dubbi conflitti intorno al tempo - methodologia.it · “tempo” che “è in noi” -, infatti,...

36
Felice Accame Dubbi conflitti intorno al tempo 1. A scopi retorici, Benini s’inventa un conflitto tra fisici e neurobiologi a proposito del “tempo”. I fisici affermerebbero che “il tempo non esiste”, che il tempo “non è reale”, mentre i neurobiologi affermerebbero il contrario dicendo che “il tempo è in noi”. La tesi mi lascia perplesso sia guardando la storia della fisica che guardando le modalità della stessa sua formulazione. Cominciamo dalla storia della fisica: nel momento in cui Minkowski o Einstein inventano lo “spazio-tempo” come quarta dimensione della “realtà” stanno fisicalizzando il tempo, ovvero designano con questo termine qualcosa di completamente nuovo rispetto a quanto designato da Kant che, come ricorda Benini, definisce il tempo come “dato a priori”, “condizione a priori di ogni apparenza in generale”, poiché “l’ordine e la regolarità delle apparenze, che noi chiamiamo natura, siamo noi stessi a introdurli”. La tesi, insomma, mi pare ancora tutta da provare, ma, fatti i debiti conti, non mi sembra importantissima. Come dicevo, mi sembra più un espediente retorico che un’affermazione indispensabile. Più interessanti sono le modalità con cui questa tesi è espressa, perché queste rivelano già di primo acchito quanto risultano problematici altri argomenti. Parole come “esistere” o “reale”, infatti, vengono spese come altrettanti assegni scoperti e, pertanto, ben difficile da incassare – o, detto in altre parole, vengono usate senza assegnare loro né un significato preciso né, tantomeno, stabile. Lo possiamo constatare nel nucleo dell’argomentazione: i fisici teorici “a partire da Einstein” direbbero che “il tempo non esiste”, che sarebbe una “illusione”, ma neuroscienze e “biologia comparata” “trovano sempre nuovi dati sui meccanismi nervosi del senso del tempo nell’uomo e in molti esseri viventi”. I fisici lo considerano un “arcaico, obsoleto e ingannevole arnese mentale” (pag. 17), ma, invece, “il tempo è reale” e ne è ampiamente dimostrata l’”esistenza” tanto che la sua realtà “è la più reale del mondo perché senza di essa non ci sarebbe la vita” (pag. 41). Questa argomentazione rimarrebbe valida anche alla luce delle tesi più o meno concatenate di Einstein e di Minkowski che decretavano spazio e tempo “destinati a diventare ombre” conservando lo statuto di “realtà indipendente” soltanto la loro unione (pag. 22). Analogamente, allora, può essere considerata la citazione di Feynman in exergo al capitolo dedicato a rispondere alla domanda “Che cos’è il tempo ?” – “il tempo è quel che succede quando non succede niente (…) E’ realmente importante non come definiamo il tempo, ma come lo misuriamo” – e analogamente possono essere considerate le varie metafore con cui vengono designate condizioni particolari del tempo o dello “spaziotempo”, come, rispettivamente, la “compressione” o le “increspature”. A parere di Benini non sorgerebbero contraddizioni.

Upload: phamcong

Post on 13-Sep-2018

225 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

Felice Accame

Dubbi conflitti intorno al tempo

1.

A scopi retorici, Benini s’inventa un conflitto tra fisici e neurobiologi a proposito del “tempo”. I fisici affermerebbero che “il tempo non esiste”, che il tempo “non è reale”, mentre i neurobiologi affermerebbero il contrario dicendo che “il tempo è in noi”.

La tesi mi lascia perplesso sia guardando la storia della fisica che guardando le modalità della stessa sua formulazione. Cominciamo dalla storia della fisica: nel momento in cui Minkowski o Einstein inventano lo “spazio-tempo” come quarta dimensione della “realtà” stanno fisicalizzando il tempo, ovvero designano con questo termine qualcosa di completamente nuovo rispetto a quanto designato da Kant che, come ricorda Benini, definisce il tempo come “dato a priori”, “condizione a priori di ogni apparenza in generale”, poiché “l’ordine e la regolarità delle apparenze, che noi chiamiamo natura, siamo noi stessi a introdurli”.

La tesi, insomma, mi pare ancora tutta da provare, ma, fatti i debiti conti, non mi sembra importantissima. Come dicevo, mi sembra più un espediente retorico che un’affermazione indispensabile. Più interessanti sono le modalità con cui questa tesi è espressa, perché queste rivelano già di primo acchito quanto risultano problematici altri argomenti.

Parole come “esistere” o “reale”, infatti, vengono spese come altrettanti assegni scoperti e, pertanto, ben difficile da incassare – o, detto in altre parole, vengono usate senza assegnare loro né un significato preciso né, tantomeno, stabile. Lo possiamo constatare nel nucleo dell’argomentazione: i fisici teorici “a partire da Einstein” direbbero che “il tempo non esiste”, che sarebbe una “illusione”, ma neuroscienze e “biologia comparata” “trovano sempre nuovi dati sui meccanismi nervosi del senso deltempo nell’uomo e in molti esseri viventi”. I fisici lo considerano un “arcaico, obsoleto e ingannevole arnese mentale” (pag. 17), ma, invece, “il tempo è reale” e ne è ampiamente dimostrata l’”esistenza” tanto che la sua realtà “è la più reale del mondo perché senza di essa non ci sarebbe la vita” (pag. 41).

Questa argomentazione rimarrebbe valida anche alla luce delle tesi più o meno concatenate di Einstein e di Minkowski che decretavano spazio e tempo “destinati a diventare ombre” conservando lo statuto di “realtà indipendente” soltanto la loro unione (pag. 22). Analogamente, allora, può essere considerata la citazione di Feynman in exergo al capitolo dedicato a rispondere alla domanda “Che cos’è il tempo?” – “il tempo è quel che succede quando non succede niente (…) E’ realmente importante non come definiamo il tempo, ma come lo misuriamo” – e analogamente possono essere considerate le varie metafore con cui vengono designate condizioni particolari del tempo o dello “spaziotempo”, come, rispettivamente, la “compressione” o le “increspature”. A parere di Benini non sorgerebbero contraddizioni.

Come è possibile – mi chiedo invece io – che qualcosa cui sia assegnata “realtà indipendente” al contempo “non esista” ? Che “non esista” qualcosa che può essere “misurato” e fin “compresso” ? E questo me lo chiedo per una volta anche prima che chi me la racconta mi spieghi anche cosa intende per “realtà” e per “esistere” – cosa che un Benini, peraltro, si guarda bene dal fare. Poi mi chiedo anche se l’attributo di “reale” – qualsiasi cosa significhi – possa implicare una graduazione in virtù della qualequalcosa diventa “la più” e la “meno” reale. Mi chiedo anche, poi, se l’essere “in noi” del tempo sia diverso, per esempio, dall’essere “in noi” dell’elefante, perché ho buoni motivi per ritenere che neuroscienze e “biologia comparata” trovino “sempre nuovi dati sui meccanismi nervosi” con cui percepisco un elefante. Seguendo Benini alla lettera, peraltro, si desumerebbe che qualsiasi cosa sia “in noi” – foss’anche la cistifellea - non è reale.

2.

Benini è ricco di informazioni e, a dire il vero, bastano poche di queste per far capire – entro certi limiti –, a prescindere dall’interpretazione del pensiero dei fisici, quel che vuol dire. “La simultaneità soggettiva”, per esempio, “è un’interpretazione cerebrale, non un segnale fisico del mondo esterno”. E’ ovvio. Io direi che è una categorizzazione fra le altre. Oppure: la “valutazione prospettica del tempo” e “il paragone di intervalli di tempo pregressi” implicano l’attivazione sia della “parte inferiore del lobo parietale destro” che della “corteccia premotoria bilaterale” per l’una e l’attivazione della “partedorsolaterale della corteccia prefrontale destra” per l’altra. Oppure ancora: costitutive del “senso del tempo” sono le “aree cerebrali della memoria” e, in particolare, l’ippocampo. Insomma: il senso del tempo – con tutte le sue particolarità – è dovuto a processi neuronali che, in parte, cominciano ad essere individuati. L’ambaradan filosofico del “reale/non reale”, “esiste/non esiste”, “fisici/biologi”, etc. non c’entra nulla – è un “di più”. Forse.

3.

Forse. Perché, prima di assolvere qualcuno per aver detto qualcosa che appare troppo scemo per esser preso per buono, è meglio pensarci due volte. Benini – paladino del “tempo” che “è in noi” -, infatti, cita la fisica Amanda Gefter (Due intrusi nel mondo di Einstein, Raffaello Cortina, Milano 2015) e la cita favorevolmente come una che “crede al tempo” (e anche questa espressione mi lascia perplesso), la quale, dopo aver affermato che “non c’è alcunché nell’Universo cui possiamo accedere senza prima filtrarlo attraverso i labirintici grumi di materia grigia della nostra testa”, giunge alla drastica conclusione che “tutto ciò che appare come esterno in verità è dentro di noi. Sotto ogni aspetto non c’è alcun esterno”. Anche qui, ovviamente, verrebbe da chiedere lumi intorno all’uso del verbo essere ed alla metafora del filtro – perché si filtra qualcosa che precede l’esecuzione dell’operazione e perché tra il da filtrarsi e il filtrato si presuppongono uguaglianze e differenze. Ma la mia maggior curiosità verte sul significato di quell’”esterno”. Stiamo parlando di un interno e di un esterno i cui confini sono costituiti da un cranio ? Sembrerebbe di sì. Ma, se le cose stanno così, l’affermazione si rivela di un’ingenuità che Ceccato avrebbe definito presocratica. Si persiste nella dicotomia fra “esterno” ed “interno” spopolando l’uno e inzeppando l’altro; sembrerebbe far capolino la consapevolezza della metaforicità del primo, ma facendone salvo il secondo – interno alla testa ? Interno alle sinapsi ? Interno al singoloneurone ? Interno al neurotrasmettitore ? Se quanto spopolato da una parte necessita

di un “posto” e soltanto di un posto sarà bene assegnarglielo; se necessita di qualcosad’altro sarà bene dirlo. Parlando di “eventi mentali astratti” (pag. 59) o del linguaggio come “organo mentale”(pag.41) – altro sintagma nebuloso -, come fa Benini, non sembra portare molto lontano.

4.

Oltre che con i fisici, Benini ce l’ha su con gli “animali” riferendosi, ovviamente, ad unaclasse di individui che umani non sono. Ci tiene a tenerli ben distinti da noi e sforna un paio di criteri in virtù dei quali ottenere questo risultato. Beninteso, “i meccanismi nervosi del senso del tempo” starebbero nell’uomo come “in molti esseri viventi, anche con sistema nervoso piccolissimo” – e qui, ancora una volta, sorprende non poco la vaghezza dell’espressione -, ma, mentre “molti” (ancora) animali sono “coscienti”, “capaci di manifestare stati d’animo”, “solo gli esseri umani sono autocoscienti”. Questa “autocoscienza” sarebbe sorta con lo sviluppo dei “lobi prefrontali del cervello” – uno sviluppo iniziato “due milioni e duecentomila anni fa” e gli scimpanzé “ne sono quasi completamente privi” (pag. 20) – dove un “quasi”, come in qualsiasi affermazione che voglia sembrare drastica, lascia di stucco. Il secondo argomento a sostegno della “distinzione” – fino ad ora dubbia – è quello, ormai canonico, del “linguaggio” che sarebbe peculiarità della specie umana. Infatti – e qui l’ingenuità si fa impressionante – “tutti gli animali comunicano, non parlano”. Con il che i muti – tornando a dibattiti dal sapore di un cattolicesimo medioevale - sono belli e sistemati.

5.

