispera la gua-rigione.

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Lo sforzo della cultura socialista concentrato nell’e-laborazione del Progetto 8o non può neppure essere tac-ciato di tecnocrazia. Più ideologico che tecnico, questodocumento rimane, fra le aspirazioni frustrate della pro-grammazione italiana, a testimoniare i limiti soggettividegli intellettuali che avevano sentito come nuovo dove-re ricollocare le proprie competenze in un quadro di con-creto intervento politico. Esso, caso mai, testimonial’assenza di una tecnica effettuale, di un diverso rap-porto fra tecniche rinnovate e strategie di massa.

I nuovi modi di lotta del movimento operaio orga-nizzato, cosí come si esprimono nelle grandi controver-sie sindacali del ’68-69, giungono invece per altra via aporre il problema della casa e dell’assetto territoriale. Il19 novembre 1969 gli operai italiani seguono l’invito deisindacati e dichiarano uno sciopero generale di venti-quattr’ore i cui obiettivi rivendicativi insistono diretta-mente sull’organizzazione della città e del territorio: lafabbrica si proietta sul sociale, la variabile salarialeannette a sé aree prima impensate. Si tratta di una svol-ta fondamentale del movimento di classe: i partiti sonocostretti a prendere in considerazione in modo nuovo lapolitica edilizia. Sono le istituzioni base che ora vengo-no attaccate; né gli antichi strumenti, né astratte razio-nalizzazioni possono essere invocati per offrire adegua-te risposte. Anzi, la pressione di un soggetto sociale cheusa armi prima utilizzate per raggiungere obiettivi set-toriali spiazza le fossilizzazioni disciplinari: mentre ilParlamento si impegna in un’estenuante discussione checondurrà alla nuova legge per la casa del ’71, le lotte pro-seguono, dando origine a organizzazioni mobili e legge-re, come le unioni inquilini o i comitati di quartiere.L’effetto immediato di queste ultime è un calo di ten-sione sugli obiettivi generali e la settorializzazione degliobiettivi stessi; ma ormai è dimostrato che il nesso fracultura e movimenti di massa non può essere piú assi-

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curato dalle «grandi sintesi» o dal ricorso a modelli disimulazione. Si apre, per gli intellettuali, un nuovo capi-tolo nella loro ricerca d’identità al cospetto del sociale:una ricerca destinata ad ampliarsi dopo i risultati delleelezioni del ’75 e del ’76, che pongono ai partiti dellaclasse operaia il problema della gestione di città o regio-ni su cui pesano disastrosi precedenti e un assetto legi-slativo difficilmente utilizzabile.

La risposta alle lotte operaie del ’68-69 passa intan-to attraverso l’istituzione delle regioni, agli inizi del1970, e l’approvazione della nuova legge sull’ediliziadel 22 ottobre 1971: quest’ultima ha come scopo il frenodella speculazione fondiaria, l’attribuzione al poterepubblico di compiti relativi all’assetto urbano e territo-riale estesi a ventaglio – edilizia popolare, installazioniproduttive, attrezzature turistiche, ecc. – la democra-tizzazione e il decentramento degli organismi di gestio-ne, il coordinamento delle iniziative. Naturalmente, taleriforma amministrativa deve fare i conti con la tradi-zionale struttura accentrata dello Stato: la regione appa-re, nel disegno che emerge dal complesso dei provvedi-menti suddetti, come interlocutoria rispetto alla base emediatrice rispetto ai luoghi decisionali che detengonoil monopolio dei servizi pubblici, ma anche come possi-bile luogo arbitrale – quando non un cuscinetto – deiconflitti sociali157. D’altra parte, la fine del boom spe-culativo è solo sancita dalla legge del ’71: ormai, formearcaiche di accumulazione, come la rendita fondiariaurbana, sono riconosciute anche dai ceti capitalistici piúattenti come motivi di freno allo sviluppo, per non par-lare degli sprechi indotti dal mercato liberistico dei suoli,con effetti gravanti anche sui settori trainanti. Fatto sta,che ora la grande industria non ha solo bisogno di strut-ture amministrative in grado di canalizzare i conflittifuori dei luoghi di lavoro – le regioni si istituiscono, nona caso, rispettando il dato costituzionale solo quando l’e-

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sigenza di tale canalizzazione emerge con forza – maanche di una ristrutturazione del settore edilizio che per-metta di superare definitivamente la sua utilizzazione inchiave esclusivamente «congiunturale». Una ristruttu-razione, per giunta, che deve agire assicurando la con-tinuità del processo produttivo, toccando quindi sia ilmercato dei materiali che la formazione della domanda.È significativo però che la legge n. 865 – approvata dalParlamento dopo un lungo iter che sbocca in un com-promesso che ne riduce la portata o ne rende difficilel’applicazione – non si preoccupi di modificare i mec-canismi finanziari e creditizi che presiedono al settore158.Contraddittorio è quindi il segno della nuova legge. Daun lato, essa tende a far ragione della concezione previ-denziale e mutualistica seguita in Italia dall’Ina-Casa edalla Gescal. D’altro lato, essa risponde all’esigenza didar corso a una nuova concezione degli impieghi socia-li del reddito, vale a dire a una politica di investimentisociali pianificata.

Ciò non contrasta la linea delle grandi forze impren-ditoriali. Queste ultime, organizzate nell’ambito del-l’Ance e della Confindustria – le «imprese edili inte-grate» – nel corso del dibattito parlamentare operanogiocando la carta della crisi e del ricatto occupazionale;ma solo perché il loro disegno tende a riversare sullalegge l’esigenza di un salto di scala: il nuovo metro pro-duttivo ha dimensioni territoriali, infatti, e il problemadi quelle forze è come utilizzare i nuovi poteri regiona-li. Le leve gestite dal capitale finanziario – rimaste intoc-cate – costituiscono a tal fine una valida garanzia.

Una nuova armatura istituzionale e una nuova stra-tegia capitalistica si profilano cosí, agli inizi degli annisettanta, a servizio di una politica di razionalizzazioneche ha perso le motivazioni etiche e illuministe deidecenni precedenti, per abbracciare una logica produt-tiva a grande dimensione. Di nuovo, l’ideologia sembra

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essere scavalcata dalla realtà e con tempi dettati dalleesigenze incrociate della risposta politica e della dina-mica dello sviluppo.

Non è certo un caso che, ancora agli inizi degli annisettanta, sia alcune grandi industrie private, come la Fiate la Montedison, che industrie a partecipazione statale– Iri, Eni – si impegnino nel settore delle costruzioni.L’era che aveva visto l’edilizia ancella dei settori trai-nanti sembra definitivamente chiusa. Il problema ora difronte alle industrie nazionalizzate è l’introduzione diuna situazione di monopolio nella produzione dei servi-zi sociali – alloggi, scuole, ospedali, ecc. – intervenen-do sul mercato dei suoli, sulla fornitura dei materiali,sull’organizzazione della domanda e dell’offerta. È unintero ciclo l’oggetto della pianificazione. La formulache sembra in grado di tradurre quell’ipotesi di saltoproduttivo in dimensioni territoriali era stata introdot-ta dal presidente del Consiglio Colombo accettandoalcune indicazioni del Progetto 8o: i «nuovi sistemi urba-ni», da realizzare attraverso interventi pubblici e impre-se controllate dallo Stato, riassumono l’intero arco dellenuove istanze. I documenti della Fiat e della Isvet con-cordano nel proporre «sistemi» in cui il tema residen-ziale si connetta indissolubilmente alla riorganizzazionedelle strutture commerciali e dei servizi urbani: le eco-nomie di scala, i salti tecnologici resisi indispensabili, lagestione dei nuovi poli di sviluppo all’interno delle regio-ni economiche, la gestione delle infrastrutture socialiformano un tutt’uno, e in tale quadro persino il collo-quio tra iniziativa capitalistica e istituzioni democrati-che è programmato. Le regioni si vedono confidare ruolipromozionali, dove è da leggere il sottile intento diridurle a organismi di gestione del consenso. L’ingressotrionfale del grande capitale nell’area del sociale ha biso-gno di un uso anticonflittuale delle istituzioni demo-cratiche.

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Il progetto piú clamoroso conseguente a tale strate-gia è quello per la cosiddetta «città Nolana» (1969): unintervento promosso dalla Sicir, società finanziata dallaFiat e dall’Iri, per una nuova struttura integrata pressoNapoli e inizialmente dimensionata sull’unico grandecomplesso industriale esistente, l’Alfa-Sud159. Le zoneresidenziali per cinquantamila abitanti, con possibilità diampliamento fino a duecentomila, si agganciano a unasse autostradale che lega il nuovo complesso a Napoli,alla regione e a una nuova struttura di servizi a raggioterritoriale, comprendente, fra l’altro, un ospedale percinquemila posti letto e una università per diecimila stu-denti. L’immagine è quella ormai di prammatica assun-ta dalle megastrutture urbanistiche: in un territorio cro-nicamente sottosviluppato e congestionato, la propostatende a creare un asse ipertecnologico, superiore, comequalità e quantità di servizi, alle piú recenti New Towninglesi. Non sostanzialmente diversa è la concezioneche guida il progetto di intervento nella regione di Otta-na, in Sardegna, ad opera dell’Eni e della Sir: ancora unavolta, capitale pubblico e capitale privato risultano asso-ciati in un’ipotesi di ristrutturazione regionale a sup-porto di una catena di nuovi insediamenti chimici.

La politica dell’intervento nel Meridione tramite«cattedrali nel deserto» è però finita solo teoricamente.Il progetto di Ottana segue ancora la logica di una forteconcentrazione di capitali per impianti destinati a unaforza-lavoro limitata, mentre al nulla di fatto per quan-to riguarda la «città Nolana» risponde lo scandalo delnuovo impianto siderurgico di Gioia Tauro: un’ulterio-re risposta politica alla jacquerie esplosa con i moti sot-toproletari di Reggio Calabria, abilmente manovrati dal-le destre, che costringe lo Stato a spendere centinaia dimilioni per una impresa destinata al fallimento.

Fatto sta, comunque, che agli inizi degli anni settan-ta l’emergere del problema territoriale e urbano come

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terreno di intervento capitalistico comporta la creazio-ne, da parte delle grandi imprese, di nuove strutturefinanziarie e operative: la Fiat crea la Fiat Engineeringe la Siteco, per la progettazione e la realizzazione dicomplessi industriali, commerciali, residenziali, turisti-ci; l’Eni opera tramite la Tecneco e Issvet; la Monte-dison crea la Montedil; la Sir lancia un sistema di indu-strializzazione edilizia in materiali plastici; l’Iri crea l’I-talstat, società finanziaria che nel ’71 assorbe la Societàcondotte d’acqua, la maggiore impresa edilizia italianache realizza opere come il tunnel del Monte Bianco, ilviadotto del Polcevera a Genova, su progetto di Ric-cardo Morandi, il parcheggio sotterraneo di Villa Bor-ghese a Roma, il Palazzo dello Sport di Milano. Nel frat-tempo, appaiono organismi di ricerca a capitale misto,come la Tecnocasa, con capitali dell’Italstat, dell’Eni,della Montedison e della Fiat, mentre nel 1973 la regio-ne toscana stipula un contratto con la Svei, società a par-tecipazione paritaria dell’Italstat, dell’Eni e della Mon-tedison, per la costruzione di venticinquemila alloggi acarattere popolare160. A fronte di tale rilancio dell’ini-ziativa capitalistica, che rende di colpo anacronistico ilbagaglio propositivo dell’intelligencija anni sessantautilizzandone in proprio i margini, è il tentativo delmovimento cooperativo – ma in particolare della Leganazionale, in cui confluiscono le cooperative «rosse» –di legare la propria produzione di alloggi e le proprie ri-vendicazioni alla politica sindacale. Difficile colloquio,questo, fra un organismo produttivo e un organismorivendicativo: cui sono da aggiungere le difficoltà inter-ne alle stesse cooperative, il cui principale obiettivo – lapriorità data alla proprietà indivisa – viene ostacolato inogni modo dalle condizioni creditizie, che puntano, alcontrario, sul tradizionale obiettivo politico della casa diproprietà individuale161. Inoltre, solo in regioni comel’Emilia, la Lombardia e la Liguria operano forti impre-

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se aderenti alle cooperative di produzione e lavoro; perle altre regioni, è necessario ricorrere a imprese private.Ma anche nelle regioni «rosse» le contraddizioni nonmancano. Soggette a un mercato competitivo, le im-prese cooperative di produzione e lavoro sono costrettead attestarsi su prezzi spesso inaccessibili alle coopera-tive di abitazione, cosí che i prodotti politicamente indi-rizzati alla classe operaia risultano alla fine destinati aiceti medi. Comunque, dalla fine degli anni sessanta inpoi, l’edilizia cooperativa ha avuto modo di realizzarecomplessi di notevole qualità, per l’articolazione tipolo-gica e la ricerca di immagini urbane significative, comei quartieri della Federcop Verbena ad Ancona (1972-75)e Astra a Terni (entrambi dello studio Coper), i quar-tieri Barca e Steccone a Bologna, città in cui il 40 percento degli edifici residenziali è di tipo cooperativo, ilcomplesso nell’intervento «167» di Casal dei Pazzi aRoma dello studio Coper (terminato nel 1977).

Ma il quadro sinora tracciato rimane teorico. Sia lestrategie padronali che il movimento cooperativo, spe-cie dal 1973 in poi, sono costretti a uno stallo dalla crisieconomica incalzante: i grandi progetti a scala regionalerimangono sulla carta, la riconversione tecnologica nelsettore edilizio resta una semplice ipotesi, l’Italstat sem-bra girare a vuoto. L’edilizia è di nuovo relegata ai mar-gini delle considerazioni economiche. Chi aveva spera-to – o temuto – una clamorosa ripresa dell’iniziativacapitalistica è costretto a riconoscere una volta di piú ilcarattere illuministico dei suoi sogni. Gli scioperi gene-rali per la casa attendono ancora una risposta, a piú didieci anni di distanza.

Rimane, certo, una nuova qualità residenziale nellearticolazioni di un quartiere come quello di Verbena: lariflessione sulle esperienze internazionali e l’impegno arisolvere contemporaneamente problemi tecnici, pro-duttivi e politici agiscono positivamente, in questo caso.

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Ma è anche dato assistere ad involuzioni che denuncia-no un impatto violento di artigiani della qualità con lanuova domanda: la Nizzoli associati, costituitasi nel ’65,si cimenta nella progettazione di strutture urbane com-plesse nell’area del nuovo polo industriale di Taranto,con deludenti risultati sia nella fascia residenziale rea-lizzata nel ’72 che nel progetto per la direzione dello sta-bilimento Italsider. Il luogo dell’industria non ispira piúle soluzioni totalizzanti che l’antico collaboratore diEdoardo Persico era stato capace di riversare nei suoiprodotti per la Olivetti. Ma anche un architetto cosípuntigliosamente concentrato sull’indagine di specifi-che aree linguistiche, come Luigi Pellegrin, appare spae-sato agli inizi degli anni settanta: l’eco della lezione wri-ghtiana risulta assente nei progetti di concorso per ilquartiere Zen a Palermo (197o) e per l’Università di Bar-cellona (1970, con Ciro Cicconcelli), informati, come an-che il Liceo scientifico ed Istituto per geometri da luirealizzato a Pisa nel ’72-76, a una tecnolottizzazionetanto professionalmente controllata quanto abbracciatacon distacco. Il risultato di tale ibrido incontro fra abi-lità di scrittura e programmi produttivi è nelle celluleprefabbricate progettate da Pellegrin per la Sir (1974),all’interno del piano di intervento sopra accennato. Isuoi elementi tubolari, accoppiabili, moltiplicabili esovrapponibili non mancano di ironia; ma essi vannovalutati alla luce dei contemporanei disegni di città uto-piche insofferentemente schizzati da Pellegrin: ancorauna volta, il pendant della tecnica è l’incubo onirico, larievocazione aggiornata della megalomania decadentedell’Alpine Architektur.

Se il coinvolgimento di Pellegrin nei programmi dellaSir mette in gioco il ruolo del progetto all’interno dellalogica produttiva, quello che vede i Bpr impegnati nellasistemazione degli svincoli autostradali della MilanoNord o della tangenziale di Napoli (1970-71) riduce il

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design a semplice decorazione a livello paesistico: làdove si precisano gli obiettivi del grande capitale pub-blico o privato, il lavoro intellettuale viene utilizzato ocome supporto tecnico o come sovrastruttura esornati-va. Chi, con il Museo del Castello Sforzesco o la TorreVelasca, aveva potuto assumersi il ruolo di custode dicoscienze e memorie collettive, accetta ora senza trau-mi di nobilitare, apponendovi un marchio di qualità,programmi di intervento territoriale incontrollabili congli strumenti conoscitivi propri a quella «qualità».

Nel frattempo, all’interno delle amministrazionicomunali democratiche matura un nuovo progetto cheinveste il destino dei cosiddetti «centri storici». Ci siinterroga, in sostanza, sulla produttività economica eculturale di un ribaltamento di tendenza a favore delpatrimonio esistente: si tratta di combattere l’espulsio-ne degli abitanti meno abbienti dai centri e i processi ditrasformazione dei centri stessi in organismi terziari oin distretti residenziali di alta classe, e di utilizzare infavore del risanamento conservativo gli strumenti nellemani dell’operatore pubblico.

Con le iniziative prese dal comune di Bologna, cheaffronta operativamente il restauro di comparti esemplarisulla base di attente analisi tipologiche e di una speri-mentale utilizzazione dei dispositivi di legge per il con-trollo degli effetti indotti dall’operazione, la tematicacompie un salto di qualità. Da astratta istanza culturale,come essa ancora si presenta al Convegno di Gubbio del196o, quella tematica si fa ora politica e tecnica: i suc-cessi e gli insuccessi dell’impresa bolognese – cui seguo-no i tentativi compiuti a Pesaro, Rimini, Brescia – pon-gono con forza il problema del riuso delle strutture esi-stenti come alternativo a quello della creazione di nuovitessuti, facendo toccare con mano i limiti e gli ostacolida rimuovere a monte per la riuscita delle operazionidecise a livello locale. Operazioni, peraltro, che corrono

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costantemente il pericolo di cadere nel vizio ideologico.Il recupero dei tessuti antichi come ritorno ad ambientiche permettano di vivere in equilibrate comunità aleggiaancora come tema di fondo, lasciando trapelare ambiguetonalità antiurbane. Rimane però aperta la questione delriciclaggio dell’edilizia usata, certo determinante per cittàcome Venezia, che nonostante la legge speciale (o a causadi essa) permane in una grave crisi di identità, ma cheinveste anche il destino dei quartieri ottocenteschi e delmagma periferico di Torino, Milano o Roma. Si trattacomunque di processi aperti, che dopo le sperimentazio-ni bolognesi segnano il passo, malgrado il mutato segnopolitico di molte amministrazioni comunali. Le relazio-ni fra decisioni decentrate e apparati istituzionali emer-gono in tutta la loro drammaticità proprio da tali spo-stamenti degli equilibri politici. L’elezione a sindaco diRoma di uno storico dell’arte come Giulio Carlo Argan(1976-1979) sembra realizzare in ritardo il sogno vitto-riniano di un potere gestito in proprio dagli intellettua-li: ma la buona volontà e la dedizione personale si rive-lano strumenti non sufficienti per influire visibilmente suun organismo metropolitano cosí composito e compro-messo. Di nuovo si profila come prioritaria la ricerca diun nuovo rapporto fra tecniche e strutture di potere: unrapporto su cui si giocherà gran parte del futuro dellasocietà italiana.

6. Due «maestri»: Carlo Scarpa e Giuseppe Samonà.

Al cospetto dei nuovi problemi esplosi nei primi annisettanta, gli architetti appaiono armati solo di rinnova-te capacità di autoverifica. Le loro organizzazioni cor-porative non offrono strumenti di azione o conoscenza,i loro organi culturali sono disseminati, l’editoria spe-cialistica è inflazionata, mentre l’«ideologia del rifiuto»

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mostra la sua povertà e la boria tecnocratica la sua inef-ficienza. I migliori «scrivono testi». Per molti di loro,si tratta di una dolorosa autolimitazione, per altri, sitratta solo di coerenza con un atteggiamento di separa-tezza da sempre sostenuto. Per i piú giovani, di unmomento che si vorrebbe di attesa, e di cui si constata,con angoscia, l’indefinito perpetuarsi.

Non a caso, è proprio nelle opere di chi si apparta,di chi si protegge dai rimbombi, che è dato trovare ilmassimo livello di coerenza linguistica. Il distaccodell’«inattuale» illumina su situazioni soggettive e col-lettive che permettono ancora (o stimolano?), «il corag-gio di parlare delle rose». Per tali aurei isolati anche latrattazione storiografica deve sospendersi, per assume-re l’aspetto «classico» della monografia.

Del resto, non v’è altro modo corretto per trattare diun’opera come quella di Carlo Scarpa (1906-78), cosíorgogliosamente attestata in difesa del cerchio magicoentro cui l’architetto appare rinchiuso insieme ai propricodici: un’opera che va trattata nella sua interezza e cheaffrontiamo solo ora per sottolinearne l’isolamento e laparticolarità162.

Nessuna «decadenza», tuttavia, è nella Venezia can-tata e vissuta da Scarpa. Da Venezia, piuttosto, Scarpatrae un insegnamento in qualche modo perverso: quel-lo che proviene dalla dialettica fra celebrazione dellaforma e disseminazione labirintica, tra volontà di rap-presentazione ed evanescenza del rappresentato, traricerca di certezze e consapevolezza della loro relatività.Negli anni trenta, la ricerca scarpiana era iniziata conuna serie di vetri per la Venini di Murano e con laristrutturazione interna di Ca’ Foscari (1936-37), conl’occhio attento sia alla scultura di Arturo Martini chea temi di Braque e di Léger: già in quei primi saggi, unironico sorriso traspare dalla sua opera di «sapiente arti-

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giano». Che prosegue, nel dopoguerra, del tutto estra-nea ad ogni trauma ideologico, perseguendo una poeti-ca dell’oggetto ricca di compiacimenti formali, attentaalla lezione wrightiana ma attenta anche a non caderein maniera alcuna, accanita ad elaborare una materiafatta di preziosità, di evocazioni e di contrasti. Depu-rata di ogni utopismo, la sintassi wrightiana diviene,nelle sue mani, flessibile strumento di meditazione,capace di dar vita a narrazioni convulse e interrotte.Frasi che alludono ad altre frasi, in un’infinita catena dirimandi, caratterizzano già i suoi progetti per una casadi appartamenti a Feltre (1949), per un cinema a SanDonà di Piave, per Villa Zoppas a Conegliano (1953),per la Casa Taddei a Venezia (1957), per Villa Veritti aUdine (1956-61). Puntigliosamente concentrato nelsegreto del suo mestiere, Scarpa scompone i pezzi dellasua lingua, per trascinare lo spettatore in un aggrovi-gliato universo di segni la cui difficoltà di decifrazioneè ammorbidita da un edonismo ingannevole. Edonisti-ca è infatti la sua scrittura per frasi staccate. Nel padi-glione del Venezuela ai Giardini della Biennale(1954-56), ma ancor piú nei frazionati e preziosi spazidel negozio Olivetti alle Procuratie Vecchie (1957-1958), del negozio Gavina a Bologna (196o)163, dellaQuerini-Stampalia a Venezia (1961-63)164 la frase è tutto.Angoli spezzati e «figurati», piani slittati, acqua intro-dotta a diluire ulteriormente forme instabili: una veraarte della manipolazione informa i singoli frammenti ditali parole «troppo piene». In qualche modo, il lin-guaggio è per Scarpa un pre-testo, come pre-testi sonoi monumenti su cui ha modo di intervenire con la suaindiscussa competenza di restauratore o di allestitore.Nella sistemazione di Palazzo Abatellis a Palermo(1953-54), nella Gipsoteca di Possagno (1956-57), nelrestauro del Museo di Castelvecchio a Verona (1964)165,Scarpa intesse con la storia un colloquio privato ricco di

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metafore: la surreale collocazione della statua equestredi Cangrande della Scala, a Castelvecchio, è tipica di talerapporto divertito e pensoso ad un tempo con l’antico.Ciò differenzia notevolmente l’atteggiamento di Scarpadallo «storicismo renitente» o ambiguamente soffertotipico di Rogers, di Gardella, di Quaroni o dei loro piúdiretti allievi. L’ironia investe anche la storia, conside-rata come materiale di progettazione. Si tratta, per Scar-pa, di un’ironia cui certo non è estraneo l’incontro conPaul Klee, in occasione della mostra allestita nel 1947.Dalla confluenza fra le oniriche rievocazioni della «fan-ciullezza crudele» di Klee, l’ascetismo di Mondrian –anch’esso commentato da Scarpa nell’allestimento dellamostra romana del ’56166 – e i «ludi geometrici» wrigh-tiani scaturisce un comico impertinente e disincantato.

