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PON “Governance e Assistenza Tecnica 2007-2013”
Obiettivo Operativo I.2
Progetto: “Supporto alle attività di valutazione del Quadro Strategico Nazionale 2007/2013”
Intervento: “Valutazione delle politiche per la Ricerca e l’Innovazione”
REPORT
Team di ricerca: Alfredo Del Monte (coordinamento e supervisione metodologica), Nadia di Paola, Luca
Pennacchio, Emanuela Sirtori, Marco Valentini.
Referente NUVAP: Paola Casavola.
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Acronimi
ADITE: Associazione dei Distretti Tecnologici
CIS: Community Innovation Survey
CNR: Consiglio Nazionale delle Ricerche
CRA: Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura
DPS: Dipartimento per lo Sviluppo e la coesione economica
DT: Distretto Tecnologico
ENEA: Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile
FAR: Fondo per l’Agevolazione alla Ricerca
FIRB: Fondo Investimenti Ricerca di Base
FIRST: Fondo Investimenti per la Ricerca Scientifica e Tecnologica
FSC: Fondo nazionale per lo Sviluppo e la Coesione
FSE: Fondo Sociale Europeo
FSRA: Fondo Speciale per la Ricerca Applicata
INFN: Istituto Nazionale di Fisica Nucleare
PAC: Piano di Azione e Coesione
PONREC: Piano Operativo Nazionale Ricerca e Competitività
POR: Piano Operativo Regionale
PRIN: Progetti di Rilevante Interesse Nazionale
PST: Parchi Scientifici e Tecnologici
R&S: Ricerca e Sviluppo
SNA: Social Network Analysis
UE: Unione Europea
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INDICE
EXECUTIVE SUMMARY ............................................................................................................................................. 4
CAPITOLO 1 LINEE GUIDA E OBIETTIVI DELLA RICERCA ........................................................................... 8
CAPITOLO 2 LA LETTERATURA SULLA COLLABORAZIONE IN R&S ...................................................... 11
2.1 La letteratura empirica sui fattori che determinano la collaborazione in R&S ........................................................................... 11
2.2 I fattori determinanti la collaborazione nella R&S con diversi tipi di partners ........................................................................... 15
2.3 Le collaborazioni tra imprese ed enti di ricerca .......................................................................................................................... 16
2.4 Proprietà intellettuale, innovazione e politiche pubbliche .......................................................................................................... 18
CAPITOLO 3 LE POLITICHE PER LA RICERCA COLLABORATIVA ............................................................ 20
3.1 Le politiche nazionali per la ricerca collaborativa ...................................................................................................................... 20
3.2 Le politiche regionali per la ricerca collaborativa ....................................................................................................................... 23
3.3 Le politiche per la creazione dei distretti tecnologici.................................................................................................................. 25 3.3.1 L’esperienza dei distretti tecnologici e i risultati nel Mezzogiorno ...................................................................................... 26
3.3.2 Approfondimento sul funzionamento e sulle performance dei distretti ADITE ................................................................... 28
CAPITOLO 4 METODI E INDICATORI PER LA VALUTAZIONE DELLA RICERCA COLLABORATIVA ....................................................................................................................................................................................... 31
4.1 Criteri di addizionalità e metodi di valutazione .......................................................................................................................... 31
4.2 Descrizione di uno schema per la valutazione qualitativa delle politiche per la creazione di reti innovative ............................. 34
CAPITOLO 5 ANALISI DEI DATI .......................................................................................................................... 40
5.1 Un confronto internazionale su ricerca e innovazione usando la Community Innovation Survey .............................................. 40
5.2 La ricerca e innovazione collaborativa dai dati OpenCoesione .................................................................................................. 45
5.3 Riflessioni metodologiche sulle possibilità di utilizzare i dati OpenCoesione per analisi di valutazione d’impatto .................. 53
CAPITOLO 6 L’ANALISI DEI CASI STUDIO ....................................................................................................... 55
6.1 Analisi di contesto....................................................................................................................................................................... 55
6.2 I casi studio ................................................................................................................................................................................. 56 6.2.1 Il distretto tecnologico DARE (Puglia).................................................................................................................................. 56
6.2.2 Il distretto tecnologico AgroBioPesca (Sicilia) ..................................................................................................................... 58
6.2.3 Il distretto tecnologico R&D.Log (Calabria) ......................................................................................................................... 59
6.2.4 Il caso Marche ..................................................................................................................................................................... 63
CAPITOLO 7 CONCLUSIONI .................................................................................................................................. 66
BIBLIOGRAFIA .......................................................................................................................................................... 75
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EXECUTIVE SUMMARY
Negli ultimi decenni la collaborazione nelle attività di ricerca e sviluppo ha suscitato un crescente interesse
tra i policy makers e gli studiosi. La letteratura economica si è sviluppata lungo due direttrici: la prima, di
natura teorica, volta ad evidenziare gli effetti positivi dell’attività collaborativa per le imprese ed il benessere
sociale; la seconda, di natura applicata, volta da un lato a verificare i determinanti dell’attività di
collaborazione e dall’altro a confrontare la struttura delle collaborazioni di tipo spontaneo con quelle sorte
come effetto di aiuti pubblici. Una delle conclusioni di tale letteratura è che i fallimenti del mercato
impediscono spesso che le imprese diano spontaneamente vita ad accordi di cooperazione nella R&S. Sono
state quindi attuate nei vari paesi, ed anche a livello della UE, politiche volte a favorire la collaborazione fra
imprese, e tra queste ultime ed istituzioni di ricerca. La necessità di politiche a favore della collaborazione si
presenta particolarmente importante per l’Italia che presenta un rapporto tra spesa in R&S e prodotto lordo
molto inferiore alla media dei principali paesi europei: nel 2013, ad esempio, tale valore si attestava all’1,3%
contro il 2,1% della media UE. Per quanto riguarda poi i livelli di collaborazione, i dati CIS-Eurostat
mostrano che la quota di imprese innovative italiane che coopera in R&S è circa un terzo di quella registrata
a livello europeo.
Numerosi studi hanno cercato di valutare gli effetti delle politiche per la R&S. I risultati riguardanti l’Italia,
a differenza di quanto risulta da molti lavori econometrici relativi ad altri paesi Europei (si veda ad esempio
Aerts e Czarnitzki, 2009), mostrano una scarsa efficacia dei programmi nazionali (Merito et al., 2007; De
Blasio et al., 2014). Altri lavori econometrici mostrano per contro un effetto positivo dei programmi
implementati a livello regionale (Corsino et al., 2012; Bronzini e Piselli, 2014; Fantino e Cannone 2013;
Ughetto e Cannone, 2014). Questi ultimi generalmente riguardano le imprese di piccole e medie dimensioni
che sembrano essere quelle su cui maggiormente hanno effetto gli incentivi pubblici; questo potrebbe
spiegare la differente efficacia enfatizzata dalla letteratura empirica. D’altro canto, i metodi statistici
utilizzati si concentrano solo sui risultati delle imprese e non tengono contro degli effetti indiretti degli
interventi pubblici su altri soggetti. Ciò è particolarmente importante nel caso di progetti di ricerca
cooperativi ove partecipano anche università e centri di ricerca e che, come nel caso dei distretti tecnologici,
si preoccupano anche di realizzare programmi di formazione. Inoltre, la costituzione di nuovi legami fra i
vari attori può avere effetti positivi anche sulla capacità di assorbimento delle imprese. Tali effetti però
possono essere colti solo nel lungo periodo. D’altronde gli studi econometrici sopraindicati ci danno
indicazioni sugli effetti delle politiche ma non riescono ad individuare le cause di eventuali fallimenti. E’
importante quindi integrare i lavori econometrici con analisi di casi studio.
Il presente lavoro affronta le problematiche relative alla valutazione delle attività collaborative di R&S
realizzate in Italia nell’ambito degli interventi finanziati dalla politica di coesione. Lo studio è un’analisi
esplorativa sulle dinamiche di collaborazione nella R&S e fornisce alcune considerazioni sulla politica in
favore dei distretti tecnologici nel Mezzogiorno. Purtroppo il limitato numero di casi studio considerati non
consente una valutazione generale degli effetti di tale politica. Lo studio parte da uno schema molto generale
che evidenzia il rapporto fra il contesto regionale di riferimento, le caratteristiche delle politiche, i
partecipanti alle reti, la governance e la tipologia di rete che ne risulta. Dopo aver passato in rassegna la
letteratura sui fattori che favoriscono la collaborazione e le metodologie per valutare le politiche in favore
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della R&S, il lavoro si concentra sui dati di OpenCoesione – la banca dati sui progetti finanziati dalle
politiche di coesione in Italia sviluppata dal Ministero dello Sviluppo Economico – per individuare i progetti
di ricerca collaborativa finanziati con fondi strutturali. L’analisi di tali dati, realizzata secondo criteri
altamente conservativi, indica che i progetti di ricerca collaborativa (definiti come quelli in cui oltre ad altri
attori vi è almeno un’impresa privata) al 31 dicembre 2014 erano 2.391, per un valore totale di 8.598 milioni
di euro ed un costo medio per progetto di circa 3,6 milioni. Il 54% del valore totale era costituito da fondi
pubblici.
L’analisi ha mostrato però che OpenCoesione non offre una base dati coerente per individuare con certezza
né i progetti collaborativi finanziati con fondi strutturali né l’insieme dei progetti collaborativi. Inoltre la
banca dati sulla cooperazione nella R&S ottenuta da OpenCoesione non ha prodotto dati sufficientemente
omogenei per effettuare un confronto fra progetti di ricerca cooperativa finanziati con fondi strutturali. In
sintesi, sembra che i dati di OpenCoesione siano solo l’inizio di una pratica che possa consentire di valutare
le politiche di coesione. Pratica che per raggiungere il pieno successo ha bisogno che gli stessi dati vengano
raccolti in maniera sempre più articolata. Laddove questo non risulti possibile, appare necessario integrarli
con altre fonti, prestando particolare attenzione alle indispensabili informazioni di contesto di volta in volta
più ritenute opportune.
Il lavoro ha poi esaminato quattro casi studio di ricerca collaborativa. Tre di questi casi riguardano progetti
di ricerca collaborativi implementati all’interno di altrettanti distretti tecnologici localizzati nel
Mezzogiorno, nelle regioni Puglia, Sicilia e Calabria. I distretti di Puglia e Sicilia operano nel settore
alimentare mentre quello calabrese è attivo nel settore del trasporto e della logistica. Il quarto caso studio
riguarda invece un progetto di ricerca collaborativo implementato come risposta ad un bando pubblico
emanato dalla regione Marche. In tal modo sono stati esaminati due differenti strumenti di politica pubblica,
il distretto tecnologico ed il bando regionale.
L’analisi dei casi studio evidenzia che vi è stata addizionalità di input e di collaborazione, ed in alcuni casi si
può parlare di addizionalità comportamentale. Non è del tutto chiaro se si può parlare di addizionalità di
output. Ad ogni modo non sono state raccolte sufficienti informazioni per verificare se i vari progetti hanno
rispettato o meno il criterio dell’efficienza. Nel caso delle Marche, le imprese hanno sviluppato delle
tecnologie che ora stanno cercando di commercializzare. Nel caso di R&D.Log (il distretto tecnologico della
Calabria) sono stati prodotti programmi software (quindi si sono avute delle innovazioni di processo) che,
anche se non commercializzati, sono utilizzati dalle imprese del distretto per migliorare la propria
competitività. Nel caso del distretto DARE (il DT pugliese), ci sono indicazioni che lasciano presupporre
addizionalità di output, ma è ancora presto per fare questa valutazione. Discorso analogo vale per il distretto
Agrobiopesca (il DT della Sicilia). Comune ai vari casi esaminati, in particolare nel Mezzogiorno, è che
l’addizionalità è stata maggiore per le piccole imprese locali piuttosto che per le grandi imprese nazionali.
Non si può escludere che le grandi imprese abbiano avuto un comportamento opportunistico.
E’ interessante notare il differente ruolo assunto dagli attori nei vari contesti. In alcuni casi, come nei
distretti DARE e Agrobiopesca, l’attore distretto ha avuto un ruolo positivo nel favorire le collaborazioni
grazie ai servizi offerti. Nel caso di R&D.Log, invece, il distretto non ha svolto una politica di governance
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volta a favorire le collaborazioni fra i singoli attori. Queste sono state essenzialmente il risultato di accordi
indotti dalla concessione degli incentivi pubblici. Nel caso delle Marche non vi è uno specifico organo di
governance. Le collaborazioni in questa regione sono senza dubbio il risultato delle caratteristiche dei bandi,
mentre l’esistenza di un tessuto industriale dominato da una certa propensione all’aggregazione ha agevolato
la formazione della partnership per la ricerca collaborativa. Inoltre, nel caso delle Marche ma in generale in
quello delle aree più sviluppate, l’esistenza di intermediari non pubblici e di consulenti aziendali locali in
grado di fornire assistenza tecnica per quanto riguarda le difficoltà burocratiche e amministrative connesse
con i progetti di ricerca ha svolto un ruolo molto positivo. In generale lo studio evidenzia che lo strumento
del bando pubblico, in cui si richiede collaborazione fra attori, ha buone probabilità di successo ove il
tessuto produttivo è più robusto e vi è un’adeguata presenza di consulenti specializzati e/o le imprese hanno
già una buona capacità di ricerca autonoma. In molte aree del Mezzogiorno tali elementi sono assenti per
cui, in linea di principio, appare necessaria la presenza di una struttura stabile come quella del distretto
tecnologico che sia in grado di individuare i bisogni delle imprese, nonché di supportare i vari attori nella
stesura e nell’implementazione dei progetti e, più in generale, nelle ricerca dei partners e nel coordinamento
delle partnerships. La governance del distretto dovrebbe inoltre essere rivolta al perseguimento degli
obiettivi dell’insieme degli attori e non di particolari gruppi. Purtroppo non sempre la governance dei
distretti meridionali si è mostrata all’altezza dei compiti richiesti.
L’evidenza empirica fornita dai casi studio inoltre suggerisce che per il successo di un intervento pubblico a
supporto della R&S collaborativa, è importante che vi sia una chiara complementarietà dei partners per
quanto riguarda le competenze. Una particolare attenzione a tale aspetto eviterebbe la partecipazione al
progetto di soggetti che, non avendo specifiche competenze, aderiscono esclusivamente per ragioni
opportunistiche. Un minor numero di partecipanti a ciascun progetto faciliterebbe il coordinamento tra gli
attori e renderebbe più rapido ed efficace lo scambio di informazione fra gli stessi. Un numero troppo
elevato di attori per progetto, invece, genera il rischio che vi siano eccessivi costi di coordinamento che a
loro volta, aumentando il rapporto fra costi e benefici, riducono il contributo del progetto al benessere
sociale. Da questo punto di vista sarebbe anche opportuno fare attenzione al finanziamento di progetti con
obiettivi troppi ampi e che coinvolgono un numero troppo elevato di soggetti. Questo implica che non è
opportuno stabilire un numero minimo di attori né tantomeno un ammontare minimo del progetto, anche alla
luce delle differenze tra i vari settori industriali. Soglie minime, infatti, in settori caratterizzati dalla forte
presenza di piccole imprese aumentano eccessivamente il numero di attori per progetto con il rischio di
elevare di molto i costi di coordinamento.
Un altro aspetto importante su cui occorre fare particolare attenzione è il costo del progetto rispetto alle
attività da svolgere. Questo impone un meccanismo di incentivi che favorisca la rivelazione dei costi
effettivi da parte degli attori.
In conclusione, l’analisi condotta sui casi studio ha confermato i potenziali vantaggi derivanti dalla
collaborazione individuati dalla letteratura economica, e quindi l’opportunità di politiche pubbliche a favore
della collaborazione. In assenza di una ricetta univoca per promuovere la cooperazione, è opportuno
sperimentare differenti strumenti di policy. Perché tali strumenti risultino efficaci e rispettino i criteri di
addizionalità ed efficienza, particolare attenzione deve essere data dal decisore pubblico ai seguenti aspetti:
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la governance del DT: questa deve dimostrarsi adatta a garantire il funzionamento del distretto,
coordinare i partner, assicurare la buona collaborazione tra grandi e piccole imprese, ridurre gli
oneri burocratici in capo alle imprese. E’ altresì necessario che i distretti, in quanto organi del
sistema regionale per l’innovazione, contribuiscano al perseguimento di politiche regionali di
sviluppo di medio-lungo termine;
il contesto di riferimento: le caratteristiche del tessuto produttivo (settori prelevanti, dimensione
delle imprese, ecc.), la presenza di centri di ricerca di rilievo, l’attitudine delle imprese
all’innovazione, il livello di fiducia e apertura delle imprese devono essere tenuti in considerazione
nell’ideazione di uno strumento di policy per la ricerca collaborativa e nella sua attuazione. Il
Distretto Tecnologico può avere un ruolo propulsivo importante in aree dove vi siano maggiori
resistenze alla collaborazione e dove prevalgono imprese con limitata propensione all’innovazione e
capacità di ricerca; il bando pubblico ad aggregazioni di imprese può avere effetti positivi laddove le
imprese sappiano coordinarsi tra di loro in autonomia per la realizzazione del progetto;
criteri di selezione e ammissibilità al finanziamento pubblico: l’analisi ha mostrato alcune
condizioni alla base dell’efficacia della collaborazione (partecipazione di centri di ricerca,
complementarietà tra le imprese, motivazione, fiducia, ecc.); tuttavia, criteri troppo rigidi per quanto
riguarda la selezione dei partecipanti (ad esempio la necessità di selezionare università locali, di
coinvolgere necessariamente grandi imprese) o soglie minime alla spesa sproporzionate rispetto alle
caratteristiche delle imprese possono ridurre l’efficacia o l’efficienza di un progetto. Tale trade-off
deve essere tenuto in considerazione in fase di scrittura dei bandi pubblici.
Il rapporto, pur evidenziando molte debolezze nell’attuazione della politica per i distretti tecnologici nel
Mezzogiorno, ritiene l’esperienza complessivamente positiva. Certamente i suggerimenti discussi in
precedenza possono contribuire ad incrementare l’efficacia di tale politica. Va infine rilevato che in base
all’analisi dei casi studio nei distretti del Sud non si è ancora raggiunta una situazione in cui la
collaborazione indotta dall’intervento pubblico possa proseguire con la stessa intensità in assenza di
incentivi finanziari ad-hoc.
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CAPITOLO 1
LINEE GUIDA E OBIETTIVI DELLA RICERCA
L’introduzione del progresso tecnico è un elemento essenziale del processo di crescita per cui negli ultimi
anni hanno preso sempre più consistenza politiche pubbliche volte a favorire l’attività di ricerca e sviluppo.
Tali politiche appaiono necessarie in quanto le attività che generano conoscenza soffrono di tre problemi che
determinano fallimenti del mercato: incertezza, indivisibilità, esternalità. Tali caratteristiche determinano il
cosiddetto problema dell’appropriabilità secondo cui gli innovatori corrono il rischio di ottenere solo una
parte del rendimento delle attività che generano conoscenza e da esse svolte. Vi è quindi la convinzione che
il mercato offra un incentivo inadeguato a introdurre innovazioni e che la produzione di informazione e
conoscenza lasciata al solo mercato sia insufficiente dal punto di vista della società. Gli strumenti utilizzati
nell’ambito di tali politiche sono stati finanziari, fiscali e giuridici per quanto riguarda la protezione
dell’attività intellettuale. Le politiche seguite dovrebbero soddisfare due criteri: la regola dell’addizionalità e
quella dell’efficienza (si veda il Capitolo 4). In base alla prima regola non dovrebbero essere finanziati
progetti che in ogni caso sarebbero stati realizzati con caratteristiche simili. In base alla seconda non vanno
finanziati progetti che utilizzano risorse che sarebbero impegnate in modo più produttivo in altre attività1.
Obiettivo di questo studio è affrontare le problematiche relative alle politiche relative alle attività
collaborative di ricerca e sviluppo (R&S) realizzate nell’ambito degli interventi pubblici finanziati dalla
politica di coesione. Particolare attenzione sarà data alla politica in favore dei distretti tecnologici e ai suoi
effetti in alcune regioni del Mezzogiorno. Partendo da uno schema molto generale (Figura 1.1) che
evidenzia il rapporto fra il contesto di riferimento, le caratteristiche delle politiche, i partecipanti alle reti, la
governance e la tipologia di rete che ne risulta, la presente ricerca analizzerà le esperienze di costruzione e
conduzione di alcuni cluster tecnologici2, individuando gli aspetti critici e le opportunità che li hanno
caratterizzati. Saranno quindi discusse le criticità e le pratiche di successo che hanno connotato tali
esperienze per trarre suggerimenti utili alle future politiche pubbliche.
Lo studio si articola nel seguente modo. Nel Capitolo 2 si presenta una sintesi degli argomenti teorici e dei
risultati empirici per quanto riguarda i fattori determinanti della cooperazione nella R&S. Nel Capitolo 3,
dopo una breve panoramica delle politiche e degli strumenti utilizzati in Italia per favorire la cooperazione
nelle attività innovative, si analizza la politica per i distretti tecnologici e i risultati da essa raggiunti sia a
livello nazionale e sia con particolare riferimento ad alcuni DT del Mezzogiorno. Nel Capitolo 4 si
espongono brevemente alcune metodologie utilizzabili per la valutazione delle politiche pubbliche in favore
1 Il concetto di efficienza cui si fa riferimento è quello di efficienza statica in base al quale un progetto va finanziato con un
sussidio tale che il rendimento privato e il rendimento sociale si eguaglino. In tal modo si massimizzeranno i benefici che la
società riceve dall’innovazione. Se il rendimento delle risorse utilizzate per il progetto sussidiato è inferiore al costo opportunità
delle risorse stesse, il progetto non dovrebbe essere finanziato. In realtà le informazioni relative all’intensità dei fallimenti del
mercato sono, a causa dell’incertezza, dell’asimmetria informativa e dell’azzardo morale, difficilmente disponibili per cui il
criterio di efficienza non è facile da verificare. Si dovranno utilizzare metodi appropriati per far rivelare al sussidiato, almeno in
parte, le informazioni in suo possesso. In ogni caso è facile che l’impresa sussidiata riuscirà a godere di una certa rendita (Laffont
e Tirole, 1993). Nei progetti di R&S occorrerebbe tenere conto, nella valutazione dei possibili effetti del progetto, della probabilità
di realizzazione dell’innovazione. Purtroppo l’esistenza di un’asimmetria informativa fra il proponente e l’agenzia di valutazione
sui parametri che determinano tale probabilità rende molto difficile tener conto di questo aspetto. 2 In questo rapporto i termini ‘cluster’ e ‘distretto’ sono utilizzati come sinonimi.
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della ricerca collaborativa (logica controfattuale e matching, analisi delle rete sociali, metodologia della
valutazione realista) e si individuano alcuni importanti indicatori utili per la valutazione dei progetti
collaborativi e dei distretti tecnologici. Nel Capitolo 5 viene analizzata la banca dati OpenCoesione,
sviluppata dal Ministero dello Sviluppo Economico e relativa ai progetti finanziati con Fondi Strutturali.
Partendo da tale banca dati si cerca di individuare l’insieme dei progetti collaborativi in R&S, definiti come
rapporti collaborativi di tipo formale fra una pluralità di attori di vario tipo (imprese, centri di ricerca
pubblici e privati, università). Nella versione presentata in questo rapporto, vengono individuati, in assenza
di ulteriori informazioni, solo una parte, anche se preponderante, dei rapporti collaborativi finanziati con
fondi strutturali. Sono state quindi elaborate statistiche descrittive a livello regionale per i progetti
cooperativi finanziati. Tali statistiche riportano la distribuzioni per tipologia degli attori coinvolti e
l’ammontare dei finanziamenti. Il Capitolo 6 è dedicato all’analisi dei casi studio, la cui versione completa
viene riportata in appendice. I casi studio sono stati scelti con riferimento a tre regioni del Mezzogiorno
(Calabria, Puglia, e Sicilia), dove sono stati esaminati altrettanti distretti tecnologici, e ad una dell’Italia
centrale (Marche), dove viene invece analizzato lo strumento del bando pubblico. I casi studio considerati
riguardano sia contesti regionali differenti sia tipologie di reti differenti. Le domande ai soggetti intervistati,
istituzioni e imprese, hanno coperto i seguenti aspetti: i) Ostacoli nelle attività di R&S collaborativa, dalla
fase iniziale di preparazione dei progetti fino alla fase conclusiva di rendicontazione; ii) Ruolo del
finanziatore pubblico in tutte le fasi delle attività collaborative (e possibile modifica di tale ruolo); iii)
Benefici della ricerca collaborativa. Infine, il Capitolo 7 conclude il rapporto, con alcune considerazioni
sull’efficacia delle politiche collaborative condotte in Italia - con particolare riferimento a quella per i
distretti tecnologici - e suggerendo alcune possibili modifiche elle stesse.
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Figura 1.1 - Schema interpretativo delle politiche di intervento a favore della ricerca collaborativa
Contesto
Caratteristiche delle
politiche di
intervento
Governance
Tipologie di
rete
Soggetti
Sostenibilità
della rete
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CAPITOLO 2
LA LETTERATURA SULLA COLLABORAZIONE IN R&S
La ricerca economica sulla collaborazione nella R&S e sulle reti innovative si è sviluppata lungo due
direttrici: la prima di natura teorica volta ad evidenziare i vantaggi che le imprese hanno dall’attività
collaborativa; la seconda, di natura applicata, volta da un lato a verificare i determinanti dell’attività di
collaborazione e dall’altro a confrontare la struttura delle collaborazioni di tipo spontaneo da quelle sorte
come effetto di aiuti di stato. Vantaggi relativi alla collaborazione nella R&S derivano da un lato dalla
complementarietà delle attività necessarie per la realizzazione di un progetto di ricerca e dal coordinamento
delle stesse e dall’altro dai vantaggi di tipo informativo. I vantaggi legati alla complementarietà sono legati
all’esistenza di risorse scarse specifiche all’impresa e non reperibili sul mercato per cui è solo attraverso
un’attività di coordinamento fra le imprese che è possibile sfruttare in modo comune tali competenze (Katz e
Ordover, 1990; De Bondt, 1997; Salant e Schaffer, 1998). I vantaggi derivanti dal coordinamento nelle linee
di ricerca sono: la riduzione dei costi fissi in quanto si evitano duplicazioni nell’attività di ricerca, lo
sfruttamento dei rendimenti di scala crescenti che possono caratterizzare la ricerca (questo può essere vero
superate alcune soglie di scala di investimento o raggiunta una massa critica di risorse), nonché la
condivisione di brevetti (Amir, 2000; Kamien et al., 1992).
Ci sono poi vantaggi di tipo informativo che dipendono in modo stringente dal tipo di rete istituita. Tali
vantaggi risiedono nella capacità di condividere e far circolare le informazioni e nella capacità di controllare
e monitorare il comportamento delle rivali. In un progetto di ricerca il raggiungimento dell’obiettivo
previsto (in particolare in settori come il farmaceutico, chimico, biotecnologico, nuovi materiali, etc.) può
partire da sentieri di ricerca differenti per cui la condivisione delle informazioni fra i partner può ridurre il
numero delle false partenze nelle fasi di progettazione e produzione. In tal modo si riducono i costi e si
accelera il tempo in cui un prodotto è portato sul mercato. Man mano che nuove imprese si aggiungono ad
una rete il pool delle informazioni disponibili dall’insieme delle imprese appartenenti ad una rete cresce e
quindi, per ciascun partner, aumenta l’utilità di appartenere ad una rete. Quindi la condivisione delle
informazioni accresce le esternalità di rete.
La letteratura analizzata si basa in parte su analisi di casi studio ed in parte su lavori econometrici. Il
paragrafo 2.1 considera i fattori che favoriscono la cooperazione nel suo insieme, il paragrafo 2.2 evidenzia
il differente impatto di tali fattori sulle collaborazioni instaurate con i possibili tipi di partners; il paragrafo
2.3 approfondisce i fattori più rilevanti nelle relazioni tra imprese ed enti di ricerca. Infine, nel paragrafo 2.4
si presenta una riflessione sulla protezione della proprietà intellettuale, un aspetto particolarmente delicato
nei rapporti di ricerca collaborativi.
2.1 La letteratura empirica sui fattori che determinano la collaborazione in R&S
In questo e nei successivi paragrafi intendiamo offrire una sintesi dei risultati raggiunti dalla letteratura
teorica ed empirica sui fattori determinanti della cooperazione nella R&S, discutendo anche delle
implicazioni in termini di benessere sociale. Ciò allo scopo di individuare le caratteristiche di una politica a
favore della costruzione di reti innovative.
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Tra i principali fattori determinanti della cooperazione nelle attività di ricerca e sviluppo un ruolo centrale è
giocato dalla possibilità di aumentare e migliorare il grado di conoscenza. Molti lavori trovano che
l’acquisizione e la creazione di nuova conoscenza rappresentano fattori chiave per l’instaurarsi di
collaborazioni in R&S (Caloghirou e Vonortas, 2000; Caloghirou et al., 2003). Elevati incoming spillovers e
outgoing spillovers incentivano le imprese ad allacciare accordi cooperativi. Inoltre, anche l’appropriabilità
dei risultati della ricerca ha un effetto positivo sulla propensione a collaborare (Cassiman e Veugelers, 2002;
Abramovsky et al., 2005). Le imprese più abili nel catturare i flussi di conoscenza esterna e nel proteggere la
propria base di conoscenze, quindi, appaiono maggiormente inclini a cooperare nelle attività innovative.
Altri lavori hanno analizzato come varia la propensione delle imprese a collaborare in base alle
caratteristiche del mercato di riferimento. I risultati mostrano che la difesa o l’incremento della quota di
mercato (Link e Zmud, 1984), la possibilità di ottenere le conoscenze tecniche necessarie per una
diversificazione orizzontale e/o verticale (Link e Bauer, 1989; Link, 1990) e la concentrazione del mercato
(Hernan et al., 1999) rappresentano incentivi validi alla cooperazione in R&S. I lavori elencati finora hanno
tutti verificato implicazioni derivate dalla letteratura teorica di Industrial Organization (I.O.).
Strettamente collegato con i flussi di conoscenza vi è il concetto di absorptive capacity introdotto da Cohen
and Levinthal (1990) e definito come la capacità di riconoscere, assimilare ed utilizzare per fini commerciali
la conoscenza esterna. Diversi studi trovano che le imprese con elevati livelli di absorptive capacity,
misurata come intensità della spesa in-house per la R&S o come percentuale di addetti nella R&S o ancora
con la presenza di una struttura permanente per la ricerca, ottengono maggiori benefici dalla cooperazione e
sono quindi più propense a stringere alleanze nella R&S (Bayona et al., 2001; Miotti e Sachwald, 2003;
Lopez, 2008; Arranz e Arroyave, 2008; Veugeles, 1997; Cassiman e Vuegelers, 2002).
Altri studi evidenziano che la probabilità di instaurare legami collaborativi è maggiore se i soggetti
presentano elevata complementarietà della conoscenza (Sakakibara, 1997; Hagedoorn, 1993). La
complementarietà ha un ruolo importante anche in relazione ad altre risorse. Hite e Hesterly (2001), ad
esempio, affermano che le imprese instaurano relazioni di rete con lo scopo di beneficiare di risorse
complementari sia in termini di assets e sia in termini di competenze. In linea con tale idea, Roller et al.
