L’editorialedi Antonella Amendola
Se penso che il primo direttore è
stato Sandro Pertini mi viene un bri-
vido e mi sento piccola piccola. Cari
lettori, nell’assumere la direzione
dell’Antifascista forte è la commo-
zione, perché questo giornale ha ac-
compagnato la vita della mia famiglia
e di tante persone care: lo ricordo nel
formato più grande, ben impilato
nella severa biblioteca di mio padre
Pietro Amendola.
Fin da bambina ero curiosa di legger-
lo, andavo soprattutto a cercare tra
le pagine le fotografie, perché quei
volti di persone sobrie, dallo sguar-
do leale, sapevano raccontarmi con
semplicità e concretezza le mille sto-
rie dell’antifascismo italiano, tutte
diverse e pur tutte uguali nel comu-
ne denominatore di rigore morale e
amore per la libertà. L’antifascista è
qualcosa di più di una pubblicazione
cartacea, è quasi un piccolo organi-
smo vivente che racchiude il tesoro
inestimabile dell’esperienza vissuta e
della memoria: i padri lo consegnano
ai figli con trepidazione.
Sono passati tanti anni, viviamo in
un altro secolo, in un altro millen-
nio, eppure quella tragica vicenda di
dittatura, violenza, guerra che il no-
stro Paese ha vissuto rimane vicina,
ancora ci inquieta. Troppo evidente
è stata, da parte di certi ambien-
ti, in tempi recenti, la tentazione di
rovesciare il tavolo delle regole e di
oscurare la Costituzione. Troppo
smaccata la corsa verso l’illegalità
conclamata. Del resto non vivremmo
oggi la stagione del governo tecnico
se la politica, nel senso più nobile
della parola, avesse mantenuto saldo
nelle sue mani il governo della diffi-
cile situazione.
C’è ancora bisogno di antifascisti,
cari lettori. Noi siamo sentinelle vi-
gili pronte a cogliere i malesseri de-
rivanti dal mancato riconoscimento
dei diritti delle minoranze, dai nuovi
PORTA S. PAOLOdi Mario Tempesta
È tra le più imponenti e meglio conservate porte originali
dell’intera cerchia muraria di Roma Antica risalente al III
secolo d.C., forse sul luogo ov’era la Porta Raudusculana. Ad
oriente ed occidente della Piramide Cestia (fatta edificare
dal septemviro Caio Cestio Epulone tra il 18 e 12 a.C.) furono
costruite due porte che davano il passo alla Via Ostiense, la
strada che collega Roma ad Ostia - e quindi al suo antico porto,
e ad una sua biforcazione tracciata nell’immediato esterno
delle Mura. La duplicazione dell’asse stradale e degli ingressi
urbani era stata necessaria dall’intensità dei traffici tra Roma
e il Porto di Ostia. E la Piramide, quasi come un immenso
spartitraffico, divideva l’ingresso orientale, che dava origine al
“Vicus portae Raudusculanae” fino alla sommità dell’Aventino,
da quella occidentale che portava alla vera via Ostiense verso
gli “horrea”, i granai, della “Marmorata” lungo le sponde del
Tevere. Quest’ultima fu edificata come una piccola porta ma
venne presto chiusa sia per la crescita d’importanza del porto
l’antifascistamensile degli antifascisti di ieri e di oggi
Fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini anno LIX - n° 1, 2, 3 - Gennaio - Febbraio - Marzo 2012
Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma
AttualitàConvegno Bufalinia pagina 5
MemorieRenzo Laconia pagina 16
CulturaPino Aprilea pagina 8
NoiGaribaldo 100 annia pagina 18
Lettere... a Terracciano a pagina 23
Uno storico degno di questo nome non teme di affrontare con coraggio, lucidità, alcun tema, perché egli è mosso, deve essere mosso solo dallo “spirito di verità”, cercando di avvicinarsi con scrupolo di informazione e di metodo, per quanto è possibile (essendo la vicenda storica di una complessità inimmaginabile), sulla
10 febbraio Giorno del ricordo e suoi equivociNazionalismi, fascismo, nazismo, comunismo in Venezia Giulia, Istria, Dalamazia
di Nicola Terracciano
segue a pagina 2
segue a pagina 12
Manifesto ufficiale del Giorno del Ricordo 2012
I luoghi della storia
2
L’editorialerazzismi, dalle politiche che non
perseguono l’interesse nazionale, la
promozione del lavoro, dei giovani,
delle donne, ma solo i propri miopi
interessi di cassetta, la disgregazione
territoriale.
Troverete un giornale rinnovato e
più ricco di rubriche, più al passo coi
tempi. Ma come sempre il meglio ar-
riverà da voi, con i vostri contributi,
con la testimonianza della vita asso-
ciativa dell’Anppia, il cui presidente
Guido Albertelli voglio oggi ringra-
ziare per la fiducia che mi dà.
Ricordatevi che i grandi protagoni-
sti che hanno qualcosa da insegnare
siete voi.
base di documenti (senza documenti non c’è storia, ma altra cosa), a come sono andati “realmente”, “veramente” i fatti.
Le vicende storiche che hanno toccato le comunità di cultura, di lingua italiane in Venezia Giulia (con epicentro Trieste), l’Istria (con epicentro Pola e Fiume), la Dalmazia (con epicentro Zara e Spalato) sono complesse e intricate ed ancora oggi dividono e arroventano la memoria collettiva.
Quelle aree hanno conosciuto inse-diamenti di origine veneziana, quindi di cultura italiana, dall’epoca medie-vale, legati all’espansione economica, culturale della “Serenissima Repub-blica di Venezia”, che aveva il dominio dell’Adriatico, divenuto per secoli quasi un lago veneziano, contenden-dolo da un lato al mondo musulmano e dall’altro al mondo austriaco, che si era impadronito dell’area di Trie-ste dal 1382 (che conserverà tuttavia una larga autonomia e rivendicherà sempre la sua appartenenza, a partire dalla lingua, alla civiltà italiana) e poi di quasi tutta l’area iugoslava odierna (dalla Slovenia, alla Croazia, alla Serbia).
Nei secoli le comunità di civiltà italiana si sono concentrati nell’area costiera, distinguendosi socialmente ed economicamente dalle aree interne, abitate da comunità slovene, croate, serbe, montenegrine, di diversa cultura, religione (ortodossa, islamica), di diversa economia, contadina, più che cittadina e commerciale.
Questo dualismo, pur implicando uno strisciante stato endemico di tensione, non aveva provocato situa-zioni conflittuali clamorose fino alla crisi dell’impero multietnico austriaco che, di fronte al processo nazionale italiano ottocentesco, per contrastarlo, appoggiò da un lato un sentimento-anti-italiano negli sloveni e nei croati, largamente utilizzati nella repressione dei moti nazionali italiani, sia alimentando un nazio-nalismo serbo, sempre in funzione anti-italiana, secondo la tattica antica del dividere, per continuare a gover-nare quel complesso impero di origine medievale.
Risale quindi all’Austria, nella sua opposizione al processo di unifica-zione italiana, la prima lucida politica di aizzamento degli odi tra italiani e sloveni, croati, serbi, che avrà altri dolorosi capitoli tra Ottocento e Nove-cento.
Si ebbero interventi repressivi contro l’identità italiana delle comu-nità esistenti all’interno dell’impero asburgico, colpendo scuole, tradizioni, ruoli sociali, suscitando per reazione nelle comunità italiane quel fenomeno storico che si chiama “irredentismo”, il desiderio cioè di ricongiungersi alla madrepatria italiana, a quella civiltà italiana, che erano la matrice della loro identità storica.
L’Italia nello slancio ancora risor-gimentale rispose a quell’appello entrando per questo motivo nella I guerra mondiale, accettata e sentita come quarta guerra di indipendenza dall’Austria, per completare il processo di unificazione con il ritorno del Tren-tino, della Venezia Giulia, dell’Istria e delle comunità costiere della Dalma-zia. Questa era la sostanza dell’accordo segreto di Londra, col quale nel 1915 il Regno d’Italia entrò in guerra contro l’Austria, la Germania, la Turchia.
La vittoria con un prezzo inimmagi-nabile di sacrifici e di morti (600.000 morti e 1.200.000 feriti su una popo-lazione intorno ai venti milioni, che provocò una voragine generazio-nale, delle migliori energie giovanili del paese, che fu la causa profonda della crisi del dopoguerra) significò il sostanziale compimento del Risor-gimento con il ricongiungimento di Trento, Trieste, Gorizia, l’Istria, ma con limitazioni nei confronti degli accordi, nel senso che rimasero fuori le comunità dalmate, compensate con
la conquista dell’Alto Adige, del Sud Tirolo austriaco.
Si aprì allora una divisione poli-tica ed ideologica nel paese, con il mito falso della “vittoria muti-lata”, portata avanti da ambienti nazionalisti (si pensi a D’Annun-zio) e del primo fascismo, che arroventò i rapporti tra il Regno d’Italia ed il neonato Regno di Iugo-slavia, che rivendicava secondo lo stesso principio nazionale richia-mato dagli italiani la maggioritaria presenza croata, slava da Fiume in giù, appoggiato dalle altre potenze vincitrici come Francia, Inghilterra, Stati Uniti (col presidente Wilson).
Sarebbe occorso il prevalere della linea della preveggente saggezza di un Gaetano Salvemini, che propo-neva (con accuse isteriche subìte di “disfattista”) di cedere l’Alto Adige, meglio Sud Tirolo, territorio sostan-zialmente austriaco, di lingua e cultura tedesche (come è anche oggi) e richiedere dall’alto di questo comportamento il riconoscimento dei diritti storici delle comunità italiane costiere della Dalmazia.
Invece prevalse un atteggiamento accesamente nazionalista italiano, accortamente utilizzato dal fasci-smo nella sua propaganda e nel suo affermarsi. Mussolini definiva gli slavi barbari, il cui numero non poteva essere titolo di diritti contro gli esponenti minoritari della seco-lare civiltà italiana.
Quando ci fu l’avvento pieno del totalitarismo nero, fu attuata “una italianizzazione forzata e violenta” di tutti i territori conquistati con la I guerra mondiale, dall’Alto Adige, all’Istria, colpendo l’uso della lingua, i sistemi scolastici, le forme organizzative austriache, slovene, croate, slave, suscitando una reazione sorda anti-italiana e antifascista, ponendo le basi delle tragedie successive.
Risale quindi al fascismo in modo massiccio e diretto la principale responsabilità delle sanguinose vicende dei decenni successivi.
Con la conquista della Iugosla-via nel 1941 tra Germania nazista e Italia fascista, ci fu un ulteriore processo di italianizzazione forzata, estesa alla Slovenia, ad aree croate, che non poteva non suscitare, come in altre aree dell’Europa, una “Resi-stenza iugoslava” che ebbe varie
Attualità
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componenti ideologiche e politiche (dagli autonomisti ai comunisti, ai socialisti, ai monarchici).
La repressione fascista fu durissima con crimini di guerra (fucilazioni, distruzioni di villaggi con eccidi di bambini, donne, bambini), per i quali la Iugoslavia ha invano nel dopoguerra richie-sto di processore criminali italiani, come il generale Roatta (già impli-cato nel delitto fascista dei Fratelli Rosselli in Francia).
Il baratro degli odi tra italiani, visti tutti come fascisti assassini direttamente o complici, e l’ele-mento sloveno, croato, serbo si accrebbe, fino a divenire un abisso, che fu alla base degli eccidi degli anni successivi, così come avvenne in tante altre parti dell’Europa orientale.
Sono stati il fascismo, anzi-tutto, soprattutto, e il nazismo, ad essere responsabili di fronte al tribunale della storia e dell’u-manità, perché sono stati essi con i loro comportamenti storici di violenza e prepotenza disumane a creare le condizioni storiche tragi-che e terribili delle rese di conti, delle vendette che da parte slovena, croata, serba, si sono avute negli anni successivi.
Il fascismo si rese ulterior-mente responsabile anche dopo la sua caduta a Roma nel luglio 1943,
quando Mussolini, liberato da Hitler, costituì nel Centro-Nord la nuova versione fascista-nazista della Repub-blica Sociale di Salò, attuando con i nazisti ulteriori crimini, collaborando anche per lo sterminio degli ebrei, per la Shoah, che si svolse anche in territo-rio italiano con il campo di sterminio della Risiera di San Saba a Trieste.
La Resistenza iugoslava, special-mente nella sua componente comunista, che faceva capo a Tito, portò avanti azioni di vendetta in modo maggioritario contro fasci-sti che si erano macchiati di crimini o di attiva complicità con il regime, ma coinvolse anche innocenti, che furono atrocemente massacrati e buttati negli inghiottitoi carsici dell’area, chiamati, “foibe”, o annegandoli con pietra al collo lungo la costa.
Le cifre parlano di 5.000-15.000 vittime tra il 1943-1945, comprendendo anche quelli che furono mandati in campi di concentramento, dove mori-rono per le condizioni drammatiche di quegli ambienti.
Già allora cominciò il primo esodo giuliano-dalmata, quello che si defini-sce “l’esodo nero”, cioè di quei fascisti direttamente o indirettamente respon-sabili di crimini e azioni poco chiare, che scapparono.
Gli aspetti atroci di quelle vendette e del successivo tragico fenomeno dell’esodo di circa 250.000 italiani della Venezia Giulia, dell’Istria, della
Dalmazia dopo il 1945 e fino al 1956 sono da imputare al totalitarismo comunista iugoslavo, che impose un regime unico violento e una slaviz-zazione forzata di quei territori, coinvolgendo nella repressione non solo gli italiani, ma anche gli opposi-tori anti-comunisti.
Quei 250.000 italiani costretti all’e-sodo furono ospitati in 109 campi disseminati in varie parti d’Italia o emigrarono in altri paesi, integrandosi a poco a poco nella Comunità italiana, pur con episodi e momenti infami di settori della componente comunista italiana, che li giudicava con gli occhi ideologici di filo-fascisti o di antico-munisti.
Quindi nella fase finale delle vendette atroci e dell’esodo è stato il terzo tragico totalitarismo del Nove-cento, quello comunista, pur nella versione titoista, non russa, (che portò simpatie occidentali ad esso e quindi tendenza a non chiamarlo al tribunale della storia) ad essere il responsa-bile, accanto al fascismo, al nazismo già richiamati, a provocare la tragedia giuliano-dalmata.
