economia e teologia negativa in derrida

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Economia e teologia negativa in Jacques Derrida di Giorgia Bordoni Die Ros ist ohn warum, sie blühet weil sie blühet, Sie acht nicht ihrer selbst, fragt nicht ob man sie siehet. “La rosa senza perché” Angelus Silesius La portata e la gittata della teologia negativa - discorso “negativo” o “interrogativo” intorno a Dio - che in questa sede vorrei indicare, è quella che trapela come il “basso continuo” di una sinfonia nell’opera di Derrida. Si tratta di quel movimento silenzioso e sotterraneo, si può dire “inter-detto”, che si firma come altro nome della decostruzione e che sarà sempre intervenuto nel procedere economico-metafisico come resistenza insuperabile. Tale impasse al cuore di ogni principio di ragione e dispositivo economico, dovrà svelare lo spazio di una faglia invisibile in esso; l’apertura che ad un tempo lo fonda, lo oltrepassa e lo depone. Nel pensiero di Jacques Derrida, la “via negativa”, che mette in questione il Dio metafisico e gli attributi che lo definiscono, aprirà un discorso obliquo riguardo a Dio, inteso sia come Assolutamente altro-Terzo senza-nome, Segreto, sia come luogo-Traccia ove ogni altro può avvenire senza che nessuna previsione o preparazione lo vìoli nella sua alterità, neutralizzandola nello spazio del proprio. Quella “certa” teologia negativa riformulata da Derrida a partire dalle fonti della mistica cristiana, oltre-passa (ricordo che nella lingua francese il termine pas significa “passo” ma anche “non”, “negazione”) e dif-ferisce, nel senso che fa differenza, che “apre la differenza come origine” ma anche che “rimanda all’infinito”, l’istante in cui ogni prospettiva di carattere teo-teleo-logico si risolve nel suo fine: interrompe perciò ogni economia-garanzia di salvezza (soterio-logia) e ogni teoria-disposizione delle cose ultime (escato-logia). La tradizione metafisica, a partire da Aristotele e nella teoresi scolastica, aveva pensato Dio nei termini di un Ente essenzialmente essente ovvero l’Essere necessario e incausato, la Ragione-causa suprema (il fondamento, il principio, il Grund) e pertanto il Fine ultimo, l’ultima ratio di ciò che esiste. La “via negativa”, fin dal suo emergere proprio al cuore del pensiero cristiano, procedeva invece allo svuotamento di ogni discorso positivo su Dio; cercava dunque non solo una progressiva “de-sostanzializzazione” (che lo serbasse intatto dalla tradizionale riduzione ad Ens summum) ma si volgeva a rilevare il suo statuto ab-solutum, sciolto da qualunque rispondenza all’idea di essere, ratio o senso. Per dirla con le parole di Silesius, Dio doveva essere colto nel nulla abissale (Ab- Grund) della sua sovra-divinità. Si tratta di un logos trasversale che richiede un certo “sacrificio della ragione” e della pulsione economica a questa legata, nel senso di un superamento da un lato dell’idea di Dio come ragione teleologica, dall’altro della razionalità umana che calcola e rende ragione di ciò che esiste, che dispone, rap-presenta (tiene di fronte, controlla nel proprio orizzonte di senso qualunque obiectum) e perciò ricomprende ogni Altro (che sia umano e divino) nella logica, nella legge del proprio, della dimora. Quando Heidegger definisce il versetto di Angelus Silesius su citato come il più significativo del mistico tedesco, intende che da esso emerge, in immagine poetica, un qualche spostamento del principium rationis di Leibniz (1646-1716). “La rosa è senza perché, fiorisce poiché fiorisce, a se stessa non bada, che tu la guardi non chiede”. 1 Sebbene la persistenza del “poiché” decida ancora nel senso di una permanenza di questo verso nell’economia del principio di ragione, tuttavia 1 ANGELUS SILESIUS, Cherubinisher Wandersmann, oder Geist- Reiche Sinn-und Schuluß- Reime zur Göttlichen Beschauligkeit anleitende. Von dem Urheber aufs neue übersehn, und mit dem Sechsten buche vermert, den Liebhabern der theologie und beshaulichen Legens zur Geistichen Ergözligkeit zum andernmahl herauß gegeben, Glatz 1675. Traduzione dal tedesco di Giovanna Fozzer e Marco Vannini, Il Pellegrino Cherubico, Edizioni Paoline, Milano 1989, p. 115. 1

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Page 1: Economia e Teologia Negativa in Derrida

Economia e teologia negativa in Jacques Derrida di Giorgia Bordoni Die Ros ist ohn warum, sie blühet weil sie blühet, Sie acht nicht ihrer selbst, fragt nicht ob man sie siehet. “La rosa senza perché” Angelus Silesius La portata e la gittata della teologia negativa - discorso “negativo” o “interrogativo” intorno a Dio - che in questa sede vorrei indicare, è quella che trapela come il “basso continuo” di una sinfonia nell’opera di Derrida. Si tratta di quel movimento silenzioso e sotterraneo, si può dire “inter-detto”, che si firma come altro nome della decostruzione e che sarà sempre intervenuto nel procedere economico-metafisico come resistenza insuperabile. Tale impasse al cuore di ogni principio di ragione e dispositivo economico, dovrà svelare lo spazio di una faglia invisibile in esso; l’apertura che ad un tempo lo fonda, lo oltrepassa e lo depone. Nel pensiero di Jacques Derrida, la “via negativa”, che mette in questione il Dio metafisico e gli attributi che lo definiscono, aprirà un discorso obliquo riguardo a Dio, inteso sia come Assolutamente altro-Terzo senza-nome, Segreto, sia come luogo-Traccia ove ogni altro può avvenire senza che nessuna previsione o preparazione lo vìoli nella sua alterità, neutralizzandola nello spazio del proprio. Quella “certa” teologia negativa riformulata da Derrida a partire dalle fonti della mistica cristiana, oltre-passa (ricordo che nella lingua francese il termine pas significa “passo” ma anche “non”, “negazione”) e dif-ferisce, nel senso che fa differenza, che “apre la differenza come origine” ma anche che “rimanda all’infinito”, l’istante in cui ogni prospettiva di carattere teo-teleo-logico si risolve nel suo fine: interrompe perciò ogni economia-garanzia di salvezza (soterio-logia) e ogni teoria-disposizione delle cose ultime (escato-logia). La tradizione metafisica, a partire da Aristotele e nella teoresi scolastica, aveva pensato Dio nei termini di un Ente essenzialmente essente ovvero l’Essere necessario e incausato, la Ragione-causa suprema (il fondamento, il principio, il Grund) e pertanto il Fine ultimo, l’ultima ratio di ciò che esiste. La “via negativa”, fin dal suo emergere proprio al cuore del pensiero cristiano, procedeva invece allo svuotamento di ogni discorso positivo su Dio; cercava dunque non solo una progressiva “de-sostanzializzazione” (che lo serbasse intatto dalla tradizionale riduzione ad Ens summum) ma si volgeva a rilevare il suo statuto ab-solutum, sciolto da qualunque rispondenza all’idea di essere, ratio o senso. Per dirla con le parole di Silesius, Dio doveva essere colto nel nulla abissale (Ab-Grund) della sua sovra-divinità. Si tratta di un logos trasversale che richiede un certo “sacrificio della ragione” e della pulsione economica a questa legata, nel senso di un superamento da un lato dell’idea di Dio come ragione teleologica, dall’altro della razionalità umana che calcola e rende ragione di ciò che esiste, che dispone, rap-presenta (tiene di fronte, controlla nel proprio orizzonte di senso qualunque obiectum) e perciò ricomprende ogni Altro (che sia umano e divino) nella logica, nella legge del proprio, della dimora. Quando Heidegger definisce il versetto di Angelus Silesius su citato come il più significativo del mistico tedesco, intende che da esso emerge, in immagine poetica, un qualche spostamento del principium rationis di Leibniz (1646-1716). “La rosa è senza perché, fiorisce poiché fiorisce, a se stessa non bada, che tu la guardi non chiede”.1 Sebbene la persistenza del “poiché” decida ancora nel senso di una permanenza di questo verso nell’economia del principio di ragione, tuttavia

1ANGELUS SILESIUS, Cherubinisher Wandersmann, oder Geist- Reiche Sinn-und Schuluß- Reime zur Göttlichen Beschauligkeit anleitende. Von dem Urheber aufs neue übersehn, und mit dem Sechsten buche vermert, den Liebhabern der theologie und beshaulichen Legens zur Geistichen Ergözligkeit zum andernmahl herauß gegeben, Glatz 1675. Traduzione dal tedesco di Giovanna Fozzer e Marco Vannini, Il Pellegrino Cherubico, Edizioni Paoline, Milano 1989, p. 115.