(1997) e Navaretti et al. (1999) trovano un impatto positivo della complementarietà di prodotto e Das e Teng
(2000) della complementarietà tecnologica sulla propensione a cooperare delle imprese. Rispetto alla
complementarietà tecnologica, tuttavia, si segnalano alcuni lavori che forniscono risultati contrastanti.
Cantner e Meder (2007), ad esempio, mostrano che la prossimità tecnologica, e quindi una maggiore
omogeneità tra i soggetti, ha un effetto positivo sulle collaborazioni nelle attività di ricerca. Di conseguenza
il ruolo della complementarietà tecnologica che emerge dalla letteratura non è univoco. Ciò può dipendere in
parte dalla difficoltà nel misurare empiricamente la similarità/dissimilarità tecnologica di due soggetti.
Altri fattori che spingono le imprese a collaborare riguardano i vincoli alle risorse. Alcuni lavori forniscono
evidenza empirica che la riduzione dei costi per lo sviluppo di nuovi prodotti/processi e la condivisione dei
relativi rischi spingono le imprese a formare accordi collaborativi. Lo stesso dicasi per i vincoli
organizzativi, intesi come carenza di personale specializzato nella R&S o come rigidità dell’organizzazione,
che obbligano a posticipare o ad abbandonare la realizzazione di progetti innovativi (Sakakibara, 1997;
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Bayona et al., 2001; Tyler e Steensma, 1995). Tuttavia, come rilevato da Chun e Mun (2012), non tutti gli
studi sono concordi con simili conclusioni. Miotti e Sachwald (2003), ad esempio, non trovano effetti sulla
probabilità di collaborazione né di riduzione dei costi né di condivisione del rischio.
Ulteriori analisi basate su casi studio hanno indicato la creazione di nuove opportunità di investimento e lo
sfruttamento di sinergie quali motivazioni che spingono le imprese a cooperare (Vonortas, 1997, 2000). I
lavori incentrati sulla complementarietà e sui vincoli delle risorse sono più vicini alla letteratura teorica di
tipo manageriale, con particolare riferimento alla resource-based theory.
La letteratura esistente ha dato ampia importanza anche alla dimensione d’impresa ed al settore
economico in cui questa opera. Riguardo alla dimensione, esiste una robusta evidenza empirica circa una
correlazione positiva con la probabilità di cooperazione nella R&S (Fritsch e Lukas, 2001; Roller et al.,
1997; Colombo e Garrone, 1996). Alcuni autori giustificano tale relazione osservando che le imprese di
maggiori dimensioni effettuano una più intensa attività di ricerca e sviluppo interna e quindi hanno una più
elevata absorptive capacity (Negassi, 2004). D’altronde, si potrebbe anche ritenere che, avendo maggiori
risorse umane e finanziarie, le grandi imprese sarebbero in grado di portare avanti da sole le proprie attività
di R&S, senza la necessità o l’utilità di collaborazioni esterne. In altre parole si potrebbe affermare che al
crescere della dimensione si attenuano i vincoli relativi alle risorse visti in precedenza. Per quanto riguarda i
settori di appartenenza delle imprese, ci sono diversi lavori che indicano come la propensione a collaborare
nella R&S sia maggiore nei settori a più elevata intensità tecnologica (Bayona et al., 2001; Miotti e Schwald,
2003; Dachs et al., 2008). Un simile risultato viene spiegato con la maggiore complessità tecnologica e con
la maggiore velocità del cambiamento tecnologico che caratterizza i settori ad alta intensità di tecnologia
(Leiponen, 2001; Klevorick et al., 1995; Pavitt, 1984). Tether (2002), inoltre, mostra che le imprese inclini
verso innovazioni di tipo radicale sono più propense a cooperare nelle attività di R&S rispetto alle imprese
che si concentrano su innovazioni incrementali.
Il finanziamento pubblico può stimolare le organizzazioni a collaborare e a condividere conoscenza,
incrementando il benessere sociale e la capacità innovativa delle imprese. Tuttavia un sussidio alla R&S può
ridurre i vincoli finanziari delle organizzazioni che ne beneficiano, diminuendo alcuni incentivi a collaborare
come ad esempio quelli legati alla condivisione dei costi. In tal caso si ha un effetto negativo sulla
probabilità di collaborazione. D’altronde un incentivo alle imprese per collaborare può aiutare queste ultime
ad allacciare una collaborazione ritenuta utile, ma che potrebbe non realizzarsi per la presenza di altri
fallimenti del mercato, come ad esempio la mancanza di coordinamento e di informazione, o l’opportunismo
dei partners. La grande maggioranza dei lavori empirici comunque mostra che i sussidi pubblici hanno un
effetto positivo sulla collaborazione in R&S (Badillo e Moreno, 2012; Gussoni 2009; Czarnitzki e Kraft
2012; Cassiman e Veugelers, 2002).
Buona parta della letteratura manageriale (Kale e Singh 2009; Ciborra, 1991; Ring e Van de Ven, 1994)
mette l’accento sulle collaborazioni spontanee. Ma occorre tener presente che molte reti di collaborazione
nascono come effetto di programmi pubblici. Un aspetto interessante, anche se non molto analizzato, è il
confronto fra le caratteristiche dei due tipi di collaborazioni. Va segnalato al riguardo il lavoro di Hagedoorn
e Schakenraad (1993) che confronta reti spontanee e reti sussidiate, mostrando che non vi sono forti
differenze in termini di numero e di intensità dei legami fra le imprese. Un recente lavoro (Matt et al., 2011)
14
confronta alcune collaborazioni sponsorizzate nell’ambito dell’European Framework Programme con altre
collaborazioni spontanee. Il principale risultato del lavoro è che le collaborazioni finanziate dalla UE hanno
un carattere più esplorativo e si focalizzano su competenze periferiche. Esse inoltre sono meno flessibili a
causa delle rigide regole di monitoraggio che in ogni caso appaiono importanti ai fini del successo della
cooperazione. Per il resto, non vi sono grandi differenze fra collaborazioni spontanee e quelle finanziate
nell’ambito dei programmi UE.
Una letteratura empirica più recente ha cercato di verificare se la propensione a collaborare dipende in
qualche modo da aspetti di natura sociale e da aspetti di natura geografica. In base alla network formation
theory la posizione di un soggetto all’interno della rete è ritenuta un determinante chiave della cooperazione
(Bala e Goyal, 2000). Questo perché per valutare i benefici di una collaborazione bilaterale bisogna prendere
in considerazione non solo la conoscenza scambiata tra le due organizzazioni direttamente coinvolte, ma
anche la conoscenza a cui le organizzazioni possono indirettamente accedere tramite la propria rete di
collaborazione. Al momento ci sono pochi studi che verificano se le caratteristiche di una rete influenzano le
scelte di collaborazione delle organizzazioni che vi partecipano, o per utilizzare un termine della social
network analysis, dei propri nodi. Goyal et al. (2006), ad esempio, mostrano che il grado di coinvolgimento
all’interno della rete, ciò che nella letteratura di social network analysis è definita come structural
embeddedness (Granovetter, 1985; Uzzi, 1997), è un fattore chiave nello spiegare le strategie collaborative.
Conclusioni analoghe emergono da altre analisi empiriche (Sorenson e Singh, 2007; Chung et al., 2000).
L’idea sottostante di tale filone di letteratura è che il trasferimento tecnologico può realizzarsi sia attraverso
legami diretti, come in una collaborazione bilaterale, e sia attraverso i legami indiretti delle organizzazioni
all’interno delle propria rete di collaborazioni.
I vantaggi della collaborazione non riguardano solo le reti fra le imprese ma anche quelle fra istituzioni,
organismi di ricerca e imprese. Ciò è anzitutto sostenuto dal modello della Tripla Elica (università, industria,
istituzioni) (Etzkowitz e Leydesdorff, 2000; Leydesdorff e Meyer, 2006). Anche in questo caso la letteratura
empirica mostra che la collaborazione fra differenti tipi di organizzazioni (grandi imprese, piccole imprese,
università e centri di ricerca) può in particolari casi aumentare la profittabilità delle imprese impegnate nel
progetto (Oxley 1997, Caloffi et al., 2013).
Alcuni lavori hanno anche evidenziato il ruolo della conoscenza precedente quale fattore in grado di
favorire l’instaurarsi di legami cooperativi (Gulati, 1998). In questa direzione, Paier and Scherngell (2011)
forniscono evidenza empirica dell’effetto positivo di relazioni di lungo periodo e della conoscenza reciproca
sulla fiducia tra le organizzazioni, che a sua volta rende più probabile la nascita di collaborazioni strategiche
nella R&S.
Alcuni studi di geografia dell’innovazione hanno affermato che la prossimità spaziale favorisce le relazioni
interpersonali e quindi i processi innovativi (Zucker et al. 1994; Almeida e Kogut 1999; Singh 2005; Breschi
e Lissoni 2001; Mairesse e Turner 2006). Secondo tali lavori la vicinanza geografica può ridurre i costi di
coordinamento e rafforzare la condivisione della conoscenza, con un effetto positivo sulla cooperazione tra
organizzazioni. In verità, alcuni lavori come, ad esempio, Ponds et al. (2007) hanno rilevato che gli aspetti
geografici contano nelle scelte collaborative solo in quanto favoriscono le relazioni interpersonali e non di
15
per sé. Tale idea è stata ripresa da studi successivi (Maggioni et al., 2007; Maggioni e Uberti, 2011) e
supportata empiricamente da alcuni studi (tra gli altri Autant-Bernard et al., 2007; Ardovino e Pennacchio,
2014)
Infine, alcuni lavori recenti hanno posto l’accento sull’importanza dell’ambiente esterno nel determinare le
strategie collaborative delle organizzazioni. Srholec (2015), ad esempio, mostra che le collaborazioni cross-
country, cioè le collaborazioni tra organizzazioni di paesi differenti, sono più diffuse nei paesi caratterizzati
da scarsa presenza di infrastrutture della ricerca e da sistemi di innovazione meno sviluppati. Bellucci e
Pennacchio (2015) invece mostrano che la collaborazione tra imprese ed enti di ricerca è più intensa nei
paesi in cui il sistema della ricerca ha una maggiore entrepreneurial orientation ed una più elevata qualità
della ricerca.
2.2 I fattori determinanti la collaborazione nella R&S con diversi tipi di partners
L’effetto sulla probabilità di cooperare dei fattori appena elencati non è univoco, ma varia in base a
molteplici dimensioni. Nel seguito si riassumono le principali evidenze empiriche della letteratura che ha
posto l’accento sull’effetto eterogeneo che i vari determinanti hanno sulla cooperazione con i diversi tipi di
partners. La scelta su quali e quanti tipi di collaborazione porre in essere rappresenta una vera e propria
strategia a disposizione delle imprese. Di conseguenza diventata interessante analizzare i fattori che
influenzano le imprese nella scelta dei loro partners nell’attività di R&S.
Una macro distinzione relativa alla tipologia di cooperazione ampiamente utilizzata nella letteratura
empirica riguarda la possibilità di un’impresa di collaborare verticalmente lungo la filiera produttiva
(vertical cooperation) oppure orizzontalmente (horizontal cooperation). In linea generale possono essere
individuati 5 tipi di collaborazione in relazione al punto in cui avvengono lungo la filiera produttiva:
1) Fornitori;
2) Consumatori o clienti;
3) Concorrenti;
4) Istituzioni di ricerca;
5) Consulenti esterni.
La cooperazione con i consumatori e i fornitori, può essere classificata come una cooperazione di tipo
verticale; a sua volta la cooperazione con i competitors ne individua una di tipo orizzontale. Classificare le
altre tipologie di cooperazione seguendo queste due dimensioni è leggermente più complicato, visto che
potrebbero riguardare vari aspetti della fase produttiva sia monte, sia a valle. Se si considera la “classica”
distinzione tra ricerca di base, applicata e sviluppo sperimentale, allora i rapporti con i centri di ricerca
riguardano prevalentemente la ricerca di base/applicata, mentre i rapporti con i consulenti (lancio di un
nuovo prodotto, design, ecc.) riguardano generalmente la ricerca applicata e lo sviluppo
sperimentale/commercializzazione.
La letteratura empirica ha analizzato soprattutto le prime quattro forme di collaborazione, dedicando invece
minore spazio alla cooperazione con i consulenti esterni (Aschoff e Schmiddt, 2008; Belderbos et al., 2004;
de Faria et al., 2010; Franco e Gussoni, 2010).
16
Un primo risultato empirico conferma l’effetto positivo degli incoming spillovers su tutte le tipologie di
cooperazione (Badillo e Moreno, 2012; Gussoni, 2009; Czarnitzki e Kraft, 2012). Gli incoming spillovers
derivanti da collaborazioni con i competitors hanno un impatto minore rispetto a quelli derivanti da
collaborazioni di tipo verticale con fornitori e consumatori. Particolare importanza assumono invece gli
spillovers derivanti da cooperazioni con enti di ricerca, significativi per tutti gli altri tipi di cooperazione, e
con un effetto maggiore per le collaborazioni con gli istituti di ricerca (Cassiman e Veugelers, 2002). Tali
spillovers hanno un effetto anche sulle cooperazioni verticali e orizzontali.
L’absorptive capacity impatta in maniera decisamente eterogenea sui diversi tipi di cooperazione. Appare
come un fattore chiave nelle collaborazioni con gli enti di ricerca e un fattore importante ma meno rilevante
nell’aumentare la probabilità che si instaurino collaborazioni di tipo verticale. Non sembra invece in grado
di stimolare la cooperazione con i concorrenti.
La gran parte degli autori trova un impatto positivo e significativo della dimensione d’impresa e dei
finanziamenti pubblici sui vari tipi di collaborazione (Badillo e Moreno, 2012; Gussoni, 2009; Czarnitzki e
Kraft 2012; Cassiman e Veugelers, 2002). Per quanto riguarda la dimensione, l’effetto è particolarmente
rilevante nei rapporti di collaborazione con gli enti di ricerca. Le imprese di piccole dimensioni, quindi,
hanno una generale difficoltà ad instaurare rapporti di collaborazione in R&S con gli enti di ricerca. A
quest’ultimo proposito, tuttavia, i casi studio da noi esaminati (si vedano i Capitoli 6 e 7) mostrano come la
scarsa capacità di ricerca interna e la necessità di soddisfare vincoli di natura legale come nell’industria
alimentare, possono indurre le piccole imprese a stabilire rapporti di collaborazioni con università e centri di
ricerca. Per quanto riguarda i sussidi pubblici, si evince un simile effetto positivo che però non riguarda la
cooperazione con i competitors. Questo suggerisce che i sussidi tendono a promuovere soprattutto la
cooperazione di tipo non competitivo.
Le tre tipologie di vincoli (costo, rischio e organizzativo) non hanno in genere effetto significativo sulle
varie tipologie di collaborazioni, contrariamente a quanto previsto dalla letteratura.
2.3 Le collaborazioni tra imprese ed enti di ricerca
Diversi studi hanno analizzato le condizioni affinché si realizzino collaborazioni proficue tra mondo della
ricerca e imprese. Questi lavori mostrano che l’esistenza di relazioni di collaborazione precedenti, la
vicinanza territoriale, le caratteristiche della cultura organizzativa degli enti coinvolti, la dimensione
fiduciaria e relazionale e il livello di proceduralizzazione influiscono positivamente sulla propensione a
cooperare.
Relazioni di collaborazione precedenti. L’esito finale di rapporti di collaborazione è favorito da
precedenti esperienze di collaborazione tra enti di ricerca e imprese. La presenza di rapporti
precedenti tra enti facilita, infatti, il trasferimento di conoscenza interorganizzativo. È utile, altresì,
che la partecipazione a progetti comuni sia stabile anche per quanto riguarda gli individui
direttamente coinvolti nelle attività. Un elevato turnover all’interno dei singoli enti, o lo spostamento
di personale da una rete all’altra, potrebbero essere controproducenti dal punto di vista dello sviluppo
17
di relazioni interpersonali, e di conseguenza un ostacolo al trasferimento di conoscenza (Goldhor e
Lund, 1983; Cyert e Goodman, 1997; Davenport et al., 1999).
Vicinanza territoriale. La prossimità territoriale tra imprese ed enti di ricerca universitari e non profit
incide positivamente sullo sviluppo di solide relazioni. La vicinanza spaziale dei membri della rete
contribuisce alla formazione di nuovi legami e facilita l’interazione tra gli enti e tra le persone, con
conseguente scambio di conoscenza, in particolare conoscenza tacita (Bonaccorsi e Piccaluga, 1994;
Vedovello, 1997; Fantino, et al., 2012).
Cultura organizzativa. Una cultura organizzativa stabile e fortemente orientate rappresenta la forza
di un’impresa poiché favorisce il raggiungimento della propria missione. In queste organizzazioni la
presenza di una cultura stabile è dimostrata dall’esistenza di un modo comune di procedere delle
persone e la tendenza a prendere decisioni di lungo termine. Gli stessi concetti possono essere
declinati nell’ambito delle reti tra imprese e centri di ricerca. In questo caso la cultura condivisa fa
riferimento alla misura in cui determinate norme di comportamento siano comunemente accettate.
Organizzazioni con una visione culturale comune riescono più facilmente a determinare degli
obiettivi condivisi in merito alla funzione della partnership e ai risultati che ci si propone di
conseguire. D’altro canto, i singoli enti in genere avranno anche i propri obiettivi individuali, il cui
raggiungimento può influenzare anche i risultati della rete nel complesso (Provan e Milward, 2001).
Focalizzare l’attenzione sugli obiettivi condivisi necessita che si valuti la misura in cui gli obiettivi
dei singoli enti sono compatibili tra loro, e con quelli della rete nel complesso. Anche il grado di
condivisione di una stessa cultura è un fattore favorevole per il trasferimento di conoscenza
soprattutto quella a conoscenza tacita; d’altronde, alcuni autori notano come le differenze tra partner
promuovano un processo di apprendimento (Phan e Peridis, 2000). Infatti, le differenze di cultura
possono essere elementi favorevoli al trasferimento di conoscenza. Per questa ragione, quanto
maggiore è l’apertura a differenze negli approcci, nell’ambito di una generale condivisione dei
principi di base, tanto più è probabile che si sviluppino processi di apprendimento.
Fiducia. La fiducia tra gli attori della rete rappresenta un fattore vitale per il successo e lo sviluppo
della partnership. Eventuali tendenze verso comportamenti opportunistici, infatti, possono essere
limitate da orizzonti temporali medio-lunghi entro cui collocare le attività, da interazione frequente
tra i membri, da elevata trasparenza nei comportamenti3. Tutto ciò tenderà a contribuire allo sviluppo
di mutua fiducia, e di conseguenza ad una maggiore disponibilità a trasferire conoscenza (Klofsten e
Jones-Evans, 1996; Davenport et al., 1999).
Reputazione. La reputazione dei singoli attori gioca un ruolo altrettanto fondamentale per il successo
della collaborazione. Nell’area delle relazioni tra università e imprese la alta/bassa reputazione di cui
godono alcuni membri è in grado di favorire/ostacolare la diffusione di fiducia tra i partecipanti al
network (Goldhor e Lund, 1983; Martınez e Pastor, 1995).
Procedurizzazione. Il livello di procedurizzazione aziendale, infine, pare impattare sulle possibilità di
costituire rapporti di collaborazione efficaci: le imprese con meccanismi operativi più definiti
3 Il concetto di opportunismo in economia è stato introdotto negli anni 70’ da Williamson nella sua teoria sui costi di transazione. I
comportamenti opportunistici nascono in condizioni di incertezza e di contratti incompleti allorché le parti cercano di sfruttare a
proprio vantaggio circostanze ad esse favorevoli e non regolamentate contrattualmente. La parte che ha un maggior potere
contrattuale può massimizzare i propri profitti a spese della controparte più deboli. In tali situazioni, relazioni fra le parti che
sarebbero utili dal punto di vista sociale non vengono realizzate.
18
riescono a ottenere dei risultati migliori nei processi di trasferimento tecnologico. In altri termini un
elevato livello di istituzionalizzazione ha effetti positivi sull’efficacia delle collaborazioni tra enti di
ricerca e imprese (Geisler e Furino, 1993; Geisler, 1997).
Vincoli regolatori. Questo è un aspetto non molto considerato nella letteratura. Esso riguarda il fatto
che vincoli regolatori sulla qualità dei prodotti o dei processi possono spingere le imprese di piccola
dimensione e con scarse capacità di ricerca interne a stabilire rapporti collaborativi con università e
centri di ricerca. Questo risulta in modo chiaro per quanto riguarda l’industria alimentare del
Mezzogiorno e del Centro-Nord. I casi studio hanno sottolineato che la percentuale di imprese
innovative, in questo settore, è più elevato nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord.
2.4 Proprietà intellettuale, innovazione e politiche pubbliche
Uno strumento largamente utilizzato per risolvere, almeno parzialmente, i fallimenti del mercato che
nascono dal problema dell’appropriabilità dei risultati della spesa in R&S riguarda la protezione dell’attività
intellettuale tramite una specifica legislazione. Quest’ultima può proteggere l’innovatore dall’uso non
autorizzato da parte di terzi della conoscenza e delle informazioni da esso create. In tal modo le leggi
tendono a risolvere, anche se parzialmente, il problema della sottoproduzione di conoscenza che risulterebbe
dai fallimenti del mercato. D’altronde i diritti esclusivi concessi da tali leggi all’innovatore creano un
problema di sottoutilizzazione della conoscenza (ogni prezzo diverso da zero per l’uso di tale conoscenza
riduce il benessere sociale). Per rendere meno severo tale problema le leggi sulla protezione della proprietà
intellettuale hanno durata di tempo limitata, dopodiché la conoscenza diviene un bene pubblico e può essere
usata gratuitamente.
Un ulteriore strumento per superare il conflitto fra rendimento sociale e rendimento privato è la politica di
dare un sussidio alla attività di ricerca. In linea di principio il valore del sussidio dovrebbe essere pari al
valore della spesa sostenuta dall’inventore, ed in tal modo non si scoraggerebbe quest’ultimo dall’investire.
L’inventore, d’altro canto, dovrebbe autorizzare in modo indiscriminato tutti all’uso della conoscenza
prodotta. In altre parole, la conoscenza diviene un bene pubblico e non vi è riduzione di benessere sociale.
Questo si verifica con il finanziamento pubblico delle università e dei centri di ricerca. Una situazione
intermedia si ha nel caso in cui si finanzia la ricerca privata ponendo però limitazioni all’utilizzo del diritto
di monopolio sulla conoscenza realizzata dall’innovatore. La concessione di un sussidio alla ricerca privata
può risolvere il problema del sotto-investimento nella conoscenza nel caso in cui l’impresa privata in
assenza di sussidio non avrebbe realizzato l’investimento. Si tratta del cosiddetto effetto di addizionalità (si
veda il Capitolo 3), criterio spesso utilizzato per valutare l’efficacia di una politica di incentivi pubblici alla
R&S. Tale politica però può essere oggetto di tre critiche. La prima è che esso non risolve il problema della
sottoutilizzazione della conoscenza nel caso, come spesso accade, che all’innovatore venga egualmente
concessa la protezione della proprietà intellettuale. Il secondo problema è quello che nasce dal fatto che i
sussidi vengono finanziati con la tassazione, e ciò provoca distorsione nell’uso delle risorse. Infine il terzo
problema è che, a causa dell’asimmetria informativa fra l’impresa che chiede il contributo per l’attività di
R&S e la commissione che decide di concederla, il sussidio può divenire una rendita per l’impresa con
effetti molto modesti di addizionalità. Tali problemi rendono la politica per la R&S largamente imperfetta.
19
Occorre quindi individuare metodi per ridurre la distorsione che essa può indurre. Ad esempio, si può
concedere all’inventore la scelta fra richiedere un incentivo alto con il rischio non di non essere finanziato o
chiedere un incentivo basso (o al limite nullo) e maggiore probabilità di essere finanziato. Inoltre, si può
anche dare la possibilità all’innovatore di scegliere fra un alto incentivo e la rinuncia alla protezione legale
della proprietà e fra un incentivo basso o nullo più la protezione legale. D’altronde, in molti casi, la rinuncia
alla protezione legale non implica che cessino gli incentivi all’innovazione. Questo accade allorché gli
innovatori riescono a mantenere il segreto sulle loro scoperte. In una simile situazione, se la segretezza
risolve il problema della sottoproduzione dell’attività di ricerca non risolve quello della sottoutilizzazione
della conoscenza. Il segreto limita la possibilità di diffusione e ciò è un costo per la società.
E’ anche possibile che l’investitore rinunci alla protezione legale, in quanto eccessivamente costosa, ed
accetti quindi il rischio dell’imitazione. Spesso l’imitazione non è immediata e implica particolari capacità
di assorbimento della conoscenza da parte dell’imitatore. Questo permette all’innovatore di godere di un
vantaggio comparato per un tempo sufficiente lungo in cui può recuperare le spese sostenute. Alcuni studi
empirici (si veda ad esempio Arnand e Galitonic, 2004) basati su interviste a managers hanno trovato che la
segretezza (per le innovazioni di processo) e strategie basate sul vantaggio della prima mossa (per le
innovazioni di prodotto) sono ritenuti strumenti migliori per ottenere adeguati rendimenti della spesa in R&S
della stessa protezione legale della proprietà intellettuale. Quindi l’esistenza di scarti temporali per i processi
di innovazione, l’esistenza di curve di apprendimento e adeguate capacità di marketing sono viste più
efficaci nella protezione della proprietà intellettuale di quanto non siano le norme legali. La principale
eccezione a quanto ora detto riguarda il settore chimico farmaceutico ove la protezione legale è importante
non solo per gli elevati costi sostenuti ma anche perché in tali mercati il cambiamento è cumulativo, nel
senso che lo sviluppo di un prodotto risulta da varie fasi di innovazione e ricerca. In tal caso i nuovi prodotti
devono utilizzare l’innovazione originaria e pagare una rendita al primo innovatore per l’uso della stessa4.
4 Un esempio interessante è quello della scoperta della sequenza del genoma umano da parte di Celera che ha utilizzato la
protezione della propria scoperta per chiedere una rendita sui geni scoperti aumentando i costi per i nuovi innovatori e rallentando
il flusso di innovazioni. (Williams, 2010)
20
CAPITOLO 3
LE POLITICHE PER LA RICERCA COLLABORATIVA
3.1 Le politiche nazionali per la ricerca collaborativa
Come evidenziato nella letteratura, la ricerca industriale collaborativa è considerata come una possibile
soluzione alle barriere che impediscono alle imprese, individualmente, di realizzare efficacemente l’attività
di ricerca. La collaborazione permette alle imprese di unire le proprie risorse – finanziarie, fisiche e umane –
e condividere i rischi per riuscire a superare le barriere esistenti. La prossimità geografica è un potente
stimolo per la collaborazione tra imprese, grazie alla più facile diffusione di conoscenze e all’esistenza di
catene di fornitura comuni, che favoriscono la condivisione dei costi destinati alla ricerca e a servizi
accessori (ad es. di formazione). La collaborazione con organismi di ricerca (incluse le università) è un altro
importante fattore per assicurare l’efficacia della ricerca e innovazione. In particolare, la collaborazione tra
imprese ed enti di ricerca risponde alla necessità di internalizzare gli spillover informativi, permette alle
imprese di accedere a conoscenze, infrastrutture e servizi di ricerca di punta e incrementare la produttività
delle proprie attività di innovazione, e agli enti di ricerca di accedere a capacità e risorse industriali per
commercializzare le idee della ricerca o testarne il potenziale commerciale (Cunningham e Gök, 2013).
Tuttavia, in presenza di interazioni deboli tra i diversi attori, a causa dell’incapacità o della riluttanza delle
imprese a formare partnership e reti con altre imprese, la collaborazione nei processi di ricerca e
innovazione si riduce, creando così il presupposto per l’intervento pubblico. L’esistenza di potenziali
sinergie tra la ricerca e le politiche di sviluppo economico è riconosciuta dalla Commissione Europea fin dai
primi anni Novanta e continui tentativi di promuovere l’integrazione tra le politiche di sviluppo regionale e
le politiche di R&S sono stati fatti sin da allora (Commissione Europea 1998, 2006, 2010; EURAB 2007;
Consiglio Europeo 2000 e 2005). I dati di spesa dei Fondi Strutturali evidenziano un orientamento crescente
verso gli investimenti in R&SS: se nel periodo di programmazione 2000-2006 non più del 7% della spesa
della politica di Coesione è stata indirizzata ad attività connesse al mondo della R&S5, questa quota è
cresciuta a circa il 25% nel periodo successivo, pari a 86 miliardi di Euro (2007-2013)6 e ci si aspetta che
crescerà ulteriormente durante gli anni 2014-2020. Proprio la strategia Europa 2020, che stabilisce degli
obiettivi sul livello di spesa in R&S, e la definizione di strategie regionali di ‘specializzazione intelligente’
(Smart Specialization) che promuovono la ricerca e innovazione negli ambiti nei quali ciascuna regione
detiene un particolare vantaggio competitivo, dovrebbero dare nuovo impulso alla spesa regionale in R&S.
L’approccio della specializzazione intelligente, in particolare, intende superare il cosiddetto ‘paradosso
dell’innovazione’ (come definito da Landabaso et al. 2001 e 2002), secondo il quale l’innovazione tende
naturalmente a concentrarsi nelle aree più sviluppate, dotate di maggiori capacità e concentrazione di risorse.
Promuovere la R&S in determinate ambiti di specializzazione anche nelle aree più svantaggiate attraverso la
politica di coesione è ritenuto fondamentale per superare le barriere che impediscono di raggiungere gli
obiettivi di crescita del livello di R&S nell’Unione, nonché obiettivi di crescita e convergenza.
Anche l’Italia ha sviluppato nel corso del tempo specifiche politiche per la R&S collaborativa. Le prime
iniziative di supporto diretto alla ricerca applicata in ambito industriale risalgono alla fine degli anni
5 Più precisamente, il 5,5% secondo Technopolis (2006) e il 7,4% secondo la Commissione Europea (2014).
6 Commissione Europea 2014.
21
Sessanta, con l’istituzione del Fondo Speciale per la Ricerca Applicata – FSRA (legge 1089/68) e
l’attuazione di una serie di interventi a valere su tale Fondo. Il FSRA intendeva incentivare progetti
presentati autonomamente dalle imprese e la costituzione di specifiche società di ricerca per favorire
l’incontro e l’aggregazione tra i differenti attori della ricerca. Negli anni successivi, il numero di strumenti di
policy a valere sul FSRA sono andati aumentando. Questi comprendevano sia strumenti di natura bottom-up,
come il sostegno a progetti di ricerca privata e di formazione professionale7, sia top-down, col
finanziamento di programmi nazionali di ricerca attraverso commesse pubbliche8. L’insieme dei soggetti
ammissibili agli incentivi del FSRA, definito dalla legge 46/1982 e successive modifiche, comprendeva sia
imprese individuali che consorzi e società consortili tra imprese industriali, a capitale misto pubblico e
privati, e consorzi comunque composti, purché a partecipazione finanziaria maggioritaria da imprese
manifatturiere. Alcune forme di supporto alla ricerca collaborativa erano dunque già formalmente previste
dal legislatore.