Insegnare a sorridere di ciò che rischia di diveniretroppo serio: anche questo è un insegnamento che pro-viene dall’opera di Scarpa, il cui riserbo aristocraticopuò persino permettersi di tingersi di impudicizia. Ecerto «impudica» è l’ultima grande opera realizzata daScarpa, la sistemazione del cimitero di San Vito pressoAsolo per la tomba di G. Brion (1970 sgg.). «Necropo-li ludens» è stata definita questa tormentata sequenzadi episodi formali rappresi e iperprogettati – il disegno,del resto, non è mai stato un mero strumento, per Scar-pa – cunicolari e metafisici, disposti secondo un pianodalle direttrici nascoste. Omaggio reso all’«arte delcimento e dell’invenzione», il cimitero di San Vito assu-me l’aspetto di un campo di battaglia, dove le forme –il «tempietto» evocante lezioni orientali, il «padiglion-cino» e la passeggiata coperta che guida fino al porticodi ingresso, l’ermetico arco tombale che copre i sarco-fagi dei familiari – giocano fra di loro una serena parti-ta con la morte. Piú che nei progetti per il teatro diVicenza (1968), per la Banca Popolare di Verona o peril rifacimento del Teatro Carlo Felice a Genova, è nel

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cimitero di San Vito e nella Casa Ottolenghi a Bardoli-no (1975) che è dato cogliere il nucleo segreto della poe-tica di Scarpa. Chiuse in loro stesse, tali opere si rivol-gono agli «intendenti» per testimoniare l’ostinata vo-lontà di comunicazione di un maestro di età bizantinacasualmente vissuto nel xx secolo, e che conseguente-mente usa scritture attuali per far parlare verità antiche.

E a ben vedere, ancora di verità antiche è intessutal’opera piú recente di un altro «maestro» isolato, Giu-seppe Samonà.

Troppo spesso, analizzando l’opera di Samonà, si èdato credito al tema da lui stesso teorizzato: l’indisso-lubile unità delle diverse scale di intervento, dal terri-torio all’architettura167. Ma si tratta di un assunto datato,legato alle condizioni del dibattito degli anni cinquan-ta, che va verificato nel concreto dei suoi progetti recen-ti, frutto di una stagione creativa eccezionalmente feli-ce. La fase aperta con i progetti per la Biblioteca Nazio-nale di Roma e con i nuovi uffici del Parlamento prose-gue infatti con alcuni progetti di concorso per temi agrande scala, come la «metropoli dello Stretto» (1969)e principalmente per le Università di Cagliari (1971) edi Cosenza (1972)168. Una complessa «macchina» linea-re si inserisce – nel progetto per Cagliari – fra i centriurbani esistenti, affossandosi nel suolo; un gioco «epico»di forme si installa, di converso, nelle corti interne.Samonà lavora ancora per paradossi: il suo «comporre»,ora piú che mai, procede assoggettando frammenti eaffermando, con dignità d’altri tempi, che suo compitoè rinnovare la memoria di un’ars antiqua con terminiattuali. Cosí, fra storicismo e antistoricismo, matericitàe immaterialità, volontà di forma e disintegrazione sin-tattiche, si struttura una delle sue opere più notevoli, lanuova sede della Banca d’Italia a Padova (1968-74),fatta di citazioni deformate nel fronte su via Roma – gliarchi di base enfatizzati o contratti, i merli ghibellini riu-

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niti fra loro alla sommità – e di campi neutri tormenta-ti da oggetti surrealisticamente isolati nella fronte su viaTito Livio. Il «comporre» mostra qui i propri limiti,incontrando l’arte della «decomposizione». Diverso ildiscorso relativo al centro civico, culturale e commer-ciale di Gibellina (1970-71), caso esemplare dei ritardie delle tutt’altro che innocenti vischiosità della buro-crazia italiana, oltre che delle conseguenze degli interessiche si accumulano persino su un caso, come questo, diricostruzione – nelle intenzioni «esemplare» – di unacomunità terremotata. Interessante comunque è rileva-re che, nel loro progetto, Samonà, Quaroni, Gregotti eG. Pirrone si sentono in dovere di abbandonare ogni ini-bizione per immaginare un insediamento fatto di objetstrouvés: la loro Gibellina appare come frutto di un col-loquio impossibile fra interlocutori che ricorrono all’er-metismo per reciproca diffidenza. Anche qui, un sinto-mo: la tragedia naturale non è interpretata con lo sguar-do di un Verga o di un Pasolini, ma solo come occasio-ne per confrontare vie di approccio diverse all’autono-mia della lingua. Per quanto riguarda Samonà, va nota-to che a Gibellina appare, in scala ridotta, una primaidea di quello che sarà il progetto per il teatro popolaredi Sciacca (1975 e 1979, in via di realizzazione). Unassemblaggio di tre segni perentori da forma all’organi-smo del teatro di Sciacca: un tronco di cono e un tron-co di piramide si attestano sui lati opposti di un enor-me parallelepipedo, che ospita le scene mobili e i servi-zi delle due sale contrapposte. Come nella banca pata-vina, ma qui con una piú accentuata volontà espressio-nista, la perentorietà dell’impianto è mascherata da unaridda di riferimenti a Poelzig, a Van de Velde, a Le Cor-busier, mentre l’ingresso evocante un arcaico trilite, lelunghe scalinate esterne ispirate ai templi maya, il bucra-nio che corona il vertice del piccolo teatro introduconocaustiche interferenze narrative.

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Con aristocratico distacco, Samonà espone, scritti incodice cifrato i frammenti della propria autobiografiaculturale. La passione per l’autobiografia non si nascon-de piú, né, come nell’opera di Quaroni, assume toniaccorati. Al massimo, essa testimonia di un ritorno a ununiverso di «totalità» perdute, rievocate in un clima spo-glio di nostalgia.

7. Il frammento e la città. Ricerche e «exempla» deglianni ’70.

Il ciclo chiuso che, nel loro insieme, è tracciato dalleopere di Scarpa e Samonà esprime chiaramente lo spre-co di energie che caratterizza il dibattersi della discipli-na fra compiti inconfrontabili fra loro. La capacità di farscaturire poesie dalle contraddizioni vissute in primapersona è l’altra faccia della medaglia di una situazioneche non ha piú punti di appoggio, né nelle università,che sopravvivono quasi per scommessa a una crisi cro-nica, né nelle istituzioni, né nelle organizzazioni di cate-goria o di cultura. Specializzata la funzione dell’Inu,divenuta esornativa quella dell’Inarch, problematico ilrapporto fra università ed enti locali: elaborata in soli-tudine, o all’interno di piccoli gruppi consci della pro-pria aleatorietà, la ricerca non trova luoghi in cui depo-sitarsi. Ciò può provocare gesti tanto altisonanti quan-to superflui – come la richiesta di pensionamento anti-cipato di Zevi in segno di protesta contro l’incuriagovernativa che contribuisce a incancrenire le struttureuniversitarie (1979) – o spinge a chiudersi nel limbo dispazi fittizi, consegnati alla carta come testimonianzeestranee. In entrambi i casi, viene accuratamente messada parte la ricerca delle ragioni prime della crisi: unaricerca che potrebbe rivelare quanto i «piccoli no», pro-nunciati magari con veemenza, siano in sostanza dei

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«grandi sì» offerti senza contropartite a un nemico infondo accettato perché sconosciuto.

Ciò spiega la ragione del fallimento degli Zevi, deiQuaroni, dei Samonà, nei confronti dei compiti sogget-tivi richiesti dalla didattica, dalla metà degli anni ses-santa in poi. Rimangono certo, per Quaroni, i risultatiottenuti presso schiere di eletti, e per Samonà il meritodi aver permesso, a Venezia, l’innesco di processi di tra-sformazione tuttora in fieri. Ma si tratta sempre di «pre-messe». Al di là di esse, i nostri Socrati non si sono maiinoltrati. Né Quaroni, il piú tormentato e problematicodei protagonisti dell’architettura italiana del dopoguer-ra, maestro del dubbio e dell’autocritica, può vantare,come Samonà, realizzazioni che sublimino le sconfittesubite o autoimpostesi. Il dubbio, del resto, obbliga a unpercorso fatto di imprevisti e di improvvisi cedimenti,di svolte subitanee e inspiegabili. Un sottile legame con-giunge la magistrale ipotesi tracciata nel ’59 nel proget-to per il Cep di San Giuliano alla macchina sovrabbon-dante del ’67 per gli uffici del Parlamento a Roma; manel design a grande scala, che Quaroni sperimenta neglianni settanta in collaborazione con Salvatore Dierna ealtri giovani allievi, l’indifferenza nei confronti deimateriali imbocca una strada che sembra non aver nullaa che fare con le macerazioni linguistiche della chiesa diGibellina o della succursale romana del Banco di Roma(1970 sgg.). Un’insolita olimpicità domina i progettiquaroniani per le Università di Cosenza, di Mogadiscio(1973), di Lecce (1974): la «torre di Babele» sembra inessi definitivamente esorcizzata169. In realtà, si tratta diun farsi da parte senza clamori, di un diverso modo diporsi in posizione di scettico osservatore, da parte di chiha dato fondo a un intero arco di ipotesi e di disillusesperanze.

Altri sono, fra la fine degli anni sessanta e i primianni settanta, i portatori di nuovi strumenti di lavoro:

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per tutti loro o quasi l’utopia è arma spuntata, e giun-gere a risultati eloquenti è essenziale. Se i vecchi mae-stri avevano elaborato strategie, i nuovi privilegianosperimentazioni esemplari; se quelli erano intrisi dimoralismo e di miti, questi usano l’ideologia come armaleggera e problematizzano, piuttosto, sistemi di analisidepurati dalle scorie del futuribile.

Fra il colpo di freno provocato dalla crisi posterioreal ’73, le incerte prospettive degli operatori pubblici el’attesa in cui vive il settore edilizio, la cultura archi-tettonica italiana ha potuto cosí produrre quattro esem-pi di intervento residenziale di respiro internazionale –i quartieri Matteotti a Terni di Giancarlo De Carlo(1969-75), Monte Amiata al Gallaratese a Milano diCarlo Aymonino e collaboratori (1967-73), Corviale aRoma del gruppo Fiorentino (1973 sgg.) e Zen a Paler-mo del gruppo Gregotti (1970 sgg.) – utilmente con-frontabili fra di loro, anche per il loro valore di model-li, non foss’altro che di metodo. Del bagaglio consuma-to nel corso dell’esperienza dei vari programmi per l’e-dilizia pubblica, quasi nulla trapela da questi quattroexempla, ben consci del loro ruolo dirompente rispettoal dibattito relativo alla collocazione del manufatto inseno allo sviluppo della città contemporanea. Le ipote-si che essi hanno l’indubbio merito di rendere concretee verificabili chiudono storicamente un’epoca per segna-re una svolta che ammette molteplici sbocchi.

Il villaggio Matteotti, anzitutto. È impossibile pren-dere in considerazione quest’opera senza rifarsi alla com-plessa ricerca di De Carlo e alle sue ramificazioni. Impe-gnato a ridefinire strumenti concreti per il farsi politi-co dell’architettura e del planning, aperto alle sollecita-zioni metodologiche delle tecniche di analisi statuni-tensi ma pronto a farle reagire al confronto con la realtàitaliana, conscio della diversa qualità imposta alle tec-niche dalle differenti scale di progettazione, De Carlo

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accompagna l’opera da lui svolta in organismi collettivicome l’Eses o il piano intercomunale milanese conapprocci al design urbano, come nel progetto di concorsoper l’Università di Dublino (1964), svolge un’esempla-re opera di pianificazione continua ad Urbino, ap-profondisce e depura il linguaggio sperimentato nei dor-mitori dell’Università urbinate nell’insieme residenzialeLa Pineta (1968), nel nuovo Ospedale Civile di Mirano(1967 sgg.), nei nuovi collegi universitari di Urbino(1973 sgg.), nel progetto per la nuova Università diPavia (1970-75). L’approccio di De Carlo alla forma èduttile: un’assenza di pregiudizi gli permette di vaglia-re un arco di ipotesi palesemente aderenti al clima delTeam X, piú orientato verso lo sperimentalismo degliSmithson, tuttavia, che verso le troppe serene certezzedi Bakema. Né il brutalismo dei dormitori di Urbino, nél’elegante geometrismo del quartiere La Pineta o dellaScuola Normale sono comunque, per lui, riducibili a unformulario. Ciò che conta è la ricerca di un metodo e,soprattutto, di un rigore capaci di restituire credibilitàall’approccio disciplinare170.

È quindi necessario valutare sia i residui utopici delpiano elaborato da De Carlo per Rimini, sia gli scarti lin-guistici presenti nella sua opera alla luce del tema pre-dominante che li informa: la ricerca di una sicurezza pro-gettuale che comprenda in sé le molteplici sollecitazio-ni provenienti dall’utenza, di una tecnica, in definitiva,«aperta», capace di colloquiare con linguaggi ad essaestranei. Che su tutto ciò pesi l’origine «anarchica» diDe Carlo e il contatto con l’esperienza dell’AdvocacyPlanning statunitense è indubbio171. Ma anche dellamitologia della partecipazione De Carlo è capace di fareuno strumento sperimentale e flessibile. Il risultato delvillaggio Matteotti diverrebbe incomprensibile fer-mandosi a una sin troppo facile contestazione delle ideo-logie che ne sono alla base.

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Infatti, esso vale non solo o non tanto per il suorisultato, quanto per il processo che lo ha reso possibile.Nel ’69, quando De Carlo è chiamato dalle AcciaierieTerni a dar forma a un insediamento nell’area del vec-chio villaggio costruito nel ’39 per i dipendenti dellasocietà, egli si trova al centro di un conflitto che ha perprotagonisti l’amministrazione comunale, la Terni, leorganizzazioni operaie172. Scegliendo fra le cinque alter-native proposte da De Carlo la piú coraggiosa e inno-vativa, la Terni intende rendere visibile un cambia-mento di rotta nella sua politica sociale, prima presso-ché inesistente. De Carlo impone però un processoprogettuale basato sul continuo scambio con gli operaidelle Acciaierie al di fuori di ogni controllo della societàe in orari di lavoro. Iniziando con una mostra docu-mentaria su casi esemplari di edilizia residenziale, DeCarlo dà il via a un’operazione dagli effetti imprevisti.La partecipazione alla progettazione da parte dei futuriutenti è certo guidata dall’architetto: sullo schema da luiproposto – una piastra scavata, con elementi paralleli atre piani, spazi per accessi veicolari e aree private all’a-perto, servizi di prima necessità lungo percorsi trasver-sali a due livelli – la variabilità tipologica e la frequen-za delle singole cellule vengono fissate dall’utenza. Lagriglia tridimensionale definita da De Carlo funge cosída maglia di riferimento su cui si depositano i desidera-ta di utenti le cui vecchie abitudini vengono modifica-te nel corso di un rapporto con l’architetto – cui siaffiancano un tecnico della Terni e un sociologo – daglieffetti indubbiamente didattici.

L’immagine che prende forma da tale colloquio fraintellettuale e utenza riflette la ricchezza delle scelteacquisite. La chiarezza della griglia di base si componecon la mutevolezza delle tipologie, con il digradare deivolumi cementizi, con i tetti giardino e i percorsi varia-ti: la severità del linguaggio è addolcita da modulazioni

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e particolari che inclinano verso un picturesque urbanonon sempre controllato. Ma è proprio nel corso dell’e-secuzione che esplodono conflitti che compromettonol’operazione: la Terni sceglie per l’appalto una conso-ciata Iri, l’Italedil, e la conduzione dei lavori è affidataall’Italstat malgrado le offerte minori avanzate da impre-se locali; la realizzazione si rivela onerosa; gli esecutorientrano in contrasto con i progettisti e De Carlo è con-siderato ospite sgradito in cantiere.

Nel 1975, le duecentocinquanta famiglie assegnata-rie entrano nei nuovi alloggi, ma la Terni, che da unagestione socialista, nel frattempo, è passata in mani fan-faniane, non è piú interessata a un’operazione «illu-minata» e la realizzazione delle attrezzature e del secon-do lotto di alloggi viene rimandata sine die. Dal cantoloro, gli effetti del processo partecipativo innescato daDe Carlo si diramano in piú direzioni. Il comitato diquartiere, insieme al movimento cooperativo, proponeun risanamento autogestito delle vecchie abitazioni inalternativa al nuovo complesso, raccogliendo l’adesionedel 98 per cento dei residenti ma con l’opposizione deisindacati e del consiglio di fabbrica; l’amministrazionecomunale, nel preparare nel ’75 il suo piano triennaleper l’edilizia economica e popolare, si ispira ai metodidi De Carlo; nel ’74, il comitato di fabbrica e i sinda-cati rivendicano la loro presenza alle decisioni relativealla ristrutturazione degli impianti.

L’azione di De Carlo aveva puntato su una ridefini-zione della relazione intellettuale-produzione agendo suun solo settore di un singolo «caso»; le ripercussioni diquell’azione riportano la tematica ai modi di produzionee alla loro gestione globale.

Se il villaggio Matteotti obbliga all’esame di un pro-cesso, il complesso Monte Amiata al Gallaratese si impo-ne nella sua pregnanza di oggetto. Al risultato del quar-tiere Monte Amiata Aymonino giunge attraversando la

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tematica della «nuova dimensione», elaborando ipotesioperative sulla formazione della città «per parti fini-te»173, approfondendo le tematiche linguistiche apertecon il progetto per la Biblioteca Nazionale di Roma: eci riferiamo, in particolare, all’edificio residenziale di viaAnagni a Roma (1962-63), e ai progetti di concorso peril Teatro Paganini di Parma e per l’Ospedale Psichiatricodi Mirano (1967, in collaborazione con Nino Dardi)174.D’altronde, la lunga gestazione del quartiere – proget-tato fra il 1967 e il 1970, realizzato fra il ’7o e il ’73175

– non illumina solamente sulle sue caratteristiche strut-turali: attraversando gli anni della «grande illusione» equelli dell’incertezza, esso assume il valore di un saggioriassuntivo. Troppo aperto all’intorno, dominato dalleprofessionali torri di Vico Magistretti, per essere real-mente brandello autosufficiente; troppo «disegnato»,per assumere valore metodologico: il complesso sembraenunciare dolorosamente la propria condizione di lacer-to infinitesimale, impotente a «metter ordine» nell’o-ceano periferico della metropoli lombarda, eppure anco-ra teso a prefigurare modi piú complessi di vita. Solo,che la vita intensa qui preconizzata è vissuta solo dalleforme: i quattro blocchi disposti a ventaglio e incernie-rati sulla soluzione di continuità del teatro all’apertosono ricchi di affabulazioni tipologiche e formali, da cuitrapela lo strumento principe del «saggio», la memoria.Le solenni cadenze del Karl Marx-Hof vengono evoca-te insieme a residui informali e all’onirica stupefazionedell’Andrew Melville Hall stirlinghiana: fatto di mate-riali deformati che alludono a ordini diversi che si sannoirraggiungibili, il quartiere, onnicomprensivo come unfilm felliniano, è realmente l’erede dell’ideologia piúprofonda della «scuola romana». Non a caso, la suasicurezza si stempera nelle soluzioni angolari, svuotate,distorte, convulse. Sono esse a rendere palese che lalacerazione è il soggetto di tale irripetibile coacervo di

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ipotesi, di parole accatastate, di immagini polivalenti.Né un discorso «lineare» sarebbe lecito per far par-

lare una condizione intellettuale costretta a gettarsi sul-l’occasione fortuita con l’ansia di chi intende erigere unmonumento alle contingenti contraddizioni in cui èimmerso. Un monumento, prima di tutto, al «rumore»,all’inesauribile ricchezza del frastuono: esiliato dallametropoli, il frammento si carica di un eccesso di valo-ri metropolitani. Serve tuttavia uno specchio per esal-tare l’affabulazione, una cassa di risonanza per farecheggiare quel frastuono: non a caso, uno dei blocchidel quartiere viene affidato da Aymonino a Aldo Rossi.Ieratico e contegnoso, il lungo corpo realizzato da Rossigioca il proprio ruolo di testimone silenzioso al cospet-to della messa in scena aymoniniana. Ma esso non disde-gna la ricerca tipologica: la rue intérieure che attraversal’edificio di Aymonino penetra quello di Rossi, che laassume come memoria dei ballatoi delle antiche caselombarde, pur accettando suggerimenti dall’unité lecor-busieriana.

Dialogo come contaminazione reciproca quello fraAymonino e Rossi: le polarità che essi incarnano si rive-lano entrambe bisognose del loro opposto. Non a caso,i due collaboreranno per il progetto di concorso per ilcentro direzionale di Firenze176, come non a caso le scar-nificazioni cui Aymonino si costringe nel campus scola-stico di Pesaro (1970 sgg.) sono un omaggio alle affinitàelettive che lo legano all’amico, al «diverso»177.

Se il Gallaratese segna nel non-luogo della conurba-zione milanese un punto interrogativo raggrumato, ilCorviale a Roma si distende per circa un chilometro neltentativo di costituirsi come magnete riorganizzativo diun sito urbano disgregato e come modello di integra-zione fra residenze e servizi. Il Gallaratese e il Corvia-le; Aymonino da un lato e Fiorentino, Gorio, MicheleValori e Piero Maria Lugli dall’altro: a piú di venti anni

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di distanza dal Tiburtino, che aveva visto gli stessi archi-tetti compresenti accanto a Ridolfi e Quaroni, gli esem-pi che stiamo accostando mostrano l’ampiezza delladivaricazione che ha fatto esplodere la «scuola romana».

Professionista cui sono estranee le molteplici tenta-zioni intellettuali di Aymonino, Fiorentino si stacca benpresto dal ridolfismo «educato» delle prime torri resi-denziali in viale Etiopia, congelando il suo lessico sia nelsecondo gruppo di case a torre nel medesimo viale Etio-pia (1962), che nel progetto di concorso risultato vin-cente ex aequo al concorso per la nuova sede dei tribu-nali a Roma (1969). Può quindi sorprendere trovarloimpegnato nell’impresa già ricordata dello studio Asse:l’enfasi strutturale suggestiona anche chi persegue unacorrettezza progettuale sostanzialmente aproblematica.Anzi, nei progetti di Roma-mare e Ostiamare del ’7o eper la zona Flaminio - Tor di Quinto (1971), Fiorenti-no mostra di aderire in toto al frammentismo esteso ascala territoriale e al clima da metafora ipertecnologicache imperversa nelle sedi universitarie in quegli anni. Inciò, almeno, egli sembra vicino ad Aymonino, e al comu-ne «maestro» Quaroni178.

Ma nel Corviale la protezione dell’utopia non reggepiú. Dovendo dar risposta a una domanda dell’operato-re pubblico, Fiorentino recupera per intero le sue capa-cità di abile mediatore. Un unico sistema di 200 metridi spessore, con originali tipi edilizi e realizzato conavanzate tecniche di prefabbricazione: eppure, in quan-to modello, questa città compressa in un solo volumelineare solo teoricamente si presenta riproducibile; la suaqualità coincide con l’esplicitarsi delle sue dimensioniproduttive. L’autentico risultato è nell’aver persuasol’Iacp della validità della proposta: priva di profezie,questa decantazione dei canti al futuro si realizza trion-falmente come limite della periferia romana, senza alcu-na certezza di poterne condizionare gli sviluppi.