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Silesius si sarebbe volto al di qua del fondamento metafisico, nel luogo ove il fondo perde le fattezze di una “sostanza suprema” che giustifica l’essente, per assumere quella di un abisso. Per Heidegger, il movimento di distacco, di abbandono (Gelassenheit) praticato da Silesius - rispetto alla ragione leibniziana - coglieva Dio oltre l’ente e l’essere ed è il pensiero più adeguato a quel passo indietro che egli voleva compiere al di qua del “principio di ragione”, uno dei pilastri della metafisica come onto-teo-logia; per un pensiero dell’essere come Ni-ente, Nulla, fondamento sfondato (Abgrund), fuori dalla metafisica come scienza o “logica” dell’essere dell’ente, sarebbe stata forse necessaria una “certa” teologia negativa. Il domenicano Reiner Sh�rmann, ispirandosi alle indicazioni heideggeriane sull’opera di Silesius, Il Pellegrino Cherubico, comprendeva il “tendere” silesiano (e, vedremo, ancor prima in Eckhart, della cui mistica Silesius diviene il “traduttore in versi”) come una forma di pensiero “peregrinale”, che si distingue da una forma “indicativa”, o pensiero di sostanze. Mentre in quest’ultima si rilevava una malattia dell’intelligenza che vuole pronunciarsi sul reale, il pensiero “peregrinale” invece, anche detto “pensiero del compimento”, era proprio di una intelligenza libera e distaccata, che lascia essere l’essere, non vuole appropriarsi delle cose: è un errare e “attraverso le sue itineranze, l’origine fa segno”2. Precisamente nella figura dell’itineranza, dell’essere “sempre in cammino” nell’erranza che si limita a tener di mira ciò che non può essere afferrato nel concetto, della destinerranza (per usare un’espressione di Derrida) si mette in opera l’abbandono del “cogitatum summum” (Dio come impensabile e irrappresentabile, assolutamente altro) e lo si lascia venire, schiudendo lo spazio della sua “evenemenzialità”. Derrida coglierà nella teologia negativa una dinamica di decostruzione: da un lato la decostruzione è l’irruzione di un Terzo senza-nome, non dialettizzabile, che avrebbe in modo an-archico (prima di ogni archè, di ogni origine risalibile), “già-da-sempre”, innescato una sorta di dislocazione in seno al sistema onto-teo-logico e messo in crisi l’idea metafisica di Dio come essere e come fondamento (Grund). Dall’altro, decostruzione è anche “il lasciare operativi” gli effetti dell’interruzione del sistema da parte di quel non-sistematizzabile, an-economico, lavorare ad un linguaggio del limite, oltre la “-logia” metafisica, che li faccia risuonare liberando l’inattuale e l’impensato velato dalla griglia economica e aprendo la possibilità di “pensare” l’Assolutamente Altro avulso dalle “categorie dell’essere”: nel lasciarlo venire inimmaginabile, senza nome, senza l’orizzonte condizionato dal calcolo. Il suffisso “-logia” in questo contesto si fa essenziale per il fatto che il bersaglio polemico della teologia negativa, fin dai suoi albori, è proprio il logos che si traduce come: pensiero, discorso, ma anche ragione, fondamento, calcolo e disposizione. La teologia negativa, nello specifico della lettura di Derrida, riformula l’idea del logos-discorso: lo scardina dalla necessità del linguaggio (come sistema di segni volto alla definizione di un oggetto) e lo rideclina nei termini di un “discorso obliquo”: privo di referente, senza oggetto. La teologia negativa sarà una de-ferenza infinita d’addio, un ritegno per ciò che non si dà ad un’ intenzione significante, un “dire particolare” che lascia venire l’altro come assolutamente imprevedibile. Heidegger aveva suggerito una prima forma di decostruzione della metafisica, in special modo nell’aver rilevato, seppure non esplicitamente, il coappartenersi di metafisica ed economia. L’economia e la teleologia lavorano nella metafisica come movimento della sua essenza onto-teo-logica. Nella peculiare essenza onto-teo-logica della metafisica emerge l’urgenza di una qualche teologia negativa: vale a dire di un’istanza che interrompe e rovescia le differenti configurazioni del “paradigma economico”che si sono manifestate nelle articolazioni e nelle figure che la scienza dell’essere dell’ente ha presentato fin dai tempi della sua fondazione aristotelica. È necessario segnare i luoghi in cui, a partire dall’entrata di Dio nella filosofia, Heidegger libera l’impensato celato nell’onto-teo-logia: la possibilità del rovesciamento, dell’oltrepassamento. L’eredità decostruttiva di Heidegger, quell’idea dell’essenza impensata dell’essere come abisso, sarà raccolta da Derrida per un’ulteriore decostruzione del sistema metafisico.

2REINER SCH�RMANN, Maitre Eckhart ou la joie errante, Paris 1972, p. 367.

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1- Il “primo” inabissamento di Dio “al di qua” della metafisica Nel XII libro della Metafisica di Aristotele, anche conosciuto come il “Trattato teologico”, Dio entrava nella filosofia nei termini della Causa prima, l’Incausato che unifica tutte le cause, l’Ente supremo che è l’essere dell’essente. Gli studi di Heidegger sono stati essenziali al recupero di questo doppio legame interno all’essenza della metafisica (ontologia e teologia). Nell’analisi dell’ontologia, infatti, Heidegger avrebbe messo in rilievo la confusione che fin da Aristotele sarebbe stata fatta sulla “questione dell’essere”. La metafisica è nella sua essenza, rimasta impensata nell’arco della sua storia, ontologia perché è teologia e teologia perché è ontologia. L’esigenza di cogliere l’essere come fondamento dell’ente conduce perciò la metafisica ad identificare tale essere come un Ente sommo che renda legittimo tutto ciò che esiste. È importante ricordare che in questo contesto, il suffisso “-logia” indica l’insieme delle relazioni di fondazione-giustificazione in cui, nella metafisica, l’essente è inteso nel senso della sua ragione prima e ultima. Per giungere al punto di torsione che Derrida imprime al tentativo heideggeriano di oltrepassamento del sistema metafisico, bisogna toccare con qualche riferimento i due vettori concettuali che si intrecciano nell’onto-teo-logica: il principio di identità e quello di ragione. Vi è nel loro stesso fondo la portata di un nascondimento essenziale: quello della differenza ontologica, differenza tra essere ed ente. Quali sono le due “ombre” che affiorano da questo oblio, come i “negativi” di una pellicola fotografica? Indico due voci: Ereignis (evento di appropriazione, ambito) e Abgrund (fondamento tolto, Ni-ente, abisso). L’epoca della tecnica (Gestell), come è stato affrontato nei seminari precedenti, “esaurisce”, per Heidegger, la storia della destinazione dell’essere, nel senso che porta a compimento il deferimento (Austrag) di essere ed ente in cui la verità dell’essere si velava e disvelava (a-letheia). Il momento “tecnico”, come apice della “economia della presenza”, si rovesciava perciò nel suo negativo astorico, anonimo: l’Ereignis, che blocca ogni forma di produzione economica-razionale di epoche, ogni calcolo del fine che si leghi ad un fondamento (Grund); è quell’ “evento stesso del venire alla presenza” che precede an-archicamente (prima del tempo) ogni rap-presentazione. Lungi dall’essere una nuova epoca dell’essere, l’Ereignis è invece il primo salto (Ur-sprung), lo scarto all’origine che oltrepassa il fondamento della metafisica inteso come principium (nel senso dell’autorità, del comando): è un venire alla presenza originario che elide il concetto stesso di origine (Grund, principium, ratio, logos), ambito (Bereich) in cui ogni palinsesto della finalità è abolito. Il pensiero, nel “venire alla presenza” dell’Ereignis, diventa un pensiero “senza perché”, senza progetto, né definizione di un fine, che lascia venire. Questa deriva decostruttiva nel principio di identità è nodale per comprendere i cardini da cui Derrida riarticola il suo pensiero della teologia negativa, in particolare quando ci si troverà alle prese con un concetto sfuggente come quello di chora, lo spazio-traccia della differenza in cui ogni origine si elide. Nihil est sine ratione seu nullus effectus sine causa. Il principio di ragione inferisce: che ogni cosa ha un motivo e ogni effetto deriva da una causa. La “traduzione” heideggeriana del principio di ragione ribadiva ancora l’oblio della differenza ontologica portante nell’enunciato leibniziano. Il principium rationis non parla del fondamento in sé, ma della “necessità per l’ente di avere un fondamento”. L’essere così colto come fondamento dell’ente si “entificava” in Dio (causa prima della totalità dell’ente) - Ente onnipotente e calcolante - e restava dimenticato nella metafisica. Questa “frase del fondamento” (Satz wom Grund), volge a render ragione dell’essente con un Ente che ne garantisce e ne assicura l’esistenza; in ciò occulta il fondamento e la sua infondatezza, la sua abissalità. È infatti proprio nel Nihil, primo termine del principio di ragione, che emerge il termine (nel senso di limite) della metafisica e del suo Grund. L’essere, fondamento dell’ente, differisce dall’ente perché non è un ente, ma un Ni-ente. Nella stessa formulazione del principio metafisico è la necessità che il Grund (l’essere non-ente) resti infondato-inspiegato e inspiegabile, senza ragione, “senza perché”. La storia della metafisica si mostrava ancora una volta come un processo di “gestione” di un rimosso: l’essere come Ab-Grund (abisso insondabile) che rimuove ogni ratio.

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Il passo indietro (Schritt zurük) compiuto da Heidegger rispetto alla tradizione filosofica precedente, la domanda abissale al di quà delle maglie teleologiche della metafisica, liberava il pensiero di un “Altrimenti”: sia nell’appropriazione nell’Ereignis, ambito che compie il deferimento essere-ente, sia nello spalancarsi dell’Ab-grund, l’insensato a condizione al principio di ragione, albeggiano gli strumenti per un pensiero dell’ Altrimenti che essere (espressione di Lévinas che avremo modo di incontrare in relazione a Derrida) e quello di una certa “morte di Dio”. 2- La teologia negativa come “deferenza ad-dio” Il modello dal quale Derrida eredita gli strumenti per un pensiero di Dio come assolutamente sciolto (Ab-solutus) dal sistema metafisico, è certamente quello offerto dalla tradizione mistica: in particolare lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita, Meister Eckhart e Angelus Silesius. L’insorgere di un discorso negativo intorno a Dio che lo sgombrasse da ogni nome o definizione mantenendolo nel segreto della sua trascendenza, deviava essenzialmente dalla speculazione “positiva” su Dio, diretta filiazione della tradizione onto-teo-logica inaugurata da Aristotele. La teologia negativa si torceva nel verso opposto al discorso che “dà i nomi a Dio”, quello che ne fa un oggetto di pensiero, per muoversi ad un continuo svuotamento (kenosis) dei nomi di Dio, nel senso di una progressiva perdita, di una “morte di Dio” come ente: si trattava della regressione da Dio-obiectum in Dio-desideratum, da Ens summum in Nihil (non-ente, oltre l’ente e poi anche oltre l’essere). In Salvo il nome (1993), Derrida comincia col rilevare l’essenza del termine “apofatico”: l’apofasis è la voce “della teologia detta o se-dicente negativa”3, una voce bianca, vuota che parla di un Dio senza l’essere “o Dio che è al di là dell’essere.(…) L’apofasi è una dichiarazione, un’esplicitazione, una risposta che, assumendo riguardo a Dio una forma negativa o interrogativa, rassomiglia talvolta seppur erroneamente ad una professione di ateismo, (…) come una certa mistica, il discorso apofatico è sempre stato sospettato di ateismo.”4 Derrida intende la teologia negativa come un discorso al limite della tradizione teologico-positiva e del linguaggio stesso. Ma il particolare tipo di “a-teismo” che egli ricordava come la frequente accusa rivolta dalla tradizione ufficiale ai danni della corrente, quasi clandestina, del pensiero negativo di Dio, rivela due aspetti essenziali dell’apofasi: essa è ad un tempo “parricidio e sradicamento” di ogni onto-teo-logia e post-scriptum, “contro-firma ritardata” che testimonia l’incursione an-archica (senza origine) di Dio come traccia “smisurata” e irrisalibile al cuore del sistema, che impedisce il soggetto nel suo agire economico. Nello spazio di questo discorso pre-originariamente “di risposta” a Dio, Derrida scova lo slancio del desiderio di Dio che resta nel ritegno e nella disperazione, un anelito che abbandona il proprio oggetto, che gli dice addio per salvarlo dalla ri-comprensione della significazione. Da questo particolare a-teismo che salva il ciò/Chi senza-Nome che non si dà mai ad una intuizione e perciò che non può essere rappresentato se non in un “modo senza modo”,5 si schiude il luogo-deserto (che vedremo spalancarsi nella chora) come spazio di evenemenzialità in cui l’Assolutamente altro, l’eterogeneo, può venire improvvisamente, fuori dalle previsioni di una teoria del fine o della Fine (intesa ad esempio come fine della Storia). Questo aspetto del luogo-evento sarà più chiaro dopo il tracciato delle due trame guida di questo paragrafo (parricidio e post-scriptum); in esse la “rivelazione” della teologia negativa di Derrida dovrà annunciare la nuova pratica di un movimento an-economico e ultra-metafisico. Parricidio e sradicamento. La teologia negativa imponeva un’interruzione radicale al pensiero cristiano: si sradicava infatti dall’intreccio delle traiettorie onto-teo-logiche della “filosofia e

3JACQUES DERRIDA, Sauf le nom, Galilée Paris 1993, ed. it. di G. Dalmasso e F. Garritano, Il segreto del nome. Chora, Passioni, Salvo il Nome, Jaca Book, Milano 1997; p. 129. 4Ibi, p. 130. 5MEISTER ECKHART, Deutche Werke, Pr. 71.

