e' tutto a posto

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E' tutto a posto di Deborah Gambetta.

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verdenero21

noir di ecomafia

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Deborah GambettaÈ tutto a posto

© 2011, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milanowww.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277

© 2011, Deborah Gambetta

Immagine di copertina: © Justin Paget/Corbis

Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100%

Finito di stampare nel mese di febbraio 2011 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)

Gli autori devolvono una parte delle proprie royalties al progetto SalvaItalia di Legambiente. VerdeNero è una campagna di mobilitazione contro l’ecomafia e il silenzio che l’avvolge, un’occasione concreta per affermare nel paese una nuova cultura della legalità a difesa dell’ambiente.

Per saperne di più: www.verdenero.it; blog.verdenero.it

Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

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DEBORAH GAMBETTA

È TUTTO A POSTO

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Dedicato a tutti i Patatina, Joy, Maggiore, Ellie, Bianchetto e Strike del mondo.

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Permettetemi di dire con franchezza una cosa: siamo circon-dati da un’impresa di degradazione, crudeltà e sterminio che può rivaleggiare con ciò di cui è stato capace il Terzo Reich, anzi, può farlo apparire poca cosa a confronto, poiché la no-

stra è un’impresa senza fine, capace di autorigenerazione, pronta a mettere incessantemente al mondo conigli, topi, polli

e bestiame con il solo obiettivo di ammazzarli.J.M. Coetzee, La vita degli animali

Se niente importa, non c’è niente da salvare. Jonathan Safran Foer, Se niente importa

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28 settembre 2007, venerdì

Gli occhi dell’uomo, nonostante le palpebre cascanti di un rosa quasi marrone, hanno una forma allungata. Sono verdi, e le ciglia sono sottilissime e chiare, quasi trasparenti. Dentro il rettangolo dello specchietto retrovisore, oltre a uno spicchio dell’uscita numero due del casello autostradale di Imola, è tutto quello che si vede. Due occhi senza ciglia dalla forma allungata e verdi come due schegge di culo di bottiglia. L’uomo sta parlando da almeno dieci minuti. Tiene le mani sul volante anche se l’auto è ferma e ogni tanto solleva la destra e traccia con le dita invisibili parabole nell’aria. A ogni gesto della mano gli occhi si staccano dalla strada, ruotano dentro lo specchietto retrovisore e lo guardano. A parlare ha cominciato subito, l’uomo, andando dritto al sodo appena lui e Lucio sono saliti in macchina: «Tanto io e te sap-piamo già chi siamo» ha detto, «e non ha senso star qua a perdere tempo. Se poi c’hai delle domande, quelle me le puoi fare dopo». Lucio, seduto di trequarti sul sedile passeggero, guarda ora il tizio ora lui. Come l’uomo ogni tanto gesticola, così Lucio annuisce.«Lucio qua dice che sei fidato» sorride l’uomo «e la cosa è molto semplice: se accetti» sguardo dentro lo specchietto «tutto quello che devi fare è solo qualche firmetta».

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Fuori dai finestrini, intanto, le auto e i camion continuano a entrare e a uscire dal casello. Il sole che sta calando esplode in lampi bianchi sui lunotti delle macchine e lui è costretto a socchiudere gli occhi.

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«Maltrattamento animali non significa niente» ha detto Ste-fano al suo avvocato stamattina. Stava leggendo l’ennesimo articolo sul giornale che parlava del processo e di nuovo si è imbattuto in quelle parole: maltrattamento animali. In realtà, credeva di averlo solo pensato, una cosa dentro la sua testa come spesso gli succede ultimamente e invece l’ha detto ad alta voce: «Maltrattamento animali non significa niente». «Cosa fai, sei nella merda fino al collo e tu ti attacchi alle parole?» gli ha detto allora il suo avvocato.E Stefano: «Le parole non significano niente». Poi ha alzato gli occhi e l’ha guardato. Anche il suo avvocato lo stava guardando. In faccia quell’espressione tra l’incredu-lo e il confuso che ha messo su da quando l’hanno arrestato e che prima non aveva. Ora lo guarda solo così, lui, come se non ci fosse altro modo, come se per lui fosse diventa-to davvero impossibile combinare l’immagine di quello che era una volta – ma una volta quando? – con l’immagine di quello che è diventato adesso, dopo l’omicidio. Ma Stefano lo capisce. Perché anche lui fa fatica a combinarle queste due immagini. C’è davvero un prima e un dopo, dentro la sua vita, uno spartiacque preciso. Ma la spaccatura, questo sfregio che a volte accade dentro la vita delle persone e dopo

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mai più si può tornare indietro non è avvenuto il giorno dell’omicidio, no, è accaduto prima, molto prima.