Dagli inizi degli anni novanta viene proposto un ulteriore strumento a favore della promozione della ricerca
e innovazione collaborativa e coordinata in ambiti territoriali determinati (soprattutto nel Mezzogiorno),
ovvero la creazione di Parchi Scientifici e Tecnologici (PST). Ai Parchi costituiti in forma di consorzio,
società consortile o società per azioni viene assegnato il ruolo di promozione dello sviluppo regionale e il
coordinamento della ricerca e innovazione svolta da diversi soggetti (università, enti pubblici e privati, centri
di ricerca pubblici e privati, imprese). I Parchi offrono infrastrutture e spazi per l’insediamento delle imprese
e/o dei loro centri di ricerca, permettono la condivisione di infrastrutture e laboratori, forniscono servizi di
consulenza, formazione, supporto per il trasferimento tecnologico e altri servizi (logistici, finanziari, ecc.) e
favoriscono la creazione di impresa all’interno di incubatori.
La deliberazione ministeriale del 25 Marzo 1994 individua 13 parchi ai quali è concesso il finanziamento di
diversi progetti di innovazione e di formazione. Tra i progetti di innovazione realizzati, possiamo citare il
progetto “Cooperazione ricerca-imprese e generazione di nuove imprese innovative” del PST della Calabria,
o “Sviluppo di un servizio pilota finalizzato a qualificare/ espandere/ potenziare le nicchie di mercato
biomedicale dell'implanto protesi e di biomateriali per la rigenerazione di tessuti duri e molli” a cura del
PST Ionico Salentino. Oggi esistono circa una trentina di PST in tutta Italia9.
Fino al 31 Dicembre 1998, il FSRA ha impiegato quasi 8000 miliardi per il finanziamento di progetti
autonomamente presentati dalle imprese. Di questi, l’80% è stato assorbito da grandi imprese, appartenenti
soprattutto al settore della meccanica ed elettronica, seguiti da chimica e farmaceutica. Dal punto di vista
geografico, solo il 20% dei fondi è stato allocato nelle regioni del Mezzogiorno (Sud e isole)10
. A questi dati
si devono aggiungere altri 95,7 miliardi di contribuzione a progetti di ricerca proposti dalle piccole e medie
7 Legge 46/1982, legge 22/1987, legge 346/1988, legge 67/1988, legge 151/1997, legge 196/1997.
8 Legge 46/1982 art. 9, Decreto ministeriale e Accordo di Programma del 1990 “Lo sviluppo dei Parchi scientifici e tecnologici
nelle aree meridionali”. 9 Ventisei dei quali iscritti all’Associazione Parchi Scientifici Tecnologici Italiani (elenco consultabile al sito:
http://www.apsti.it/index.php?id=53). 10
Quelle definite come Obiettivo 1 nel periodo di programmazione 2000-2006, ovvero Basilicata, Calabria, Campania, Puglia,
Sardegna e Sicilia.
22
imprese ai sensi della legge 46/1982, art.4. Non si hanno informazioni precise sul livello di supporto a forme
di ricerca collaborativa.
Nel 1999 si avvia il riordino e lo snellimento della disciplina andatasi formando nei trent’anni precedenti (D.
Lgs. 297/1999) e si modifica il sistema di sostegno della ricerca scientifica e tecnologica. Al FSRA subentrò
il Fondo per l’Agevolazione alla Ricerca (FAR), comprensivo delle risorse del CIPE destinate alle aree
depresse. Il successivo decreto ministeriale 593/2000 introduce la possibilità di presentare progetti in modo
congiunto tra soggetti industriali e strutture del mondo pubblico della ricerca (Università e Enti pubblici di
ricerca), senza la necessità di assumere la forma di una struttura consortile. Per favorire le forme di
collaborazione nelle aree depresse del territorio, dove il numero di imprese che investono in R&S è
inferiore, l’impegno finanziario del soggetto industriale situato nelle regioni del Mezzogiorno può
rappresentare anche solo il 30% dell’impegno finanziario complessivo del progetto, a fronte di una
contribuzione maggiore del 50% richiesta alle imprese con sede in altre aree.
Il processo di riordino della disciplina continua nel 2007, con l’istituzione del Fondo Investimenti per la
Ricerca Scientifica e Tecnologica (FRS), in cui confluirono il FAR, il FIRB (Fondo Investimenti Ricerca di
Base) e le risorse annuali per i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale delle università (PRIN). Il
successivo intervento di revisione della disciplina è contenuto nel decreto sviluppo 83/2012, il quale
conferma la possibilità per ogni organismo giuridico di sviluppare progetti in associazione, consorzio, joint
venture e qualunque altra forma di collaborazione. In aggiunta agli strumenti di supporto più tradizionali,
quali i contributi a fondo perduto e il credito agevolato e in conformità con la disciplina comunitaria in
materia di aiuti di stato11
, a partire dal 2007 vengono introdotti il credito di imposta12
, la prestazione di
garanzie e altre agevolazioni fiscali, i voucher individuali di innovazione e gli appalti pre-commerciali di
ricerca e sviluppo dell’amministrazione pubblica. Inoltre, specifiche modalità di intervento vengono previste
in relazione a iniziative connesse ai cosiddetti Poli di innovazione e ai Distretti (o cluster) tecnologici.
I Poli di innovazione sono definiti dalla Commissione Europea13
come “raggruppamenti di imprese
indipendenti, start-up innovatrici, piccole, medie e grandi imprese, nonché organismi di ricerca attivi in un
particolare settore o ambito territoriale e destinati a stimolare l’attività innovativa incoraggiando
l’interazione intensiva, l’uso in comune di installazioni e lo scambio di conoscenze ed esperienze, nonché
contribuendo in maniera effettiva al trasferimento di tecnologie, alla messa in rete e alla diffusione delle
informazioni tra le imprese che costituiscono il Polo.” La missione dei Poli è di incoraggiare l’interazione
tra le imprese costituenti il Polo e organismi di ricerca, l’uso in comune di installazioni e lo scambio di
conoscenze, per contribuire al trasferimento di tecnologie e informazioni. Come sottolinea un documento
operativo della Regione Toscana (2011), “l’intensa interazione e lo scambio di conoscenza che si verifica
all’interno di un polo di innovazione ovviamente non preclude anzi facilita anche lo sviluppo di attività di
R&S in partnership tra i membri che aderiscono al polo, ma di fatto costituisce una conseguenza ed un
effetto indotto delle attività del Polo di Innovazione”. Il numero di Poli costituiti in ciascuna regione è
variabile. A titolo d’esempio, in Abruzzo ve ne sono 14 mentre in Puglia nessuno.
11
Comunicazione della Commissione Europea 2006C-323/01 e successivo DM 2.1.2008. 12
Legge finanziaria 2007 (296/2006). 13
Comunicazione 2006/C 323/01, ripresa dall’art. 2 comma 4 lettera h) del Decreto M.I.S.E. 27/3/2008 n. 87.
23
Una differente forma di aggregazione è rappresentata dai Distretti Tecnologici, definiti dal Programma
Nazione della Ricerca 2011-2013 come “aggregazioni su base territoriale di imprese, università ed
istituzioni di ricerca guidate da uno specifico organo di governo focalizzate su un numero definito e
delimitato di aree scientifico tecnologiche strategiche, idonee a sviluppare e consolidare la competitività dei
territori di riferimento e raccordate con insediamenti di eccellenza esistenti in altre aree territoriali del
paese”. I distretti nascono dunque come luogo fisico di governo della ricerca industriale con l’obiettivo di
progettare congiuntamente attività integrate di ricerca e sviluppo tra imprese enti di ricerca ed università. I
primi protocolli di intesa per ammettere i distretti tecnologici al finanziamento ministeriale furono firmati a
partire dal 1999-2000. Nel Dicembre 2010, il MIUR ha avviato un intervento al fine di potenziare i distretti
già esistenti e favorirne la nascita di nuovi nelle regioni appartenenti all’Obiettivo Convergenza.
3.2 Le politiche regionali per la ricerca collaborativa
I principali orientamenti di policy sopra accennati si sono tradotti in programmi di finanziamento che
specificano la strategia di intervento, le priorità tematiche e un piano finanziario su base regionale o multi-
regionale/Nazionale. E’ interessante comprendere in che modo la ricerca collaborativa sia stata
effettivamente promossa dei programmi operativi, analizzando i bandi per il supporto alla ricerca e
innovazione. Nel periodo 2007-2013, sia i programmi a livello nazionale (Piano Operativo Nazionale di
Ricerca e Competitività – PONREC e il Piano di Azione e Coesione – PAC) sia quelli a livello regionale
(Piani Operativi Regionali – POR) hanno previsto la costituzione di aggregazioni stabili di imprese (come i
Poli di innovazione o i Distretti tecnologici) o il finanziamento di progetti di ricerca realizzati da
raggruppamenti temporanei di imprese (e eventualmente centri di ricerca) per i quali il requisito della
collaborazione poteva essere facoltativo oppure obbligatorio.
Un esempio di bando caratterizzato per una forte attenzione al requisito della collaborazione tra diversi
soggetti coinvolti in attività di R&S è il bando Start Up, lanciato nel 2013 dal Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca14
nell’ambito del PONREC-PAC (quindi rivolto a tutte le regioni
Convergenza). La linea di intervento dedicata alla promozione di R&S nel campo delle tecnologie digitali
(linea 1 ‘Big Data’) ammette come potenziali beneficiari le micro, piccole, medie imprese esistenti da meno
di sei anni, per progetti individuali oppure congiuntamente tra loro, e/o con grandi imprese, con Università e
Istituti Universitari statali, e/o con Enti e Istituzioni Pubbliche Nazionali di ricerca. La linea di
finanziamento dedicata alla promozione della nascita e sviluppo di Cluster della Social Innovation e
l’aggregazione di competenze tecnologiche come mezzo per l’introduzione di strumenti finanziari innovativi
(linea 3 ‘Social Innovation Cluster’), è destinata a progetti presentati da micro, piccole e medie imprese
esistenti da meno di sei anni, e/o congiuntamente con Università e Istituti Universitari statali, e/o con Enti e
Istituzioni Pubbliche Nazionali di Ricerca vigilati dall'Amministrazione Pubblica Centrale, e/o con altri
organismi di ricerca in possesso. In questo caso è richiesto che i soggetti proponenti (non meno di tre), siano
riuniti in consorzi, società consortili, Associazioni temporanee di Impresa, Associazioni Temporanee di
Scopo. In totale, 61 progetti sono stati ammessi al finanziamento della Linea 1 e sette al finanziamento della
linea 315
.
14
All’epoca presieduto dal Ministro Francesco Profumo (Governo Monti). 15
E’ disponibile la lista di soggetti proponenti ammessi al finanziamento.
24
Esempi simili possono essere riscontrati anche a livello regionale. La tabella seguente individua le principali
forme di aggregazione di imprese esistenti nelle regioni italiane, le quali sono frutto di specifiche scelte di
policy realizzate negli anni passati miranti alla promozione di progetti R&S congiunti. Per semplicità
limitiamo l’ambito di indagine alle regioni che hanno realizzato il maggior numero di progetti di ricerca e
innovazione nel periodo 2007-2013, come ricavabile dal database di Open Coesione (a tal proposito si veda
il capitolo 5): queste comprendono le quattro regioni Convergenza (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia) e
cinque regioni Competitività e Occupazione, tre al Nord (Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte) e due al
Centro (Toscana e Lazio).
Tabella 3.1 - Forme di aggregazione stabile o temporanea per la R&S collaborativa in nove regioni selezionate Obiettivo della
politica di
coesione
(2007-2013)
Regione Parchi scientifici e
tecnologici (PST):
- Infrastrutture e spazi per l’insediamento delle
imprese e/o dei loro centri di ricerca
- Condivisione di
infrastrutture e laboratori - Servizi di consulenza,
formazione, supporto
- Trasferimento tecnologico
- Creazione di impresa
(incubazione)
Poli di innovazione per la
R&S industriale (PI):
- Organizzazioni che
erogano servizi ai soggetti che aderiscono
al Polo stesso. - Condivisione di
istallazioni
- Diffusione di informazioni
- Facilitazione della
collaborazione e trasferimento tecnologico
Distretti tecnologici (DT):
- Organizzazioni che
attivano e coordinano progetti di ricerca e
innovazione collaborativi in partnership tra imprese
e enti di ricerca aderenti
al distretto
Altre forme di aggregazione:
- Aggregazioni temporanee di soggetti, in risposta a precise
richieste dei bandi, al di fuori di PST, PI e DT
- Altre forme di raggruppamenti e
aggregazioni rilevanti per le attività di ricerca e innovazione
Convergenza
Campania 2 0 7 Altri raggruppamenti temporanei (richiesti obbligatoriamente o
volontariamente dai bandi)
Calabria 2 8 2 /
Puglia 1 0 6 Altri raggruppamenti temporanei (richiesti obbligatoriamente o
volontariamente dai bandi)
Sicilia 1 0 8 Altri raggruppamenti temporanei (richiesti obbligatoriamente da un
bando)
Competitività e Occupazione
Emilia Romagna
2 0 17
- Tecnopoli
- Altri raggruppamenti temporanei (richiesti obbligatoriamente o
volontariamente dai bandi)
Lazio 5 0 4 Altri raggruppamenti temporanei (richiesti obbligatoriamente dai
bandi)
Lombardia 8 0 9
- Meta-distretti - Consorzio Milano-Ricerche
- Altri raggruppamenti temporanei
(richiesti obbligatoriamente o volontariamente dai bandi)
Piemonte 6 11 1
- Piattaforme tecnologiche
- Altri raggruppamenti temporanei
(richiesti obbligatoriamente dai bandi)
Toscana 3 12 5
Altri raggruppamenti temporanei
(richiesti obbligatoriamente dai bandi)
Fonte: Autori, basato su un’analisi di diverse fonti.
Le informazioni sono state raccolte attraverso un’analisi desk di documenti di policy (come le strategie
regionali per l’innovazione) e di materiale di comunicazione prodotto principalmente dall’amministrazione
regionale e dai soggetti gestori di Parchi scientifico-tecnologici, Poli di innovazione e Distretti tecnologici.
Differenti fonti informative sono state confrontate per realizzare una fotografia quanto più accurata e
aggiornata delle modalità di collaborazione per la R&S. Ciò non esclude completamente la possibilità che
25
rimangano alcune imprecisioni che potrebbero essere sanate solo con un’analisi più approfondita e fondata
su interviste ad attori rilevanti. Il lettore interessato ad avere maggiori indicazioni sul quadro normativo di
riferimento, la strategia della programmazione 2007-2013 e le iniziative poste in essere nelle diverse regioni
Italiane riguardanti l’innovazione, ma non necessariamente la R&S collaborativa, può far riferimento a un
recente studio della Banca d’Italia (2014).
3.3 Le politiche per la creazione dei distretti tecnologici
Abbiamo detto che le politiche di distretto (o cluster) sono una particolare tipologia di politica largamente
utilizzate nell’esperienza italiana. Tali politiche sono generalmente considerate come un importante
strumento per stimolare la collaborazione secondo il modello della tripla elica. Uyarra e Ramlogan (2012)
riassumono così alcune osservazioni a proposito dei distretti che emergono dalla letteratura:
E’ opinione comune che le politiche di cluster forniscano le risorse e il quadro per promuovere il
potenziale di innovazione dei diversi gruppi di interesse;
La fornitura di servizi di supporto all'interno dei distretti (servizi al credito, di marketing, formazione
e business) è un elemento importante per la generazione di benefici a lungo termine;
I distretti hanno bisogno di un team direttivo che possieda un mix di competenze che conciliano
l'interesse dei partecipanti del settore pubblico e privato; sempre in termini di governance, è
importante garantire il coinvolgimento precoce del settore privato così da definire una strategia di
ricerca già orientata al mercato;
L’investimento pubblico per la creazione e lo sviluppo dei distretti è utile per attivare gli
investimenti privati, specialmente nei settori industriale a minore intensità tecnologia e più
tradizionali dove la propensione agli investimenti in R&S è inferiore;
Non c’è evidenza solida che i distretti riescano a generale un impatto significativo e sostenibile in
termini di innovazione, produttività e occupazione.
Le modalità attraverso le quali avviene l’interazione tra i soggetti che hanno deciso di attivare processi di
ricerca collaborativa possono determinare il successo o l’insuccesso della stessa, condizionando
pesantemente la sua efficacia e la possibilità di ottenere dalla relazione dei vantaggi concreti e tangibili. La
letteratura riconosce differenti modi attraverso i quali le imprese possono gestire le relazioni collaborative e
di scambio della conoscenza: socializzazione, internalizzazione, esternalizzazione, associazione (Nonaka e
Takeuchi, 1995). La scelta è essenzialmente operata sulla base della tipologia di conoscenza che si intende
trasferire.
La letteratura sembra concorde nel riconoscere una oggettiva criticità associata alle relazioni di ricerca
collaborativa, che consiste nella difficoltà di appropriarsi dei risultati comuni della ricerca, soprattutto
quando a interagire sono imprese che operano in aree di business simili o contigue e perciò ragionano in una
logica essenzialmente concorrenziale. Alcuni esempi concreti, ad esempio in materia di distretti tecnologici,
tuttavia dimostrano come tali aggregazioni possano essere opportunamente congegnate anche per superare
questi ostacoli. La precondizione per il successo di queste realtà e la generazione di benefici socio-
economici è la medesima: la condivisione di una certa capacità tecnologica e un interesse per lo sviluppo di
26
tecnologie abilitanti, nonché l’esistenza di un ente capace di far emergere le sinergie e aiutare gli attori
coinvolti a mantenere rapporti stretti di collaborazione.
3.3.1 L’esperienza dei distretti tecnologici e i risultati nel Mezzogiorno
La letteratura empirica sulla valutazione delle politiche per la costruzione di distretti tecnologici nel
Mezzogiorno non è abbondante. Un recente lavoro (Bertamino, et al., 2013) si concentra sulle differenze di
performances fra imprese che appartengono ai distretti e imprese che non appartengono ai distretti,
utilizzando metodi di matching e stime differences-in-differences. I risultati ottenuti mostrano che dopo la
costituzione del distretto le imprese distrettuali non hanno avuto una performance parzialmente diversa da
quella fatta registrare da imprese simili ma non distrettuali. Solo per le imprese di minori dimensioni dei
distretti meridionali emergono alcuni segnali di un effetto positivo sul volume di attività. Purtroppo il
ristretto numero di imprese distrettuali (circa 50) considerate, comporta che il risultato debba essere preso
con grande cautela. L’approccio di cui sopra evidenzierebbe quindi scarsa efficacia delle politiche dei
distretti tecnologici. Bisogna tener conto che il metodo usato si concentra solo sulle imprese e non tiene
conto di effetti positivi anche indiretti che la costituzione di nuovi legami fra i vari attori può avere anche
sulla capacità di assorbimento delle imprese. Questo aspetto si può cogliere solo in un periodo di tempo
relativamente lungo.
D’altronde i risultati ottenuti si possono spiegare con il fatto che la politica per i distretti tecnologici in Italia
non ha certamente seguito i criteri di addizionalità e di efficienza precedentemente indicati per quanto
riguarda la scelta dei progetti e dei distretti. L’elevato numero e l’ eterogeneità dei distretti considerati mette
in evidenza come è prevalso in tal caso un criterio politico mentre per quanto riguarda la scelta dei progetti
hanno prevalso criteri di natura tecnologica più che economica.
Come si è detto i distretti tecnologici si possono distinguere per differenti caratteristiche e ciò vale anche nel
caso del Mezzogiorno. Oltre alla minor presenza di imprese innovative ed alla tradizionale inefficienza delle
pubbliche istituzioni le regioni meridionali si caratterizzano per indici di fiducia interpersonale molto
bassi16
. Tale indicatore non solo è inferiore per l’Italia rispetto agli altri paesi europei ma evidenzia forti
disomogeneità regionali. Mentre le regioni del Centro-Nord dell’Italia includendo l’Abruzzo ed escludendo
l’Emilia-Romagna, formano un’area culturalmente omogenea e sono simili a quelle della Spagna ed alla
zona di Lisbona, e l’Emilia Romagna costituisce un’area a sè con similarità con la Catalogna, i Paesi Baschi
ed il Belga Fiammingo, le regioni meridionali registrano valori sostanzialmente inferiori dell’indice di
fiducia con somiglianza con l’Estremadura della Spagna ed il Portogallo del Nord. Ciò fa pensare che
potenziali rapporti di rete, pur se efficienti dal punto di vista del benessere sociale, non si realizzeranno
spontaneamente a causa del basso livello di fiducia nel prossimo prevalente in tali regioni. Quindi una
politica per la costruzioni di reti innovative potrebbe contribuire allo sviluppo economico di tali aree.
Nei settori innovativi del Mezzogiorno o sono presenti grandi imprese pubbliche e private, sia nazionali che
multinazionali, o piccole e medie imprese che pur avendo capitale umano qualificato sono caratterizzate da
un mercato prevalentemente locale. Per quanto riguarda la prima tipologia di aree sono stati sviluppati alcuni
16
I dati utilizzano l’European Value Study relativo al 1995 e riguardano valori culturali delle regioni europee.
27
studi, nell’ambito del progetto REPOS17
. Il concetto base è quello di “network additionality” inteso come
creazione di collaborazioni fra imprese e fra imprese e istituzioni che in assenza dello specifico intervento
non sarebbero sorte. Un primo lavoro (Del Monte, D’Esposito, Giordano e Vitale, 2010) analizza un
particolare distretto nel Sud Italia e verifica, attraverso un questionario tre configurazioni di rete (ex ante,
attuale, ex post). Risulta che vi è una tendenza alla crescita alla collaborazione fra le imprese intervistate
rispetto al tempo in cui si è costituito il distretto. Un altro lavoro (Ardovino e Pennacchio, 2012) ha
analizzato utilizzando la metodologia basata sui rapporti diadici fra i partners di 6 distretti tecnologici
indicati dal MIUR (2 nel Sud, 2 nel Nord-Ovest, 2 nel Nord-Est) i fattori determinanti la collaborazione. Un
interessante risultato è che la collaborazione è maggiore nei distretti in cui le università hanno maggior peso
e la governance segue una logica di mercato. La variabile governance è una variabile dicotomica con valore
1 se la collaborazione delle imprese è frutto di una azione spontanea dei vari attori e 0 se la scelta degli attori
è aiutata da una specifica autorità di governance (logica gerarchica). Un altro risultato del lavoro è che i
distretti tecnologici sembrano stimolare la cooperazione fra piccole imprese e fra piccole e grandi imprese.
La presenza di un organismo di tipo gerarchico sembra essere un elemento più importante ove più deboli
sono le forze di mercato nel favorire la collaborazione. Vi è poi un altro lavoro (Cucco e Savoretti, 2013)
che confronta un distretto tecnologico meridionale MIUR con un distretto tecnologico non MIUR del Centro
Italia. Nel primo opera una forma di governance di tipo gerarchico mentre nell’altro, anche se stimolate da
fondi pubblici, le collaborazioni fra gli attori sono di tipo spontaneo. Nel distretto meridionale caratterizzato
da un elevato numero di grandi imprese non locali le collaborazioni fra imprese appaiono più probabili che
le collaborazioni fra imprese e centri di ricerca. Nel distretto del Centro invece, le collaborazioni fra imprese
e università appaiono più probabili. Questo risultato non viene confermato allorché, come vedremo
nell’analisi dei casi studio (Capitolo 6), il confronto viene fatto con distretti meridionali caratterizzati da
piccole imprese. Nel Distretto meridionale gli attori che in passato hanno realizzato joint-ventures sono,
coeteris paribus, più disponibili a intrattenere rapporti di collaborazione. Per quanto riguarda il ruolo di
organismi misti del distretto volti a favorire la collaborazione non risulta dal modello di stima utilizzato,
ERGM, che essi svolgano un ruolo di particolare rilievo.
Questi studi mostrano che dove esistono grandi imprese che operano per i mercati nazionali e internazionali
e centri di ricerca sviluppati la probabilità che si costituisca una rete stabile e robusta sono abbastanza alte.
Le grandi imprese hanno, infatti, già esperienza di collaborazione ed è quindi più facile dar vita a legami con
altre imprese, specie se esistono adeguati incentivi. La presenza di piccole e medie imprese locali con
elevata capacità di assorbimento di nuove tecnologie e di capitale umano, così come centri di ricerca, può
indubbiamente facilitare la costruzione di reti innovative. In tal caso il problema non riguarda tanto
l’efficienza della rete, quanto la sua addizionalità. Quest’ultimo problema sarà tanto maggiore quanto
minore sarà il coinvolgimento delle piccole e medie imprese locali. Il mancato coinvolgimento delle imprese
locali limiterà anche la rilevanza degli effetti indiretti e quindi l’efficienza della politica. In ogni caso
l’esistenza di grandi imprese con mercati non locali differenziati, la presenza di un adeguato organo di
governance indipendente ed un corretto funzionamento delle istituzioni pubbliche può sviluppare reti stabili
ed efficienti.
17
REPOS (Reti, politiche pubbliche e sviluppo) progetto finanziato dalla Regione Campania nell’ambito del POR Campania FSE 2007-2013.
28
Più complesso è il problema lì dove vi è una concentrazione di piccole e medie imprese, con scarsa
esperienza di collaborazione e che lavorano per un mercato locale. L’esistenza di centri di ricerca e di
capitale umano non è sufficiente a creare reti in assenza di un efficiente organo di governance. La presenza
di grandi imprese non locali può essere di aiuto ma, se queste operano per un mercato locale ed hanno
difficoltà a stabilire rapporti con le imprese locali per la loro attività, la rete che si crea come effetto della
politica per la creazione di distretti tecnologici rischia di essere instabile ed i progetti inefficienti anche se
addizionali.
3.3.2 Approfondimento sul funzionamento e sulle performance dei distretti ADITE
Risultati utili sulle problematiche delle politiche per i distretti tecnologici si possono ricavare da una recente
ricerca18
relativa a sei distretti tecnologici che aderiscono all’Associazione dei Distretti Tecnologici
(ADITE) – IMAST, DHITEC, Torino Wireless, CBM, SIIT, e Veneto Nanotech. Tali distretti hanno come
oggetto lo sviluppo di tecnologie elettroniche ed informatiche, di prodotti chimici e farmaceutici, e di nuovi
materiali ed operano quindi in settori non tradizionali. Nell’ambito della ricerca sono stati intervistai
rappresentanti del mondo universitario e imprenditoriale, nonché figure istituzionali deputate alla gestione
complessiva dei distretti, quali presidenti e amministratori delegati. Gli aspetti su cui si è concentrata la
ricerca hanno riguardato i seguenti temi i:
Nascita dei distretti;
Networking;
Governance;
Sostenibilità delle reti.
Per quanto riguarda la nascita dei distretti, i vari soggetti coinvolti hanno sottolineato l’importanza di una
forte presenza di enti pubblici, università e grandi imprese. In Puglia, ad esempio, il distretto è nato grazie
all’azione pubblica che ha favorito il coinvolgimento delle grandi aziende radicate sul territorio nelle attività
di ricerca e sviluppo. L’intervento pubblico ha, infatti, generato la nascita di laboratori pubblici-privati da
cui successivamente si è sviluppato il concetto di distretto tecnologico e di rete collaborativa. Allo stesso
modo anche per Torino Wireless è stato fondamentale il ruolo dell’attore pubblico che ha fornito chiare
indicazioni sulla direzione che avrebbe preso la politica locale. Anche in Campania e in Liguria la regione
ha avuto un ruolo fondamentale per la nascita dei distretti. Tuttavia anche la presenza di importanti enti di
ricerca, come università e CNR, hanno favorito il coinvolgimento delle grandi imprese, interessate a
collaborare con tali soggetti. I soggetti intervistati hanno inoltre posto l’accento sulla necessità di una linea
duratura e stabile generale entro la quale muoversi, e la necessità di un soggetto pubblico in grado di
supportare le imprese nella fase di accesso ai vari finanziamenti.
A sua volta il coinvolgimento della grande impresa, che in molti distretti rappresentava un obiettivo
privilegiato nella fase di start up, è stato il punto di partenza per il coinvolgimento delle piccole e medie
imprese. Queste ultime sono entrate nelle reti collaborative o perché già collaboravano con le grandi imprese
partecipanti ai distretti o perché interessate ad instaurare relazioni cooperative con tali soggetti. Nel caso del
18
Progetto PRIN “Teorie delle reti, valutazione dei distretti tecnologici e delle politiche per il loro sviluppo” (2008) coordinato
dal Prof. Alfredo Del Monte.
29
CBM (Friuli-Venezia Giulia), ad esempio, è stato rilevato l’apporto fondamentale delle grandi imprese: le
piccole imprese, infatti, non sarebbero state in grado di gestire da sole i progetti di ricerca industriale perché
troppo complessi e troppo onerosi dal punto di vista economico. Il raccordo tra piccole imprese, spesso
tecnologicamente dinamiche e con valide idee innovative, e grandi imprese, dotate di risorse adeguate, è
stato quindi un risultato molto rilevante dei distretti tecnologici.
La ricerca ha confermato che la capacità di fare rete rappresenta la ragione d’essere e il principale punto di
forza dei distretti tecnologici. Tale concetto va inteso sia in termini di relazioni formali e sia in termini di
relazioni informali. Ogni soggetto che partecipa ad un distretto è caratterizzato dalle proprie competenze
distintive da cui dovrebbe discendere il proprio ruolo all’interno della rete. L’individuazione di ruoli ben
determinati rappresenta il presupposto necessario per la nascita di un sistema efficace di trasferimento
tecnologico in cui tutti gli attori della rete sono sia divulgatori e sia ricettori di conoscenza. Il distretto viene
visto come uno strumento per eliminare, o almeno diminuire, il gap potenziale tra piccola e grande impresa e
tra mondo imprenditoriale e mondo della ricerca. Nel SIIT, ad esempio, tale obiettivo è stato realizzato
creando un consorzio di piccole imprese, quindi una rete di imprese, che come soggetto individuale
partecipa alla rete più ampia del distretto. Il distretto si configura come una meta rete: alla base vi è la rete
generale del distretto; al suo interno operano altre reti che possono essere dei poli innovativi, dei parchi
scientifici o dei consorzi di imprese private. Il distretto tecnologico può quindi essere un formidabile
strumento per ovviare alla ridotta dimensione delle imprese italiane, spesso indicata come vincolo alla
crescita ed alla competitività sui mercati internazionali.
Un altro aspetto di cruciale importanza è la modalità di gestione delle relazioni all’interno del distretto
tecnologico, o in altre parole, la sua governance. Il buon funzionamento della governance è ritenuto un
fattore essenziale per l’intera attività del distretto e dovrebbe stimolare il coinvolgimento ed il senso di
appartenenza di tutti gli attori, evitando fenomeni di disaffezione e di progressiva inattività. La governance è
vista come un elemento qualificante dei distretti: se questi funzionano e perché la governance funziona e
permette ai vari attori di svolgere un ruolo attivo e ben preciso all’interno della rete.