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l’ontologia di provenienza greca, la teologia neo-testamentaria e la mistica cristiana”.6 Alla fine del paragrafo sarà esplicitata l’affinità tra la teologia negativa e la decostruzione, come cerniera al problema dell’essenza anarchica e aneconomica dell’evento; per ora, mi sembra interessante riportare la definizione di Heidegger in merito a questa dislocazione che sorge al cuore dei “risultati teologici” dell’ontologia di Parmenide e della metafisica di Aristotele: “iperbole paradossale del cristianesimo”. Si può recuperare, a questo proposito, anche il concetto che Platone offriva, nella Repubblica, della nozione di iperbole: un movimento di trascendenza che trasporta al di là dell’essere e dell’essenza, un gesto che annuncia. Di cosa la via apofatica è nuntio? Annuncia, fa risuonare l’abisso anarchico e insondabile di Dio. È necessario, dunque, un breve esergo che prepari quel tratto del saggio di Derrida ove si fa cenno al contributo di Silesius, centrale ad una idea della teologia negativa come deferenza addio: a tal “fine” indico la doppia accentazione che Dionigi l’Areopagita legava al termine teo-logia. Teo-logia è: discorso di Dio, intorno all’essenza di Dio, riguardo alla questione di Dio, ma anche discorso di Dio, da parte di Dio agli uomini. Nella Teologia mistica7, l’esperienza dell’ascesa alla divinità aveva un carattere puramente linguistico: si trattava di raggiungere la nuda caligine di Dio mediante l’opera di uno svuotamento (kenosis) dei nomi da cui nelle Sacre Scritture era stato definito. Nell’opera dell’Areopagita il discorso di Dio (da parte di Dio) avveniva nella creazione, come effusione luminosa: secondo il modello neoplatonico, la teo-fania di Dio nel mondo (e come mondo) era un discorso che scendendo dalla vetta da cui scaturiva, si allargava sempre di più, arricchendosi man mano di parole: Dio, essendo in ogni esistente, si rivelava nei suoi molteplici nomi. Le Scritture (che sono quindi il deposito del discorso positivo su Dio) conservavano l’iper-denominazione di Dio. Tuttavia se nella sua immanenza Dio poteva essere richiamato con tutti i nomi degli enti, nell’assoluta trascendenza questi era senza-nome, oltre ogni definizione, sfuggiva al dominio del senso e dell’immaginabile, così come restava “latitante” al raggio della visibilità. Non poteva neppure essere inteso come Uno, Bene: era Uno come principio della processione degli enti e Bene in quanto restava il fine della riconversione, ma il suo nome non era né Bene né Uno. Non poteva venire assimilato all’Essere, “categoria” che esso produceva ma dalla quale non era toccato: il Dio di Dionigi era un “non-essere primitivo”8, un Dio super-essente o iper-essente. Per questo, la modalità dell’ascesa a questa oltre-divinità doveva articolarsi nei termini di una teologia apofatica: prosciugare il lungo discorso “positivo”, simbolico, affermativo, apofantico delle Scritture in un iter che, elidendo i nomi da quelli più infimi a quelli più “vicini” ad una qualche idea di Dio, salisse fino alla soglia dell’ ignoranza mistica; apice della possibilità di una conoscenza di Dio. L’ultimo grado dell’ascesa che procedeva a colpi di negazione doveva, per Dionigi, essere quello di una teologia superlativa: si trattava del superamento di ogni proposizione su Dio, apofantica o apofatica che fosse, in forza di una “negazione eccellente” che oltrepassasse il linguaggio stesso e la dicotomia ontologica essere-non essere. Il lavoro estremo di tale afairesis (dal greco: eliminazione) portava il linguaggio al suo limite, a spegnersi nel luogo del silenzio assoluto dell’ineffabile divinità, ove essa resta nel suo segreto e nulla si vede, né si sa. La regressione “involutiva” del discorso lo convertiva nel luogo di Dio, il luogo di tenebra luminosissima dove la “Trinità soprasostanziale, superdivina e superbuona”9, Colui che è al di là di tutti i nomi, aveva posto il proprio nascondiglio. Altro quadro essenziale per Derrida è la riflessione mistico-speculativa di Meister Eckhart - domenicano e allievo di Alberto Magno - contro cui il sospetto di ateismo che investiva la

6 J. DERRIDA, Salvo il nome, op. cit. p. 155. 7DIONIGI L’AREOPAGITA, Teologia mistica, tratto dalla raccolta Tutte le opere, trad. Piero Scazzoso, Rusconi Libri S.p.A., 1981 Milano. 8ETIENNE GILSON, La philosophie au moyen age, Payot, Paris 1952, ed. it. del Torre, La filosofia del Medioevo, Sansoni, Milano 2005, p. 91. 9DIONIGI L’AREOPAGITA, Teologia mistica, op.cit. capitolo terzo 1033C, pp. 412-413.

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tradizione teologico-negativa si concretizzò nella bolla papale In agro dominico (1326), in cui Papa Giovanni XXII condannava per eresia diciassette delle sue tesi. Eckhart si poneva sullo stesso solco di Dionigi, sempre nel verso della corrente di pensiero rimasta celebre come metafisica della conversione: a questa si opponevano le metafisiche dell’Esodo, di matrice scolastico-tomista, che interpretavano la rivelazione del Nome fatta da Dio a Mosè in Esodo 3,14 (“Io sono colui che sono”) come la prova nella coincidenza dell’essere con Dio. Eckhart rileggeva però la conversione in modo differente da Dionigi: ispirandosi ad Agostino, in chiave immanentista; in essa, il luogo invisibile e tenebroso della divinità corrispondeva col fondo segreto dell’anima umana (l’apex o abditum mentis). Il cammino mistico doveva riguardare non l’ascesa, ma la discesa dell’anima al luogo più profondo di sé stessa, quello che Eckhart chiamava piazzaforte, favilla, la cittadella dove era Dio, “pura sapienza”, eccedente persino la categoria metafisica di Essere. Eckhart apriva lo spiraglio all’apofatica: le “tre morti dello spirito” scandivano gli stadi di purificazione che l’anima avrebbe dovuto raggiungere per “profondarsi” in Dio: deserto abissale della divinità che è in essa. L’anima doveva “praticare l’abbandono” (Gelassenheit) fino ad arrivare in condizione di poter “patire Dio”: in primo luogo rinunciare a se stessa e alle cose del mondo, poi “perdere il Figlio” ovvero perdere l’uguaglianza a Dio che essa possiede solo nell’archetipo eterno del Cristo, infine raggiungere la “morte suprema” o “morte divina”. Quì l’anima perdeva Dio come oggetto di desiderio: la morte di Dio corrispondeva dunque all’entrata dell’anima nell’abisso (Ab-Grund: il fondamento tolto che richiama l’idea di Heidegger sulla verità dell’essere) indicibile della Deità (Gottheit), la nuda divinità ove l’anima non ha più un Dio poichè fa tutt’uno con esso. A godere della più alta beatitudine era infatti l’uomo “povero”, privo delle cose, del sapere di esse, del desiderio di goderne, ormai giunto nel fondo super-essente di Dio. Il “patire Dio” è inteso nei termini di un ritrarsi nel silenzio di ogni immagine, nell’esser completamente assorbita dell’anima (Eckhart chiama questo inabissamento: sinderesi) nel fondo segreto, nell’abisso insondabile, nel deserto di Dio. L’idea del “deserto” o più precisamente del luogo “ove nessuno è a casa propria”,10 come nome che rispetta Dio nella sua indefinibilità, fa da immagine speculare all’idea derridiana di chora, che verrà toccata tra breve come luogo dell’ “apertura senza ubicazione”: il deserto dove ogni teleologia ed economia è deposta. Nel percorso teoretico di Eckhart, l’idea di Dio si approfondisce nel senso del fondamento tolto (Ab-Grund) a tal punto da perdere la connotazione originaria di “puro intelletto” e prendere quella di Ni-ente, Nulla senza fondo: letteralmente Dio è un “non si sa che” misterioso e nascosto. Come metafora della trascendenza assoluta di questo Ni-ente rispetto a tutti i discorsi di carattere teologico, noetico, unologico, Eckhart riportava l’evento alla radice della conversione di S. Paolo: l’incontro col “mistero divino” che questi ebbe sulla via di Damasco:

Paolo si alzò da terra e aperti gli occhi, non vide nulla (…) non vuol dire nient’altro se non che, aperti gli occhi, vedeva il Niente. Non vedendo alcunché, vedeva il Niente divino.11

Il Niente di Dio, scrive Eckhart, deve essere “afferrato” come modo senza modo, nell’assoluta dismisura, poiché nessun principio di ragione umana lo afferra. Il desiderio di Dio, che lancia il dinamismo di ogni teologia apofatica, deve tradursi nell’abbandono del desiderio stesso, nel “disperato distacco” (altra “voce” del Gelassenheit) dal Dio inteso in senso ontologico. La più efficace traduzione poetica di questo concetto di Dio- ni-entità dell’origine12 è proprio l’opera di Silesius, forse anche in quel verso richiamato da Heidegger intorno alla “rosa senza perché”, che indicava lo spiraglio ad un pensiero dell’essere fuori dal senso e dal principio di ragione sufficiente, che illumina l’idea del non-senso di Dio, dell’irrappresentabile deserto al di

10MEISTER ECKHART, Deutuche Werke, Pr. 48. 11Ibi, Pr. 71. 12 Ibi, Pr. 23 ; “E se egli (Dio) non è Bontà, né Essere, né Verità, né Uno, che è dunque mai? Non è niente di niente, non è né quello.”