Il suo avvocato si chiama Aldo, Aldo Venturini. Lui e Stefa-no si conoscono da trent’anni, fin dai tempi del liceo. Stefa-no l’ha sempre chiamato Vento però, e anche adesso, ogni tanto, gli capita di chiamarlo ancora così. Il soprannome Vento glielo aveva dato lui perché una volta, a quindici anni, era volato con il motorino dritto dentro un campo di orzo saltando un fosso in prossimità di una curva. Stefano stava dietro e si era visto tutta la scena: lui faceva la curva e il suo amico invece dritto filato dentro il campo. Andava proprio come il vento, quel giorno, un volo di cin-que sei metri bello stagliato in alto sulla linea di confine tra le spighe e il cielo e allora ecco che, Venturini – Vento, quel soprannome lì gli era rimasto da allora. Ma adesso, quando gli viene di chiamarlo ancora così, vede l’arco delle sopracci-glia del suo amico contrarsi, i lineamenti del volto indurirsi e allora si dice che forse no, quel soprannome lì che gli aveva dato lui da ragazzini e che gli era rimasto appiccicato addos-so per quasi trent’anni, forse è davvero il caso che non lo usi più, ché forse così amici non lo sono poi più così tanto.

«Le parole non significano niente» gli ha detto quindi. E Vento lo guardava. Erano nel parlatorio, lui seduto al tavolo con il giornale aperto davanti e l’altro già quasi sulla porta. Era vestito tutto elegante, Vento, in completo grigio scuro, cravatta a righine blu e l’orlo dei pantaloni che gli cadeva preciso sulla scarpa. Un abito da almeno millecinquecento euro forse, se non di più. Lo vedi dai dettagli, dalla compat-

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tezza della stoffa, dalla perfezione delle cuciture, dal modo in cui gli scivola morbido attorno alle forme del corpo. Anche lui prima andava vestito così. Con quella ricerca-tezza, quell’attenzione. I soldi sono fatti per essere spesi, e per riempire un vuoto, e più soldi hai più quel vuoto puoi provare a riempirlo. Ma che importa ora? Il pensiero che ha dentro la testa, adesso, è di ben altra natura, prende il sopravvento, non lo può più fermare.

«Le parole non significano niente» gli ha detto allora. Certe parole, almeno. Comunque di sicuro quelle che più di tutte dovrebbero dare la definizione esatta di una cosa. «Pensaci» gli ha detto. «Le parole che più dovrebbero fare paura, quel-le che più di tutte dovrebbero evocare torti, sopraffazioni, abusi e violenze ti rendi conto che invece di paura non ne fanno per niente. Anche le parole torto, sopraffazione e abuso non fanno affatto paura se ci pensi bene. Dicono tutto e niente, e sempre la sensazione che dentro manchi comun-que qualcosa. Perché se ti dico maltrattamento a te cos’è la prima cosa che ti viene in mente? Le botte? I calci? I pugni? Le bastonate? È inutile che fai finta di non ascoltarmi, che ti giri dall’altra parte e sbuffi, tanto lo sai benissimo anche tu che quando uno dice maltrattamento la prima cosa che viene in mente è proprio la violenza agìta, quella diretta. Sì, certo, prendere a calci qualcuno, picchiarlo, è maltrattamento, ovvio. Ma lo è anche rinchiuderlo in una gabbia, lo è anche segregarlo in un buco e poi farlo morire di fame, di sete, di caldo, di freddo o di malattia. Lo è privarlo della libertà, ecco. Perché io posso prendere una persona, chiuderla in una stanza e non torcergli nemmeno un capello. La lascio

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semplicemente lì, magari al buio, in una stanzetta piccola piccola dove a malapena ci si può muovere. E poi aspetto. Non faccio altro. Aspetto e basta. Che muoia. Di fame, di sete, di caldo, di freddo, di malattia. O che impazzisca, chis-sà. Non le faccio nient’altro, lo giuro, non la tocco. Non le parlo neanche se vuoi. Ecco, non lo diresti anche tu che quella persona la sto comunque maltrattando?»