I distretti tecnologici considerati, come già detto, non sono nati in maniera spontanea ma sono stati diretta
espressione della volontà del Ministero e delle regioni. Per tale motivo spesso mancano di una propria
identità. Alcuni distretti si stanno adoperando molto per guadagnare maggiore visibilità all’esterno e per far
capire che essi rappresentano uno strumento utile a tutti gli attori coinvolti. Tuttavia alcuni soggetti pubblici
vivono il distretto ancora in termini competitivi. Le università, ad esempio, hanno spesso espresso una certa
conflittualità tra di loro e nei confronti del distretto, considerando quest’ultimo come un’entità che sottraeva
risorse finanziarie e non come qualcosa di complementare per ottenere risorse aggiuntive. L’opinione degli
intervistati è che i vantaggi del distretto vanno ben al di là del semplice ottenimento di finanziamenti,
estendendosi a tutti i vantaggi di sistema e di collegamento con l’esterno. Per ottenere un simile risultato vi è
l’esigenza di una governance che assicuri il coordinamento/raccordo tra gli attori che costituiscono la rete,
che definisca in maniera chiara il ruolo e il contributo specifico di ciascun attore e che adotti modelli
organizzativi tali da promuovere la collaborazione tra pubblico e privato e tra il distretto ed i suoi
interlocutori esterni. Al fine di facilitare l’attività del distretto, gli intervistati hanno espresso la necessità di
un maggiore coordinamento sia all’interno del distretto e sia tra il distretto e gli altri interlocutori, nonché di
una più chiara condivisione di strategie a tutti i livelli.
30
Infine gli intervistati hanno posto l’accento sull’importanza della sostenibilità delle reti create all’interno
dei distretti tecnologici. Al riguardo è stato affermato che la ricerca industriale da sola non è sufficiente, ma
deve necessariamente creare opportunità per la nascita di nuove iniziative economiche. L’attività di ricerca
deve essere accompagnata da tutti quei processi e strumenti che assicurano uno stretto collegamento sia con
l’innovazione, che consente di passare dal risultato della ricerca al valore economico, e sia con la
formazione. Per quest’ultima, ad esempio, sono state create delle vere e proprie facoltà ibride, con docenti
universitari ed esponenti di aziende private, che hanno l’obiettivo di creare una cultura condivisa tra il
mondo accademico e il mondo industriale. Si avverte quindi l’esigenza di una politica nazionale e regionale
che valorizzi i distretti tecnologici come strumento per l’innovazione e la crescita del territorio.
La ricerca ha anche evidenziato alcuni fattori critici sperimentati all’interno dei distretti tecnologici. Di
seguito un elenco dei più rilevanti:
La burocrazia rappresenta un ostacolo a volte insormontabile per gli attori dei distretti. Questo
riguarda sia la burocrazia esterna e sia quella interna al distretto. A ciò si aggiunge il problema della
tempistica. I processi per l’approvazione dei progetti sono spesso troppo lunghi. A volte dalla
presentazione del progetto alla sua approvazione passano diversi anni e questo blocca l’attività del
distretto. Inoltre risulta troppo lunga anche la tempistica relativa alla stipula degli accordi, all’avvio
dell’attività e all’erogazione dei finanziamenti;
Manca una programmazione generale da parte del governo che chiarisca su cosa focalizzare e
specializzare l’attività del distretto. A questo si aggiunge una scarsa coerenza tra politiche regionali e
nazionali. Tali fattori comportano una serie di inconvenienti, tra cui l’incapacità dei distretti
tecnologici di presentarsi sui mercati internazionali con la dovuta competitività. Gli attori
interrvistati sono consapevoli che in futuro i distretti dovranno proiettarsi anche su strumenti
internazionali di finanziamento; tuttavia senza il valido supporto dell’attore pubblico essi ritengono
che difficilmente saranno in grado di competere con le altre realtà straniere;
Gli attori dei distretti devono poter contare su un accesso al mercato più agevole. Questo può essere
assicurato da forme di semplificazione e da una maggiore certezza legislativa per l’ottenimento delle
risorse economiche destinate ai distretti;
Gli attori intervistati ritengono che in alcuni casi i piccoli soci sono riusciti a sviluppare grazie al
supporto, alle risorse e alle competenze delle grandi imprese nuove idee. Essi inoltre ritengono che le
piccole imprese possono contribuire con competenze specifiche in determinate nicchie di mercato e
con processi agili e rapidamente adattabili alle varie situazioni.
Lo sviluppo di un sistema regionale innovativo necessita che gli attori presenti nella regione rafforzino sia i
legami all’interno sia che si integrino a livello globale.
31
CAPITOLO 4
METODI E INDICATORI PER LA VALUTAZIONE DELLA RICERCA COLLABORATIVA
4.1 Criteri di addizionalità e metodi di valutazione
Numerosi sono i motivi che sostengono l’opportunità di un sostegno pubblico all’attività di ricerca svolta
dalle imprese. In teoria il contributo pubblico ad un progetto di ricerca profittevole, può renderlo
conveniente o può velocizzare lo svolgimento dello stesso progetto, incoraggiando quindi l’attività privata in
R&S. Inoltre nel caso in cui il contributo, creando o ammodernando infrastrutture di ricerca, riduce i costi
fissi del progetto in esame, esso può stimolare la spesa in altri progetti non sussidiati. Inoltre il progetto
finanziato può stimolare spillovers di conoscenza e di capitale umano con effetti positivi su altre attività in
R&S. D’altronde non si può escludere l’eventualità che i contributi pubblici sostituiscano la spesa pubblica a
quella privata. Giacché è più economico per una impresa chiedere capitale pubblico piuttosto che ottenere
fondi sul mercato dei capitali, alcuni progetti che sarebbero partiti in ogni caso vengono di fatto finanziati in
modo sostanziale dalla spesa pubblica. D’altronde questi progetti sono probabilmente quelli a più alto tasso
di profittabilità e quindi il finanziarli garantisce all’amministratore pubblico che l’impresa che li ha ricevuti
avrà risultati positivi. Inoltre se l’offerta dei fattori R&S, come il personale per l’R&S, è inelastica
(Goolsbee, 1998) l’inizio dell’attività del progetto può spiazzare altri progetti.
Abbiamo visto nel secondo capitolo che i vantaggi relativi alla collaborazione nella R&S sono stati
analizzati da differenti approcci: l’Industrial Organization approach (I.O.) mette l’accento sulla presenza di
esternalità che determinano fallimenti del mercato; l’approccio manageriale mette l’accento sulla
complementarietà delle attività necessarie per la realizzazione di un progetto di ricerca e sui vantaggi
derivanti dal coordinamento delle stesse; l’approccio delle reti sociali mette l’accento sui vantaggi di tipo
informativo; l’approccio della tripla elica mette l’accento sui vantaggi di tipo sistemico derivanti dalle
relazioni fra università, imprese e istituzioni governative.
Partendo da questi approcci, si sono sviluppati nei vari paesi politiche volte a sviluppare la collaborazioni fra
imprese e fra imprese e istituzioni di ricerca pubbliche e private. D’altro canto l’erogazione di sussidi sia per
rafforzare i legami all’interno sia per attrarre imprese chiave dall’esterno non necessariamente irrobustisce la
capacità tecnologica di una regione e può creare sostanziali problemi di opportunismo e inefficienza. In
astratto sappiamo che una politica a favore della costruzione di reti innovative dovrebbe soddisfare due
criteri: la regola dell’addizionalità e quella dell’efficienza. In base alla prima regola non dovrebbero essere
finanziati progetti che in ogni caso sarebbero stati realizzati con caratteristiche simili. In base alla seconda
non vanno finanziati progetti che utilizzano risorse che sarebbero impegnate in modo più produttivo in altre
attività. I primi due approcci tendono a valutare gli effetti diretti e utilizzano metodologie econometriche e
statistiche, gli altri due approcci analizzano anche effetti indiretti. Il terzo approccio è anch’esso di tipo
quantitativo e utilizza indicatori tratti dalla Social Network Analysis mentre il quarto approccio si basa sulla
distribuzione e analisi di questionari con una metodologia di tipo qualitativo. I vari approcci saranno di
seguito analizzati.
Nel concreto esistono differenze nei territori ove le politiche a favore della cooperazione nella R&S vengono
effettuate per cui i risultati dipenderanno dal tipo di imprese esistenti nell’area oggetto dell’ intervento, dalla
32
struttura economico – sociale della stessa e dalla tipologia di reti innovative esistenti. I criteri di valutazione
di tali politiche appaiono quindi influenzate dalle caratteristiche strutturali dell’area considerata.
La possibilità che il sussidio pubblico spiazzi l’attività privata ha portato a valutare il successo di un
programma di R&S sulla base del concetto di addizionalità. Nella letteratura sono state individuate tre
tipologie di addizionalità: (1) input additionality; (2) output additionality e (3) behaviour additionality.
L’input additionality riguarda il grado di sostituibilità della spesa dei privati con fondi pubblici e, quindi,
indica se i fondi pubblici spiazzando quelli privati portano o meno ad una crescita della spesa per R&S
nell’economia. L’individuazione di quale spesa in R&S sarebbe stata finanziata in assenza di contributo
pubblico è un problema notevolmente complesso. Idealmente si vorrebbe osservare cosa sarebbe accaduto
all’impresa se essa non avesse ricevuto il sussidio pubblico, ma ovviamente ciò non è osservabile e l’unica
cosa nota è l’ammontare di spesa per R&S effettivamente sostenuta dall’impresa.
L’output additionality riguarda, invece, l’incremento nel grado di progresso tecnico e nella creazione di
valore che si è avuta grazie al sostegno dei fondi pubblici. Infine, la behaviour additionality riguarda gli
effetti della politica degli incentivi sul comportamento delle imprese. Buisseret et.al (1995) hanno definito
quest’ultimo concetto come “il mutamento nel modo in cui l’impresa realizza l’attività di R&S che può
essere attribuito all’azione pubblica; ad esempio modifiche nei programmi di collaborazione, nei programmi
di management, nella sostenibilità delle reti di collaborazione, etc.
Per la valutazione dell’impatto dei programmi di supporto pubblico alla R&S a livello d’impresa vengono
solitamente usate varie metodologie di analisi Una prima metodologia per individuare l’addizionalità del
contributo pubblico consiste nel confrontare il comportamento di imprese che hanno ricevuto il contributo
con quelle che non l’hanno ricevuto. Per evitare problemi di distorsione del confronto fra i due gruppi sono
utilizzate particolari metodologie econometriche: (a) modelli di matching, (b) modelli di selezione e (c)
modelli panel.
Un’altra metodologia per stimare l’addizionalità si basa invece sulla raccolta di informazioni direttamente
presso le imprese che hanno svolto attività di R&S, tramite la somministrazione diretta di questionari. Un
primo problema che sorge con questa metodologia è la difficoltà da parte dell’intervistato nello stabilire ex
post l’ammontare di spesa in R&S che sarebbe stata fatta in assenza di incentivi. Un secondo problema è
inerente all’uso che secondo l’intervistato verrà fatto del questionario. In relazione a questa congettura egli
probabilmente darà un valore volutamente sovrastimato o sottostimato. Il questionario dovrà quindi essere
redatto in modo tale che incrociando le domande si possano individuare eventuali tendenze alla sottostima o
alla sovrastima dell’effetto.
Tornando agli aspetti più generali delle stime un ulteriore problema riguarda l’effetto dell’incentivo
pubblico su specifiche aree all’interno di un paese. In quest’ultimo caso oltre al problema dell’addizionalità
sulla R&S è importante analizzare le esternalità associate al progetto. Esse possono riguardare sia lo
sviluppo di capitale umano, sia la diffusione di nuove tecnologie e conoscenze, sia la costruzione di reti tra
le imprese e quindi il rafforzamento del capitale sociale presente sul territorio. Un contributo può non
determinare addizionalità a livello nazionale, ma può farlo a livello regionale. In tal caso, giacché l’obiettivo
33
è lo sviluppo locale, l’addizionalità deve essere considerata a tale livello. Tali effetti non sono colti
facilmente dalle analisi econometriche per la mancanza di dati adeguati.
Il problema è ancora più complesso allorché si deve valutare l’efficacia della spesa pubblica effettuata per la
creazione di un distretto tecnologico. La difficoltà dipende dal fatto che non solo si deve valutare l’effetto
del contributo pubblico sul singolo progetto ma sull’insieme degli attori che partecipano alla rete con una
pluralità di progetti. A questo fine l’analisi delle reti sociali si presta abbastanza bene per analizzare l’effetto
complessivo. L’uso della Social Network Analysis (SNA) per la valutazione delle reti innovative è
abbastanza recente. L’analisi delle reti sociali permette di evidenziare sia i benefici degli effetti indiretti che
di quelli diretti19
. L’intensità degli effetti di rete dipenderà dal modo in cui viene trasmessa l’informazione.
La trasmissione delle informazioni avviene sia tramite legami diretti (rapporti di collaborazione fra imprese)
che indiretti, cioè fra parti che non hanno legami diretti; allorché A ha un legame (rapporto di
collaborazione) con B e C ha un legame con B (rapporto di collaborazione) il legame fra A e C è indiretto.
Senza intervento esterno saranno creati spontaneamente solo link individualmente profittevoli. Allo stesso
tempo, ogni nuovo link crea un beneficio indiretto a favore di altre imprese già connesse alle prime. La
somma dei benefici diretti ed indiretti è in questo caso una misura del livello di efficienza della rete. Di
conseguenza, possiamo affermare che non solo sarà efficiente dar vita ad ogni rete caratterizzata da benefici
netti aggregati positivi, ma anche che è più efficiente quella tipologia di rete che rispetto ad altre garantisce
il livello più alto di benefici netti aggregati. La valutazione degli effetti diretti ed indiretti dovrebbe essere
fra i criteri da tenere in considerazione per finanziare o meno reti innovative. Interessante notare la
differenza di questo approccio con quello visto generalmente utilizzato che si concentra sui benefici dei
singoli progetti. Nei modelli basati sulla SNA l’ammontare di beneficio che ottiene un’impresa appartenente
ad una rete è influenzata dai legami indiretti che ha la stessa impresa.
Uno degli aspetti interessanti dell’analisi delle reti è che è possibile pesare i link diretti ed indiretti per
valutare i benefici delle interrelazioni. Il valore di un singolo legame sarà diverso a seconda del tipo di
contributo apportato in termini di conoscenza e esperienza. Il problema è che le informazioni necessarie per
pesare i vari link, a parte il valore dei finanziamenti per i legami diretti, possono essere ottenuti grazie ai
questionari con cui i vari attori valutano il contributo degli altri partecipanti ed alle informazioni contenute
nel rapporto finale che ogni attore deve presentare.
Un altro punto di cui occorre tener conto nella valutazione dei distretti tecnologici è la tipologia dell’organo
che gestisce il distretto tecnologico. In questo caso gli elementi da prendere in considerazione sono
numerosi. Il primo riguarda la struttura di governance di un distretto. I distretti tecnologici presentano
differenti strutture di governance: in alcuni casi, come si è detto, vengono direttamente finanziate le imprese
e non vi sono specifici organismi di governance del distretto; in altri casi esistono particolari organismi che
sono i soggetti promotori del distretto. Tali organismi e non solo i centri pubblici di R&S, e le imprese
fruiscono di risorse pubbliche. Quindi nell’ottica della valutazione occorre distinguere fra la valutazione del
distretto tecnologico nel suo complesso e della specifica struttura di governance.
19
La valutazione degli effetti indiretti ha, a livello micro, un’antica tradizione nell’analisi costi benefici ed a livello macro
attraverso le matrici input-output. Quello della SNA è un approccio diverso in quanto mette l’accento sull’effetto dei legami fra
attori per l’efficacia nella trasferimento della informazione.
34
Ad esempio, vi potrebbe essere uno specifico apporto dell’organismo di governance grazie al quale le
imprese investono di più in R&S di quanto avrebbero fatto in assenza della struttura di governance, ma in
presenza di un ammontare analogo di sussidi pubblici. Se una tale differenza esiste, essa va imputata
all’azione della struttura di governance. Discorso analogo vale per le altre attività svolte dall’organismo di
governance del distretto tecnologico quali l’attività di formazione di capitale umano (attività di formazione,
borse di studio etc.). Inoltre occorre anche considerare le attività di interrelazione fra i soggetti del distretto
create dalla struttura di governance ed eventualmente altre attività non direttamente finanziate con risorse
pubbliche.
Alla luce di quanto detto è possibile indicare alcune misure per la valutazione delle politiche per la creazione
di distretti tecnologici. Indicatori degli effetti diretti: Addizionalità di inputs del progetto (Spesa in R&S,
numero di addetti alla ricerca, etc..). Addizionalità di outputs del progetto (Indicatori di performances delle
imprese, numero di brevetti, numero di pubblicazioni, etc..). Addizionalità di comportamento delle imprese
aderenti al progetto (propensione a collaborare, modifiche nelle pratiche di gestione, etc..). Indicatori degli
effetti complessivi (diretti e indiretti). Addizionalità di rete delle imprese aderenti al distretto (utilizzo
indicatori della Social Network Analysis come ad esempio indicatori di densità, connettività, dipendenza,
etc..). Nascita di nuove imprese. Rapporto costi/benefici (Valutazione dei benefici dei legami /costi sostenuti
dalle pubbliche autorità, etc..).
Le misure indicate sono solo alcune che possono essere utilizzate per la valutazione. La costruzione di tali
indicatori può basarsi sia su giudizi di tipo qualitativo in assenza di adeguati dati sia di metodologie
quantitative del tipo di quelle indicate in precedenza qualora si abbia un numero sufficiente di informazioni.
Allorché il numero dei distretti esaminati è modesto sarà possibile usare solo metodi qualitativi ai fini della
valutazione. Può quindi essere utile costruire uno schema che permetta di dare giudizi qualitativi sulle
politiche effettuate.
4.2 Descrizione di uno schema per la valutazione qualitativa delle politiche per la creazione di reti
innovative
In questo paragrafo proponiamo uno schema utile per la scelta e la valutazione delle politiche collaborative
tenuto conto del contesto in cui operano. Vi sono vari elementi per caratterizzare le possibili politiche di
intervento ma riteniamo opportuno porre l’accento sulla tipo di connessioni prevalenti nei distretti di regioni
non particolarmente innovative. Vi è una vasta letteratura relativa alla costruzione di tipologie di distretti
(Markusen 1996; Powell e Grodal, 2005; Benneworth e Dasse, 2011) ma l’accento in questi lavori è messo
maggiormente sulle caratteristiche di distretti tecnologici ad alta produzione di conoscenza; meno analizzati
sono i distretti che sorgono come effetto di politiche di intervento in aree a non elevata produzione di
conoscenza. Il nostro contributo intende individuare una tipologia di distretti tecnologici presenti in aree a
non elevata capacità di produrre conoscenza (Figura 4.1).
Partiamo anzitutto dalle caratteristiche del contesto ove operano i distretti in quanto esse influiscono sui
rapporti di collaborazioni. Nel capitolo secondo sono stati indicati i principali fattori collaborazioni: la
fiducia, la capacità di assorbimento degli attori che dipende positivamente dal livello di spese effettuate, il
35
capitale umano, il tipo di settore considerato, le dimensione delle imprese, la esperienza di attività
collaborative nella regione. Alla luce di tali distinzioni abbiamo individuato una tipologia di distretti che
possiamo trovare in aree a non elevata capacità innovativa.
Distretti hub and spoke (Distretti stellari)
1 Distretto di piccole imprese a bassa capacità innovativa - hub and spoke con università in ruolo core
nella produzione e trasmissione di conoscenza
2 Distretto di piccole imprese a bassa capacità innovativa - hub and spoke e stabilimenti di grande
impresa in ruolo core nella produzione e trasmissione di conoscenza
Distretti paritari
1 Distretto marshalliano di piccole e medie imprese con media capacità innovativa – non vi è un attore
core nella produzione e nel trasferimento di conoscenza
2 Distretto di grandi imprese presenti con branch plant e piccole imprese satelliti – non vi è un attore core
nella produzione e nel trasferimento di conoscenza
Nei distretti hub and spoke il ruolo delle università e della grande impresa è cruciale sia nella produzione e
trasferimento di conoscenza sia nello stabilire legami con le grandi reti innovative. Ovviamente il tipo di
legami con le reti globali permessi dalle università e grandi imprese può essere molto diverso con contributi
più o meno rilevanti per l’incremento della capacità innovativa delle aree oggetto delle politiche. Le
caratteristiche del contesto poi influiscono sulla capacità di assorbimento delle nuove tecnologie e quindi sui
benefici che le aree ricavano da tali legami.
Nel caso dei distretti paritari la produzione locale di conoscenza è certamente maggiore così come la
capacità di assorbimento delle nuove tecnologie. Essa è innanzitutto incorporata nelle imprese e l’università,
spesso non assume un ruolo molto importante, anche se esso può avere effetti positivi. Come abbiamo visto
nel Capitolo 2, l’università svolge un ruolo rilevante nei distretti caratterizzati da settori ad elevata
tecnologia. Essa ha una minore influenza negli altri.
Rispetto ai distretti tecnologici ad alta produzione di conoscenza da noi indicati, non vi è quel forte
collegamento fra grandi imprese, centri di ricerca, istituzioni con le piccole imprese in funzione di
subfornitori (il cosiddetto modello a tripla elica). Nelle aree a non elevata produzione di conoscenza il
problema è rafforzare i collegamenti sia fra i vari tipi di attori sia quelli con il mercato globale.
Abbiamo anche visto nel capitolo secondo che una serie di caratteristiche degli attori: livello dimensionale,
grado di reputazione, grado di procedurizzazione, tipo di cultura organizzativa, intensità della ricerca,
possono influire sulla probabilità e sulla performance della collaborazione. D’altronde i vari attori del
distretto in particolare gli stabilimenti della grande impresa e università possono avere caratteristiche
differenti che influiscono sui rapporti di collaborazione.
36
Ad esempio le multinazionali, che possono essere viste come facilitatori della produzione e diffusione di
conoscenza, possono assumere caratteristiche differenti.
Bartlet e Ghoshal (1989) distinguono fra 4 tipi di imprese multinazionali che possono agire in modo molto
diverso come facilitatori di legami:
Imprese multinazionali che hanno attività simili in differenti paesi (vendono prodotti altamente
differenziati sui mercati nazionali);
Imprese globali organizzate secondo una divisione del lavoro molto spinta (vendono gli stessi
prodotti su più mercati);
Imprese internazionali che hanno una specializzazione locale (legata ma non determinata dalla
specializzazione del mercato locale);
Imprese globali con centri di expertise diffusi e limitati collegamenti locali ma con una divisione
interna del lavoro rivolta alla realizzazione di programmi significativi per la società.
Dove vi è un’unica grande multinazionale e molte piccole e medie imprese (PMI) non innovative in settori
confinanti, non appare opportuno finanziare direttamente la multinazionale; è invece opportuno stimolare le
PMI a lavorare con la multinazionale. Inoltre, nel caso di regioni molto dipendenti da una singola impresa, è
chiaro che occorre favorire la localizzazione di nuovi attori in grado di diversificare e sviluppare nuovi
legami con l’esterno. In regioni che hanno imprese già con legami internazionali ma che non cooperano fra
di loro può essere opportuna, invece, una politica per sviluppare dei clusters. In regioni ove vi sono clusters
che non collaborano fra loro, una politica volta a favorire l’interrelazione fra i clusters può permettere lo
sviluppo di aree specializzate in tecnologie multidisciplinari. In tutti questi casi possono essere presenti
ragioni opportunistiche a creare legami per cui la scelta del progetto finanziato deve tener conto del contesto
in cui opera.
Per quanto riguarda le università Boucher et al. (2003) distinguono quattro tipologie di connessioni che le
università possono sviluppare.
Università che operano come singolo attore nelle regioni periferiche: esse aiutano a costruire reti
locali che possono assorbire tecnologie portate nella regione dall’esterno. Nelle regioni ove la
produzione di conoscenza da parte di attori locali è molto modesta le università possono incoraggiare
le imprese locali sia attraverso spin-off, sia attraverso start-up di imprese che sfruttano la conoscenza
dell’università, sia attraverso programmi di consulenza;
Reti di università nelle regioni periferiche: mobilizzano le istituzioni e agiscono come soggetti che
possono favorire l’investimento di attori esterni nella regione;
Università tradizionali che operano nelle regioni chiave: esse trasferiscono la conoscenza alle
imprese locali attraverso la consulenza e lo sviluppo di programmi di formazione. Possono aiutare
inoltre ad individuare nuovi sentieri di ricerca per le imprese locali;
Università moderne orientate alla tecnologia nelle regioni chiave: esse contribuiscono allo
sviluppo di una cultura regionale aperta al mondo internazionale per facilitare la partecipazione in
reti più grandi.
37
Ovviamente le differenze del contesto e le differenze nelle caratteristiche degli attori possono influire sui
risultati delle politiche per la cooperazione nella R&S e sugli indicatori di performances delle stesse e di ciò
bisogna tener conto oltre che nella scelta delle politiche anche nella valutazione ex post delle stesse.
Possiamo distinguere le politiche per favorire reti innovative partendo appunto dal tipo di connessioni che
esse intendono realizzare:
Politiche volte a rafforzare i legami fra attori locali (università e imprese);
Politiche volte a rafforzare i legami fra le reti locali e le reti globali grazie alla localizzazione nella
regione di imprese multinazionali;
Politiche volte a rafforzare i legami fra le reti locali e le reti globali promuovendo la competitività
delle imprese locali;
Politiche volte a favorire la localizzazione di imprese nazionali e internazionali e a creare anzitutto
legami fra di esse.
In regioni che non hanno sviluppato una solida rete fra attori locali e che a maggior ragione non sono
inserite in reti globali è indubbiamente prioritario creare tali legami incentivando attori produttori di
conoscenza come grandi imprese e università sia a favorire i legami fra le imprese locali sia a rafforzare il
loro accesso alle rete globali. I legami fra piccole imprese con grandi imprese innovative teoricamente
permettono alle imprese locali di godere dei benefici della rete globale della grande impresa leader,
Christopherson e Clark (2007). Infatti alcuni autori (Benneworth e Dasson, 2011) avanzano l’ipotesi che
migliorando i legami fra il sistema regionale di innovazione ed il sistema globale si può aumentare la
performance innovativa della regione. In particolare il policy maker deve assicurarsi che l’intervento fatto
localmente migliori le connessioni fra gli attori che agiscono a livello globale e l’area di intervento.
Quindi specialmente nelle aree a bassa produzione di conoscenza è opportuno che tali politiche coinvolgano
facilitatori di legami come università e multinazionali. Purtroppo le politiche seguite devono essere
particolarmente calibrate giacché il comportamento di tali facilitatori può divergere a seconda delle
circostanze per cui l’intervento di tali attori non necessariamente migliora la capacità innovativa di una
regione. Differenti tipi di produttori di conoscenza possono offrire differenti tipi di legami con il mondo
globale, in parte in relazione alla tipologia di produttori locali di conoscenza ed in parte al tipo di regione in
cui sono collocati.
La tipologia di distretti da noi indicato può essere vista come un tentativo di fornire uno strumento per
valutare una rete sulla base del flusso di informazioni e quindi di conoscenza che vengono trasmesse. E’
probabile che i distretti hub and spoke garantiscano una modesta capacità di produrre e trasmettere le
informazioni. Questo flusso sarà più elevato nei distretti marshalliani e probabilmente ancora maggiore
allorché tutti gli attori, piccole e medie imprese locali, università e centri di ricerca, grandi imprese esterne,
sono collegati fra loro per produrre e trasmettere e le informazioni. Il passaggio da una situazione di legami
nulli o molto limitati fra gli attori locali ed una situazione tipo 1 e 2 può essere valutata positivamente in
quanto determina un incremento i del flusso di informazioni e di conoscenza. Una politica che, oltre a
produrre conoscenza, permetta di passare da una situazione di assenza di legami ad una in cui esiste, anche
38
se modesta, una rete, non può non essere valutata positivamente, specie se le situazioni opportunistiche
vengono limitate. Analogamente il passaggio da tipologie 1 e 2 a una tipologia tipo 3 può determinare un
incremento di conoscenza e quindi essere valutata positivamente. Lo stesso vale per il passaggio dalle
tipologie più basse alla tipologia 4.
Pur tenendo conto che potenzialità di trasferimento di conoscenza non sempre vengono sfruttate pienamente
in quanto dipendono dalle caratteristiche degli attori e dal contesto in cui si muovono la crescita di legami
dovuto alla presenza di nuovi attori sia per numero che per tipologia è indubbiamente un elemento positivo.
Quindi un’analisi del flusso di informazioni e di legami creati è indubbiamente molto utile per un giudizio
sulle politiche per la creazione di reti innovative. Lo schema proposto sarà quindi utilizzato nel Capitolo 6
allorché si presentano i vari casi studio.
39
Figura 4.1 –Distretti tecnologici in aree a non elevato grado di innovazione
Distretto Hub and Spoke (Nodi asimmetrici piccole imprese non innovative e Università)
Distretto Hub and Spoke
(Nodi asimmetrici, piccole imprese non innovative e stabilimento di grande impresa)
Distretto marshalliano di piccole imprese innovative (nodi simmetrici)
Distretti di stabilimenti di grandi imprese con piccole imprese subfornitrici e università
Centri internazionali produttori di conoscenza
Centri internazionali produttori di conoscenza
Progetto A Progetto B
Progetto C
Legenda
Stabilimento di
grande impresa
non locale
Università
Piccola impresa
locale
Progetto C
c
Centri di produzione di conoscenza dell’economia globale
Progetto A
Progetto A
Progetto A
Progetto B
Progetto B
Progetto B
40
CAPITOLO 5
ANALISI DEI DATI
5.1 Un confronto internazionale su ricerca e innovazione usando la Community Innovation Survey
L’Italia è notoriamente caratterizzata da bassi livelli di spesa per ricerca e sviluppo in rapporto a Pil: 1,3%,
rispetto al 2,1% dell’Unione Economica e Monetaria (Uem) e al 2,9% della Germania (Tabella 5.1).
Tabella 5.1 - Personale e spesa per ricerca e sviluppo per settore istituzionale
Paese Imprese Istituzioni pubbliche
Università e istituzioni
private no profit Tutti i settori
Spesa in rapporto al Pil - Anno 2013
Germania 1,99 0,43 0,51 2,94
Francia 1,44 0,29 0,49 2,23
Area Euro (18) 1,35 0,28 0,48 2,12
Regno Unito 1,05 0,12 0,46 1,63
Italia 0,67 0,19 0,39 1,25
Spagna 0,66 0,23 0,35 1,24
Personale percentuale del totale occupati - Anno 2012
Germania 1,03 0,28 0,79 2,1
Francia 1,3 0,20 0,69 2,19
Area Euro (18) 0,95 0,24 0,79 1,98
Regno Unito 0,69 0,06 1,22 1,97
Italia 0,71 0,21 0,67 1,59
Spagna 0,73 0,32 0,89 1,94
Spesa* per addetto - Anno 2011
Germania 112.804 88.945 39.030 81.998
Francia 75.004 97.994 46.568 67.998
Area Euro (18) 81.679 70.717 36.611 62.452
Regno Unito 99.019 143.569 24.421 54.292
Italia 62.113 49.529 36.983 49.642
Spagna 56.417 47.041 24.042 39.703 Nota: * Euro a parità di potere di acquisto a prezzi costanti 2005
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat.