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Didascalico, quindi, il Corviale. La sua perentorietàsi staglia contro lo sfascio urbano circostante, la sua pro-posta impegna la committenza a una sperimentazioneinabituale, l’allaccio fra la lunga struttura residenziale ei servizi indica possibili modi di articolazione del com-plesso. Riflettiamo ancora. Da San Basilio al Corviale:due opere «di decantazione», rinunciataria e artigianalela prima, disincantata ma propositiva la seconda. Inmezzo, un «vuoto di valori», essenziale. Tuttavia néAymonino né Fiorentino sono «autori» benjaminiani, ecerto nessuno dei due si è fatto «astuto come colomba».Ma l’esito storico che, insieme, il Gallaratese e il Corvialedesignano per le atmosfere dell’età della ricostruzione ètroppo parlante per non ammettere la produttività deldécalage ideologico vissuto dalla cultura italiana. Le ambi-guità di tali opere sono appunto in quell’aver «vissuto»e non guidato la crisi: anche questo è leggibile in esse. Èforse un caso che, dopo il Corviale, Fiorentino senta ilbisogno di rivisitare – tradotti però in lingua ascetica –gli etimi del neorealismo, nel progetto per un insedia-mento residenziale nell’alto Lazio (1979-81)?

Il difficile rapporto con l’insieme urbano, che inmodo diverso è alla base delle soluzioni del Gallaratesee del Corviale, diviene, nel progetto del gruppo Gregottiper il quartiere Zen a Palermo, colloquio con una natu-ra sentita troppo ricca di valenze emozionali e con lastratificazione storica del tessuto cittadino179. Poste sulprolungamento dell’asse via Maqueda - via della Libertà,le compatte insulae di Gregotti scandiscono solenne-mente le fasi di un rito: è l’atto del «fondare», che lagriglia rigorosa, appena variata alle estremità e aperta adaccogliere i servizi in posizione asimmetrica rispettoall’asse di simmetria virtuale, intende celebrare. I bloc-chi alti che fanno da testata alle singole insulae accen-tuano, fungendo da discreti richiami visivi a distanza,tale esaltazione della «città murata»; una città che si

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difende, principalmente, dall’assalto della natura comeda quello, prevedibile, della disgregazione periferica. Il«troppo costruito» del quartiere Zen si rapprende nel-l’unità tipologica costitutiva del complesso: perentoria,l’insula si presenta come struttura finita ma articolata dapercorsi e incidenti, che ha come antecedenti il su-perblocco di Michiel Brinkman a Spangen e il Lindenhofdi Ehn, e come obiettivo la costituzione di un «catalo-go di negazioni delle idee correnti intorno al tema dellaresidenza», come è scritto nella relazione al progetto.Dopo le calibrate distorsioni della Rinascente di Tori-no, Gregotti risponde cosí, a quattro anni di distanza,alle istanze avanzate nel numero monografico di «Edi-lizia moderna» dedicato alla forma del territorio. Se ilCorviale è un grande segno che si staglia come diga, allesoglie dello sviluppo urbano, il quartiere Zen è unameteora che si stacca dalla costellazione cittadina e sicondensa sotto l’incombere di forze minacciose. Muta-no le morfologie e i modi di produzione proposti; per-mane la volontà di proteggersi da minacce. Sempre piúastratta – l’ombra del Worringer si proietta su tali dispo-sitivi formali carichi di allusioni arcaiche – è la scrittu-ra che caratterizza la ricerca di nuovi equilibri fra l’arti-ficiale e il naturale.

Quell’astrazione è peraltro indice di una volontà dicontrollo sul frammento finito assunto come testimo-nianza: per il Corviale e per il quartiere Zen, ma ancheper i successivi progetti del gruppo Gregotti, o per lericerche a grande scala di Franco Purini e Laura Ther-mes180 – la grande croce del centro direzionale di Latina(1972), il lungo muro percorribile del progetto per lasistemazione delle cave di Montericco, il piano partico-lareggiato della zona archeologica e portuale di Terraci-na (1975) – è lecito parlare di un eccesso geometrico, diun eloquente riduzionismo, di un processo di strania-mento ostentato come espediente retorico malgré soi. De

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Carlo è ancora fiducioso in un’architettura capace diradicarsi in «luoghi» e di fornire «dimore»; Aymoninonarra le vicende che hanno messo alle corde i facili sognidi rigenerazione, anche se si ostina a confabulare con unincerto futuro; Fiorentino ribalta in realismo l’utopia;Gregotti e Purini accettano i confini della forma finitae nello spazio geografico configgono strutture che cono-scono la propria artificialità.

Naviganti in mari extraterritoriali, i frammenti chedànno forma alle nuove ipotesi non cessano di fare iconti con la storia che incombe su di loro.

Il che è tanto piú vero per gli ultimi progetti dellaGregotti associati: non piú il tema residenziale è qui ingioco, bensí quello di infrastrutture che permettano diproseguire il discorso sul patologico rapporto archi-tettura-paesaggio. Si noti: proprio Gregotti, uno degliarchitetti rimasti piú silenziosi durante la breve stagio-ne della febbre megastrutturale, sta oggi realizzandouna delle poche operazioni territoriali in cui la dimen-sione gioca da protagonista, l’Università della Calabria.Ma a tale risultato Gregotti perviene dopo aver appro-fondito, con Purini, il tema del quartiere Zen nel pro-getto di concorso per la nuova Università di Firenze(1971)181. Ancora un sistema di dighe – cinque blocchiscarnificati, sedi dei nuclei didattici e di ricerca – con-tiene le forze del sito e si installa, con funzione nodalerispetto ai nuclei storici di Firenze, Prato e Pistoia,come misterioso reperto. Di nuovo, il comporre assumeveste rituale: solennemente la fondazione del nuovoorganismo urbano ha luogo. I segni che colloquiano conil paesaggio si caricano di valenze ieratiche: l’ar-chitettura riflette gravemente su se stessa e si preservada contaminazioni esterne. Ma nel progetto risultatovincitore al concorso per la nuova Università di Cosen-za e attualmente in via di realizzazione, l’orchestrazio-ne dei segni appare del tutto mutata182. Due diversi siste-

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mi aggrediscono la successione collinare che scendeverso la vallata del Crati dalla catena paolana: una seriedi blocchi a pianta quadrata per le attività dipartimentalisi aggancia a un pontile attrezzato lungo 3200 metri eposto a una quota costante che scavalca le accidentalitàorografiche; tessuti residenziali a gradoni si sfrangianosul versante settentrionale, innestandosi nei nodi di col-limazione fra la struttura lineare e i colmi collinari. Ilpaesaggio viene in tal modo scomposto e ricomposto.Nel conflitto fra il percorso artificiale – il pontile, tesocome segno sicuro e filiforme – e i percorsi naturali – lestrade di colmo – è riposto il significato ultimo del-l’intera operazione: il filo di Arianna sospeso nel vuoto,indifferente a ogni incidente, è l’unico riferimento perun’architettura che tende ad esaurirsi in un fascio dipure «relazioni», e che in quanto tale nell’ambiente chel’accoglie «non abita». Dietro l’ottimismo progettuale diGregotti – come si esprime anche nel progetto per il cen-tro turistico Manilva a Malaga (1974, con Oriol Bohi-gas, Martorell e Mackay) o nel centro di ricerche dellaMontedison a Portici (1978), ricco di citazioni da Stir-ling e da Terragni – vive una feconda inquietudine.

8. Architettura come colloquio e architettura come«invettiva civile».

Non può non dar da pensare il parallelismo dei tra-gitti segnati, su rotte indipendenti, da alcuni dei piúradicali «revisionisti» italiani degli anni cinquanta.Come per Gregotti, anche per Gabetti e Isola il«neoliberty» non aveva avuto il significato né di unmovimento né di una corrente: il loro tenace radica-mento nella specificità della loro regione – un Piemon-te letto nella sua doppia caratteristica, provinciale ecosmopolita – e nella specificità delle singole condizio-

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ni produttive permette loro di proseguire senza clamo-ri ma con sicurezza la strada iniziata con la Bottegad’Erasmo. Un realismo, cioè, in cui la carica introspet-tiva è potenziata a contatto con il genius loci, e in cui ilgusto artigiano per il «buon prodotto» fa i conti con unaspregiudicatezza formale che deriva ancora dal direttorapporto con le cose, ma in assenza della «disperata ten-sione esistenziale» che motivava la loro ricerca. Laquale, partita dalla celebrazione dell’oggetto, giunge atoccare, come per Gregotti, il tema del rapporto manu-fatto-ambiente. Eppure, nulla sembra piú lontano diquel tema dalle opere di Gabetti e Isola dei primi annisessanta183. Nella chiesa parrocchiale di Montoso(Cuneo), del 1963, i due architetti contaminano motivieruditi e strutture tradizionali, in omaggio a un’esigen-za partecipativa (la chiesa viene costruita dal parroco edalla comunità religiosa locale); una smaliziata misuradomina gli scatti geometrici del monumento alla Resi-stenza a Prarostino (1964); un realismo colto, raffinatoe divertito, attento agli stilemi tradizionali dell’archi-tettura padana e rurale, ma anche a sedimentate memo-rie e a suggestioni letterarie, informa opere come l’edi-ficio per abitazioni in corso Montevecchio a Torino(1964), la casa-albergo Eca a Le Vallette (1965, conGiorgio Raineri), l’oratorio Farina a Cortanze (1966), leVille Pero (1965)184 e Furlotti (1973), il progetto per laCasa del Gallo a Pinerolo (1967).

Rispetto a tali esperienze di alto artigianato profes-sionale, affettuosamente radicate nei centri storici enelle campagne piemontesi come cifre cariche di allu-sioni, il centro residenziale realizzato a Ivrea per i dipen-denti della Olivetti (1969-70) sembra voler aprire unnuovo capitolo185. Il complesso fa parte di un pianofinanziario che comprende un analogo intervento loca-lizzato ai margini del centro storico di Ivrea e opera diIgino Cappai e Piero Mainardis. Due nuove «architet-

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ture da collezione» vengono cosí ad arricchire l’ecletti-ca raccolta olivettiana: in città, un pezzo macchinisticoche gioca sull’impatto fra un’ammorbidita futurologia el’antico tessuto urbano; all’esterno, in un terreno bosco-so prossimo al quartiere Castellamonte, l’arcadia severadelle residenze di Gabetti e Isola. Attraversando laDora, e installandosi per la prima volta in città, la Oli-vetti – con il centro dei servizi sociali e residenziali diCappai e Mainardis – si presenta come «macchina»astrale ingentilita da un design di intonazione anglosas-sone; verso la campagna, un crescent ben memore deisuoi antenati settecenteschi commenta il volto socialedella ditta.

Significativo, il «confidente distacco» dalla naturadel crescent in curtain-wall di Gabetti e Isola. Le celluleresidenziali minime hanno un solo affaccio all’esterno,definito dalla griglia infittita della facciata ricurva: permetà interrato, questo esempio di «land-architecture»ha cura di non interrompere la struttura del sito, inse-rendosi in esso con un unico gesto sicuro, con un rico-noscibile segno di commento.

Terminato nel ’70, il centro residenziale di Ivrea è,per Gabetti e Isola, la premessa di irrealizzati progettiche ne riprendono e ne ampliano la tematica: il proget-to di concorso per il centro direzionale della Fiat a Can-diolo, presso Torino (1973), quelli per un complessoresidenziale a Volterrano, all’isola d’Elba (1975), per unalbergo, servizi e attrezzature per il Club Méditerranéea Sestrière (1973), per un complesso residenziale in altamontagna (1975). Piú vicini al progetto del gruppo Gre-gotti per l’Università di Cosenza che a quelli per il quar-tiere Zen o per l’Università di Firenze, il rapportomanufatto-ambiente è in essi mantenuto al livello di unsottile ed aristocratico colloquio: il centro direzionaledella Fiat si riduce a una doppia scarpata di terra, erbae superfici vetrate inclinate, che descrive un enorme

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cerchio, dominato alla sommità da un enigmatico lucer-nario fatto di tre tubi accostati.

Un esile ma perentorio segno si raggruma cosí nelpaesaggio piemontese. Testimonianza di un educatofarsi avanti della volontà di forma, esso è lí per farriflettere, non per violentare. La sua compiutezza nonvuol altro che «lasciar essere» il sito che lo ospita: nona caso, rispetto al complesso di Stupinigi, poco distan-te, esso si situa in posizione appena defilata, a rendereevidente la sua qualità di eco della forma circolare delgiardino settecentesco.

Anche per Gabetti e Isola, dunque, la grande scalanon comporta necessariamente utopie o enfasi struttu-rali. Anche per loro l’incontro con il paesaggio è inseri-mento in una storia in fieri, da leggere con gli stessi occhiche erano stati capaci di cogliere i valori intimi dei cen-tri di Torino o di Pinerolo. È l’intimismo, piuttosto, checon questi progetti ha compiuto un salto di scala, dimo-strando la propria capacità di tradurre la memoria informe che travalicano i limiti del semplice oggetto186.

Ben diverso è il percorso compiuto dai protagonistimilanesi della vicenda neoliberty come Canella, Achil-li e Brigidini, o Gae Aulenti. Abbiamo già avuto occa-sione di parlare, per l’opera di Canella, di una «angryarchitecture»187. I motivi presenti nel progetto di con-corso per il centro direzionale di Torino e nel centrocivico di Segrate si appoggiano, tuttavia, a una teoriz-zazione che ha al suo attivo un originale impegno didat-tico e di ricerca sul ruolo delle attrezzature nella strut-tura urbana: per Canella, servizi e infrastrutture sonosigilli di un’intenzionalità capace di opporsi all’ambi-guità dispersa della città attuale, alla dissoluzione deinessi provocata dalla perdita di valori contestuali188. Laricerca tipologica si concentra cosí su gangli vitali, inve-stendo la loro organizzazione e contestando ogni model-lo lineare di localizzazione. Si tratta, per Canella, di

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coniugare in modo integrato i servizi relativi all’am-ministrazione, all’istruzione, allo scambio, alla cultura:veri e propri plessi a funzioni multiple vengono da luiproposti come strutture consolidate ed emergenti, attea triangolare polemicamente organismi urbani.L’aggressività delle immagini canelliane è conseguentea tale impostazione programmatica. Nel centro civicodel quartiere Incis a Pieve Emanuele (1968-81), –meteora che si introduce nel complesso spiazzandone lacompostezza – la complessità delle funzioni è calata inun linguaggio provocatoriamente «sporco», contami-nato, fatto di disarmonici assemblaggi. Le eleganzeinquiete degli arredi della fase neoliberty si trasforma-no nell’antigrazioso cui si ispira il grande guscio cemen-tizio montato su cilindri e coronato da un frontonericurvo memore dei pastiches di Gaudì, che caratteriz-za la scuola elementare di quel centro civico. Laprovocazione e il montaggio esasperato, qui come nelprogetto del ’72 per una scuola secondaria a Saronno,e nel Palazzo Municipale e scuola media inferiore aPieve Emanuele (1971-81), informano sia la ricerca diconsolidamento funzionale che i modi del linguaggio.Lo sfacciato eclettismo di Canella, Achilli e Brigidinidistorce forme finite, ricorre a memorie lacerate, inqui-na volumi troppo definiti, fa cozzare in modo striden-te immagini difficilmente accostabili. Ma anche questoè un esito in qualche modo implicito nell’atteggiamen-to polemico dei «giovani di Casabella» alla fine deglianni cinquanta: il messaggio che dovrebbe conquistarea nuovi comportamenti collettivi è affidato a un «rimarpetroso», in bilico fra la costrizione alla dissonanza, l’e-vocazione e l’amore per classiche compostezze, comedimostra anche la scuola elementare e materna diNoverasco (1971-76).

Le distorsioni formali di Canella assegnano cosí all’ar-chitettura un compito preciso: quello di pronunciare

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«invettive civili», ricaricandosi di un pathos erede asuo modo degli insegnamenti dei padri contestati.

Nulla di tale ansiosa evocazione è invece nell’operadi Gae Aulenti, l’unica del gruppo neoliberty a prose-guire sulla via di rarefatte eleganze destinate a un pre-ciso ceto, anche culturalmente caratterizzato189. Il geo-metrismo estenuato della Aulenti può cosí entrare in sin-tonia perfetta con gli oggetti e le immagini «pop» cheabitano la sua Casa di un Collezionista a Milano(1968-69), si presenta ermeticamente monumentale neivolumi componibili progettati per la mostra del designitaliano al Museum of Modern Art di New York del’72190, si piega a un geniale effetto di «straniamento»dell’oggetto-automobile nei saloni d’esposizione Fiat aTorino, Buenos Aires (1967), Bruxelles e Zurigo (1970),percorsi da una galleria artificiale che crea un’ambiguasospensione dello spazio. Il design della Aulenti nonintende però rimanere nel suo ambito specifico: suoobiettivo è raggiungere la città, porsi come sua compo-nente interna. A scale variabili, ciò è perseguito sia nelprogetto di concorso per il centro direzionale di Peru-gia (1971, con Sandra Sarfatti e Giovanni Da Rios), checon il complesso scolastico a Cinisello Balsamo (1973),che con l’originale proposta di «arredo globale» di Mila-no progettata nel 1972-74. L’operazione non oltrepas-sa i limiti di un’elaborata scenografia per un’improba-bile città come teatro collettivo: l’abilità della Aulentinon casualmente si rivela compiutamente negli allesti-menti scenici realizzati per la regia di Luca Ronconi191.

9. Il «caso» Aldo Rossi.

Gabetti e Isola, Canella, Gae Aulenti portano cosí,per vie diverse, ad estenuazione i materiali del linguag-gio, toccando gli estremi della sgradevolezza e dell’in-tellettualistica sensiblerie. Fra le strade lasciate aperte

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dalle tematiche agitate nell’ambito rogersiano rimane laricerca sugli elementi primi del fare architettura: unaricerca che obbliga a svincolarsi da definiti contesti e atrasmigrare verso una linea di orizzonte in cui il passa-to privato e quello collettivo si fondono. È Aldo Rossiil protagonista di una simile ricerca: un architetto che sipone oggi come il «caso» italiano e internazionale piúseguito e discusso, l’unico «caposcuola» capace di ali-mentare di continuo, intorno alla propria opera e allapropria figura, una polemica e un interesse che investo-no, alla fine, lo stesso concetto di architettura. Abbia-mo già incontrato Rossi fra gli allievi di Rogers, attivonel gruppo redazionale di «Casabella continuità» e auto-re di uno dei più polemici progetti presentati al concor-so per il centro direzionale di Torino. Ma la complessitàe l’eccezionale coerenza della sua ricerca lo pongonoben presto al di fuori delle polemiche contingenti: conesse Rossi non intende sporcarsi; la sua poiesis resiste adogni compromesso con il reale, poiché il ritorno alla«antica casa del linguaggio» è possibile solo con un’af-fermazione di scontrosa indifferenza192.

Che tuttavia nella poetica di Rossi esista una segre-ta reazione al desengaño subito dagli architetti italianinegli anni sessanta è indubbio: anche questo significa ilsuo interesse per temi e figure rimosse dalla ventatamoralistica dei primi anni del dopoguerra193. Alla XIITriennale di Milano, insieme a Polesello e Tentori, Rossiespone un progetto per la ristrutturazione della zona divia Farini: si tratta di un progetto ottimistico, di un’i-potesi tesa a ricomporre un volto per la periferia194. Masiamo nel 196o: quell’ottimismo si rivela ben prestoingiustificato. Nello stesso anno, la sua villa ai Ronchi,in Versilia, appare come una conseguenza della «sco-perta» di Adolf Loos, da lui celebrato in un articolo del’59 su «Casabella»195. Inizia cosí, per Rossi, una ricercadi forme primarie cui non è estranea la riflessione sul-

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l’opera di Adolf Loos ma anche su quella di Max Bill;di forme, comunque, esiliate dal luogo urbano, ma chedi tale esilio intendono parlare, per proporre una teoriadella città come locus della memoria collettiva. Nel ’64il progetto di concorso per il Teatro Paganini a Parma,nel ’65 il monumento ai Partigiani a Segrate, nel ’66 ilprogetto di concorso per un complesso residenziale a SanRocco (Monza), in collaborazione con Giorgio Grassi, eun libro, L’architettura della città: da un lato, il tentati-vo di ridefinire la scienza urbana incontrandosi con lageografia della scuola francese; dall’altro, l’essicazionedell’immagine alla ricerca del punto nevralgico in cuidalla memoria si riesca a far scaturire una vera e propriaepifania dei segni. Il triangolo, il cubo, il cono: ossessi-ve, queste figure scarnificate ricompaiono, sempre e dinuovo, nel progetti rossiani; ma non finalizzate a un’a-stratta ricerca elementarista, bensí per accerchiare, congiri sempre piú stretti, la scaturigine della forma. Ildesengaño è divenuto eloquente. Ai «rumori del mondo»sarà necessario voltare le spalle, per contemplare i luo-ghi di un’estraneazione divenuta sacrale – le periferieauratiche, memori di quelle di Sironi, che appaiono neidisegni di Rossi – o quelli in cui la vita appare sospesa– il progetto per il nuovo cimitero di Modena (1971)196,ma anche il metafisico cortile della scuola De Amicis aBroni (1970). Eppure, i progetti di Rossi affondano inun nuovo immaginario che ha come radici lo sguardoimmoto di De Chirico su spazi abbandonati dal tempoe la «visione infelice» di Böcklin. Il blocco del Galla-ratese, la scuola elementare a Fagnano Olona (1972), iprogetti per il Municipio di Muggiò (1972) e per VillaBay a Borgo Ticino (1972) vanno confrontati con i dise-gni, i collages, e gli oli degli anni settanta. Le forme chesi aggregano rimandano alla stupita fissità degli oggettidi Giorgio Morandi: un occhio nascosto esplora l’attoche dà forma, spia la mano e la mente dell’artista, e non

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incontra, nella profondità dei ricordi, che parole giàdette, allineate sinistramente o accatastate alla rinfusa.

Né ha importanza che la ricerca di un’essenza pri-migenia venga costantemente frustrata. Anzi, ciò spin-ge a rinnovare senza posa il gioco di trasformazione deimateriali ridotti al loro grado zero: lo dimostrano le suc-cessive rielaborazioni del progetto per il cimitero diModena, il tornare di Rossi sulle forme già sperimen-tate per farle colloquiare fra loro, le diverse edizionidella sua «città analoga»197, l’insistenza con cui assem-blaggi architettonici – con o senza «oggetti domestici»– sono minacciati dalla spettrale presenza di San CarloBorromeo. L’immaginario è nuovo bisogno collettivodi un universo che tende ad espropriare il fare indivi-duale di qualità fantastiche. Ma chi oggi si immerge inesso – ben lo aveva avvertito Blanchot – è costretto adannullare spazio e tempo, a farli sprofondare nel nulladello «spazio letterario». Indecente e provocatorio, taleannullamento. Esso non ha nulla a che fare con l’Ent-sagung classica; il suo principio è quello, amorale, del-l’astensione. Non a caso, l’opera di Rossi provoca coridi proteste indignate, insieme ad amori irriflessi. Eppu-re, Rossi ha il coraggio di contemplare quel «nulla»,proiettandone i segni impalpabili in un’urna magica,specchio di un sogno raccontato in pubblico. La mémoi-re di Rossi è erede dell’autobiografismo straripante dallacultura italiana degli anni cinquanta; ma all’opulenzadelle affabulazioni di Gadda essa preferisce un’arcaicasilenziosità. Per questo, la sua introspezione si esprimein un’opera divertita e pensosa, il Teatrino scientifico(1978). Il Teatrino, il cui orologio installato sul fron-tone triangolare è fisso alle ore cinque (della sera?), èun tempietto in forma di «piccola casa» l’unica chepossa accogliere le architetture di Rossi, lí dispostecome scene stabili o mutevoli. Lo spazio della rappre-sentazione coincide con la rappresentazione dello spa-

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zio: di questo Rossi vuole convincerci con il suo meta-fisico teatrino.

Ma tale coincidenza non era stata già annunciata nel«concitato silenzio» della corte interna della scuola diFagnano Olona, o nel «museo in forma di battistero»che appare nel progetto di concorso per il centro dire-zionale di Firenze (1977)? La rappresentazione è tutto:inutile affannarsi a cercarne significati secondi in regio-ni ad essa precluse. La città – malgrado ogni afferma-zione in contrario del Nostro – si rivela come semplicepretesto. Ma anche: la rappresentazione presupponemodelli, archetipi, figure di riferimento. La ricerca tipo-logica di Rossi confina non a caso con una autodescri-zione: il tipo, immoto, non fa storia, il suo ripetere e ilsuo ripetersi appartengono alla medesima volontà di naï-veté che era stata di Tessenow. In tal modo, l’universorossiano può essere percorso come un labirintico pae-saggio, in cui orme ingannevoli – impresse dalla memo-ria dell’artista – confondono il visitatore. L’architettu-ra è posta paurosamente in bilico: la sua realtà, mainegata, viene perversamente coniugata all’irreale. IlProun di Lisickij ha invertito la sua direzione di marcia,ma in un universo ineffabile continua a fluttuare.