Silvio Ceccato definisce la “realtà” come “l’insieme delle cose accertate”, ove l’accertare, lungi dal presumere la “certezza” della corrispondenza spaziale caratteristica dell’errore conoscitivista, “consiste nel prendere in esame anche ciò che nella percezione non rimane a far parte del percepito, ma viene lasciato fuori, figurando eventualmente come suo mezzo, sfondo, contesto e simili” (La mente vista da un cibernetico, Eri, Torino 1972, pag. 90). Diversamente dal Newton dei Philosophia naturalis principia mathematica (“tempus, spatium, locus et motus, sunt omnibus notissima”), altresì definisce il “tempo” come una categoria costituita degli stati attenzionali costitutivi del “plurale” cui seguono quelli costitutivi della categoria di “cosa” – e, simmetricamente, lo “spazio” come la categoria di “cosa” cui segue quella di “plurale” (Ibidem, pag. 61). Giuseppe Vaccarino definisce l’”esistere” come il verbo che designa l’operazione con cui qualcosa viene “distaccata” – resa indipendente – dal nostro operare costitutivo e messa in relazione con altre cose categorizzate come fisiche (Scienza e semantica costruttivista, Clup, Milano 1988,pag. 22). Ricordo ciò per due motivi. Innanzitutto, per mostrare che, ogni tanto, qualcuno che si preoccupa di definire i termini che usa c’è. E se qualcun altro, poi, ritenesse tali definizioni inadeguate liberissimo di correggerle. Il secondo motivo è più ambizioso. Mi chiedo se tra queste definizioni e le scoperte dei neurobiologi – scoperte come quelle riferiteci da Benini – si possa individuare qualche elemento comune. E, a dire il vero, mi chiedo anche se è legittimo che mi ponga la domanda stessa. Il primo corno del dilemma lo si risolve alla svelta. Ci sono un paio di passi sui quali ci si può soffermare. Il primo è quello che riguarda l’esperienza temporale – della quale,

secondo Benini, non esisterebbe un “centro unico”, coinvolgendo essa “diverse aree corticali e sottocorticali, comuni ad altre esperienze, in particolare il senso dello spazioe del numero” (pag. 48). E qui la parentela sarebbe evidente. Il secondo è quello che riguarda più propriamente l’”organizzazione nervosa dei meccanismi del tempo” – estesa dai lobi prefrontali al cervelletto – che sarebbe paragonabile al linguaggio “di cui il tempo è uno dei tralicci”. Al di là della felicità o meno della metafora, se per “linguaggio” si intendesse il “pensiero” (secondo una confusione ormai abituale) si potrebbe essere indotti a porre affinità con l’analisi correlazionale del linguaggio-pensiero secondo il modello proposto da Ceccato (triadi di costituiti in unità temporali).Poca roba, come si vede – più suggestioni che altro. All’interrogativo sulla legittimità della domanda stessa mi rispondo “Perché no ? Un tentativo può esser sempre fatto, ma fermo restando che, fra i risultati attuali delle neuroscienze e le ipotesi operative mancano tuttora gli elementi per un confronto: lo stato di attenzione costitutivo di categorie come quelle di “cosa”, “tempo” e “spazio” di Ceccato a cosa corrisponde ? La trasformazione di un modello di funzione – dove l’attenzione di Ceccato ha un senso– in un modello di funzionamento è ben difficilmente realizzabile, anche perché, ormai,non si tratta più di considerare il singolo neurone per lo stato di attivazione o meno, ma, alla luce dei biochimismi innescati dall’attivazione, si tratta di ipotizzare complessità ben maggiori. Già la misurazione temporale dei fenomeni neurobiologici pare fornire risultati di tutt’altro ordine rispetto alle medie ponderate “a naso” di Ceccato.

6.

Sarebbe comunque ora che anche i neurobiologi si ponessero un po’ di problemi in più rispetto al linguaggio che usano. Potrebbero comprendersi meglio non solo con i fisici, ma anche con quegli esseri umani di cui, volenti o nolenti, loro stessi e i fisici fanno parte. Parlare di “organo mentale”, di “arnese mentale” o di “eventi mentali astratti”, infatti, non incoraggia al dialogo. Se considerarlo come “funzione” di un “organo” non piace, si definisca il “mentale” come pare più opportuno, ma lo si definisca prima di impiastricciarne il senso associandolo a termini designanti qualcosa di già costituito come fisico. E non ci si permetta di sproloquiare di “categorie naturali” (pagg. 85-86) –almeno fin quando non si abbia dichiarato un criterio per distinguerle da quelle “non naturali”. Volendo far scienza – per rispetto di tutti - ci si attenga ad un minimo di igiene linguistica.

7.

Sorpresa. Al momento di tirare le conclusioni, Benini ci ripensa e si chiede: “e se avessero ragione quei fisici che – da Einstein in poi, e in particolare con la gravità quantistica – sostengono che il tempo non esiste ?” (pag. 85). Ma, come se qualcuno lomettesse davvero in dubbio, torna a ribattere che “i meccanismi nervosi che producono il senso del tempo sono, però, reali” e da ciò trae pure la certezza che “la realtà del tempo è diversa dalla realtà degli oggetti circostanti”. Riallestisce, allora, un balletto di fisici quantistici. Avrebbero “espulso il tempo dalla natura”, ma sembrerebbero pentiti: ora sosterrebbero che “l’eliminazione del tempo non è una visione profonda della realtà”, che “la meccanica quantistica, in circostanze sufficientemente critiche, potrebbe essere sbagliata”, che negare il tempo

rappresenterebbe “una distorsione della realtà” e che la sua “eliminazione” “a opera della fisica, con equazioni e ignorando la realtà, è una illusione” (pagg. 86-87). Con il che può serenamente tornare alle convinzioni dalle quali era partito: “i dati delle neuroscienze sono inconciliabili con l’inesistenza del tempo”, il tempo “è reale” e “non emerge da altre categorie della natura, nemmeno dallo spazio e dalla numerosità”. E’ “caratteristica reale dell’Universo”, perché “i sistemi nervosi che lo realizzano (…) sono componenti dell’Universo” (pag. 87). Messe così le cose – ammesso che ci si capisca e che non si sottilizzi troppo sul significato delle parole –, per trovare uno che si opponga bisognerebbe pagarlo.

Felice Accame

Questioni di data

1.

Nel 1939, Ludwig Wittgenstein è un filosofo famoso. E’ l’autore del Tractatus Logico-Philosophicus, pubblicato nel 1922 con una fiducia talmente ferrea da fargli dire, nella premessa, che “la verità delle idee qui comunicate” gli pareva “intoccabile e definitiva”, ritenendo “nell’essenziale di aver risolto definitivamente i problemi” – una fiducia destinata peraltro a venir meno perché su quegli stessi problemi, in più modi, sentì poi la necessità di ripronunciarsi più volte. Norman Malcolm, invece, nello stesso 1939, è uno studente pieno di belle speranze. Hanno l’abitudine, i due, di fare lunghe passeggiate assieme e durante una di queste, a Malcolm scappa detto di aver letto su un giornale di un’accusa del governo tedesco contro la Gran Bretagna, che avrebbe “istigato” un recente attentato contro Hitler. Mentre Wittgenstein commenta dicendo che “la cosa gli sembra plausibile, Malcolm, anima particolarmente pia, ribatte che non può crederci perché gli inglesi ‘sono troppo civili e leali per mene così nascoste’ e sostiene che ‘un simile gesto è incompatibile con “il carattere nazionale” inglese’”. Non l’avesse mai detto. Wittgenstein monta su tutte le furie, gli dice di non dire stupidaggini e, da professore, si rende conto che il suo allievo non ha imparato granché dal suo “insegnamento filosofico”. Non gli rivolge più la parola e - interrompendo definitivamente la loro abitudine deambulatoria - lo pianta in asso.

Quasi cinque anni dopo, nel 1944, Wittgenstein scrive a Malcolm e, sorprendentemente, torna sull’ormai lontano dissidio. Gli dice che era rimasto colpito dalla sua “superficialità” e di aver pensato: “a che vale studiare filosofia se serve soltanto a consentirci di parlare con qualche plausibilità di astrusi problemi di logica, ecc., se non migliora il nostro modo di pensare ai problemi importanti della vita quotidiana, se non ci rende più coscienziosi di un qualsiasi…giornalista nell’impiego delle frasi pericolose come quelle di cui la gente si avvale per i propri scopi”.

2.

Quando Wittgenstein scrive a Malcolm questi è in America e da lì foraggia di romanzi polizieschi quello che comunque riconosce come il proprio “maestro”. Quelli inglesi a Wittgenstein non piacciono. Un racconto di Doroty Sayers, per esempio, gli pare “orrendamente infame”. A lui piacciono i romanzi pubblicati da Street & Smith in Usa eMalcolm non glieli fa mancare. Fra i tanti, l’ammirazione di Wittgenstein è rivolta in particolare ad un romanzo di Norbert Davis, Rendez-vous with fear, il cui titolo originale, però, era The Mouse in the Mountain. Sul perché di questa predilezione sipossono avanzare diverse ipotesi o, piuttosto, accumulare argomenti vari. Può anche darsi che il filosofo intraveda affinità nelle riflessioni che lo scrittore fa sul concetto di simulazione, sulla menzogna o su altre questioni che attengono a problemi filosofici, ma già il fatto che, dalle storie di Davis, trapelino critiche al sistema democratico americano ed alla sua politica militare o, in genere, antiautoritarie, mi sembra più che sufficiente per spiegarne l’atteggiamento.

Ci sarebbe da chiedersi come mai uno tanto scrupoloso e guardingo quando si tratta di“frasi pericolose come quelle di cui la gente si avvale per i propri scopi” non si ponga problema alcuno nei confronti della natura politica di ciò di cui si pasce così avidamente – perché la letteratura popolare, alla fine dei conti, risulta sempre funzionale al sistema in cui nasce e in cui, non a caso, è promossa o bocciata. Ci sarebbe davvero da chiederselo se, proprio da Malcolm stesso – in un suo libro dedicato per l’appunto a Ludwig Wittgenstein (Bompiani, Milano 1960, pagg. 35-36)dove, ovviamente, è ricordato anche l’”incidente” del 1939 – non avessimo saputo del comportamento del filosofo al cinema: “voleva sempre sedersi in primissima fila, in modo che lo schermo occupasse tutto il suo campo visivo” e “voleva che il film, per quanto banale o artificioso, lo assorbisse completamente”. Come se, in certe circostanze, il suo potere-dovere critico potesse venir meno e lui potesse considerare narrazioni di vite altrui “come una doccia” che lo liberasse almeno momentaneamentedella propria.

3.

La “doccia”, a quanto afferma Malcolm, serviva a Wittgenstein per liberarsi del disgusto connesso all’insegnamento della filosofia. In che ciò consistesse, ovviamente,non è poi così chiaro, Wittgenstein è convinto che “l’insegnamento della filosofia, all’interno dell’istituzione universitaria, è un ostacolo insormontabile a un’attività filosofica genuina” e, quando Malcolm gli annuncia di aver preso la laurea ad Harvard, lo ammonisce perché “solo per miracolo riuscirà a svolgere un lavoro onesto insegnando filosofia”. Potessi gli chiederei perché “dentro no e fuori sì” – in quale “esterno” l’insegnamento della filosofia sarebbe stato “attività” più “genuina” – e a che istruzioni precise ci si dovrebbe attenere per esser certi dell’onestà del lavoro svolto. Ma non posso. E allora rilevo soltanto la generica insofferenza di uno che ad insegnare non ha smesso affatto e che, nonostante tutto, con la sua disciplina non ha mai rotto del tutto.

Nella sua doviziosa e argomentatissima rivisitazione del pensiero wittgensteiniano, Sara Fortuna (cfr. Il giallo di Wittgenstein – Etica e linguaggio tra filosofia e detective story, Mimesis, Sesto San Giovanni 2009), ripartendo proprio dall’episodio del dissidio con il giovane e superficialotto Malcolm, si dà parecchio da fare per far emergere la figura di un eroe della “buona vita”, di uno che sa, innanzitutto, come si vive una “buona vita” e ne dà tutti gli esempi indispensabili. Alla base – come nel decidere se gli inglesi possono aver attentato davvero alla vita di Hitler o se i romanzi di Davis sono migliori di quelli della Sayers o se un film possa essere usato come un lavaggio del proprio cervello – ci sono convinzioni o criteri per stabilire cosa sia bene e cosa sia male. Nel Tractatus, Wittgenstein sosteneva che “non possono esserci proposizioni di etica” perché “è chiaro che l’etica non si può esprimere”, che “l’etica è trascendentale” e che, peraltro, “etica ed estetica sono una cosa sola”, ma, a quanto pare, ciò non gli ha mai impedito di farsi – esprimendoli – i propri giudizi in ordine a cosa sia bene e a cosa sia male, come (faccio un esempio fra i tanti disponibili) quando aggiunge in fondo ad una lettera all’editore Ludwig von Ficker la velenosa domandina: “a proposito: ma prende mai un colpo agli editori cattivi ?”. Non si tratta anche in questo caso, peraltro, di una frase non disgiungibile dai “propri scopi” di chi la profferisce ?

4.

Wittgenstein pencola tra realismo e misticismo – sa cosa è bene, bacchetta chi la fa facile e, al dunque, si rifugia nell’inesprimibile -, mentre io continuo a dirmi che nulla dovrebbe esser visto come buono in sé e nulla dovrebbe esser visto come cattivo in sé. Che buono e cattivo dipendono da cosa si è scelto come termine di confronto – come paradigma – e dall’esito di un confronto tra questo e il caso particolare che gli si riferisce. Che buono e cattivo, detto in poche parole, derivano da operazioni mentali. La vita è sacra ? Certo, ma se sei in guerra, più ne ammazzi e prima ti danno la medaglia.