Se si disaggrega la spesa in ricerca e sviluppo in base al settore istituzionale risulta che in Italia, rispetto alla
media dei paesi dell’Unione Economica e Monetaria, particolarmente basso è il dato delle imprese: 0,67%
contro 1,35%. Le istituzioni pubbliche e le università sono meno distanti: rispettivamente 0,19% e 0,39% in
confronto a 0,28% e 0,48% dell’Uem (Tabella 5.1). Gli stessi dati osservati utilizzando il numero di addetti
in funzioni di ricerca e sviluppo in percentuale del totale occupati mostrano divari meno ampi (Tabella 5.1).
In Italia l’1,6% degli addetti è impegnato in attività di ricerca e sviluppo, contro il 2% dell’Uem ed il 2,1%
della Germania, con un trend di crescita positivo e superiore alla media dell’eurozona. Avere un basso
livello di spesa per R&S e una quota di addetti più vicina al dato degli altri principali paesi europei significa
che ogni addetto ha a disposizione meno risorse. In media in Italia ogni addetto alla ricerca e sviluppo ha a
disposizione circa 50 mila euro, che salgono a oltre 62 mila nell’Uem. Particolarmente inferiori sono i dati
nelle imprese e nelle istituzioni pubbliche dove il divario è di circa 20 mila euro, circa un terzo in più delle
risorse dedicate pro capite in Italia.
Nonostante il basso livello di ricerca e sviluppo registrato, l’Italia in termini di competitività risulta ai primi
posti della classifica mondiale di competitività in molti settori (Tabella 5.2). È prima nel tessile,
abbigliamento e cuoio, seconda, dietro la Germania, nella meccanica. Cosa ancora più sorprendente,
41
nonostante i chiari limiti di competitività di costo rispetto alle economie emergenti, è che non vi sono perdite
di posizioni tra il 2006 ed il 2013, anzi guadagna un secondo posto nel settore dei mezzi di trasporto,
sostituendo la Francia. Com’è possibile quindi che un Paese come l’Italia con bassi livelli di innovazione,
che non possa (a causa dei costi) o non voglia giocare l’arma dei prezzi, riesca ad essere e rimanere
competitiva?
Tabella 5.2 - Trade Performance Index*
Posizione al 2006 Posizione al 2013
Settore 1 2 3 1 2 3
Mezzi di trasporto Germania Francia Corea del Sud Germania Italia Corea del Sud
Meccanica non elettronica Germania Italia Svezia Germania Italia Svezia
Chimica Germania Olanda Francia Germania Olanda Belgio
Prodotti manufatti di base Germania Italia Svezia Germania Italia Taiwan
Prodotti diversi Germania Italia Svizzera Germania Italia Olanda
Meccanica elettrica ed elettrod. Germania Italia Francia Germania Italia Olanda
IT e elettronica di consumo Svezia Cina Singapore Malesia Olanda Singapore
Prodotti alimentari lavorati Olanda Germania Francia Germania Olanda Francia
Prodotti in legno Germania Germania Finlandia Svezia Germania Finlandia Svezia
Tessile Italia Germania Taiwan Italia Germania Cina
Abbigliamento Italia Cina Romania Italia Cina Turchia
Cuoio, pelletteria e calzature Italia Cina Vietnam Italia Cina Vietnam Nota: * L’indice è costituito da 22 indicatori quantitativi della performance commerciale, che per ciascun paese forniscono la dimensione delle esportazioni, la loro dinamica, il loro rapporto con i flussi di importazione, il grado di diversificazione dei prodotti e dei mercati, la competitività e la specializzazione sia settoriale
sia geografica. Per una descrizione completa del TPI si veda International Trade Centre (2007), Trade competitiveness map, Technical Notes.
Fonte: elaborazioni su dati UNCTAD e WTO.
Va detto che l’utilizzo di indicatori quali la spesa in R&S o il numero di brevetti comporta nelle statistiche
ufficiali una sottostima dello sforzo innovativo, soprattutto dove dominante è la presenza di imprese di
dimensione piccola e media, che tipicamente innovano senza registrare ufficialmente spese in R&S. In Italia
l’attività innovativa è abbastanza diffusa tra le imprese, ma si caratterizza per un avanzamento innovativo
meno marcato. Infatti, in termini di richieste di registrazione di marchi e design, l’Italia si colloca
rispettivamente al quarto e secondo posto in Europa. Anche in termini di numero di imprese che fanno
qualche tipo di attività di innovazione l’Italia mostra una quota del 56,1%, sopra la media Uem del 54,3%
(Figura 5.1).
A livello italiano sono le regioni del Nord che mostrano percentuali di imprese “innovative” più elevate
(Figura 5.2). In particolare a fronte di una media italiana del 52% di imprese che pratica attività di
innovazione il Veneto ed il Friuli Venezia Giulia mostrano quote superiori al 58%, seguite da Toscana
(55,9%), Lombardia (54,2%), Emilia Romagna (53,8%) e Piemonte (53,1%). In base a tale indicatore
risultano più arretrate le regioni del Mezzogiorno, prima delle quali si posiziona la Puglia (46,9%) seguita
dalla Campania (45,2%). In questa macro area ultima si colloca la Calabria (40,6%).
42
Figura 5.1 - Quota di imprese per tipologia di innovazione (% sul totale imprese). Anno 2012
Nota: l'indagine sull'innovazione nelle imprese con più di 10 addetti (Community Innovation Survey), basata sulle definizioni adottate in sede internazionale,
garantisce la confrontabilità a livello europeo. L’impresa innovatrice è quella che nel periodo 2010-2012 ha introdotto sul mercato innovazioni di prodotto (o
servizio) o ha adottato al proprio interno innovazioni di processo. Il dato relativo all'Italia differisce da quello diffuso dall’Istat e riportato nella tavola dei dati nazionali in quanto Eurostat esclude il settore delle costruzioni e alcuni settori dei servizi nel considerare le attività innovative centrali (Com.Reg. 995/2012).
Fonte: elaborazioni su dati Cis-Eurostat.
Figura 5.2 - Quota di imprese innovative per regione (% sul totale imprese). Anno 2012
Nota: l'indagine sull'innovazione nelle imprese con più di 10 addetti (Community Innovation Survey), basata sulle definizioni adottate in sede internazionale, garantisce la confrontabilità a livello europeo. L’impresa innovatrice è quella che nel periodo 2010-2012 ha introdotto sul mercato innovazioni di prodotto (o
servizio) o ha adottato al proprio interno innovazioni di processo. Il dato relativo all'Italia diffuso dall’Istat e riportato nella tavola dei dati nazionali differisce da
Eurostat, in quanto quest’ultimo esclude il settore delle costruzioni e alcuni settori dei servizi nel considerare le attività innovative centrali (Com.Reg. 995/2012). Fonte: elaborazioni su dati Cis-Istat.
Prendendo in considerazione la dimensione d’impresa (Figura 5.3) è il gruppo delle grandi imprese che
mostra percentuali di aziende che fanno attività di ricerca o innovazione oltre l’80% per l’Italia. Le imprese
di media dimensione (50-249 dipendenti) seguono con un tasso del 71,4% veramente vicine alla prima della
classifica considerata, ossia la Germania (74,3%). Oltre la metà delle piccole imprese dichiara di effettuare
attività di innovazione, percentuale al di sotto della Germania (63,3%) ma sopra le altre nazioni considerate,
compresa l’Unione monetaria.
43
Figura 5.3 - Quota di imprese con innovazione per dimensione (% sul totale imprese della stessa classe).
Anno 2012
Nota: l'indagine sull'innovazione nelle imprese con più di 10 addetti (Community Innovation Survey), basata sulle definizioni adottate in sede internazionale, garantisce la confrontabilità a livello europeo. L’impresa innovatrice è quella che nel periodo 2010-2012 ha introdotto sul mercato innovazioni di prodotto (o
servizio) o ha adottato al proprio interno innovazioni di processo. Il dato relativo all'Italia differisce da quello diffuso dall’Istat e riportato nella tavola dei dati
nazionali in quanto Eurostat esclude il settore delle costruzioni e alcuni settori dei servizi nel considerare le attività innovative centrali (Com.Reg. 995/2012).
Fonte: elaborazioni su dati Cis-Eurostat.
Considerando la capacità collaborativa delle imprese nell’attività di innovazione l’Italia si pone dietro agli
altri paesi con il 12,7% di imprese che collabora contro una media europea di oltre il 30% (con un picco del
66% per il Regno Unito, Tabella 5.3). Il modello di collaborazione italiano sembra incentrato nel
privilegiare i clienti pubblici (ma è da tener conto che solo una minoranza delle imprese ha come clienti un
ente pubblico), i fornitori, i consulenti e le università. Bassa la collaborazione intragruppo rispetto agli altri
paesi europei, ma questo è legato alla piccola dimensione delle imprese italiane. Infatti tale forma di
collaborazione sale al secondo posto per le grandi imprese del nostro paese. In generale la collaborazione
con le università e la ricerca è un veicolo di trasferimento di conoscenza importante per le imprese di grandi
dimensioni.
Disaggregando per dimensione sono le imprese più grandi che mostrano una capacità collaborativa
maggiore. In Italia le imprese innovative che cooperano sono il 39,6%, nel caso di quelle con più di 250
dipendenti, il 15,8% nel caso di quelle fra 50 e 249 dipendenti ed il 10,9% nel caso di quelle fra 10 e 49
dipendenti.
44
Tabella 5.3 - Quota di imprese innovative che hanno cooperato per tipologia di controparte (% sul totale
imprese innovative della stessa classe). Anno 2012
Dimensione\Tipo di collaborazione
Paese
Italia Germania Spagna Francia Regno Unito UE15
10-49 dipendenti
Imprese impegnate in qualche tipo di collaborazione 10,9 18,2 23,4 29,1 65,5 26,8
Con altre imprese appartenenti allo stesso gruppo 1,7 3,8 3,8 8,5 29,4 8,8
Con competitors o altre imprese dello stesso settore 3,3 3,9 4,9 6,4 19,9 7,8
Con fornitori 3,8 6,2 7,3 9,9 45,0 13,4
Con clienti privati 1,8 3,3 2,0 3,0 20,4 0,0
Clienti pubblici 5,6 6,7 10,0 17,3 36,9 14,9
Con consulenti 4,4 10,3 7,2 8,0 19,4 10,2
Con enti pubblici e privati di ricerca 2,5 7,0 8,2 6,1 11,3 0,0
Con Università 4,4 4,3 5,6 9,5 22,3 9,0
50-249 dipendenti
Imprese impegnate in qualche tipo di collaborazione 15,8 31,0 38,2 42,8 70,0 37,4
Con altre imprese appartenenti allo stesso gruppo 5,5 11,0 14,2 23,5 36,4 17,4
Con competitors o altre imprese dello stesso settore 4,8 4,8 8,4 7,2 16,3 8,6
Con fornitori 4,5 10,6 11,9 13,3 44,0 16,7
Con clienti privati 1,8 3,7 4,0 4,3 18,0 0,0
Clienti pubblici 9,2 13,0 16,4 23,9 43,1 21,2
Con consulenti 6,9 18,4 13,3 15,1 19,6 16,5
Con enti pubblici e privati di ricerca 3,2 13,4 15,6 10,3 10,3 11,5
Con Università 7,6 7,9 10,1 14,4 23,1 13,0
250 e più dipendenti
Imprese impegnate in qualche tipo di collaborazione 39,6 54,2 54,5 60,2 71,4 57,0
Con altre imprese appartenenti allo stesso gruppo 23,0 31,9 33,0 44,7 45,1 37,5
Con competitors o altre imprese dello stesso settore 12,8 12,7 17,2 15,6 19,8 17,4
Con fornitori 13,4 27,5 18,6 24,1 45,9 29,2
Con clienti privati 6,0 9,9 8,5 11,2 20,2 0,0
Clienti pubblici 22,9 30,6 31,7 41,2 48,7 37,3
Con consulenti 26,0 40,1 28,5 31,9 22,8 35,5
Con enti pubblici e privati di ricerca 12,6 28,2 28,0 23,0 15,8 25,3
Con Università 20,6 20,3 22,7 30,4 32,5 27,1
Totale
Imprese impegnate in qualche tipo di collaborazione 12,7 23,7 29,3 34,8 66,7 30,9
Con altre imprese appartenenti allo stesso gruppo 3,0 7,4 8,5 15,0 31,6 12,4
Con competitors o altre imprese dello stesso settore 3,9 4,7 6,7 7,4 19,2 8,5
Con fornitori 4,3 8,7 9,2 11,9 44,8 15,0
Con clienti privati 1,9 3,9 3,0 4,0 19,9 0,0
Clienti pubblici 6,8 9,8 13,2 20,8 38,7 17,6
Con consulenti 5,6 14,3 10,3 11,6 19,6 13,1
Con enti pubblici e privati di ricerca 2,9 9,9 11,5 8,5 11,3 9,0
Con Università 5,5 6,3 7,9 12,4 22,9 10,9 Nota: l'indagine sull'innovazione nelle imprese con più di 10 addetti (Community Innovation Survey), basata sulle definizioni adottate in sede internazionale, garantisce la confrontabilità a livello europeo. L’impresa innovatrice è quella che nel periodo 2010-2012 ha introdotto sul mercato innovazioni di prodotto (o
servizio) o ha adottato al proprio interno innovazioni di processo. Il dato relativo all'Italia differisce da quello diffuso dall’Istat e riportato nella tavola dei dati
nazionali in quanto Eurostat esclude il settore delle costruzioni e alcuni settori dei servizi nel considerare le attività innovative centrali (Com.Reg. 995/2012). Fonte: elaborazioni su dati Cis-Eurostat.
Tra le regioni italiane20
, sono quelle del nord ovest, guidate dal Piemonte (22,3%), che contano il maggior
numero di imprese innovative che dichiarano di collaborare (Figura 5.4). Dopo il Piemonte si posizionano
20 Tra gli indicatori territoriali per le politiche di sviluppo è stata inserita con dettaglio regionale la percentuale di imprese che
hanno svolto attività di R&S in collaborazione con soggetti esterni (l’indicatore fa parte del set di indicatori dell’Accordo di
Partenariato 2014-2020). I metadati connessi a tale dato non riferiscono l’indagine da cui è tratto e non sembra possa essere la
Community Innovation Survey. Secondo questa indagine risulta che in Italia tra le imprese che hanno fatto R&S circa il 20% ha
collaborato, percentuale che scende a circa il 5% per le imprese che dichiarano di non aver svolto R&S. Questi valori sono
45
Lazio (17,7%), Friuli Venezia Giulia (16,8%) e Trentino Alto Adige (13,7%). Tra le regioni meridionali
spicca la Calabria (13,6%) che si colloca sopra il valore medio italiano (12,5%). Appena sotto si trovano
Campania (12,2%) e Puglia (12%). Molto distanti (sotto il 10%) troviamo Valle d’Aosta (9,6%), Abruzzo
(8,7%), Basilica (7,7%), Sardegna (7,1%) e all’ultimo posto la Sicilia (4,9%).
Figura 5.4 - Imprese con accordi di cooperazione per l’innovazione (% sulle imprese con attività innovative
di prodotto o processo). Anno 2012
Nota: l'indagine sull'innovazione nelle imprese con più di 10 addetti (Community Innovation Survey), basata sulle definizioni adottate in sede internazionale,
garantisce la confrontabilità a livello europeo. L’impresa innovatrice è quella che nel periodo 2010-2012 ha introdotto sul mercato innovazioni di prodotto (o servizio) o ha adottato al proprio interno innovazioni di processo. Il dato relativo all'Italia differisce da quello diffuso dall’Istat e riportato nella tavola dei dati
nazionali in quanto Eurostat esclude il settore delle costruzioni e alcuni settori dei servizi nel considerare le attività innovative centrali (Com.Reg. 995/2012).
Fonte: elaborazioni su dati Cis-Eurostat.
5.2 La ricerca e innovazione collaborativa dai dati OpenCoesione
Come noto, la politica di coesione è una politica volta a garantire il rafforzamento della coesione economica,
sociale e territoriale con l’obiettivo di ridurre le disparità di sviluppo fra le regioni ed uguagliare le
opportunità socio-economiche dei cittadini. Le politiche di coesione intervengono, quindi, sui territori per
eguagliarne le opportunità di sviluppo rispondendo a esigenze specifiche dei diversi luoghi, in termini di
infrastrutture o di servizi, ma anche di capitale umano e sociale.
OpenCoesione è l’iniziativa di open government (basata sui principi di trasparenza-collaborazione-
partecipazione) per le politiche di coesione in Italia, promossa dal Dipartimento per lo Sviluppo e la
coesione economica (DPS). Il portale OpenCoesione pubblica i dati di monitoraggio sull’attuazione dei
singoli interventi finanziati rilasciati dalle stesse amministrazioni responsabili dei programmi comunitari e
delle politiche nazionali di coesione. Su OpenCoesione sono navigabili e scaricabili, in formato aperto, dati
e informazioni sugli interventi finanziati dalle politiche di coesione in Italia, alimentate dai Fondi Strutturali
coerenti con la media di Tabella 5.3 che restituisce un 12% di imprese innovative che collaborano. Al contrario l’indicatore
territoriale Istat per le politiche di sviluppo non riporta il dato medio nazionale, ma solo quelli regionali, da cui risulta che in
Veneto, peggiore in Italia, il 28% delle imprese hanno svolto attività di R&S in collaborazione con soggetti esterni sul totale delle
imprese che svolgono R&S; in Basilicata, prima in Italia, tale percentuale è addirittura del 78%. Questi numeri sono difficilmente
coniugabili con quanto rilevato dalla indagine CIS (probabilmente perché includono non solo le imprese con innovazioni di
prodotto-processo), per questa ragione si è preferito ometterli dall’analisi.
46
europei, dal Fondo nazionale per lo Sviluppo e la Coesione (FSC) e dal Piano d’Azione per la Coesione
(PAC). In particolare, sono presenti informazioni su: risorse assegnate ed effettivamente spese,
localizzazioni, ambiti tematici e settoriali, soggetti programmatori e attuatori, tempi di realizzazione dei
singoli progetti in attuazione con associata la serie storica bimestrale dei pagamenti cumulati. Vengono
pubblicati anche dati sulle assegnazioni a specifici progetti effettuate con Delibere CIPE a valere sul Fondo
Sviluppo e Coesione.
OpenCoesione identifica e dunque misura i progetti di ricerca e innovazione utilizzando diverse variabili. La
principale è il tema sintetico (si tratta di un’articolazione tematica sintetica dei progetti in 13 ambiti, basata
su un’aggregazione dei temi prioritari UE e delle classificazioni settoriali del Sistema Cup). In base a questa
variabile risulta che al 31.12.2014 erano stati finanziati 31.050 progetti di ricerca per un totale di 12,36
miliardi di euro di finanziamenti (Tabella 5.4).
Tabella 5.4 - Finanziamenti e numero dei progetti in base ai temi Tema sintetico N. Progetti Finan. Pubb.
Ricerca e innovazione 31.050 12.360.230.658
Agenda digitale 20.631 2.865.283.288
Competitività per le imprese 12.953 3.080.488.013
Energia e efficienza energetica 7.275 2.644.803.454
Ambiente e prevenzione dei rischi 7.219 10.173.932.797
Attrazione culturale, naturale e turistica 7.126 4.515.408.250
Trasporti e infrastrutture a rete 1.493 24.015.021.727
Occupazione e mobilità dei lavoratori 252.056 8.273.061.561
Inclusione sociale 308.624 4.645.729.478
Servizi di cura infanzia e anziani 1.877 401.989.553
Istruzione 215.966 8.847.429.038
Rinnovamento urbano e rurale 2.894 3.490.634.289
Rafforzamento capacità della PA 6.948 2.771.047.963
Totale 876.112 88.085.060.071 Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.
Questa definizione rischia però di sovradimensionare il vero numero dei progetti di ricerca e innovazione.
Infatti, la strategia Europa 2020 doveva consentire alla UE di raggiungere una crescita: intelligente,
attraverso lo sviluppo delle conoscenze e dell’innovazione; sostenibile, basata su un’economia più verde, più
efficiente nella gestione delle risorse e più competitiva; inclusiva, volta a promuovere l’occupazione e la
coesione sociale e territoriale. Per questa ragione non è improbabile trovare progetti catalogati come ricerca
e innovazione quando al contrario non lo erano propriamente.
Al fine di individuare i “veri” progetti di ricerca e innovazione sono state considerate quattro variabili:
- Tema sintetico (descritto in precedenza ed esemplificato nella Tabella 5.4);
- Codice Obiettivo Generale e la sua disaggregazione in Specifico: l’attuazione della politica regionale
per il periodo di programmazione 2007-2013 si articola in 10 priorità, definite nel Quadro Strategico
Nazionale (QSN);
- Cup Codice Settore, Categoria e Sottosettore: classificazione gerarchica a tre livelli (settore, sottosettore
e categoria) del progetto definita dall’amministrazione all’atto della richiesta del Cup;
47
- Cup Codice Tipologia: classificazione gerarchica a due livelli (natura e tipologia) del progetto definita
dall’amministrazione all’atto della richiesta del Cup (la natura del progetto si articola in: acquisto di
beni, realizzazione e acquisto di servizi, realizzazione di lavori pubblici, concessione di aiuti a persone,
concessione di incentivi ad imprese, conferimenti di capitale).
Queste variabili non individuano esattamente gli stessi progetti di ricerca e innovazione e, da un loro esame
congiunto, nessuna risulta preferibile in termini di capacità di identificare i “veri” programmi di ricerca e
innovazione. Di conseguenza alcuni progetti possono essere ritenuti di ricerca e innovazione da una soltanto
delle variabili, altri per due o tre, fino al caso di perfetta coerenza di tutte e quattro le variabili. Al fine di
minimizzare l’errore di inclusione si è optato per una scelta conservativa: si sono considerati come “veri”
progetti di ricerca e innovazione solo quelli per cui contemporaneamente tutte e quattro le variabili
considerate (caso di perfetta coerenza) li indicavano come ricerca e innovazione. In questo modo sono stati
selezionati circa 8.900 progetti.
Tra i progetti di ricerca e innovazione l’analisi si è concentrata su quelli in cui era messa in pratica una
collaborazione formale tra i soggetti attuatori. Più rigorosamente per progetti di ricerca e innovazione
cooperativa si è inteso i progetti di ricerca e innovazione di cui sopra che abbiano tra gli attuatori:
- un distretto tecnologico; seppure sia un unico attuatore, per la sua stessa natura è collaborativo, in
quanto consorzio a cui aderiscono diversi attori pubblici e privati;
- un’impresa privata congiuntamente ad un altro attuatore di qualsiasi natura giuridica, o detto in altri
termini i progetti che abbiano almeno due soggetti attuatori tra cui un’impresa privata.
Per come sono compilati i dati in OpenCoesione può capitare che progetti che in apparenza sembrano
realizzati da un singolo attuatore in realtà siano messi in opera da più soggetti, ma con una rendicontazione
del progetto in capo a ciascuno di essi. Per risolvere questo problema è stato elaborato un apposito algoritmo
che ha permesso di individuare e riunire questi progetti, consentendo così di includerli tra i progetti
collaborativi. Questo processo di unione ha portato a ridurre il numero complessivo di progetti di ricerca e
innovazione da circa 8.900 a quasi 6.000 (Tabella 5.5).
In OpenCoesione se si considerano i progetti di ricerca e innovazione collaborativi si possono individuare
circa 2.000 progetti e quasi 2,7 miliardi di finanziamento pubblico (1,2 miliardi quello privato) (Tabella 5.5).
Pur essendo il loro numero circa metà dei progetti di ricerca e innovazione non collaborativi, il loro
finanziamento totale è circa due volte e mezza. Di conseguenza l’importo medio stanziato per ciascun
progetto è di circa 1,9 milioni di € a fronte di 400 mila € dei progetti non collaborativi.
Tabella 5.5 - Numero di progetti di ricerca e innovazione, soggetti attuatori e finanziamenti in base alla
collaborazione Tipo progetto N. Finanz. Privato Finanz. Pubb. N. Soggetti Fin. medio
Non Collaborativi 3.917 641.939.210 951.676.196 3.939 406.846
Collaborativi 2.082 1.227.535.607 2.670.000.316 6.408 1.872.015 Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.
In media i progetti collaborativi sono costituiti da tre soggetti attuatori (va considerato che questo numero è
un’approssimazione per difetto della realtà in quanto per alcuni progetti, come i Distretti tecnologici, si
48
osserva solo il capofila). Osservando la distribuzione del numero di progetti in base al numero di soggetti
attuatori (Figura 5.5) si può vedere che circa il 60% dei progetti ha uno o due attuatori; la percentuale si alza
al 90% considerando fino a 6 attuatori.
Figura 5.5 Numero di progetti (val. ass. e percentuale cumulata) in base al numero di attuatori
Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.
Cercando di analizzare la composizione dei diversi gruppi che hanno partecipato alla ricerca collaborativa
(Tabella 5.6) si ricava che il modello di collaborazione è molto simile a quanto descritto dai dati CIS
(Tabella 5.3): le imprese principalmente collaborano con clienti e fornitori, poi con enti pubblici, università
ed enti di ricerca. Dai dati OpenCoesione emerge che per circa il 37% dei progetti la partnership è formata
da sole imprese21
a cui bisogna aggiungere le Ati (7%), nel 17% da università e imprese, 12% enti locali e
imprese. Queste forme da sole spiegano circa i tre quarti dei progetti. Va considerato, però, che anche
partnership che in apparenza non contengono forme di collaborazione con le imprese nella realtà ne hanno;
in particolare i distretti tecnologici e le altre strutture di ricerca spesso tra i loro soci contano imprese, solo
che non appaiono formalmente nei dati di OpenCoesione.
Tabella 5.6 - Numero (val. ass. e %) di progetti di ricerca e innovazione collaborativi per forma giuridica
dei soggetti partecipanti
Descrizione gruppo
Progetti Fin. Pubb. Fin. Priv.
N. Quota % € Quota % € Quota %
Solo imprese 779 37,4 330.603.563 12,4 159.754.219 13,0 Alta formazione e imprese 353 17,0 355.483.286 13,3 195.540.390 15,9
Enti locali e imprese 243 11,7 37.305.431 1,4 52.979.087 4,3 Ati 155 7,4 111.713.562 4,2 61.598.020 5,0
Ricerca, alta formazione e imprese 110 5,3 362.188.633 13,6 164.376.501 13,4
Solo ricerca 94 4,5 200.363.442 7,5 76.290.793 6,2 Ricerca e imprese 79 3,8 141.396.021 5,3 65.368.520 5,3
Alta formazione enti locali e imprese 61 2,9 188.780.825 7,1 85.117.875 6,9
Distretti tecnologici 58 2,8 268.252.745 10,0 99.075.682 8,1 Ricerca, alta formazione, enti locali e imprese 47 2,3 296.099.069 11,1 116.237.479 9,5
Enti ricerca pubblici e imprese 29 1,4 49.272.837 1,8 20.089.427 1,6
Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.
21 Le imprese private comprendono tutte le forme d’impresa: dai lavoratori autonomi e ditte individuali alle società cooperative. Gli enti locali comprendono i livelli amministrativi non nazionali: comuni, province, regioni, comunità montane, asl, tribunal. Gli enti nazionali comprendono i livelli amministrativi nazionali e
gli enti non di ricerca nazionali come Inps, Inail, Ice. Gli enti di alta formazione comprendono le Università pubbliche e private e gli Istituti tecnici superiori. La
voce distretti comprende i distretti tecnologici, così come classificati dal Miur 2011 e presenti in OpenCoesione. Ricerca privata comprende quelle forme di ricerca pubblica o a cavallo tra pubblico e privato come laboratori e parchi scientifici. Ati comprende le associazioni temporanee d’impresa.
49
Analizzando i progetti di ricerca collaborativi in base alla regione di localizzazione del progetto (Tabella
5.7) si ricava che è la Campania la regione con il numero maggiore di finanziamenti pubblici, seguita dalla
Puglia, Sicilia, Calabria, Piemonte, Toscana. Sono Marche, Emilia Romagna e Abruzzo le regioni in cui la
quota di finanziamento privato è più elevata, rispettivamente 75,6%, 71,2%, 62,4% del finanziamento
pubblico. In termini di ampiezza media dei progetti collaborativi come numero di soggetti partecipanti, più o
meno tutte le regioni hanno un numero medio pari a 4 soggetti. Tra le più significative Trentino Alto Adige
ed Emilia Romagna22
si collocano ad un livello più basso, mentre Lombardia e Lazio si posizionano sopra la
media. È interessante notare che regioni come Friuli Venezia Giulia o Trentino Alto Adige con una più alta
quota di imprese collaborative (fonte CIS) non dedichino molte risorse su questo versante. Altre regioni al
contrario, come Piemonte, Lazio, Liguria, Campania e Puglia hanno medio-alti livelli di collaborazione tra
imprese in ambito di ricerca e innovazione (fonte CIS), forse anche perché dedicano quote superiori alla
media nazionale dei fondi di coesione. Regioni come Lombardia, Toscana, Marche, Emilia Romagna con
una media quota di imprese collaborative (fonte CIS), dedicano i fondi di coesione per la ricerca
collaborativa al di sopra della media. Infine da segnalare il Veneto con bassa incidenza di imprese
collaborative e basso uso dei fondi di collaborazione per questo scopo.
Tabella 5.7 - Numero di progetti, soggetti e finanziamenti ricevuti in progetti collaborativi di ricerca in base
alla regione di localizzazione e confronto con l’incidenza % della spesa per R&S sul totale della spesa della
pubblica amministrazione e la % delle imprese innovative e collaborative sul totale imprese che fanno
innovazione Incidenza %
Area N. Progetti
N. soggetti
attuatori
complessivi nel
progetto Finan. Pub. Finan. Privato
N.
medio
sogg. per
progetto
Finanz.
R&S
collab.
sul Tot
Fin.
Pubb.a
Spesa
R&S sul
Tot.
Spesa
Pubb.b
Imprese
collabor.
sul Tot.
Imprese
con
innovaz. c
Piemonte 487 1.776 340.716.873 218.758.711 3,6 10,6 0,2 22,3
Lazio 47 272 300.542.700 131.903.920 5,8 12,6 1,2 17,7
Friuli V.G. 31 114 17.049.529 7.373.036 3,7 2,2 0,4 16,8
Calabria 104 474 459.124.385 187.144.837 4,6 4,5 0,8 13,6
Trentino A.A. 25 60 11.476.629 5.940.878 2,4 1,7 0,8 13,3
Liguria 408 445 111.722.063 14.572.828 1,1 8,2 0,2 12,2
Campania 366 1.632 1.211.624.400 505.003.726 4,5 6,1 0,7 12,2
Puglia 172 739 784.222.368 300.940.768 4,3 4,8 0,6 12,0
Lombardia 119 622 201.484.592 56.807.949 5,2 7,5 0,2 11,6
Marche 56 217 76.352.757 57.685.537 3,9 7,7 0,1 11,6
Umbria 7 38 44.827.233 14.650.715 5,4 4,9 0,4 11,2
Veneto 5 33 30.117.324 12.996.686 6,6 1,8 0,2 10,8
Toscana 205 947 309.955.796 214.114.626 4,6 10,1 0,2 10,8
Emilia R. 249 596 135.973.843 96.829.154 2,4 7,9 0,3 10,5
Abruzzo 2 17 8.089.945 5.050.893 8,5 0,6 0,2 8,7
Basilicata 8 35 39.032.819 13.736.210 4,4 1,5 0,9 7,7
Sardegna 4 27 23.768.825 10.851.942 6,8 0,4 0,3 7,1
Sicilia 99 464 522.788.247 202.959.813 4,7 2,8 0,6 4,9
Molise 2 4 8.140.304 2.955.590 2,0 0,7 0,2 - Fonte: elaborazioni su dati: a.OpenCoesione al 31.12.2014; b. Anno 2011, Conti Pubblici Terrtoriali; c. Anno 2012, Istat-Cis.