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sopra di ogni concetto. Quel “senza perché” (ohn warum) che passa il dominio dell’esprimibile e del razionale, del logos, dell’origine univoca e risalibile (archè), oltraggia (nel senso del superamento ma anche dell’ “offesa”) perciò ogni metafisica. Il contributo di Silesius alla diffusione del pensiero eckhartiano, interessa anche la questione dell’abbandono, di quell’ “amore apofatico” che Eckhart aveva trovato come unica via di desiderio che rispettasse l’assoluto Altrimenti di Dio. Se Derrida, nel saggio del 1993, riprende Silesius è precisamente per suggerire un’ alternativa al logos onto-teo-logico: il linguaggio poetico sembra essere più adeguato ad uscire fuori dalla sfera della significazione immediata. Gli enunciati apofatici tracciano un percorso del “senza”, fuori dall’economia che cerca l’afferramento del significato: lascia risuonare il Niente di Dio in un de-ferimento (un riferirsi senza-oggetto, senza dominazione della nominazione su questo) che dif-ferisce sempre altrove il suo luogo introvabile. In un distico dal titolo Il mistico distacco, Silesius scriveva: “Il qualcosa si deve abbandonare. Uomo, se tu ami qualcosa, allora non ami niente veramente: Dio non è questo e quello, lascia dunque per sempre qualcosa”13. E altrove ancora: “L’abbandono più segreto. L’abbandono è capace di prendere Dio; ma lasciare Dio stesso, ecco un abbandono che pochi uomini sono capaci di intendere”14. L’ateismo di cui i mistici sembravano essersi “macchiati” è perciò amore infinito che è abbandono e amore per l’abbandono: una rinuncia che salva intoccato il Dio assoluto (ab-solutum: sciolto, slegato dagli enti) e sfida la metafisica nelle sue pretese di risalire e spiegare il sommo principio. Ma come riconfigurare questo parricidio dell’apofatica sull’onto-teo-logia nei termini del distacco, del desiderio e del limitar-si (nel senso dell’esser-linguaggio-del limite e dell’esser discorso auto-svuotantesi) della teologia negativa, nel pensiero di Derrida? Come questo discorso senza nomi interrompe l’economia e apre l’evento nella sua ingovernabilità essenziale? Silesius deve essere riletto alla luce della teologia negativa intesa come post-scriptum. Post-scriptum. É necessario a questo punto un altro esergo che riferisca di un’eredità che in qualche modo prosegue e trasforma la tradizione apofatica, e che Derrida rielabora: si tratta di Emmanuel Lévinas. La riflessione di questi sull’Illeità e sull’ad-dio è il nodo in cui Derrida ri-allaccia il discorso di Dio come impronta anacronica di una Traccia che si inscrive autocancellandosi e il discorso su Dio nei termini di una risposta ad-dio, testimonianza del desiderio più disperato per ciò che resta altrimenti che essere, fuori dalla metafisica. Il principium rationis di Leibniz, che poneva il fondamento nella ragione sufficiente nell’Ente Sommo a garanzia dell’essente, diventava nel pensiero moderno un principio di ragione umana. Già nell’apparato critico kantiano la modernità comincia a pensare il fondamento (Grund) come soggetto conoscitivo che pone l’oggetto di fronte a sé. Vale a dire che nella ragione pura (reine Vernunft) risiede la capacità di rendere ragione di ciò che è; poiché essa dispone delle “condizioni a-priori della possibilità di conoscenza” dell’essente si offre come motore di giustificazione dell’oggetto che non può stare in piedi da sé e che non può prescindere da una soggettività, ragione del suo esistere. È una ragione che mentre conosce, calcola e costituisce. Se ci si sposta tra le analisi di Husserl, fondatore della fenomenologia e maestro di Lévinas, si tocca l’esigenza di risalire persino al di qua delle forme a-priori dell’intuizione kantiana (spazio e tempo), considerate come dei costituiti e non come le condizioni trascendentali della conoscenza. Il punto di costituzione di un mondo, il Grund, doveva invece essere la struttura di un soggetto colto nella sua purezza, sgombrato dalle conoscenze precedenti. La riduzione trascendentale (eidetico-tematica) meglio conosciuta come epochè, “messa tra parentesi”, imponendo un dubbio sul “già pensato” intorno a un mondo, riscopriva il campo originario dello scaturire evidente del senso del mondo a partire dalla sfera indubitabile, necessaria (apodittica), del flusso dei vissuti (Erlebnisse) di un soggetto: la coscienza trascendentalmente pura, unico luogo da cui “rendere ragione” di un mondo. Nell’ego puro, “punto zero della spazialità”, l’oggetto si dà “in carne ed ossa” lasciandosi penetrare totalmente; con le strutture intenzionali-temporali pre-originarie il soggetto afferra ogni 13ANGELUS SILESIUS, Il Pellegrino Cherubico, Edizioni Paoline, Milano 1989, p. 115. 14Ibi, p. 176.

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fuori di sé in un dentro che ordina e dà senso. In tale orizzonte di senso guadagnato nella manovra di riduzione, si schiudeva la legge di correlazione universale tra soggetto e oggetto (noesis e noema) e la portata essenziale del soggetto entro il quale sarebbe sorto un senso indubitabile del mondo. L’ego husserliano “dà ragione” dell’essente nel processo fenomenologico che, sebbene infinito, resta teleologico. La svolta rispetto a questa auto-posizione e auto-gestione del soggetto come fondamento di ragione, avviene con Lévinas che riadopera la manovra dell’epochè per rivolgerla contro la fenomenologia stessa. Lévinas si spostava già al di qua dell’ego puro, ravvisando (il punto di partenza era stato l’appaiamento originario di ego e alter-ego nella zona più intima dell’ego monadico, già indicata da Husserl stesso) un’assoluta precedenza su di esso: l’altro. L’altro si ritrae all’afferramento del soggetto, non gli si offre mai in un’intuizione eidetica, sfugge al suo dominio concettuale. L’epochè rideclinata da Lévinas diventa interruzione della fenomenologia e dell’ontologia poichè rileva una irruzione anacronica al cuore della sfera appartentiva del soggetto che non si lascia dialettizzare in una sintesi nè disciplinare in uno spazio domestico: è piuttosto ciò che rivela l’essenza del soggetto nel suo “esser-già-da-sempre-fuori-di sé”, “esser-per-l’altro”. L’ego si scopre in un ritardo non recuperabile, già da sempre a dover rispondere all’appello del volto d’altri, da cui era stato traumatizzato e stra-volto all’insonnia dell’attesa e della responsabilità. Dal nominativo del potere su se stesso e sulle cose, il soggetto si rivoltava in accusativo del debito verso l’altro, in esposizione alla chiamata. Il punto che tuttavia è definito il passaggio “dall’ontologia all’etica” da parte di Lévinas, prendeva corpo da un certo al-di-qua dell’etica stessa. Per dirla in altre parole: l’idea di Dio faceva il suo ingresso nello spazio del rapporto duale e asimmetrico dell’etica. La portata maestosa del volto d’altri nel soggetto, il suo sopraggiungere da una lontananza abissale e ad un tempo la sua ossessione tanto prossima al soggetto da destabilizzarlo “dall’interno”, diviene possibile perchè il volto è per Lévinas “il luogo della verità metafisica”, il luogo ove trapela la traccia di Dio, Terzo assoluto, che garantisce la relazione etica proprio mentre la interrompe. Questo Dio è però lontano dal Dio metafisico, è trascendenza che si risolve nell’immanenza del volto e che resta inimmaginabile, inafferrabile e invisibile, in una parola: un Altrimenti che essere. La traccia di Dio/Terzo, storna il tempo fenomenologico e apre una temporalità asimmetrica ove il soggetto perde il suo statuto di origine ed è invece chiamato a rispondere a un appello senza memoria. Lévinas offre dunque a Derrida una prima “suggestione” di tipo apofatico per un discorso intorno a Dio come Assolutamente altro. Il concetto di traccia, inoltre, sarà essenziale al pensiero di Derrida: la traccia è un passato che non è mai stato presente, una resistenza alla rap-presentazione e ripresentazione. In Lévinas la traccia diceva, secondo l’espressione che egli formula in Altrimenti che essere15, l’Illeità (Terzietà) di Dio come “passività più passiva di ogni passività”, che sorge nel “faccia a faccia” dell’etica e lo garantisce, parla dal volto come “gloria dell’in-finito” che fa esplodere la finitezza del soggetto e lo apre all’infinito nell’ingiunzione alla responsabilità. In Derrida, invece, la traccia indica un supplemento d’origine. Si tratta di una frattura assolutamente non recuperabile nel regime del senso, che elide ed elude l’origine unica (il Grund) della metafisica onto-teo-logica; è la dif-ferenza all’origine e come origine sia intesa come la spaccatura, “spaziamento” (brisure) anacronica a condizione di ogni reductio ad unum tradizionale e che sta a condizione di questa, sia nel senso del dif-ferirsi pre-originario dell’origine, del suo trovarsi sempre altrove rispetto al punto in cui la si cerca o, che è il medesimo dispositivo, ancora da venire. La traccia all’origine indica un resto: non ciò che “avanza” da un calcolo economico, ma ciò che “insiste nel resistere” da sempre a qualunque riconduzione nel circolo normativo del proprio. L’Illeità lévinasiana, il Terzo assoluto e fuori dall’essere, sorgeva cooriginariamente al volto: come Derrida fa notare nell’Addio ad Emmanuel Lévinas16, quell’ Altrimenti che essere, sebbene renda

15EMMANUEL LÉVINAS, Autrement qu’etre ou au-de-là dell’essence, Martinus Nijhoff, La Haye 1974 ; ed. it. a cura di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983. 16J. DERRIDA, Addieu à Emmanuel Lévinas, Edition Galilèe, Paris 1997 ; ed. it. a cura di S. Petrosino, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1998.