Mi rendo conto, tuttavia, che la mia posizione – l’unica, peraltro, che mi sembra scientificamente sostenibile – implica l’interrogativo sulle condizioni in cui le operazioni del singolo individuo possono essere condivise o non condivise da altri. Ciò che è bene per me può esser considerato male da qualcun altro e, sulla base di questaconsapevolezza, ogni principio di società sembrerebbe sgretolarsi. L’etica normativa evita questo rovello – come Mosè quando scende dal Sinai, qui ci sono le Tavole delle Leggi, chi le rispetta è “dentro” e chi non le rispetta è “fuori”. L’origine trascendente delle Tavole le rende letteralmente indiscutibili. E’ ovvio, allora, che una concezione operazionale dell’etica si basi innanzitutto sulla dichiarazione di un criterio, negoziabile e correggibile come tutti i criteri – un criterio tramite il quale qualcosa è assunta a paradigma e qualcosa no. Alla luce tragica delle asimmetrie che caratterizzano attualmente la vita umana – esito di una lunga storia in cui qualcuno, come Wittgenstein, sapeva cosa fosse bene e cosa fosse male ma guardandosi bene dal dichiararlo come risultato del proprio operare -, io ne propongo uno dalla doppia articolazione: la consapevolezza del proprio operare – e quindi della responsabilità individuale in ordine ad ogni processo di valorizzazione – e la priorità gerarchica del bene collettivo. Senza la prima, la seconda sarebbe un “dato” – facendoci retrocedere all’etica normativa – e, senza la seconda, la prima articolazione designerebbe soltanto un punto di partenza verso un viaggio destinato a rimanere misterioso, ovvero la rinuncia ad ogni potenzialità di confronto, ovvero ancora una soluzione solipsistica a tutto svantaggio, in primis, di colui che a quella consapevolezza è giunto – una soluzione ben nota a Wittgenstein medesimo.

Pertanto, una volta, che si risponda che è molto più conveniente considerare l’eticità di qualcosa come esito di operazioni mentali è anche chiaro che alle operazioni mentali di nessuno in particolare ci si riferisce. Autorità – in proposito – siamo tutti (come tutti, gratta gratta, siamo Accademia della Crusca), e carichi della responsabilità conseguente nei confronti della specie, dei suoi individui e del contesto in cui questi vivono.

5.

Analogamente, il rapporto giusto/non giusto, bene/male, può esser visto come una versione parallela del rapporto “vero/falso”. Mi viene in mente in proposito l’acutissimoJules Romains in Donogoo (LiberiLIbri, Macerata 2011), uno dei testi teatrali più felici (dopo il Knock, o il trionfo della medicina – che rimane il mio preferito per le sue implicazioni epistemologiche). Si tratta di una commedia del 1930, dove ricompare un personaggio già utilizzato da Romains, Monsieur Le Trouhadec (in Il matrimonio di Monsieur Le Trouhadec, 1925 e Monsieur Le Trouhadec saisi par la débauche, Il signor Le Trouhadec si lascia traviare, 1923). Come in Knock, al fondo c’è il problema cruciale della teoria della conoscenza. Un geografo fa un errore, scrive nel

terzo volume della sua opera monumentale che Donogoo è una città, in Brasile, e ne descrive perfino i pregi, ma la città non “esiste”. La strada di questo studioso trafelatamente in attesa di riconoscimento accademico s’incrocia per mero “caso” – uncaso “guidato” da una avveniristica macchina diagnostica - con Lamendin, cinicuzzo truffatore che non sa che fare e che si butta nell’operazione di salvataggio. Con un banchiere senza scrupoli inventa una società per azioni finalizzata allo sviluppo di Donogoo – raccoglie milioni di franchi dagli ingenui azionisti – e, dopo aver fatto circolare un po’ di false notizie, si ritrova davvero in quello che sulle prima è un accampamento di illusi disperati e che, sulle seconde, diventa la florida città brasilianadi Donogoo.

Memorabile - alla conclusione, quando la truffa è riuscita al di là delle più rosee aspettative dei truffatori – è una battuta di Lamendin. Sta parlando con un gruppo di amici e indica loro una statua, “Una statua drappeggiata, la cui veste discreta indica che quella donna è incinta”. Incinta ? “Sì, perpetuamente incinta, incessantemente feconda”. E cosa rappresenta ? “L’errore scientifico”. Ma la chiami pubblicamente con quel nome ? “No! Solo tra intimi. Il suo nome ufficiale è la Verità scientifica. D’altra parte, tra la verità e l’errore scientifico non c’è mai stato altro che una differenza di data”.

6.

Dopo un po’ di tira e molla, accogliendo l’invito di Malcolm, il 21 luglio del 1949 Wittgenstein si decide a salire sulla Queen Mary. Arriva a New York cinque giorni dopo e la mattina del 28 luglio, ad Harwich, senza lasciare messaggi esplicativi, Nobert Davis si suicida. Anche nell’eventuale rapporto tra Wittgenstein e Davis le date, allora,hanno una certa importanza. Wittgenstein avrebbe voluto conoscerlo – lo dice a Malcolm – ed esprimergli le ragioni del suo apprezzamento, ma quello – ignaro, e ignaro della presenza di Wittgenstein in terra americana – si suicida. L’incontro avrebbe evitato il suicidio ? E: il titubante Wittgenstein sarebbe andato davvero a cercarlo ? Mah. Meglio, forse, che l’incontro non ci sia stato perché a Wittgenstein – almeno a lui – è stato così risparmiato il dubbio sull’esserne stato la causa.

Nota

Sul pensiero di Wittgenstein mi sono espresso più volte. Per l’analisi più ampia e più dettagliata rinvio a Il linguaggio come capro espiatorio dell’insipienza metodologica (Odradek, Roma 2015), ma per il suo rapporto con il pensiero di Fritz Mauthner rinvio all’ottima L. Albertazzi, Fritz Mauthner. La critica della lingua (Barabba, Lanciano 1986, pag. 34 e pagg. 241-251), nonché alla nota 105 del mio La funzione ideologica delle teorie della conoscenza (Spirali, Milano 2002). Per la lettera a von Ficker, cfr. L. Wittgenstein, Lettere a Ludwig von Ficker, Armando, Roma 1974, pag. 76.

Silvio Ceccato, Gli inteoconatori, 1968

Pubblichiamo un contributo di Silvio Ceccato uscito come seconda parte de Il gioco del Teocono, edito da All'insegna del Pesce d'oro a cura di Vanni Scheiwiller, Milano 1971.

Francesco Ranci

Conti che non tornano. Nota sull’evoluzione del pensiero di Riccardo Pozzo relativamente a Silvio Ceccato.

Il 14 dicembre 2014 si tenne a Montecchio Maggiore un convegno dedicato alla memoria di Silvio Ceccato. Venne invitato Riccardo Pozzo - Direttore del Dipartimento Scienze Umane Sociali - Patrimonio Culturale, del Consiglio Nazionale delle Ricerche. L’intervento di Pozzo non era in scaletta e fu quindi un evento straordinario rispetto al programma dei lavori, cerimoniosamente sollecitato dal moderatore, Gianclaudio Lopez, noto al grande pubblico come primo, e per anni unico, conduttore della trasmissione televisiva “Geo”.

Un anno dopo, l’8 novembre 2015, Pozzo pubblica un articolo sul supplemento domenicale del principale quotidiano finanziario italiano, che ad un titolo su cui non dico nulla, per non offendere nessuno (“Il pensatore cibernetico”), affianca un occhiello chiarificatore “Silvio Ceccato (1914-1997)”. L’uscita di questo articolo costituisce un fatto storico per la cultura italiana, trattandosi del classico “caso più unico che raro”.

Quando inviai il mio secondo e ultimo articolo al Domenicale del “Sole24Ore”, qualche decennio fa, Armando Torno, Enrico Massarenti o chi per loro tolsero d’autorità la mia citazione del lavoro diCeccato e Beltrame sui movimenti dei bulbi oculari senza ritenere di dovermi dare alcuna spiegazione. E nonostante il tema venisse affrontato, senza citare questi lavori, nel libro di Luciano Mecacci che recensivo.

Essendo gli atti del convegno di Montecchio a disposizione su Youtube, li ho riguardati. E mi pare che l’uscita dell’articolo possa essere utilmente messa in rapporto all’intervento di Pozzo in quell’occasione.

Del convegno esiste anche un riassunto scritto a cura della Accademia Olimpica vicentina (3, 2014),anch’esso disponibile in rete e che include una sintesi dell’intervento di Pozzo. Anche su questo secondo titolo non vorrei dire nulla, ma, purtroppo, devo dire che a mio modesto parere offende la memoria di Ceccato (“Silvio Ceccato: con lui la tecnologia scoprì la fantasia”), tanto quanto il primo.

Mi sembrano cose ovvie, ma non volevo dirle perché, altrimenti, qualcuno si offende. Alludo a Renzo Beltrame, che a quanto mi dicono si e’ “dimesso” dal sito Methodologia.it, a suo dire a causadel titolo che ho dato al mio intervento su Gambini (Wp 313). Invece di dimettersi dal comitato scientifico di una rivista che gli pubblica dietro le spalle un saggio in cui compare addirittura il suo nome, Beltrame se la prende con me. Senza dirmi niente si dimette da “Methodologia.it”, che non c’entra proprio nulla con la scelta del titolo, e che da anni gli pubblica scritti che poi lui ripubblica, vedo adesso, sulla sua pagina personale del Cnr. “Food for thoughts”, come si usa dire.

Secondo il resoconto molto sintetico degli olimpici vicentini, Pozzo avrebbe “sottolineato che al Cnr gli spunti di Ceccato sono presenti”, “che e’ stato certamente un pilastro della cultura italiana”, e che “l’apporto di Ceccato lo vedremo osservando come i suoi spunti saranno elaborati dai giovani”. Come dire che fino al 2014 di “giovani”, che si siano dati da fare per verificare questi “spunti” di Ceccato, non se ne sono visti. Considerato che siamo al centenario della nascita, e’ facileprevedere che non si scomoderanno a celebrare, quest’anno, il ventennale dalla sua morte.

Veniamo alla videoregistrazione. In conclusione del convegno, dopo aver assistito quindi ai vari interventi, Pozzo esordisce affermando perentoriamente che “sono quattro gli istituti che hanno lavorato sulle tematiche di Silvio Ceccato”. Trascrivo il parlato per non essere accusato di distorcere

1

il senso delle sue affermazioni. “Il primo, rappresentato qui da Beltrame, Istituto Scienze e Tecnologie dell’Informazione – Alessandro Faedo”. “E poi un altro molto importante é l’Istituto Scienze e Tecnologie della Cognizione, che non ha nome, ma se avesse un nome sarebbe Agostino Gemelli, perché fondato da Gemelli nel ‘41”. “Un altro, che lavorava, cioè in realtà è Ceccato che ha lavorato su queste cose, era Mauro Picone, il fondatore dell’Istituto di Applicazione del Calcolo, IAC”. “E poi abbiamo l’Istituto di Linguistica Computazionale a Pisa, fondato da Antonio Zamponi con il quale Ceccato aveva rapporti ovviamente, e l’ultimo é l’Istituto di Tecnologie didattiche che ha sede a Genova”. Allora sarebbero cinque, e non quattro: ma i conti che non tornano sono anche di piu’.

Solo i primi due istituti sopravvivono nell’articolo pubblicato poi sul domenicale culturale, dove, come conclusione, si legge che “a diciotto anni dalla sua scomparsa, Ceccato è più vivo che mai al Cnr nelle ricerche di Maria Vittoria Giuliani dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione edi Renzo Beltrame dell’Istituto di Scienza e Tecnologie dell’Informazione Alessandro Faedo”. Ma, se nel primo caso siamo passati da Agostino Gemelli a Maria Vittoria Giuliani (1), nel secondo, come dicevamo, se non fosse per il sito “Methodologia.it” di questi “spunti” al Cnr non se ne parlerebbe affatto.

Tra gli istituti di ricerca menzionati nel discorso, ne mancava poi clamorosamente uno. Compare, finalmente, nell’articolo. Si tratta, nientemeno, che del Centro di cibernetica fondato e diretto da Ceccato stesso a Milano. In proposito troviamo parole che preparano la conclusione dai toni edificanti di cui sopra. “Tramite Padre Gemelli, nel 1958 Ceccato ottiene dal governo americano un finanziamento per ricerche sulla traduzione meccanica per il russo e l’inglese e nel 1960 un finanziamento dell’Euratom. Tornato nel 1957 alla Statale di Milano come libero docente di Filosofia teoretica, nel 1960 il Cnr affida a Ceccato la costituzione del Centro di Cibernetica e Attività Linguistiche presso la Statale. Da allora fino alla sua morte, il 2 dicembre 1997, Ceccato lavora in stretto contatto con un gruppo di validi collaboratori, tra i quali sono da ricordare Enrico Maretti, Giampaolo Barosso, Bruna Zonta e Gian Paolo Zarri”. Pozzo ha evidentemente raccolto qualche informazione in più, prima di scrivere l’articolo sul “Sole”, rispetto a quelle che aveva a Montecchio. Ma, purtroppo, ancora una volta, i conti non tornano.