22 La Liguria ha un numero basso in quanto compare solo il capofila.
50
Tab. 5.8 - Distribuzione % del totale finanziamenti dei progetti di ricerca e innovazione collaborativi in base alla forma giuridica dei soggetti partecipanti e
alla regione di localizzazione
Regione Solo imprese Alta formazione
e imprese
Enti locali
e imprese Ati
Ricerca, alta
formazione e imprese Solo ricerca Ricerca e imprese
Alta formazione,
enti locali e imprese Distretti tecnologici
Ricerca, alta formazione,
enti locali e imprese
Enti ricerca pubblici
e imprese Altro Totale
Ambito nazionale 0,0 29,1 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 70,9 100,0
Piemonte 8,7 22,5 0,0 0,0 19,5 0,5 7,2 8,6 0,0 18,5 1,9 12,7 100,0
Lombardia 10,6 33,8 0,8 0,0 16,9 0,0 7,1 6,7 0,0 13,6 3,7 6,8 100,0
Trentino A.A 100,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 100,0
Veneto 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,1 0,0 10,4 0,0 15,8 0,0 73,8 100,0
Friuli V.G. 37,1 37,7 0,0 0,0 14,5 0,3 2,0 0,0 0,7 0,0 0,0 7,7 100,0
Liguria 69,1 0,0 0,0 0,0 9,4 0,6 9,0 0,0 0,2 11,8 0,0 0,0 100,0
Emilia R. 4,8 4,5 35,8 0,0 4,0 0,0 2,8 7,1 0,0 22,3 0,0 18,7 100,0
Toscana 32,5 23,0 0,8 0,0 11,9 0,0 5,9 14,1 0,0 8,5 2,1 1,1 100,0
Umbria 0,0 20,7 0,0 0,0 12,8 2,3 0,0 25,8 0,0 0,0 0,0 38,5 100,0
Marche 43,9 3,4 0,0 0,0 9,4 0,0 0,0 11,4 0,0 24,4 0,0 7,4 100,0
Lazio 5,7 11,6 0,0 0,0 20,0 0,0 8,4 9,3 0,0 20,6 2,5 21,8 100,0
Abruzzo 32,8 0,0 0,0 0,0 67,2 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 100,0
Molise 0,0 95,5 0,0 4,5 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 100,0
Campania 2,9 10,5 0,0 7,2 20,5 9,4 7,1 5,9 3,3 16,3 2,0 14,9 100,0
Puglia 3,2 9,4 0,0 4,5 15,6 9,3 4,1 7,2 12,1 16,7 2,7 15,1 100,0
Basilicata 25,5 13,4 0,0 0,0 21,9 7,1 0,0 0,0 0,0 21,1 11,1 0,0 100,0
Calabria 0,4 11,0 0,0 0,0 18,6 12,7 1,8 9,6 7,2 24,2 1,1 13,6 100,0
Sicilia 5,4 12,2 0,0 0,0 8,6 2,5 3,5 10,2 18,2 22,2 0,8 16,3 100,0
Sardegna 0,0 21,9 0,0 0,0 0,0 2,9 0,0 0,0 0,0 75,2 0,0 0,0 100,0
Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.
51
Suddividendo i progetti collaborativi in base alla composizione dei diversi tipi di collaborazione e alla
regione (Tab. 5.8) si può osservare che mentre per il centro-nord Italia il modello collaborativo prevalente è
tra imprese e imprese e università, con eccezione dell’Emilia Romagna, dove i progetti collaborativi
transitano attraverso Aster23
(anche il Veneto si distingue in questa classificazione, ma a causa del basso
numero di progetti collaborativi), per il sud Italia il modello è più esteso e coinvolge anche i centri di ricerca
e i distretti tecnologici.
Tab. 5.9 - Percentuale di pagamenti nei progetti di R&S collaborativi in base all’anno di inizio, la durata
effettiva ed il momento di pagamento
Anno
inizio Durata
A sei
mesi Alla chiusura del progetto
12 mesi dopo la
chiusura del progetto
24 mesi dopo la
chiusura del
progetto
Oltre 24 mesi dopo
la chiusura del
progetto
2008
18 45,1 45,3 86,5
24 43,4 44,6 82,7
30 78,2
36 63,9 71,9 92,3 97,2
42 7,3 43,3 70,0 77,2 83,2
48 48,8 61,2 68,6 69,9
54 64,3 85,8 87,9
60 58,0 89,1
2009
18 35,3 45,9 62,9
24 14,6 51,5 80,3 98,2
30 1,0 33,7 58,5 64,3 63,1
36 1,7 52,9 84,7 91,3 92,6
42 7,3 49,8 84,4 88,8
48 13,7 81,6 92,2 96,6
2010
18 2,0 10,6 48,1 73,9 80,3
24 2,6 30,8 66,3 89,9 92,6
30 2,4 42,6 77,7 83,3 83,9
36 0,7 55,7 75,0 80,1
42 2,3 48,1 67,5 70,4
48 0,7 56,6 70,2
54 80,0 87,7
2011
18 1,4 34,7 55,6 63,7 64,2
24 15,2 30,0 65,9 84,9
30 18,1 42,1 75,9 85,2
36 2,7 38,1 65,6
42 46,2 50,6
48 61,7
2012
18 21,5 67,3 68,8
24 0,7 30,9 58,1
30 1,7 36,7 54,4
36 3,7 40,0
2013 18 1,6 48,8 57,4
24 12,8 Note: sono considerati solo i progetti collaborativi di R&S iniziati dopo il 2008 con durata di almeno un anno e conclusi. Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.
Una delle criticità emerse dalle interviste svolte in questa ricerca risiede nei tempi di pagamento.
Considerando solo i progetti collaborativi di R&S iniziati dopo il 2008 con durata di almeno un anno e
23 Società consortile tra la regione Emilia-Romagna, le Università, gli Enti pubblici nazionali di ricerca CNR, ENEA, INFN e il
sistema regionale delle Camere di Commercio.
52
conclusi, la Tabella 5.9 mostra la percentuale di pagamenti in base all’anno di inizio, alla durata del progetto
ed al momento del pagamento. Solo una minoranza dei pagamenti avviene entro sei mesi dall’inizio del
progetto; inoltre questa fattispecie ha dimostrato di realizzarsi in maniera più consistente solo recentemente,
con i progetti iniziati dal 2009. Alla chiusura del progetto la percentuale dei pagamenti risulta inferiore alla
metà dell’importo stanziato. In generale questa percentuale aumenta con la durata del progetto, dato che vi è
più tempo per iniziare e accumulare pagamenti. 12 mesi dopo la chiusura sono avvenuti all’incirca i due
terzi dei pagamenti e dopo 24 mesi circa i tre quarti. Ciò denota un certo scollamento (di circa due anni) tra
il fabbisogno finanziario legato alla realizzazione del progetto e la reale manifestazione finanziaria utile a
sopperire tale necessità.
Analizzando il settore di appartenenza (Tabella 5.10) dei soggetti attuatori di progetti di ricerca e
innovazione collaborativi si ricava che per entrambi i gruppi i settori più rappresentativi sono ricerca e
sviluppo, telecomunicazioni e informatica, metalmeccanica, elettronica, studi professionali, servizi
tradizionali alle imprese e petrolio plastica e chimica. All’interno di questi il numero medio di soggetti
coinvolti è abbastanza omogeneo e va dal 3,4 della metalmeccanica fino al 6,1 dei servizi alle imprese. Il
legno arredo e la metalmeccanica sono i settori con la quota di finanziamento privato più elevata, superiore
al 60% del valore del finanziamento pubblico. Rispetto al totale finanziamenti i settori che hanno avuto
maggiori risorse sono: R&S (80,4%), telecomunicazioni e informatica (25,7%), elettronica (24,8%). Anche
in termini pro capite i comparti che hanno ricevuto maggiori finanziamenti sono trasporti, R&S, petrolio
plastica e chimica ed elettronica.
Tab. 5.10 - Numero di progetti, soggetti e finanziamenti (val. ass. e %) per i progetti collaborativi in base al
settore del soggetto attuatore
Settore
N.
prog.
N. sogg.
stesso
progetto Fin. Pub. Fin. Priv.
N. medio
sogg. per
prog.
Rapp. %
Fin. Priv./
Fin. Pub.
Fin. Tot.
Pro
capite
Quota
% fin.
Tot.
Agricoltura 30 195 65.291.346 21.172.002 6,5 32,4 443.402 2,2
Alimentare bevande tabacco 79 458 138.113.738 51.529.140 5,8 37,3 414.067 4,9
TAC 50 208 46.915.275 23.701.940 4,2 50,5 339.506 1,8
Legno arredo 31 123 29.293.021 18.678.832 4,0 63,8 390.015 1,2
Metalmeccanica 431 1.469 289.302.860 181.965.107 3,4 62,9 320.809 12,1
Petrolio plastica chimica 200 944 411.203.786 177.327.057 4,7 43,1 623.444 15,1
Elettronica e precisione 336 1.585 645.842.860 322.551.134 4,7 49,9 610.974 24,8
Trasporti 112 615 341.665.347 146.694.996 5,5 42,9 794.082 12,5
Altra manifatt. 131 633 358.720.811 158.569.708 4,8 44,2 817.205 13,3
Energia acqua gas rifiuti 55 338 104.620.106 41.427.214 6,1 39,6 432.093 3,7
Edilizia 101 478 105.457.800 51.209.234 4,7 48,6 327.755 4,0
Commercio 107 569 120.725.683 53.250.395 5,3 44,1 305.758 4,5
Turismo alberghi e ristoranti 26 216 17.847.789 6.262.524 8,3 35,1 111.622 0,6
Telecomunicaz. informatica 521 2.205 679.609.261 321.826.555 4,2 47,4 454.166 25,7
R&S 1.290 4.881 2.144.655.445 987.286.244 3,8 46,0 641.660 80,4
Studi professionali 326 1.634 412.200.679 171.294.334 5,0 41,6 357.096 15,0
Editoria radio tv 37 152 27.396.980 12.960.441 4,1 47,3 265.509 1,0
Servizi tradiz. alle imprese 211 1.280 461.358.122 205.519.485 6,1 44,5 520.998 17,1 Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.
Cercando di comprendere se vi sia una certa ibridazione delle conoscenze all’interno dei progetti
collaborativi si può notare (Tabella 5.11) che principalmente l’ibridazione avviene con il settore ricerca e
sviluppo e in seconda battuta con altre imprese appartenenti allo stesso settore. In termini di finanziamenti
53
pubblici, seppur siano pochi progetti, ottengono cifre abbastanza cospicue i raggruppamenti con tre settori,
che tutto sommato denotano una certa continuità, come per esempio: R&S, telecomunicazioni ed elettronica;
R&S, telecomunicazioni e trasporti; R&S, telecomunicazioni e servizi alle imprese; R&S, trasporti ed
elettronica.
Tab. 5.11 - Numero di progetti, soggetti e finanziamenti (val. ass. e %) per i progetti collaborativi in base ai
mix settoriali dei soggetti attuatori
Pos. Descrizione gruppo
Progetti Fin. Pubb. Fin. Priv.
N. Quota % € Quota % € Quota %
1 Solo R&S 358 17,2 648.513.591 24,3 285.073.005 23,2
2 Telecomunicazioni 163 7,8 67.970.576 2,5 21.672.756 1,8
3 R&S e metalmeccanica 116 5,6 45.586.594 1,7 35.374.576 2,9
4 Metalmeccanica 96 4,6 25.614.443 1,0 11.861.149 1,0
5 R&S e telecomunicazioni 78 3,7 89.397.251 3,3 53.677.773 4,4
6 R&S e elettronica 67 3,2 90.968.083 3,4 57.242.610 4,7
7 Elettronica 64 3,1 57.925.395 2,2 16.430.414 1,3
8 Studi professionali 52 2,5 42.165.464 1,6 12.685.795 1,0
9 R&S e studi professionali 48 2,3 44.279.068 1,7 22.850.190 1,9
10 R&S e petrolio plastica 46 2,2 102.490.849 3,8 40.258.292 3,3
11 Servizi alle imprese 40 1,9 50.300.994 1,9 18.837.189 1,5
12 Petrolio plastica chimica 37 1,8 22.892.114 0,9 10.444.100 0,9
13 R&S e altra manifatt. 29 1,4 26.387.503 1,0 13.162.716 1,1
14 R&S, telecomunicaz. e elettronica 28 1,3 74.023.003 2,8 36.487.796 3,0
15 R&S e trasporti 26 1,2 73.225.993 2,7 27.927.873 2,3
16 R&S e servizi alle imprese 23 1,1 27.100.419 1,0 14.451.600 1,2
17 R&S telecomunicaz. e studi profess. 23 1,1 16.011.103 0,6 5.123.007 0,4
18 R&S e ind. alimentare 20 1,0 20.876.347 0,8 9.766.946 0,8
26 R&S, telecomun. e servizi a imprese 11 0,5 31.285.516 1,2 17.140.077 1,4
42 R&S, telecomun. e trasporti 6 0,3 33.397.093 1,3 5.651.098 0,5
47 R&S, petrolio plastica altra manifatt. 5 0,2 40.742.161 1,5 16.158.950 1,3
58 R&S, elettronica e trasporti 4 0,2 21.391.747 0,8 7.478.210 0,6 Note: la tabella contiene i raggruppamenti con almeno 20 progetti, più altri quattro raggruppamenti con elevati finanziamenti pubblici.
Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.
5.3 Riflessioni metodologiche sulle possibilità di utilizzare i dati OpenCoesione per analisi di
valutazione d’impatto
Per valutare gli effetti di una politica di coesione come quella relativa alla ricerca collaborativa innanzitutto
è necessario riconoscere qual è la dimensione su cui si va a misurare l’impatto. Sapendo che i dati
OpenCoesione non contengono informazioni di questo tipo un primo problema quindi da affrontare è quello
di unire OpenCoesione con altre fonti di dati, così da arricchire il set informativo con le variabili su cui
effettuare i test di valutazione di impatto.
Un altro problema è relativo al fatto che i progetti possono essere rendicontati in maniera accentrata dal
“capofila” o decentrata a ciascun partner. Anche se più difficili da contabilizzare, archiviare e gestire solo i
secondi permettono di valutare l’efficacia di una politica. I primi, infatti, non distinguendo il reale aiuto dato
ai diversi partner, non permettono di mettere in relazione lo sforzo con i risultati ottenuti, raggiungendo nella
migliore delle ipotesi effetti medi.
A differenza di altri programmi che si caratterizzano per essere shock immediati e permanenti, quindi
possono essere ben approssimati da variabili dummy, quelli relativi ad incentivi alle imprese differiscono
54
per non essere permanenti; in altre parole questi incentivi hanno una certa evoluzione temporale. Questa
fonte di variabilità, essendo in parte esogena, è utile per identificare l’impatto, ma allo stesso tempo ne va
tenuto conto per non sotto o sovra dimensionare gli effetti. In questo senso in OpenCoesione si conosce con
una certa precisione il momento in cui inizia e finisce l’intervento, ma non si conosce la reale evoluzione del
progetto. L’unica approssimazione a questo scopo risiede nei pagamenti. Tenendo conto del ritardo con cui
questi avvengono si rischia di sottostimare gli effetti. Infatti se si utilizzasse uno stimatore differenze alle
differenze, si rischierebbe di calcolare la differenza, non tanto tra post e pre trattamento, ma almeno per una
parte tra post trattamento e post trattamento.
Sempre sul piano temporale, ma non direttamente connesso ai dati OpenCoesione, bisognerebbe tener conto
che i programmi rilasciano gli effetti con intensità diversa nel tempo e nello spazio, alcune volte inducendo
esternalità (effetti spillover) su soggetti limitrofi in termini di settore, area, lungo la filiera produttiva… Ecco
che diventa fondamentale conoscere bene il programma, l’ambito di applicazione e gli effetti attesi, onde
selezionare le variabili, la scansione temporale ed il controfattuale più adeguati.
Altra difficoltà da tener ben presente risiede nel fatto che il gruppo di controllo è costruito per essere il più
simile possibile al gruppo dei trattati con l’unica differenza del trattamento appunto. Nella realtà però non è
noto se le imprese non trattate abbiano beneficiato di un’altra politica che le ha sostenute. A titolo di
esempio, durante il periodo della crisi economico-finanziaria iniziata nel 2009 si è fatto ampio ricorso alla
Cassa Integrazione, se l’impresa trattata non ha utilizzato queste risorse, al contrario è molto probabile che
alcune imprese del gruppo di controllo lo abbiano fatto, andando così a “smorzare” gli effetti misurati
dell’impatto della politica sotto indagine. Per evitare di incorrere in questo tipo di critica è necessario
circoscrivere l’analisi nel tempo e nello spazio, e all’interno di questo perimetro effettuare analisi con dati
esterni ad OpenCoesione che permettano di capire se ci siano ed in quale misura politiche o fenomeni
paralleli a quelli che si vuole valutare.
In sintesi sembra che i dati OpenCoesione siano l’inizio di una pratica che permetta di valutare le politiche
di coesione. Pratica che per raggiungere il pieno successo ha bisogno che gli stessi dati OpenCoesione
vengano raccolti in maniera sempre più articolata e dove non possibile siano integrati con altre fonti di dati
ed arricchiti con le indispensabili informazioni di contesto di volta in volta più apportune.
55
CAPITOLO 6
L’ANALISI DEI CASI STUDIO
6.1 Analisi di contesto
Abbiamo visto nel Capitolo 4 che esistono differenti tipologie di rete e che esse riflettono sia il contesto
esterno sia il tipo di governance. In questo capitolo esamineremo alcuni casi studio relativi a distretti
tecnologici e cercheremo, anche utilizzando la metodologia presentata nel Capitolo 4, di valutare l’efficienza
delle politiche seguite e di trarre indicazioni utili per gli interventi futuri. Per quanto riguarda i casi studio
sono stati scelti tre distretti tecnologici nati nel Mezzogiorno come effetto di specifiche politiche pubbliche
ed una regione, le Marche, ove non si è tentato di creare un distretto ma è stata seguita una politica di
incentivi alla collaborazione nella R&S tramite lo strumento del bando pubblico. Nella Tabella 6.1 sono stati
individuati alcuni indicatori del contesto economico-sociale delle regioni di localizzazione dei casi studio.
Tabella 6.1 Caratteristiche del contesto
Area Dimensioni
delle imprese
(Numero
addetti) (2012)*
Intensità della ricerca
(Spesa in R&S su
prodotto netto)
(imprese) (2012)*
Tassi di
innovazione del
settore
produttivo
(2012)*
Specializzazione
produttiva nei settori
ad alta intensità di
conoscenza (2013)**
Partecipazione
civica e politica
(2012)***
Fiducia
nelle
istituzioni
locali
(2012)*** Marche 3,6 0,42 24,5 2,7 69,6 4,2
Puglia 2,9 0,19 28,6 1,6 53,2 3,6
Sicilia 2,7 0,23 25 1,8 58,3 3,0
Calabria 2,5 0,03 20,3 1,1 54,6 3,4
ITALIA 3,9 0,69 33,5 3,4 67,0 4,0
Fonte: * Istat Indicatori territoriali per le politiche di sviluppo; ** Eurostat; *** Istat, Politica e Istituzioni.
Gli indicatori utilizzati evidenziano che le regioni considerate presentano dimensioni delle imprese e grado
di progresso tecnico inferiore rispetto alla media nazionale. Le differenze sono maggiori per le regioni
meridionali rispetto a quanto accade per le Marche. In sintesi, il tessuto produttivo è caratterizzato da piccole
imprese, bassa propensione all’innovazione e settori produttivi maturi. La regione Marche presenta valori
migliori per quanto riguarda gli indicatori sociali (partecipazione civica alla politica, fiducia nelle istituzioni
locali). Questi indicatori sembrerebbero testimoniare la presenza di un maggior capitale sociale nelle Marche
rispetto al dato nazionale. Data la relazione fra capitale sociale e fiducia, vi è quindi un ambiente ove
maggiori sono i livelli di fiducia. Ricordiamo che l’assenza di fiducia è vista in vari lavori come un grave
ostacolo alla collaborazione (si veda al riguardo il Capitolo 2).
Passiamo ora ad esaminare le caratteristiche dei singoli distretti tecnologici. Nella Tabella 6.2 vengono
presentati alcuni indicatori delle caratteristiche dei distretti studiati. I tre distretti del Mezzogiorno sono del
tipo hub and spoke mentre nel caso delle Marche si è più vicini ad un distretto di tipo marshalliano (si veda
Capitolo 4, paragrafo 4.2). Due distretti del Sud hanno come riferimento l’università per la creazione di reti
di collaborazione, mentre in un altro caso l’entità di riferimento intorno a cui si incentra l’attività del DT è
56
una multinazionale, anche se l’università svolge un ruolo positivo nella produzione di conoscenza24
. La
realtà dei distretti del Mezzogiorno esaminati evidenzia tipologie di rete poco strutturate e più fragili anche
se la nascita di queste realtà evidenzia aspetti positivi25
. Nel caso delle Marche né l’università né la grande
impresa esterna hanno un ruolo rilevante per il funzionamento del distretto. La produzione ed il
trasferimento di conoscenza sono il risultato dell’attività di piccole e medie imprese locali.
Tabella 6.2 Caratteristiche dei distretti studiati (casi studio)
Nome distretto Natura Giuridica Dimensione
imprese
Intensità delle
attività di ricerca Tipo di settore
Capitale
umano
DARE Consorzio Prevalentemente
piccole (80%)
Innovazioni
incrementali di
prodotto e processo
attraverso l’utilizzo
della biotecnologia,
ICT e di altre
tecnologie.
Alimentare Medio-alto
concentrato
negli istituti di
ricerca e non
nelle imprese
AGROBIOPESCA Consorzio Prevalentemente
piccole
Innovazioni
incrementali
attraverso l’utilizzo
della biotecnologia e
dell’ICT
Alimentare Medio-alto-
concentrato
negli istituti di
ricerca e non
nelle imprese
R&D LOG Consorzio Mix piccole e
grandi imprese
Innovazioni
incrementali
Logistico Medio Alto
concentrato
nelle università
ed in alcune
imprese(sia
multinazionali
che locali)
MARCHE26
Associazioni
temporanee di
imprese (ATI) o
contratti di rete
incentivati
(assenza di
distretto)
Mix piccole, e
medie e grandi
(prevalentemente
medie)
Innovazioni
incrementali
Meccanica,
domotica,
arredamento.
Medio Alto
concentrato
nelle università
e nelle imprese
locali
6.2 I casi studio
6.2.1 Il distretto tecnologico DARE (Puglia)
Il Consorzio DARE è operante nel settore agro-alimentare e mira ad applicare nuove tecnologie alimentari e
altre tecnologie (ICT, biotecnologie, nanotecnologie, nuovi materiali, macchine e impianti) per generare
innovazioni connesse alla produzione di alimenti comuni. Il dato più rilevante del distretto è l’elevato
24
I due distretti riguardano il settore alimentare che è quello dove risulta più pronunciato, nell’ambito dei settori tradizionali, il
rapporto collaborativo fra imprese e università. Maietta (2015) evidenzia, attraverso un’analisi econometrica, che nell’industria
alimentare italiana la collaborazione fra università locali e imprese ha un effetto positivo sulle innovazioni, in particolari su quelle
di processo. Specie nel caso delle piccole imprese, la necessità di soddisfare le norme per la sicurezza alimentare della UE può
essere un elemento che spinge le imprese a ricercare la collaborazione delle università. 25
Vi sono nel Mezzogiorno anche distretti ove la collaborazione avviene fra stabilimenti di grande impresa con la partecipazione
delle università che evidenziano strutture di rete più robuste. 26
Nel caso dei distretti meridionali le caratteristiche si riferiscono ai soci del distretto, mentre nel caso delle Marche alle imprese
partecipanti ai bandi.
57
numero di aderenti (oltre 100 soci) e la rilevante crescita degli stessi nel corso degli anni. E’ interessante
notare che l’incremento avviene in modo discontinuo, soprattutto negli anni 2006 e 2011. L’incremento che
avviene nel 2006 sembra collegato alla nascita del DT e all’azione di marketing operata dal DARE nei
confronti dei vari attori regionali. Il caso del 2011 è collegato alla pubblicazione nel 2010 del bando
destinato allo rafforzamento dei distretti tecnologici e quindi all’aspettativa che la partecipazione al distretto
permetta di godere di incentivi pubblici per lo svolgimento di attività di ricerca. Sembrerebbe che un ruolo
positivo nell’adesione al DARE sia stato anche giocato dal servizio di audit tecnologico realizzato dallo staff
tecnico del DT, che ha favorito la presentazioni di progetti caratterizzati da un equilibrio fra domanda e
offerta di innovazione.
Un altro punto interessante è l’elevato numero di attori che partecipano a ciascun progetto. Il numero è
molto più alto che in altri DT, sia meridionali come IMAST, sia a livello nazionale. Il numero medio di
attori per progetto collaborativi nella R&S che risulta dalla banca dati di OpenCoesione (Tabella 5.6) è 4,3
per la Puglia e 3,3 per l’Italia Tre diversi fattori possono spiegare l’elevato numero di attori per progetto nel
distretto DARE. Primo, da un punto di vista strategico, DARE dà grande importanza al principio di
inclusività, preferendo il coinvolgimento di quante più imprese possibile invece che poche imprese, più
grandi o più capaci, al fine di favorire la generazione e diffusione di capitale sociale nella regione. Una
seconda spiegazione deriva dalle specifiche del bando, che stabiliva un costo per il singolo progetto,
comprensivo della formazione, di almeno 5 milioni di euro (fino ad un massimo di 25). Date le ridotte
dimensioni delle imprese agroalimentari pugliesi per raggiungere tale limite occorreva coinvolgere un
elevato numero di soggetti. Nel caso delle Marche, invece il valore medio del progetto era intorno ad un
milione di euro ed in nessun caso sono stati superati i due milioni di euro. Terzo, si potrebbe far notare che
nel caso di un distretto tecnologico (a differenza del caso Marche), i costi di coordinamento e di transazione
nella costruzione della partnership sono di fatto assorbiti dal consorzio e ciò facilita la presenza di un
maggior numero di soggetti per progetto.
Nell’ambito dei progetti del DARE emerge addizionalità per quanto riguarda la propensione alla
collaborazione dei vari attori. I questionari e le interviste evidenziano un aumento del grado di
collaborazione fra le imprese e fra le imprese ed i centri di ricerca e università. Tale collaborazione appare
particolarmente positiva per quanto riguarda i rapporti fra imprese e università. Le università e i centri di
ricerca hanno permesso alle imprese di supplire a carenze di capacità e dotazioni strumentali interne.
L’intensità della collaborazione fra imprese e centri di ricerca appare legata alla presenza di capitale umano:
quanto maggiore è la presenza di capitale umano specializzato in ricerca e sviluppo all’interno delle imprese,
tanto più stretta è la collaborazione con i centri di ricerca27
. D’altro canto, il vantaggio della collaborazione
per le imprese con minori capacità in-house, che solitamente corrispondono a quelle di dimensioni micro o
piccole, è consistito nella possibilità di assorbire nuova conoscenza prodotta da altri soggetti. Inoltre, è stato
rilevato come le imprese più piccole abbiano maggiore convenienza ad aprirsi e collaborare tra loro per
raggiungere una massa critica utile a rafforzare la propria posizione sul mercato.
27
Per quanto detto nel secondo capitolo ciò è dovuto alla relazione positiva fra capitale umano e capacità di assorbimento di
nuova conoscenza.
58
Con riferimento allo specifico progetto PROINNO BIT (25 partner, di cui 6 università e 19 imprese) in base
alle interviste effettuate, i risultati raggiunti sono stati in linea con gli obiettivi attesi. Vi è stato un effetto di
addizionalità sia per quanto riguarda l’ammontare di spesa in R&S e sia per quanto riguarda il grado di
innovazione dovuta alla partecipazione al progetto. Tale addizionalità appare maggiore per le imprese di
minori dimensioni, con minor esperienza in R&S e non dotate di attrezzature interne per la ricerca e la
sperimentazione. Anche per le imprese di grandi dimensioni il contributo pubblico ha determinato
addizionalità, nel senso che senza il supporto pubblico il progetto di ricerca sarebbe probabilmente partito
con dimensioni minori e caratteristiche diverse. Il giudizio che viene dato sul DT DARE è nel complesso
positivo anche se, come rilevato in precedenza, non è possibile quantizzare il beneficio totale netto
determinato dalle varie attività.
6.2.2 Il distretto tecnologico AgroBioPesca (Sicilia)
Il distretto tecnologico AgroBio e Pesca eco-compatibile (AgroBioPesca), nasce in Sicilia con l’obiettivo di
aumentare la competitività del territorio regionale attraverso le attività agroalimentari e la pesca eco-
compatibile. Il protocollo d’intesa collegato al DT risale al 1999 e l’accordo di programma quadro con la
regione Sicilia al 2005; tuttavia l’Atto costitutivo del DT è siglato solo nel 2009. La società consortile che
gestisce il distretto è composta da 26 soci fra università, enti di ricerca, altri enti e imprese. La compagine
sociale del DT risulta stabile nel tempo, e nel 2015 il numero dei soci risulta aumentato di sole due unità
rispetto al 2009. In termine di capitale sociale, le imprese (singole e consorzi) ne detengono una quota del
30%, mentre le università ed i centri di ricerca superano il 50%. Da questo punto di vista si conferma che
uno degli obiettivi del DT è la valorizzazione degli attori siciliani della ricerca, innanzitutto rispetto alle
imprese e agli altri stakeholder del territorio. Il DT, perciò, punta a incrementare la collaborazione fra
imprese e centri di ricerca attraverso le attività che promuove. Fra i soci privati di AgroBioPesca vi sono
quattro consorzi di imprese; questo fatto è senza dubbio una caratteristica distintiva del distretto rispetto ad
altre realtà, e perciò il calcolo delle imprese complessivamente coinvolte è maggiore rispetto al numero dei
soci. Dai questionari somministrati ai soci del DT risulta un giudizio positivo sull’adesione allo stesso.
Il DT Agrobiopesca complessivamente sembra avere diversi punti di contatto con il DARE. Innanzitutto, il
contesto delle due regioni (Sicilia e Puglia) è abbastanza simile, come risulta dalla Tabella 6.1. Inoltre,
entrambi i distretti operano nel settore alimentare, concentrandosi nelle produzioni tipiche regionali che, in
alcuni casi, sono simili. Entrambi vedono una rilevante presenza di università e centri di ricerca ed un peso
elevato di imprese di piccola dimensione (che nel DT AgroBioPesca partecipano per mezzo dei consorzi).