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possibile l’asimmetria tra altro e soggetto e la relazione etica possibile solo in forza di questo squilibrio, emergendo nel rapporto duale lo interrompe: è l’Altro dell’altro che rivendica il suo appello, impone uno spergiuro originario nell’altrettanto originario giuramento etico, apre la questione della giustizia e del politico perché impone lo sguardo del terzo umano (oltre che di quello divino). L’Assolutamente altro che Lévinas traduce con l’idea di Illeità, diventa in Derrida l’Eterogeneo, il qualunque altro, sempre sconosciuto: l’ignoto che resta sempre-ancora a venire, proprio perchè è già sempre venuto, ma in un permanere impensabile, segreto, irrisalibile. In Derrida Dio finisce di essere il “fine della pazienza etica” e riprende la sua portata immateriale: una sorta di spettralità. Nello specifico del problema della teo-logia negativa intesa come discorso “da Dio a noi”, il Terzo che passa l’essere e la nominabilità, l’Eterogeneo-Traccia anacronica (come supplemento d’origine che rimanda all’idea mistica di sovra-divinità), smisurata perché abissale, mi agita da sempre: paralizza la ricomprensione dell’altro nel sistema economico-sintetico, blocca la teleologia della “metafisica del proprio”, rideclinabile anche come “logo-centrismo” che è poi quella ove domina la voce, il logos, la simultanea e simmetrica rispondenza tra il chiamante e il chiamato. L’Eterogeneo ha lasciato la sua firma (“marca” o anche “incisione”) della dimora, prima ancora di ogni legislazione domestica: è il terzo non-dialettizzabile che fonda il sistema mentre impedisce che questo si chiuda, la faglia che da sempre “manda a vuoto” e “in vacanza” il moto di ricomprensione sull’estraneità. La situazione di ritardo insuperabile in cui il soggetto si trova lo richiama ad un dovere di contro-firma alla firma pre-originaria e irrisalibile: dire l’irruzione inquietante del Terzo non può quindi che tradursi in un post-scriptum. La teo-logia negativa, questa volta intesa nei termini del discorso “da noi a-Dio”, sorge sempre post-festum, (per usare un’espressione di Derrida: après coup), in un secondo tempo, in risposta all’incursione non memorabile della Traccia che ha già sempre interrotto il codice dialettico di ogni dispositivo economico. La teo-logia negativa è pertanto la “scrittura in ritardo” che per prima testimonia l’Assolutamente altro in modo rispettoso, “post-scriptum e prolegomeno, descrizione che giunge dopo ciò che essa descrive e pertanto scrittura inaugurale”17, e ha il compito di conservare sacro, salvo, intatto, inviolato il senza-nome di questa Terzietà che apre nel Segreto. La “negatività” di questo discorso risuona nel compito di “spoliazione incessante” di ogni attributo che cerchi di ridurre l’Idefinibile-Invisibile sotto il controllo economico del senso; un’opera che ricalca specularmene quella che la Traccia di Dio-Terzo ha già posto in azione nel sistema, inoculando in esso un’interruzione continua. In Salvo il nome Derrida coglieva lo slancio cui meglio si addiceva la modalità di questa particolare “attenzione” all’Eterogeneo: un desiderio infinito che è deferenza, ad-Dio. Nell’ad-Dio, termine levinasiano, parlava già l’idea del de-ferimento a Dio come saluto ultimo, abbandono che “lascia venire” l’altro in quanto tale. Derrida lo ripropone nella formulazione di Silesius: l’abbandono (Gelassenheit) è la sola “pratica” che rispetta e dimostra ritegno per Colui che non si dà mai in un’intuizione; altro nome dell’abbandono è: desiderio. Il particolare a-teismo che da sempre ogni enunciato apofatico porta con sé, la sua “radicalità” non è l’assenza ostinata di Dio o la sua “semplice” morte, ma a-teo-teleo-logia, ovvero desiderio profondo di Dio come inarrivabile alle teleologie dei mortali; morte di Dio come Ente supremo degli essenti e rivendicazione del suo Altrimenti che essere. Un desiderio, scrive Derrida, che rinuncia alla sua stessa spinta di raggiungimento del desideratum e in questo rinunciare denuncia l’incombenza del Dio-Segreto come abisso, deserto, Nulla. L’abdicazione alla matrice narcisistica del desiderio (che sarebbe sempre teso al godimento dell’oggetto anelato) prende corpo nell’abnegazione all’abbandono, inteso come “slancio che si trattiene”, che lascia venire (o non-venire: questo è essenziale nel pensiero derridiano dell’evento) l’altro/Altro (che sia umano o divino) nel suo modo senza modo, impossibile. Il post scriptum della teologia negativa desidera la distanza, di essa gode ed essa salvaguarda come massimo gesto d’amore per Dio/Altro.

17J.DERRIDA, Salvo il nome, op. cit. p. 157.

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In un testo del 1994, Politiche dell’amicizia, Derrida offriva una definizione per questo singolare amore “oltre il possesso dell’amore e il senso d’appartenenza della fratellanza”. La disposizione del “desiderio che abbandona”, presentatosi in Salvo il Nome, è detta aimance: “al di là dell’amicizia e dell’amore, della decisione e della passione, dell’attività e della passività”18. L’ad-dio dice, allora, la de-ferenza (il riferimento vuoto di significato) che fuggendo i nomi, dif-ferisce l’Eterogeneo sempre altrove.

Dimenticarlo nel chiamarlo, ricordando(se)lo. (…) Il linguaggio dell’abnegazione o della rinuncia non è negativo (…) esso denuncia ingiungendo, prescrive di debordare questa insufficienza, ordina: bisogna fare l’impossibile, bisogna andare laddove non si può andare. Passione del luogo, ancora.19

Derrida riprende l’immagine di Silesius quando questi paragonava gli enunciati apofatici a delle frecce che “tenessero sotto tiro” ciò che non avrebbero mai potuto raggiungere: la teologia negativa è un tendere verso il Nulla; si limita, al confine del linguaggio e come linguaggio, a denunciarne la trascendenza rinunciandovi nella dif-ferenza (dif-ferimento), restando ovvero nel desiderio, nell’ad-dio. Derrida rileva nelle parole di Silesius la spinta a considerare la “via negativa” una sorta di “via di verità” che colga Dio non come donante una verità, o una ratio, bensì come lo spazio della verità a-venire, il deserto dove un evento trovi spazio nella sua alterità. La teologia negativa sarebbe quindi per Derrida la “marginalità sovversiva” che, come vederemo tra poco, agita ogni fede determinabile, dogmatica. La kenosis che la via negativa esige come suo dinamismo essenziale ha forse una gittata messianica. Si tratta, però, di un messianismo che non lega con l’idea di attesa storicamente necessaria di un Salvatore, che non è una soteriologia: è quell’ “adesso” che sfida il tempo dell’anticipazione e fa il rispetto senza il quale non può venire alcuna alterità radicale. La missione silesiana dell’ “andare ove non è possibile”, verso l’impossibile, è per Derrida l’unico modo di recarsi, di andare e di venire: chi si reca in un luogo che conosce, resta paralizzato nella “in-decisione dell’an-evento”20 che segna ogni procedimento economico, in cui si calcola ciò che dovrà venire e in quale orizzonte di senso neutralizzare l’im-pre-visto. L’autentico “recarsi” deve fare i conti con l’indecicibile e l’impossibile, al confine come linguaggio. È un recarsi che abbandona, che cede all’altro, che lo lascia venire in un atteggiamento di indifferenza, insensibilità agli attributi di ciò che viene, amando anche l’invisibiltà che custodisce l’inaccessibilità dell’Altro. “Arrendersi e rendere le armi senza disfatta, senza memoria né progetto di guerra (…) un amore senza gelosia che lascerebbe essere l’altro”; la resa di cui parla Derrida è il modo di risposta dell’abbandono alla Resistenza senza nome, l’esercizio di ritegno che la teologia deve operare affinché l’altro resti altro. L’incessante spinta della teologia negativa a “debordare” il linguaggio, ad abbandonare per salvare, può prendere, per Derrida, le fattezze di una preghiera, che prega Dio non di provvedere con doni, ma di darsi lui stesso, di venire senza dare alcuna prova. Una preghiera che testimonia l’amore, il desiderio, quello che Derrida chiama il “Ti amo sempre in cammino”21. Ecco che quell’idea di pensiero peregrinale che era apparso nell’opera di Sch�rmann su Silesius, forse traduce con chiarezza il movente vitale della teologia negativa; un restare in viaggio verso l’irragiungibile, lasciando aperto nell’abbandono lo spazio ove lo si attende: il desiderio come luogo puro. “Il desiderio di Dio, Dio come altro nome del desiderio tratta nel deserto con l’ateismo più radicale- Ad ascoltarvi, si ha sempre di più il sentimento che deserto è l’altro nome se non il luogo proprio del desiderio. (…) In quest’oscillazione la teologia negativa è presa”22. L’apofasi disegna, senza delimitare, il luogo desertico ove da sempre siamo gettati: la Traccia di Dio come luogo del desiderio, desiderio del deserto, desiderio nel deserto. L’ateismo che sempre 18J. DERRIDA, Politiques de l’amitiè, Galilée, Paris 1994; trad. It. di G. Chiurazzi, Politiche dell’amicizia, Cortina, Milano 1995, p. 16, nota 7. 19J. DERRIDA, Salvo il nome, op. cit. pp. 151-152. 20Ibi, p. 167. 21Ibi, p.161. 22 Ibi, p. 171-172.