Specie negli ultimi progetti, disegni e incisioni, leparole rossiane assumono la dignità di segni alchemici.Nella Cabine dell’Elba (1973), nella Città copernicana,nel Souvenirs de Florence, un alfabeto esoterico vienemanipolato da un mago ostinato nel suo rifiuto di guar-dare nel cannocchiale galileiano. Il rigorismo di Rossi ècondizione del suo immaginario: esso vuol mostrare chel’estraneazione è raccontabile, che la condanna all’afa-sia è scongiurabile da chi sappia tornare bambino.Appunto: un sublime irresponsabile. Ciò spiega il ricor-so rossiano ad infantili grafie o a un’elementarietà geo-metrica che rimanda alle tavole del Durand: tipici, alproposito, il progetto per il Palazzo della Regione di

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Trieste (1974), omaggio a un’Aufklärung senza tempo,o il Teatro del mondo attraccato come fugace appari-zione accanto alla punta della Dogana a Venezia(1979)198.

Eppure: Dieses ist lange her | Ora questo è perduto.Questo il titolo di un’incisione di Rossi del ’75, in cui,come nell’acquarello L’architecture assassinée, egli pre-senta i suoi segni in sfacelo. Si tratta di uno sfacelo con-gelato, tuttavia; immobili sono i frammenti pencolantio proiettati nel vuoto. La perdita non è dolorosa: ad essail viandante era preparato. Il «ponte», figura metafisi-ca sovrasignificante, che dal progetto per la Triennaledel ’64 al monumento di Segrate, al blocco del Gallara-tese si proponeva come connessione di estremi indicibi-li – memoria e storia, segno e senso, soggetto e alterità– ora si spezza e vola nello spazio, portandovi i fram-menti di una dolorante volontà di conoscenza.

1o. Il rigorismo e l’astinenza. Verso gli anni ’8o.

Declinare l’alfabeto alchemico proposto da AldoRossi come se si trattasse di un normale dizionario è pos-sibile solo bloccando la sua ricerca alle soglie della tau-tologia. «Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa...»:la «costruzione logica dell’architettura» di GiorgioGrassi si costringe alla pura reiterazione199. Se Rossi rap-presenta la sua accorata esplorazione di «origini» nonrinunciando a confessare il rinnovarsi dell’insuccesso,Grassi si acquieta nella ricerca di «essenze», di noume-ni estratti a forza da un’immobile catena di forme pri-marie. La logica coincide per lui con il classico: ma nonsi tratta del classico come rinuncia inappagante diGoethe, bensí della perfezione atemporale di Winckel-mann, identificata con le spettrali reiterazioni della Lan-gestrasse di Weinbrenner a Karlsruhe e con le immagi-

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ni laconiche di Hilberseimer. Tangente ai suoi inizi conla ricerca di Rossi, quella di Grassi, dopo alcuni progettiin collaborazione con questi – per un albergo al passoMonte Croce Comelico (1963), per un quartiere Ises aNapoli (1968), per il quartiere San Rocco a Monza(1966) – se ne distacca per una volontà di conoscenzaripiegata su se stessa. I progetti per un laboratorio perla fabbricazione di apparecchiature per ricerche biolo-giche a Paullo (1968), per il restauro del castello viscon-teo di Abbiategrasso (1970), per un’unità residenzialeancora ad Abbiategrasso (1972), per residenze sul fiu-me a Pavia (1970-73), per la scuola media di Tollo,interrogano, senza ricevere risposta, moduli tipologici edelementi primi quali la corte, il portico, la simmetria, lacostanza ritmica: l’aspirazione sembra essere quella allapagina bianca; la polemica contro ciò che Grassi chiamalo «sconnesso parodismo» si risolve in una ostentazio-ne di depauperate certezze.

Il fatto che ipotesi come quelle di Grassi possanoessere giudicate in contrasto con la cattiva città con-temporanea è significativo. Certo, il silenzio può esserefragoroso là dove domina il frastuono: rimane da vederese quel silenzio riesce a far veramente conoscere qual-cos’altro che non sia la semplice volontà di conoscere, ese la testimonianza che esso offre è capace di oltrepas-sare il semplice valore di sintomo.

Che il metodo di Aldo Rossi e quello di Grassi rie-scano a fare «scuola» non può meravigliare. Chi ad essisi appella è in genere ansioso di ritrovare una grandemadre, di riposarsi tornando al ventre dell’Architettura,di isolarsi dalle miserie del contingente. Il successodidattico dei due va quindi considerato come cartina ditornasole dell’angoscia e dei «vuoti di valori» che strin-gono dappresso le giovani generazioni, ma non giustifi-ca il tentativo di costruire una «tendenza» accomunan-do i vaganti segni rossiani alle ricerche di Leon Krier,

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all’eclettismo di Aymonino, alle eloquenze di Dardi, almacchinismo di Ludwig Leo o ai «monumenti continui»di Adolfo Natalini, come si è avuto modo di fare, sottola formula «Architettura razionale», alla XV Triennaledi Milano del ’73200. Per Rossi, responsabile del settoreinternazionale di architettura di quella Triennale, sitrattava di un grande collage virtuale, nei cui frammen-ti era letta la presenza di un surreale tecnicamente orga-nizzato; per i facili esegeti, di una nuova chiesa in cuibruciare incensi; per gli oppositori, di una «mostramodello Starace», di un ritorno a etimi pericolosamentememori della retorica dei regimi totalitari.

In realtà, non solo a Rossi, a Grassi o alle loro cer-chie immediate appartiene il tentativo di far parlarel’architettura con i soli suoi strumenti e solo di essi. Segli sviluppi degli aderenti al Grau, dopo il progetto pergli Archivi fiorentini, appaiono deludenti201, le ricerchedi Purini e Thermes, del gruppo romano Labirinto e diPaolo Martellotti in particolare, o di alcuni allievi diQuaroni si rivelano perlomeno parallele nello sforzo didefinire un universo che si specchi nei limiti della forma,per raggiungere, nei casi migliori, una autonomia dellalingua dialetticamente rapportata all’altro da sé, nei casipeggiori, a una segregazione presuntuosamente pagadella propria immobilità202.

Un’istanza inappagata di rigore, compensata daimprovvisi abbandoni lirici, si deposita nelle montagnedi carta disegnata prodotte da questi nuovi puristi. E siache essi – come Purini – si concentrino nella con-figurazione di «eventi» che saggiano la consistenza deimateriali del comporre, con l’occhio fisso a quanto daquest’ultimo non è controllabile, o che – come il Labi-rinto nella ristrutturazione della Calcografia Nazionalea Roma (1973-75)203 – sperimentino le valenze insitenella calcolata distorsione delle strutture visive, quell’i-stanza si rivela espressione di un «contegno» autoim-

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postosi, al limite del moralismo. «Per mettere fuorigioco una generazione – hanno scritto Purini e Ther-mes204 – basta fare in modo che i giovani coltivino il mitodi una totale «integrità» morale: così non saprannoaccettare e praticare il compromesso, non certo quellospicciolo, ma quello nel quale si realizza la definizionedella politica come arte del possibile, come dialettica delreale». Rituale diviene la puntigliosa indagine delle leggicostitutive della forma. Del resto, un’«integrità» senzascopo, e per di piú senza sbocchi sociali, non può noncolorarsi di mistico. Il rigore delle «parole» confina conil «frivolo»: solo al disegno esso fa appello. L’astinenzaprofessionale cui, per ragioni oggettive e soggettive, talegenerazione sembra condannata, sollecita viaggi dellaragione ai confini del lecito: nell’«architettura disegna-ta» – approdo e prigione di chi vorrebbe poter esclamare«e anch’io son Piranesi» – si ammassano pratiche nar-cisiste ma anche appelli a una totalità di valori altrimentiinattingibile. Le atmosfere kafkiane di questi talvoltaraffinati universi grafici hanno qualcosa di coerente (ditroppo coerente): nel vuoto, si fanno risuonare parole esi enunciano superflue leggi.

Che tutto ciò, tuttavia, sia capace di creare un climaatto alla riproduzione e alla vita autonoma di quei ritua-li è dimostrato dall’impostazione di progetti come ilpiano particolareggiato della nuova Università di Ca-gliari (1977-78), del gruppo coordinato da M. LuisaAnversa e Marcello Rebecchini, o dal risultato di con-corsi come quelli per il centro direzionale di Firenze(1977) e per la realizzazione di una piazza nell’area del-l’ex panificio militare di Ancona (1978). L’occasione fio-rentina non dà piú luogo a filosofemi sul destino del«terziario» o ad organismi preoccupati di comprimere insé nuclei di ristrutturazione territoriale. Marco Porta,insieme a Purini, Emilio Battisti, Cesare Macchi Cassiae collaboratori, tenta con il suo progetto di entrare in

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sintonia sia con il sistema universitario di Gregotti,adiacente all’area del nuovo centro direzionale, sia conle tracce incise nel territorio dalla memoria. Ne emergeuna sommatoria di temi: la rotazione degli assi, la varia-zione del confine murato, i caposaldi emergenti da unideale centuriatio. E che gli etimi desumibili dalle ricer-che di Rossi, di Gregotti, di Purini possano essere con-nessi a formare un lessico lo dimostrano i progetti delgruppo Vernuccio, del gruppo Rosa - Cornoldi - Sajeva- Manlio Savi, del gruppo Polesello, e in qualche modoanche del gruppo Angelini-Dierna-Mortola-Orlandi.

Rispetto ai grandi concorsi italiani del dopoguerra, indefinitiva, quello per il centro direzionale di Firenze –caratterizzato da un bando che sembra redatto apposi-tamente per consigliare ai concorrenti la via del-l’astrazione205 – non dà luogo a un dibattito fra ipotesidivergenti, né a significativi ripensamenti metodologicio linguistici: alla «maniera» di se stessi ricorrono i con-correnti piú prestigiosi, come Giuseppe e AlbertoSamonà, Aymonino e Rossi, Fiorentino e Anversa, epersino James Stirling, che appare qui associato al grup-po Castore.

Invero, persino l’architettura disegnata è un abitotroppo stretto per contenere gli universi della totalitàdella forma cui mira un umanesimo nato dalla forzataaccettazione della marginalità della lingua206.

Si può certo andare piú in là con la coerenza rispet-to ai propri assunti, si può fare delle forme architetto-niche un paesaggio immaginario libero dal peso dellamateria, si può esprimere con gli strumenti tradizionalidell’incisione, dell’acquarello, dell’olio, la segreta aspi-razione a rivivere – necessariamente nel sogno – miti-che stagioni governate dalle parole degli dèi. Ed ecco checon indubbia maestria Massimo Scolari mette in scenale proprie sublimazioni207, mentre con maggior o mino-re abilità grafica una schiera di giovani invade di fogli

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onirici le gallerie private italiane, subito ad essi apertenella speranza di formare un nuovo circuito di mercato.A Roma, a Bologna, a Milano (ma anche a New York),le mostre di disegni e incisioni di Rossi, Purini, Scola-ri, Martellotti, Dario Passi si susseguono, mentre gli«Incontri d’Arte» possono addirittura giungere, nel1977-78, a indire un concorso – «Roma interrotta» –con cui si invita la nuova internazionale dell’immagina-rio a misurare le proprie disseminazioni fantastiche coni luoghi memorizzati dalla pianta del Nolli208. Il «biso-gno di architettura» sopravvive cosí in un vuoto pneu-matico, stimolando abili collages (pensiamo a un Nico-la Pagliara), sperimentalismi impazienti, inni a contegni«classici», canti all’effimero, «postume» disinibizioni209.

Costretti ad «azioni parallele», i protagonisti dellarecente vicenda architettonica rimangono cosí in bilicosul crinale che separa il «locus solus» destinato all’au-toriflessione dall’agorà risonante di frastuoni. Ma ilrisultato del loro suddividere, del loro estenuare o delloro aggredire i materiali della forma e della storia nonè senza conseguenze. L’antica disciplina chiamata«architettura» vede disporre i propri frantumi su untavolo da gioco intorno al quale nuovi giocatori si accin-gono a dare concretezza, con quei lacerti disseminati, a«nuove tecniche». Nessuna disperazione, di fronte alcumulo di macerie che rimane dopo la dissoluzione dellecertezze che avevano aiutato a mantenere insieme modidi intervento capaci solo di riprodurre se stessi. Il pro-blema è come controllare le divaricazioni che spezzanoquella disciplina, evitando di considerarle baratri daosservare con occhi allucinati o in cui sprofondare conangoscia. Di fronte a un «potere» che si articola par-lando più dialetti, nessuna «sintesi» tiene piú; tantomeno quella che dal tema della forma punta diretta-mente al problema della riforma. Non «rifondando»,quindi, né confondendo il piacere con il gioco, la domus

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aurea del Bauen è recuperabile. «Senza casa» è neces-sario procedere.

Giunti agli inizi degli anni ottanta, tutto ciò che hacostituito l’oggetto di questa storia appare, rispetto ainuovi compiti che si profilano, come un prologo «innegativo», di cui è necessario spezzare le resistenze. Le«costruzioni deliranti» di cui abbiamo tentato di narra-re la vicenda si sono diffratte in piú linguaggi – gestio-ne urbana, tecniche di riuso, economia edilizia, model-listica alle varie scale, giochi linguistici. L’enfasi ini-zialmente posta sul «progetto» si è mutata in «critica delprogetto», in crisi dei modelli, in ineffettualità delleparole d’ordine: anche questo è un risultato non tra-scurabile dei travagli intellettuali della cultura ar-chitettonica italiana degli ultimi decenni.

1 Il ciclo storico che ci apprestiamo ad analizzare non è stato anco-ra fatto oggetto di costruzioni critiche di sufficiente ampiezza. Limi-tandoci ai testi di carattere generale apparsi dopo il 1968, ricordiamocomunque l’agile e orientata sintesi di v. gregotti, Orientamenti nuovinell’architettura italiana, Milano 1969; il volume di aa.vv., Il dibattitoarchitettonico in Italia 1945-1975, Roma 1977; il saggio di a. belluz-zi, Il percorso dell’architettura, in aa.vv., L’arte in Italia nel secondodopoguerra, Bologna 1979; il catalogo ’28-’78 Architettura. 5o anni diarchitettura italiana, Milano 1979; il saggio di g. canella, Figura e fun-zione nell’architettura italiana dal dopoguerra agli anni Sessanta, in «Hin-terland», 198o, n. 13-14, pp. 48 sgg.; il volume di C. de seta, L’ar-chitettura del Novecento, Torino 1981. Cfr. inoltre aa.vv., Architettu-ra italiana anni sessanta, Roma 1972 e il numero monografico Italie ’75della rivista «L’architecture d’aujourd’hui», 1975, n. 181. Esistono pe-raltro bilanci e cataloghi relativi a singole città o regioni, come, perMilano, il catalogo Milano 70/70, Milano 1972; m. grandi e a. prac-chi, Milano. Guida all’architettura moderna, Bologna 198o, e il volumedi e. bonfanti e m. porta, Città, museo e architettura. Il gruppo BBPRnella cultura architettonica italiana 1932-1970, Firenze 1973, che, puressendo una monografia sul gruppo milanese, costituisce un notevolesforzo di connessione critica dell’opera dei Bpr al contesto italiano einternazionale. Per Roma, cfr. g. accasto, v. fraticelli e r. nicoli-

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ni, L’architettura di Roma capitale, 1870-1970, Roma 1971 e i. de guit-try, Guida di Roma moderna, Roma 1978. Sulla situazione toscana, cfr.g. k. könig, Architettura in Toscana 1931-1968, Torino 1968 e Itinera-rio di Firenze moderna, Firenze 1976. Per Venezia cfr. p. maretto,L’architettura a Venezia nel xx secolo, Genova 1969. Una storia deldibattito urbanistico è nel volume di m. fabbri, Le ideologie degli urba-nisti nel dopoguerra, Bari 1975.

2 Cfr. Sistemazione delle Cave Ardeatine, in «Metron», 1974, n. 18(progetto finale, dopo il concorso del 1944 e il concorso di secondogrado); ivi, 1952, n. 45, pp. 17-23, e l. quaroni, Il mausoleo delleArdeatine, in «Il cittadino», 2o aprile 1949. La cancellata d’ingresso èdi Mirko Basaldella, il gruppo scultoreo di Francesco Coccia. Sulmonumento dei Bpr, cfr. e. peressutti, Dedica, in «Casabella», 1946,n. 193, p. 3, e bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp. 1o9sgg. Il monumento dei Bpr del ’46, deteriorato, viene sostituito nel ’50con una struttura bronzea e basamento in marmo di Carrara: nel 1955il monumento viene reintegrato nei suoi caratteri originari.

3 Ibid.4 Al Convegno (14-16 dicembre 1945) sono presenti l’Apao, il

gruppo Pagano di Torino, l’Msa di Milano, l’Inu. Fra le relazioni lettericordiamo m. ridolfi, Appunti sui provvedimenti urgenti per la rico-struzione e sull’orientamento della unificazione e tipizzazione nell’edi-lizia; p. l. nervi, Per gli studi e la sperimentazione nell’edilizia; b.zevi, L’insegnamento delle costruzioni di guerra americane per l’Italia,in Atti, fasc. 3. Nello stesso fascicolo è l’intervento del cattolico f.vito La demanializzazione delle aree fabbricabili, che avanza un’ipo-tesi tesa all’eliminazione della rendita edilizia urbana. Cfr. anche, acura dell’Inu, Relazione a cura della Commissione per lo studio dei pro-blemi del piano regionale, ibid., fasc. 1, pp. 30 sgg. Cfr. inoltre e. n.rogers, Introduzione al tema «Provvedimenti urgenti per la ricostru-zione», ibid., pp. 1 sgg. ora in Esperienza dell’architettura, Torino1958, pp. 109 sgg.

5 g. de finetti, Della proprietà delle aree nei riflessi delle costruzioni,in Atti, fasc. 6, pp. 9 sgg. De Finetti si mostra qui coerente con le pro-prie riflessioni sulla città e su Milano iniziate negli anni venti. Era peròdifficile, nel ’45-50, seguire gli studi di De Finetti sulla fisiologia urba-na, specie quando questa si esprimeva nel progetto della «Strada Lom-barda» (vedila in «La città. Architettura e politica», 1946, n. 2), o inquelli per la Fiera e per le piazze Beccaria e Fontana a Milano, piú volterielaborati fra il ’46 e il ’51. (Cfr. la raccolta della rivista cit., dal n. 1del 1945 al n. 3-4 del 1946, e il testo di di g. de finetti, Milano risor-ge, scritto fra il 1942 e il 1951, ora in Milano. Costruzione di una città,Milano 1969). Cfr. aa.vv., Giuseppe de Finetti. Progetti 192o-1951, Mi-lano 1981 e renato airoldi, «Forma urbis Mediolani»: una illusione ari-

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stocratica, in «Casabella», 1981, n. 468, pp. 34-43. De Finetti, che nonrisparmia le sue ironie né a Le Corbusier né a Bottoni, non potevacomunque essere accusato, per il suo gusto «neoclassico», di connivenzecon il passato regime: antifascista già negli anni trenta, è iscritto, insie-me alla moglie Thelma, al Partito d’Azione. Cfr., oltre allo Zibaldonedi De Finetti (Archivio De Finetti, Triennale di Milano), l’intervistaa Thelma Hauss del 29 ottobre 1981 di Marisa Macchietto (Diparti-mento di Storia dell’Architettura, Venezia). Si noti che fra gli scrittidi Loos tradotti in italiano da De Finetti è Gli inutili (in «Paese libe-ro», 2 giugno 1947), contenente, com’è noto, un violento attacco alWerkbund; e si cfr., dello stesso De Finetti, La Triennale e l’utilità, in«24 ore», 23 e 26 giugno 1951.

6 Cfr. a. della rocca, s. muratori, l. piccinato, m. ridolfi, p.rossi de paoli, s. tadolini, e. tedeschi e m. zocca, Aspetti urbanisti-ci ed edilizi della ricostruzione, Roma 1944-45.

7 p. gazzola, Le vicende urbanistiche di Milano e il piano A.R., in«Costruzioni-Casabella», 1946, n. 194, pp. 2 sgg.; c. perelli, Studi peril nuovo piano regolatore di Milano, in «Metron», 1946, n. 1o, pp. 18-49). Vedi anche bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp.104-5 e scheda 72. Del gruppo ar fanno parte Albini, Bottoni, i Bpr,Gardella e Mucchi.

8 Per il centro direzionale di Milano viene bandito un concorso nel1946, cui partecipa anche il gruppo italiano dei Ciam. cfr. «Metron»,1948, n. 30, pp. 15 sgg., con articoli dell’assessore all’urbanistica, M.Venanzi (p. 15), e di l. piccinato, il concorso di idee per il centro dire-zionale di Milano, pp. 14-17.

9 Cfr. ivi, n. 23-24 e i. insolera, Roma moderna, Torino 19763, p.18o, nota 3.

10 Cfr. m. visentini, Presentazione del Piano Piemontese e g. asten-go, m. bianco, n. renacco e a. rizzotti, Piano Regionale Piemontese,nel fascicolo monografico di «Metron», 1947, n. 14.

11 Cfr. könig, Architettura in Toscana cit., pp. 50 sgg.12 b. zevi, Saper vedere l’architettura, Torino 1948. La rivista

«Metron» inizia le sue pubblicazioni nell’agosto 1945 con la direzio-ne di Luigi Piccinato e Mario Ridolfi. Nello stesso 1945 esce il volu-me di L. piccinato, Urbanistica, per le edizioni di «Metron», mentrenel 1946 Carlo Pagani, Lina Bò e Zevi dànno vita a un rotocalco didivulgazione, «A-Attualità, Architettura, Abitazione, Arte». Per leposizioni di Zevi in quegli anni, si veda anche il suo articolo L’archi-tettura organica di fronte ai suoi critici, in «Metron», 1947, n. 23-24. Cfr.inoltre, per il dibattito fra il ’43 e il ’46, d. borradori e m. porta,Architettura e politica italiana 1943-46, Milano 1966.

13 Cfr. b. zevi, Architettura e storiografia, Milano 1951; BenedettoCroce e la riforma architettonica della storia architettonica, in «Metron»,

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e in Pretesti di critica architettonica, Torino 196o; Uno storico ancora vita-le: Franz Wickhoff, in «Annuario dell’Istituto Universitario di Archi-tettura di Venezia» e in Pretesti cit.; Il rinnovamento della storiografiaarchitettonica, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», vol.XXII, serie II, 1954, fasc. 1-2. Cfr. inoltre il volume autobiograficoZevi su Zevi, Milano 1977.

14 Dichiarazione programmatica dell’Associazione per l’architettu-ra organica, in «Metron», 1945, n. 2, pp-75-76.

15 L’indice della «Domus» di Rogers (redattore capo Marco Zanu-so) è significativo: vi si legge uno sforzo costante di legare l’attualitàalla storia e l’architettura ai temi piú complessi della cultura in tutti icampi. In essa appaiono articoli di Lionello Venturi (1946, n. 205) sul-l’arte astratta, di Dino Risi sul cinema, di Malipiero sulla musica, diDorfles sulla pittura contemporanea, di Ballo, di Ragghianti, di ElioVittorini, di Starobinski (Le rêve architecte, les intérieurs de Franz Kafka,1947, n. 217), di Roberto Rebora, di Sergio Solmi. Nel 1948, con iln. 226, la direzione passa a Gio Ponti, che non annulla la curiosità cul-turale della rivista, pur procedendo a renderla piú salottiera.

16 Un’autentica storia del neorealismo architettonico italiano non èancora stata scritta. Cfr. comunque, oltre alla bibliografia su Ridolfi eQuaroni, che diamo a parte, l. quaroni, Il paese dei barocchi, in «Casa-bella», 1957, n. 215 (autocritica a proposito del Tiburtino); p. porto-ghesi, Dal neorealismo al neoliberty, in «Comunità», 1958, n. 65; id.,La scuola romana, ivi, 1959, n. 75; m. manieri-elia, Il dibattito archi-tettonico degli ultimi venti anni, I: Il primo decennio dalla Liberazione,in «Rassegna dell’Istituto di Architettura e Urbanistica», 1965, n. I,pp. 76-96; accasto-fraticelli-nicolini, L’architettura di Roma capi-tale cit., pp. 523 sgg.; g. de giorgi, Breve profilo del dopoguerra: daglianni della ricostruzione al «miracolo economico», in aa.vv., Il dibattitoarchitettonico in Italia cit., pp. 23 sgg.; g. massobrio e p. portoghesi,Album degli anni Cinquanta, Roma-Bari 1977, pp. 201 sgg.; canella,Figura e funzione cit.