AgroBioPesca è attualmente impegnato in 6 progetti nell’ambito del Programma Operativo Nazionale
Ricerca e competitività 2007 -2013. Il numero medio di partner per ciascun progetto è alto, pari 11,5, con un
minimo di 7 nel caso di due progetti ed un massimo di 16. Complessivamente, il set di progetti impegna 69
partner, divisi in modo abbastanza equo fra università e centri di ricerca da un lato, e imprese dall’altro.
Appare indubbiamente eccessivo il numero degli enti di ricerca coinvolti in ciascun progetto, anche se una
possibile spiegazione, che sembrerebbe valere per il progetto DIMeSA (Valorizzazione di prodotti tipici
della Dieta Mediterranea e loro impiego a fini salutistici e nutraceutici), è che i progetti sono divisi in sotto-
progetti, ognuno dei quali necessita di competenze diverse e specialistiche, possedute da pochi partner.
59
Il progetto DIMeSA vale complessivamente poco più di 9 milioni di euro, ha iniziato le attività il 1 Ottobre
2012 e dovrebbe terminare il 31 dicembre 2015. Le filiere sulle quali si concentra il progetto sono quella
olivicola, cerealicola, ortofrutticola. Il progetto si propone di creare prodotti nuovi e di migliorare quelli
esistenti, anche attraverso l’utilizzo delle biotecnologie; esso pertanto si propone di sviluppare innovazioni
sia di prodotto e sia di processo. Il progetto coinvolge 16 partner, di cui 8 enti di ricerca e università e 8
imprese. La percentuale di completamento delle attività progettuali, comprese le attività formative, è ad oggi
quantificabile nell’84%.
Per quanto riguarda i risultati e gli effetti di addizionalità del progetto DIMeSA, risulta che le imprese di
maggiori dimensioni, che presentano già capacità di ricerca autonoma, avrebbero portato avanti in
autonomia una progettualità di ricerca anche senza i fondi del progetto. Discorso analogo vale per i centri di
ricerca pubblici. Tuttavia, la presenza dell’incentivo pubblico ha stimolato la collaborazione dei centri di
ricerca con le imprese, in particolare di piccole dimensioni, che in caso contrario probabilmente non
sarebbero state coinvolte nelle attività di ricerca. Inoltre, in assenza di incentivo pubblico, le dimensioni e le
caratteristiche di rischiosità del progetto sarebbero state di minore entità. Quindi, sembrerebbe che vi sia
stato un effetto di addizionalità sia relativamente all’ammontare di R&S sia in relazione all’attività di
collaborazione fra enti di ricerca e imprese (ed in misura minore fra imprese). Da quanto emerso
dall’indagine sul campo, inoltre, sembrerebbe esserci stata anche addizionalità per quanto riguarda gli
output. I soggetti coinvolti sono riusciti ad accedere sia a meccanismi di innovazione incrementale, per
quanto riguarda i processi e i prodotti, sia a innovazioni radicali. Questi effetti di addizionalità sembrano
maggiori per le piccole e medie imprese, molte delle quali hanno dichiarato di lavorare alla definizione di
procedure che le rendano in grado di assorbire al loro interno la conoscenza presente nei centri di ricerca con
cui hanno collaborato. Sembrerebbe quindi che un altro effetto positivo della partecipazione al progetto sia
stata l’addizionalità di comportamento, anche se non è quantificabile come questo si sia tradotto in termini
di maggiore efficienza ed efficacia.
Un aspetto interessante, osservato anche nel caso del progetto PROINNO_BIT del DARE, è che la metà
delle sotto-attività del progetto DIMeSA è stata svolta da un partner di ricerca e da un’impresa
congiuntamente. In tre attività sono state coinvolte più imprese contemporaneamente. Nel complesso gli
attori coinvolti nel progetto DIMeSA hanno dato un giudizio positivo sui risultati del progetto, anche se
hanno indicato come elemento di debolezza la lentezza nei tempi di gestione ed erogazione dei fondi da
parte del soggetto pubblico finanziatore. Sembrerebbe che nel progetto DIMeSA, così come in molti altri
casi, l’effetto addizionalità è stato maggiore per le piccole imprese, anche se il coinvolgimento delle grandi
imprese ha permesso un nuovo apporto di conoscenza di cui le piccole imprese hanno beneficiato. Le
piccole imprese, inoltre, hanno potuto intraprendere processi innovativi di tipo sistematico e inoltre hanno
potuto accedere ad asset materiali di cui non disponevano internamente.
6.2.3 Il distretto tecnologico R&D.Log (Calabria)
Il caso del Distretto Tecnologico della Logistica e della Trasformazione nella regione Calabria gestito dalla
società consortile R&D.Log s.c.r.l presenta sostanziali differenze rispetto ai due distretti esaminati in
precedenza. Se da un lato, come risulta dalla Tabella 6.2, la Calabria si caratterizza per un contesto
socioeconomico ancora più fragile di Puglia e Sicilia, dall’altro il settore oggetto dell’intervento (logistica e
60
software) presenta elevate caratteristiche di innovatività. Esso inoltre è un settore che anche a livello
internazionale è in forte espansione. L’obiettivo del distretto era quello di costituire una rete di imprese
fortemente integrate fra di loro in grado di produrre servizi innovativi (ad esempio pacchetti software) non
solo per il mercato della logistica trainata dal porto di Gioia Tauro, ma anche per il mercato nazionale ed
internazionale. La nascita del distretto è legata all’esistenza del porto di Gioia Tauro che nel 2004 era il
principale porto italiano in termini di movimentazione merci ed era al ventesimo posto su scala mondiale,
con una movimentazione merci di circa 3,5 miliardi di TEU. Negli anni della crisi economica (2007-2011) il
traffico portuale del porto ha subito una caduta di oltre il 40% e solo a partire dal 2012 si è avuta
un’inversione di tendenza che ha quasi permesso di raggiungere i livelli pre-crisi. D’altronde, a partire dal
2010, vi è stata una modifica nella politica regionale della regione Calabria per cui non sono stati più
finanziati i due distretti tecnologici esistenti ma i Poli di Innovazione. Il distretto R&D.Log ha realizzato
complessivamente 7 progetti, tutti approvati nel periodo 2005-2010. Successivamente al 2010, in parte a
causa del mutato orientamento della politica regionale, non è stato realizzato alcun progetto. Dopo il 2010,
invece, il distretto ha avuto la gestione del Polo di Innovazione per i Trasporti, la Logistica e la
Trasformazione. Tale Polo ha avuto un finanziamento di circa 3 milioni di euro per la realizzazione di
realizzato 7 progetti.
Un aspetto problematico del distretto ha riguardato la diminuzione del numero di soci. Inizialmente erano
presenti 31 soci di cui 3 multinazionali, 6 università e centri di ricerca, 5 imprese nazionali, e 16 imprese
locali. I soci partecipanti ai progetti nel periodo 2005-2010 sono stati 25. Nel 2015 il numero di soci si era
ridotto a 18. Un ruolo centrale nel distretto è stato svolto dalla multinazionale MCT che gestisce lo scalo di
Gioia Tauro. Vi erano inoltre, fra i soci, la multinazionale tedesca BLG che è un colosso mondiale per la
logistica del settore auto ed imprese dell’ICT locali, nazionali e multinazionali. Vi erano anche altre piccole
imprese che offrivano servizi vari e 6 università e centri di ricerca con adeguate competenze rispetto
all’obiettivo del progetto. La maggioranza del CDA è in capo ai soggetti privati che quindi assumono la
gestione complessiva del DT.
Per quanto riguardo il progetto PROMIS (Logistic Process Management & intelligence System), in relazione
al quale sono state fatte le interviste, esso ha lo scopo di sviluppare un sistema innovativo per
l’ottimizzazione del processo di gestione dei terminali marittimi fondato su una visione orientata ai processi
delle attività di logistica integrata che avvengono all’interno dei grandi hub portuali collegati a reti di
trasporto intermodali. Il progetto aveva un costo di circa otto milioni di euro con la presenza di 9 soggetti
soci del distretto (6 imprese e tre centri di ricerca). Il costo era sostenuto per il 30% dai privati. Per quanto
riguarda il grado di innovazione del progetto, la costruzione di un modello matematico che permette di
ottimizzare le operazioni di movimentazioni di un grande porto può essere visto come attività di ricerca. Il
risultato ultimo è un software applicativo che può essere considerato come un’innovazione di processo
finalizzata alla riduzione dei costi e dei tempi delle operazioni di movimentazione. Oggi le società che
vogliono movimentare il proprio carico possono scegliere fra porti alternativi. Il fattore di scelta è meno
dipendente dai costi di trasporto interni e dalla localizzazione del porto e più dalla qualità del servizio
all’interno del porto. Per rendere competitivi i servizi di un porto occorre influire sui tempi delle operazioni
di carico e scarico, sulla capacità dei magazzini, su infrastrutture efficienti di trasporti intermodale
all’interno dei porti, sulla rapidità di individuazione dei carichi e sull’assenza di danni allo stesso. Un
61
software tipo quello prodotto dal progetto PROMIS può aumentare la competitività di un porto. In questo
senso è indubbio che il risultato del progetto PROMIS è stato quello di aumentare la competitività del porto
di Gioia Tauro. Esisteva la necessità di sviluppare un software di ottimizzazione della movimentazione.
Generalmente questo tipo di software è sviluppato in-house, anche se esistono società specializzate in grado
di aiutare i gestori dei porti a realizzare tale software. Grazie al progetto PROMIS non è stato necessario
ricorrere a expertise esterne alla regione. Nella misura in cui il progetto PROMIS ha evitato il ricorso a
expertise esterne si può parlare di addizionalità dello stesso, anche se la multinazionale che gestisce il porto
di Gioia Tauro può non aver aumentato, rispetto all’assenza di incentivo, la sua spesa di investimento. Il
ricorso a società di software locali per il progetto è stato un indubbio beneficio per la regione. Egualmente
positivo è il probabile incremento di competitività che l’applicazione del software ha avuto per il porto di
Gioia Tauro.
Nel complesso, i soggetti che hanno partecipato al progetto PROMIS lo considerano come un’esperienza di
successo. In termini di addizionalità di input, il progetto ha stimolato alcune aziende coinvolte ad
intraprendere attività di R&S più rischiose che altrimenti non sarebbero state avviate. Inoltre, ha ingrandito
la scala delle operazioni di R&S di alcune imprese che hanno beneficiato dell’utilizzo di migliori strutture di
ricerca e di una maggiore qualificazione delle proprie risorse interne.
In termini di addizionalità di output, si è effettivamente registrata una crescita di addetti in capo alla società
MCT. Tale crescita, tuttavia, è stata inferiore rispetto alle 200 unità programmate, attestandosi a circa 90
addetti28
.
E’ stato poi realizzato il dimostratore (pacchetto software previsto), di cui hanno beneficiato soprattutto le
grandi imprese attive nel distretto e coinvolte nel progetto (come la capofila MCT), ma vi sono stati dei
risultati utili anche per imprese di minori dimensioni. Le attività di ricerca svolte durante il progetto, infatti,
hanno portato allo sviluppo di modelli per la gestione della turnistica che sono stati utilizzati da alcune
piccole imprese coinvolte nel progetto.
L’obiettivo di installare il dimostratore in circa 30 porti non è stato raggiunto, in quanto allo stato attuale
esso viene utilizzato solo nel porto di Gioia Tauro e nel porto di La Spezia, dove le operazioni di
transhipment vengono gestite dalla società Contship, del cui gruppo fa parte la MCT. Ciò ha indubbiamente
determinato contrasti fra piccole imprese e multinazionali. Le piccole imprese erano interessate alla
commercializzazione dei prodotti innovativi sviluppati all’interno del progetto (in questo specifico caso i
software), mentre le grandi imprese mostrarono scarso interesse verso la possibilità che tali prodotti fossero
utilizzati all’esterno del distretto. Secondo le piccole imprese di informatica non vi è stata una sufficiente
sensibilità da parte delle grandi imprese nell’integrare le piattaforme standard utilizzate per la gestione
dell’hub di Gioia Tauro con i pacchetti software nell’ambito dei singoli progetti e ciò ha indubbiamente
ridotto la capacità di mercato dei prodotti realizzati nei vari progetti. Inoltre, l’eventuale
commercializzazione dei software avrebbe richiesto un’attività di adeguamento di quanto prodotto
28
Bisogna tener conto che la MCT è presente in altri due progetti e quindi l’incremento di occupazione non è imputabile al solo
soggetto PROMIS.
62
all’interno del progetto e non era stato specificato nel bando quale soggetto avrebbe dovuto sopportarne i
relativi costi. In realtà, dato il limitato numero nel mondo di grandi porti, le specificità di ciascuna di essi, e
la preferenza a sviluppare in-house i software di movimentazione l’idea di poter vendere sul mercato i
pacchetti sviluppati dal progetto PROMIS non sembra molto realistica. I grandi porti come Rotterdam,
Singapore e Shangai hanno già a disposizione pacchetti software per l’ottimizzazione della movimentazione
anche di qualità superiore a quelli di Gioia Tauro. D’altro canto, una società di gestione di un porto che ha
sviluppato questo pacchetto di software non ha interesse a metterlo a disposizione dei concorrenti in quanto
in tal modo aumenterebbe la loro competitività. Inoltre, giacché tali pacchetti devono essere aggiornati per
tener conto delle modifiche interne ed esterne, un’eventuale società acquirente che gestisce porti, verrebbe a
dipendere da un concorrente per una risorsa essenziale. Per queste ragioni si ritiene che non vi sia un
mercato importante per i software prodotti (a differenza di quanto ipotizzato dalle piccole imprese
informatiche).
Un altro problema che si è verificato nel corso del progetto è che non vi è stato un adeguato coordinamento
fra i partecipanti per quanto riguarda l’avvio delle attività di ricerca. Alcuni soggetti avevano iniziato a
lavorare prima dell’erogazione dei contributi, mentre altri avevano aspettato la prima erogazione. I ritardi
nei pagamenti hanno inoltre determinato problemi finanziari che misero spesso in discussione l’attività degli
operatori, soprattutto delle piccole imprese. Tutto ciò si verificò in un contesto di scarsa fiducia
interpersonale e di illegalità diffusa; l’inefficienza della pubblica amministrazione contribuì ad accentuare
tali difficoltà.
Per quanto riguarda l’addizionalità del progetto, sia di input e sia di output, bisogna distinguere tra le grandi
e le piccole imprese. Le prime, infatti, hanno dichiarato che avrebbero intrapreso il progetto anche senza il
finanziamento pubblico e su identica scala. Tuttavia avrebbero implementato il progetto in maniera
individuale e non collaborativa. Sembra esserci stata invece una buona addizionalità per le piccole imprese
che in assenza del finanziamento pubblico non avrebbero avuto la possibilità di intraprendere simili attività
di ricerca e di conseguire gli stessi risultati. Alcune imprese hanno dichiarato che grazie agli incentivi
pubblici è cresciuta la propria spesa per le attività di R&S.
Per quanto riguarda gli effetti sulla propensione alla collaborazione, nonostante effetti positivi, il distretto
nel suo complesso non sembra aver avuto successo nella creazione di un’ampia rete tra i soggetti del sistema
regionale dell’innovazione. Come è stato già rilevato in precedenza, il distretto ha coinvolto un numero
esiguo di soci che, nel corso del tempo, sono anche diminuiti. Questo probabilmente è spiegabile sia in base
agli elementi esogeni già discussi, ma forse anche al fatto che la grande impresa, che di fatto assume la
complessiva gestione delle attività distrettuali, è interessata soprattutto alla collaborazione con le università e
gli altri enti di ricerca pubblici e poco alla collaborazione con altre imprese, specialmente se di piccole
dimensioni. Nel progetto PROMIS, ad esempio, la grande impresa ha dichiarato che la partecipazione delle
università ha avuto un ruolo fondamentale per il raggiungimento dei risultati e che probabilmente in futuro
instaurerà ulteriori collaborazioni con tali soggetti. Grazie ai progetti di ricerca implementati nel distretto,
inoltre, la grande impresa ha intensificato i rapporti collaborativi con le università e con gli altri enti di
ricerca pubblici, mentre è rimasto sostanzialmente basso il suo grado di collaborazione con le piccole
imprese. Queste ultime, per contro, ritengono molto importante sia la collaborazione con le università e gli
63
altri enti di ricerca e sia con le altre imprese con cui cercano di creare sinergie. Allo stesso tempo però la
partecipazione al progetto PROMIS ha avuto uno scarso effetto nel migliorare i rapporti con le altre imprese
coinvolte nel progetto e nell’incrementare la probabilità di future collaborazioni. E’ stata invece valutata
positivamente l’esperienza di cooperazione con le università che ha consentito un certo grado di
trasferimento tecnologico.
E’ infine interessante notare che alcune piccole imprese partecipanti al distretto hanno sviluppato progetti di
ricerca che hanno ricevuto finanziamenti pubblici anche al di fuori del distretto.
6.2.4 Il caso Marche
Il caso Marche è molto diverso da quelli considerati in precedenza sia per le caratteristiche di contesto sia
per l’assenza di uno specifico organismo che si ponga come compito di organizzare e coordinare la
collaborazione fra i vari attori. Nelle Marche non vi sono distretti tecnologici.
Il tessuto produttivo marchigiano è caratterizzato dalla presenza di imprese di ridotte dimensioni che
operano prevalentemente in settori tradizionali a bassa/media intensità tecnologica. Tra questi, hanno una
particolare rilevanza il comparto della moda (tessile, abbigliamento e calzature), l’alimentare e il
legno/mobili. Negli ultimi decenni va comunque evidenziato che il tessuto industriale si è trasformato a
favore di settori a più elevata intensità tecnologica: all’interno della manifattura sono sensibilmente cresciuti
gli occupati nei vari comparti della meccanica, in particolare nella fabbricazione dei macchinari. Il modello
di innovazione prevalente si caratterizza per la scarsa propensione all’attività innovativa e per la preferenza
verso innovazioni di tipo incrementale. Un aspetto di contesto della regione Marche che la caratterizza
rispetto alle in precedenza considerate è il modello organizzativo del distretto industriale. L’agglomerazione
territoriale delle imprese nei distretti industriali ha avuto diversi vantaggi tra cui i più importanti riguardano i
risparmi di costo, la capacità di adattamento al mercato, l’assorbimento degli shock esterni, il progressivo
emergere della media impresa e la forte propensione verso l’internazionalizzazione. Oltre a tutto questo,
probabilmente, l’organizzazione di tipo distrettuale ha favorito la nascita ed il consolidamento di una cultura
orientata ai rapporti con il mondo esterno che ha fatto sorgere una buona propensione alla cooperazione tra
imprese e tra queste ultime e mondo accademico ed istituzionale. Le imprese marchigiane mostrano quindi
una buona propensione alla collaborazione.
Per quanto riguarda i soggetti attivi nel sistema regionale della ricerca e dell’innovazione, va rilevato il peso
preponderante delle università pubbliche rispetto a strutture pubbliche di ricerca (CNR, ENEA, INFN e
CRA).
La regione, nel supportare l’attività innovativa delle imprese locali, non ha puntato su settori specifici ma ha
preferito puntare su ambiti tematici trasversali ai vari settori ritenuti prioritari e strategici per lo sviluppo del
territorio. Tra questi ambiti vi sono la meccanica avanzata, la domotica, lo sviluppo di nuovi materiali, la
salute e benessere e l’efficienza energetica. Molti progetti di ricerca sono stati sviluppati nell’ambito
tecnologico della domotica, dove la regione vanta alcune eccellenza tecnico-scientifiche; la domotica inoltre
è un ambito di assoluta rilevanza anche al di fuori della regione, come testimoniano i numerosi progetti di
64
ricerca finanziati con risorse nazionali e comunitarie, in grado di dar vita ad importanti partenariati tra
imprese, università, centri di ricerca e di trasferimento tecnologico.
La strategia complessiva della regione si caratterizza per alcuni elementi chiave che fanno da filo conduttore
ai diversi interventi realizzati. Da un lato si è puntato a finanziare i progetti di ricerca delle imprese e
dall’altro si è cercato di valorizzare e qualificare il capitale umano. Particolare attenzione è stata data negli
ultimi anni agli incentivi per la ricerca collaborativa, con l’obiettivo di mettere in rete i protagonisti del
sistema regionale dell’innovazione e di promuovere l’aggregazione tra le imprese e le relazioni di queste
ultime con gli altri soggetti pubblici e privati regionali attivi nel campo della ricerca. In particolare la
regione ha pubblicato sullo strumento del bando pubblico per supportare la ricerca collaborativa.
L’intervento prevedeva il finanziamento di progetti collaborativi presentati dalle imprese per lo sviluppo di
nuovi prodotti e di nuovi processi in determinati ambiti tecnologici ritenuti strategici per l’economia
regionale e in linea con le vocazioni produttive e le eccellenze tecnologiche locali.
L’intervento intendeva favorire uno stretto raccordo tra domanda e offerta di innovazione coerentemente con
il concetto di smart specialization, sostenendo lo sviluppo di tecnologie innovative ad alto contenuto di
conoscenza e agevolando un orientamento al mercato dei risultati della ricerca. A tal fine era richiesto che i
progetti di ricerca dovessero essere necessariamente presentati da clusters di soggetti comprendenti almeno
tre imprese indipendenti tra loro, tra cui non più di una grande impresa e almeno una piccola o una micro
impresa29
, nonché almeno un soggetto a scelta tra enti di ricerca (università o altri istituti di ricerca di diritto
pubblico o privato), centri per l’innovazione e il trasferimento tecnologico e parchi scientifici e tecnologici
del territorio. La collaborazione doveva essere formalizzata attraverso un accordo di partenariato nella forma
di un contratto di rete o di un raggruppamento temporaneo di imprese. La partecipazione degli enti di ricerca
era formalizzata attraverso un contratto di consulenza in ricerca e sviluppo. I programmi di investimento
dovevano avere un costo complessivo compreso tra 500.000 e 2.000.000 di euro.
Per quanto riguarda il progetto esaminato (Smart Green Housing Unit) esso ha visto la partecipazione
dell’Università Politecnica delle Marche, di INRCA - Istituto di Ricovero e Cura a carattere Scientifico, e di
quattro imprese: CBI Europe Spa, Garofoli Spa, ITC Italian Technology Centre Srl, Gatto Cucine Srl. La
capofila del progetto (nonché promotrice dello stesso) è la CBI Europe Spa, che produce prodotti per il
mercato edilizio venduti largamente all’estero. Poco dopo l’approvazione del progetto, la società Gatto è
entrata in procedura di concordato fallimentare. Rinunciare allo sviluppo delle soluzioni tecnologiche
originariamente assegnate a Gatto avrebbe significato il mancato raggiungimento degli obiettivi del
progetto. Si è pertanto deciso di sostituire Gatto con un’altra impresa marchigiana, Modula Srl. Le quattro
imprese hanno collaborato attivamente tra di loro nello svolgimento del progetto.
L’azienda capofila CBI ha avuto un ruolo determinante nella formazione della partnership e nella
definizione dell’idea progettuale iniziale, oltre che nel coordinamento delle parti durante la fase di
implementazione. Le aziende partecipanti sono state scelte nel rispetto delle specifiche del bando e sulla
base di conoscenze personali comuni. Nonostante le imprese del partenariato operassero già in settori ad alto
29
Il requisito dimensionale si riferisce all’art. 3 della Raccomandazione della Commissione Europea del 6 maggio 2003 e al
Decreto Ministeriale delle Attività Produttive del 18 aprile 2015.
65
livello tecnologico e innovativo, e avessero risorse interne incaricate di attività di sviluppo, tutte le imprese,
dalla più piccola alla più grande, si sono avvalse anche della consulenza di studi tecnici esterni.
Il progetto di ricerca Smart Green Housing Unit complessivamente ha realizzato gli obiettivi tecnici che si
era proposto. Il progetto ha permesso alle imprese di realizzare nuove soluzioni tecnologiche che possano
essere commercializzate separatamente dalle imprese partner nella prospettiva di aprire nuovi sbocchi
commerciali grazie al know-how acquisito. Inoltre, i vantaggi ottenuti da alcune imprese nello svolgimento
in collaborazione delle attività di ricerca, le hanno portate a stabilizzare questo genere di attività, prevedendo
di svolgere futuri progetti di ricerca collaborativa con i partner con cui si sono trovate bene. Per il progetto
Smart green housing, la CBI è stata segnalata come best practice dalla regione, e ha ricevuto una visita da
parte di una delegazione comunitaria.
Sia il promotore del progetto (CBI) che le imprese partner dichiarano che non avrebbero affrontato il rischio
connesso allo sviluppo di questo prodotto innovativo e rischioso, destinato a un mercato differente da quello
in cui abitualmente operavano, se non ci fosse stata l’opportunità di ottenere il finanziamento del progetto.
Gli aspetti cruciali per il successo di un simile progetto possono essere sintetizzati nella partecipazione di
specifiche imprese al progetto, nell’elevato livello di specializzazione e formazione dei ricercatori coinvolti
nel progetto; nella condivisione degli interessi e obiettivi della ricerca; nel supporto finanziario da parte del
settore pubblico (anche se in misura minore rispetto agli altri fattori).
Fra gli ostacoli indicati vi sono i tempi di selezione e approvazione del progetto per il cofinanziamento
pubblico, ed i tempi di erogazione delle risorse pubbliche di cofinanziamento. La rigidità del bando, che
imponeva alcuni vincoli sul tipo di partenariato da formare, se da un lato ha costretto le imprese a
collaborare generando quindi effetti di addizionalità, dall’altro sembra aver avuto anche alcuni effetti
negativi sul buon avanzamento del progetto. Fra i problemi messi in evidenza vi è stata la difficoltà a gestire
il partenariato. Infatti, dal lavoro di indagine è emerso che la scelta dei partner è un elemento cruciale per il
successo dell’esperienza di collaborazione, e che se i partner non sono allineati (sia in termini di livello di
avanzamento tecnologico che di abitudine e motivazione a collaborare) rispetto all’obiettivo comune si
rischia di minare l’efficacia complessiva del progetto e di allungare i tempi per il raggiungimento dei
risultati.
Nel complesso viene confermato per le Marche quanto altre ricerche (Bellucci et al., 2015) hanno
evidenziato e cioè che i contributi per la ricerca hanno avuto addizionalità sia dal punto di vista degli input
che degli output, ma anche di comportamento delle imprese (propensione a collaborare). Essendo il progetto
appena concluso ed essendo la commercializzazione dei prodotti tecnologici sviluppati nell’ambito del
progetto in fase di avvio, è troppo presto per fare una valutazione dell’addizionalità di output realizzata (in
particolare in termini di numero di addetti totali e redditività).
66
CAPITOLO 7
CONCLUSIONI
L’analisi della letteratura presentata nel Capitolo 2, ha messo in evidenza che la cooperazione fra imprese e
fra imprese e istituzioni di ricerca comporta effetti positivi non solo per la performance delle imprese, ma
anche per il benessere sociale. D’altronde la presenza di fallimenti del mercato rende opportuna una politica
a favore della cooperazione nella R&S. Purtroppo l’Italia non si caratterizza per un’elevata intensità della
cooperazione nella R&S. Non solo essa registra livelli di spesa in R&S nettamente inferiori agli altri paesi,
ma si caratterizza anche per una minore quota di imprese innovative che hanno effettuato progetti
collaborativi di R&S (Tabella 5.2). Ciò non è solamente determinato dalle dimensioni delle imprese,
inferiori che negli altri paesi europei. Infatti, anche nella classe di addetti 10-49 la percentuale di imprese
innovative che hanno collaborato nella R&S ha livelli decisamente inferiori che nei principali paesi europei.
Nella Tabella 7.1 abbiamo indicato, distinguendo per settori produttivi, il grado di cooperazione nel caso
delle imprese innovative. Si nota la bassa percentuale dell’Italia in tutti i settori rispetto alla media degli altri
paesi europei considerati. Si va da un valore medio del 17,5 %, nel caso del settore legno, ad un valore
medio del 32,8% nel settore tessile abbigliamento. Per quanto riguarda la collaborazione delle imprese con
università e centri di ricerca, le differenze rispetto alla media europea sono simili. Si va da un minimo del
18,9 % del settore tessile e abbigliamento ad un massimo del 41,6% nel caso del settore chimico etc. Le
imprese collaborano poco sia fra di loro e sia con l’università.
Tabella 7.1 - Quota di imprese innovative che hanno effettuato progetti di R&S collaborativa (valori percentuali) Produzione prodotti
alimentari, bevande,
etc.
Tessile, abbigliamento,
cuoio etc
Legno, Carta,
Poligrafiche etc.
Chimica, farmaceutica,
gomma, prodotti in
plastica, raffinazione del
petrolio, etc.
Elettronica, macchine
elettriche, mezzi di
trasporto, prodotti in
metallo
Mobilio, gioielli,
strumenti musicali, etc
Impres
e che
coopera
no con
univers
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altri
istituti
di
ricerca
Imprese
impegnate
in attività di
cooperazion
e
Imprese
che
cooperan
o con
universit
à ed altri
istituti di
ricerca
Imprese
impegnate
in attività di
cooperazion
e
Imprese
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cooperan
o con
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à ed altri
istituti di
ricerca
Imprese
impegnate
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cooperazion
e
Imprese
che
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o con
universit
à ed altri
istituti di
ricerca
Imprese
impegnate
in attività di
cooperazion
e
Imprese
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à ed altri
istituti di
ricerca
Imprese
impegnate
in attività di
cooperazion
e
Imprese
che
cooperan
o con
universit
à ed altri
istituti di
ricerca
Imprese
impegnate
in attività di
cooperazion
e
Belgio 20,3 51,8 10,0 39,7 33,8 67,2 20,5 48,3 21,2 59,6
Germania 6,0 7,7 25,4 42,9 5,3 15,5 21,5 37,2 18,8 29,4 10,1 21,9
Spagna 8,7 26,9 3,4 26,7 4,8 20,1 12,8 32,5 9,2 29,1 5,3 18,2
Francia 7,6 30,7 9,7 31,9 6,9 25,4 17,8 41,8 12,8 34,1 8,7 27,9
Italia (A) 3,0 9,7 2,5 11,4 2,3 5,4 9,4 12,3 6,3 11,7 2,8 10,3
Olanda 9,6 27,9 8,2 28,9 7,9 41,6 20,5 48,2 12,0 33,7 13,1 35,7
Austria 10,8 29,7 5,6 32,4 9,7 34,0 43,1 54,7 30,0 46,5 13,4 42,3
Regno-
Unito
12,6 60,1 18,8 69,3 12,3 65,2 22,0 75,3 17,7 65,9 18 54,4
Valor
Medio (B)
9,8 30,6 13,2 34,8 7,4 30,9 22,6 46,2 15,91 37,3 11,6 33,8
A/B*100 30,5 31,7 18,9 32,8 31,1 17,5 41,6 26,7 39,59 31,3 24,2 30,5
Fonte: Ns elaborazioni su dati CIS - Eurostat
Alla luce dei dati presentati e delle osservazioni fatte nei capitoli precedenti appare pertanto particolarmente
opportuno il disegno e la realizzazione di politiche nazionali e regionali che favoriscono la cooperazione
67
nelle attività di R&S e che tengano conto dell’eterogeneità delle regioni italiane per quanto riguarda la
struttura economica e sociale, la quale determina anche una notevole diversità nella propensione a stipulare
accordi di cooperazione. La realizzazione di tali politiche, però, richiede una certa cautela in quanto i
progetti e le reti finanziate, almeno in parte con fondi pubblici, dovrebbero soddisfare il duplice criterio
dell’efficienza (si veda il Capitolo 1) e dell’addizionalità. Vi è il rischio, infatti, che il supporto alla ricerca
collaborativa svolta dalle grandi imprese non soddisfi il criterio dell’addizionalità, oppure che la
cooperazione fra piccole imprese non soddisfi il criterio dell’efficienza. Per quanto riguarda quest’ultimo, la
letteratura ha evidenziato che nel calcolo dei benefici occorre considerare non solo gli effetti diretti ma
anche quelli indiretti generati dalla collaborazione. D’altro canto, bisogna riconoscere che l’erogazione di
sussidi sia per rafforzare i legami all’interno della rete sia per attrarre imprese chiave dall’esterno non
necessariamente irrobustisce la capacità tecnologica di una regione e può creare sostanziali problemi di
opportunismo e inefficienza.