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incombe nell’idea desertica di Dio designa il più forte slancio di questa fede del desiderio: errare, perdere Dio/Altro per lasciarlo venire, per rispettarlo nel suo “senza”. Nel luogo aporetico del deserto, luogo potenziale di tutte le vie perché privo di tracciati, confini, autorità nazionale, è sita la terra di nessuno che lascia venire l’altro/Altro. L’abbandono è il tributo di ritegno reso all’Impossibile, o per chiamare ancora in causa Silesius, a Dio come “il più che impossibile” (�berunm�glichste). Dio è per Derrida il nome di un “crollo senza fondo, di questa desertificazione senza fine del linguaggio. Ma la traccia di questa operazione negativa si iscrive in, su e come l’evento”23. Ma cosa intende Derrida per: passione del luogo? Nel deserto ha luogo una certa “donazione del dar luogo”. Si può toccare trasversalmente la questione di questo “luogo puro dell’apertura” e la passione irriducibile che in esso si consuma, se si richiama il profondo legame tra teo-logia negativa (nelle due “accentazioni” di Dionigi) e l’idea di decostruzione. Derrida, riferendosi al discorso di Silesius sull’idea di un “iper”, un al di là del possibile che Dio era come eterogeneità assoluta, scriveva: “Questo pensiero sembra stranamente familiare all’esperienza di ciò che si chiama “decostruzione”. (…) , la decostruzione è sovente stata definita come l’esperienza stessa della possibilità (impossibile) dell’impossibile, del più impossibile, condizione che essa divide con il dono, il “si”, il “vengo”, la decisione, la testimonianza, il segreto, etc.”24

La teologia negativa è decostruzione perché disloca il sistema teleologico di ogni ragione, di ogni archè. Il procedimento apofatico di de-ferenza “porta la negatività come principio di auto-distruzione al cuore di ogni tesi”,25 ma in Derrida si distingue sia dall’epochè fenomenologica (di stampo husserliano) che dalla skepsis (l’interruzione scettica). Infatti non si tratta di recuperare regressivamente un territorio da cui riguadagnare una nuova ragione del mondo e neppure di voler gettare discredito su ogni definizione di Dio-Assolutamente altro, di considerarle tutte egualmente vane, come avverrebbe in uno scetticismo. È invece un processo di continua inquietudine interna al sistema onto-teo-logico; si può praticarlo attivamente perché già da sempre il sistema patisce la lussazione imposta dal Terzo, la faglia che lo frattura e gli impedisce di chiudersi, di risolversi dialetticamente (in senso hegeliano). Decostruire dice per Derrida il gesto dell’accellerazione di una dislocazione già in opera nel sistema: è la prova del fatto che il sistema stesso, la sua economia totalizzante e il suo movimento di sintesi sillogistica, è impossibile. La teo-logia negativa traduce altrimenti la decostruzione. Nei modi in cui Derrida la definisce, “grande sisma” o “tremore generale” nel sistema, affiora l’irruzione dell’eterogeneo (Dio) che non si lascia economizzare. La “negatività” della teo-logia, intesa nel senso del discorso di Dio agli uomini, è nella agitazione senza origine, abissale, senza tempo di un Terzo-Traccia senza-nome che impone al soggetto-sistema la deposizione delle sue mire sul Tutt’altro che ogni altro è; “Tout autre est Tout autre”26 (Ogni altro è Tutt’altro). Presa invece nel senso di post-scriptum, di risposta ad-Dio, la teo-logia negativa è decostruzione perché testimonia la de-strutturazione ad opera della Traccia e la mantiene salva, inviolata come l’inattuale che ad un tempo fonda e interrompe il sistema. La Traccia non si dà mai alla presenza ma si dif-ferisce sempre a-venire e lascia uno spazio abissale e mai saturabile di interruzione, ove ogni avvenire trova spazio. Proprio la Traccia è, per Derrida, condizione dell’evento, di ciò che deve ancora venire ma che resta impensabile e non preparabile. Il nome che sembra a Derrida figurare in qualche senso questo abisso, altro nome della Traccia/ Terzo/Dio/Assolutamente altro, è: chora.

23 Ibi, p. 149. 24Ibi, p.137. 25Ibi, p. 160. 26 J. DERRIDA, Donner la mort, Galilée, Paris 1999; tr. it. di L. Berta, Donare la morte, introduzione di S.Petrosino, Jaca Book, Milano 2003.

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3- Chora e messianicità a-priori: le piste possibili della teologia negativa. L’economico tra due abissi La teologia apofatica, come de-ferenza che dif-ferisce l’Altro assoluto e lo lascia a-venire nell’addio, ha il compito di lasciare aperto lo spiraglio per la venuta dell’impossibile (l’Altro/altro come più che impossibile). Derrida, perciò, ereditava una certa idea di questa apertura pre-originaria testimoniata dalla decostruzione dal Timeo di Platone: chora può essere colta come la prima “pista” della teologia negativa. In Chora27 (1993), Derrida sottolineava lo statuto eccezionale della chora del Timeo: essa sfida la logica di non contraddizione dei filosofi e perciò l’idea di origine razionale in senso metafisico. Sul piano etimologico chora indicava l’idea di luogo, contrada, spazio, ma in Platone viene ad assumere una portata inquietante: era intesa come terzo genere (triton ghenos). Per risolvere il problema del luogo della partecipazione tra le idee o “ciò che sempre è senza generazione” e le cose o “ciò che sempre diviene senza mai essere” per la formazione del mondo, Platone postulava l’esistenza di un terzo genere, ad un tempo eterno e informe come i paradigmi ideali, ma dotato di un “certa materialità” come gli oggetti empirici: la chora appunto, luogo neutro, intermedio e introvabile di un incontro tra i piani ontologici. Chora era anche la materia amorfa che resisteva alla volontà di in-formazione che il demiurgo (la causa efficiente del mondo) cercava di perpetrare su di essa (causa materiale) per realizzare la creazione. Platone la coglieva quindi come ricettacolo di impronte, poiché in essa conservava i calchi di imitazione delle idee, da cui le cose sarebbero state ricavate: ma chora si limitava ad ospitare, a ricevere senza prendere la forma di ciò che in essa giungeva; era un luogo di donazione che restava vergine ad ogni trasformazione. Inoltre era introvabile poichè situante (spazio che pone la legge della partecipazione degli opposti e resta immune alla legge che pone) ma mai situabile tramite confini o linee di demarcazione. Altro nome che Platone dava alla chora era “genere difficile ed oscuro”: vale a dire che questo spazio sfuggente non poteva essere tematizzato nel logos metafisico tradizionale per il fatto che nessun nome le si addiceva, che nessun significante realizzava l’essenza del suo significato. Chora era causa del cosmo ma causa errante, che oltrepassava ogni possibilità di essere afferrata in una comprensione: senza logos, senza ragione, senza perché. Per questo, Platone indicava un possibile avvicinamento all’idea del terzo genere in un discorso senza-padre, senza-origine o “principium”: un logismo notho, un discorso corrotto, bastardo, un discorso di sogno. Forse, una teologia negativa. Derrida, scavando nell’opera di Platone, scova proprio nel concetto-senza concetto di chora, il primo luogo della filosofia occidentale in cui si sarebbe rivelata la decostruzione di una eccedenza indescrivibile nel dominio della metafisica; ci sarebbe una specie di ventriloquio che agita l’ontologia fin da Platone, un segreto che impone un “tono generale di denegazione”28. La logica binaria dei filosofi e il discorso razionale viene interrotto da questa origine introvabile, da questa faglia che divide e dona un campo d’incontro e di confronto, che interrompe ogni soluzione del logos. Derrida la riformula quindi come lo “spaziamento” aperto dalla decostruzione del Terzo/Altro assoluto, la traccia cancellata che divarica (dif-ferisce: nel senso del fare differenza e del rimandare) l’origine e il sistema in un’erranza continua, stravolta, che non torna mai a casa. Se la chora è questo nome “insensato” che non è né nome proprio (di persona, anche fosse una “persona divina”) né comune (di cosa), ed è questo luogo impossibile dell’ “improprietà”, informe e inimmaginabile, essa deve essere avvicinata ancora all’idea di abisso (l’Abgrund di Eckhart e Silesius), di segreto, di deserto, di Niente (in Dionigi). Per Derrida è il varco aperto dal Dio/Terzo: luogo particolare di donazione che non dona nulla ma che ha già sempre decostruito la teleo-logia e aperto l’av-venire. L’unico discorso trasversale, ultra-razionale che può riferirsi “obliquamente” a questo deserto che Dio è come chora, è la via apofatica. Ogni logos metafisico subisce un’impasse linguistica nel tentativo di spiegarla: “portando al di là della polarità del senso (metaforico o proprio) essa non 27J. DERRIDA, Chora, Galilée Paris 1993, ed. it. di G. Dalmasso e F. Garritano, Il segreto del nome. Chora, Passioni, Salvo il nome, Jaca Book, Milano 1997. 28 Ibi, p. 79.

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apparterrebbe più all’orizzonte del senso, né del senso come senso dell’essere”29. Per Derrida, chora è l’ “anacronia dell’essere”, sussiste nell’essere come resto anacronico, lo fa uscire dal tempo della presenza. La teologia negativa riesce a far risuonare l’idea di questo spazio che non ha luogo, che non può essere visto né pensato, un fuori genere che oltre-passa il discorso mitico oltre che quello logico: chora, come il Dio senza- essere, situa ma non è circoscrivibile; è l’interruzione pre-originaria che ha spalancato ogni “ordinamento” metafisico. Detto altrimenti: è l’abisso che si apre come differenza all’origine, la traccia acronica che trova la condizione del suo dar luogo nel fatto di non avere un luogo. Nella chora e come chora si annuncia l’eterogeneo, si inscrive la marca di un segreto che resta sempre impenetrabile: un “segreto senza segreto”.30 Anche la declinazione platonica di “causa errante” riferita a chora è riformulata da Derrida nei termini del fondo-senza fondo della differenza, che si annuncia senza dirsi, sempre differendosi, anteriore ad ogni schema atropo-teo-logico. Il luogo-senza luogo né nome che chora è, come “spaziamento” che la via apofatica post-festum mantiene all’opera, è proprio il deserto in cui si pratica il “particolare a-teismo” di Derrida; l’apertura in cui si abbandona l’altro/Altro al suo venire, lo si lascia venire senza condizioni. Chora è dunque il deserto dell’evento, lo spazio senza vie predisegnate, senza circuito che indirizzi un andare o un venire dell’altro già previsto. Ogni altro può avere luogo in questa “piega”, la sola che permetta di avanzare la possibilità, seppure problematica, di un certo pensiero dell’evento fuori dall’orbita dell’economico, una certa “attesa senza atteso”; l’apertura all’incondizionato che rinuncia alle proiezioni onto-teo-logiche e si lascia sorprendere dalla tonalità mostruosa dell’evento. Per poter cogliere tutta la portata di uno spazio come la chora, bisogna pensarla come il luogo di una spettralità. La Traccia senza memoria di ciò che non si lascia sintetizzare e che resiste alla totalizzazione del sistema (Dio come Altro dall’essere) richiama, dall’abisso della sua impensabilità non superabile, un altro abisso: quello dell’a-venire. Il passato senza presente, torna nel modo spettrale come l’Altro, l’eterogeneo l’inimmaginabile e imprevedibile che può venire in qualunque momento dal futuro, in modo improvviso e fuori dall’orizzonte di senso di un soggetto. La teleologia dell’economico che scandisce ogni metafisica resta tesa tra questi due abissi: il passato irrecuperabile di un traccia che la eccede-oltraggia e l’a-venire non anticipabile di ciò che si sottrae alla sua ratio. Chora è il luogo di un tempo dell’im-possibile, che spettralmente minacci o prometta di tornare dal futuro. La seconda “pista” possibile che la teologia negativa sembrerebbe aprire è una “certa” messianicità a-priori. Al fine di lanciare l’allaccio problematico della chora e dell’idea di messianicità a-priori come articolazioni nell’interruzione dell’economico “tra i due abissi” e indicare, nella loro apertura all’a-venire, la potenzialità di liberazione dell’impensato delle categorie metafisiche (anche nel politico, giuridico, etico, economico), necessita la lettura della teologia negativa nei termini dell’istanza che possa aprire una “religiosità senza religione”. L’apofasi dovrà prendere corpo in una fede “folle” e non dogmatica che storna l’assicurazione soteriologica insita in ogni religione e rende instabile la convinzione di un ordine storico vòlto alla salvezza nel quale si conclude e si giustifica in forza di una ragione sufficiente. Si tratta di riassumere la teologia negativa come a-teo-teleologia: il punto di svolta che segna il superamento della prospettiva escatologica e perciò economica è, per Derrida, il passo che la nuova “fede d’addio” compie al di là dell’odierno “ritorno del religioso”. Il saggio Fede e Sapere31, Derrida affronta il rapporto di reciproca implicazione tra fede e sapere, religione e scienza: il “ritorno del religioso” si gioca nel luogo di questo legame apparentemente paradossale. La questione è complessa e non può essere approfondita in questa sede, ma pochi cenni possono essere funzionali a segnare i nodi da cui sorge una fede non assicurata, non garantita nelle sue “aspettative finali” da nessun principio di ragione.