Essa non può assolutamente essere messa a confronto con la Shoah, sia per le dimensioni numeriche (si pensi solo ai 6 milioni di morti ebrei, di cui due milioni di bambini), sia per le forme demoniache di eliminazione, sia perché gli ebrei non si erano macchiati di alcun fenomeno di violenza contro
La scomparsa di Giorgio Bocca
Era un giornalista non comune. Non comune per molti aspetti. Per esempio era sincero, roccioso, presuntuoso. Un po’ il carattere
degli uomini piemontesi di Giustizia e Libertà che frequentò durante la Resistenza, periodo formativo della sua giovinezza.
Di fatto quando incontrava una persona che non gli piaceva, sparava con la penna e così si fece molti nemici. Il suo pregio era la since-
rità, l’amore per la verità e la ricerca della documentazione
Quello che pochi giornalisti hanno, come lui, è l’efficacia dello scritto, la sintesi del pensiero, il destare piacere nella lettura.
Viveva negli ultimi anni in un Paese che non sentiva suo, così lontano
da quello per cui aveva combattuto, così che la denuncia era l’aspetto
più comune nei suoi articoli. Nei suoi libri più recenti predominante
era l’amore per la sua terra, per i posti nei quali aveva fatto il par-
tigiano, le montagne dove d’inverno è freddo, il mitra nella neve e
dove nei casali dei contadini si poteva trovare un po’ di caldo, senza
paura del tradimento.
Noi antifascisti l’abbiamo amato perché lo sentivamo nostro e nostre
sentivamo le sue battaglie giornalistiche contro il sistema senza ide-
ali che ci attanaglia da anni.
Bocca assomigliava molto a Enzo Biagi nella qualità della persona
e nel coraggio rispetto ai potenti. Non per caso entrambi facevano
parte delle formazioni Giustizia e Libertà.
Guido Albertelli
Giorgio Bocca
Attualità
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i tedeschi, gli italiani, gli austriaci, i polacchi o altri popoli che in modo diretto o indiretto collaborarono allo sterminio.
Chiunque compie questo paragone è un infame di fronte alla storia e all’u-manità.
Gli unici che non possono e non devono ricordare la tragedia giuliano-dalamata sono i fascisti e loro eredi, perché sono essi i principali respon-sabili, con i nazisti e i comunisti, di quell’evento. Possono farlo con spirito di umanità e di giustizia storica solo quelli che non sono stati e non sono fascisti-postfascisti, clericali, comuni-sti-postcomunisti.
È giusto il “Giorno del Ricordo”, è giusto che un popolo si pieghi a esplo-rare momenti neri e duri della propria storia, ma non doveva essere scelto il 10 febbraio, sia perché troppo vicino al 27 gennaio, “Giorno della Memo-ria” della Shoah, sia perché contesta sostanzialmente (in modo equivoco e indegno) quel trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947 tra l’Italia e le Potenze Alleate, che è vero segnò la concessione di quelle aree alla Iugosla-via, come avvenne per decine e decine di aree dell’Europa (si pensi al ritorno di aree tedesche alla Polonia), ma non implicò ad esempio la divisione dell’I-talia, come avvenne per la Germania.
L’Italia, pur essendo una delle principali responsabili con il suo tota-litarismo fascista della più devastante e disumana guerra della storia, alleata con il totalitarismo nazista di Hitler e di Auschwitz, del militarismo giappo-nese, non fu punita con la divisione del paese, come avvenne per la Germania, ad esempio, e quindi quel trattato del
10 febbraio non va condannato e colle-gato ad un evento di disumanità. Era il massimo che si poteva concedere ad una nazione responsabile e sconfitta e l’Italia fu salvata da altre punizioni giuste solo per la dignità di popolo espressa dall’antifascismo e dalla Resistenza, come richiamarono solen-nemente i presidenti del consiglio dopo la Liberazione, Ferruccio Parri, uno dei capi della Resistenza, ed Alcide De Gasperi, che firmò a Parigi il trattato.
Il “Giorno del Ricordo”, pur dove-roso, anche per l’ostracismo che veniva e viene dal mondo comunista e post-comunista e dagli ambienti militari, doveva avere altra data, altro richiamo e stare lontano dal 27 gennaio.
Esso è stato volpinamente, machia-vellicamente approvato come legge della Repubblica del 30 marzo 2004 n. 92 con il II Governo Berlusconi, che aveva l’appoggio di forze di deri-vazione fascista o post-fascista (e le doveva quindi assecondare e premiare) e al suo interno anche fascisti espliciti (come Tremaglia) o post-fascisti (come Fini, Alemanno, Gasparri), clericali come Buttiglione, leghisti indegni, nemici dell’Italia, che hanno appog-giato ogni iniziativa che implicava e implica critica all’Italia come nazione, trasformisti e traditori di tutte le risme, incapaci di uno scatto di dignità di fronte alla propria storia e alla storia del proprio paese.
Fascisti, post-fascisti, clericali, leghi-sti si sono impadroniti di un evento, così strumentalizzandolo e offendendolo, che potesse servire ad oscurare o atte-nuare soprattutto, anzitutto l’effetto dirompente annuale del “Giorno della Memoria” del 27 gennaio, che chiama
continuamente e giustamente e impietosamente al tribunale della memoria e della storia fascisti e cleri-cali, qualunquisti e opportunisti.
Come ulteriore tentativo volpino, machiavellico, di contrapporsi al 27 gennaio, quel governo ha approvato e considerato il 10 febbraio come “solennità civile” (art. 1, comma 3), qualifica e riconoscimento che non ha il “Giorno della Memoria” della Shoah (vedi il testo della legge 20 luglio 2000, n.211).
Il fatto che il 10 febbraio sia solen-nizzato spesso solo da ambienti fascisti, post-fascisti e clericali (che non hanno nessun titolo a farlo, anzi sono i responsabili di quella tragedia), nell’ostracismo, nel disinteresse delle forze comu-niste e post-comuniste, testimonia come su questa vicenda ci sia non un doveroso e solenne impegno di verità e di umanità, ma sostanzial-mente, secondo una considerazione personale, una lotta sorda e infame ideologica, di potere e di memo-ria tra l’egemone potere possente clerical-fascista-postfascista e suoi servi o utilizzatori opportuni-sti (tipo Berlusconi col codazzo di traditori di tutte le risme del suo governo e del suo schieramento, tipo Bossi col suo infame leghismo secessionista), interessati soprat-tutto ad allontanare al massimo da sé il collegamento con la Shoah e ad appiattire antistoricamente fasci-smo, nazismo, comunismo, quando il comunismo è stato dal 1941 al 1945 in prima linea alleato di Stati Uniti, Inghilterra, Francia contro nazismo, fascismo, militarismo giapponese con un costo di milioni e milioni di morti e che il campo di sterminio nazista di Auschwitz fu liberato emblematicamente dall’Armata Rossa, e il mondo comunista-post-comunista, fero-cemente attaccato al suo potere, ancora possente e pervasivo, inca-pace di una doverosa autocritica feroce di tanti aspetti tragici del passato comunista, leninista e stali-nista, nazionale e internazionale.
Resti dalle foibe da: blog.armandoleotta.com
Attualità
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Un convegno di successo nel decennale della scomparsaPaolo Bufalini e la costruzione dell’Italia democraticaNegli interventi ricordato l’antifascista, l’uomo politico, l’umanista
di Jolanda Bufalini
Il 15 dicembre 2011 si è tenuto a palazzo Giustiniani un convegno in ricordo di Paolo Bufalini a 10 anni dalla morte. L’iniziativa si è svolta a palazzo Giustiniani, in una affollata sala Zuccari. La prestigiosa sede del Senato è stata scelta e concessa perché Paolo Bufalini è stato senatore dal 1963 al 1992: trenta anni cruciali della prima repubblica durante
i quali egli ha dato il suo contributo alla costruzione della democrazia e di una maggiore giustizia sociale, in battaglie epocali che vanno dalla difesa dei braccianti agricoli di Avola, contro cui, il 2 dicembre 1968, la polizia aprì il fuoco, all’impegno per il superamento della Guerra Fredda, al lavoro – in collaborazione con il presidente del Consiglio di allora Bettino Craxi, per il nuovo Concordato. Tante erano le persone arrivate da Roma, i tanti che sono stati suoi compagni di partito o anche avversari ma che avevano nei suoi confronti stima e affetto (cito fra gli altri Alfredo Reichlin, Antonio Rubbi, Mario Quattrucci, Gianni Cervetti, Giulio Spallone, Bice e Franca Chiaromonte, Marisa Rodano, sapendo di fare torto ai moltissimi che ci hanno onorato della loro presenza), tanti giovani come l’attuale segretario del Pd romano Marco Miccoli, dalla Sicilia (Mimmi Bacchi, Simona Mafai, Marina Marconi), dall’Abruzzo (dove papà è ricordato in particolare per le lotte nelle terre dei Torlonia, nel Fucino, e dove, ora, mio fratello Marcello svolge principalmente la sua attività di musicista), da Bologna, dove viveva mio fratello Delio e, poiché i nipoti di Paolo sono sparsi a studiare in diversi paesi d’Europa, Alessandro Bufalini e Luca Mazzacuva sono arrivati dalla Spagna e dall’Olanda, Francesco Mazzacuva da Milano.
Giovani e anziani mescolati, in una combinazione che apre il cuore perché tiene insieme, nel ricordo di una persona a molti cara, la storia di generazioni diverse. Tanta era la gente, che era affollata anche una saletta adiacente collegata in video-conferenza.
Il convegno è stato il frutto di una mia proposta a cui hanno risposto con entusiasmo e prontezza Guido Albertelli, presidente dell’Anppia e Giuseppe Vacca, presidente del Gramsci, e si è avvalso della preziosa collaborazione di Giovanni Matteoli, che è stato per molti anni stretto collaboratore di Paolo e ora lavora presso la presidenza della Repubblica nello staff di Giorgio Napoli-tano, di Silvio Pons (direttore della fondazione Gramsci), di Giuseppe Mennella, funzionario alla presidenza del Senato, di Simonetta Carolini dell’Anppia, di Franca Franchi del Gramsci.
In prima fila, su uno scranno al centro della Sala sedeva, ad ascoltare il contributo dei relatori, il capo dello Stato Gior-gio Napolitano, che con Paolo ha condiviso, nel Pci, battaglie e impostazione ideale, entrambi collocati nell’area riformista di quel grande partito che ha organizzato nell’antifascismo e nei primi 50 anni della Repubblica il mondo del lavoro. In sala c’erano anche Clio e il figlio maggiore di Napolitano, Giovanni, coetaneo e amico, soprattutto, di mio fratello Marcello: il rapporto fra le famiglie Napolitano e Bufalini, infatti, è stato non solo politico ma di amicizia e consuetudine di incontri, nelle case o anche, in occasione di festività, di pranzi insieme.
Il mondo di relazioni amicali di mio padre era vastissimo, non solo politico perché egli era persona di grande cultura. Non dico un intellettuale perché Paolo considerava la sua posizione di politico colto come “superiore” a quella dell’intel-lettuale puro, che spesso – secondo la sua idea – con l’impoliticità pecca di schematismo. Fra i suoi amici c’erano poeti, come Michele Parrella e storici (Santo Mazzarino, Paolo Spriano, Giuseppe Boffa), artisti (Renato Guttuso). Nel tempo che io ricordo, le sue frequentazioni più assidue alle quali alla passione politica si combinava l’amicizia che coinvolgeva le famiglie erano queste: Giorgio e Pietro Amendola, Enrico e Letizia Berlinguer, Maurizio e Marcella Ferrara, Franco e Giuliana Ferri, Pietro e Laura Ingrao, Pio e Giuseppina La Torre, Emanuele Macaluso, Giorgio e Clio Napolitano, Anto-nello e Fulvia Trombadori. Un gruppo di romani: Annamaria Ciai e Renzo Trivelli, Claudio Verdini e Giuliana Gioggi. Il medico di Togliatti, Mario Spallone e il compagno di lotte in Abruzzo, Giulio Spallone. Prima del 1968 c’era anche Aldo Natoli, ancora negli album fotografici ci siamo noi ragazzini con i figli dei Natoli. Ma con la scissione del Manife-sto i rapporti si interruppero, tale era la durezza dell’epoca. Prima ancora, a Palermo, i Colajanni, Panzieri, Lombardo Radice. Una grande amicizia ci fu a Roma con Pancrazio De Pasquale che le lotte politiche interne avevano allontanato da Palermo quando mio padre vi arrivò
Al convegno del 15 dicembre 2011 gli oratori che hanno rievocato le diverse fasi della vita di Bufalini sono stati il presi-dente del Senato Renato Schifani, la presidente del gruppo Pd Anna Finocchiaro, Emanuele Macaluso, Albertina Vittoria,
Il presidente Napolitano saluta i relatori prima del convegno dal sito del Quirinale
Attualità
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Nicola Mancino, Ivano Dionigi, Gennaro Acquaviva, Guido Albertelli, Giuseppe Vacca; non mi dilungo sugli interventi perché l’Anppia sta preparando la pubblicazione degli atti.
Il presidente della Repubblica non ha parlato in quella occasione ma ha trovato il modo di ricordare Paolo Bufalini poco dopo, in occasione della cerimonia per la laurea honoris causa tributatagli dalla Università di Bologna. Riportiamo dall’articolo di Ilaria Venturi apparso su Repubblica Bolo-gna il 30 gennaio 2012: “Napolitano ha tenuto a far avere al rettore Ivano Dionigi anche un altro testo, ricordando il comune interesse intellettuale che li lega alla figura del senatore Paolo Bufalini: l’Ode rivolta a Mecenate di Orazio tradotta dallo stesso Bufalini «curando sino alle sfumature». Il Capo dello Stato ha concluso la sua lezione magistrale non a caso ricordando Nino Andreatta e Paolo Bufalini per «la stesura della risoluzione in Senato nell’autunno del 1977 con cui per la prima volta anche il maggior partito della sinistra italiana si riconobbe nell’impegno europeistico e nell’alle-anza Nato». Il Centro studi per la permanenza del classico dell’Ateneo di Bologna, fondato da Dionigi e ora diretto dai suoi allievi, sta pubblicando la nuova edizione delle tradu-zioni di Orazio e i quaderni con gli appunti personali dello stesso Bufalini. Per questo Napolitano ha anche portato una dedica a lui dello stesso Bufalini in latino, elogio a un suo discorso: «Tibi gratulor mihi gaudeo».
Toponomastica “romana”: intitoliamo una strada al fascista e razzista Giorgio Almirante
Il sindaco di Roma, Alemanno, ha riproposto di intitolargli una via
Il segretario de La Destra, France-sco Storace, ha chiesto al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, di mante-nere la promessa fatta ai suoi elettori di intitolare una via della città a Gior-gio Almirante.