Sì, lo so. È che succede sempre così, con le parole. Dovreb-bero dire l’esatto e invece si lasciano sempre indietro un pezzetto di verità.

Lui. Il suo avvocato. Vento. Il suo amico da trent’anni. Lui che adesso lo guarda come se non lo riconoscesse più e che quando l’hanno arrestato gli ha detto io il culo sarà fatica che riesca a salvartelo. Ma io non voglio che mi salvi il culo, gli aveva risposto Stefano. Non m’importa niente del mio culo. Almeno questa storia è fini-ta. Quello che voglio è solo che la gente si renda conto, che sappia. Almeno questa storia è finita? Che la gente si renda conto? Aveva detto Vento – quasi urlato a dire la verità – ma ti rendi conto tu, di cosa stai dicendo? Poi si era passato una mano sul volto, aveva sospirato, e si era ricomposto. Si era seduto di fronte a lui e gli aveva parlato, serio.Stefano, ascoltami, ti parlo da amico. Le accuse a tuo cari-co, anzi a vostro carico, sono molto gravi. Maltrattamento, frode in commercio, truffa, associazione a delinquere. E omicidio, almeno per te. E con tutta probabilità sarai anche radiato dall’albo. Di come ti ci sei infilato dentro a questa storia e le motivazioni che ti avrebbero – e sottolineo avreb-

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bero – portato a uscirne, quella tua sorta di conversione sulla via di Damasco, di tutto questo non gliene fregherà niente a nessuno. Ci sono i fatti, e c’è la legge. E in base ai fatti, e alla legge, tu sei a tutti gli effetti un criminale. Ti sei rovi-nato, Stefano, ecco cos’hai fatto. Te, la tua carriera, la tua vita e hai trascinato in questa rovina anche la tua famiglia. Ma non ci hai pensato a tua moglie? Con tutto quello che già avevate dovuto sopportare...

Con tutto quello che già avevano dovuto sopportare. Ma che ne sapeva, lui, Vento? Che ne sapevano tutti, tutti gli altri, anche se erano amici, di quello che lui aveva dovuto davvero sopportare? Il dolore è un fatto personale e non conosce misura, caro Vento, quindi ora piantala, falla finita. Bla bla bla, avrebbe voluto rispondergli. Bla bla bla. Come succedeva prima, prima di tutto, una vita così indietro nel tempo che forse non era nemmeno mai esistita, prima, che quando non si trovavano d’accordo su qualche argomento per troncare il discorso uno dei due sollevava le mani e face-va bla bla bla, come i bambini. Ma sarebbe stata un’inutile provocazione, una cosa senza senso. Una cosa idiota.

«Vento, te forse non hai capito. Fare fuori quel bastardo è stata l’unica cosa giusta che ho fatto nella mia vita.»

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11 ottobre 2007, giovedì

Pensa che di lei gli piace solo il culo. Un culo da pallavolista, gli viene in mente mentre gli cammina nuda davanti, anche se non sa bene cosa voglia esattamente dire quell’espressione. Poi gli viene in mente che una volta, da ragazzino, ha toccato il culo alla sua compagna di classe Elisa, giocatrice di pallavolo, durante uno di quei giochi tipo il gioco della bottiglia e il suo culo, di Elisa, se l’era sentito sotto le dita duro come il marmo. Culo da pallavolista, quindi. Anche se il suo, quello di Laura, non lo è per niente duro come il marmo. Però è rotondo. E alto. E senza un filo di cellulite. La ragazza si è alzata dal letto ed è andata in bagno a prendere un bicchiere d’acqua. Usa quello dove ci vanno gli spazzolini. Adesso è di schiena davanti al lavandino e lui vede la sua mano raccoglierlo dalla mensola dello specchio. Vede il suo culo nudo. Di lei le piace solo il culo. E come scopa. E come fa i pompini. Che non è poco, a pensarci bene.La ragazza solleva il bicchiere contro la luce. «Secondo te è pulito?» dice. «Che negli alberghi...»Poi senza aspettare la risposta apre il rubinetto e lo infila sotto

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il getto dell’acqua. Quando torna indietro con il bicchiere in mano si siede sul bordo del letto. Le piacciono anche le tette, di lei.«Hai mai giocato a pallavolo?»«Eh?»«Niente.»