17 Sul concorso per la stazione di Roma e il progetto Quaroni-Ridol-fi, cfr. giuseppe samonà, I progetti per il completamento frontale dellastazione Termini, in «Metron», 1947, n. 21 (nello stesso fascicolo, l.piccinato, La stazione di Roma); v. fasolo, Il concorso per la nuova sta-zione di Roma, in «L’Urbe», 1947, n. 2 (interessante come voce di unesponente della cultura accademica); s. muratori, Concorso per il com-pletamento del fabbricato viaggiatori della nuova stazione di Roma-Ter-mini-Motto: UR, in «Strutture», 1947-48, n. 3-4, pp. 56-61 (analisi delprogetto Quaroni-Ridolfi: in esso appaiono già i motivi di «critica almoderno» che caratterizzeranno le successive posizioni di Muratori);m. tafuri, Ludovico Quaroni e lo sviluppo dell’architettura moderna inItalia, Milano 1964, pp. 87-89; accasto-fraticelli-nicolini, L’archi-

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tettura di Roma capitale cit., pp. 521-23; r. nicolini, Il concorso per sta-zione Termini, in «Controspazio», 1974, n. 1, p. 93.

18 Cfr. l. quaroni, Perché ho progettato questa chiesa, in «Metron»,1949, n. 31-32.

19 Cfr. tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 83-85 e a. de carm, Lachiesa di Francavilla a Mare, in «L’architettura cronache e storia»,196o, n-52.

20 Il concorso (di primo e secondo grado) per l’Auditorium di viaFlaminia a Roma (cfr. «Metron», 1951, n. 43, e «Architetti», 1952,n. 12-13), costituisce un’ulteriore occasione di confronto fra gli archi-tetti italiani, anche se con esiti assai meno clamorosi di quello per laStazione Termini. L’esibizionismo strutturale dei progetti del grup-po Morandi-Carrara-Maruffi e del gruppo Favini-Pallottini (primogrado) è certo superato dall’elaborato di Muratori, la cui organicitàsi stempera nel progetto di secondo grado. Va notato che i due pro-getti di Muratori appartengono al medesimo clima di ricerche docu-mentato dal progetto quaroniano per la chiesa di Francavilla: la vec-chia collaborazione fra Quaroni e Muratori dà qui ancora i suoi frut-ti. Come testimonianza di una scolastica fedeltà agli etimi elementa-risti, vanno piuttosto letti i progetti di Pio Montesi presentati almedesimo concorso.

21 Cfr. g. muratore, L’esperienza del Manuale, in «Controspazio»,1974, n. 1, pp. 82-92.

22 A cura di M. Ridolfi, M. Fiorentino, B. Zevi, C. Calcaprina, A.Cardelli. Cfr. anche m. ridolfi, Il «Manuale dell’architetto», in«Metron», 1946, n. 8, pp. 35 sgg.

23 i. diotallevi e f. marescotti, Il problema sociale costruttivo edeconomico dell’abitazione, Milano 1948, su cui vedi g. ciucci, Dalla casadell’uomo alla casa popolare, in g. ciucci e m. casciato, Franco Mare-scotti e la casa civile, 1934-1956, Roma 198o, pp. 7-20.

24 c. ceccucci, i. diotallevi e f. marescotti, Relazione sui pro-blemi dell’edilizia, in aa.vv., Il Piano del Lavoro, Conferenza economicanazionale della Cgil, Roma 1950, pp. 3-35.

25 Sull’opera di Marescotti, cfr. e. tadini, Storia e realtà del primoCentro Sociale Cooperativo «Grandi e Bertacchi», in «L’architettura cro-nache e storia», 1956, n. 13, pp. 482-89; il Quaderno 9, 1979, dell’I-stituto dipartimentale di architettura e urbanistica dell’Università diCatania; ciucci-casciato, Franco Marescotti cit., con la bibliografia pre-cedente. Cfr. anche il resoconto dell’incontro con Marescotti tenutonel maggio 1976 al Politecnico di Milano in «Hinterland», 198o, n.13-14, pp. 10-19.

26 La prima idea del qt8 è già in un progetto del 1934 di Bottoni,Pagano e Pucci per un quartiere sperimentale della VI Triennale diMilano. L’intera vicenda del qt8 viene seguita costantemente da

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«Metron»: cfr. QT8: un quartiere modello, ivi, 1946, n. 6, pp. 76-79;il numero speciale del 1948, n. 26-27; Il quartiere sperimentale dellaTriennale di Milano, ivi, 1951, n. 43, pp. 56-61. Cfr. inoltre e. n.rogers, Esperienza dell’ottava Triennale, in «Domus», 1947, n. 221.Cfr. anche gli articoli di g. canella e v. vercelloni, Cronache di 1oTriennali, in «Comunità», 1956, n. 38, pp. 44-52 e di f. buzzi ceria-ni e v. gregotti, Contributo alla storia delle Triennali, 2: Dall’VIIITriennale del 1947 alla XI del 1957, in «Casabella», 1957, n. 216, pp.7-12. Sull’opera di Piero Bottoni si veda il fascicolo monografico di«Controspazio», 1973, n. 4.

27 Per comprendere la politica urbanistica e edilizia dell’Ina-Casa èimportante risalire ai due fascicoli Ina-Casa. Suggerimenti, norme e sche-mi per la elaborazione e presentazione dei progetti. Bandi di concorso,Roma 1949, e Ina-Casa. Suggerimenti, esempi e norme per la progettazio-ne urbanistica. Progetti tipo, Roma 195o. L’azione di Arnaldo Foschi-ni, alla presidenza dell’ente, è determinante. Le opere di Foschini neldopoguerra – progetti per la sede della Banca d’Italia a Napoli(1949-55), per la chiesa dell’Immacolata all’Eur (1955), ecc. – riman-gono legate a formule accademiche, ma nella sua gestione dell’Ina-Casaè determinante un’ideologia paternalista che si salda al riscatto deglietimi popolari rivendicato dal neorealismo. (Cfr. aa.vv., ArnaldoFoschini. Didattica e gestione dell’architettura in Italia nella prima metàdel Novecento, Faenza 1979). Adalberto Libera dirige l’ufficio tecnicodell’Ina-Casa, e Foschini incarica Mario De Renzi, Cesare Ligini eRidolfi di elaborare progetti-tipo sulla base degli schemi prescelti. Ilquartiere Italia a Terni (1948-49), di Ridolfi e Frankl, è fra i primimodelli compiuti. Sull’Ina-Casa cfr. l. beretta anguissola, I 14 annidel piano Ina-Casa, Roma 1963; Ina-Casa, in Per l’Italia. Atti e documentidella ricostruzione italiana, vol. IV: Politica sociale, a cura della Demo-crazia cristiana, Roma 1953, pp. 87-118; f. gorio, Un parere sul PianoFanfani, in «Urbanistica», 1950, n. 3, ora in Il mestiere di architetto,Roma 1968; f. tentori, Dieci anni della gestione Ina-Casa: necessità diun dibattito costruttivo, in «Casabella», 1961, n. 248, pp. 52 sgg.; l.benevolo, L’architettura dell’Ina-Casa, in «Centro sociale», 196o, n.30-31, pp. 59 sgg., ora in L’architettura delle città nell’Italia contempo-ranea, Bari 1968.

28 Sull’opera di Quaroni, dagli anni trenta fino al ’64, cfr. tafuri,Ludovico Quaroni cit., dove si prendono in esame anche i progetti ela-borati insieme a Ridolfi, e a. bandera, s. benedetti, e. crispolti e p.portoghesi, Omaggio a Cagli. Omaggio a Fontana. Omaggio a Quaroni,catalogo della mostra (l’Aquila), Roma 1962. Scritti di Quaroni sonostati raccolti nel volume La città fisica, a cura di A. Terranova,Roma-Bari 1981. Sull’attività di Fiorentino negli anni quaranta e cin-quanta, cfr. f. gorio, Dieci anni di produzione coerente: opere dell’ar-

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chitetto romano Mario Fiorentino, in «L’architettura cronache e storia»,1959, n. 45. Su Ridolfi, cfr. i numeri 1 e 3, 1974, della rivista «Con-trospazio», a lui dedicati, e il catalogo Le architetture di Ridolfi e Frankl,a cura di Francesco Cellini, Claudio D’Amato e Enrico Valeriani,Roma 1979. Cfr. inoltre g. canella e a. rossi, Architetti italiani: MarioRidolfi, in «Comunità», 1956, n. 41, pp. 50-55; g. de carlo, Archi-tetture italiane, in «Casabella», 1957, n. 199, pp. 19-33; portoghesi,Dal neorealismo cit.; Una mostra e un convegno su Ridolfi e Frankl (rela-zioni al convegno del novembre ’79), in «Contropazio», 1979, n. 5-6,pp. 63 sgg.; f. cellini e c. d’amato, Il mestiere di Ridolfi, in La pre-senza del passato, La Biennale di Venezia, Milano 198o, pp. 68-71. L’in-teresse per l’opera di Ridolfi ha ripreso solo recentemente quota, finoa vederlo incluso fra i «padri» del Post-Modernism nella mostraorganizzata dalla Biennale di Venezia nel 198o alle Corderie dell’Ar-senale. Citeremo piú in là gli articoli dedicati alla sua produzione piúrecente. Sugli anni del Tiburtino, cfr. g. muratore, Gli anni della rico-struzione, in «Controspazio», 1974, n. 3, pp. 6-25, e g. monti, Le palaz-zine romane, ivi, pp. 2635. Sul Tiburtino, oltre all’articolo di quaro-ni, Il paese dei barocchi cit., cfr., sullo stesso n. 215, 1957, di «Casa-bella», c. aymonino, Storia e cronaca del quartiere Tiburtino; c. chia-rini, Aspetti urbanistici del quartiere Tiburtino; f. gorio, Esperienze d’ar-chitettura al Tiburtino. Cfr. anche, per le conseguenze di quell’opera,m. girelli, Dal Tiburtino a Matera, ivi, 1959, n. 231 e c. conforti,Carlo Aymonino: l’architettura non è un mito, Roma 198o, pp. 15 sgg.

29 È importante ricordare che Ridolfi e Frankl avevano progettatoin ogni blocco di viale Etiopia ambienti, ricavati a metà altezza, perattrezzature scolastiche e nidi d’infanzia. Le logge continue che inter-rompono le prime tre torri costituiscono la sola traccia di tale intentoprogettuale.

30 Cfr. de giorgi, Breve profilo del dopoguerra cit., p. 33.31 Cfr. v. gregotti, Alcune opere di Mario Ridolfi: case Ina a Ceri-

gnola, case Ina a Terni, casa di città a Terni, palazzina in via Vetulonia aRoma, in «Casabella», 1956, n. 21o.

32 Cfr. m. coppa, Il piano regolatore di Terni: parte seconda, in «Urba-nistica», 1962, n. 35, pp. 59 sgg.; v. fraticelli, Terni: progetto e città,in «Controspazio», 1974, n. 3, pp. 74-79.

33 Cfr . g. muratore, Le nuove carceri di Nuoro, ivi, pp. 44-49.34 L’attività di Carlo Mollino costituisce indubbiamente un «caso»

unico dell’architettura italiana. Aviatore acrobatico, disegnatore diaerei e di auto, appassionato di automobilismo e di fotografia, autoredi «invenzioni» brevettate, designer, Mollino ha di continuo conta-minato fra loro i suoi svariati interessi, compiacendosi di un ruolo dienfant terrible dell’architettura. Nei suoi arredi, nei suoi mobili, neisuoi oggetti, nelle sue foto, sperimenta una lingua che assorbe la lezio-

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ne surrealista – quella di Man Ray ma anche quella di Mirò – insiemea suggestioni da Gaudì, Mackintosh, Eames. Come architetto, dopo laStazione per slittovia, progetta a Torino il nuovo Teatro Regio, laCamera di Commercio e la sala da ballo Lutrario, dove l’omaggioall’immaginario non disdegna l’incontro con il Kitsch. Su Mollino,negli anni cinquanta, cfr. massobrio-portoghesi, Album degli anni Cin-quanta cit. e c. borngräber, Stilnovo. Design in den 5oer Jahren. Phan-tasie und Phantastik, Frankfurt 1979, pp. 14 sgg. Un rapido excursusdell’archivio Mollino è negli articoli di g. brino, Architettura a tempoperso. Hobby a tempo pieno, in «Modo», 1977, n. 4, pp. 43 sgg., e CarloMollino, in «Lotus», 1977, n. 16, pp. 122 sgg.

35 g. c. argan, Progetto e destino, Milano 1965, p. 90.36 Cfr. tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 1oo sgg. Prima di ade-

rire al movimento di Comunità, Quaroni collabora ad organizzazioniquali il Movimento di collaborazione civica e la Scuola per assistentisociali, con l’obiettivo di integrare la sociologia all’analisi urbana. Cfr.l. quaroni, Le indagini urbanistiche del centro di ricerche sociali, rela-zione al I Convegno nazionale dei tecnici socialisti, Milano, giugno1947 (inedito). Sull’atteggiamento negativo della sinistra italiana neiconfronti della sociologia, almeno fino al convegno su «Marxismo esociologia», organizzato nel 1959 dall’Istituto Gramsci, vedi l. balboe v. rieser, La sinistra e lo sviluppo della sociologia, in «Problemi delsocialismo», 1962, n. 3. Cfr. inoltre l. quaroni, m. l. anversa e altri,Indagine edilizia su Grassano, in Inchiesta parlamentare sulla miseria,Roma 1954, vol. XIII. Sintomatici, rispetto alle posizioni di Quaroniin questi anni, i suoi scritti, L’urbanistica per l’unità della cultura, in«Comunità», 1952, n. 13; La città, ivi, 1954, n. 26; L’architetto e l’ur-banistica, in aa.vv., L’architetto d’oggi, Firenze 1954.

37 Sulle relazioni fra le ideologie olivettiane e l’architettura, cfr. fab-bri, Le ideologie degli urbanisti nel dopoguerra cit.; Politique industrielleet architecture, numero monografico di «L’architecture d’aujourd’hui»,1976, n. 188. Cfr. inoltre b. caizzi, Gli Olivetti, Torino 1962 e le duetestimonianze, rese a distanza di sedici anni di tempo l’una dall’altra,di c. l. ragghianti, Adriano Olivetti, in «Zodiac», 196o, n. 6, e di l.quaroni, L’expérience de la Martella, in Politique industrielle cit., pp.46-47. Cfr. inoltre g. berta, Le idee al potere. Adriano Olivetti tra lafabbrica e la Comunità, Milano 198o.

38 Cfr. a. restucci, La dynastie Olivetti, ibid., pp. 2-6; id., Un rêveaméricain dans le Mezzogiorno, ibid., pp. 42-45. Cfr. inoltre, come docu-mento di idee meridionalistiche vicine a quelle di Olivetti, r. musat-ti, La via del Sud, Milano 1955.

39 Cfr. f. g. friedmann, Osservazioni sul mondo contadino nell’Ita-lia meridionale, in «Quaderni di sociologia», 1952, n-3, e Un incontro:Matera, Untra-Casas, Roma 1953, oltre ai fascicoli della Commissione

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per lo studio della città e dell’Agro di Matera pubblicati nel 1956 a curadell’Unrra-Casas: f. friedmann, r. musatti e g. isnardi, Saggi intro-duttivi; r. tentori, Il sistema di vita nella comunità materana; f. nitti,Una città del Sud.

40 g. baglieri, La controriforma fondiaria, in «Comunità», 1959,n. 6o.

41 Sul «caso» dei Sassi di Matera, cfr. n. mazzocchi alemanni e e.calia, Il problema dei Sassi di Matera, relazione per il Consorzio dellamedia valle del Bradano, 1950; f. aiello, Dai Sassi alla borgata, in«Nord e Sud», 955, n. 5, pp. 62-88; r. giura longo, Sassi e secoli,Matera 1966; m. fabbri, Matera, dal sottosviluppo alla nuova città,Matera 1971; gruppo «il politecnico», Rapporto su Matera. Una cittàmeridionale fra sviluppo e sottosviluppo, Matera 1971; m. tafuri e a.restucci, Un contributo alla comprensione della vicenda storica dei Sassi,Ministero dei Lavori Pubblici, Matera 1974; a. restucci, Città e Mez-zogiorno: Matera dagli anni ’5o al concorso sui «Sassi», in «Casabella»,1977, n. 428, pp. 36-43; id., Gli intricati destini di Matera, in «Spazioe Società», 1978, n. 4, pp. 93 sgg.; fascicolo monografico di «Storiadella città», 1978, n. 6.

42 Sulla Martella, cfr. g. de carlo, A proposito di La Martella, in«Casabella», 1954, n. 200; f. gorio, Il villaggio La Martella, autocriti-ca, ivi; tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 105-16; quaroni, L’expé-rience de la Martella cit.

43 Cfr. l. piccinato, Matera: i Sassi, i nuovi borghi e il piano regola-tore, in «Urbanistica», 1955, n. 15-16. Sui progetti per i nuovi quar-tieri materani, che in vario modo si collegano alla linea neorealista, cfr.l. quaroni, I concorsi nazionali per il quartiere Piccianello a Matera e peril Borgo di Torre Spagnola, in «L’architettura cronache e storia», 1955,n. 2. Il quartiere Spine Bianche, realizzato nel 1954-57 da Aymonino,Chiarini, Girelli, Lenci e M. Ottolenghi rappresenta un tentativo dirazionalizzazione degli etimi populisti, che avrà conseguenze sull’ope-ra dello stesso Aymonino: insieme ad altre opere contemporanee della«scuola romana», esso è indice di una maniera largamente diffusa neglianni cinquanta. Cfr. anche conforti, Carlo Aymonino cit., pp. 19-22.

44 Sul tema della «palazzina» romana cfr. i. insolera, Lo spaziosociale della periferia romana, in «Centro sociale», 1959-6o, n. 30-31,pp. 33-34; id., Roma moderna cit., pp. 98-99; p. portoghesi, Palazzi-na romana, in «Casabella», 1975, n. 407.

45 Sull’opera di Ugo Luccichenti, che esemplifica un’intera stagio-ne del professionismo romano, si veda m. manieri-elia, Ugo Lucci-chenti architetto, Roma 198o.

46 Su Moretti, cfr. g. ungaretti, 50 immagini di architettura di LuigiMoretti, Roma 1968; r. bonelli, Moretti, Roma 1975. Non è un casoche l’opera morettiana venga oggi rivalutata dagli ambienti statunitensi

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piú intellettualistici ed europeizzanti. Cfr. r. stevens, Introduction tol. moretti, The Values of Profiles and Structures and Sequences of Spa-ces, in «Oppositions», 1974, n. 4, pp. 110-11 (con la traduzione deidue testi di Moretti sulla modanatura e la struttura spaziale pubblicatioriginariamente in «Spazio», 1951-52, n. 6 e 1952-53, n. 7).

47 Cfr. g. c. argan, Gardella, Milano 1956, poi in Progetto e desti-no cit., pp. 353-73. Sull’opera di Samonà negli anni quaranta e cin-quanta cfr. g. ciucci, La ricerca impaziente: 1945-.r96o, in aa.vv., Giu-seppe Samonà. Cinquant’anni di architetture, Roma 198o2, pp. 57 sgg.

48 Sul palazzo dell’Ina a Parma cfr. e. gentili, La sede dell’Ina aParma, in «Casabella», 1954, n. 2oo e gio ponti, Lezione di una archi-tettura, in «Domus», 1952, n. 266. Sull’opera di Albini in generale , siveda e. gentili, Franco Albini, in «Comunità», 1954, n. 28; g. samonà,Franco Albini e la cultura architettonica in Italia, in «Zodiac», 1958, n. 3,pp. 83-115; v. viganò, Franco Albini. Trente ans d’architecture italienne,in «Aujourd’hui», 1961, n. 33; f. menna, Albini o l’architettura dellamemoria, in La regola e il caso, Roma 1970; m. fagiolo, L’astrattismomagico di Albini, in «Ottagono», 1975, n. 37, pp. 20-53; Testimonianzasu Franco Albini, a cura di F. Helg, in «L’architettura cronache e sto-ria», 1979, n. 288, pp. 551 sgg.; aa.vv., Franco Albini. Architettura e desi-gn 1930-1970, Firenze 1979 (con bibliografia completa).

49 La bibliografia sull’opera di Michelucci è vasta. Limitandosi allesole opere del dopoguerra di carattere generale, vedi almeno e. detti,Giovanni Michelucci, in «Comunità», 1954, n. 23, pp. 38-42; l. ricci,L’uomo Michelucci, dalla casa Valiani alla chiesa dell’autostrada, in«L’architettura cronache e storia», 1962, n. 76, pp. 664-89; GiovanniMichelucci, a cura di Franco Borsi, Firenze 1966; l. lugli, GiovanniMichelucci. Il pensiero e le opere, con introduzione di Fernando Cle-mente e selezione di scritti, Firenze 1966; m. cerasi, Michelucci, Roma1968; könig, L’architettura in Toscana cit.; «Quaderni dell’Istituto diElementi di Architettura», Facoltà di Architettura di Genova, 1969,n. 2; Michelucci, il linguaggio dell’architettura, a cura di M. C. Buscio-ni, Roma 1979, con testi di Michelucci, regesto e bibliografia. Oltrealle antologie di scritti michelucciani citate, vedi g. michelucci, Lanuova città, a cura di R. Risaloti, Pistoia 1975.

50 Interessanti, al proposito, gli articoli pubblicati da Michelucci nel1946 in «La nuova città»: Architettura vivente, n. 1-2, pp. 4-8; Archi-tettura vivente. Della collaborazione, n. 3, pp. 5-13; Architettura viven-te. Della città, n. 4-5, pp. 4-12; La nuova città?, n. 8, pp. 1-4; Troppaarte, n. 9-10, pp. 5-9.

51 Cfr. id., Come ho progettato la chiesa della Vergine, in «L’archi-tettura cronache e storia», 1957, n. 16, pp. 709-13, e l. lugli, La chie-sa della Vergine (SS. Maria e Tecla) a Pistoia nel quadro della tradizionecreativa di Giovanni Michelucci, ivi, pp. 704 sgg.

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52 Cfr. g. michelucci, Considerazioni sull’architettura. La nuovasede della Cassa di Risparmio di Firenze, in «Il Ponte», 1957, n. 11, pp.1663-73 e l. lugli, La Cassa di Risparmio a Firenze, in «L’architettu-ra cronache e storia», 1958, n. 31, pp. 8-16.

53 Cfr. g. samonà, Premesse alla nuova urbanistica, in «Accademia»,1945, n. 1, pp. 35-38, in cui è pubblicato il progetto per il quartieredel Lavinaio, e ciucci, La ricerca impaziente cit., pp. 59-6o.

54 Cfr. «Casabella», 1957, n. 216, pp. 16--35 e r. bonelli, Ediliziaeconomica: politica dei quartieri, in «Comunità», 1959, n. 70, pp. 52-54,con una critica sostanzialmente negativa.

55 Cfr. g. astengo, Falchera, in «Metron», 1954, n. 53-54, pp. 13-63.56 Si veda, per tali due quartieri, e. gentili, Unità residenziale «Villa

Bernabò Brea» a Genova, in «Casabella», 1955, n. 204, pp. 49 sgg.; M.zanuso, Unità d’abitazione orizzontale nel quartiere Tuscolano a Roma,ivi, n. 207, p. 30; a. libera, Il quartiere Tuscolano a Roma, in «Comu-nità», 1955, n. 31, pp. 46-49.

57 Cfr., ancora, gli articoli cit. di A. Restucci; tafuri, Ludovico Qua-roni cit., pp. 116 sgg.; r. olivetti, La Società Olivetti nel Canavese, in«Urbanistica», 1961, n. 33; e. n. rogers, L’unità di Adriano Olivetti,in «Casabella», 1962, n. 270, pp. 1-9; g. ciucci, Ivrea ou la commu-nauté des clercs, in «L’architecture d’aujourd’hui», 1976, n. 18, pp.7-12; berta, Le idee al potere cit.