Come mai, per dirne una, Maria Vittoria Giuliani e Renzo Beltrame proseguono le ricerche di Ceccato in istituti diversi da quello diretto da Ceccato, e non sono nel “gruppo di validi collaboratori”, o almeno tra quelli “da ricordare”, di Ceccato? Evidentemente, manca un quarto di secolo, quello che inizia nel momento in cui il Centro di cibernetica fu chiuso a grave scorno e, ne sarei abbastanza certo, con grande dolore di Ceccato. Si tratta di una situazione imbarazzante, soprattutto per l’autore dell’articolo. Il quale, peraltro, si firma solo con nome e cognome, non comedirigente ai massimi livelli del Cnr.

Non si capisce se per confusione mentale, forse generata dal presupposto errato che Ceccato abbia vissuto fino alla morte a carico del contribuente italiano, via Cnr, se per ulteriore ignoranza o se per calcolo in perfetta malafede, “non sono da ricordare”, fra i collaboratori di Ceccato, all’epoca del suo effettivo lavoro per il Cnr, neanche allievi come Felice Accame, Pino Parini, o Ernst von Glasersfeld (2). Probabilmente si tratta di un misto, fra tutte queste “ragioni”, ma, soprattutto, si tratta di salvare la teoria del “vedremo se i giovani raccoglieranno, il piu’ tardi possibile speriamo, gli spuntini spuntati di Silvio Ceccato”.

A latere, nella serissima e autorevolissima pubblicazione degli olimpici vicentini, compare in questo“elenco” (non ad opera di Pozzo, in questo caso) dei collaboratori “da ricordare”, il Maestro falsificatore, o impostore, Zotto. Del tutto falso che ci fosse anche lui, all’epoca del Centro di

2

cibernetica (come ho gia’ rilevato in WP 313), ma lui sostiene questo, e siede anche alla tavola dei relatori. Del resto, se questo Centro non fu mai chiuso, chiunque abbia avuto il piacere di discutere con Ceccato delle sue idee, e lui di certo non si sottraeva, puo’ anche vantarsi, se lo ritiene opportuno, di aver “collaborato”, in qualche modo, con lui. Ma, purtroppo, il Centro fu chiuso.

Torniamo allora a Montecchio, dove dopo aver detto che, ricapitolando, “questi sono gli istituti nei quali gli spunti di Ceccato sono presenti”, si arriva al nocciolo dell’intervento. “Adesso appunto io sono qua perché parlavamo con Gianclaudio Lopez dei centenari”, rivela, onestamente, lo spaesato Pozzo. “Io ho scritto un articolo sul Sole per il centenario di Mario Dal Prà, che era coetaneo e compaesano di Ceccato”, spiega Pozzo, per dire agli amici di Montecchio e vicentini di aver gia’ dato. “Ho fatto fare l’articolo su Mauro Venturi, anche lui nato nel Maggio 2014”, aggiunge, anche se ovviamente intendeva dire 1914. Ma “Ceccato è nato nel gennaio del 2014 (ancora, ndr.) e quando abbiamo messo mano… (qui si accorge di aver anticipato il “2014”, ma non torna sui suoi passi, e, avendo fretta di concludere, conclude) … era un po’ tardi, insomma. Comunque, c’e’ questa presenza”.

Nel novembre del 2015 ripeterà il concetto. Scriverà, infatti, che “nel 1914 nacquero diversi maestri. Per Mario Dal Pra e Franco Venturi, nati rispettivamente il 29 aprile e il 16 maggio, apparvero sul Domenicale degli articoli in prossimità del centenario della nascita. Per Silvio Ceccato, 25 gennaio, non si fece in tempo. Vero però che lo si ricordò il 14 settembre con un convegno dell’Accademia Olimpica di Vicenza nella splendida Villa Ceccato a Montecchio Maggiore (costruita in cima a un colle a poche centinaia di metri dalle rocche scaligere della Villa e della Bellaguardia, che ispirarono l’immaginazione poetica di Luigi Da Porto e poi di Matteo Bandello e Shakespeare per la storia dei due nobili amanti Giulietta Cappelletti e Romeo Montecchi, le famiglie dei quali sono rimproverate da Dante al verso 106 del sesto canto del Purgatorio) e lo si ricorda soprattutto con un’antologia dei suoi scritti curata da Gianclaudio Lopez, la presentazione della quale è dunque occasione oggi per richiamare l’attenzione su Ceccato”. L’articolo sul domenicale dunque “recensisce” (senza, peraltro, parlarne affatto) “Il sogno delle tre faraone: Silvio Ceccato da filosofo a tecnico della mente”, una raccolta di scritti di Ceccato curata da Lopez, e pubblicata da Stampa Alternativa nel 2015. L’opera e’ stata recensita anche da Accame, su questi Working Papers (wp 290), e solo dalla recensione di Accame (“Il sogno delle tre pollastrine”) si apprende che Lopez, oltre a selezionare i testi (e con quali criteri) ha scritto un’Introduzione e ha inserito anche dei propri “commenti”. Mentre a Pierluigi Amietta, peraltro stranamente assente in copertina, ma presente a Montecchio, si deve una Prefazione. In questa Prefazione si sostiene una tesi che sembrerebbe rilevante, nel contesto della celebrazione di un centenario. Secondo Amietta, Ceccato sarebbe stato “il solo, nel secolo ventesimo, ad assestare il colpo decisivo alle illusioni teoretico-conoscitive dei metafisici ufficiali e ufficiosi, pubblici e occulti che, ovviamente, non glielo hanno mai perdonato e, non sapendo come attaccarlo, lo hanno ripagato con la congiura del silenzio”.

La tesi risulta discutibile e di fatto non viene del tutto condivisa da Accame. Resta infatti da spiegare “come mai – ciò non ostante – Ceccato scrivesse per i più importanti quotidiani italiani, apparisse frequentemente in televisione e pubblicasse i propri libri presso i maggiori editori”. E se, come rileva Accame, “un certo grado di inaccuratezza storica risulta ben funzionale all’intento agiografico: far brillare i preziosi e nascondere sotto il tappeto quel che prezioso non è”, questo grado di inaccuratezza offre anche una comoda sponda a che, come Pozzo, nulla ne sa, e nulla ne vuol sapere, di tutta questa storia.

3

*

Dopo la doverosa pausa di riflessione in omaggio alla memoria di Giulietta e Romeo, e un sentito ringraziamento per il riferimento estremamente colto al Canto 106 del Purgatorio, torniamo pure alle miserie del convegno di Montecchio Maggiore. Per Ceccato, insomma, era tardi (nato in gennaio…), ma Pozzo continua a ragionarci su. “Comunque c’é questa presenza”, dice, e deve farci i conti. Ha ascoltato i vari interventi e deve in qualche modo evitare di offendere. Si produce, allora,in una canzoncina che, tuttavia, gli risulta molto difficile eseguire, mancandogli lo spartito. “E allora il discorso adesso del grande filosofo, beh, certamente, io ho fatto una ricerca una volta: ho contato il numero delle righe dedicate ai singoli filosofi italiani nelle storie della filosofia non italiane, non italiane perché quelle italiane era troppo facile”.

Fermiamoci un momento qui. A cosa vada ascritto il “troppo facile” non mi sembra, a prima vista, del tutto chiaro. Si tratta forse della diversa quantita’ di libri non italiani in materia, rispetto a quelli italiani? Forse, ma in questo caso si potrebbero facilmente includere i secondi e fare un confronto. D’altra parte, se andiamo alla ricerca di filosofi “italiani” ce ne sono molti di meno nelle storie straniere, per cui sembrerebbe “troppo facile”, al contrario, limitarsi a queste. Si tratta, allora, forse del fatto che le storie della filosofia (quelle italiane) scarseggino, o abbondino, di riferimenti a Ceccato? Forse, anche se la ricerca non sembrava essere nata avendo come oggetto nessuno in particolare. I risultati sono ormai i noti, ma solo per la parte non italiana, quindi potrebbe essere, in teoria, sia un’allusione al fatto che le citazioni in italiano non valgono (troppo facile accumulare citazioni fra i compaesani), sia al fatto che non e’ citato nemmeno in Italia (argomento chiuso, grande filosofo non e’, vediamo e all’estero non la pensano diversamente).

In proposito, va tenuto presente sia che Pozzo ha insegnato storia della filosofia dall’Università’ di Verona per molti anni, sia che dopo la laurea italiana ha studiato molto all’estero e nella sua posizione al Cnr lavora molto con l’estero. Quindi, certamente, da un lato vuole sottolinearlo e guardare ben bene, dichiaratamente, tutti quanti dall’alto in basso, mentre, dall’altro lato potrebbe temere di essere rimasto indietro su quello che accadeva in Patria, e si va allora trincerare sull’Olimpo anglofono (riservandosi l’ulteriore ritirata nelle foreste teutoniche della “vera” filosofia) per fare i suoi conti (speriamo che adesso siano giusti). Bisognerebbe allora ricontrollare quali onori di “grande filosofo” vengano riconosciuti al giorno d’oggi a Ceccato, nei libri di storia della filosofia (quelli italiani)? Non direi, Pozzo puo’ stare tranquillo. L’allusione, comunque, era probabilmente allo zero in questione (“senza offesa” per i presenti).

“E vince, numero uno, Antonio Gramsci, numero due Croce, numero tre Gentile, e poi arriviamo a Banfi, in effetti, e poi arriviamo a Banfi”. Qui Pozzo si ferma e getta uno sguardo carico di implicito, verso lo psichiatra Vittorino Andreoli. Andreoli, infatti, fa parte dei relatori. E reciproca con partecipazione (non ci dilunghiamo su questo personaggio, basti dire che secondo lui, semplicemente, Ceccato era “un pazzo” – per la gioia degli olimpici vicentini, il cui Presidente aveva gia’ chiarito: “lo conosciamo”).

“Ecco, Banfi é di trent’anni più vecchio, maestro di Dal Pra, Ceccato, la Rossanda, Antonia Pozzi, era quel bellissimo gruppo che abbiamo…” qui c’e’ un salto (3)“…e quindi, certo, ricordare Ceccato oggi, ripeto, io lo prendo, non avendolo conosciuto, ho letto la “Cibernetica per tutti” quando ero bambino, però mi rendo conto che é uno dei pilastri della cultura italiana, naturalmente con Somenzi, sì Somenzi l’ho visto (4), ecco che sia rimasto fuori che sia rimasto dentro io direi cheil criterio per tenere viva l’opera é di far lavorare i giovani, aspettiamo, aspettiamo gli studi, in effetti le ricostruzioni sulla scuola di Banfi sono interessanti, sempre più interessanti, abbiamo più documenti, quindi la veridicità, l’apporto dell’opera di Ceccato e la sua vitalità che é testimoniata

4

dal fatto che siete qui tutti voi lo vedremo dal come nuovi studi riprenderanno gli spunti, che adessosarà facile avere i libri pubblicati insieme, e poi all’interno del CNR vedere i gruppi che faranno i progetti mettendo il nome Ceccato sui progetti, comunque ringrazio per l’invito, ringrazio per l’organizzazione e complimenti” (applauso, guidato da Andreoli).

Lopez, che gli aveva ceduto il posto al centro della tavola dei relatori, rientra, imperturbabilmente diottimo umore. Ceccato come allievo di Banfi, dal rilievo assolutamente secondario (forse anche lui “interessante”, vedremo). Ceccato il cui lavoro non ha finora lasciato tracce significative, cari “giovani”, Lopez e via dicendo, potevate anche darvi da fare. A Pozzo non risulta che nessuno abbiafatto alcun passo avanti, nemmeno Ceccato stesso. Bisogna aspettare i prossimi “giovani”, per vedere se, forse, c’era qualcosa di valido…. E campa cavallo!

Lopez conclude mestamente il convegno, rinunciando a qualsiasi pretesa iniziale. La filosofia ha vinto. Ancora una volta. Possono dire tutto quello che vogliono. Compreso che i due o i cinque (o gli zero) istituti del Cnr dove “sono presenti gli spunti di Ceccato” sarebbero “quattro”. “Grazie ancora, mi sembra che gli auspici siano tra i migliori, questo aprirsi ai giovani nel verificare le idee, metterle alla prova, perché é vero, tanto mi sia lecito dire, questo, Ceccato come é apparso, e lo era, un simpatico egocentrico, individualista sicuro, forse più che galileiano leonardesco, con tutto il senso dell’incompiutezza, in tutti i sensi, di Leonardo. Epperò, l’umiltà del tecnico, Zotto l’ha ricordato bene citando Galileo, citando l’abiura, sapete nell’ultimo libro di Ceccato, da lui pubblicato, lui lascia come un suo lascito spirituale, in eredità, alcuni documenti. Una lettera a un alter ego di stesso, una forma narrativa, in cui denuncia i limiti tecnici della sua teoria, dicendo é vero, state attenti, vi do un cibo che sicuramente é nuovo, ha delle vitamine ma può contenere anchedei veleni, dovete metterlo alla prova, non é una verità dogmatica, l’altro testo era l’abiura di Galileo, e ricordo che qualunque tecnico, qualunque pensiero purtroppo di fronte al potere può cedere, non c’e’ nessuno immune da queste debolezze umane, anche Galileo… e poi Pizzetti (5), Pizzetti di cui cita questa frase, che é commovente se si vuole “Credea d’aver scrutato a fondo il cuore umano, e mi ci perdo”.