Gli antifascisti e i democratici tutti non possono ignorare i trascorsi di Almirante. Questi fu segretario de La difesa della razza, rivista quindici-nale che apparve tra il 1938 e il 1943, espressione del più convinto razzismo del regime fascista. Fu caporedat-tore della rivista Il Tevere - periodico che si distinse per una campagna anti ebraica prima ancora della promul-gazione delle leggi razziali - e tra i firmatari del Manifesto della razza, precursore delle leggi razziali mede-sime.
Dopo l’8 settembre, Almirante aderì alla famigerata Repubblica di Salò - i cui scherani, al fianco dei nazisti, carceravano, fucilavano e deportavano partigiani e patrioti che combatte-vano per la libertà d’Italia - firmando egli stesso gli ordini di fucilazione. Nel
1947 fu infatti condannato per il suo collaborazionismo. In anni più recenti, nel 1973, la Camera dei deputati autorizzò la Procura generale di Milano a procedere contro di lui per “tentata ricostituzione del partito fascista’.
Non si può consentire che Roma, città medaglia d’oro della Resistenza, possa accettare tale proposta. L’intitolazione di una via o di una piazza deve rappre-sentare la storia e l’identità di un Paese per fornire ai cittadini, e ancor più alle nuove generazioni, un esempio di vita e un modello di cittadinanza: che esem-pio sarebbe intitolare una via a un fascista collaborazionista che contribuì in prima persona alla persecuzione antiebraica? E proprio a Roma che ha visto lo scempio dei 1024 deportati ebrei il 16 ottobre 1943?, che ha visto la barbarie delle Fosse Ardeatine?
Roma 1969. Almirante con i giovani fascisti davanti alla facoltà di Giurisprudenza
I partecipanti nella Sala Zuccari del Senato dal sito del Quirinale
Attualità
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L’ attività politica di O. L. Scalfaro, classe 1918, cominciò prestissimo nella sua Novara. Dirigente dell’Azione catto-lica, durante il ventennio aiutò gli antifascisti nella lotta clandestina. Nel 1946 fu eletto deputato alla Costituente e, da allora, fu sempre rieletto nella sua circoscrizione (Torino-Novara-Vercelli). In quella veste fu membro della commissione giustizia e nella giunta delle autorizzazioni a procedere. Magistrato, fu vice presidente della commissione speciale per la Corte costituzionale e ricoprì la carica di segretario e vice presidente del suo gruppo parlamentare. Consigliere nazio-nale della Dc, entrò nella direzione del partito durante la segreteria De Gasperi. Sottosegretario al Lavoro nel primo gabinetto Fanfani, nel governo Scelba fu sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e anche allo Spettacolo. Promosse in quel periodo la nascita dell’Opera nazionale ciechi civili e si batté attivamente per il ritorno di Trieste all’Italia e per la sistemazione degli esuli della terra istriana. Come sottosegretario allo Spettacolo mise a segno il risanamento degli enti lirici, teatrali e cinematografici dipendenti dallo Stato.
Sottosegretario alla Giustizia nei governi Segni e Zoli, dopo le elezioni del 1958 fu eletto presidente della commissione Interni della Camera; dal ’59 al ’62 fu sottosegretario all’Interno.
Ebbe il primo incarico da ministro, ai Trasporti, nel terzo governo Moro, carica ricoperta anche nel secondo governo Leone. Nuovamente ministro dei Trasporti nel primo governo Andreotti, nel secondo fu nominato alla Pubblica istru-zione e poi eletto alla vice presidenza della Camera. Rieletto deputato il 3 giugno 1979, Scalfaro fece parte della commissione Esteri e riconfermato nel ruolo di vice presidente della Camera.
Nel 1983, rieletto deputato per la decima volta, fu ministro dell’In-terno nel primo e secondo governo Craxi, ultimo incarico di governo da lui svolto. I funzionari che colla-borarono con lui lo ricordano «mattiniero, efficiente, instan-cabile, uomo di grande dirittura morale e correttezza». Craxi, all’e-poca presidente del Consiglio, gli conferì la delega per sottoscrivere accordi bilaterali internazionali in tema di lotta al traffico di stupefa-centi e contro il terrorismo. Scalfaro all’Interno si pose il problema dell’ordine pubblico negli stadi, e costituì il primo comitato nazionale in collaborazione col Coni.
Nel 1987 il Presidente della Repubblica Cossiga gli affidò l’incarico di formare il governo, incarico al quale rinunciò.Come magistrato, Scalfaro fu Pubblico ministero presso le corti d’assise speciali di Novara ed Alessandria e, lo ha ricor-dato più volte, visse un’esperienza di profondo travaglio che segnò la sua vita: sostenne l’accusa in un processo contro un fascista poi condannato a morte pur dichiarandosi, già allora, contrario alla pena capitale.
Nel 1992 ritornò ai vertici delle istituzioni prima con una breve parentesi da presidente della Camera quindi - in una situazione politica assai complessa: si era in piena “tangentopoli” e la pressione della mafia sugli apparati dello Stato culminava nell’assassinio del giudice Falcone a Capaci - con il salto al Quirinale, il 25 maggio. Un settennato complesso e caratterizzato soprattutto dal lungo confronto-scontro con il primo governo Berlusconi. Nel 1999 il passaggio delle consegne a Carlo Azeglio Ciampi e il trasferimento a Palazzo Giustiani come senatore a vita.
Strenuo difensore della Carta costituzionale, al quale spetta di diritto il riconoscimento di Padre della Patria, nel 2006 fu presidente del Comitato “Salviamo la Costituzione”, poi divenuto Associazione e del quale l’Anppia è stata tra i fonda-tori, e capeggiò il Comitato per il NO al referendum sulla riforma costituzionale, composto dai partiti del centro sinistra, dalle principali organizzazioni sindacali, dai Comitati Dossetti e dalle associazioni Libertà e giustizia, Acli, Giovani per la Costituzione ed altri.
Per dieci anni è stato presidente dell’INSMLI (Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia) sostenendo la difesa della memoria e dei valori della Resistenza, partecipando a tutte le iniziative utili alla diffusione e alla conoscenza dei principi e delle regole della democrazia italiana che aveva contribuito a delineare nella sua veste di Costituente. Per questo prediligeva il rapporto coi giovani, con i quali riusciva ad instaurare un rapporto grande empa-tia. Tutta l’Anppia – il nazionale e le federazioni provinciali con le quali ha costantemente collaborato – sente il vuoto lasciato, ancora una volta, da figure come Oscar Luigi Scalfaro nella società civile, nella politica attiva, in tutte quelle forme di espressione che mettono al centro della vita di una nazione moderna la partecipazione responsabile di ogni cittadino, nel nome e nel segno della democrazia attuata e non agognata.
La scomparsa di Oscar Luigi ScalfaroÈ morto nel sonno il 29 gennaio, a 93 anni. Per suo volere le esequie sono state celebrate in forma privata anziché con funerale di Stato, come previsto per i presidenti emeriti della Repubblica
Oscar Luigi Scalfaro Foto di archivio storico
Attualità
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Con il suo primo libro «Terroni», rilettura impietosa della conquista del Sud da parte dei piemontesi, ha venduto 250.000 copie. Un fatto straordi-nario per un libro di storia nel nostro Paese. Ora Pino Aprile, che continua
a definirsi semplicemente giornalista, con «Giù al Sud», quasi un’opera corale ricca di voci e spunti, investiga i tanti fermenti di un Sud che non vuole più essere solo il grande deposito di braccia per lo sviluppo del Nord. In questa intervista esclusiva l’autore torna sul Risorgimento mancato, inficiato dal sangue, esamina la politica nei confronti del Sud dalla prima repubblica a oggi e consiglia al governo Monti di affrontare al più presto il tema bollente.
Secondo lei «Terroni», caso lette-rario strepitoso dello scorso anno, ha provocato qualche scossone nel dibattito degli storici togati? Pino Aprile è riuscito a seminare il dubbio sulla versione più patinata dell’u-nità d’Italia?
«All’inizio, c’è stato il silenzio. Poi, qualcuno, e con particolare riferimento alle stragi, ha detto che si trattava di fantasiose ricostruzioni. Probabilmente, da accademico, trovava fastidioso il raccontare la storia in modo così divul-gativo, sentimenti inclusi. Ma io ero emozionato (avvilito, furioso, deluso, addolorato) mentre scrivevo di quelle pagine buie del Risorgimento e della discriminazione a danno del Sud, ancora dopo 150 anni. E, con una scelta che chiunque può legittimamente criti-care, ho deciso di riportare anche le emozioni che mi agitavano, mentre ne riferivo. Mi è parsa una forma di onestà in più, invece di fingere un distacco e una freddezza che non avevo. E non ho. Quando l’imprevista dimensione del successo di “Terroni” non ha potuto più
giustificare il silenzio, alcuni (quelli di prima, ma non solo) hanno detto che si trat-tava di cose note. Vero, ma non a tantissimi, se la reazione più comune, fra i lettori, è lo stupore, lo sconcerto. Direi che a chiudere questo genere di polemiche è stato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che il 14 agosto 2011, nel cento-cinquantesimo anniversario della strage di Pontelandolfo, tramite Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni dell’Unità, con un suo messaggio ha chie-sto perdono agli abitanti di Pontelandolfo per il massacro compiuto dai bersaglieri guidati dal colonnello Pier Eleonoro Negri. Da 50 anni i sindaci del paese doman-davano ai diversi presidenti della Repubblica il riconoscimento di paese martire, senza avere risposta. “Lei non è uno storico”, mi ha obiettato un accademico. Vero, mai preteso di esserlo: sono un giornalista, ovvero un divulgatore e uso linguaggio e tecniche proprie della mia professione. La più letta storia d’Italia l’ha scritta un giornalista, Montanelli».
In sintesi che cosa accadde al Sud in quegli anni? Lei ritiene che l’impresa di Garibaldi e il piano strategico dei piemontesi siano assimilabili a una mera guerra di conquista coloniale?
«Di sicuro Garibaldi non voleva quel che poi accadde, ebbe l’onestà di dirlo e di denunciare le sofferenze, l’oppressione alle quali furono sottoposti i meridio-nali. Persino Bixio si lamentò in Parlamento del troppo sangue che si spargeva al
Sud. Detto da lui, fucilatore seriale! Cavour si sarebbe accontentato di un regno del Nord. Ma colse l’occa-sione e governò gli eventi. Nessuno dei “padri della patria” era mai stato al Sud, e molti non ci andarono mai nemmeno dopo: ne sapevano (e il verbo può trarre in inganno) per sentito dire. E dire male. Il Sud non era più povero del Nord, non era arretrato, aveva oltre il doppio degli studenti universitari del resto d’Ita-lia messo insieme. Quanto al regime oppressivo, mentre il Piemonte giustiziava quasi il doppio dei condannati a morte della Francia che era quattro volte più popolosa, il Regno delle Due Sicilie mandava sul patibolo solo Agesilao Milano, che aveva infilato la sua baionetta nella pancia del re! Conquistato il Sud, i massacri furono tali che, a detta di Napoleone III, alleato del Piemonte, i Savoia fecero in un anno quello che i Borbone non avevano fatto in un secolo. Il Sud venne trasformato in colonia interna, e tale è ancora oggi, sulla scorta del sistema inaugurato dalla Gran Bretagna per avviare la rivoluzione industriale. Si pensi che cosa erano Irlanda, Scozia, Galles per la Gran Bretagna. Le aziende meri-dionali, fra le più grandi d’Italia, furono chiuse o fatte fallire. Le colo-nie interne devono fornire clienti e braccia a buon mercato, non merci in concorrenza».
Che giudizio dà dei Borboni? È d’accordo con quanto affermato recentemente da Paolo Mieli e cioè che i Borboni persero il regno perché trascurarono di colti-vare le alleanze internazionali, in particolare il rapporto con gli inglesi?
«Completamente d’accordo. Lo dico ora e vi avevo fatto cenno (con minori argomenti) nel mio libro. Il mondo mutava velocemente in quegli anni. Forse si può fare un paral-lelo con quel che avviene oggi, con il crollo dell’impero sovietico, la comparsa di una forma molto potente e aggressiva di revanscismo islamico, l’irrompere di paesi eufemistica-mente in via di sviluppo nel ruolo di
Pino Aprile foto di Massimo Sestini
Fratelli-coltelli: l’epopea dell’unità vista dal SudIntervista a Pino Aprile, autore del caso letterario dell’anno scorso, Terroni, in cui narra la storia dell’unità d’Italia vista dal Sud
di Antonella Amendola
Cultura
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potenze economiche mondiali, dalla Corea, al Brasile, alla Cina. Chi, come il Regno delle Due Sicilie, non entrò nel gioco grosso, alleandosi ai forti per abbattere i deboli (non necessariamente piccoli: fu disinte-grato l’impero austroungarico, poi quello ottomano), invece di governare il cambiamento lo patì. Mieli lo ha raccontato come meglio non si può».
Ritiene che la politica nei confronti del Sud, nei governi della prima repubblica, dal dopo-guerra, fu male impostata? A che cosa servì la Cassa per il Mezzo-giorno?
«Il Sud fu ed è il bancomat d’Ita-lia. Chi accusa il Sud del “sacco del Nord” trascura la curiosa circo-stanza di un ladro che diventa sempre più povero del derubato! Già nei primi mesi dell’Unità d’Italia ci sono osservatori del Nord e del Sud che raccontano la spoliazione del Mezzogiorno. Inascoltati, dileggiati, costretti a lasciare il Parlamento. Francesco Saverio Nitti poi mostra, con le carte a sua disposizione, in quanto Presidente del Consiglio, come i soldi del Sud vengono rastrel-lati e portati al Nord, con tasse squilibrate, spesa pubblica concen-trata al Nord, commesse statali solo al Nord. La Cassa per il Mezzogiorno nacque con ottime intenzioni, fece molto bene, all’inizio, poi divenne sempre più uno strumento per fornire risorse a potentati e clientele locali, gregari di quello economico setten-trionale, e dirottare la gran parte dei fondi al Nord. Il massimo che si spese, con la Cassa, per fare quello che nel resto d’Italia si faceva di più e meglio e prima (strade, fogne, ponti, bonifiche) fu lo 0,5 per cento del prodotto lordo: un duecentesimo. E il restante 99,5? Oggi non è cambiato niente: andate a vedere, su www.nelMerito.it, la ricerca del professor Gianfranco Viesti, su come sono stati spesi circa 46 miliardi di euro di fondi per le aree sottoutilizzate (Fas: quasi tutti i soldi sono stati sottratti e usati per altro, specie al Nord)».