58 Sull’opera di Figini e Pollini, cfr. e. gentili tedeschi, Figini e Pol-lini, Milano 1959; c. blasi, Figini e Pollini, Milano 1963; j. rykwert,Figini and Pollini, in «Architectural Design», 1967, n-7, pp. 369-78;Luigi Figini e Gino Pollini / architetti, a cura di Vittorio Savi, Milano198o (con la bibliografia precedente). Sui due architetti a Ivrea cfr.anche ciucci, Ivrea ou la communauté des clercs cit. e l. quaroni, Dueopere di Luigi Figini e Gino Pollini, in «L’architettura cronache e sto-ria», 1959, n. 48, pp. 390 sgg.

59 Cfr. tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 15o-51.60 Cfr. g. accasto, L’asilo di Canton Vesco, in «Controspazio»,

1974, n. 3, pp. 51-52.61 Sul programma di Adriano Olivetti, cfr. la testimonianza di Aldo

Garosci, in Ricordo di Adriano Olivetti, Milano 196o e restucci, Unrêve américain cit. Sulla fabbrica e il quartiere di Cosenza cfr. m. labò,Lo stabilimento e il quartiere Olivetti a Pozzuoli dell’ing. L. Cosenza, in«Casabella», 1955, n. 2o6; r. guiducci, Appunti dal giornale del diret-tore dei lavori, ivi; ciucci, Ivrea ou la communauté des clercs cit., p. 12.

62 p. fossati, Les translormations de l’image du produit, in «L’archi-tecture d’aujourd’hui», 1976, n. 188, p. 50.

63 b. huet, Des magasins pour ne rien vendre, ivi, p. 54.64 Si noti che anche la succursale Olivetti di Barcellona è affidata

ai Bpr (196o-64), che colgono l’occasione per dar vita ad un edificio asuo modo simbolico, mentre per gli edifici industriali in Argentina – a

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Buenos Aires, 1954-62 – e in Brasile – a San Paolo, 1954-59 – la dittasi affida alla sicura competenza di Marco Zanuso. Zanuso ed EdoardoVittoria realizzeranno poi anche le officine Olivetti a Marcianise (1969)e Crema (1970). Cfr. m. zanuso, Les machines à travailler, ivi, p. 66

65 Solo sei dei dodici fascicoli programmati vengono pubblicati dalgruppo tecnico per il coordinamento urbanistico del Canavese. Sulpiano di Ivrea cfr. n. renacco, Il piano regolatore generale di Ivrea, in«Urbanistica» 1955, n. 15-16; olivetti, La Società Olivetti cit.; c.doglio, Il piano della vita, in «Comunità», 1963, n. 109; tafuri, Ludo-vico Quaroni cit., pp. 116 sgg.

66 Produzione: La Meridiana Film. I soggetti dei tre cortometraggisono di G. De Carlo, C. Doglio, M. Gandin, M. L. Pedroni, L. Qua-roni e E. Vittorini.

67 g. de carlo, Intenzioni e risultati della mostra di urbanistica, in«Casabella», 1954, n. 203, p. 24.

68 Cfr. fabbri, Le ideologie degli urbanisti nel dopoguerra cit., pp. 64sgg. e m. allione, L’esperienza italiana di pianificazione, in Atti del Semi-nario sulla programmazione economica e l’assetto territoriale, in «Qua-derni dell’Istituto di Architettura e Urbanistica», Facoltà di Ingegne-ria, Bologna 1968.

69 Per il quartiere di Quaroni, cfr. r. bonelli, Quartiere residenzia-le di S. Giusto presso Prato, in «L’architettura cronache e storia», 1958,n. 3, e tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 152-54. Cfr., inoltre, l. qua-roni, Politica del quartiere, in «La casa», 1957, n. 4. Si noti che talesaggio è contemporaneo a quello, autocritico anch’esso, Il paese deibarocchi cit.

70 Cfr. id., Due chiese per Genova, in «Architettura cantiere», 1957,n. 15; e. n. rogers, Architetti laici per le chiese, in «Casabella», 196o,n. 238; tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 138-42.

71 Cfr. f. gorio, Idee in margine a via Cavedone, in «Casabella»,1962, n. 267, pp. 24 sgg., ora in Il mestiere di architetto cit., pp. 59 sgg.e m. vittorini, Produttività edilizia nello studio del progetto, in «Casa-bella», 1962, n. 267. Per l’atteggiamento di Benevolo, cfr. benevolo,L’architettura dell’Ina-Casa cit.

72 Cfr. h. selem, Opere dell’architetto Luigi Carlo Daneri: 1931-196o, in «L’architettura cronache e storia», 196o, n. 56, che, oltre aiquartieri Villa Bernabò Brea e Forte di Quezzi, pubblica le principaliopere di Daneri, mostrandone la coerenza con i lavori dell’anteguerra.Fra queste, notevoli appaiono, per rigore linguistico, le case a gradonisulla collina di Quinto (1952), il complesso condominiale al Lido(1952), il complesso La Foce (1934-58), il Palazzo Fassio, tutti inGenova.

73 Già nel ’49 Argan, facendo propri i temi espressi da Dewey inArt as Experience, indicava come strada da percorrere quella che pone

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a contatto museo e mondo della produzione. Cfr. g. c. argan, Il museocome scuola, in «Comunità», 1949, n. 3. Cfr. anche, sul tema, bon-fanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp. 150 sgg. Cfr. inoltrea. piva, La fabbrica di cultura. La questione dei musei in Italia dal 1945ad oggi, Milano 1978.

74 Cfr. g. c. argan, La Galleria di Palazzo Bianco a Genova, in«Metron», n. 45, pp. 25 sgg.; c. marcenaro, The museum Concept and theRestauration of the Palazzo Bianco, Genova, in «Museum», 1954, n. 4.

75 m. labò, Il Museo del Tesoro di San Lorenzo in Genova, in «Casa-bella», 1956, n. 213, p. 6; g, c. argan, Il Museo del Tesoro di S. Loren-zo a Genova, in «L’architettura cronache e storia», 1956, n. 14, pp.557 sgg.; p. a. chessa, Il Museo del Tesoro di S. Lorenzo, in «Comu-nità», 1957, n. 47; b. zevi, Museo di S. Lorenzo a Genova. Quattro tho-los moderne per un tesoro antico, in Cronache di architettura, Bari 1971,vol. II, n. 109; Franco Albini, architettura per un museo, Roma 198o.

76 Cfr. fagiolo, L’astrattismo magico di Albini cit., p. 52.77 Cfr. f. calandra, Uffici comunali a Genova, in «L’architettura

cronache e storia», 1956, n. 11; r. viviani e g. k. könig, Gli ufficicomunali di Genova di Franco Albini, in «Comunità», 1958, n. 64. Unpiccolo capolavoro albiniano a Genova è la sistemazione della vallettaCambiaso (1955-61), mentre piú di maniera appare il progetto di con-corso (in collaborazione con Mario Labò) per il Palazzo dell’Arte geno-vese (1957).

78 Cfr. g. mariacher, Il nuovo allestimento del Museo Correr, in«Comunità», 1953, n. 21, pp. 62 sgg., che sottolinea il carattere pro-vocatorio della sistemazione di Scarpa e g. mazzariol, Opere di CarloScarpa, in «L’architettura cronache e storia», 1955, n. 3, pp. 340 sgg.,che rimprovera a Scarpa l’eccessiva raffinatezza dispiegata al Correr.

79 Fra gli articoli a favore dell’opera dei Bpr al Castello, m. labò,A favore del Museo, in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 33,p. 154 e g. samonà, Un contributo alla museografia, in «Casabella»,1956, n. 211, pp. 51-53. Critico è l’articolo di r. pane, Riserve sulMuseo, in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 33, pp. 162-63,violentemente polemico è a. cederna, Il regista invadente, in «IlMondo», 9 ottobre 1956. Cfr., per gli intenti degli autori, belgiojo-so, peressutti e rogers, Carattere stilistico del Museo del Castello, in«Casabella» cit., pp. 63 sgg. Cfr. inoltre le acute pagine critiche di bon-fanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp. 15o sgg.

80 e. n. rogers, Le preesistenze ambientali e i temi pratici contempo-ranei, in «Casabella», 1954, n. 204, ora in Esperienza dell’architetturacit., pp. 304 sgg.; id., Il problema del costruire nelle preesistenze ambien-tali, relazione al Comitato nazionale di studi dell’Inu, marzo 1957, ibid.

81 Sulla Velasca, cfr. g. samonà, Il grattacielo piú discusso d’Europa,la Torre Velasca, in «L’architettura cronache e storia», 1959, n. 40, pp.

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659-74; p. c. santini, Deux gratte-ciel à Milan, in «Zodiac», 1957, n.1, pp. 200-5; g. m. kallmann, Modern Tower in old Milan, in «Archi-tectural Forum», 1958, n. 2, pp. 109-11; r. gardner-medwin, A fli-ght from Functionalism, in «The Journal of the Riba», 1958, n. 12, pp.408-14; CIAM ’59 in Otterlo, a cura di O. Newman, Stuttgart 1961,pp. 92-97, per la presentazione di Rogers della Torre a Otterlo e perla polemica lí sollevata; bonfanti-porta, Città, museo e architetturacit., pp. 156 sgg. Sull’opera dei Bpr cfr. anche l. belgiojoso, Intervi-sta sul mestiere d’architetto, a cura di C. De Seta, Roma-Bari 1978.

82 A tali opere va aggiunto il padiglione italiano all’Expo di Bruxel-les del 1958, per il quale i Bpr collaborano con Quaroni, A. De Carlo,Gardella e Perugini: in esso, il tema del «villaggio» viene razionaliz-zato in un’interpretazione polemica del tema e con intenti critici rispet-to agli stilemi dell’International Style dominanti a Bruxelles. L’operaè importante perché segna un momento di convergenza degli architet-ti italiani proprio quando le diverse ricerche stanno per divergereirrimediabilmente. Sul padiglione di Bruxelles cfr. Inchiesta sul Padi-glione italiano a Bruxelles, in «L’architettura cronache e storia», 1958,n. 36, pp. 399 sgg.; r. pedio, La crisi del linguaggio moderno all’Espo-sizione Universale di Bruxelles, ivi, pp. 384-95; b. zevi, Successo del-l’ultimo minuto, in «L’Espresso», 1o giugno 1958; tafuri, LudovicoQuaroni cit., pp. 154-58.

83 Sulla devozione di Rogers per Scotellaro è testimonianza l’edito-riale Le responsabilità verso la tradizione, in «Casabella», 1954, n. 202,pp. 2-3. È in esso che Rogers parla della saldatura in un’unica tradi-zione della cultura popolare (spontanea) e di quella di élite, come di un«dovere»: autenticità e capacità critica, in tale ipotesi, verrebbero afondersi. L’articolo è di grande importanza: esso esplicita tendenze giàvive nell’architettura italiana dando ad esse fondamenta teoriche, edè indice dei modi in cui la cultura settentrionale vive l’afflato populi-sta. Dentro tale ottica – populismo come garanzia di autenticità per unlinguaggio teso all’interpretazione critica – opere come quelle di Gar-della, di Bpr, di G. De Carlo negli anni cinquanta divengono assai piúcomprensibili.

84 Cfr. g. samonà, Una casa di Gardella a Venezia, in «Casabella»,1958, n. 220, p. 7; g. mazzariol, Umanesimo di Gardella, in «Zodiac»,1958, n. 2, pp. 91-110; r. pedio, Due nuove opere di Ignazio Gardella,in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 29, pp. 729-41.

85 argan, Progetto e destino cit., p. 370.86 e. n. rogers, Continuità 0 crisi, in «Casabella», 1957, n. 215.

Nello stesso fascicolo, insieme alla lettera a Gregotti che accompagnai grafici e le foto della Bottega di Erasmo (r. gabetti e a. iso la, L’im-pegno della tradizione), viene pubblicato l’articolo di risposta di v. gre-gotti, L’impegno della tradizione. In una lettera al direttore, interven-

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gono Gabetti e Isola («Casabella», 1957, n. 217), cui risponde Rogersnella stessa rivista (Risposte ai giovani), che invita a una «vigile mode-stia» e a «una chiara delimitazione dei nostri atti», prendendo comun-que le distanze dai difensori del «formalismo modernistico». Tutti que-sti testi sono stati ripubblicati in «Controspazio», 1977, n. 4-5, pp. 84sgg., insieme agli articoli di c. d’amato, La «ritirata» italiana dal Movi-mento Moderno: memoria, storia e questioni di stile nell’esperienza del neo-liberty, pp. 50-51 e di f. cellini, La polemica sul neoliberty, pp. 52-53.Per l’opera del gruppo torinese, fino al 1971, cfr. Gabetti, Isola, Rai-neri, Chiasso 1971.

87 È ancora interessante, al proposito, l’articolo di m. bellini, r.orefice e l. zanon dal bo, I baroni rampanti del movimento moderno.3 generazioni di architetti nel dopoguerra italiano, in «Superfici», 196o,numero speciale, pp. 23-30; poi ivi, 1961, n. 1, pp. 7-9. L’articolo e larivista, oscillanti fra il pensiero di Adorno, quello fenomenologico, equello del cattolicesimo progressista, sono indici del nuovo clima cheinforma i giovani milanesi, oltre che di un’impazienza nei confronti delcenacolo di «Casabella». È comunque interessante che in quel saggiosi parli di «tonalità manomessa» e di «inimitabile perfidia» per le recen-ti esperienze milanesi, novaresi e torinesi.

88 e. n. rogers, Ortodossia dell’eterodossia, in «Casabella», 1957, n.216, pp. 2 sgg.

89 Cfr. a. rossi, Il passato e il presente della nuova architettura, ivi,1958, n. 219, in cui si ilIustra la casa a Superga di Giorgio Raineri,un’abitazione con scuderia a Milano di Gae Aulenti e le case in duplexa Cameri di Gregotti, Meneghetti e Stoppino.

90 Cfr. e. n. rogers, Auguste Perret, Milano 1955, e v. gregotti,Classicità e razionalismo di Auguste Perret, in «Casabella», 1959, n.229, pp. 6-11.

91 Va però notato che una prima lettura dell’apporto di Muzio è nelsaggio di canella-rossi, Architetti italiani: Mario Ridolfi cit. La pro-duzione di Muzio nel dopoguerra non raggiunge piú i risultati conse-guiti nelle opere degli anni venti e trenta: il maestro della Ca’ brütasopravvive a se stesso nella Basilica dell’Annunciazione a Nazareth(1959-69) e nell’Albergo Casa Nova a Betlemme (198o). Ma nell’edi-ficio della Banca Commerciale in via Borgonuovo a Milano (1959-69)si assiste a un exploit singolare: nella facciata del corpo aggiunto su viadei Giardini, una leggera struttura metallica, sovrapposta al prospettoin pietra, viene modulata con soluzioni che sembrano fare il verso amotivi ridolfiani. Cfr. Giovanni Muzio, opere e scritti, a cura di G. Gam-birasio e B. Minardi, Milano 1982. Fra gli scritti di Muzio del dopo-guerra particolarmente interessante è Ricostruzione e architettura(discorso inaugurale tenuto il 5 novembre 1947 al Politecnico di Tori-no), ora in Giovanni Muzio cit., pp. 261-81.

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92 r. banham, Neoliberty. The Retreat from Modern Architecture, in«The Architectural Review», 1959, n. 747. Contro Banham insorgeRogers con l’editoriale L’evoluzione dell’architettura, risposta al custodedei frigidaires, in «Casabella», 1959, n. 228, mentre a piú riprese inter-viene Zevi (L’andropausa degli architetti moderni italiani, editoriale di«L’architettura cronache e storia», 1959, n. 46, e Torniamo al Liberty,in «L’Espresso», 24 maggio 1959), contro le ricerche del nuovoambiente settentrionale. A Banham rispondono anche Portoghesi, in«Comunità», 1959, n. 72 e i giovani della rivista «Superfici». Cfr. m.bellini, r. orefice e l. zanon dal bo, Cavalieri, libertini e FrèresMaçons sulla scena milanese, ivi, 1961, n. 1, pp. 39-40; r. orefice, Para-bola di intermezzo su Cavalieri e Baroni, ivi, pp. 40-41; id., Trucchi e gala-teo di un «Aufklärung» milanese, ivi, pp. 41-46. I tre articoli citati eranoraccolti sotto un unico, significativo titolo: Un inquisitore da passeggio.Sul fenomeno neoliberty cfr. anche il dibattito pubblicato in «Casa-bella», 1967, n. 318.

93 Cfr. Nuovi disegni per il mobile italiano, catalogo della mostra,Milano 196o, con articoli di Gregotti, Rossi, Gabetti, Isola e Canella.Il piú significativo è quello di g. canella, La prova del nove, in cui sirivendica il poter «curiosare nel mondo poetico dei novecentisti» e siosserva che i «padri» che avanzano rimproveri di ateismo sono gli stes-si che avevano praticato la via della rappresentazione, in questo solo«sopravanzati» da «figli amorevoli, riconoscenti e comprensivi».

94 portoghesi, Dal neorealismo al neoliberty cit., ma anche id., L’im-pegno delle nuove generazioni, in Aspetti dell’arte contemporanea, catalogodella mostra (L’Aquila), Roma 1963. All’articolo di Portoghesi del ’58risponde quello di c. melograni, Dal neoliberty al neopiacentinismo?,in «Il Contemporaneo», 1959, n. 13. Cfr. anche f. tentori, D’oùvenons nous? qui sommes nous, où allons nous?, in Aspetti dell’arte con-temporanea cit.

95 Cfr. p. portoghesi, Architettura e ambiente tecnico, in «Zodiac»,196o, n. 7.

96 Si veda il volume autobiografico di p. portoghesi, Le inibizionidell’architettura moderna, Roma-Bari 1979. L’opera architettonica por-toghesiana, concentrata su una ricerca di modulazioni geometrichevariamente intrecciate, punta su una semantica della ridondanza cheha i suoi vertici in casa Papanice a Roma (1964-67), nella chiesa dellaSacra Famiglia a Salerno (1968-73), nella biblioteca e centro cultura-le di Avezzano (1970), fino a sposarsi con il Kitsch nel progetto perla Moschea e il Centro islamico a Roma (1977). Per tutte tali opere,è collaboratore di Portoghesi Vittorio Gigliotti (per la Moschea ha col-laborato Sami Mousawi). Se ha senso parlare di neobarocco per Porto-ghesi, esso va letto come gusto dell’eccesso privo di tensioni: nelle suearchitetture, la fluenza dei vortici o delle affabulazioni è comunque

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spoglia di storicismi ostentati, e si risolve in una labirinticità control-lata e accattivante di segni reificati malgré soi. Le opere di Portoghe-si sono raccolte nel volume, ricco di sconsiderati richiami al pensierodi Heidegger, di c. norberg-schulz, Alla ricerca dell’architettura per-duta. Le opere di Paolo Portoghesi e Vittorio Gigliotti, 1959-1975, Roma1975 e nel catalogo Paolo Portoghesi. Progetti e disegni 1962-1979,Firenze 1979.

97 Cfr. s. muratori, Architettura e civiltà in crisi, Roma 1963.98 Cfr. id., Studi per un’operante storia urbana di Venezia, Roma

196o; s. muratori, r. e s. bollati, g. marinucci, Studi per un’operantestoria urbana di Roma, Roma 1963; s. muratori, Civiltà e territorio,Roma 1967. Cfr., come esempio di estrapolazione muratoriana dall’a-nalisi urbana, i progetti presentati al concorso per il quartiere Cep alleBarene di San Giuliano, Venezia. Ma si vedano anche i progetti dellascuola muratoriana: l’edificio alla Trinità dei Pellegrini in Roma, diGianfranco Caniggia, o i progetti dello stesso Caniggia e del gruppoBollati per i nuovi uffici della Camera dei Deputati a Roma (cfr. m.tafuri, Il concorso per i nuovi uffici della Camera dei Deputati, Venezia1968, pp. 69-72). Il metodo analitico di Muratori è stato approfondi-to nei volumi di g. caniggia, Lettura di una città: Como, Roma 1963 eStrutture dello spazio antropico, Firenze 1976. Cfr. inoltre g. caniggiae g. l. maffei, Composizione architettonica e tipologia edilizia, vol. I,Venezia 1979.

99 Cfr. I piani regionali. Criteri di indirizzo per lo studio dei piani ter-ritoriali di coordinamento in Italia, Ministero dei lavori pubblici, Roma1952, e La pianificazione regionale, Inu, Venezia 1952. Cfr. inoltre fab-bri, Le ideologie degli urbanisti nel dopoguerra cit., pp. 55 sgg.

100 La storia del piano regolatore di Roma è stata tracciata conestrema minuzia nel n. 28-29, 1959, di «Urbanistica», e in particola-re nei saggi di l. benevolo, Le discussioni e gli studi preparatori al nuovoPiano Regolatore, di l. piccinato, L’esperienza del Piano di Roma, e dim. valori, Fare del proprio peggio. Cfr. inoltre l. benevolo, Osserva-zioni sui lavori per il P.R.G. di Roma, in «Casabella», 1958, n. 21o einsolera, Roma moderna cit. Un’antologia degli interventi del gruppocomunista al consiglio comunale è in p. della seta, c. melograni e a.natoli, Il Piano regolatore di Roma, Roma 1963. Cfr. inoltre, per glieventi fra il ’59 e il ’63, il n. 40, 1964, di «Urbanistica», e in partico-lare gli articoli di m. coppa, La lunga strada per il piano di Roma, di i.insolera e m. manieri-elia, Tre anni di cronaca romana e di m. girel-li, Il piano per l’attuazione della 167 a Roma.

101 Il Cet è formato da E. Lenti, R. Marino, L. Piccinato, V. Mona-co, L. Quaroni, S. Muratori, G. Nicolosi ed E. Del Debbio.

102 In «Urbanistica», 1959, n. 27. Vedilo ora in l. quaroni, Imma-gine di Roma, Bari 1969.

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103 Cfr. i. insoltra, Il concorso per la Biblioteca Nazionale di Roma,in «Casabella», 1960, n. 239, pp. 35-36; r. giura-longo, Una biblio-teca per Roma, in «Il Contemporaneo», 196o, n. 23; b. zevi, Bibliote-ca Nazionale a Roma. Tutti hanno superato tutto, in «L’Espresso», 6marzo 1970, ora in Cronache di architettura cit., vol. III, n. 304, pp.486-89.

104 Cfr. v. gregotti, La nuova sede dell’Inail a Venezia, in «Casa-bella», 196o, n. 244, pp. 4-13.

105 Cfr. conforti, Carlo Aymonino cit., pp. 30 sgg.106 Cfr. r. pedio, «Brutalismo» in lorma di libertà; il nuovo Istituto

Marchiondi a Milano, in «L’architettura cronache e storia», 1959, n. 40,e «The Architectural Review», 1961, n. 771, pp. 304 sgg. Un breveprofilo di Viganò è in p. c. santini, Incontri con i protagonisti: Vitto-riano Viganò, in «Ottagono», 1975, n. 39, pp. 72-77.

107 Cfr. id., L’architettura «milanese» di Caccia-Dominioni, in «Otta-gono», 1967, n. 6, pp. 91-94.

108 Sull’opera di Zanuso fino al ’57 cfr. v. gregotti, Marco Zanusoun architetto della seconda generazione, in «Casabella», 1957, n. 216, pp.59 sgg. e r. guiducci, Appunti sulla fabbrica di São Paulo in Brasile, ivi,pp. 66 sgg., che analizza uno dei piú notevoli progetti elaborati da Za-nuso per la Olivetti. Su Mangiarotti, vedi e. d. bona, Angelo Mangia-rotti: il processo del costruire, Milano 198o, con ampia rassegna della suaopera, dalla chiesa di Baranzate (1957) alla mensa Snaidero a Maiano(1978).

109 Cfr. j. rykwert, Tbe Work of Gino Valle, in «Architectural Desi-gn», 1964, n. 3, pp. 112 sgg.; f. dal co, Gino Valle, la necessità del-l’architettura, in «Lotus», 1976, n. 11, pp. 172 sgg,; Gino Valle archi-tetto, 1950-1978, Milano 1979 (con bibliografia).