*

Un anno dopo, come si diceva, esce l’articolo sul Domenicale, forse scritto “a quattro mani” con Lopez. Altri conti che non tornano sono i seguenti. Alla “teoria dei giochi” sarebbero riconducibili le analisi di Ceccato nei confronti della “filosofia tradizionale”, invece che alla sua “metodologia operativa” nei confronti della filosofia in quanto tale. Nel 1955 avremmo una “svolta operativa”, invece che “cibernetica”. Le “lampadine” di cui era fatto l’Adamo II, accese in successione per simulare un processo mentale, esaurirebbero il discorso, come se Ceccato stesse cercando di usurpare l’analogia fra calcolatori elettronici e cervello e non ne avesse, invece, chiaramente denunciato i limiti. Si comprende, mi pare abbastanza chiaramente, come il tentativo lopeziano di mummificazione del Maestro e di costruzione della relativa piramide, alla cui ombra trovare riparo dal sole accecante dell’empireo platonico, viene ampiamente stroncato dal suo autorevole interlocutore. Si torna, insomma, nella caverna, o, meglio, in fondo al Pozzo di lacrime e sangue in cui nascono da millenni gli schiavi delle miniere del Faraone, di Atena, e, oggi, i figli videodipendenti degli schiavi del Cnr.

Vediamo, comunque, cos’altro di istruttivo si possa ricavare dall’analisi di questi contributi, tenendopresente la voce “Silvio Ceccato” redatta da Felice Accame per l’Enciclopedia Treccani, che era peraltro a disposizione di Pozzo (Accame, 2014).

“Studente a Milano”, scrive Pozzo, “Ceccato studia al Conservatorio, che allora era diretto da Ildebrando Pizzetti, e si laurea in giurisprudenza”. Nel Dizionario biografico degli italiani troviamo

5

che, dopo il “diploma di maturità classica presso il regio ginnasio e liceo di Padova nel 1932”, a Milano “si laurea in diritto civile, con una tesi sui limiti giuridici della critica d’arte” nel 1937, mentre l’anno successivo ottiene “il diploma di composizione musicale presso il Conservatorio” (6).

“Si iscrive al Guf (Gruppo universitario fascista), scrive articoli di critica musicale su Libro e moschetto e partecipa ai Littoriali per la musica nel 1935, 1936 e 1937”. E, per confronto: “I suoi primi scritti – sotto forma di recensioni musicali – apparvero sulle pagine del settimanale dei fascisti universitari Libro e moschetto dal febbraio del 1934 al marzo del 1937. Il suo nome, classificato come selezionato per la musica, compare nei Littoriali del 1935, 1936 e 1937” (7).

Ecco, finalmente, dei dati precisi, e corretti, anche se non proprio fondamentali per capire le ragioni della celebrazione di questo centenario. D’altra parte, Antonio Banfi, che figurava a Montecchio come il maestro di Ceccato, stranamente e’ scomparso.

Come termine di confronto, possiamo prendere l’articolo (sempre di Pozzo) sul coetaneo e compaesano di Ceccato, Mario Dal Pra’. E’ intitolato “Pensiero resistente”, in omaggio all’antifascismo, e chiarisce nell’occhiello: “Partigiano (è lui il celebre Colonnello Procopio di Giustizia e Libertà), è stato uno dei più rigorosi storici della filosofia”. Anche qui, Banfi, come maestro, peraltro, stenta ad entrare in scena.

Si delinea una netta contrapposizione fra chi “si iscrive al Guf” e chi, invece, puo’ vantare il grado di “celebre Colonnello” della Resistenza (e della parte “laica”, non quella socialista o comunista). Confonderebbe le idee ricordarsi di Banfi e del fatto che va in cattedra nel 1931, prestando il suo bravo “giuramento” nelle mani del Duce.

Ma continuiamo fino a trovare qualcosa sul rapporto fra Dal Pra’ e Banfi. “Dal Pra’ si laureò in filosofia a Padova, con una tesi diretta da Erminio Troilo”. Di questo maestro di Dal Pra’, Pozzo altro non menziona che il nome. Sappiamo che da seguace del “positivismo” si trasforma in teorico del sempiterno “Essere”. La sua opera fondamentale, “Le ragioni della trascendenza o del realismo assoluto”, viene pubblicata nel 1936, quando l’Italia deve subire le famose sanzioni a livello internazionale per aver usato l’iprite in Etiopia. Un editore denominato “Gruppo universitario fascista” (Guf), l’anno prima pubblica degli “Appunti di filosofia teoretica”, scritti da lui. Meritava forse una parola, in quanto, secondo lo stesso Dal Pra’, sarebbe stato molto importante, come pensatore, per Dal Pra’ stesso. E, almeno in questa sede, dopo le opportune riflessioni, viene riconosciuto esplicitamente come l’unico suo maestro dallo stesso Pozzo.

Dico questo non certo per mettere in discussione la qualifica di “partigiano”, che Mario Dal Pra’ si e’ guadagnato, sia chiaro, durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma per mettere in discussione che la sua vita, dal punto di vista culturale e politico, sia cominciata nel 1946, quando, di botto, fonda una rivista “d'indiscussa autorità”. Si tratta della “Rivista critica di storia della filosofia”, citata come tale nell’articolo anche se, per la verita’, dal 1946 al 1949 si chiamava solo “Rivista di storia della filosofia”, senza il “critica”. Dopo la chiusura del 1983 e’ rinata, ma ancora senza l’aggettivo “critica”. Aggettivo che stride con l’idea di una “indiscussa autorita’” a meno che non si vogliano esplicitare e dichiarare “indiscutibili” i criteri da seguire nel procedimento critico, ovviamente in relazione ai risultati attesi.

Scrive poi Pozzo che Dal Pra’, “Professore di filosofia e storia al Liceo Classico Carducci di Milano(1946-1951), nel dicembre 1951 divenne professore di Storia della Filosofia Antica e di Storia della Filosofia Medievale alla Statale di Milano, dove infine successe ad Antonio Banfi sulla cattedra di Storia della Filosofia, per lunghi anni la più prestigiosa del paese”. Notare “l’infine”, che, nulla dicendo sui rapporti reciproci, sostituisce il mero 1956, facendo pensare a una trafila lunga e

6

tormentata quando si tratta di soli cinque anni. E abbiamo trovato Banfi, ma ancora nulla della sua famosa “scuola” di cui Pozzo parlava a Montecchio.

Tornando a Ceccato, con la sua “partecipazione ai Littoriali”. Che queste manifestazioni fossero ritrovo di fanatici mussoliniani o fossero invece un serbatoio dell’antifascismo (versione recente di Giorgio Napolitano) non mi interessa affatto, in questa sede. Mi interessa che ai suoi interlocutori non venga addebitata nessuna storia precedente, se non di un paio d’anni, alla fucilazione di Benito Mussolini (e, come tutti sanno, all’esposizione del suo cadavere in piazzale Loreto, a Milano, nel 1945). Essi appaiono o come protagonisti della Resistenza, o sbucati dal nulla.

Tutto fa brodo per collocare su piani contrapposti Ceccato e Dal Pra’, anche la citazione apparentemente “neutrale” di Gramsci da parte di Pozzo a Montecchio Maggiore. La morte di Gramsci risale al 1937, dopo undici anni di carcere. Nove anni prima dell’amnistia di Togliatti, che egli non avrebbe apprezzato, dato che “l’egemonia culturale” di cui parla fa riferimento al metodo della persuasione, e non del baratto, o “americanismo”, come lo chiamava lui (8). Ceccato si laurea in giurisprudenza nel 1937, e Dal Pra’ in filosofia, con Troilo, mentre Banfi regna sulla cattedra milanese da anni, a due passi dalla Scuola di Mistica Fascista che organizza i Littoriali.

Riprendiamo a questo punto l’articolo sul centenario dalla nascita di Silvio Ceccato. Pozzo ha puntigliosamente ricordato i “Littoriali del 1935, 1936 e 1937“, forse copiando dal libro di Lopez che recensisce, forse dalla Treccani. E continua. “Nel 1937, ufficiale di prima nomina tra i granatieri, insegna canto corale a due reggimenti di stanza a Roma e a un altro di stanza a Viterbo. Conosce Federico Enriques, Ugo Spirito e Guido Calogero, ed è in stretto contatto con Agostino Gemelli, che nel 1941 fonda l’Istituto di Psicologia del Cnr (oggi Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione)”. Non gli importa accennare al lettore chi fossero Enriques e gli altri. Questo ulteriore tratto omissivo comprendiamo che fa parte dello stile della testata culturale, come il fatto che “infine” l’allievo abbia pieno diritto ad insediarsi nella cattedra del maestro, ragion per cui Dal Pra’ risulta, implicitamente, allievo di Banfi (9).

Su Agostino Gemelli (alias “Padre Gemelli”), troverei utile chiarire che ha fondato l’Universita’ Cattolica del Sacro Cuore di Milano, riconosciuta con Regio Decreto del 1924, dove e’ rimasto rettore fino alla morte, avvenuta nel 1959. Ivi fondando un istituto di psicologia oltre che, poi, l’istituto del Cnr di cui Pozzo tiene a sottolineare che ha cambiato nome (nel 2001, per la precisione, quindi difficilmente si potrebbe dare a questo istituto il suo nome, come aveva suggeritoa Montecchio, a meno di tornare alla denominazione originaria).

Agli anni d’oro del fascismo risalgono, peraltro, anche quei i Decreti Organizzativi del Cnr, che “diviene Ente posto alle dirette dipendenze del Governo con compiti di collegamento e coordinamento delle attività produttive e industriali con la ricerca scientifica” (Decreti del 1927-1933). E se il suo fondatore Vito Volterra si dimise per non prestare giuramento al Duce, un certo Marconi lo sostituiva prestando giuramento al Duce, e viene a tutt’oggi, giustamente, osannato dal Cnr per i suoi studi.

E padre Gemelli – laureatosi in medicina con una tesi presentata a Camillo Golgi, e poi autore di saggi sul problema del come studiare il cervello che sono rimasti nella storia della psicologia italiana e hanno influenzato anche il pensiero di Ceccato - gli affida delle ricerche di psicologia sperimentale (all’epoca “dell’insegnamento di canto corale ai bersaglieri”). Ma quello che conta, per Pozzo, e’ solo “lo stretto rapporto”, fra Gemelli e Ceccato (da cui poi il finanziamento americano che, misteriosamente, gli avrebbe procurato nel 1958, giusto in tempo, prima di morire).

7

“Nel 1941”, ricorda Pozzo, “Ceccato consegna a Gemelli un dattiloscritto di cento pagine”, intitolato “Un contributo alle ricerche sul fare dell’uomo”. E Pozzo apre una citazione di questo documento: “La discesa verso il fondo della filosofia erra (ovviamente “era”, un refuso molto curioso, ndr) ormai completa. Il conoscere, la verità conoscitiva, il soggetto conoscente e l’oggetto, prima inconcepito e poi cognito, la realtà, ecco il vero problema, il Problema”. Pozzo qui non dice nulla di suo in proposito, cita. E cita molto male, perche’ sembra che Ceccato scriva queste parole nel 1941, mentre si tratta, evidentemente, di un commento inserito nel 1964, quando lo pubblica (senza il refuso). Forse l’errore viene ripreso dal libro curato da Lopez, che Pozzo recensisce (e, allora, si spiegherebbe diversamente il refuso). Solo un “pazzo”, per citare Andreoli, parlerebbe di se stesso in quel modo a ventisette anni. Il discorso risente, comunque, mi pare, in qualche modo del suo rapporto con il “problematicismo” di Banfi, piu’ che con Gemelli. Ceccato stesso premette che “non era difficile rendersi conto, od almeno oggi almeno a me non e’ difficile, di che cosa mi fosse successo e di quale dovesse essere la mia sorte futura”, e subito dopo aggiunge che “l’Arte veniva dopo, non era che uno fra i tanti di quegli oggetti” (Ceccato, 1964, p. 102, ma vedi anche la nota (3), sul suicidio di Antonia Pozzi).

Ma Pozzo ha seminato anche troppo e, senza alcun cenno di apprezzamento a quello che scrive Ceccato, come se (pur senza argomentazioni a sostegno) non avesse espresso un qualcosa di caratterizzante il proprio pensiero, quando riferisce di aver “toccato il fondo della filosofia” avendo individuato, nella “verità conoscitiva”, il “Problema”, passa velocemente oltre. Come se non siano mai esistiti fior di filosofi che hanno cercato di ricominciare da capo, liberandosi della “metafisica”,del “fisicalismo”, o del “noumeno”, ma senza accorgersi che continuavano a far affidamento su un termine cruciale il cui uso improprio glieli rimetteva davanti (cfr. Accame, La funzione ideologica delle teorie della conoscenza, 2002).