Il governo Monti per ora non ha parlato di Sud. Ritiene che ci possa essere un nuovo impegno in quella direzione?
«Credo (spero) che Monti si sia reso conto dell’errore fatto nel dimen-ticare il Sud, come fosse un fardello appeso alla sola parte d’Italia di cui
valga la pena occuparsi. Sospetto che il suo ministro per la Coesione nazio-nale, Fabrizio Barca, lo abbia aiutato a comprendere come stanno le cose. E il suo incontro con gli amministratori regionali e comunali del Mezzogiorno può avergli fornito elementi utili: è uno che prende appunti. E poi, per quel che s’è visto finora, persino li rilegge».
Lei è forse il primo scrittore che ha parlato del movimento dei Forconi nel suo secondo libro, “Giù al Sud”. Di che cosa si tratta? Può essere una riedizione del Boia chi molla?
«Non credo. Ho conosciuto alcuni fondatori del Movimento, mentre il Movimento nasceva: dei dispe-rati, non rassegnati. Imprenditori agricoli, zootecnici, che hanno visto le loro aziende, magari attive da gene-razioni, sfiorire o chiudere per debiti con l’Inps (50mila su 200mila, in circa tre anni, mi dissero) svenduti a esat-tori di Equitalia. Aziende alle quali lo Stato chiede il rispetto di norme fiscali, contrattuali e sanitarie. Tutto giusto e costoso; peccato che quello Stato non garantisca, poi, anche il valore del prodotto così ottenuto, che va sul mercato allo stesso prezzo di quelli che giungono da paesi dell’Est o africani, ai quali non si impongono gli stessi obblighi, gli stessi costi. La rivolta dei Forconi è genuina, nasce dal mancato ascolto delle ragioni di gente operosa e trascurata. Il che non esclude che orga-nizzazioni opportunistiche, criminali (la mafia) o politiche cerchino di usarla. Ma almeno finora i Forconi hanno mostrato di sapersi difendere».
Tra le tante realtà meridionali portate alla luce da «Giù al Sud» quali crede che possano fare da volano a un’effettiva ripresa del Mezzogiorno?
«Tutto il Sud si sta muovendo, in modo scoordinato, ma sempre più alla ricerca di progetti, azioni unificanti. Non è detto che riesca a farlo davvero. Ma quello che sta accadendo in Calabria è stupefacente, con i giovani magnifici di “Io resto in Calabria”, di “E adesso ammazzateci tutti” e cooperative e associazioni. Non so dove porterà tutto questo, so che non c’era mai stato».
La secessione invocata dai leghi-sti, nel quadro dell’Europa in crisi, è diventata un vuoto slogan o ancora c’è chi ci crede?
«C’è chi ci crede, minoranze, al Nord e al Sud. Al Nord ne parlano; al Sud, se la disattenzione e l’insulto continueranno,
la tentazione può diventare più seria, diffusa (e persino giustificata) che al Nord».
Tra i pensatori meridionalisti del passato chi ancora oggi è d’attua-lità?
«Tutti, perché ognuno di loro ha portato ricerca, saggezza, conoscenza, cui chiunque voglia occuparsi dell’ar-gomento deve abbeverarsi. E quei meridionalisti sono sempre stati i migliori uomini del loro tempo: Fortu-nato, Nitti, Salvemini, Dorso, Rossi Doria, Zanotti Bianco, Saraceno, Fiore».
Umanamente come si è trovato a dirigere grandi settimanali del Nord?
«Benissimo. Il Nord non è il razzismo dei Borghezio, dei Calderoli, dei sindaci che vogliono usare gli extracomunitari come lepri per allenare i cacciatori. Gli inglesi dicono che è il barattolo vuoto che fa più rumore, e poi non dimenti-chi che io ero il meridionale, ma pure il direttore (o vicedirettore). Per cui potevi sentirti dire: “Sei meridionale, ma sei bravo”. Frase nella quale, nascosto da un doppio complimento, si celava un pregiudizio inconsapevole».
Quale sarà il suo prossimo impe-gno di scrittore?
«Ho ancora qualcosa da dire sul Sud. Abbiamo in troppi taciuto per troppo tempo».
La copertina del nuovo libro di Pino Aprile
Cultura
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per tutto il novarese seguendo gli scioperi e le altre manifestazioni. Nella zona si svilupparono quindi molti racconti, più o meno reali, di scioperanti che aspetta-vano di vedere apparire all’orizzonte la “macchina rossa” che iniziava così ad avere un significato simbolico. Nella battaglia di Lumellogno dell’agosto 1922, in cui si scon-trarono fascisti e proletari antifascisti della zona agricola della bassa Novarese, alcuni contadini racconteranno di aver creduto di vedere proprio l’autovettura di Ramella nella mani degli aggressori in camicia nera. Proprio tale evento avrebbe sancito la sconfitta del movimento del proletariato agricolo in quella sanguinosa battaglia.
In tutta l’Italia il fascismo dal 1940 aveva iniziato a diffondere la voce che gli aeroplani anglo-americani lanciassero sul territorio nazionale “caramelle avvele-nate” insieme a matite o penne esplosive. A supportare la nascita di tale leggenda, esisteva una cospicua diffusione di materiale di propaganda italiana e tedesca. Si trattava quindi di un vero e proprio atto di terrorismo mediatico messo in atto nei confronti dei bambini dal fascismo. Contemporaneamente, si era diffusa anche la leggenda del “Pippo”, un aeroplano antropomorfo, metà uomo e metà macchina, che passava e dispensava morte. Si trat-tava ,diceva la leggenda, di un aviatore solitario che agiva esclusivamente per mitragliare treni, camion e carretti civili. La leggenda serviva per accusare l’esercito avver-sario di essere crudele e di voler uccidere gli italiani. Non a caso a Bologna il mitico aereo veniva anche chiamato il “Pippetto ferroviere”, poiché bombardava vicino alle reti ferrate e ai suoi snodi, mentre al Sud avrebbe preso il nome di “Ciccio ‘o ferroviere”. La leggenda aveva però anche un altro scopo: convincere gli italiani, anche i più piccoli, di spegnere le luci quando, la notte, si temevano i bombardamenti. A dimostrazione di tutto ciò, nasceva persino una filastrocca che veniva cantata ai bambini:
«Sono Pippo,
volo dritto:
Se vedo un lumicino
butto un bombolino
se vedo un lumicione
butto un bombolone».
Anche Giovanni De Luna menziona in “La televisione e la nazionalizzazione della memoria storica”, la leggenda del Pippo che egli definisce come «la voce più inquietante prodotta dall’Italia in guerra» (p.212).
Insomma, “Spegni la luce che passa Pippo” di Cesare Bermani, edito da Odradek nel 1996, è un libro partico-lare, curioso per i suoi contenuti ma attento nel rispettare la più rigorosa ricerca scientifica. Un libro prezioso da conservare e da consultare ogni volta che un mito, una storia o una leggenda si presenta davanti a noi.
Vi sono scoperte che avvengono quasi per caso. Qualche giorno fa, cercando su internet pubblica-zioni e ricerche sulla Grande Guerra, mi sono
imbattuto in un volume curioso dal titolo certamente enig-matico. Ho scoperto così che “Spegni la luce che passa Pippo” di Cesare Bermani è una preziosa ricerca sulle voci, le leggende e i miti della storia contemporanea. È raro pensare al XX secolo come un periodo ricco di tradizioni orali ma a ben vedere queste interessano vari aspetti della nostra quotidianità. La loro natura storica è rimasta però a lungo inesplorata e il volume di Bermani cerca di colmare questa lacuna. Il titolo si riferisce giustappunto ad una delle tradi-zioni più diffuse della Seconda Guerra Mondiale, quella dell’aereo – il “Pippo”- che passava di notte e il cui ronzio era portatore di speranza o di morte. Il libro analizza i prin-
cipali miti sviluppatisi in Italia nel periodo contemporaneo e comprende, tra le altre, la trattazione degli amuleti di prima linea, delle lettere a catena e della storia del carro armato del PCI.
Tra le più interessanti, si può leggere la leggenda sociali-sta della “macchina rossa”. Secondo Ramella era il segretario della Federterra novarese nel 1918-1921, composta all’epoca da cinquantamila lavoratori. Ramella era l’uomo di punta dell’organizzazione socialista e dirigeva le grandi lotte contro il “caporalato” e a favore dell’introduzione delle otto ore per i lavoratori ortofrutticoli. La Camera del Lavoro di Novara gli aveva messo a disposizione una macchina rossa, con dipinte sul retro della carrozzeria “falce, martello e spiga”, e con questa il leggendario segretario si spostava
UNA BELLA SORPRESA
“Spegni la luce che passa Pippo”di Fabio Ecca
Cultura
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La Resistenza a Roma nei quartieri Prati e Trionfale
Il Circolo Giustizia e Libertà, fondato da partigiani attivi nella Resistenza romana, vive da oltre sessant’anni in Via Andrea Doria 79 ed è impegnato
nella trasmissione della memoria storica. Ha tra l’altro già organizzato un ciclo di convegni titolati “Momenti di libertà” nei quali si ricorda agli studenti e ai cittadini residenti la storia del quartiere nel periodo di Roma occupata dai nazisti, dal 10 settembre 1943 al 4 giugno 1944. Negli ultimi anni ha già realizzato quelli relativi ai Municipi XVII, V e XI.
Il successo di questi eventi ha indotto il Circolo ad ideare in collaborazione con la Scuola Romana dei Fumetti un libretto, curato da giovani sceneggiatori e disegnatori, sulla Resistenza nei quartieri Prati, Trion-fale e Valle dell’Inferno (ora Valle Aurelia) che risulti efficace per cogliere l’interesse e la curiosità di altri giovani per un tempo che sembra lontano ma è sempre vivo nei ricordi di chi lo ha vissuto e dei loro figli e che rappresenta un simbolo dei valori morali e civili della città. Sono stati scelti per essere rappresentati nei fumetti cinque personaggi con storie diverse ma tutti simboli della lotta al fascismo e al nazismo.
Questa pubblicazione, costata un anno di lavoro, è destinata gratuitamente agli studenti della terza media delle scuole pubbliche romane. Il Circolo, assolutamente apartitico, garantisce l’obiettività dei racconti e la verità dei fatti tutti documentati. La speranza che lo anima è quella di riuscire a pubblicare, con il patrocinio del Comune di Roma e dei Municipi, le storie di tutti i quartieri romani coinvolti in avvenimenti dolorosi ma eroici ad un tempo, durante l’occupazione nazista. Il Circolo GL ringrazia la sensi-bilità della consigliera di Roma Capitale Maria Gemma Azuni per il contributo economico assegnato e l’ANPPIA che ha reso possibile la stampa dell’opuscolo.
INVITO ALLA LETTURA
Carlo PisacaneLA RIVOLUZIONEa cura di Aldo Romano, 2a ed. 2011, pag. 432, con foto, 20,00
La parola progresso suona nella bocca degli uomini d’ogni condizione, d’ogni partito, ma è
da pochissimi, anzi quasi da nessuno compresa. I sorprendenti trovati della scienza che, ap-
plicati all’industria, al commercio, al vivere in generale, trasformano in mille guise i prodotti,
sono fatti innegabili: noi vediamo, ove erano gruppi di capanne, sorgere superbe città; campi
aspri e selvaggi squarciati dall’aratro, e resi fecondi; selve, monti, mari, superati; rozzi velli
trasformati in finissime stoffe; le intemperie vinte con l’arte; le tenebre cacciate da fulgidis-
sima luce; il navigar contro i venti; il percorrere con portentosa celerità sterminate distanze;
finanche il fulmine reso rapido messaggiero dell’uomo; l’immensità dei cieli, le viscere della
terra esplorate; gli astri, gli animali, i vegetabili, i minerali, tutti studiati, classificati, misu-
rati... Se questo è il progresso, niuno può negarlo o non comprenderlo.
“Edizione integrale dell’opera più famosa e più importante di Pisacane, controllata sul
manoscritto originale, con le correzioni e le cancellature operate dall’autore, preceduta
da un lungo saggio introduttivo sulla vita, sulla spedizione di Sapri e sul pensiero rivolu-
zionario di Carlo Pisacane, un combattente dimenticato del Risorgimento italiano, ma il
cui pensiero è ancora” oggi attuale.
L’opera può essere richiesta direttamente a [email protected] oppure telefonando al n. 0974 62028
Al prezzo di copertina si aggiungono le spese di spedizione: piego di libro ¤ 1,50, raccomandata ¤ 3,60, contrassegno ¤ 5,50.
Chi vuole può anticipare l’importo sul conto corrente postale n. 16551798 intestato a Giuseppe Galzerano.
Cultura
La graphic novel sulla Resistenza a Roma curata dalla Scuola Romana dei Fumetti
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di Fiumicino sia perché i granai del
Tevere erano meglio collegati tramite
la via Portuense; demolita nel 1888
ne resta soltanto una descrizione di
Rodolfo Lanciani: “essa misura m.
3,60 di luce ed ha le spalle murate con
massi di travertino grossi m. 0,67. I
battenti della porta sono formati da
cornici intagliate, poste verticalmente,
la soglia monolite di travertino è lunga
oltre m. 4 e si trova nello stesso piano
della Piramide”. Il nome originale
della porta superstite era “Porta
Ostiensis”, perché da lì iniziava, come
tuttora inizia, la via Ostiense. La
storia di ogni porta, oltre alle proprie
caratteristiche architettoniche, è
fatta anche di aneddoti e curiosità che
restituiscono la “vita quotidiana” delle
varie epoche. È ricordata, fra l’altro,
dallo storico Ammiano Marcellino
perché, nel 357 d.C, “venne trascinato
con somma cura attraverso la porta
Ostiense” l’obelisco che attualmente si
erge in piazza S. Giovanni in Laterano.