110 L’opera di Libera, nel dopoguerra, rimane coerente alle premes-se tracciate negli anni precedenti il conflitto, segnate da una tendenzaall’«astrazione magica»: pensiamo al cinema Airone a Roma, al progettodi concorso per la sede della Dc all’Eur, al Palazzo della Regione aTrento (in collaborazione con Sergio Musmeci). Il purismo di Liberamantiene comunque qualcosa di inattuale, in bilico fra una distaccataraffinatezza e il «troppo semplice». Libera e De Renzi non a casorimangono fra i maestri romani meno ascoltati, negli anni cinquanta,dalle nuove generazioni, e su cui solo di recente è iniziata un’opera diripensamento. Su Libera cfr. Adalberto Libera (1903-1963), a cura diA. Alieri, M. Clerici, F. Palpacelli e G. Vaccaro, in «L’architetturacronache e storia», 1966, nn. 123-26 e 128-33; g. c. argan, Libera,Roma 1975; v. quilici, Adalberto Libera. L’architettura come ideale,Roma 1981.

111 Il ruolo svolto da Pier Luigi Nervi nella cultura architettonica ita-liana rientra solo parzialmente nella linea storica qui costruita. Il suo

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strutturalismo andrebbe studiato alla luce dei modi di produzione con-dizionati dai monopoli del cemento e del ferro, e in un ambito di con-siderazioni capace di connettere all’uso politico del ritardo tecnologi-co, cui si aggancia l’edilizia di massa, l’esibizione tecnologica di «ecce-zione» nelle attrezzature pubbliche. Comunque, è da sottolineare lacapacità inventiva rivelata da Nervi per strutture di grandi dimensio-ni: l’intuizione tecnologica prevale sempre in lui su ogni pretesa dioggettività. I suoi saloni al Palazzo delle Esposizioni di Torino(1948-50), il Lanificio Gatti a Roma (1951-53), la via Olimpica soprae-levata (1959), il Palazzo del Lavoro di Torino (196o) riscattano a livel-lo di «invenzione» una staticità che rimaneafona nelle opere in colla-borazione, come il grattacielo Pirelli, il Palazzetto dello Sport (1956-57,con Annibale Vitellozzi), il Palazzo dello Sport all’Eur (1958-59, conPiacentini). Si veda, di p. l. nervi, Arte o scienza del costruire?, Roma1954; Costruire correttamente, Milano 1955; Nuove strutture, Milano1963. Cfr. inoltre g. c. argan, P. L. Nervi, Milano 1955; j. joedicke,P. L. Nervi, Milano 1957; a. l. huxtable, P. L. Nervi, Milano 196o;Pier Luigi Nervi, a cura di P. Desideri, P. L. Nervi jr e G. Positano,Bologna 198o. Lo strutturalismo italiano ha inoltre offerto con la ricer-ca di Riccardo Morandi un contributo di eccezionale interesse, specieper le applicazioni del cemento precompresso, che, in opere come leautorimesse e i cinema a Roma, le aviorimesse a Fiumicino, e prin-cipalmente una serie di ponti e cavalcavia, raggiunge livelli di notevo-le suggestione formale. Cfr. g. boaga e b. boni, Riccardo Morandi, Mila-no 1962; l. vinca masini, Riccardo Morandi, Roma 1974.

112 Cfr. m. manieri-elia, Roma: Olimpiadi e miliardi, in «Urbani-stica», 196o, n. 32, pp. 105-19.

113 Cfr. sau, Una discussione sui problemi di architettura e di urbani-stica, Roma 196o, che raccoglie molti scritti dei membri dell’associa-zione.

114 Cfr. b. zevi, La morte del Ciam e la nascita dell’Istituto Naziona-le di Architettura, in «L’architettura cronache e storia», 196o, n. 51;id., Prospettive In/Arch anno II, ivi, 196o, n. .58; id., Sul «corporativi-smo» dell’In/Arch, ivi, 1961, n. 72.

115 Il primo progetto per La Rinascente di Roma viene pubblicatoin «Casabella», 1959, n. 233. Si veda, per la realizzazione, e. n.rogers, Un grande magazzino a Roma, in «Casabella», 1961, n. 257; p.portoghesi, La Rinascente in piazza Fiume a Roma, in «L’architetturacronache e storia», 1962, n. 75, pp. 602-18; b. zevi, La Rinascenteromana di Albini, in Cronache di architettura cit., vol. IV, n-386; r.banham, The Architecture of the Well-Tempered Environment, London1969, trad. it. Roma-Bari 1978, pp. 252-56; f. menna, La Rinascentedi piazza Fiume, in «Palatino», 1963, n. 1-4, ora in La regola e il casocit., pp. 101-12.

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116 Cfr. i testi della tavola rotonda di Lecce in «Urbanistica», 196o,n. 32, pp. 6-8.

117 Cfr. b. zevi, La figlia di Venezia, in «L’Espresso», 17 aprile196o; id., Viatico alle psicopatie lagunari, in «L’architettura cronachee storia», 196o, n. 57; l. benevolo, Un consuntivo delle recenti espe-rienze urbanistiche italiane, in «Casabella», 196o, n. 242; f. tentori,Un piano urbanistico per Mestre, in «Il Contemporaneo», 196o, n.27-28, pp. 124-37. Sul progetto di Quaroni (la cui relazione è in «L’ar-chitettura cronache e storia», 196o, n. 57), cfr. tafuri, Ludovico Qua-roni cit., pp. 158-69. Cfr. inoltre i. insolera, L’insegnamento delle città:la periferia di Venezia, in «Comunità», 196o, n. 83. Sono i tre proget-ti del gruppo Muratori a presentare un’alternativa al progetto del grup-po Quaroni. I due vecchi collaboratori si trovano ora in antitesi. Eppu-re, sia Muratori che Quaroni si appellano a letture della struttura urba-na di Venezia: Pertagli sincronici, Muratori; per sintesi diacronicaQuaroni. Il progetto del gruppo Muratori venne preso seriamente inconsiderazione quasi solo da tentori, Un piano urbanistico per Mestrecit., pp. 132 sgg.

118 Cfr. ilses, Nuova dimensione della città. La città-regione, atti delConvegno di Stresa, Milano 1962. Il punto della cultura urbanistica diquegli anni viene fatto al IX Congresso nazionale dell’Inu (Milano1962), specie nelle relazioni di G. De Carlo e S. Lombardini. Cfr. g.de carlo, Proposte operative, in «Urbanistica», 1963, n. 38 (che con-tiene anche le altre relazioni) e in «Casabella», 1962, n. 270. Cfr. anchel. semerani, Il IX Congresso Inu a Milano, ivi. Tra i commenti e le rea-zioni al Convegno di Stresa, cfr. b. zevi, Neotecnico a posteriori o pro-getto dinamico?, in «L’Espresso», 1961, ora in Cronache di architettu-ra cit., vol. IV, n. 405, pp. 363-65; f. tentori, Stasi e dinamica nel pano-rama italiano 1962, in «Casabella», 1962, n. 268; portoghesi, L’im-pegno delle nuove generazioni cit.; g. piccinato, v. quilici e m. tapu-ri, La città-territorio, verso una nuova dimensione, in «Casabella», 1962,n. 270.

119 Cfr. ivi, 1963, n. 282, con gli articoli di s. tintori, Lo stato attua-le degli studi, e di g. de carlo, Realtà e prospettive del primo schema; id.,La pianificazione territoriale urbanistica nell’area milanese, Padova 1966;v. vercelloni, Dal piano del ’53 al piano intercomunale, in «Casabel-la», 1979, n. 451-52, pp. 52-55.

120 Cfr. La città territorio. Un esperimento didattico sul Centro dire-zionale di Centocelle in Roma, a cura di C. Aymonino, Bari 1964, e larecensione di f. tentori, in «Casabella», 1964, n. 289. Per il clima diquegli anni, cfr. a. samonà, Alla ricerca di un metodo per la nuova dimen-sione, in «Casabella», 1963, n. 277; id., Il dibattito architettonico-urba-nistico oggi in Italia, in «Comunità», 1963, n. 115, pp. 68 sgg.; il fasci-colo n. 82-83, 1964, di «Edilizia moderna», dedicato a Architettura ita-

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liana 1963; i numeri 289 e 291, 1964, di «Casabella», dedicati alle ten-denze delle nuove generazioni. Come testimonianza del clima di spe-ranza dei primi anni sessanta, si veda l’appello del consiglio direttivodell’Inarch del 15 aprile 1962 e b. zevi, L’alienazione e la politica dicentrosinistra, in «L’architettura cronache e storia», 1962, n. 81, pp.146-47, e id., Gli architetti e la programmazione economica, ivi, 1962,n. 86, pp. 505-7. Sul tema dei centri direzionali, cfr. anche «Ca-sabella», 1962, n. 264, con gli articoli di A. Rossi, G. Amorosi, C.Aymonino, M. Tafuri, L. Calcagni e C. Carozzi; e g. canella, Vec-chie e nuove ipotesi per i Centri Direzionali, ivi, 1963, n. 275.

121 p. ceccarelli, Urbanistica opulenta, ivi, n. 278, pp. 5 sgg. Nelmedesimo fascicolo sono i progetti presentati al concorso per il centrodirezionale di Torino.

122 Cfr. c. aymonino e p. l. giordani, I centri direzionali, Bari 1967,e m. de michelis e m. venturi, Il centro direzionale di Bologna: la gestio-ne del problema urbano nel PCI, in «Contropiano», 1968, n. 3.

123 Cfr. r. banham, Megastructures. Urban futures of the recent past,London 1976, trad. it. Roma-Bari 198o.

124 Cfr., oltre alla bibliografia generale di cui a p. 451, nota 49,aa.vv., La chiesa dell’Autostrada del Sole, Roma 1964; p. portoghesi,La chiesa dell’Autostrada del Sole, in «L’architettura cronache e storia»,1964, n. 101, pp. 198-8o9; j. m. fitch, Church of the Autostrada, in«Architectural Forum», 1964, n. 1, pp. 101-9; b. zevi, Un compromessotra Medioevo e Wright, in «L’Espresso», 5 aprile 1964; «Chiesa e quar-tiere», 1964, n. 30-31, con articoli di L. Figini, G. Trebbi, G. Gre-sleri e G. Michelucci.

125 Per le ultime opere di Michelucci, cfr. aa.vv., La chiesa di Lon-garone, Firenze 1978, e Michelucci, il linguaggio dell’architettura cit.

126 Cfr. könig, Architettura in Toscana cit.127 Cfr. b. zevi, Michelangiolo in prosa, in «L’architettura cronache

e storia», 1964, n. 99, p. 651; p. portoghesi, Mostra critica delle operemichelangiolesche al Palazzo delle Esposizioni in Roma, ivi, 1964, n. 104,pp. 90-91; r. bonelli, La mostra delle opere michelangiolesche, in «Co-munità», 1964, n. 122, pp. 22 sgg.; aa.vv., Michelangelo Pop, in «Mar-catré», n. 6-7, pp. 125 sgg. Sul significato e i limiti della «critica ope-rativa», cfr. m. tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Roma-Bari198o5, pp. 161 sgg.

128 b. zevi, Architettura e comunicazione, in «L’architettura crona-che e storia», 1965, n. 122, p. 493 e cfr. r. pedio, Edificio per abita-zioni, uffici e negozi in via Campania a Roma, ivi, pp. 496-522.

129 I cinque esperti nominati nel novembre 1961 sono M. Fiorenti-no, P. M. Lugli, V. Passarelli, L. Piccinato e M. Valori.

130 Sull’Eur sono interessant, le analisi compiute nei primi anni ses-santa negli articoli di g. piccinato, Luci e ombre dell’Eur, in «Super-

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fici», 1963, n. 6, pp. 30-41 e L’Eur: una struttura direzionale in una vec-chia dimensione, in La città territorio cit., pp. 34-38.

131 Cfr. l. moretti, Nuovo quartiere Incis, nella zona Eur, in «LaCasa», 1962, n. 7, pp. 109-22.

132 Cfr. m. petrignani, Le cento città d’Italia: Roma, 2: Gli edificipubblici: la lunga attesa del compromesso, in «Controspazio», 1970, n.1-2, pp. 27-33.

133 Le ricerche e gli elaborati dello studio Asse sono raccolti in«L’architettura cronache e storia», 1975, n. 4-5, con saggi di L. Qua-roni, L. Passarelli, G. Scimemi, e un Itinerario cronologico urbanisticodal 1962 al 1975, di Edgardo Tonca, oltre alle relazioni tecniche edescrittive.

134 Una sintesi storica di tali avvenimenti è in l. bortolotti, Sto-ria della politica edilizia in Italia. Proprietà, imprese edili e lavori pubbli-ci dal primo dopoguerra ad oggi (1919-197o), Roma 1978. Cfr. anche a.acocella, L’edilizia residenziale pubblica in Italia dal 1945 ad oggi,Padova 198o.

135 Il quartiere Vigne nuove (piano di zona n. 7, Iacp), di Lucio Pas-sarelli (capogruppo), Fausto e Vincenzo Passarelli, Alfredo Lamber-tucci, Paolo Cercato, Enrico Censon, Valerio Moretti, Emilio Labian-ca e Claudio Saratti (1972-8o) è uno dei complessi piú riusciti della«nuova Roma» anche se con soluzioni figurativamente «facili». Dasegnalare, anche, il manieristico complesso di Vigna Murata a Roma,di Gianfranco Moneta e collaboratori (su una primitiva idea dello stu-dio Aua). Sull’attuazione della «167» a Roma, cfr. p. samperi, Il pianoper l’attuazione della legge 167 a Roma, in «Urbanistica», 1964, n. 40,ma si veda anche piú avanti e sopra, p-48o, nota 28. Cfr. inoltre gliarticoli Il problema edilizio a Roma, in «Parametro», 1979, n. 76-77,pp. 16 sgg., e, nello stesso fascicolo, la relazione del quartiere Lauren-tino, di Pietro Barucci, Alessandro De Rossi, Luciano Giovannini,Camillo Nucci e Americo Sostegni, pp. 36 sgg.

136 bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., p. 177.137 m. tafuri, Les «muses inquiétantes», ou le destin d’une généra-

tion de «Maîtres», in «L’architecture d’aujourd’hui», 1975, n. 181,pp. 14-33.

138 Le opere di Gardella degli ultimi anni sessanta e degli anni set-tanta sembrano voler recuperare l’olimpicità con cui le sue «revisioni»si erano confrontate con le lingue del costruttivismo e del surreale nellamensa Olivetti. Assai piú degli edifici per la Kartell a Binasco(1971-75), sono indicativi al proposito il progetto di concorso per ilTeatro Comunale di Vicenza (1968) e l’edificio per gli uffici tecnici del-l’Alfa Romeo ad Arese (1968-72) in cui Gardella colloquia con finez-za con un ulteriore pre-testo, la lingua dell’assolutismo geometrico. Lamaestria dell’organizzazione tipologica e la raffinatezza del dettaglio

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rimangono, insieme all’ascolto delle sollecitazioni della memoria, i«materiali» di Gardella, che si impegna anche in un progetto di ristrut-turazione dell’antico tessuto genovese con un piano particolareggiatoper i nuovi insediamenti universitari. Cfr. i. gardella e s. larini,Genova: un progetto per la città antica, in «Controspazio», 1974, n. 2,pp. 5 sgg.; p. c. santini, Incontri con i protagonisti: Ignazio Gardella, in«Ottagono», 1977, n. 46, pp. 42-49; g. c. argan, Il teatro di Gardel-la. Un progetto monumentale per Vicenza; in «Lotus», 1979, n. 25, pp.92 sgg.; Gardella (testo di un incontro del 1976 al Politecnico di Mila-no), in «Hinterland», 198o, n. 13-14, pp. 20 sgg.; p. farina, Il lasci-no del presente, in aa.vv., La presenza del passato cit., pp. 50-57;samonà, Ignazio Gardella cit.

139 Cfr. r. pedio, Edificio in piazza Meda a Milano, in «L’architet-tura cronache e storia», 1970, n. 176, pp. 76-85. Sul clima milanesecfr. anche v. vercelloni, L’autoritratto di una classe dirigente: Milano186o-1970, in «Controspazio», 1969, n. 2-3, pp. 11-28.

140 Si veda il commento fattone nell’articolo di p. portoghesi, Pre-senza di Ridolfi, ivi, 1974, n. 1, pp. 6-8. Può essere interessante ricor-dare che Ridolfi afferma di aver tratto ispirazione, per questo proget-to, da una colonna tortile del Tempio di Salomone.

141 È proprio a partire dai lavori ridolfiani successivi all’incidenteautomobilistico del 1961, che costituisce per l’architetto l’occasione peril suo ritiro a Terni, che la critica italiana ha iniziato un recupero diquesto maestro, anche se in vario modo strumentalizzato. Cfr. v. ver-celloni, L’occasione di una ricerca: l’ultimo lavoro di Mario Ridolfi, in«Controspazio», 1969, n. 1, pp. 38-43 (Casa Lina alle Marmore);numeri monografici di «Controspazio», 1974, cit.; a. anselmi, Logosed Eros, ivi, 1977, n. 3, p. 16 (a p. 2 dello stesso fascicolo una letteradi Ridolfi, alle pp. 3-15, il progetto per la casa a Norcia); Le architet-ture di Ridolfi e Frankl cit.; cellini-damato, Il mestiere di Ridolfi cit.;Ridolfi (testo di un incontro tenutosi nel febbraio 1977 al Politecnicodi Milano), in «Hinterland», 198o, n. 13-14, pp. 30-35.

142 Cfr. ciucci, La ricerca impaziente cit.143 Sull’opera di Costantino Dardi, cfr. il volume Semplice, lineare,

complesso, Roma 1967. Vedi inoltre il saggio dello stesso c. dardi, Ilgioco sapiente. Tendenze della nuova architettura, Padova 1971.

144 Cfr. m. sacripanti, Il Totalteatro, in «I problemi di Ulisse»,luglio 1969, pp. 32-34. Per una valutazione del teatro di Sacripantiall’interno delle poetiche teatrali contemporanee, cfr. Architettura e tea-tro, numero monografico di «Sipario», 1966, n. 242, e m.manieri-elia, Il teatro moderno, in «Bollettino del Cisa Andrea Palla-dio», 1975, pp. 379-89.

145 Si veda «Casabella», 1964, n. 290, con gli articoli di e. n.rogers, La Triennale uscita dal coma (p. 1), di g. dorfles, La XIII Trien-

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nale (pp. 2-17), di g. u. polesello, Questa Triennale e l’architetturadiscoperta (pp. 33-42), di g. canella, e. mantero e l. semerani, LaTriennale dei giovani e «L’ora della verità» (pp. 45-46), di f. tentori,Unità delle arti (pp. 48-50).

146 polesello,Questa Triennale cit., pp. 40-42.147 Il tema del Convegno Inu di Trieste è «Città e territorio negli

aspetti funzionali e figurativi della pianificazione continua», il n. 87-88,1966, di «Edilizia moderna» è dedicato alla «forma del territorio», consaggi di V. Gregotti, P. Caruso, R. Orefice, P. L. Crosta, E. Battistie S. Crotti, C. Norberg-Schulz, C. Guarda, D. Borradori, C. Pellegri-ni, V. Di Battista, S. Bisogni e A. Renna, G. Piccinato. Molti dei temilí dibattuti trovano una sistemazione nel volume di v. gregotti, Il ter-ritorio dell’architettura, Milano 1966.

148 L’opera di Semerani e Tamaro comprende peraltro progetti dinotevole interesse, come l’Ospedale Generale di Trieste (Luciano Seme-rani e Gigetta Tamaro, con Carlo e Luciano Celli e Dario Tognon (1965sgg.), progetto definitivo di Semerani e Tamaro) o l’unità residenziale incollina a Trieste, 1969 e 1970. Cfr. c. aymonino, Progetti dello studioSemerani-Tamaro 1965-1971, in «Controspazio», 1971, n. 7-8, pp. 18 sgg.Cfr. inoltre, di l. semerani, Progetti per una città, Milano 198o.

149 Cfr. g. k. könig, Montecitorio valle di lacrime, in «Casabella»,1967, n. 301; b. zevi, Dodici Parlamenti per una Repubblica, in «L’E-spresso», 1967, n. 33, pp. 29 sgg.; tafuri, Il concorso per i nuovi uffi-ci della Camera dei Deputati cit.; l. benevolo, Una linea piú precisa nellaricerca architettonica, in «Rinascita», 26 aprile 1968.

150 Cfr. g. chiari, Il grattacielo Peugeot, architetto Maurizio Sacripanti,in «L’architettura cronache e storia», 1963, n. 87, pp. 602-7.

151 Fra i progetti piú recenti di Sacripanti, ricordiamo quello per ilnuovo teatro di Forlì, risultato vincitore nel 1977 al concorso nazio-nale – oggetto mutante che funge da ermetico foro per la città – e quel-lo per l’aggressiva scuola secondaria a Sant’Arcangelo di Romagna, ter-minata per un terzo nel 198o. Cfr. m. tafuri, Un teatro per Forlì, in«Paese Sera / Arte», 5 febbraio 1978, p. 20, e r. pedio, Scuola aSant’Arcangelo di Romagna, in «L’architettura cronache e storia», 198o,n. 302, pp. 678-89. Fra gli scritti di Sacripanti, cfr. Città di frontiera,in «L’architettura cronache e storia», 1971 n. 187. Si veda, inoltre, m.garimberti e g. susani, Sacripanti-architettura, Venezia 1967.

152 Cfr. grau, «Isti Mirant Stella». Un progetto per il Concorso Nazio-nale per l’Archivio di Stato di Firenze, in «Controspazio», 1974, n. 2,pp. 52-61.

153 Un bilancio dei concorsi di architettura italiani, che coinvolgeanche quello per i nuovi uffici del Parlamento, è nell’articolo di v. defeo, Les concours d’Architecture. L’arme ultime de l’intellectuel?, in«L’architecture d’aujourd’hui», n. 181, pp. 57-62.

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154 Cfr. p. navone e b. orlandoni, Architettura radicale, Segrate 1974.155 Cfr. v. de feo, Il piacere dell’architettura, Roma 1976.156 Un’acuta critica del Progetto 8o e dei progetti politico-economi-

ci degli anni settanta è nel saggio di a. asor rosa, La felicità e la poli-tica, in «Laboratorio politico», 1981, n. 2, pp. 5 sgg.

157 Cfr. e. salzano, Potere politico e tecno-struttura nella politicadella casa, in «Servizio sociale», 1972, n. 3, pp. 74-84.

158 Sulle vicende dell’edilizia e sul problema della casa in Italia, cfr.,fra la vasta pubblicistica specializzata, f. sullo, Lo scandalo urbanisti-co, Firenze 1964; a. carrassi, Casa e urbanistica, bilancio e prospettive,in «Critica marxista», 1971, n. 1; aa.vv., Lo spreco edilizio, a cura diF. Indovina, Padova 1972; p. cacciari e s. potenza, Il ciclo edilizio,Roma 1973; b. secchi, Il Settore edilizio e fondiario in una prospetttivastorica, in «Archivio di studi urbani e regionali», 1975, n. 1-2, p. ceri,Casa, città e struttura sociale, Roma 1975; r. stefanelli, La questionedelle abitazioni in Italia, Firenze 1976; Il secondo ciclo edilizio, a curadi A. Barp, Milano 1976; aa.vv., La situazione della casa in Italia,Milano 1976; bortolotti, Storia della politica edilizia in Italia cit.;acocella, L’edilizia residenziale pubblica cit.

159 Cfr. b. cillo, L’uso capitalistico del territorio e la nuova cittànolana, in «Parametro», 1972, n. 12-13; e La «città nolana» nell’areametropolitana di Napoli, intervista con F. Di Salvo, di R. Pedio, in«L’architettura cronache e storia», 1971, n. 190.

160 Cfr. m. de michelis e a. restucci, Le Bâtiment: hypothèses surla transformation de la commande, in «L’architecture d’aujourd’hui»,1975, n. 181, pp. 7-10.