“Richiamato al fronte nel marzo del 1943, è al confine con la Yugoslavia, dove per sua fortuna non succede nulla. Dopo l’8 settembre resta in servizio e viene mandato a Cento, alla censura postale per l’estero”. Che dire: il riferimento alla censura postale, dopo l’8 settembre, fa accapponare la pelle. Ma il punto e’ che ancora non si capisce per quale motivo, anzi, lo si capisce sempre di meno,si celebri il centenario di Ceccato.

“Finita la guerra, ritorna a Milano, dove viene accolto nel gruppo della rivista Analisi, con LudovicoGeymonat e Giulio Preti”. Altre versioni vogliono che sul primo numero della rivista Analisi, fondata da Giuseppe Fachini, compaia come notizia ricevuta la costituzione di due Centri di Metodologia, uno a Milano e uno a Roma, aventi come segretari Fachini e Silvio Ceccato, animati da studiosi provenienti da diversi settori della ricerca scientifica e filosofica” (Franchi e Bianchini, The Search for a Theory of Cognition, 2011). Ma tant’e’, Ceccato “viene accolto”, anzitutto da Geymonat.

Accame nota, sulla Treccani, che “nel secondo numero del 1945 della rivista Analisi (che nel 1946 cambierà nome in Analysis) Ceccato pubblicava un saggio intitolato “Su alcune conseguenze pragmaticali di una definizione” – incentrato su linguaggio e logica. Gli spunti critici nei confronti di buona parte della filosofia sono già numerosi e fanno capolino termini come ciclo operativo e tecnica su cui più tardi baserà le sue tesi. Ceccato cominciava a esprimere alcuni degli interessi e degli orientamenti che ne caratterizzeranno il pensiero più maturo”.

Per Pozzo, invece, finita la Guerra e tornato a Milano, Ceccato “conosce Antonio Banfi”, ma vedi ancora la nota (3), “Norberto Bobbio” (forse, peraltro, si conoscevano dal tempo dei Littoriali, a cui partecipava anche lui – vedi note (8) e (9), anche Bobbio va in cattedra al posto di uno che la deve lasciare a causa del fascismo, nel suo caso delle leggi razziali) e Ferruccio Rossi Landi. Tutto qui.

8

Quasi quasi uno potrebbe pensare che, grazie a Rossi Landi, Ceccato abbia prodotto qualcosa di interessante (10).

Per farla breve, Pozzo nulla dice non sull’importanza per la cultura italiana, ma sulla mera sulla fondazione di della Scuola Operativa Italiana e di “Methodos”. “Nel 1946 inizia un lungo sodalizio con Vittorio Somenzi”, tutto qui. Addio “pilastri” della cultura italiana. Per lui, come abbiamo visto,la svolta “operativa”, che confonde con quella “cibernetica”, va collocata nel 1955 (11).

Spicca, rispetto al discorso di Montecchio, l’assenza di Dal Pra’. Non emerge traccia alcuna, quindi,del suo violento attacco a Ceccato, diretto su “per comodita’” su Geymonat (12). Ed ecco, infine, entrare in scena Banfi. “Un pamphlet nel quale irride alla filosofia tradizionale rivisitata secondo la teoria dei giochi gli procura un’aspra reprimenda e la cancellazione dei corsi che teneva come liberodocente all’Università di Milano: «Eh no! Non lo dovevi fare – gli scrive Banfi –. L’università non è un campo di calcio, in cui si possa venire con le mutandine»”. Ora, di questo “scritto” di Banfi a Ceccato non penso che esista alcuna copia in circolazione e dubito che sia mai esistita. L’inventario dell’Archivio Banfi a cura di Chiara Pulini e Francesco Rosa include sei lettere, ma tutte di Ceccato a Banfi (la prima da Roma nel 1939, l’ultima da Vicenza nel 1953), e nessuna del 1949, quando esce il “pamphlet” di cui si parla. Questo resoconto riguardante la reazione di Banfi si deve a Ceccato stesso e ha subito delle variazioni notevoli. Nel 1996, era con “una telefonata nella notte”, da parte di un Banfi che avvertito dal figlio (!?!) gli avrebbe parlato di uno “sconcio”, che sarebbe finita la sua “avventura accademica” (vedi la recensione di Felice Accame a “C’era una volta la filosofia”, wp 81). Si parla del 1949: quindi non era ancora proprio del tutto “finita”.

In “C’era una volta la metodologia operativa” (wp 81) Accame parla dello stile narrativo di Ceccato, che si lamenta in maniera poco plausibile, ad esempio, di essere stato “denunciato quale comunista”, da qualcuno che gli fece perdere in questo modo un finanziamento della FIAT. Poi, tra gli altri esempi, ecco Banfi che gli telefona per licenziarlo essendosi sentito offeso dall’accostamento tra filosofia e gioco del calcio (“soprattutto lo aveva imbufalito l’accostamento dei calzoncini, delle mutande, del sudore con i sacri testi”, riferisce Ceccato). Accame individua anche probabili “slittamenti temporali”, ad esempio nel collocare la lettura di Rogge successivamente all’incontro con Kerouac, che tuttavia avviene due anni dopo la pubblicazione in cui Ceccato mette in epigrafe la sua frase di Rogge (“filosofare e’ difficile, ma non filosofare e’ piu’ difficile ancora”).

Venendo al “pamphlet”, di cui Pozzo omette il titolo e la sede di pubblicazione, travisandone il contenuto, e tacendo sulle varie versioni successive in cui Ceccato ritocca e rivede il testo, si tratta, ovviamente, del “Teocono”. Anche qui, il Ceccato “maturo” tende a cambiare le carte in tavola, sul suo passato, e nel 1996 dice che sarebbe stato “ispirato da un manuale dei giochi scritto dai coniugi Culberston” e al tempo stesso “modellato sul giuoco del calcio”. Accame (sempre wp 81) fa notare che nel Teocono si parla di “bluff”, associabile piuttosto al poker. Ed Ely Culberston risulta, in effetti, essere stato un protagonista della diffusione a livello popolare, soprattutto negli Stati Uniti dove arriva come immigrato in certa di fortuna, negli anni ‘30, dei giochi a carte: come il poker, le varie versioni dei bridge, nel successo di una delle quali ha un ruolo la moglie, e la canasta. Pubblica libri in merito, che Ceccato potrebbe aver letto anche in italiano e da studente. Esisteva perfino una letteratura secondaria in merito, ad esempio il testo “Contract Bridge: lei giuoca il culbertson? Compendio delle regole indispensabili del sistema americano Culbertson”, scritto da talEzio Mingoni e pubblicato nel 1935 dall’editore Milanese La Prora. Naturalmente, questa fonte di ispirazione non ha nulla a che fare con la “teoria dei giochi” a cui allude, peraltro vagamente Pozzo.In quanto antesignana dei moderni videogiochi, essa ha a che fare con la cibernetica di Wiener e Von Neumann, non con il Teocono. Ceccato di cibernetica inizia a occuparsi solo nel 1952 e mai si

9

interessa di modelli matematici per “insegnare” giochi a un computer – distingue la sua cibernetica dall’automazione con il criterio dei risultati e dalle procedure eseguite per ottenerli. Ma non si trattaneanche del calcio, anche se un riferimento al calcio c’e’, e qui Accame forse eccede nell’affermare che “non c’e’ alcun riferimento al giuoco del calcio nel Teocono”. Ceccato, infatti, esemplificando la regola secondo la quale “nessun valore puo’ essere convenuto prima del gioco”, scrive che “(Tale risulterebbe, ad esempio, il calcio, quando non fosse convenuto in precedenza di segnare un punto ogniqualvolta il Pallone entra in rete; ma una squadra sostenesse di aver vinto avendo mandato il pallone in certi posti)”. Peraltro il resoconto di Ceccato nel 1996 risulta diverso e meno convincente. Egli avrebbe, infatti “pensato a un gioco sul tipo del calcio, ma con una particolarita’. Si doveva convenire, come al solito, di segnare un punto ogni volta che il Pallone fosse entrato in rete, ma a un certo momento una squadra sosteneva di aver vinto, avendo mandato il pallone in ‘certi posti’”. Ora un conto e’ non convenire “in precedenza”, e ben altro conto, invece, sarebbe l’assurdo totale di una squadra che “cambia idea” e sostiene di aver segnato un punto dopo che la regola in questione sia stata stabilita. Va detto, inoltre, che eliminando questa regola non resta in vita, in nessun senso concepibile, “il calcio”, inteso come un “gioco”, e in questo senso si capisce meglio e torna sostanzialmente valida l’obiezione di Accame: il Teocono non risulta affatto modellato sul calcio.

Pozzo, comunque, fraintende, e probabilmente sa benissimo di fraintendere e vuole fraintendere, soprattutto quando parla di una contrapposizione alla “filosofia tradizionale”. I suoi problemi sono piu’ elementari: “Ceccato riproporrà le sue posizioni in Un tecnico tra i filosofi (Padova, Marsilio 1962-64)”. Si tratta del 1964-1966.

Ma torniamo al punto di svolta. “La svolta operativa avviene nel settembre 1955, quando Ceccato presenta al terzo Symposium on Information Theory, a Londra presso la Royal Society, una relazione intitolata Suggestions for Mechanical Translation, nella quale spiega il possibile funzionamento di un traduttore automatico. Immediato l’avvicinamento di Ceccato al Cnr, responsabile per l’introduzione della cibernetica in Italia”. Allora, la svolta viene collocata nel 1955 per sostenere “l’immediato”, in che forme e con quali richieste non viene precisato ma si capisce, “avvicinamento di Ceccato al Cnr”. Questo avvicinamento “al” Cnr sembrebbe molto graduale e ben poco reciprocato “dal” Cnr. Un ente pubblico che, peraltro, scopriamo qui nella sua veste non tanto di ente di ricerca, quanto di ente politico: “responsabile” in merito alla “diffusione sul territorio nazionale” della cibernetica e della “scienza” in generale.

Accame (voce Treccani, 2014) scrive che “in collaborazione con l’ingegnere Enrico Maretti, Ceccato presentò il proprio progetto di traduzione automatica (non “una relazione”, che “spiega il possibile funzionamento di un traduttore automatico”, vedi su questo anche la nota (1), ndr.) al Third London Symposium sulla teoria dell’informazione nel 1956, anche se non nascose mai le difficoltà del progetto”. Il convegno fu effettivamente nel settembre del 1955, su questo ha ragione Pozzo. Il 1956 e’ l’anno di pubblicazione, come si suol dire, degli Atti.

Per quanto riguarda l’Adamo II, nella versione Treccani si dice che “nell’aprile del 1955 (quindi prima di andare a Londra in settembre, ndr.) Ceccato e Maretti avevano anche annunciato (oltre ai progetti sulla traduzione automatica, ndr.) la loro intenzione di costruire una ‘macchina pensante’”. E che “ne parlarono in un convegno organizzato da Giovanni Emanuele Barie’, fondatore e direttoredell’Istituto di Filosofia dell’Università statale di Milano” (13).

E torniamo a Pozzo: “Al Convegno sui Problemi dell’Automatismo (l’ambito d’indagine di Mauro Picone, Edoardo Caianiello e Antonio Ruberti) tenutosi nell’aprile 1956 a Milano al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, Ceccato presenta ed espone un prototipo del cervello

10

dell’Adamo II, un simulatore elettromeccanico che rendeva visibili attraverso l’accensione e lo spegnimento di lampadine le combinazioni degli stati coscienziali corrispondenti a 23 termini esclusivamente mentali”.

Dal 1955 al 1956 il passo e’ breve. Il Convegno non si dice neanche che e’ organizzato dal Cnr, basta dire “ambito di indagine”, e scatta il Cnr! Peccato che, chiunque abbia effettivamente organizzato il convegno, il lavoro di Ceccato e Maretti lo pagava Sinisgalli, e non il Cnr (14).

Le “combinazioni di stati coscienziali” che le lampadine renderebbero “visibili” non vengono messein discussione, ma nemmeno vengono riconosciute esplicitamente a Ceccato come un’idea sua. Ed eccoci al rebus finale.

“Ceccato mostra di aver individuato le premesse fondamentali per avviare l’analisi cibernetica delleoperazioni mentali”. Davvero Pozzo ritiene che Ceccato abbia “individuato le premesse fondamentali”? Bisognerebbe chiedersi come mai, allora, l’Adamo II sia sparito subito dalla circolazione, e come mai, soprattutto, nessuno abbia poi sviluppato queste premesse – o come mai ilCnr ci starebbe lavorando su da sessant’anni senza cavare un ragno dal buco!).

La spiegazione arriva subito dopo, tramite una citazione di Ceccato, in qualche modo presa, probabilmente, dal libro curato da Lopez, che prima descrive queste premesse fondamentali e poi immediatamente nega, come se nulla fosse, che fossero “giuste”.

Ed eccoci qui, prima le premesse fondamentali: “la scoperta dello stato d’attenzione, le sue possibilità combinatorie, la prima categoria mentale e varie altre analizzate esattamente negli stessi termini di oggi (15), l’andamento correlazionale del pensiero, ecc.”.