29Ibi, p. 50. 30Ibi, p.74. 31J. DERRIDA, Fede e Sapere. le due fonti della religione ai limiti della semplice ragione, in La religione, a cura di J. Derrida e Gianni Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1995.

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Sebbene la religione si sia sempre schierata contro le diverse configurazioni storiche del “male radicale”, vale a dire contro le forme di “morte di Dio” che il sapere proponeva, invero, fin dal secolo dei Lumi, essa è sempre stata legata al sapere e alla sua istanza de-sacralizzante. L’evidenza di questo pre-originario coappartenersi si esplica nell’epoca contemporanea. Per “ritorno del religioso”, oggi, si intende non il trionfo della fede sulle pretese del sapere, ma il nuovo compromesso tra le due sfere. Il termine “religio” richiama etimologicamente due significati precisi: da un lato indica lo scrupolo che raccoglie attorno ad un sacro (relegere), dall’altro invece indica il legame, l’obbligo e l’alleanza tra uomo e uomo o tra uomo e Dio (religare). Quella che Derrida perciò chiama l’“ellissi della religione” ruota tra due fuochi: la credenza e la sacralità, o detto in altre parole: la componente del fiduciario e quella dell’indenne. La seconda spinge ogni religione alla difesa di qualcosa di inviolabile, sacro, indenne (Heilig). La prima inserisce la religione in un gioco di responsabilità, nel senso del “re-spondeo”: la religione è un atto di credenza col quale ognuno risponde con un moto di fiducia incondizionata alla testimonianza di una rivelazione che non si può ripresentare ma deve essere creduta, appunto, al di là di ogni verifica. Il sapere, la scienza, si appoggia proprio a quest’ultimo “fuoco” della religione per il fatto che il giuramento, il pegno, la fede giurata è la radice di ogni responsabilità; nessun patto, seppure laico può avvenire senza che colui che rivela un fatto chieda silenziosamente agli ascoltatori di “prestargli fede” e prometta in qualche modo “di dire la verità”. Ma ciò che rende questo impegno fra uomo e uomo “garantito”, è precisamente il richiamo implicito ad un Terzo, un testimone (si noti l’assonanza in latino tra il termine “terzo”, terstis e il “teste”, testis) assoluto che assista alla contrazione del patto e alla responsabilità che questo mette in gioco: forse proprio un Dio. Da questo primo aspetto emerge già la connessione essenziale che fa del fiduciario, origianalmente religioso, il fondo d’intesa di ogni comunità scientifica e la ragione per cui la scienza, lungi dal cercare l’estinzione della fede, la presuppone. Ma anche la religione necessita del sapere; nella misura in cui, nell’ ineliminabile spinta alla difesa dell’indenne, essa si trova sempre radicata ad un sistema linguistico-politico che, pur trasformandosi nelle diverse identità nazionali, resta invariato nel fondo del suo attaccamento al luogo, alla razza, al sangue, alla terra. Il religioso si serve del sapere per salvare il suo “recinto sacro” dalla profanazione di nemici esterni. La questione risulta meglio centrata se si fa reagire il religioso con lo sviluppo odierno della ragione critica nella forma di quella che Derrida chiama la tele-tecno-scienza. La forma contemporanea di “male radicale” o di “morte di Dio” contro cui il religioso sembrerebbe schierarsi è quello che può essere definito un male d’astrazione, poiché ha a che fare con “quei luoghi d’astrazione che sono la macchina, la tecnica, la tecnoscenza e soprattutto la trascendenza tele-tecno-logica”32. Rispetto a questa figura della de-sacralizzazione, la religione vive in un rapporto che Derrida definisce “antagonismo reattivo e rilancio riaffermativo”. Da un lato infatti la possibilità che il dispositivo tecnico offre di riprodurre all’infinito un evento e di verificare il dato, attenta alla singolarità non ripresentabile dell’evento religioso, che deve salvarsi in una attestazione pura. In questo taglio prospettico il nuovo sapere sradica la religione dal suo ambito domestico, dal suo proprio e dalla dimora etnico-culturale perché la espropria dalle sue radici deportandola nello spaesamento anonimo della riproducibilità tecnica, che non appartiene a nessun regime culturale, storico, geografico. Dall’altro lato, però, tale astrazione mentre strappa la religione alle sue radici, ad un tempo la lega ancora di più ad esse, fornendole infatti gli strumenti per la difesa della sua identità e per l’allargamento del suo spazio vitale contro attacchi o contaminazioni del “fuori”. La religione presuppone la tele-tecno-scienza, il male radicale che la minaccia, come condizione dell’indennità e dell’espansione del suo idioma (linguistico e non solo). Questa manovra di collusione tra sapere (che presuppone il fiduciario-religioso) e fede (che si lega al suo opposto per difendere la sua identità) è un moto economico. La religione vive la “morte di Dio” nella riproduzione dell’evento come tassa della sua indennità. Detto in altre parole, il religioso trionfa in senso imperialistico mentre si auto-annienta. Questo apre il meccanismo di “immunità

32Ibi, p. 4.

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autoimmune”, che spinge il religioso a proteggersi da ciò che la protegge (cioè dalla tecnica) e genera in essa un corto circuito: il sapere, la macchinalità della riproduzione dell’evento inocula nel religioso una certa spettralità. Lo spettro è colui che non è né morto né vivo ma resta nella “consistenza” inquietante di qualcosa che ritorna di continuo dall’abisso di un temporalità non lineare o teleologica: un revenant, un “ritornante”, come nella traduzione francese. Per Derrida la religione, come imperativo che ingiunge di mantenere intatto e inviolato il vivente, davanti a cui fermarsi in un ritegno, in un gesto di riserva e scrupolo (Verhaltenheit, per riprendere il temine heideggeriano), abbandono, ha già in sé il meccanismo automatico della “pulsione sacrificale”: “la vita non vale nulla, se non vale più della vita”33, la vita reca la testimonianza di un’eccedenza, di una trascendenza infinita che vale più di lei, che la oltrepassa e ne conferisce dignità sacrale. La figura del sacrificio umano nei grandi monoteismi storici (si pensi ad esempio alla storia di Abramo e Isacco) è centrale alla comprensione di quel rispetto assoluto che si deve a l’assolutamente altro (Dio, che reclama attenzione oltre le leggi dell’uomo) che traspare nel vivente, per cui il vivente può essere sacrificato. L’attesa di ogni comunità religiosa (e perciò politica) si decostruisce, secondo Derrida, perché precisamente nell’intento di conservare la propria immunità, danneggia il principio di protezione di sé, in vista di una sopravvivenza spettrale: si schiude all’oltre sé che è avvenire imprevedibile. Il sacrificio del vivente contro se stesso si fa necessario per non ferire l’Altro assoluto e lasciarlo venire intatto: è proprio questo dispositivo meccanico che “lancia la vita oltre la vita”, nel suo spazio spettrale, l’aspetto del religioso liberato dalla macchina tele-tecno-scientifica. Per Derrida, il sapere, nel suo meccanismo di ripetizione spettrale dell’evento, impedisce alla religione di diventare una provvidenza, un’economia di salvezza, una soteriologia, un moto d’attesa dell’avvento risolutivo del Messia che segna la fine dei tempi. Non può esserci avvenire senza l’elemento della spettralità che decostruisce la dialettica teleologicamente orientata e apre a ciò che viene-tornando sempre come lo spettro, ma ancora una volta in modo imprevedibile. Così come nessun avvenire ha luogo fuori dalla ripetizione di una promessa di fiducia incondizionata, che ha già anacronicamente detto “sì” all’ignoto, attesa che non sa cosa attendere o attendersi, che non ha alcuna direzione né oggetto. Questa particolare condizione non messianica, nel senso che è priva del sapere storico-teleologico, è quella che Derrida definisce una messianicità senza messianismo, o anche messianismo “a-priori”: una attesa infinita che lascia venire ciò che non si dà alla presenza, l’eterogeneo che proprio perché senza origine né ragione, giunge spettralmente senza annunciarsi. La promessa traduce il compito di mantenere salvo l’a-venire, fuori da ogni controllo economico, di lasciare schiusa la possibilità dell’impossibile e all’impossibile. Il luogo della nuova connessione tra indenne e fiduciario che lasci salvo l’a-venire, è per Derrida la testimonianza: in essa si promette la verità al di là di ogni prova, di ogni verifica. La mia fede (distinta dalla religione) deve credere alla testimonianza nell’impossibilità dell’attestazione, come si crede ad un segreto. La “nuova fede” che Derrida suggerisce è una follia dell’attestazione pura che crede senza “chiedere ragione” o “principio di ragione”, fuori dal vedere e dal conoscere. L’oltrepassamento delle due “gestioni teleologiche”: la garanzia di certezza del sapere tecnico che vuole il controllo dell’imprevisto e la promessa di salvezza messianica della religione a cui è legato, avviene nella decostruzione reciproca tra le due che dà vita a una fede testimoniale disarmata. Derrida coglierà nella e al di là della tradizione teologico- negativa l’unica possibilità di una fede spettrale, che nella sua de-ferenza d’addio lascia venire l’impresentabile. L’a-teismo e la particolare “morte di Dio” da lui indicata nella decostruzione che la via negativa opera (una morte distinta dalle tentazioni che nel saggio segnala di Kant, Hegel, Heidegger), è un’ uscita dall’economia del sapere rassicurante (sia tecnico che religioso), un fede non dogmatica fuori dal paradigma abramico e cristiano, che rende ragione dell’altro senza tematizzarne l’alterità, lo richiama come spettro, lo lascia venire rinunciando alla tentazione di anticiparlo e ricomprenderlo in un sistema chiuso.