Nel seguito sono riportate le principali conclusioni del presente studio.
La banca dati OpenCoesione
Un importante apporto del gruppo di lavoro è stato quello di utilizzare la banca dati OpenCoesione per
ricavare i progetti svolti in collaborazione sia nell’ambito di distretti tecnologici e sia indipendenti da questi.
Utilizzando uno specifico algoritmo, si è ottenuto un elenco di due tipologie di progetti collaborativi: da un
lato i progetti svolti da imprese non appartenenti a DT, ma che hanno partecipato a bandi delle regioni in cui
si richiedeva la collaborazione. Questo è il caso di gran parte dei progetti collaborativi che troviamo nelle
regioni Marche, Toscana ed Emilia Romagna. Dall’altro lato progetti in cui appare come attuatore il distretto
tecnologico ma ai quali hanno partecipato anche i soci del distretto e che quindi sono a tutti gli effetti dei
progetti collaborativi. Questi ultimi progetti sono ampiamente diffusi nelle regioni ammesse ai programmi
dell’Obiettivo Convergenza.
Quanto emerge dall’analisi, in estrema sintesi, è che, seppur sia stato necessario attendere il 2011 per
intensificare la collaborazione nelle attività di ricerca e innovazione, da tale anno in poi la maggior parte dei
finanziamenti è stata indirizzata verso progetti di tipo cooperativo. Alla fine del 2014, infatti, il totale dei
finanziamenti pubblici ai progetti collaborativi era il triplo rispetto a quelli ricevuti dai progetti non
collaborativi. Con riguardo alle forme di collaborazione, si è potuto riscontrare che circa l’80% dei progetti
comprendeva meno di quattro partner. Inoltre, il tipo di attori (imprese, enti di ricerca, formazione…) ed i
settori compresi nella coalizione sono in linea con i risultati che si possono ricavare dall’indagine
campionaria CIS. A livello territoriale alcune regioni hanno fatto un uso più ampio dei fondi strutturali ai
fini della ricerca collaborativa: Lazio, Piemonte, Toscana, Liguria, Emilia Romagna, Marche e Lombardia.
Partendo dall’ipotesi che questo tipo di investimenti non sarebbe stato intrapreso senza la politica
incentivante, dai dati emerge con chiarezza uno dei limiti all’uso di questi strumenti: il ritardo nei pagamenti
e quindi il rischio per le imprese di andare incontro a crisi di liquidità.
Sebbene si siano utilizzate diverse fonti esterne per integrare i dati forniti da Opencoesione ed individuare
con la massima precisione i progetti collaborativi, non è possibile avere la certezza che siano stati
individuati per tutte le regioni ed in modo omogeneo tutti i progetti collaborativi. Quindi, in attesa di
prossimi e auspicabili aggiornamenti di Opencoesione e della sua unione con altri archivi, i risultati appena
68
descritti sull’intensità delle collaborazioni in R&S finanziate con fondi strutturali forniscono una prima
incoraggiante, ma ancora parziale, quantificazione del fenomeno. Il lavoro ha quindi evidenziato i limiti
attualmente esistenti in Opencoesione per l’analisi di questo tipo di progetti e la direzione verso cui occorre
muoversi per poter usare la banca dati in modo più efficace (ricordiamo per esempio l’attuale difficoltà a
completare le informazioni sulle tipologie di legami fra gli attori appartenenti ai vari progetti, così da poter
utilizzare le metodologie della Social Network Analysis per confrontare cluster e distretti tecnologici).
Problemi di valutazione delle politiche per la collaborazione nella R&S
Il lavoro condotto sui casi studio per la valutazione delle politiche per la costruzione di distretti tecnologici
ha permesso di evidenziare aspetti, di seguito riportati, che non vengono colti da metodi quantitativi come le
stime econometriche basate su modelli di matching (si veda il Capitolo 4). D’altro canto tali metodologie
consentono di cogliere solo i risultati conseguiti dalle imprese e non tengono contro degli effetti indiretti del
progetto su altri soggetti. Ciò è particolarmente importante nel caso di progetti cooperativi nella R&S ove
partecipano anche università e centri di ricerca e che, come nel caso dei distretti tecnologici, si preoccupano
anche di realizzare programmi di formazione. Inoltre, la costituzione di nuovi legami fra i vari attori può
avere effetti positivi anche sulla capacità di assorbimento delle imprese, effetti però che si colgono solo nel
lungo periodo. I modelli econometrici, inoltre, non riescono a cogliere completamente alcune debolezze
nell’attuazione di tali politiche, e tantomeno riescono a tener conto della eterogeneità dei distretti
tecnologici. Modelli in grado di cogliere anche gli effetti indiretti, come quelli basati sulla Social Network
Analysis, incontrano notevoli difficoltà nell’ottenere le informazioni necessarie a costruire le reti dei vari
distretti e comunque non riescono a cogliere le debolezze dell’attuazione di tali politiche. D’altronde, una
valutazione basata solo su casi studio soffre delle distorsioni inerenti alle risposte degli intervistati. Inoltre
anche se, come è stato fatto in questo lavoro, si confrontano reti innovative diverse fra di loro (sia per le
caratteristiche e sia per il tipo di politiche seguite) è difficile ottenere risultati che possano essere
statisticamente significativi. Il fatto che ogni metodo di valutazione permette di catturare aspetti specifici
implica che, per avere una visione completa degli effetti delle politiche, appare opportuno adottare una
strategia di valutazione che combini diversi strumenti metodologici.
Evidenza sugli effetti addizionali della collaborazione
I casi studio sintetizzati nel Capitolo 6 hanno evidenziato che i progetti di ricerca collaborativa analizzati
sono generalmente associati ad addizionalità di input (incremento della spesa in R&S) e comportamentale
(incremento della propensione alla collaborazione, in particolare con le università). Non è del tutto chiaro se
si può parlare di addizionalità di output30
. In ogni caso non sono state raccolte sufficienti informazioni per
verificare se i vari progetti hanno rispettato o meno il criterio dell’efficienza. Nel caso delle Marche, le
imprese hanno sviluppato delle tecnologie che ora stanno cercando di commercializzare. Nel caso di
30
Per quanto riguarda l’addizionalità di output, come deriva dalle considerazioni riportate nel Capitolo 2, l’utilizzo del brevetto
come indicatore di successo di un programma di ricerca pubblico spesso non è una corretta misura di risultato, in particolare nei
settori ove le spese per R&S non sono eccessivamente elevate. In questo caso il costo di ottenere il brevetto è abbastanza alto ed i
tempi abbastanza lunghi per rendere effettiva la protezione legale; la richiesta del brevetto può quindi non essere conveniente.
Inoltre, il fatto che in ogni caso, grazie al brevetto, un numero di informazioni è reso pubblico e rende possibile, come
nell’industria del software e nell’elettronica tecniche di “reverse engineering” (ingegneria inversa), può ulteriormente scoraggiare
la richiesta di protezione legale. Questo potrebbe spiegare perché alcuni studi econometrici (ad esempio Scotchmer, 2004) trovano
che il valore dei brevetti è inferiore al costo medio dell’innovazione.
69
R&D.Log sono stati prodotti programmi di software (innovazioni di processo) che, anche se non
commercializzati, sono utilizzati dalle imprese del distretto per migliorare le propria competitività. Nel caso
della Puglia, ci sono indicazioni che lasciano presupporre addizionalità di output, ma è ancora presto per fare
questa valutazione. Discorso analogo vale per il distretto Agrobiopesca. Comune ai vari casi esaminati, in
particolare nel Mezzogiorno, è che l’addizionalità è stata maggiore per le piccole imprese che per le grandi
imprese non locali. Non si può escludere che le grandi imprese abbiano avuto un comportamento
opportunistico.
Il ruolo del Distretto e di altri attori nella realizzazione della ricerca collaborativa
E’ interessante notare che nei casi esaminati vi è stata una differenziazione di ruolo dei vari attori. In alcuni
casi, come DARE e Agrobiopesca, l’attore che governa il DT ha avuto un ruolo positivo nel favorire le
collaborazioni grazie ai servizi offerti. Nel caso di R&D.Log la governance del distretto non ha avuto un
ruolo significativo nel favorire le collaborazioni. Queste sono il risultato di accordi spontanei fra gli attori.
Nel caso delle Marche non esiste un DT e le collaborazioni sono il risultato delle specifiche dei bandi.
Inoltre, l’esistenza di un tessuto industriale dominato da una certa propensione all’aggregazione, come
abbiamo visto nel Capitolo 6, ha agevolato la formazione della partnership per la ricerca collaborativa. Lo
strumento del bando pubblico è quindi stato particolarmente efficace in un tessuto produttivo robusto, dove
le imprese hanno già una buona capacità di ricerca e attitudine all’innovazione e dove il capitale sociale è
più forte. In generale nelle aree più sviluppate del paese, il ricorso a intermediari non pubblici e consulenti
aziendali locali in grado di fornire assistenza tecnica per quanto riguarda le procedure burocratiche e
amministrative al progetto ha un ruolo molto positivo. Inoltre tali consulenti possono individuare i partner
potenzialmente interessati e adatti allo svolgimento delle attività di ricerca, ed assicurare il parziale
allineamento/complementarietà rispetto alle prassi di lavoro, al livello tecnologico, e agli obiettivi
manageriali e imprenditoriali31
. Mentre nei distretti marshalliani sono presenti tali figure, le piccole imprese
del Mezzogiorno non possono e/o non vogliono sopportare il costo di un consulente che non sia il fiscalista
o un commercialista che possa facilitare l’accesso al credito bancario. Ciò ovviamente limita il mercato per
consulenti veramente specializzati nell’offrire il complesso di servizi necessari per il successo della
collaborazione. In molte aree del Mezzogiorno appare necessaria, in linea di principio, la presenza di
distretti tecnologici che siano in grado di individuare i bisogni delle imprese e coordinare i vari attori nella
stesura e implementazione dei progetti. La governance del distretto dovrebbe essere rivolta al perseguimento
degli obiettivi dell’insieme degli attori e non di particolari gruppi. Purtroppo non sempre la governance dei
distretti al Sud si è mostrata all’altezza dei compiti richiesti.
Il ruolo delle università e dei centri di ricerca
Per quanto riguarda i rapporti tra le imprese e università/centri di ricerca, essi sono stati particolarmente
fruttuosi nei distretti DARE e Agrobiopesca, dove la gran parte delle imprese non aveva sviluppato una
capacità autonoma di ricerca e quindi università e centri di ricerca hanno prodotto e trasmesso conoscenza
altrimenti non disponibile. In questi casi la collaborazione ha permesso alle università di acquisire una
31
In realtà vi è una vasta letteratura (si veda Howells, 2006 ) che evidenzia l’importanza di differenti organizzazioni non
necessariamente pubbliche che svolgono il ruolo di intermediari nei processi innovativi facilitando i legami fra attori che sono
impegnati nella produzione di conoscenza. Anche nel caso della regione Toscana, ove vi sono distretti marshalliani come nelle
Marche, alcuni lavori empirici hanno evidenziato il ruolo positivo di tali intermediari sia per le performance delle imprese (Caloffi
et al., 2013) e sia per la formazione delle reti innovative (Caloffi et al., 2013)
70
maggiore sensibilità rispetto alle esigenze concrete delle imprese, e queste ultime hanno avuto l'occasione di
usufruire delle conoscenze e competenze delle università per risolverli. Questo risultato è in linea con una
recente indagine di SRM (2013) dove si evidenzia che la percentuale di imprese del Mezzogiorno che hanno
realizzato innovazioni grazie alla collaborazione con le università è maggiore della media nazionale. Nel
settore manifatturiero tale percentuale è pari all’11,5% delle imprese intervistate, contro il 9,7 % nazionale.
Nel settore alimentare essa è pari al 28,3% per il Mezzogiorno ed al 12,5% per l’intera Italia. Quindi il
settore alimentare, a conferma di quanto trovato per i distretti DARE e Agrobiopesca, trova nell’università e
nei centri di ricerca esterni un possibile sostituto al fatto che le imprese, per le loro ridotte dimensioni, non
hanno sviluppato adeguate competenze interne per la R&S. Un ruolo positivo dell’università, ma non
necessariamente indispensabile, vi è stato nel caso del distretto R&D.Log, dove la grande impresa nazionale,
pur sviluppando al proprio interno attività di ricerca, ha avuto la possibilità di utilizzare risorse
complementari presenti nell’università. Nel caso delle Marche, non sembra che i centri di ricerca esistenti
nella regione abbiano svolto un ruolo rilevante32
. In questo caso è possibile che il partner università non era
adeguato e che l’obbligo del bando a collaborare con università localizzate nella regione abbia reso meno
proficua la collaborazione33
.
In generale si può dire che la condizione per l’efficacia della collaborazione tra università e imprese è che
l'offerta di R&S delle università sia in grado di soddisfare i bisogni di innovazione espressi dalle imprese e
dal loro mercato. D’altronde la letteratura sottolinea, ed il modello della tripla elica ne è un esempio, che
l’università svolge un ruolo cruciale nei distretti ad alto livello di tecnologia basati su settori ad alto
progresso tecnico. Si potrebbe dire dunque, alla luce dei risultati da noi trovati e delle conclusioni della
letteratura, che le università hanno un ruolo rilevante nel supportare la ricerca collaborativa in settori
tradizionali ed in contesti dove l’attività di R&S è poco sviluppata e la capacità di assorbimento delle
piccole imprese è bassa34
. Ciò è vero anche nelle aree ove sono concentrati settori ad alto progresso tecnico
e i centri di ricerca e l’università sono produttori di conoscenza molto avanzate. In situazioni intermedie,
come quella delle Marche dove non vi sono settori ad alto progresso tecnico e la produzione di conoscenza,
anche se modesta, viene svolta dalle imprese, il ruolo dell’università è meno rilevante. In ogni caso, le
informazioni raccolte con l’analisi dei documenti e le interviste sul campo mostrano che i progetti di ricerca
collaborativi hanno spesso rafforzato la fiducia delle imprese nei confronti delle università e dei centri di
ricerca, rendendo chiari i vantaggi dell’innovazione e incrementando quindi la loro propensione alla
collaborazione. In molti casi la politica per i distretti tecnologici ha permesso, nel Mezzogiorno, di passare
da una situazione di assenza di rapporti alla messa in relazione di soggetti che precedentemente non avevano
collaborato. Anche per le imprese che avevano rapporti di tipo consulenziale si è avuto un miglioramento
della qualità delle collaborazioni che invece già esistevano, grazie all’aumento della frequenza delle
interazioni tra i soggetti collegati. Molte delle imprese intervistate hanno dichiarato che collaborerebbero di
32
Anche nella regione Toscana, che ha caratteristiche simili alle Marche, alcuni lavori (Caloffi et al., 2013; Mariani e Mealli,
2014) evidenziano che la presenza delle università nei consorzi non migliora la performance delle piccole e medie imprese. 33
L’eliminazione nel bando pubblico del vincolo a favore dell’università locale probabilmente non avrebbe modificato la scelta
delle imprese. La letteratura mostra, infatti, che la prossimità geografica ha un ruolo determinante nella collaborazione fra imprese
e università (D’Este et al., 2013). 34
La letteratura sui determinati della collaborazione università-impresa non dà risultati univoci. In un lavoro sulle piccole imprese
giapponesi (Okamuro, 2007) si evidenzia che la collaborazione con le università migliora le performance delle imprese. Anche
Maietta (2015) trova per settore alimentare un effetto positivo ma significativo solo al 10% della cooperazione università –
imprese sull’innovazione di prodotto.
71
nuovo volentieri in futuro con gli enti di ricerca. In questi casi il ruolo del distretto come attore autonomo è
stato di grande importanza. Esso ha permesso a molte piccole imprese di avvicinare l’attività di R&S. Resta
ovviamente il rischio di comportamenti di rent-seeking in particolare per quanto riguarda le imprese di
maggiori dimensioni per le quali l’interesse alla collaborazione è più strettamente legato all’incentivo offerto
dal cofinanziamento pubblico.
Il ruolo della grande impresa
Per quanto riguarda il ruolo della grande impresa nazionale o internazionale, la letteratura evidenzia come
solo in alcuni casi (si veda il Capitolo 4) essa svolge un ruolo rilevante nella creazione di legami, in
particolare con le piccole imprese. La grande impresa solitamente è caratterizzata da proprie capacità di
condurre attività di ricerca, e in quanto tale, è meno dipendente dal trasferimento di conoscenze offerte dalle
università. Tuttavia, nel caso di R&D.Log, la grande impresa è sembrata più interessata a sviluppare rapporti
di collaborazioni con l’università per aumentare la propria competitività che con le piccole imprese.
Collaborazioni reciprocamente fruttuose fra grandi e piccole imprese possono avvenire allorché le piccole e
medie imprese hanno sviluppato una capacità autonoma di ricerca. La letteratura mette in evidenza che
effetti positivi della politica di sussidi alla R&S, in particolare nel caso della cooperazione, si hanno solo se
le piccole imprese hanno una adeguata capacità di assorbimento (Capitolo 2 ). Se non vi sono tali condizioni
si può sviluppare un conflitto fra grande impresa, entrata nel progetto per beneficiare degli incentivi, e
piccole imprese, desiderose anche di sviluppare proficui legami con il mondo esterno alla regione di
localizzazione. D’altronde, se le piccole imprese non riescono ad essere effettivamente utili, la grande
impresa potrà sviluppare un atteggiamento predatorio e poco utile al benessere sociale35
. In tali casi la
governance del distretto ha un ruolo cruciale nell’individuare i partners dei progetti, evitando che per
pressioni politiche o per opportunismo, partecipino attori poco adeguati. La governance del distretto
dovrebbe anche essere particolarmente efficace nel cogliere le possibili occasioni offerte dal contesto interno
ed esterno.
Caratteristiche delle imprese partner per una collaborazione di successo
L’analisi dei casi studio e della letteratura suggerisce che, affinché la collaborazione nella ricerca generi
effetti positivi, è preferibile che i partner: 1) siano motivati a partecipare al progetto sin dalle prime fasi della
sua ideazione; 2) condividano gli interessi di ricerca; 3) abbiano dimensioni pressoché simili; 4) siano
allineati e/o complementari in termini di conoscenze tecniche e capacità manageriali; 5) si fidino gli uni
degli altri.
L’aspetto relativo alla fiducia appare particolarmente importante. La fiducia genera effetti positivi nel medio
e lungo periodo, poiché contribuisce ad avvicinare il tessuto imprenditoriale all’innovazione, e di fatto ad
35
La letteratura evidenzia sia effetti positivi che negativi della presenza della grande impresa nei progetti collaborativi di R&S.
Okamuro (2007) stima che la presenza di una grande impresa come partners del progetto migliora la performances delle piccole e
medie imprese. Chistopherson e Clark (2007) sostengono, osservando la situazione di Rochester nel New Jersey, che le imprese
multinazionali hanno organizzato la rete di imprese locali così da massimizzare i benefici per loro, e nel contempo marginalizzare
le piccole e medie imprese. Analoga osservazione è fatta da Gray et al. (2001). D’altronde, l’esperienza del Mezzogiorno con la
polemica sulle cattedrali nel deserto, anche se spesso non giustificata, conferma le difficoltà nei rapporti fra grande impresa e
piccole imprese locali. L’esperienza del Mezzogiorno nell’aereospazio e nell’ICT mostra che l’effetto indotto più rilevante
riguarda le filiali di grandi imprese che si sono localizzate al Sud, al seguito dell’impresa leader. Le piccole imprese locali hanno,
come subfornitori, un ruolo molto marginale per le grandi imprese.
72
accrescere nel tempo (medio/lungo) la capacità di assorbimento e di apprendimento dei soggetti più deboli
del sistema. Inoltre, essa incoraggia ad intraprendere progetti di ricerca più rischiosi e di dimensioni
consistenti, che difficilmente si sarebbero avviati in autonomia, generando comunque un effetto espansivo
della spesa in ricerca e sviluppo del territorio. Anche nei casi in cui l’esperienza di collaborazione si è
rivelata infruttuosa, o complessa da gestire, può emergere tuttavia la consapevolezza dei possibili vantaggi
della collaborazione, e perciò la volontà di ripetere l’esperienza di progetti di ricerca collaborativa. In
generale si può dire che l’esperienza pregressa dei partner in progetti di ricerca può risultare determinante
per il successo o l’insuccesso della collaborazione. Dai casi studio analizzati sembrerebbe che vi sia stato un
accrescimento della fiducia fra gli attori, sia appartenenti al sistema della ricerca sia al mondo
imprenditoriale, come effetto delle politiche seguite. I soggetti coinvolti nei meccanismi di collaborazione
sono: 1) soddisfatti degli esiti della collaborazione, alla quale ex-post è riconosciuta una specifica utilità; 2)
consapevoli di aver avuto accesso a un network di relazioni molto più ampio e diversificato rispetto a quello
che altrimenti avrebbero conosciuto; 3) pronti a proseguire l’esperienza di ricerca collaborativa con i
soggetti dei quali si fidano. La complementarietà tra i partner per quanto riguarda le loro competenze è
ritenuta un elemento di successo per un progetto di R&S collaborativa (si veda anche il Capitolo 2 a questo
proposito).
Fattori che possono compromettere l’efficienza della collaborazione
Mentre è abbastanza chiara l’esistenza di una certa addizionalità (si veda sopra), non è altrettanto evidente se
i progetti di ricerca analizzati abbiano sempre soddisfatto il requisito dell’efficienza. E’ possibile che in
molti casi la realizzazione dell’obiettivo del progetto comportava costi minori di quelli che sono stati
riconosciuti. Ciò deriva da un classico problema di asimmetria informativa fra i proponenti del progetto e la
commissione esaminatrice. L’esistenza di differenze sostanziali nei costi imputati ai progetti e oggetti di
cofinanziamento pubblico e costi effettivi, in particolare nelle regioni meridionali, è evidenziata da molta
letteratura36
.
Un altro punto da sottolineare è che un numero elevato di attori per progetto richiede costi di coordinamento
elevati, con possibili effetti negativi in termini di efficienza. In modo analogo la dimensioni degli
investimenti individuali, specie nei cluster composti da piccole e medie imprese che hanno una limitata
capacità di management, può sostanzialmente aumentare i costi di coordinamento e ridurre l’efficienza.
Quindi particolare attenzione deve essere posta a queste due variabili, tenendo particolarmente conto della
tipologia del settore considerato. Da questo punto di vista, l’introduzione di soglie minime per la
presentazione del progetto, come è avvenuto in alcuni bandi dei DT del Mezzogiorno, può favorire
comportamenti opportunistici e ridurre l’efficienza della spesa. Tali soglie minime potrebbero avere
aumentato il numero degli attori per progetto che, come abbiamo visto nei distretti del Mezzogiorno,
appaiono alquanto elevati. Il problema è che la soglia minima deve essere adattata alle specificità del settore
ed in particolare all’esistenza o meno di economie di scala. Si potrebbe comprendere il vincolo di una soglia
minima elevata in settori tecnologicamente avanzati ma non in altri, come ad esempio quello agroalimentare,
caratterizzato da imprese di piccole dimensioni.
36
Anche il lavoro del 2014 della Confcommercio “La spesa pubblica regionale” affronta questo problema.
73
Un ulteriore aspetto critico emerso dalle interviste riguarda la lentezza delle procedure amministrative che
può avere gravi effetti negativi sul successo della politica per la collaborazione. I procedimenti per
l’approvazione dei progetti sono spesso troppo lunghi. A volte dalla presentazione del progetto alla sua
approvazione passano diversi anni e questo blocca l’attività del distretto, la cui operatività è fortemente
legata al sostegno pubblico. Inoltre, risulta troppo lunga anche la tempistica relativa alla stipula degli
accordi, all’avvio dell’attività e all’erogazione dei finanziamenti. Questi problemi sono presenti in tutti i casi
di finanziamenti pubblici ma sono acuiti allorché vi siano diversi partners che devono collaborare. In molti
casi il mancato coordinamento dei partners rende più complesso sia il soddisfacimento dei criteri per
ottenere i finanziamenti sia la fase di rendicontazione. Tutto ciò ovviamente allunga i tempi per la
costituzione della partnership e per l’erogazione dei fondi. Specialmente nel caso di piccole imprese, ciò
aumenta di molto i costi e porta i vari attori a gonfiare la richiesta di finanziamento. Questo ovviamente può
avere effetti negativi sul grado di addizionalità dei progetti in quanto le imprese, dopo un’esperienza
negativa relativa alla lungaggine dei finanziamenti, si limiteranno a fare domanda solo per progetti che in
ogni caso avrebbero realizzato.
Implicazioni dei risultati ottenuti per le politiche di cooperazione nella R&S
Criteri di selezione e ammissibilità al finanziamento pubblico
Alla luce delle considerazioni precedenti si ritiene che per il successo di un programma pubblico in favore
della R&S collaborativa, è importante che vi sia una chiara complementarietà dei partners per quanto
riguarda le competenze (si veda il Capitolo 2). Una particolare attenzione a questo aspetto eviterebbe la
partecipazione al progetto di soggetti che non posseggono specifiche competenze ma che vi aderiscono solo
per ragioni opportunistiche.
E’ importante inoltre, come già detto, fare molta attenzione a non consentire, specie nei settori tradizionali,
un numero troppo elevato di attori per progetto e limitare la spesa per ogni singolo attore. Questo implica
che non è opportuno stabilire soglie minime per progetto finanziato, date le elevate differenze settoriali.
Soglie minime, infatti, in aree di piccole imprese aumentano eccessivamente il numero di attori per progetto
con il rischio di elevare di molto i costi di coordinamento.
Per quanto poi riguarda la possibilità di regolamentare nei bandi la protezione legale dell’attività intellettuale
abbiamo visto nel Capitolo 2 che tale protezione non è vista dagli innovatori come un elemento
indispensabile. Alla luce di ciò appare difficile fornire regole rigide e precise per quanto riguarda la
combinazione ottimale di intensità della protezione legale e di livello dei sussidi.
La scelta della governance
Il problema della governance appare particolarmente importante nel caso dei distretti tecnologici, in quanto
essa può fare la differenza per quanto riguarda la politica a favore della R&S. Ad esempio, vi potrebbe
essere uno specifico apporto dell’organismo di governance grazie al quale le imprese investono di più in
R&S di quanto avrebbero fatto in assenza della struttura di governance, ma in presenza di un ammontare
analogo di sussidi pubblici. Se una tale differenza esiste, essa va imputata all’azione della struttura di
governance.
74
Proprio per questo bisogna fare particolare attenzione a che venga scelta la governance più adatta per il buon
funzionamento del distretto, tenendo bene in considerazione le condizioni del contesto di riferimento. In aree
ove sia le grandi imprese e sia le piccole e medie imprese hanno sviluppato una buona capacità di
assorbimento, la presenza di intermediari può facilitare il successo delle politiche collaborative. Tali
intermediari non devono tuttavia essere necessariamente pubblici né tanto meno è necessario che esista un
organismo strutturato denominato distretto tecnologico.
Nel caso di aree ove dominano piccole e medie imprese con bassa capacità di assorbimento, la presenza di
un DT ben gestito è in grado di stimolare gli innovatori a collaborare, di facilitare la presentazione delle
domande, e di meglio coordinare i vari attori. E’ chiaro che non sempre è facile riuscire ad avere una
gestione del distretto con tali caratteristiche per cui l’ente regione deve essere molto attento ad utilizzare le
forze già presenti e funzionanti sia fra le associazioni imprenditoriali sia in istituzioni preesistenti.
Struttura degli incentivi
Bisogna poi dedicare particolare attenzione ad un meccanismo di incentivi che favorisca la rivelazione dei
costi effettivi da parte degli attori. Ciò può essere fatto costruendo un indice (Del Monte, 2014) in base al
quale ordinare i progetti da finanziare. Tale indice, coeteris paribus, ha un valore inverso al contributo
richiesto da ogni attore per il progetto37
. Quanto più alto è tale indice, maggiore sarà la probabilità che il
progetto sia finanziato. Se gli attori chiedono un elevato valore di contributo potranno ricevere una somma
alta come incentivo, ma si troveranno ad avere un basso valore di tale indice e quindi saranno posizionati in
basso in graduatoria. La probabilità di finanziamento del progetto sarà bassa. D’altronde, se gli attori
chiedono un valore basso del contributo, risulterà un valore elevato di tale indice ed un alta probabilità di
essere finanziati. In tal caso, tuttavia, il finanziamento pubblico potrà essere insufficiente a finanziare il
progetto con il rischio di subire una perdita. L’esistenza di tale trade-off dovrebbe spingere i partecipanti al
progetto a richiedere un valore dell’incentivo non lontano da quello effettivo.
Inoltre, è bene ricordare che è l’inefficienza delle procedure relative alla scelta dei progetti ed al loro
finanziamento che influisce negativamente sull’ammontare dei finanziamenti richiesti e sulla loro efficienza.
Tale punto appare quindi molto importante per l’efficacia delle politiche collaborative.
37
Tale indice, coeteris paribus, ha un valore inverso al contributo richiesto da ogni attore per il progetto. Quanto più alto è tale
indice, maggiore sarà la probabilità che il progetto sia finanziato. Se gli attori chiedono un elevato valore di contributo potranno
ricevere una somma alta come incentivo, ma si troveranno ad avere un basso valore di tale indice e quindi saranno posizionati in
basso in graduatoria. La probabilità di finanziamento del progetto sarà bassa. D’altronde, se gli attori chiedono un valore basso del
contributo, risulterà un valore elevato di tale indice ed un alta probabilità di essere finanziati. In tal caso, tuttavia, il finanziamento
pubblico potrà essere insufficiente a finanziare il progetto con il rischio di subire una perdita. L’esistenza di tale trade-off
dovrebbe spingere i partecipanti al progetto a richiedere un valore dell’incentivo non lontano da quello effettivo.
75
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