Poi l’abiura: “soltanto le analisi della percezione e della rappresentazione erano state condotte su unpresupposto che in seguito si rivelò sbagliato”.

Come non detto! Il presupposto, diciamo “l’analisi cibernetica”, o “operazionale”, nel senso del Cnr, semplicemente partirebbe da un “presupposto che in seguito si rivelò sbagliato”. Ecco fatto, non bisogna neanche dire quale fosse, o quando, e per quale motivo, “si rivelò” sbagliato.

Infine, Pozzo prosegue con l’idea che “tramite Padre Gemelli, nel 1958 Ceccato ottiene dal governoamericano un finanziamento per ricerche sulla traduzione meccanica per il russo e l’inglese”. Come se solo grazie a Gemelli (qui “Padre”) sia accaduto il miracolo di far avere a Ceccato un contratto dal “governo americano”. Che al Cnr non abbiano apprezzato (il tema era di competenza altrui) appare qui fin troppo ovvio.

Restano, infine, ancora due affermazioni curiose. La prima e’ che sarebbe “tornato nel 1957 alla Statale di Milano come libero docente di Filosofia teoretica”. Cosa, ovviamente, mai avvenuta. Ma, anche qui, la fonte dell’errore potrebbe essere Ceccato stesso, che nel primo volume del “Tecnico” (1964) si presenta, o meglio viene presentato dall’editore, come “libero docente di Filosofia teoretica”, appunto alla Statale di Milano. In realta’ il suo corso era dedicato alla “metodologia” e si tenne, su invito di Banfi, dieci anni prima, nel 1947. Poi la qualifica resta valida per sempre, come una laurea in giurisprudenza o un diploma in composizione musicale.

La seconda perla, conclusiva, e’ che, secondo Pozzo (che vista la qualifica di cui puo’ vantarsi qualcosa ne dovrebbe sapere), “nel 1960 il Cnr affida a Ceccato la costituzione del Centro di Cibernetica e Attività Linguistiche presso la Statale”. Come abbiamo visto, detto Centro era nato ben tre anni prima, nel 1957, e per delibera del Senato Accademico della Statale di Milano (Treccani, 2014). Poi arriva, nel 1960, buon ultimo, a metterci una pietra sopra, il Cnr.

11

Note

(1) Maria Vittoria Giuliani collabora con Ceccato al Centro di cibernetica. Pubblica un articolo su quelle ricerche ancora nel 1983, firmandolo con Bruna Zonta. Ma, a ragione o a torto, sostanzialmente mi pare che alla chiusura se ne vada per la sua strada e tenga poi con cura le distanze. L’articolo in questione era proprio sul termine “ma”, che secondo l’analisi ceccatiana spesso segnala un implicito, a cui contrapporre il pensiero successivo. Se non erro Ceccato lascia la Statale, e passa allo Iulm, gia’ nel 1973. La Giuliani approda al Cnr, Istituto di Psicologia, presumo, e presumo in questo periodo, quando anche Beltrame credo faccia lo stesso con l’Istituto appena ristrutturato da Faedo. Tutto da verificare, comunque. Il punto che mi interessa, qui, e’ che Pozzo mente sapendo di mentire quando fa il suo nome sul domenicale del “Sole24Ore”. Chiunque si occupi di implementazione su un computer della comunicazione linguistica, o comunicazione animale, o comunicazione e basta, che dir si voglia, fa in qualche modo i conti con gli “spunti” forniti da Ceccato all’epoca. Come ricordato da Zarri al convegno di Montecchio Maggiore, e come, peraltro, riconosciuto dagli storici del fenomeno (per esempio, John Hutchins, Early Years in Machine Translation, 2000: dove l’intervento di Glasersfeld “Silvio Ceccato and the Correlational Grammar” fa capire, mi pare, fra le altre cose, fra cui come e’ finita la storia di Lana, che le idee di Ceccato, e di Glasersfeld stesso, sono servite nella misura in cui veniva giudicato conveniente aumentare il lavoro di programmazione rispetto al fine di ridurre al minimo le procedure - e quindi la loro implementazione e’ stata ostacolata, non agevolata, dall’esponenziale ampliamento della “memoria di lavoro” dei calcolatori, mentre viene rivalutata oggi, come notava Zarri, per la gestionedella rete). Contrariamente al coro celebrativo, e auto-celebrativo, che accompagna, con le sue brave lacrime di coccodrillo, la sepoltura del “genio incompreso”, alias “conterraneo pazzo”, da parte degli “amici” vicentini e non. Adoratori e scettici, paradossalmente, si incontrano e fraternizzano, allorquando l’interessato non ha piu’ voce in capitolo e i problemi da affrontare sono altri.

(2) Non mi posso dilungare qui su quanto hanno fatto queste persone, e del resto i riferimenti disponibili sono numerosissimi, mi scuso con altri con non ho nemmeno citato. Glaserfeld andava ricordato come punto di riferimento per il mondo anglosassone, Accame e Parini quello italiano.

(3) Sul suicidio di Antonia Pozzi, nel 1938, a ventisei anni, riproduco qui, in parte, un articolo uscito su “La Repubblica” del 12 giugno 1999, intitolato “Antonia Pozzi un suicidio annunciato”, a firma di Francesco Erbani. Ceccato vive a Milano dal 1933 al 1937 e quando ci torna, dopo la guerra, in una sua versione (Ceccato, 1964), “riprende” i contatti con Banfi, che chiama il “filosofo-principe di Milano”. Mentre Pozzo, dopo averlo presentato a Montecchio come discepolo, sostiene che Ceccato “conosce” Banfi solo nel 1946. Sta di fatto che gli affida il corso nel 1947, un po’ presto per un “allievo” conosciuto pochi mesi prima.

“Antonia inizia a scrivere poesie a diciassette anni e fra i primi versi spiccano quelli dedicati ad Antonio Maria Cervi, il professore di latino e greco del liceo Manzoni, un uomo piccolo e per nulla fascinoso, di cui si innamora. E' attratta - ricorda Elvira Gandini, una sua amica di allora - dalle sue lezioni sull' etimologia e sulla flessione delle parole, che le appaiono organismi dotati di vita”.

“L'avvocato Pozzi convoca Cervi e gli ingiunge di abbandonare la figlia. Ma è lo stesso Cervi che fa un passo indietro e chiede il trasferimento a Roma (si è anche detto, ma è improbabile, che sia stato il padre di Antonia a fare in modo che il professore cambiasse sede). In ogni caso la passione di Antonia non scema”. “La corrispondenza dura almeno fino al febbraio del ' 34”.

12

“Dal 1930 si apre per Antonia una nuova stagione. Iscritta alla facoltà di Lettere della Statale, frequenta i corsi di filosofia tenuti da Antonio Banfi, in particolare le lezioni di estetica, ed entra a pieno titolo nel gruppo dei suoi allievi prediletti, una straordinaria officina del pensiero dove troviamo Vittorio Sereni, Giulio Preti, Remo Cantoni, Alberto Mondadori, Enzo Paci e Luciano Anceschi. Maria Corti, di qualche anno più giovane e studentessa di Benvenuto Terracini, ricorda quei seminari nella vecchia sede in Corso di Porta Romana, che iniziavano alle 11 di mattina e si prolungavano ben oltre l'orario stabilito, proseguendo sotto i portici oppure a casa di Banfi. "Banfi era elegante e ironico", racconta la Corti, "incantava quasi diabolicamente: nel sorriso e nel modo incui passeggiava parlando di Proust o di Kant celava un forte tratto di narcisismo". Ascoltavano le lezioni anche Ernesto Treccani e Guido Morselli, studente di Legge, di cui Banfi era stato insegnante al liceo Parini. Figure diverse tra loro. "Preti assomigliava molto alla Pozzi, per la tragicità interiore che manifestava, ed era il più geniale di tutti", rievoca la Corti. "Paci era ambizioso, Anceschi incarnava il prototipo dello studioso solare". Con Banfi la Pozzi si laurea discutendo una tesi su Flaubert, che verrà poi pubblicata a cura del filosofo. Eppure Banfi non era stato tenero con la giovane allieva. Un giorno, racconta Elvira Gandini, lei gli portò da leggere alcune sue poesie. "Si calmi, signorina", fu l'altezzosa replica messa per iscritto dal celebre professore. La Pozzi non è la sola, fra gli studenti di Banfi, a scegliere il suicidio. Ricorda Maria Corti che prima di lei, nel 1935, si uccide Gianluigi Manzi ("Io sono una donna", scrive la Pozzi nelsuo diario, "ma devo essere più forte del povero Manzi che si è ammazzato per una ragione uguale alla mia"). Nel 1972 Giulio Preti va a morire a Djerba, in Tunisia, senza portare con sé le pillole cui è legata la sua sopravvivenza. Morselli si spara un colpo alla tempia nel 1973. Cantoni muore di propria volontà nel 1978. Nessuno si spinge a indicare con precisione cosa abbia indotto Antonia Pozzi al suicidio. Provò a uccidersi già un'altra volta, ma i genitori arrivarono in tempo a salvarla. Aveva contratto la depressione e con la morte conviveva da tempo, fin da quando era uscita dall' adolescenza: ne sono prova molti suoi versi e tante annotazioni di diario. Con fatica ne ha parlato una volta Dino Formaggio, al quale la Pozzi era affezionatissima, che forse amava, compagno di passeggiate e di chiacchierate lungo la strada che da Milano porta a Chiaravalle, quella percorsa in bicicletta la mattina del 2 dicembre 1938. Formaggio citava, a proposito dell'addio di Antonia Pozzi,le ultime parole di Cesare Pavese: "Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi". A Formaggio Antonia scrisse due lettere nella primavera e nel settembre del ' 34 accompagnando alcune sue fotografie. "Caro Dino, l'altro giorno hai detto che nelle fotografie si vede la mia anima: e allora eccotele. (...) Conservale per mio ricordo, per ricordo del nostro incontro (...). Caro, caro Dino, che tu almeno possa foggiare la tua vita come io sognavo che divenisse la mia: tutta nutrita dal di dentro e senza schiavitù". Formaggio evoca una "indistinzione immaginativa tra sogno e realtà". La Corti risale a quello "sguardo distaccato, a quell' occhio freddodi chi vede la Terra dall' aldilà". La Gandini ricostruisce il dramma collettivo di quegli ultimi anni Trenta con il fascismo che stringe ogni spazio di libertà e vara le leggi razziali, colpendo uno degli amici più affettuosi di Antonia, Paolo Treves. Ma non si può escludere l'atmosfera familiare, con una madre molto debole e un padre autoritario e simpatizzante per il regime. Antonia ha un mondo di affetti e di valori tutto diverso, ma non riesce a realizzare né ad esternare la sua ribellione - se nonnella poesia, dove compare più la natura che non le persone e dove si affollano le metafore dell'acqua e dei monti, a indicare una ricerca di sé che confina con l'annullamento. L'avvocato Pozzi, borghese esemplare, non può ammettere che i versi di Antonia ingombrino il ricordo che vuole lasciare di lei. E così manipola le carte e, fra le altre, massacra a colpi di penna una poesia chesolo ora si può leggere, Canto della mia nudità, in cui esplode un corpo liberato dagli impacci: "Oggi, m'inarco nuda, nel nitore / del bagno bianco e m'inarcherò nuda / domani sopra un letto, se qualcuno / mi prenderà. E un giorno nuda, sola, / stesa supina sotto troppa terra, / starò, quando la morte avrà chiamato".

13

La biblioteca di Antonia Pozzi - o quel che ne rimane - è oggi conservata presso l'Università dell'Insubria, negli stessi locali che conservano l'archivio di Felice Accame sulla Scuola Operativa Italiana, e anche l’archvio di Banfi.

(4) Di Vittorio Somenzi, e dei suoi stretti rapporti con Ceccato, Pozzo ricorda spontaneamente qualcosa. Anche se “l’ho visto” e’ un’espressione piuttosto vaga. I riferimenti al “pilastro della cultura italiana”, a Somenzi e a “Cibernetica per tutti”, evidentemente, gli confondono le idee. Non si ricorda, forse, della rivista “Methodos” fondata da Ceccato, Somenzi e Giuseppe Vaccarino, che potrebbe guidarlo verso una sistemazione coerente della sua narrazione. Riprendo questo punto piu’ avanti.

(5) Ildebrando Pizzetti dirigeva il Conservatorio di Milano all’epoca in cui Ceccato studiava da musicista in quella sede. Giustamente, Gambini trova questa citazione poetica di Pizzetti, da parte di Ceccato, “così poco ceccatiana, con la sua metafora irriducibile del “fondo” del “cuore umano” in cui lo studioso si perde”. Poi, purtroppo, Gambini stesso si contraddice affermando che “l’abiura” sarebbe, addirittura, un qualcosa di “impossibile!” (WP 156).

(6) Si potrebbe anche aggiungere che ha composto un’opera lirica, ma il punto e’ che qui Pozzo tenga piu’ a citare Pizzetti che Ceccato.