161 Cfr. s. bracco, Les coopératives et la construction de logements enItalie, ivi, pp. 11-13.

162 Su Scarpa manca una monografia completa e un catalogo deisuoi disegni, fra i piú autonomamente significativi nella storia del-l’architettura contemporanea italiana. Si veda almeno, su di lui, maz-zariol, Opere dell’architetto Carlo Scarpa cit.; f. tentori, Progetti diCarlo Scarpa, in «Casabella», 1958, n. 222, pp. 9-14; c. l. rag-ghianti, La «Crosera de Piazza» di Carlo Scarpa, in «Zodiac», 1959,n. 84, pp. 128-50; s. bettini, L’architettura di Carlo Scarpa, ivi, 196o,n. 6, pp. 140-187; m. bottero, Carlo Scarpa il veneziano, in «TheArchitectural Review», 1965, n. 2; S. los, Carlo Scarpa architettopoeta, Venezia 1967; m. brusatin, Carlo Scarpa architetto veneziano,in «Controspazio», 1972, n. 3-4, pp. 2-85; s. cantacuzino, CarloScarpa architetto poeta, catalogo della mostra Riba, London 1974;Carlo Scarpa, catalogo della mostra di Vicenza, 1974; fascicolo mo-nografico di «sd», Tokyo 1977, n. 153; fascicolo monografico dellarivista «Architecture, mouvement, continuité», 1979, n. 50; p. por-toghesi, In ricordo di Carlo Scarpa, in «Controspazio», 1979, n. 3,

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pp. 1-5; fascicolo monografico di «Rassegna», 1981, n. 7, a cura diA. Rudi.

163 Cfr. p. c. santini, Il nuovo negozio di Carlo Scarpa a Bologna, in«Zodiac», 1962, n. 1o.

164 Cfr. g. mazzariol, Un’opera di Carlo Scarpa: il riordino di un anti-co patazzo veneziano, in «Zodiac», 1964, n. 13.

165 Cfr. l. magagnato, La nuova sistemazione del Museo di Castel-vecchio, in «Marmo», 1965, n. 4; p. c. santini, Il restauro di Casiel-vecchio a Verona, in «Comunità», 1965, n. 126, pp. 70-78.

166 Cfr. p. bucarelli, Mostra di Piet Mondrian a Roma, in «L’archi-tettura cronache e storia», 1957, n. 17.

167 Si veda il volume di g. samonà, L’unità architettura urbanistica.Scritti e progetti 1929-1973, a cura di P. Lovero, Milano 1975.

168 Sulla piú recente attività di Samonà, cfr. p. lovero, Progetti dellostudio Giuseppe e Alberto Samonà 1968-1972, in «Controspazio», 1973,n. 2, pp. 43-53; f. dal co, Il gioco della memoria: 1961-1975, in aa.vv.,Giuseppe Samonà cit., pp. 105 599.; tafuri, Les «muses inquiétantes» cit.

169 Cfr. a. quistelli, Progetti dello studio Quaroni: dieci anni di espe-rienze didattiche e prolessionali, in «Controspazio», 1973, n. 2, pp. 8 sgg.Quaroni ha raccolto le sue recenti riflessioni, oltre che in La città fisi-ca cit., nei volumi La torre di Babele, Padova 1967 e Progettare un edi-ficio. Otto lezioni di architettura, Milano 1977, ma il suo saggio piú signi-ficativo degli anni settanta rimane Le muse inquietanti: riflessioni su tren-ta anni di architettura in Italia, in «Parametro», 1978, n. 64-65, pp.44-57, che costituisce, a suo modo, una storia dell’architettura dalMedioevo ad oggi, una confessione autocritica, un «memento» per legiovani generazioni, e un progetto naïf per il futuro.

170 Sull’opera di De Carlo, cfr. aa.vv , Giancarlo de Carlo, Milano1964; il numero monografico di «Forum», 1972, n. 1; G. De Carlo. LaRéconciliation de l’architecture et de la politique, in «L’architectured’aujourd’hui», 1975, n. 177, pp. 32 sgg. (numero dedicato al Team X).Sull’opera di De Carlo come membro del Team X, si veda k. frampton,Les vicissitudes de l’idéologie, ivi, pp. 62 sgg. Per il piano di Urbino, cfr.g. de carlo, Urbino, Padova 1970; per il piano di Rimini, cfr. «Para-metro», 1975, n. 39-40. Cfr. inoltre f. brunetti e f. gesi, Giancarlo DeCarlo, Firenze 1981 (con bibliografia). Fra gli scritti di De Carlo, segna-liamo, oltre ai volumi Questioni di architettura e urbanistica, Urbino 19652

e La piramide rovesciata, Bari 1968, il recente saggio Corpo, memoria efiasco, in «Spazio e società», 1978, n. 4, pp. 3-16, come uno dei piú rap-presentativi del suo pensiero. Va inoltre segnalata la linea della rivista«Spazio e società» diretta da De Carlo, che inizia nel ’78 le sue pub-blicazioni con non comune coerenza. Nello stesso anno, G. Canella ini-zia a dirigere la rivista «Hinterland», mentre «Controspazio», direttada Portoghesi dal ’69, dirada sempre piú le sue uscite.

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171 Cfr. g. de carlo, An Architecture of Participation, Melboume1972 e L’architettura della partecipazione, in L’architettura degli anni ’70,Milano 1973.

172 Cfr. s. bracco, Un banco di prova nella conduzione della città, in«Casabella», 1977, n. 421, pp. 13-16, e g. de carlo, Alla ricerca di undiverso modo di progettare, ivi, pp. 17-19.

173 Fra la vasta pubblicistica di Aymonino sul tema, si veda almenoLa città di Padova, a cura di C. Aymonino, Roma 1970; Origini e svi-luppo della città moderna, Padova 1971; L’abitazione razionale. Atti deicongressi Ciam 1929-1930, Padova 1971; Il significato delle città, Bari1975; Lo studio dei fenomeni urbani, Roma 1977.

174 Su tale fase dell’attività di Aymonino, cfr. conforti, C. Aymo-nino cit., pp. 41 sgg.

175 Cfr. c. dardi, Abitazioni nel quartiere Gallaratese a Milano, in«L’architettura cronache e storia», 1974, n. 226; Monte Amiata Hou-sing, in «A + U», 1974, n. 7.

176 Cfr. 1977: Un progetto per Firenze, Roma 1978; c. conforti,1977: un progetto per Firenze, in «Casabella», 1979, p. 444, e i testi cita-ti oltre, p. 548, nota 7.

177 Cfr. c. aymonino, Materia e materiali, in «Lotus», 1977, n. 15,e Campus scolastico a Pesaro, a cura di F. Moschini, Roma 198o.

178 Collaboratore di Fiorentino, per tali progetti, è Gabriele DeGiorgi già collaboratore dello studio Asse: non a caso essi mostrano unaqualche affinità con quelli del gruppo romano Metamorph. Nei progettidel gruppo – concorsi per motel Agip (1968), per le Università diFirenze e Cosenza – il «pittoresco macchinista» celebra una tecnicainvocata come daimon. Cfr. c. conforto, g. de giorgi, a. muntoni em. pazzaglini, Città come sistema di servizi, Roma 1976, con introdu-zione di C. Dardi. Sull’opera di Fiorentino fino al 1970, cfr. l. qua-roni, Itinerario dell’architetto Mario Fiorentino, 1958-1970, in «L’ar-chitettura cronache e storia», 1970, n. 182. Cfr. inoltre il volume auto-biografico di m. fiorentino, La casa, Roma 1982. Per un inquadra-mento del Corviale, di Vigne nuove e degli altri quartieri della nuovaperiferia romana nell’attuale politica edilizia, cfr. v. fraticelli, I pianidi zona: 1964-1978, in «Casabella», 1978, n. 438, pp. 22-24 e g.rebecchini, La progettazione dei piani di zona, ivi, pp. 25 sgg. con cri-tiche da noi pienamente condivise.

179 Cfr. v. gregotti, Quartiere Zen a Palermo, in «Lotus», 1975, n.9. Sull’opera recente di Gregotti cfr. m. scolari, Tre progetti di Vitto-rio Gregotti, in «Controspazio», 1971, n. 3, pp. 2-6; 0. bohigas, Vit-torio Gregotti, in Once Arquitectos, Barcelona 1976, pp. 67-82; nume-ro monografico di «A + U», 1978, n. 77; m. tafuri, Le avventure del-l’oggetto: architetture e progetti di Vittorio Gregotti, e e. battisti, Archi-tettura come problema, in Il progetto per l’Università della Calabria e altre

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architetture di Vittorio Gregotti, Milano 1979. Fra gli scritti teorici diGregotti, ricordiamo Avanguardia come professione (firmato insieme aOriol Bohigas e Gae Aulenti), in «Lotus», 198o, n. 25.

180 Il lavoro di Franco Purini appare fra i piú interessanti e pro-mettenti delle giovani generazioni anche se ancora costretto a rimane-re teorico. Su Purini cfr. p. melis, Il «timore» e il «bisogno» dell’ar-chitettura. Una nota sulle incisioni di Franco Purini, in «Controspazio»,1977, n. 4-5, pp. 61-63 e m. tafuri, Natural-Artificial. The Architec-ture of Franco Purini, in «A + U», 198o, n. 8, pp. 35-40. I testi di Puri-ni sono fra i piú lucidi prodotti dagli architetti operanti nell’ultimodecennio. Cfr. i volumi, Luogo e progetto, Roma 1976 e il recente L’ar-chitettura didattica, Reggio Calabria 198o. Quest’ultimo, che raccoglieriflessioni e lezioni dal ’77 in poi, mostra un esemplare equilibrio neldistinguere motivi della poiesis e analisi sul corpo storico dell’architet-tura, ricongiunti poi nei disegni e nei paesaggi teorici dell’autore.

181 Sui problemi relativi alla localizzazione dell’Università fiorenti-na e sul concorso, cfr. a. montemagni e p. sica, La politica urbanisti-ca fiorentina e il concorso internazionale per la nuova Università, in «Urba-nistica», 1974, n. 62.

182 Cfr. j. rykwert, La nuova università della Calabria, in «Domus»,1974, n. 540, pp. 13 sgg. e Il progetto per l’Università delle Calabrie cit.

183 L’attività di Gabetti e Isola non ha goduto, dopo le polemiche sul«neoliberty», dei favori della critica: all’atteggiamento schivo dei duetorinesi ha corrisposto una distrazione generalizzata, rotta solo da alcu-ne «cronache» di Zevi (Cronache di architettura cit., nn. 451, 481, 610,780, 933), e da occasionali presentazioni di opere. Giustamente Porto-ghesi nel ’77 richiama l’attenzione su Gabetti e Isola con un numero di«Controspazio» (n. 4-5), che documenta la loro opera dal 1965 al 1976.Cfr. p. portoghesi, Dentro la storia e fuori delle «storie», ivi, pp. 16 sgg.e g. accasto, La complessità dell’essenziale: riflessioni sugli ultimi lavori diGabetti e Isola, ivi, pp. 34 sgg., che tuttavia lasciano in diverso modoinsoddisfatti. Nello stesso fascicolo, cfr. r. gabetti e a. isola, «Sullaschiena del drago», p. 2, e gli articoli di D’Amato e Cellini già citati sulfenomeno neoliberty. Cfr. anche Gabetti, Isola, Raineri cit.

184 Cfr. p. portoghesi, Oggettività e contraddizione: una casa sulla col-lina torinese, in «Controspazio», 1969, n. 3, p. 30.

185 Cfr. zevi, Cronache di architettura cit., n. 933; r. pedio, Resi-denziale ovest a Ivrea, in «L’architettura cronache e storia», 1973, n.212-13; accasto, La complessità dell’essenziale cit.

186 Vicina a quella di Gabetti e Isola è la poetica di Giorgio Raine-ri, come s’è visto, associato ad essi per alcuni lavori. Anche Raineri traeuna sicurezza sintattica da un «mestiere» forbito e da un’attenta esplo-razione del contesto storico che forma il paesaggio piemontese: un raf-finato trattamento della materia si integra, in lui, a un’altrettanto raf-

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finata manipolazione della geometria, cosí da fare del «parlar som-messo» un pretesto linguistico ricco di infiniti sviluppi. Opere come lascuola materna di Mondoví (con Lorenzo Mamino, 1969-72), la casasulla collina torinese del 1968-72, il restauro e la ristrutturazione delcastello neogotico di Miradolo (1975-78), la scuola materna di Colle-gno (1975-77) si pongono come episodi di alta sapienza formale, pro-porzionale all’attenzione che Raineri dedica al «dettaglio». Cfr., oltrea Gabetti, Isola, Raineri cit., r. cabetti, Intimismo, dieci opere in diecianni, in «Casabella», 1969, n. 338, pp. 7-21; v. gregotti, 1954-1979:Architetture di Giorgio Raineri. La strategia dell’invenzione e la poesia delmestiere, in «Controspazio», 1979, n. 3, pp. 26-3o, e r. gabetti, Unalettera a Giorgio Raineri, ivi, p. 46.

187 La critica non ha ancora affrontato l’opera di Canella con laserietà che le è dovuta. La bibliografia al proposito è cosí sparsa in arti-coli di presentazione di opere: cfr. b. zevi, in «L’Espresso», 1967, n.50; l. berni, in «Panorama», 1977, nn. 561 e 6o6, 1979, n. 668; a.cristofellis, Scuole materne come case del popolo, in «L’architetturacronache e storia», 1976, n. 252, pp. 294-307.

188 Fra le ricerche tipologiche canelliane, ricordiamo i volumi Ilsistema teatrale a Milano, Bari 1966; Il carcere come modello di decon-gestione, Milano 1967; Università. Ragione, contesto, tipo (con LucioD’Angiolini), Bari 1975. Cfr. anche, di g. canella, Dal laboratoriodella composizione, in aa.vv., Teoria della progettazione architettonica,Bari 1958 e Critica di alcune correnti ideologie, in «Controspazio»,1970, n. 1-2, pp. 34-41.

189 Su Gae Aulenti, cfr. g. drudi, The Design of Gae Aulenti, in«Craft Horizons», febbraio 1976; p. c. santini, Gae Aulenti: Archi-tettura, scene, design, in «Ottagono», 1977, n. 47; Gae Aulenti, Mila-no 1979, catalogo della mostra al Pac, con introduzione di V. Gregot-ti, il saggio di e. battisti, Architettura è donna (pp. 7-11), quello di f.quadri, Teatro come trasgressione (p. 12), e frammenti di conversazio-ne della Aulenti con Quadri (pubblicata in Il Patalogo uno, Milano1979, pp. 317-30).

190 Cfr. Italy: The New Domestic Landscape, a cura di E. Ambasz,New York 1972, pp. 150-59.

191 Cfr. g. aulenti, Teatro e Territorio. Il laboratorio di Prato, in«Lotus», 1977, n. 17, pp. 4 sgg.

192 La bibliografia su Aldo Rossi è sin troppo vasta: di questo mae-stro del segno trattenuto, del confine, della «laconica eloquenza», sitenta di fare un fenomeno alla moda, di pronta assimilazione. Cfr.,comunque, e. bonfanti, Elementi e costruzione. Note sull’architettura diAldo Rossi, in «Controspazio», 1970, n. 1o, pp. 19 sgg.; m. steinmann,Architektur, in Aldo Rossi, Bauten Projekte, Zürich 1973, pp. 3-5; r.nicolini, Note su Aldo Rossi, in «Controspazio», 1974, n. 4, pp. 48-49;

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numero monografico di «Construcción de la ciudad 2c», 1975, n. 2;v. savi, L’architettura di Aldo Rossi, Milano 1976; «A + U», 1976, n.65, pp. 55 sgg. (numero monografico); f. dal co, Criticism and Design.For Vittorio Savi and Aldo Rossi, in «Oppositions», 1978, n. 13, pp.2-16; Aldo Rossi progetti e disegni 1962-1979, Firenze 1979; p. eisen-man, Preface, e The House of the Dead as the City of Survival, in AldoRossi in America: 1976 to 1979, cat. 2, Iaus, New York 1979; numeromonografico di «Construcción de la Ciudad 2c», 1979, n. 4; m. tafu-ri, La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni’70, Torino 198o, pp. 330 sgg.; d. vitale, Ritrovamenti, traslazioni, ana-logie. Progetti e frammenti di Aldo Rossi, in «Lotus», 198o, n. 25, pp.55-58; p. portoghesi, Dopo l’architettura moderna, Roma-Bari 198o,pp. 182 sgg. Come voce contraria, cfr. b. zevi, Con Piacentini in nomedi Lenin, in «L’Espresso», 14 ottobre 1973. Fra gli scritti di Rossi,ricordiamo L’architettura della città, Padova 19733, e Scritti scelti sul-l’architettura e la città 1965-1972, a cura di R. Bonicalzi, Milano 19752

193 E si tratterà della «metafisica», con i suoi debiti a Max Klingere Arnold Böcklin, del «novecentismo», del neoclassicismo lombardo,di Giovanni Muzio, di Loos, e persino di alcuni aspetti di Marcello Pia-centini: tutti i temi, in sostanza, censurati dalla cultura «progressista»degli anni quaranta e cinquanta. Di qui anche l’apprezzamento del-l’architettura cosiddetta «stalinista» o della Stalinallee a Berlino. Unapprezzamento, quest’ultimo, avanzato in un articolo scritto da Rossiinsieme a Canella e rimasto inedito: nessuna rivista di sinistra si sentídi pubblicarlo agli inizi della destalinizzazione.

194 Cfr. g. u. polesello, a. rossi e f. tentori, Il problema della peri-feria nella città moderna, in «Casabella», 196o, n. 241, pp. 39-55.

195 a. rossi, Adolf Loos 1870-1933, ivi, 1959, n. 233, pp. 5-12.196 Cfr. id., L’azzurro del cielo, ivi, 1972, n. 372 e in «Controspa-

zio», 1972, n. 10; r. moneo, Aldo Rossi: the idea of architecture and theModena cemetery, in «Oppositions», 1976, n. 15, pp. 1-30 e vitale,Ritrovamenti, traslazioni, analogie cit.

197 Cfr. a. rossi, La arquitectura análoga, in «Construcción de la ciu-dad 2c», 1975, n. 2, pp. 8-11, e m. tafuri, Ceci n’est pas une ville, in«Lotus», 1976, n. 13, pp. 10-13.

198 Cfr. id., L’éphémère est éternel. Aldo Rossi a Venezia, in«Domus», 198o, n. 602, pp. 7-8; f. dal co, Ora questo è perduto, in«Lotus», 198o, n. 25, pp. 66 sgg.; p. portoghesi, Il teatro del mondo,in «Controspazio», 1979, n. 5-6, pp. 2 e 9-1o; s. planas, El Teatro delMondo de Aldo Rossi, o el «lenguaie de las cosas mudas», in «Carrer dela Ciudat», 198o, n. 12, pp. 5-15; j. j. lahuerta, Personajes de AldoRossi, ivi, pp. 16-27.

199 Su Grassi, cfr. a. monestiroli, Teoria e progetto. Considerazionisull’architettura di Giorgio Grassi, in «Controspazio», 1974, n. 2, pp.

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72-91. Si veda, anche, g. grassi, La costruzione logica dell’architettura,Padova 1967, e L’architettura come mestiere e altri scritti, Milano 198o.

200 aa.vv., Architettura razionale. XV Triennale di Milano. Sezioneinternazionale di architettura, Milano 1973. Fra gli articoli pesantementecritici contro l’iniziativa, vedi g. gresleri, Alla XV Triennale di Milano,in «Parametro», 1973, n. 21-22, pp. 6 sgg., e j. rykwert, XV Trienna-le, in «Domus», 1974, n. 530, pp. 1-15. A favore, cfr. r. nicolini, Perun nuovo realismo in architettura, in «Controspazio», 1973, n. 6, pp.12-15. Un demerito di quella mostra comunque, è stato quello di averartificiosamente unificato nello sciagurato termine della «tendenza»architetture di opposte tendenze: in questo, quella mostra e quella di Por-toghesi per la Biennale di Venezia 198o concordano perfettamente.Segnaliamo pertanto a chi mostra di aver ancora caro il termine «ten-denza», che Massimo Scolari, responsabile di essa, interrogato oggi,afferma di aver compiuto, nel 1973, un ironico «gesto» dadaista.

201 Sul gruppo Grau, cfr. p. portoghesi, Architettura del Grau, in«Controspazio», 1979, n. 1-2, pp. 2 e 96; c. d’amato, 1964-78: Sto-ria e logica nella progettazione del Grau, ivi, pp. 4 sgg.; grau, Isti mirantstella. Architetture 1964-198o, Roma 1981.

202 Sulle ricerche dei giovani romani, cfr. g. muratore, I gruppiromani tra neoavanguardia e neomanierismo, in «Casabella», 1979, n.449, pp. 10-17, e Architetti romani: un dibattito, ivi, pp. 18 sgg.

203 Cfr. Progetti dello studio Labirinto, in «Controspazio», 1975, n.4, pp. 8o sgg.

204 f. purini e l. thermes, La ricerca dei giovani architetti italiani.Una generazione ritrovata, ivi, 1978, n. 5-6, p. 8.

205 Cfr. m. mattei, Crisi dell’urbanistica, urbanistica della crisi. Notein margine al concorso per l’area direzionale di Firenze, ivi, 1977, n. 6,pp. 23-28, che affronta la carenza di impostazione delle scelte di loca-lizzazione e delle ipotesi funzionali. Sui risultati del concorso, vedi,nello stesso fascicolo, la nota di p. portoghesi, Ancora paura dell’ar-chitettura, p. 2. Cfr. g. gresleri, Depressione su un concorso di archi-tettura moderna, in «Parametro», 1978, n. 63, pp. 11-12 (alle pp. 15sgg. i progetti e stralci delle relazioni).

206 In tale ambito, tentativi di definire tendenze in base a formulerischiano di confondere piú che di illuminare: cosí è accaduto allamostra organizzata nel 1977-78 a Bologna dal titolo – mediato da un’i-potesi critica di Renato Barilli, ma di ascendenza heideggeriana –«Assenza-Presenza», in cui alle neoavanguardie «radicali» si contrap-ponevano, come «assenti», figure eterogenee come Dardi, Isozaki,Moore, Scolari, Purini, Rossi, Sartogo, Heiduk, ecc. Cfr. il catalogoAssenza/Presenza, un’ipotesi di lettura per l’architettura, Ascoli Piceno1979, e l’articolo, puntualmente critico, di l. thermes, Bologna: unamostra e un convegno, in «Controspazio», 1977, n. 6, p. 58.

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207 Cfr. m. gandelsonas, Massimo Scolari. Paesaggi teorici, in«Lotus», 1976, n. 11, pp. 57-63; m. tafuri, The Watercolors of Mas-simo Scolari, in Massimo Scolari: Architecture between Memory and Hope,Iaus, New York 1980, pp. 2 sgg.; Massimo Scolari, acquarelli e disegni1965-198o, a cura di F. Moschini, Firenze 1981.

208 Cfr. il catalogo Roma interrotta, Roma 1978; l. thermes, IlNolli, dodici architetti e una città, in «Controspazio», 1978, n. 4, pp.4-24; p. ceccarelli, La Messa per Moro, la Pianta del Nolli e l’immagi-nazione ibernata, in «Spazio e società», 1978, n. 4, pp. 89-92.

209 Cfr. n. pagliara, Architetture e progetti, 196o-1979, in «Contro-spazio», 1979, n. 3, pp. 6 sgg., con il commento di p. portoghesi,Materia e spazio: il lavoro di Nicola Pagliara, ivi, p. 19 e g. k. könig, Ita-lian ecleticism, quant’è wunderbar, in «Modo», 1979, n. 17, pp. 29-33.Interessante, come testimonianza degli stati d’animo degli anni sessantain relazione alle «lingue paterrie», il volumetto di n. pagliara, Appun-ti su Otto Wagner, Napoli 1968. Che poi il percorso di Pagliara – dalcostruttivismo esasperato delle prime opere, alla matericità esuberan-te della chiesa di Tursi (1967), agli ironici montaggi di Casa Crispinoa Melito (1978) e dei progetti piú recenti – sia tutt’altro che segnatodai maestri viennesi del linguaggio non deve meravigliare. Va piutto-sto segnalata la «perversità» con cui molti dei nati all’architetturanegli anni sessanta guardano alle loro fonti di elezione. Non rendeomaggio, comunque, ai fermenti vivi nelle nuove tendenze, l’azionepromozionale svolta da Portoghesi nell’organizzare la mostra dellaBiennale di Venezia del 198o Presenza del passato (vedine il catalogo cit.,ma anche, come sua base teorica, il volume di portoghesi, Dopol’architettura moderna cit.). Non a caso, critiche penetranti all’ideolo-gia «post-moderna» sono state pronunciate da Purini, pur presente allamostra di Venezia (cfr. purini, L’architettura didattica cit., p. 41, nota14, e pp. 93 e 120).

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