Prima di tornare a casa passa dall’ambulatorio. Si siede alla scrivania e accende il computer. Sono quasi le due di notte, adesso. Scorre l’elenco dei suoi clienti – sta perdendo tempo, allontana il momento – il database con tutte le informazioni sugli animali di cui sono proprietari, nome cane gatto maschio femmina date di richiamo vaccino terapie visite interventi chi-rurgici appuntamenti. Due appuntamenti della prossima setti-mana sono saltati. E uno è slittato all’inizio del mese successivo, ché alla signora arriva la pensione. Quattro clienti non l’hanno ancora pagato e forse non lo pagheranno nemmeno più. Si passa una mano sulla faccia – il pollice e l’indice a premere leggermente sulle palpebre – spegne il computer e apre l’ulti-mo cassetto dello schedario alla sua sinistra. La busta gialla è voluminosa, spessa. La tira fuori e rovescia tutto il contenuto sul piano del tavolo. Sono circa una ventina. Sulla copertina c’è la silhouette stilizzata del muso di un cane. Un cane senza occhi, bocca, naso. Un cane inesistente. L’ombra di un cane. Afferra un libretto a caso e lo apre. Tanto sono tutti uguali. Libretti sanitari nuovi, intonsi. Tranne che per la fascetta del vaccino antirabbia già applicata. Lui deve solo sovrapporci il timbro. E la firma.

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Stefano e Vittorio, i protagonisti di questo bel romanzo di Deborah Gambetta, rappresentano una sconfitta. Quella di un medico veterinario che dalla passione passa alla corru-zione sulla pelle dei cani e quella di un mai laureato che si rivolge alle azioni illegali pur di ottenere libertà per gli animali. Stefano con la disperazione di non essere riuscito ad essere se stesso, Vittorio con quella che lo porta anche, malato, a rifiutare farmaci perché sperimentati su animali (ma anche l’acqua lo è stata eppure ha sempre bevuto).È la madre di Vittorio con i suoi cani raccolti per strada che riesce a riunire nuovamente i due amici di università. Con la sua praticata speranza di un impegno quotidiano per restituire dignità agli animali abbandonati e maltratta-ti. Come quello che cerchiamo di praticare anche noi con l’informazione, l’educazione nelle scuole, le denunce, i pro-cessi. E se necessario anche con le azioni illegali ma sempre nonviolente e alla luce del sole. Con autodenuncia.Perché altrimenti è troppo facile, è stato troppo facile per alcuni, dipingere chi si batte per i diritti degli animali come non solo un estremista, uno che non ha a cuore le sorti dell’umanità ma anche come un terrorista. Mentre il terro-re è quello che seminano e che irradiano le industrie delle

postfazione lav

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macchine-animali nella produzione di ogni genere, dalle carni alle pelli, anche contro il genere umano da distruggere come gli animali.Fate un salto su www.lav.it e ci potrete conoscere meglio. E far in modo che gli altri Stefano e Vittorio – quanti ce ne sono – siano parte attiva del cambiamento con le scelte per-sonali, dei consumi, e la richiesta di cambiamento alle Isti-tuzioni. Con la passione ma anche la ragione come traspare dalle pagine dell’autrice di questo noir. L’ultima battaglia, quella che ha portato per legge a definire reato il traffico dei cuccioli, avrebbe visto il recuperato veterinario Stefano dalla nostra parte. Stringendo fra le mani la lettera di Gabriele. “Il lavoro di mio babbo è salvare gli animali”.

Gianluca FelicettiPresidente LAV

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