(7) Salta all’occhio la differenza fra “partecipare” ed essere “selezionati”, da una parte si sottolinea l’adesione volontaria al progetto di proseguire la “rivoluzione” fascista, dall’altra parte la selezione per meriti specifici in ambito musicale.

(8) Vorrei qui aprire un’ulteriore parentesi, cedendo la parola ad alcuni brani scritti dallo storico Giorgio Istrael (“Gli intellettuali redenti e gli ebrei italiani”, 2007 in inglese sulla rivista “Telos” e disponibile in italiano e in rete, neretti miei):

“Nel 1964, quando mi iscrissi alla Facoltà di Scienze come studente, lessi sul mio libretto universitario la firma di Sabato Visco in qualità di Preside. Mi rivolsi allora al ben noto matematico e dirigente del Partito Comunista Lucio Lombardo Radice, che conoscevo assai bene, chiedendogli come mai una Facoltà così nota per le sue tendenze democratiche e antifasciste sopportasse di averecome Preside un personaggio di quel genere”.

“Il nome di Sabato Visco è stato per me particolarmente familiare fin dalla più tenera età. Mio padre, Saul Israel, era stato primo aiuto del celebre fisiologo Giulio Fano ed era considerato come ilsuo naturale successore alla cattedra di fisiologia generale dell’Università di Roma “La Sapienza”: per alcuni anni, Fano gli affidò completamente la direzione dell’Istituto di Fisiologia e le lezioni delcorso, essendo egli affaticato da una malattia cardiaca. La morte improvvisa di Fano impedì di avviare le procedure concorsuali atte a realizzare la successione e sulla cattedra lasciata libera vennechiamato Sabato Visco. La venuta di questi a Roma creò un clima impossibile per mio padre, anche per le continue battute antisemite che costellavano i suoi discorsi, e lo indusse alle dimissioni dall’Università”.

“Ho a lungo sentito parlare nella mia famiglia dell’ignoranza abissale di Sabato Visco. Lo stesso incontro tra mio padre e mia madre veniva ascritto a tale circostanza: mia madre, giovane assistente del celebre chimico Nicola Parravano (anche lui professore all’Università di Roma e fervente fascista) era stata inviata da questi come aiutante presso il Visco con il quale ebbe un violento diverbio circa i modi, a sua opinione, poco seri con cui venivano condotti gli esperimenti di laboratorio. Di qui la nascita di una sintonia con mio padre, che neppure apprezzava le qualità scientifiche del nuovo capo, il quale aveva prontamente smantellato gli orientamenti di ricerca impressi dal Fano, per avviare la ricerca verso l’indirizzo da lui prediletto: la scienza

14

dell’alimentazione, intesa come uno strumento fondamentale per il miglioramento della razza italica”.

“Visco, oltre ad accumulare un numero ingente di cariche scientifiche e istituzionali – preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell’Università di Roma, segretario del ComitatoBiologico del Consiglio Nazionale delle Ricerche, direttore dell’Istituto Nazionale della Nutrizione (da lui fondato nel 1936 col primo nome di Istituto Nazionale di Biologia), membro della Camera dei deputati, ecc. – fu una figura di primo piano nella politica razziale del regime. Mi riferisco non tanto alla sua adesione al Manifesto degli Scienziati razzisti, che anzi fu forzata e dal quale si dissociò per esprimere un punto di vista razzistico non biologistico;15 quanto alla carica di primissimo piano di Capo dell’Ufficio per gli Studi e la Propaganda sulla Razza del Ministero della Cultura Popolare (Minculpop) che ricoprì dal febbraio 1939 al maggio 1941, e alla numerose iniziative editoriali correlate. Visco fu anche membro del Consiglio Superiore della Demografia e della Razza, vicepresidente della Commissione ordinatrice e del Museo della Razza nell’ambito dell’Esposizione Universale e fu anche candidato alla direzione della rivista La difesa della razza”.

“Malauguratamente di tutte queste attività non rimane una documentazione estensiva. Vari elementi permettono di capire che il Visco fu estremamente solerte nel cancellare il più possibile le tracce delsuo operato quando iniziò ad comprendere che il regime era vicino al crollo finale”. “Non è difficileimmaginare chi possa aver richiesto il passaggio al Carteggio Riservato e, in occasione di tale passaggio, abbia svuotato il fascicolo”. “A noi qui Visco interessa come “redento”. Peraltro, le sue imprese erano fin troppo evidenti se, nelle sedute che si tennero dal 5 al 7 novembre 1943, la Commissione preposta alla ricostituzione dell’Accademia dei Lincei dopo la caduta del fascismo deliberò la decadenza di alcuni soci che erano stati nominati «per ragioni politiche e di partito e nonper ragioni scientifiche». Tre di questi erano gerarchi di primissimo piano del fascismo: Luigi Federzoni, Cesare Maria De Vecchi, Giuseppe Bottai; il quarto era Sabato Visco. La delibera seguì il tortuoso percorso delle procedure di epurazione e impiegò molto tempo prima di diventare operativa”.

“Personaggi che non avevano avuto alcun rilievo politico nel regime fascista e si erano limitato a una generica adesione – e oltretutto che, in seguito, furono perseguitati in quanto ebrei! – venivano epurati in modo pesante. Al contrario, gerarchi di tutto rispetto, che avevano avuto un ruolo dirigente nel fascismo, o addirittura si erano resi colpevoli di atti efferati, venivano “lavati” perché utili, in quanto potevano contribuire a costruire una vera egemonia politico-culturale. Sabato Visco, sebbene epurato dall’Accademia dei Lincei, in data 6 gennaio 1946, fu reintegrato nella posizione diprofessore universitario, godendo dell’amnistia promossa da Palmiro Togliatti. Egli non trovò alcuna cellula comunista a diffidarlo minacciosamente dal rientrare nell’Università. Al contrario, trovò un caloroso comitato di accoglienza. Non una delle vecchie posizioni che ricopriva gli venne negata. Riprese la posizione di Preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell’Università di Roma e la mantenne fino alla morte, avvenuta nel 1971”.

“Riassunse le posizioni che aveva ricoperto nel Consiglio Nazionale delle Ricerche e riprese possesso pieno della sua creatura, l’Istituto Nazionale della Nutrizione. Qui perpetuò il suo potere alpunto da creare una scuola di seguaci che ancor oggi lo omaggia. In una recente conferenza, in data 7 novembre 2003, il professor Tommaso Scarascia Mugnozza, presidente dell’Accademia Nazionale delle Scienze (detta dei XL), ha inaugurato un congresso in cui si è parlato «delle norme per una sana e corretta alimentazione, dei problemi di conoscenza del valore nutrizionale dei cibi e della necessità, che fin dai primi anni, l'essere umano abbia coscienza del rapporto "alimentazione-salute"»; ed ha ricordato che «sono questi i capisaldi sui quali si è svolta o si svolge l'attività di studio e di ricerca, nel campo della nutrizione e della alimentazione, anche nel nostro Paese. Pietra

15

angolare di questa attività è, l'organismo scientifico fondato dal Prof. Sabato Visco, nell'ambito dell'Università di Roma negli anni Cinquanta, che è oggi quel grande e autonomo istituto che si chiama INRAN». L’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, fondato nel 1999) è il «pilastro» di tali ricerche, ed esso, «fino a qualche anno fa, si chiamava Istituto Nazionale della Nutrizione». Ci si guarda bene dal dire che l’Istituto Nazionale della Nutrizione fu fondato nel 1936, sia pure sotto un nome diverso (e non negli anni cinquanta, in cui fu soltanto ristrutturato) e che aveva come scopo primario la promozione di una sorta di “razzismo alimentare”,ovvero della elaborazione delle norme alimentari ottimali per il miglioramento della razza italica”.

Visco, nel dopoguerra, “conservò un enorme potere che era il risultato di un patto di scambio con i suoi nuovi alleati: egli metteva al servizio le sue indubbie capacità politiche e la rete delle sue relazioni in cambio del “lavacro” e della dimenticanza dei suoi misfatti passati. I suoi nuovi alleati erano a sinistra e, in particolare, nel Partito Comunista”.

Tornando alla domanda di Israel nel 1964, ovviamente, “la risposta fu: «Ma è così bravo a trovare denaro!». Mi chiesi anche come mai uno dei più illustri docenti della medesima Facoltà, BeniaminoSegre, che sarebbe stato Presidente dell’Accademia dei Lincei, sopportasse una simile vicinanza: sebbene Visco non fosse più stato reintegrato nell’Accademia non mancavano le occasioni in cui Segre doveva sedergli vicino. Segre era ebreo ed era stato vittima delle leggi razziali. Sono convintoche la spiegazione di tale condiscendenza ha sempre la stessa radice politica: Segre era militante delPartito Comunista e, negli anni cinquanta, era stato addirittura Presidente dell’Associazione per l’amicizia fra l’Italia e l’Unione Sovietica”.

(9) Nella contemporanea versione wikipediana, Banfi viene “redento”, per usare l’espressione di Israel, dal fatto di succedere a uno dei pochi intellettuali italiani che si era rifiutato di prestare giuramento al Duce, Piero Martinetti perdendo in questo modo la cattedra stessa - ma, paradossalmente, riuscendo lo stesso a farla attribuire a Banfi. In questo caso la regola viene esplicitata, e si assume che prevalga sull’epurazione mussoliniana. Per capirci qualcosa bisognerebbe forse leggere il recente libro di Davide Assael (Alle origini della Scuola di Milano: Martinetti, Barié, Banfi, Milano, 2009), dalla cui prefazione, firmata da Fabio Minazzi, cito testualmente: “Martinetti ha infine opposto un netto rifiuto a sottostare al giuramento preteso e voluto dalla dittatura fascista, nel 1931, da tutti i docenti universitari italiani. Giustamente occorre sempre sottrarre, criticamente, questo straordinario gesto martinettiano, invero assai emblematico, da ogni ottundente e vacua retorica antifascista, onde comprenderlo in tutta la sua genesi specifica. Nel caso di Martinetti non può allora essere certamente negato, in sintonia con Franco Alessio, il carattere dichiaratamente religioso di questa sua scelta che, non per nulla, lo ha infine indotto ad essere l'unico filosofo italiano universitario che ha avuto l'incredibile capacità critica di sottrarsi nettamente e senza compromessi all'imposizione del regime fascista”.

(10) Quanto diversi fossero i termini dei rapporti fra Ceccato e queste persone, e che non si trattassesolo di tre o quattro persone, lo si puo’ desumere da una lettera del Ferruccio in questione a Giuseppe Vaccarino, scritta nel 1948. “Ritengo di essermi liberato da preoccupazioni conoscitive e non sento il bisogno di una realtà (interna o esterna…) che guidi il nostro fare; ma questo fare, seppur svincolato da quello che poteva dogmatizzarlo in un senso qualsiasi, è per me qualcosa che sussiste; è, se vogliamo, una specie di datum, anche se non obbliga affatto in una direzione piuttostoche in un’altra. Silvio dice che in questo modo mi pongo un limite, metto la semiretta al posto della retta o del circolo” (citata da Felice Accame per intero in “Sulla dissipazione del capitale scientifico”, wp 246).

16

(11) Data significativa, anche se “Methodos” cambia il sottotitolo in “linguaggio e cibernetica” due anni prima.

(12) Vedi in proposito il saggio di Felice Accame “La metodologia operativa come oggetto della critica”, disponibile sul sito Methodologia.it).

(13) Barie’ fu accusato da Ceccato, tempo dopo e non per iscritto, di aver distrutto pubblicamente il Teocono. Ma in “C’era una volta la filosofia” (1996) le cose vanno diversamente. Addirittura gli offre di tenere un corso, dopo che Banfi l’avrebbe cacciato a causa del Teocono. Ma l’avventura accademica sarebbe finita lo stesso, a causa del suicidio di Barie’ (peraltro avvenuto ben sette anni dopo, il 3 dicembre 1956).

(14) L’Adamo II, che attira anche l’attenzione del Presidente della Repubblica in visita a Milano, viene presentato ufficialmente come: "Costruito sotto gli auspici della rivista 'Civiltà delle Macchine'". Nella brochure distribuita ai visitatori si parla di "Modello meccanico di operazioni mentali" e si spiega che l’artefatto viene prelevato "Dai lavori in corso per la realizzazione del progetto 'Adamo II', sotto gli auspici della rivista 'Civiltà delle Macchine', pubblicata dal Gruppo Industriale della Società Finanziaria Meccanica 'Finmeccanica'". Non compare affatto, insomma, il Cnr. (Cfr. S. Ceccato, Leonardo Sinisgalli, Civiltà delle macchine e Adamo II, in ATTI del Simposiodi studi su Leonardo Sinisgalli (Matera-Montemurro 14-15-16 maggio 1982, Liantonio, Matera, 1987, pp. 495-504). Ma nel 1958 (forse avendo fiutato il finanziamento americano?), la rivista del Cnr pubblica un saggio intitolato “Modello meccanico di operazioni mentali", peraltro firmato dal solo Enrico Maretti.

(15) Fatico a decifrare questo passaggio.

17