Con la perdita d’importanza del porto
di Ostia anche il ruolo preminente della
porta venne meno finché, coinvolta nel
processo di cristianizzazione di tante
altre porte romane, fu ribattezzata
col nome attuale di “Porta S. Paolo”
perché era l’uscita per la Basilica di
S. Paolo “fuori le mura”, che aveva
ormai ereditato l’importanza che
fino a qualche secolo prima era del
porto. Di conseguenza, non era più
necessario mantenere i due fornici,
che, anzi, in caso di pericolo esterno
avrebbero comportato una maggiore
difficoltà difensiva. Infatti, quando
tra il 401 e il 403, l’imperatore Onorio
ristrutturò buona parte delle mura
e delle porte, provvide anche, come
in quasi tutti gli altri interventi, a
ridurre ad uno solo i fornici d’ingresso
(ma non la controporta) demolendo
la parte centrale e ricostruendola con
una sola arcata (ad un livello circa
un metro più alto della precedente)
ed a fornire la facciata di un attico
con una fila di finestre ad arco per
dar luce alla camera di manovra.
Con l’occasione rinforzò le due torri
rialzandole di merli e finestre. La
lapide commemorativa dei lavori che
Onorio ha lasciato su ogni intervento
da lui effettuato sulle mura o sulle
porte, sembra fosse presente almeno
fino al 1430. L’attuale “Porta S. Paolo”
- molto rimaneggiata dai successivi
restauri di Massenzio, del citato
Onorio, di Belisario, forse anche di
Narsete, e dei papi Niccolò V, Pio IV,
Alessandro VII, Benedetto XIV, ecc.
fino ai nostri giorni - è quindi ad un
solo fornice chiusa fra due alte torri,
con un cortiletto che la separa dalla
controporta, sul quale si affaccia un bel
tabernacolo medievale con l’immagine
di S. Pietro.Era in origine unita alla
basilica di S. Paolo da un lungo portico
coperto oggi non più esistente ed
ha vissuto anch’essa la sua parte di
storia romana: nel 549 vide entrare
i Goti di Totila che da qui riuscirono
a penetrare nella città a causa del
tradimento della guarnigione, che
lasciò la porta aperta; nel 1407 accolse
re Ladislao ma tre anni dopo fu teatro
di uno scontro cruento fra lo stesso
Ladislao ed i Romani; nel 1522 vi entrò
in Roma Adriano VI appena eletto
papa, in un alternarsi di avvenimenti
belli e brutti. Per molti secoli, le
porte della città hanno scandito la
vita di Roma con la loro apertura e
chiusura perché, oltre alla funzione
militare di difesa per la quale le Mura
erano state costruite, hanno avuto in
passato altri compiti e destinazioni: di
collegamento con le strade principali,
di controllo di polizia delle persone,
di cordoni sanitari, dell’attività di
dogana.
Già dal V secolo ed almeno fino al
XV, è attestato - come prassi normale
- l’istituto della “concessione in
appalto e della vendita a privato delle
porte cittadine e della riscossione del
pedaggio” per il relativo transito. In
un documento del 1467 è riportato
un bando che specifica le modalità di
vendita all’asta delle porte cittadine
per un periodo di un anno pagabile in
“rata semestrale”. Il prezzo d’appalto
per la porta “S. Paulo” non era molto
alto perché a quell’epoca il traffico
cittadino - per quella porta - non era
intenso come una volta, ancorché
sufficiente ad assicurare un congruo
guadagno al compratore. Guadagno
regolamentato da precise tabelle che
riguardavano la tariffa di ogni tipo di
merce ma che era abbondantemente
arrotondato da abusi di ogni genere
a giudicare dalla quantità di “gride”,
editti e minacce che venivano emessi.
All’interno del “Castelletto” - la
controporta che sembra una piccola
fortificazione – è attualmente ospitato
il “Museo della Via Ostiense”, con
la ricostruzione dei porti di Ostia
e dei monumenti ritrovati lungo la
“via Ostiensis”.
La struttura della porta è in
travertino ed è fiancheggiata da
due torri a base semicircolare
(a ferro di cavallo). Sul suo lato
interno Massenzio, all’inizio del
IV secolo, ne edificò un’altra con
funzione di controporta (l’unica
controporta delle mura aureliane
interamente conservata), sempre
a due fornici in travertino,
collegata alla precedente da due
muri chiusi a tenaglia a formare
una sorta di piccola fortificazione
chiamata “Castelletto”, all’interno
della quale doveva trovar posto
sia la guarnigione militare che
la stazione dei gabellieri per la
riscossione del pedaggio sulle merci
in entrata e in uscita. Di certo, gli
interventi hanno comunque reso
l’intera struttura asimmetrica,
irregolare e architettonicamente
squilibrata, con il fornice esterno
non in linea con quelli interni, le
torri poco più alte della facciata e,
in generale, dimensioni piuttosto
sproporzionate. All’altezza della
controporta, sul lato orientale, in
corrispondenza dell’attuale via
R. Persichetti, doveva trovarsi
una “posterula”, di cui però non
rimane nulla perché quel punto
1943, granatieri a Porta S. Paolo foto di archivio
I luoghi della storia
segue da pagina 1
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è stato devastato nel 1943 in
occasione di un bombardamento
aereo. Una strana particolarità
della controporta, unica in tutta
Roma, è che la chiusura era verso la
città anziché, come normalmente
accadeva, verso l’interno della
struttura. Soprattutto in epoca
medievale quando i nemici
esterni rappresentavano un
pericolo paragonabile a quello
delle fazioni armate interne alla
città, la Porta doveva costituire
una sorta di piccola fortezza
per una guarnigione armata che
all’occorrenza avrebbe potuto
rinchiudersi all’interno. La porta
ha infatti subìto diversi attacchi
proprio dall’interno, soprattutto
nel 1410. In quell’anno la città era
in mano al re Ladislao di Napoli
e tre papi – Benedetto XIII,
Alessandro V, Giovanni XXIII
(!) - si combattevano per ottenere
il riconoscimento ufficiale,
spalleggiati dalle più potenti
famiglie romane in lotta fra loro;
il popolo romano, in preda alla più
totale anarchia, al seguito degli
Orsini, sostenitori dell’antipapa
Alessandro V Filargo di Creta
(1409-1410), fu protagonista di
diversi violenti scontri lungo
le mura, culminati nell’attacco
alla guarnigione napoletana
asserragliata proprio nella Porta
S. Paolo e nel bastione predisposto
intorno alla vicina piramide di Caio
Cestio. L’8 gennaio, dopo 3 giorni di
assedio, Porta S. Paolo cadde insieme
alla Porta Appia, seguite a un mese
di distanza dalla Porta Tiburtina e
dalla Porta Prenestina, lasciando via
libera all’ingresso trionfale in Roma
del nuovo papa. Sulla torre orientale
è presente un’iscrizione a memoria
dei lavori che Benedetto XIV effettuò
nel 1749 per il restauro di tutta la
cinta muraria da qui a Porta Flaminia.
Intorno al 1920 la Porta fu isolata
dalle Mura Aureliane per agevolare
il traffico dell’area adiacente sul lato
orientale ed in seguito, a causa del
bombardamento durante la II Guerra
Mondiale, andò distrutto anche il
tratto di mura occidentale che la
collegavano alla Piramide Cestia.
Nel tragico settembre del 1943
proprio sulle mura di Porta S. Paolo
si svolse uno degli avvenimenti più
popolari che dettero inizio alla guerra
civile che dilaniò l’Italia da quel
momento sin’oltre la fine della II Guerra
Mondiale. Tutto incominciò la sera
dell’8 settembre dopo che le stazioni
radio avevano diffuso il messaggio
del Capo del Governo, Maresciallo
Pietro Badoglio, che annunciava
l’armistizio: “… ogni atto di ostilità
contro le forze angloamericane deve
cessare da parte delle forze italiane in
ogni luogo. Esse però reagiranno ad
eventuali attacchi da qualsiasi altra
provenienza”. L’Armistizio era stato
firmato il 3 settembre a Cassibile,
in Sicilia, ma doveva restare segreto
per alcuni giorni per dar modo agli
italiani di sganciarsi dai tedeschi.
Vista però l’eccessiva titubanza del
Governo e degli alti comandi militari
italiani, il Gen. Dwight Eisenhower,
comandante in capo delle forze alleate
anglo-americane, che nel frattempo
aveva avviato le manovre per lo
sbarco di Salerno e “non intendeva
continuare la sanguinosa farsa di
combattere contro truppe di fatto
fuorigioco”, rese pubblico l’Armistizio
mettendo gli italiani di fronte al
fatto compiuto. La dichiarazione
dell’Armistizio (e qualche tempo
dopo anche il capovolgimento
delle alleanze) determinò l’estrema
incertezza dei responsabili politici e
militari nell’adottare le decisioni con
ripercussioni su tutti i fronti nei quali
erano impegnati i reparti italiani.
Lo sconcertante vuoto di direttive
politiche e militari ebbe tremende
conseguenze e provocò la rabbiosa
reazione e repressione da parte delle
truppe tedesche. Infatti, temendo il
cambio di fronte degli Italiani, Hitler
aveva predisposto che le armate di
Rommel a Nord e quelle di Kesserling al
Centro-Sud, impegnate a contrastare
l’avanzata degli anglo-americani,
fossero pronte a neutralizzare gli alti
1943, granatieri a Porta S. Paolo foto di archivio
I luoghi della storia
14
comandi politico-militari italiani
secondo il piano segreto “Alarico”. A
Roma era altissima la concentrazione
di truppe italiane per la presenza di
ben 6 Divisioni. Di queste la Divisione
“Granatieri di Sardegna” composta da
11.000 uomini, già dalla fine di luglio
del ’43, era stata spiegata nella periferia
Sud-Ovest di Roma con apprestamenti
difensivi su 13 capisaldi e 14 posti di
blocco collocati in corrispondenza
delle strade di accesso alla Capitale,
concepiti, però, per contrastare un
eventuale attacco anglo-americano.
Ogni caposaldo aveva un posto di
blocco con sbarramento sulla strada
principale e varie postazioni di tiro di
cannoni. Scattato il piano “Alarico”,
Kesserling, scampato ad un duro
bombardamento alleato su Frascati
ove aveva il suo Quartier Generale,
ordinò al gen. Kurt Student di
muovere su Roma con la 2° Divisione
Paracadutisti, accampata tra Ostia e
Pratica di Mare. Qualche ora dopo,
al caposaldo 5 di Ponte Magliana-
Ostiense, un’autocolonna tedesca
cercò di occupare il posto di blocco.
Qui ebbe inizio l’epopea tragica che si
concluderà con il conosciuto episodio
di “Porta S. Paolo”, dove si svolsero
i combattimenti che, nell’accezione
comune, corrispondono a quella che
viene definita “La Difesa di Roma”. In
effetti, lì, si ebbero gli scontri finali di
una battaglia che durò circa 3 giorni e
si sviluppò lungo un arco virtuale di
circa 28 km. a sud della Capitale, da via
Boccea a via Collatina, con i militari
coadiuvati da numerosi gruppi di
civili. In assenza di ordini coerenti
dallo Stato Maggiore Generale, il
comandante della Divisione Granatieri
di Sardegna, gen. Gioacchino Solinas,
ordinò alla sua batteria di cannoni di
aprire il fuoco dalla collina dell’EUR
contro i tedeschi.
I combattimenti che interessarono
la Divisione Granatieri di Sardegna
ed i reparti ad essa dati di rinforzo
(a seguito della richiesta del Solinas
al gen. Carboni, comandante di tutte
le truppe dislocate in Roma) presero
l’avvio alle ore 21 circa del giorno 8
settembre presso il caposaldo n. 5
dislocato nella zona del Ponte della
Magliana - Ponte della Creta - E
42, ora EUR, e proseguirono fino a
circa le 17.00 del giorno 10 settembre
coinvolgendo in diversa misura i
restanti capisaldi e, dopo il loro
ripiegamento, la zona della Piramide
Cestia e di Porta S. Paolo. L’inaspettata
reazione degli italiani costrinse i
tedeschi ad arretrare ma, poco dopo,
una seconda colonna di 1000
uomini si presentò al caposaldo
6 sulla Laurentina, lanciando
un attacco. I loro corazzati però
stentarono ad avanzare per il fuoco
dei cannoni dei Granatieri.
Il primo episodio della
Resistenza italiana era iniziato;
uomini che - a fronte della fuga
di Vittorio Emanuele III, il “re-
soldato”, dell’erede Umberto,
del Governo, del Capo di Stato
Maggiore Vittorio Ambrosio
e dei Capi di Stato Maggiore
dell’Esercito, Mario Roatta, della
Marina, Raffaele De Courten, e
dell’Aereonautica, Renato Sandalli
con i loro familiari - combatterono
strenuamente contro i tedeschi.
Numerosi scontri a fuoco si ebbero
anche all’interno della città come a
S. Giovanni e al Colosseo, ad opera
di cittadini accorsi a combattere
contro l’ex-alleato. La mattina del
10 una parte dei militari, che aveva
avuto la peggio altrove ed era stata
costretta a ritirarsi, si riunì intorno
a Porta S. Paolo; ad essi si unirono
civili giunti spontaneamente od
organizzati dai partiti antifascisti.
Fino al pomeriggio del 10 settembre
1943 Porta S. Paolo fu teatro di uno
degli scontri legati all’occupazione
tedesca di Roma. Qui ebbero
luogo i furiosi combattimenti tra
i Granatieri di Sardegna, che il
giorno precedente si erano rifiutati
di lasciarsi disarmare dai tedeschi,
e numerosi gruppi di “uomini e
donne di ogni età e condizione”.
“La Difesa di Roma” fu fatta sia
dai militari che dai civili i quali
1943, Porta S. Paolo foto di archivio
1943, Porta S. Paolo foto di archivio
I luoghi della storia
15
poterono combattere anche con
un migliaio di armi corte e lunghe,
cedute dal Servizio Informazioni
Militari (SIM) e prelevate dai
depositi clandestini del SIM di via
Silla 91, dal Museo dei Bersaglieri di
Porta Pia, dall’Officina Scattoni di
via Galvani e dall’officina biciclette
Collalti a Campo dé Fiori. Questo
importante contributo politico-
militare è stato attestato dal
futuro deputato del PCI Antonello
Trombadori, che nel suo “Diario”
racconta: “Mi trovavo a Roma al
Grand Hotel con Longo ed altri per
conferire con l’aiutante di Giacomo
Carboni e col figlio di Carboni,
Guido (capitano). Luigi Longo ed io
eravamo lì perché grazie alla rete di
contatti messa in piedi da Giuseppe
Di Vittorio, dovevamo accordarci
con il SIM (sempre Carboni) per
la consegna di armi in vista di una
sollevazione popolare”.