33Ibi, p. 56.

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La decostruzione di Derrida, come altro nome della teologia-negativa sorge, secondo l’affermazione di J. Caputo, nel punto in cui Dio non è né morto né vivo, ma “continua da sempre” a vivere in una forma spettrale, sorge nel punto che si può chiamare traccia di Dio: “E avendo superato la morte di Dio sempliciter, egli ha svelato la struttura di quel certo essere religioso, di un certo essere sulle tracce di Dio, con o senza Dio (…) e ciò costituisce ciò che egli stesso ha chiamato una religione senza religione.”34

La “religione senza religione”, perciò, segnala una “nuova struttura dell’essere religioso”, che è il “mettersi sulle tracce di Dio”, dell’assolutamente altro a-venire, o dell’avvenire come assolutamente altro; a prescindere dall’esistenza di un Dio in senso metafisico. Il cammino di questa fede deve restare cieco e sordo: non sapere quando e se l’evento-altro avrà luogo e procedere sul deserto ove nessuna strada sicura emerge. La Traccia anacronica, abissale dell’Altro, che si cancella come differenza all’origine e si differisce sempre altrove, che mi chiama già da sempre al post scriptum testimone di un ritardo insuperabile, mi lascia proseguire senza assicurazione (né “assicurazione sulla vita”,) nel rischio assoluto di perdita, di morte. È una fede disperata: senza speranza di salvezza garantita, il cui tendere “non ha ragione, nè fine”. Solo questa modalità a-teologica è però in grado, per Derrida di lasciare l’avvenire inviolato nella sua sorpresa. Si tratta di un’ escatologia a-priori: pensiero delle cose ultime senza un fine o una Fine, una fede che attende abbandonando il suo desideratum in un addio che lo ri-manda, lo re-invia sempre come ancora-da-venire. Affinché ciò che viene sia salvo, deve restare sempre inimmaginabile, indicibile, fuori da ogni orizzonte di senso. L’assenza di orizzonte è proprio la condizione essenziale dell’evento, che deve esser lasciato venire senza condizioni della ragione. Derrida rileva una “particolare razionalità” alla base della nuova fede non dogmatica: la razionalità incondizionale, quella che non prevede l’evento ma lo lascia nella sua “evenemenzialità imprevedibile”. Se prevedo l’evento lo neutralizzo nella sua irruzione; devo perciò liberare il campo da ogni telos e lasciarmi sorprendere da Colui/ciò che viene: l’impossibile, l’aneconomico, o anche il mostruoso perché “senza precedente”. Questa ratio, fuori dal principio di ragione e dall’economia che lo guida, è una ratio folle che ha a che fare con l’incalcolabile, con ciò che è fuori dal sapere. Per questo Derrida coglie in questa ragione massimamente rischiosa il luogo della decisione più responsabile; essa lavora nel campo dell’indecidibile, quello che ospita l’evento. Le due “piste” di questa religiosità particolare, che si offre al rischio assoluto del “ri-veniente” in una ragione incondizionale, come puro gesto di salvaguardia dell’eterogeneo venivano indicate da Derrida proprio nel messianismo non messianico e nella chora. Il primo è anche detto la “struttura generale dell’esperienza”. Non dipende da alcuna rivelazione ma è la situazione pre-originaria in cui ci si trova implicati: l’essere esposti alla sorpresa assoluta, al rischio-risorsa dell’altro, in un’ apertura a-venire senza prefigurazione profetica, nell’abisso dell’avvenire. Ma tale messianicità strutturale è la risposta ad un’ irruzione anarchica, all’ Ab-grund della Traccia non risalibile. Il messianico è una “decisione passiva” del soggetto che risponde ad un Altro che lo precede, l’incombenza insuperabile dello spettro dell’Altro nell’io. L’economico e il teleologico restano sospesi tra due abissi, impediti da una temporalità anomala, da una sorta di lacerazione della storia intesa come processo dialettico: “Nel bene e nel male, senza alcuna garanzia né orizzonte antropoteologico. Senza questo deserto nel deserto, non ci sarebbe atto di fede, (…) né rapporto con la singolarità dell’altro.”35 L’atto di fede “negativo” lascia venire senza veder venire, esce dall’economia perché non dà disposizioni; come risposta all’“accecamento originario” della Traccia abissale e spettrale dell’altro assoluto, ricalca il movimento di una erranza nel deserto. Deserto può essere anche l’altro nome della “seconda pista” di questa fede non dogmatica in cui Derrida sembra rielaborare il pensiero apofatico tradizionale: chora, presupposto di ogni istanza teologica e antropologica. Nella sua piega introvabile e senza luogo, spaziatura aperta in ogni sistema, è possibile un pensiero di ciò che è al di là dell’essere, del senso, della ragione: l’Altro dell’avvenire. Solo la chora è il luogo di donazione per definizione: poiché essa non ha forma e non 34J. CAPUTO, Dèlier la langue, in Cahier de l’Herne, 2004 (numero 83), numero speciale dedicato a J. Derrida, p. 69. 35Ibi, p. 21.

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imprime forma né si lascia informare, ma riceve le impronte senza lasciarsi intaccare, non può donare nulla perché non ha nulla; l’unica cosa che in essa si dà, proprio nella modalità di slancio del messianismo a-priori, è donare il tempo, nel senso del lasciar venire l’altro senza anticiparlo, dif-ferire l’eterogeneo continuamente, serbandolo nella sua spettralità. La riflessione che Derrida dedicava alla questione del dono e all’impossibilità che ne costituisce l’inessenza, in Donare il tempo36, è indicativa per il modo in cui in chora si dona. Il dono è la stessa figura dell’impossibile perché eccede l’economia, lo scambio e la distribuzione. Se immaginiamo l’economia come un dinamismo che si muove strutturalmente sul binario di un tempo circolare, che ha il proprio destino già annunciato alla partenza, che esce da sé solo per poi ritornare al proprio della dimora (alla stregua di Ulisse che si allontana solo in vista di un rimpatrio) il dono sospende il calcolo economico, la circolazione e la simmetria che lo costituisce. Apre la necessità di un “non-ritorno del donato del dono al donante”. Il tempo del ritorno è lacerato dal dono che è per sua essenza incalcolabile, smisurato; non ricambiabile, non è un “presente” (present è il termine inglese che segna il dono) e si annulla se l’altro lo percepisce. Derrida segnala un vero “oblio del dono” alla radice del circolo economico: il dono non è un nulla, ma una traccia anarchica che fa partire il ciclo economico e lo interrompe. Metafora del dono è infatti la cenere che non si lascia toccare e definire ma “traccia una traccia non lasciando alcuna traccia”.37 Il debordare del dono rispetto alla ragione è dato infatti dalla dismisura della traccia, che “sbiadisce” i bordi chiusi del sistema; è imprevedibile, come l’evento un resto senza memoria, al di là dell’essere, “il segreto di cui non si può parlare, ma che non si può più tacere”.38 La chora, dunque, resta un luogo di donazione pre-originaria poiché spazio aperto in quanto Traccia che decostruisce, apertura all’evento im-possibile a-venire perché dona il tempo dell’avvenire. Nella deferenza della fede non dogmatica che salva l’altro nel lasciarlo venire senza condizioni, il ciclo economico si spezza in un’ attesa infinita e pericolosa, in una esigenza di differimento che rilancia sempre quell’inattuale del sistema da venire. Nella chora è, ad esempio lo spazio che dona il tempo di una democrazia a-venire, di una giustizia a-venire, di una religione a-venire, dove “la a di a-venire declina verso l’ingiunzione così come verso l’attesa messianica, la a disgiuntiva di una differance. (…) “occorre il tempo”, “occorre che si doni, la democrazia, il tempo che non c’è”39. Derrida pensa dunque alla chora anche come l’alcova che dà luogo e tempo per la liberazione di ogni impensato. È interessante anche la questione se una riformulazione delle categorie del politico o dell’etico non debba passare per una messianicità a-priori; altrimenti detto, se la democrazia a-venire si leghi a qualche “teologhema inconfessato”.40

La deferenza della via negativa, nella forma di una religiosità senza religione che supera l’economico della soteriologia delle religioni dogmatiche, si volge a richiamare un certo “Dio senza sovranità”, la cui venuta è la cosa meno sicura si possa pensare. Derrida definisce questa fede: “ipercritica” perché si affida alla razionalità folle e incondizionata, al di qua del principio di ragione, “abbandona attivamente” l’assolutamente altro fuori dall’essere e lascia spazio ad un Dio vulnerabile, sempre a-venire e lontano dal poter esser definito Dominus, legislatore- garante- provvidente o principio “economico” che giustifica e ordina l’essente. Il movimento decostruttivo che anima il pensiero di Derrida, nella sua rinominazione in una “certa” teo-logia negativa, è dunque la testimonianza di una “persistenza”: quella di un “intrattabile” (Traccia/Dio/Altro) che rompe i timpani alla filosofia e la costringe a vivere della sua vertigine e a lasciarsi agitare dall’a-dogmaticità di un impensato. L’economico “principio di ragione” della metafisica non può che cedere a questa Eccedenza e il logos dell’onto-teo-logia resta marcato da un

36J. DERRIDA, Donner le temps, Galilée, Paris 1991; ed. it. a cura di G. Berto, Donare il tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina, Milano 1996. 37 J. DERRIDA, Feu la cendre, ed. it. Ciò che resta del fuoco, Sansoni editore, Firenze 1984. 38 J. DERRIDA, Donare il tempo, p. 148. 39J. DERRIDA, Voyous. Deux essais sur la raison, Galilée, Paris 2003 ; ed. it. a cura di L. Odello, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Raffaello cortina, Milano 2003, p. 157. 40Ibi.

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Fuori-senso che spezza il tempo dialettico nel deserto. L’unico modo di far vibrare questo Ni-ente a-cronico e a-venire si affiderebbe a una sorta di dialettica negativa infinita.

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