Nonostante la schiacciante
superiorità numerica e
d’armamento delle truppe
tedesche, il fronte resistenziale
riuscì ad attestarsi lungo le mura di
Porta S. Paolo innalzando barricate
e facendosi scudo con le vetture
dei tram rovesciate. Nel corso
della battaglia, il generale Giacomo
Carboni si prodigò nel tenere alto
il morale dei soldati e mandò i
carabinieri a staccare i manifesti
“disfattisti”, che davano imminenti
le trattative con i tedeschi.
Alle 15,30 del giorno 10, gli
ufficiali dei Granatieri, cui si era
aggiunto il tenente in congedo
assoluto per ferita sul fronte greco-
albanese Raffaele Persichetti,
decisero di ripartire all’attacco
dando ordine ad un plotone del
“Genova Cavalleria” ed a un
gruppo di civili di porsi a guardia
delle alture del quartiere S. Saba,
che dominano la piazza di Porta S.
Paolo. Contemporaneamente alla
stazione Ostiense sul binario 3 c’era
un “commando” di civili e militari
del nascente CNL, capitanati dal
magg. Carlo Benedetti. Alle 16.00, il
gen. Giorgio Carlo Calvi di Bèrgolo,
genero di Vittorio Emanuele III e
comandante di Corpo d’Armata,
comunicò al gen. Solinas l’avvenuta
firma dell’armistizio con i tedeschi
e l’ordine di cessazione delle ostilità. Tra le condizioni dell’armistizio, che dichiarava
“Roma Città Aperta”, c’era la consegna delle armi e lo scioglimento dei reparti; ma nei
dettati segreti di Hitler, “accettati con riluttanza da Kesserling”, c’era la deportazione
in Germania dei soldati italiani.
Nel primo pomeriggio la Resistenza fu travolta dai mezzi corazzati tedeschi e il Capo
di Stato Maggiore della Divisione “Centauro”, colonnello Leandro Giaccone, firmò la
resa a Frascati, presso il Quartier Generale tedesco. La “Difesa di Roma” costò 1167
militari caduti o dispersi e secondo dati “ufficiali” 241 civili, fra cui 43 donne (il dato
“stimato” è di oltre 400 civili). Tra i molti cittadini che pagarono il loro eroismo con la
morte figurano l’operaio diciottenne Maurizio Cecati e il fruttivendolo Ricciotti che,
finito il lavoro ai Mercati Generali, si improvvisò eccezionale tiratore. Morì colpito
da una scheggia il professore di Storia dell’Arte al Liceo classico Visconti, Raffaele
Persichetti, uno degli ultimi caduti a Porta S. Paolo; decorato con Medaglia d’oro al
V.M. - la prima Medaglia d’Oro della Resistenza - il suo nome è divenuto simbolo di
quanti, soldati e civili, si sono sacrificati nella Difesa di Roma.
La “battaglia di Porta S. Paolo” è considerata il vero e proprio esordio della
Resistenza italiana e in essa si può misurare emblematicamente il comportamento dei
vari protagonisti, indifferenti poi alla campagna di terrore seminata dal Maresciallo
Rodolfo Graziani a proposito delle “notti di S. Bartolomeo” che avrebbero atteso
infallibilmente tutti i militari che non avessero ubbidito agli ordini del nuovo “Stato
Nazionale Repubblicano”, più noto come “Repubblica di Salò”.
Quattro lapidi apposte sulle Mura ricordano vicende dolorose che hanno segnato
col sangue la difesa della Libertà e della Democrazia: i fatti del 10 settembre 1943; lo
sbarco di Anzio; i Caduti della Resistenza; i Caduti del Terrorismo.
A circa settanta anni da quegli eventi, la Porta sfrutta una delle sue particolarità:
quella di formare con la Piramide di Caio Cestio ed i cipressi del Cimitero Acattolico
un quadretto di particolare suggestione, riprodotto in innumerevoli dipinti.
Mario Tempesta, Roma, 22 febbraio 2012
Porta S. Paolo oggi foto Maurizio Galli
1943, Porta S. Paolo foto di archivio
I luoghi della storia
16
Al giorno d’oggi capita spesso che illustri protagonisti della nostra storia patria diventino improvvisamente obsoleti e dimenticati. Ahimè!
Questa amara considerazione vale anche per Renzo Laconi, indimenti-cabile protagonista delle vicende politiche e culturali della Sardegna del secondo Novecento.
Il Nostro è stato un intellettuale raffinato e acuto, un oratore “trascinatore di folle” e un appassionato cultore ed estimatore delle lezioni politiche di Antonio Gramsci. Molte sono le riflessioni e gli scritti nei quali Renzo Laconi riprende le argomentazioni gramsciane, elaborandole e collocandole all’interno del mondo culturale sardo e nazionale del suo tempo.
Il Nostro è stato un uomo di cultura giuridica e istituzionale, esponente di una giovane generazione venuta al socialismo e al comunismo attraverso l’esperienza della ferrea dittatura mussoliniana. Egli incentrava il suo pensiero e azione, in Sardegna, sul nesso autonomia regionale, rinascita economico e sociale e una rigorosa e credibile programmazione democratica, nella Costituente e nel Parla-mento, sui rapporti tra democrazia e trasformazione sociale.
Renzo Laconi è stato un valente dirigente politico nazionale del Pci, apprezzato e fidato collaboratore di Palmiro Togliatti. Fu uno dei maggiori e brillanti prota-gonisti dell’elaborazione della Carta Costituzionale, cui apportò un contributo fondamentale sulle tematiche autonomiste. A tale scopo scrive Eugenio Orrù, direttore dell’Istituto Gramsci della Sardegna, nella sua recente pubblicazione, La caverna di Platone, Ed. Tema, 2010:
“(…) La sua concezione autonomistica non consente banalizzazioni, che non sono mancate. Egli si propone e si presenta come uno degli artefici principali della Costi-tuzione regionalista, uno degli uomini più aperti, certo nella specificità culturali e politiche del suo tempo, agli approdi costituzionali più moderni e alle tematiche oggi più attuali. Non è perciò retorica richiamare, nell’era della globalizzazione, l’at-tualità del pensiero di Renzo Laconi, di colui che ha svolto un ruolo essenziale nella costruzione del dettato costituzionale, di colui che è stato il più lucido assertore della specialità artefice e protagonista indiscusso della battaglia per la Rinascita (…)”.
Renzo Laconi fu ininterrottamente per quattro legislature deputato al Parla-mento della Repubblica (1948-1967), membro del Comitato Centrale del Pci e Segretario regionale dal 1957 al 1962 e vicepresidente del Gruppo Parlamentare del Partito comunista. Ruoli politici e istituzionali che Laconi portò avanti con coerenza e rettitudine, con passione e orgoglio in senso comunista e antifasci-sta. Laconi pensava e rifletteva che se la “sua Sardegna” voleva uscire dall’atavico sottosviluppo (che ancora oggi permane assoluto) l’autonomia regionale poteva essere la migliore panacea ai tanti mali che affliggevano le genti sarde, ovvero delineare una forma di autogoverno democratico, attraverso l’ascesa delle masse popolari a responsabilità di governo.
A tale riguardo, scrive Maria Luisa Di Felice nel suo saggio introduttivo, Renzo Laconi. Per la Costituzione, scritti e discorsi, Ed. Carocci, 2010:
“(…) Il pensiero di Laconi conosceva ulteriori, fondamentali sviluppi quando indi-viduava nell’autonomia uno strumento basilare per la crescita democratica e civile, per la trasformazione sociale ed economica della Sardegna. Laconi fu tra i prota-gonisti nel processo che portò i comunisti sardi a guardare con convinzione verso l’autonomia. Era Togliatti a ribadire la necessità che i compagni sardi si uniformas-sero maggiormente alla linea del partito, e nel II Consiglio Nazionale (aprile 1945) li invitava a non temere di essere autonomisti, poiché l’autonomia era una “rivendica-zione democratica rispondente agli interessi del popolo sardo”.
Ancora oggi, viene ricordato nella memoria collettiva dei sardi, e non solo, per la sua oratoria brillante ed estremamente rigorosa.
Scrive Enrico Berlinguer, indimenticato segretario nazionale del PCI: “(…) Egli fu, come tutti ben sappiamo, fra i nostri oratori più efficaci e bril-
lanti, tanto nelle aule parlamentari quanto sulle piazze: La sua oratoria era sottile e insieme appassionata fino alla veemenza polemica più spietata, logica e rigo-rosa e insieme semplice e prontamente umana, e raggiungeva a volte, soprattutto
quando si rivolgeva ai lavoratori più poveri della sua terra, quasi gli accenti dell’apostolato. Credo che i suoi comizi saranno a lungo ricordati e rimpianti dalle decine di migliaia di lavoratori, non solo sardi, che hanno avuto anche una sola volta occasione di ascoltarlo (dal discorso commemo-rativo al Comitato centrale del PCI, 10 luglio 1967).”
Renzo Laconi con la sua poderosa personalità politica e culturale non può e non deve essere rimosso dalla Storia sarda e nazionale; è neces-sario approfondire il suo pensiero e le sue riflessioni. È necessario ripensare a quest’uomo per meglio interpretare il presente evanescente e un futuro denso di incognite.
Renzo Laconi, un politico da riscopriredi Maurizio Orrù
Memorie
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La Circolare Ministeriale n. 600/158 del 9 aprile 1935 conosciuta come la “Circolare Buffarini-Guidi” (dal nome del Sottosegretario all’Interno che la firmò) era rivolta ai Prefetti del territorio nazionale per proibire il culto pentecostale in tutto il Regno perché esso “si estrin-seca e concreta in pratiche religiose contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità fisica e psichica della razza”. Di conseguenza fu messo al bando il movimento pentecostale, furono chiusi tutti i luoghi di culto e avvennero molti arresti, ammoni-zioni, invii al confino sia di semplici credenti che di pastori pentecostali.
Nonostante la persecuzione reli-giosa posta in atto dal regime i pentecostali continuavano a riunirsi in località campestri e remote o in casa di qualcuno di essi ma sempre con il timore di essere scoperti e perseguitati.
Nelle maglie del regime fasci-sta nel 1942, in quanto adepto della Chiesa Cristiana Penteco-stale, incappò anche il sardo Serra Rafaele Pietro, residente a Roma in Via Frontino 33, ma origina-rio di Serramanna. Egli nacque
nel centro agricolo campidanese il 27 luglio 1901 alle ore 13 da Antonio e fu Collu Maria. Il Serra fu sorpreso il 19 febbraio 1942 in una casa di Via Muzio Attendolo “assieme a numerosi pentecostieri all’atto di svolgere il loro culto” e per tale motivo fu denunziato alla Commissione Provinciale per l’Ammonizione, così recita un verbale stilato dalla Questura di Roma in data 28 marzo ’42 conservato nel fascicolo n. 106943 del Fondo Casellario Politico Centrale presso l’Archivio Centrale dello Stato. In una lettera del 16 marzo 1942 - indirizzata all’Ufficio Confino e al Casellario Politico Centrale - a firma del Capo della Polizia Carmine Senise, riportante tutto un elenco di persone da sottoporre al provvedimento del confino o della ammonizione, appare anche quello di Pietro Serra. E quest’ultimo fu sottoposto ai vincoli dell’Ammonizione dalla Commissione Provinciale riunitasi il 17 marzo 1942 nei locali della Regia Prefettura di Roma sotto la direzione del Prefetto Fusco Comm. Umberto. Alla riunione inoltre parteciparono il Questore Petrunti Comm. Nicola, il Procu-ratore del Re Gatta Comm. Enrico, il Colonnello dei Reali Carabinieri
Serra Pietro di Serramanna, ammonito perché Pentecostaledi Lorenzo Di Biase
Frignani Cav. Uff. Ercole, il Console della M.V.S.N. Guglielmi Cav. Nicola e il Commissario Aggiunto in veste di Segretario della Commissione Santini Dott. Arnaldo. Il provvedimento consi-steva in una serie di limitazioni tra le quali spiccava quella di non ritirarsi la sera più tardi “dell’Avemaria” né uscire al mattino più presto dell’alba. Inoltre fu inserito in un elenco di persone da arrestarsi in determinate circostanze (inserito nell’elenco 5° - pregiudicati per delitti comuni). Poi, in seguito al ventennale della marcia su Roma Serra Pietro fu prosciolto dai vincoli dell’am-monizione con atto di clemenza del Duce. Per disposizione del Questore di Roma fu sottoposto a vigilanza da parte della polizia politica del regime.
Serra Rafaele Pietro morì in Roma il 28 luglio 1973. La Circolare Buffa-rini-Guidi che diede la stura alla persecuzione religiosa venne abolita il 16 aprile 1955, dopo vent’anni dalla sua emanazione e dopo ben sette anni dalla entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Fatto appa-rentemente inspiegabile!
La Cattiva Reputazione
La storia non è come una macchina, che quando si fa vecchia deve essere per forza revisionata. Eppure sembra che per alcuni
sia così. Hanno iniziato i finti storici, gli pseudo-storici, ora anche gli storici veri e propri. Riscoprire un documento, osservare,
studiare con il distacco del tempo e la mente fredda, a dire il vero, ha aiutato a comprendere e scoprire molti fatti scomparsi
dalla memoria comune, evidenziando talvolta situazioni molto più importanti di quanto pensassimo. Ma troppo forte è la ten-
tazione di farsi portatori di nuove verità a distanza di decenni, soprattutto se le verità che si vuole riportare a galla sono consi-
derate più vere di quelle vecchie, perché necessarie a nuove teorie, ad un nuovo mondo. La storia la scrivono i vincitori si dice,
e se in parte è vero, è vero anche che i figli, i nipoti dei perdenti hanno molto spesso la tentazione di riscriverla. Ecco spuntare
quindi i Petacco, i Pansa, pure i Bruno Vespa, pronti a presentare volumoni di centinaia di pagine, con il nulla dentro dal punto
di vista scientifico e bibliografico, ma che con l’aiuto del marketing, con la polemica costruita ad arte, con l’uso della televisione,
riescono a farsi passare da storici, quelli veri dico, e le loro teorie diventano nuove teorie, per molta gente, purtroppo.
Dario Biocca non è uno storico di quel tipo, è uno storico veramente. Cosa l’avrà portato a scrivere di Gramsci e del “ravvedi-
mento” di quest’ultimo a distanza di ottant’anni? Che tornaconto ne poteva avere, visto che per addurre elementi inconfutabili
alle sue teorie non ha esitato ad appoggiarsi all’art. 176 del Codice penale, per lui in uso già dal 1934, ma che invece il professor
Joseph A. Buttigieg ha dimostrato essere del 1962?. Malafede? Errore filologico? Qui non si sta parlando di una persona qual-
siasi, ma di Antonio Gramsci, di un uomo morto in carcere per difendere le sue idee. Eppure Biocca non ha esitato a mettere in
piazza le sue teorie sul fatto che Gramsci avesse chiesto i domiciliari, perché ravveduto, come obbligava l’art. 176. Nella risposta
a Buttigieg, su “La Repubblica” del 19 marzo 2012, Biocca - dopo avere incassato il colpo - conclude sostenendo che comunque
Gramsci, negli ultimi due anni di carcere si chiuse in un silenzio che si protrasse fino alla morte, insinuando senza troppi veli
che la teoria sul ravvedimento del politico qualche appiglio lo potrebbe comunque avere.
Biocca, il silenzio di Gramsci è stato un grande esempio, anche per lei. A star zitti alle volte si guadagna in stima, in autorevo-
lezza e successo. Invece no, meglio parlare, anzi, sparlare.
cattivareputazione.blogspot.it
Memorie
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I 100 anni di Garibaldo, una vita per la democrazia
Livorno, 31 gennaio 2011. Benifei accompagnato dall’inseparabile Osmana arriva al Teatro Civico
poco dopo le 17. L’atrio è già stracolmo di persone che vogliono festeggiare Gari-baldo. Entra, guarda con stupore prima e con emozione poi (gli avevano nascosto i festeggiamenti, tanto che era un po’ stupito del fatto che nessuno si ricordasse di un anniversario così importante) le tantissime persone che lo vogliono salutare, stringergli la mano.
Garibaldo e sua moglie Osmana vengono accompagnati verso due grandi e comode poltrone, ed il primo saluto è quello delle loro nipoti che eseguono dei pezzi di musica classica.
Arrivano poi i saluti del coordinatore della Società Volontaria di Soccorso del comune di Livorno, dell’Ammiraglio del Porto di Livorno, del Presidente Nazio-nale dell’ANPPIA, del Sindaco della Città Alessandro Cosimi, del Presidente della Provincia e dei rappresentanti di tutte le organizzazioni nate a Livorno per volontà di Garibaldo. Vengono letti i telegrammi augurali del Vescovo di Livorno e dell’ex Questore e vengono consegnate a Benifei delle pergamene di ringraziamento per l’impegno sociale, culturale e politico profuso da sempre per la difesa della democrazia.
Nel teatro segue una lunga intervi-sta a Garibaldo, e alle domande che gli sono poste, risponde con la solita ironia e simpatia.
Un abbondante buffet, organizzato da varie associazioni tra cui la Coopera-tiva 8 Marzo, accoglie i numerosissimi intervenuti. Ma Garibaldo e Osmana mangiano ben poco, impegnati come sono a stringere mani e a fare foto. Tutti vogliono farsi ritrarre con loro. L’atrio del teatro è addobbato con le foto di Garibaldo e su uno schermo si susse-guono le immagini più significative di Garibaldo e Osmana, nei momenti d’im-pegno sociale e politico.
Si suonano le chitarre, s’intonano i canti della Resistenza, tutto in un clima gioioso, tutti vogliono ringraziare questo piccolo grande uomo, che ha dato veramente tanto alla città di Livorno.
Da Campiglia a Livorno, gli anni della formazione
Garibaldo Benifei nasce, ultimo di dodici figli, il 31 gennaio 1912 a Campi-glia marittima. Il padre, Garibaldo,
Operaio.Negli anni successivi l’impegno
politico clandestino di Garibaldo si fa più vico e attivo. È anche tra i dirigenti della Federazione giova-nile del partito che, in occasione dei funerali del comunista Mario Camici nel luglio 1933, ricevono il compito di coinvolgere e far scen-dere in piazza il maggior numero possibile di giovani.
La partecipazione dei livornesi è massiccia e la polizia fascista non interviene.
Garibaldo viene arrestato la prima volta nel luglio del 1933; in Questura è picchiato selvaggia-mente. Trasferito a Roma, viene condannato dal Tribunale speciale a un anno di reclusione per il reato di propaganda comunista. In carcere prima a Regina Coeli, poi a Livorno, in regime d’isolamento, ai Dome-nicani, conosce Sandro Pertini, il futuro Presidente della Camera e dell’Assemblea Costituente. Uscito nell’estate del 1934, viene assunto in una fabbrica di radiatori e riprende l’attività politica di opposizione al regime, come molti altri giovani livornesi negli anni tra il 1936 e il 1939, sull’onda dell’entusiasmo per gli avvenimenti di Spagna, con le vittorie del fronte repubblicano. Ed è solo per un caso fortuito che, una sera alla fine del 1937 sfugge all’ar-resto e al confino, mentre insieme ad altri compagni sta per imbar-carsi su un grosso motoscafo che dal Calambrone doveva raggiun-gere, appunto, la Spagna.
Alla fine di agosto del 1939 il gruppo dirigente livornese del partito decide di mandare in stampa ben diecimila volantini contro la guerra, sentita ormai come immi-nente, e contro le violenze del nazi-fascismo. Alla diffusione dei volantini, la reazione della milizia fascista è durissima e Garibaldo, che si occupava delle sottoscrizioni per il Soccorso rosso e del mate-riale di propaganda a stampa, è nuovamente arrestato. Nel marzo del 1940 è a Roma, processato dal Tribunale speciale e condannato a 7 anni per attività sovversiva. Nei primi di giugno del 1940 è trasferito nel carcere di Castel franco Emilia
iscritto al Partito repubblicano, muore tre mesi prima della sua nascita. La madre si chiama Maria Mariani. La famiglia Benifei si trova da subito a vivere in difficilissime condizioni economiche: la bottega del calzolaio del padre passa in gestione al figlio maggiore, Antonio; il secondogenito, Rito, lavora come muratore. L’uno socialista, l’altro anarchico, nell’im-mediato dopoguerra i due fratelli si impegnano nella lotta politica. Anto-nio viene eletto consigliere comunale nel 1919.
Dal 1920 le squadracce fasciste cominciano a fare irruzione nelle case, distruggono le sedi di partito, aggrediscono i rappresentanti delle associazioni dei lavoratori. La casa di via Cavour della famiglia Benifei viene incendiata e devastata nel giugno del 1921 e nel luglio 1922, in cerca di Anto-nio e Rito, i quali però erano già fuggiti da Livorno. Al resto della famiglia (Garibaldo, la madre, il fratello Eros e le altre sorelle) viene intimato di lasciare il paese entro poche ore. Così dalla stazione di Campiglia, una sera di luglio del 1922, Garibaldo raggiunge per la prima volta Livorno, dove si stabilisce definitivamente nel 1923. A 12 anni lascia la scuola e comincia a lavorare come “portantino” presso la Vetreria Rinaldi insieme al fratello Eros: vi rimane tre anni, durante i quali partecipa alla sua prima riunione sindacale e allo sciopero indetto dagli operai anziani organizzatisi per prote-stare contro le difficili condizioni di lavoro nella fabbrica. Fa poi il garzone, prima al bar Bizzi in via Solferino (luogo di ritrovo degli antifascisti livornesi), poi al caffè Bristol, all’an-golo di piazza Cavour (frequentato invece da molti dirigenti fascisti).
Nel 1923 entra nella sezione giova-nile della Pubblica Assistenza (SVS).
L’antifascismo militante e il carcere
Il suo impegno diretto nella politica attiva e nelle file del Partito comunista si ha nel 1931, quando il fratello Eros, entrato nel 1928 nell’organizzazione clandestina del partito, gli chiede di recapitare a Roberto Vivaldi del mate-riale di propaganda fatto entrare di nascosto dalla Francia: volantini, manifesti, copie dell’Unità, di Stato
Noi
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(Modena). La scarcerazione avviene il 26 agosto del 1943, un mese dopo la caduta di Mussolini.
La lotta partigiana e la liberazione
Rientrato a Livorno, devastata dai bombardamenti, partecipa da subito
alle prime riunioni della Concentra-zione antifascista. Tra il settembre e l’ottobre del 1943 nasce ufficial-mente, seguendo le indicazioni dei dirigenti nazionali, il Comitato di Liberazione Nazionale livornese: Garibaldo è incaricato di mante-nere i collegamenti tra il Comitato di Liberazione dell’area di Livorno e quelli degli altri paesi della provin-cia e anche dell’area pisana. Fino all’estate del 1944mprtende parte attivamente alla guerra di libera-zione nelle file partigiane. Il CLN comincia ad assumere una dimen-sione sempre più interprovinciale e Garibaldo coordina le azioni e le attività dei distaccamenti tra Livorno e Grosseto, in partico-lare operando tra Castagneto e San
Vincenzo.Alla fine di giugno il Comando
militare alleato comunica che le formazioni partigiane dovevano essere sciolte e disarmate. Garibaldo, insieme ad altri, chiede con insistenza che si lasci proseguire ai partigiani la lotta
al fianco dell’esercito alleato, ma non ottenendo l’approvazione considera terminata la sua esperienza nella Resi-stenza. Così fa ritorno prima a Vada, dove prende contatti con il Comi-tato federale del Pci, e poi a Livorno, proprio il giorno dopo la liberazione della città dai tedeschi (19 luglio 1944).
Osmana
In quella stessa estate del 1944 comincia frequentare Osmana Benetti, tuttora compagna della sua vita. Anche lei militante nel Pci, aveva preso parte alle lotte partigiane con funzioni di collegamento e di diffusione del mate-riale di propaganda, organizzatrice e protagonista dei Gruppi di difesa della donna. Garibaldo e Osmana si fidan-zano; il matrimonio è celebrato il 24
gennaio 1945 dal sindaco Furio Diaz, nella casa comunale del Villaggio di Ardenza. Nel febbraio del 1945 Gari-baldo e Osmana vengono inviati dal partito, per risolvere alcune questioni delle locali sezioni, prima all’I-sola d’Elba e poi a Piombino, dove li raggiunge la notizia della fine della guerra e della liberazione del Paese. Inizia così un sodalizio di vita nutrito non solo dall’amore reciproco, ma anche dalla condivisione dei valori di libertà e giustizia sociale.
L’impegno nella cooperazione e nella solidarietà
A Piombino gioca un ruolo fonda-mentale nella ricostruzione, il movimento cooperativo (in particolare la cooperativa “La Proletaria”), che si diffonde via via nei paesi vicini. Gran parte del ruolo di Garibaldo all’interno del partito, in quegli anni, è proprio verso il rafforzamento di questa realtà, che conosce un rapidissimo sviluppo a Livorno e provincia. Nel 1946 è eletto presidente provinciale della Lega delle Cooperative e in seguito entra anche nel consiglio nazionale: compito questo che svolge con grande passione, perché da sempre convinto che la pratica della cooperativa sia la realiz-zazione concreta di molti degli ideali di unità e fratellanza che avevano animato le lotte antifasciste e la Resi-stenza. Nel 1948, a causa del mutato clima politico, nel pieno della “guerra fredda”, Garibaldo è accusato insieme a molti altri responsabili di organismi cooperativi di violazione delle leggi sui dazi doganali (per una questione di “pacchi dono” inviati dagli Stati Uniti). Si trova così nuovamente, dopo gli anni del regime, a vivere in clandestinità per circa un anno; arrestato e condan-nato a tre mesi di reclusione, trascorre tre giorni nel carcere dei Domenicani. In appello la pena gli viene cancel-lata e può riprendere i suoi incarichi ai vertici del movimento e all’interno del partito.
Nel 1957 Garibaldo è uno dei soci fondatori dell’ARCI, di cui firma personalmente l’atto costitutivo a Firenze. Da sempre impegnato nelle attività di assistenza ai più deboli e nel volontariato, ricopre negli anni succes-sivi a Livorno veri incarichi direttivi: principalmente nell’ECA (Ente comu-nale di Assistenza) e nella Società Volontaria di Soccorso.
Dell’Eca di Livorno è nominato
Il depliant pubblicato da Comune di Livorno e Istoreco per i cento anni di Benifei
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presidente verso la metà degli anni Settanta, succedendo a Ernesto Santo-padre. È sua l’iniziativa di far nascere, nei locali di fianco alla sede dell’as-sociazione, un asilo per i bambini intitolato a Primetta Marrucci.
Nella SVS di Livorno rimane volon-tario in servizio attivo per un lungo periodo. Partecipa, già dagli anni Sessanta, allo sviluppo del movimento regionale e nazionale delle Pubbliche Assistenza, in cui ricopre anche incari-chi dirigenziali. Dal 1981 al 1987 viene nominato presidente: in questi anni fa ristrutturare la vecchia sede dell’as-sociazione, ancora danneggiata dai bombardamenti, provvede all’aper-tura di nuovi ambulatori tuttora attivi, istituisce il primo servizio con medico a bordo in ambulanza. Al termine del mandato continua la sua partecipa-zione alla vita dell’associazione anche nel ruolo attivo di presidente del colle-gio dei Probiviri, che mantiene ancora oggi.
Verso il futuro: i giovani nel villaggio globale
Garibaldo, credendo fermamente nei valori della pace, dei diritti umani, della solidarietà internazionale e del rispetto tra i popoli, convinto che “una società dove molti sono gli esclusi è una società senza futuro”, è anche uno dei fondatori, ancora oggi nell’esecu-tivo, dell’Associazione Livornese di solidarietà con il Popolo Saharawi. Dal 1993 l’associazione promuove scambi interculturali tra bambini e fami-glie, gemellaggi, adozioni a distanza e molteplici iniziative finalizzate a costruire una solidarietà concreta tra il popolo saharawi e quello livornese, nell’ottica di una sempre più ricca inte-razione tra queste due culture così differenti.
Nel 2002 riceve una targa d’argento dal comune di Livorno come rico-noscimento per l’impegno civile e la continua testimonianza ai giovani dei valori di libertà e giustizia. Nel 2007 è presidente onorario dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.
Ma l’impegno più appassionato di Garibaldo dal dopoguerra ad oggi è quello all’interno dell’Anppia, di cui è fondatore a livello nazionale con Umberto Terracini, e presidente, a Livorno, fino ai giorni nostri. Un impegno assiduo il suo nel portare
testimonianza di storia e di vita nelle scuole (interviste, progetti, viaggi con le classi sui luoghi degli eccidi fascisti e nazisti) affinché i giovani compren-dano i valori della democrazia, della giustizia, della libertà.
DA PARMA
Non si cancellano la storia e il valore della Resistenza jugoslava
Fascisti, leghisti e destre antico-muniste vorrebbero fosse eliminata l’intitolazione a Tito della piccola strada di Parma esistente dagli anni ’80, e in alternativa introdotta “via martiri delle foibe”.
È una richiesta grave e assoluta-mente inaccettabile, espressione di quel “revisionismo storico” mirante a sminuire il valore della Resistenza antifascista, oscurare i crimini fascisti e nazisti, e rivalutare in qualche modo il fascismo.
Morti delle foibe, nel settembre-ottobre ’43 e nel maggio ’45, furono alcune centinaia di italiani (migliaia aggiungendo dispersi e fucilati in guerra, deportati e morti in campi di concentramento jugoslavi, ecc.) in gran parte militari, capi fascisti, dirigenti e funzionari dell’amministrazione italiana occupante la Jugoslavia, colla-borazionisti. Morti per atti di giustizia sommaria, vendette ed eccessi, da parte di partigiani jugoslavi, derivanti dall’odio popolare e dalla rivolta nei confronti dell’Italia fascista. Consi-derare questi morti indistintamente, accomunarli tutti insieme, non rende giustizia a quella parte di loro che furono vittime innocenti. Vittime, non martiri. La stessa legge statale del 2004 istitutiva del “giorno del ricordo delle vittime delle foibe” non usa mai la parola “martiri”.
Violenza di proporzioni di gran lunga superiori, sistematica e piani-ficata, e precedente, è stata quella del fascismo a partire dal 1920. Azioni delle squadracce contro centri cultu-rali, sedi sindacali, cooperative agricole, giornali operai, politici e cittadini di “razza slava”, poi, nel ventennio, la chiusura delle scuole slovene e croate, il cambiamento della lingua e dei nomi, l’italianizzazione forzata, infine, nell’aprile del ’41, l’ag-gressione militare, l’invasione della
Jugoslavia da parte dell’esercito del re e di Mussolini, pochi giorni dopo quella da parte della Germa-nia nazista. L’Italia si annesse direttamente alcuni territori (come Lubiana e parte della Slove-nia), altri tenne sotto controllo, in condizioni di occupazione partico-larmente dure e crudeli, non meno di quelle naziste. Distruzione di interi villaggi sloveni e croati, dati alla fiamme, massacro di decine di migliaia di civili, campi di concen-tramento.
Di qui la rivolta contro l’Italia fascista, lo sviluppo impetuoso del movimento partigiano delle forma-zioni repubblicane e comuniste guidate da Tito, la grande lotta anti-fascista e antinazista nei Balcani.
Enorme è stato il tributo jugoslavo alla guerra contro il nazi-fascismo: su una popolazione di 18 milioni di abitanti dell’intero Paese, furono al comando di Tito 300.000 combattenti alla fine del ’43 e 800.000 al momento finale della liberazione, 1.700.000 furono i morti in totale, sul campo 350.000 i partigiani morti e 400.000 i feriti e dispersi. Da 400.000 a 800.000, ovvero da 34 a 60 divisioni, furono i militari tedeschi e italiani tenuti impegnati nella lotta, con rilevanti perdite inflitte ai nazifa-scisti. Una lotta partigiana su vasta scala, che paralizzò l’avversario e passò progressivamente all’offen-siva, un’autentica guerra, condotta da quello che divenne un vero e proprio esercito popolare e che fece di Tito più di un capo partigiano, un belligerante vero e proprio, rico-nosciuto e considerato a livello internazionale.
La Resistenza della Jugosla-via è stata di primaria grandezza in Europa e da quella esperienza la Jugoslavia è uscita come il paese più provato e al tempo stesso più trasformato. La Resistenza jugo-slava ancor più di altre è stata più di una guerriglia per la liberazione del proprio territorio, è stata empito universale di una nuova società, ansia di superamento delle barriere nazionali, anelito di pace, libertà e giustizia sociale, da parte di tanti uomini e tante donne del secolo scorso.
Ai partigiani jugoslavi si unirono, l’indomani dell’8 settembre ’43,
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quarantamila soldati italiani, la metà dei quali diedero la vita in quell’epica lotta nei Balcani; essi, col loro sacrificio, riscattarono l’Ita-lia dall’onta in cui il fascismo l’aveva gettata. A questi italiani devono andare il ricordo e la riconoscenza della Repubblica democratica nata dalla Resistenza.
Comitato Antifascista e per la Memoria
Storica – PARMA
DA VERONA
Riprendono nel 2012 le nume-rose iniziative scaligere. L’Istituto veronese per la
storia della Resistenza e dell’età contemporanea, l’ANPI, l’ANPPIA e l’ANED, per ricordare il GIORNO DELLA MEMORIA, hanno orga-nizzato una serie di iniziative di cui diamo conto qui di seguito.
14 gennaio
Presso la sala “Berto Perotti” dell’IVrR, è stato presentato il libro Quella del Vajont Tina Merlin, una donna contro di Adriana Lotto (Cierre 2011).
Ha presentato il volume Lorenza Costantino alla presenza dell’Au-trice.
“Il nome di Tina Merlin resta legato alla tragedia del Vajont. Fu infatti la prima giornalista, e unica fino alla catastrofe, a denun-ciare l’operato della Sade (Società Adriatica di Elettricità) di voler realizzare la diga che, con la nazio-nalizzazione dell’energia elettrica, sarà ceduta all’Enel. Tina Merlin era una cronista di vaglia, una voce libera che dalle colonne de “l’Unità” dava spazio ai timori dei montanari sui pericoli incom-benti per le popolazioni della valle. Aveva partecipato alla Resistenza e per ricordare il contributo delle donne alla lotta di liberazione scrisse un libro di racconti parti-giani Menica e le altre. Animata da grande passione per il suo mestiere, viveva il lavoro come una missione occupandosi fra l’altro di emigrati, di territorio ferito, di montagna abbandonata, di sviluppo sosteni-bile e di ecologia. Si occupò sempre di emancipazione femminile che secondo lei, moglie e madre, era
adolescenti al centro: sia come oggetti di ricerca che come soggetti attivi nella trasmissione delle conoscenze sul passato. Un passato, quello compreso tra il 1938 e il 1945, di cui si parla e sul quale ci si «emoziona» ma sul quale troppo poco ancora si riflette e si studia. Chi l’ha vissuto direttamente ed è in grado ricordarlo ora è anziano e a quel tempo aveva l’età delle ragazze e dei ragazzi a cui ci rivolgiamo oggi; si tratta di difficili ricordi d’infanzia”.
Il violino di Andrea Testa ha accom-pagnato alcuni momenti dell’incontro.
11 febbraio
Si è tenuta la conferenza dal titolo: Prima della Shoha, relatore Carlo Saletti, introdotta da Roberto Buttura.
Carlo Saletti è curatore con Erne-sto De Cristofaro del libro Precursori dello sterminio. Binding e Hoche all’o-rigine dell’eutanasia dei malati di mente nella Germania nazista, edito nel 2012 dalla casa editrice ombre corte di Verona.
“Tra i primi sostenitori della neces-sità di procedere a eliminazioni programmate di vite umane erano stati, agli inizi degli anni Venti, il giurista Karl Binding e lo psichia-tra Alfred Hoche. Nell’abiura dei più elementari principi umanitari, questi precursori dello sterminio, che predi-cavano la soppressione di tutti quei malati giudicati dalla scienza medica inguaribili, affidarono il loro messag-gio a un breve libro destinato a fare scuola’.
18 febbraio
Nella sede dell’ANPPIA, ANPI e IVrR, sala “Berto Perotti” è stata indetta la Giornata del tesseramento
inscindibile dal lavoro. Per le sue denunce sui pericoli della costruzione della diga del Vajont fu denunciata per turbativa dell’ordine pubblico, proces-sata e infine assolta. Rimase ai margini della grande stampa, quasi fosse stato attuato nei suoi confronti una sorta di ostracismo. Morirà a Belluno il 22 dicembre 1991 a 65 anni”.
21 gennaio
Presso la sala “Berto Perotti” dell’I-VrR, il 21 gennaio è stato proiettato il documentario E come potevamo noi cantare. Milano 1943 – 1945. Le deportazioni. Un film di Vera Paggi, Dario Venegoni, Leonardo Visco Gilardi. Regia di Massimo Buda. Era presente Dario Venegoni.
E come potevamo noi cantare con
il piede straniero sopra il cuore tra
i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al
figlio crocifisso al palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento’.
(Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei
salici – 1945)
4 febbraio
Presso la sala “Berto Perotti” dell’I-VrR ha avuto luogo l’incontro: Storia di Luisa. Una bambina ebrea di Mantova, conversazione di Dona-tella Levi con Maria Bacchi e Fernanda Goffetti, curatrici della ricerca che è stata pubblicata nel 2011 dall’editore Gianluigi Arcari di Mantova. Ha intro-dotto l’incontro Roberto Bonente
“Storia di Luisa, mette bambini e
Adriana Lotto autrice del libro su Tina Merlin
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ANPPIA 2012. L’incontro ha avuto come tema: Fare oggi la storia dell’antifascismo.
L’esperienza modenese, Tema trat-tato da Claudio Silingardi, direttore dell’Istituto storico di Modena. Ha introdotto Roberto Bonente, consi-gliere nazionale ANPPIA.
Claudio Silingardi è uno dei curatori del Dizionario storico dell’antifasci-smo modenese realizzato dall’istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Modena. L’obiettivo fondamentale del Dizionario è quello di restituire volti e voci, per quanto possibile, ai molte-plici fenomeni e casi di opposizione al fascismo dall’inizio degli anni Venti fino alla svolta dell’8 settembre 1943, adottando come contesto spaziale di riferimento l’intera provincia mode-nese.
25 febbraio
Organizzato un incontro-conver-sazione con Roberto Bonente, tenuto presso la sala “Berto Perotti” dell’IVrR dal titolo: In memoria dei veronesi caduti nei campi di deportazione.
Nel 1966, per celebrare il XX anni-versario della Liberazione, la sezione veronese dell’Associazione nazionale ex deportati pubblicò un piccolo ma prezioso libretto: In memoria dei vero-nesi caduti nei campi di deportazione.
Scritto da Alfredo Molin, deportato a Mauthausen e che sarà in seguito presidente dell’Aned di Verona, con una presentazione di Augusto Tebaldi, deportato a Flossenburg, voleva essere
DA MILANO
Il Coordinamento ANPI Milano e il Comitato Antifascista per la difesa della Democrazia zona Sei di Milano ci inviano il comunicato stampa sull’ennesima provocazione fascista di Forza Nuova
Oggi 10 febbraio 2012 “Giorno del Ricordo” ore 17.00 presso la Sala Polifunzionale del
Comune di Milano “SEICENTRO” in Via Savona 99 a Milano (Zona sei) alle ore 17.00 circa, una quindicina di persone con viso coperto da maschere e passamontagna hanno fatto irru-zione nella sala Teseo dove è in esposi-zione, a cura della Fondazione Memoria della Deportazione con il Patrocinio del Consiglio di zona sei la Mostra: FASCISMO FOIBE ESODO
DA TORINO
Lutto a Torino
CARMELA MAyO CI hA LASCIATI
Il 18 gennaio è deceduta a Torino Carmela Mayo vedova Levi che faceva parte del Comi-
tato Direttivo della Federazione Anppia di Torino. Aveva appena compiuto 97 anni era nata il 14 gennaio 1914).
Nata a Gradisca d’Isonzo (Gori-zia), la sua famiglia giunse profuga a Torino nel 1915. Dopo una iniziale adesione al fascismo, che la vide protagonista delle attività delle “Giovani italiane”, Carmela inizia un percorso di ribellione alle ingiustizie e alla propaganda anti semita. Le leggi razziali segnano il suo definitivo distacco dal fasci-smo e l’inizio di un percorso che la porterà alla militanza antifascista. Nel novembre 1943 aveva sposato
Verona, 25 febbraio il relatore Roberto Bonente
Noi
“La tragedia del confine orientale”.Imbrattare i cartelloni, lanciare
volantini firmati Forza Nuova, urlare contro la commessa e i citta-dini in sala, ecco l’azione vile dei “visitatori”. Al contrasto deciso dei presenti, i quindici lasciavano la sala senza potere continuare l’opera di danneggiamento dei cartelloni.
Sdegno e piena condanna dalle forze Democratiche della zona, l’ANPI di Zona e Il Comitato Antifascista per la difesa della Democrazia zona sei Milano INVI-TANO tutti i cittadini a visitare la mostra domani… proprio per capire che la verità dà sempre fasti-dio ai “fascisti” e proprio la verità particolare del Giorno del Ricordo ancor più infastidisce chi da sempre confonde, infanga, inquina, revi-siona, fatti e azioni che sono la nostra storia.
Milano città medaglia d’Oro della Resistenza, non può accet-tare questa forma di violenza fisica e di pensiero, ancora una volta la nostra risposta democratica, civile e di presidio antifascista si muoverà sul territorio raccontando verità portando cultura e chiedendo alle Istituzioni e cittadini tutti, vigi-lanza e negazione di qualsiasi spazio al fascismo, al razzismo.
«uno scarno tremendo rendiconto finale di una inumana operazione, la cui impressionante vastità è rispec-chiata anche per questo angolo d’Europa da nomi e cifre: una pagina indimenticabile di dolore e di sacri-ficio, troppo spesso dimenticata e misconosciuta».
Nella guerra che si combat-
te nel mondo tra il bene e il male,
dovete dare il vostro nome
alla bandiera del bene
e avversare senza tregua il male.
(Giuseppe Mazzini)
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Mario Levi, noto ebreo antifascista, membro del PCI, condannato a 3 anni di reclusione perché, ufficiale dell’esercito, aveva fornito armi ai “sovversivi” durante l’occupazione delle fabbriche ed era stato difeso dall’on. Terracini dinanzi al Tribu-nale Militare. A inizio guerra era stato poi internato, con altri ebrei, ad Ateleta, in Abruzzo. Per sfuggire alle ricerche dei tedeschi, durante la Resistenza la coppia si rifugia nelle Valli Valdesi sotto falso nome (Olaro). Qui Carmela si unisce alla 105a Brigata partigiana Garibaldi “Carlo Pisacane” e opera quale staf-fetta portaordini tra la brigata e il
Sottoscrizioni
Anna Canitano (Morlupo) 25,00
Bruno Bevilacqua (Mi): 15,00
Eolo Passalacqua (Vi) in memoria
del padre Luigi: 130,00
Maria Rosa Militano (Mi) in me-
moria del marito perseguitato politi-
co Pasquale Melara: 60,00
Mirella Bertolino (To) in memoria
del padre Guglielmo: 170,00
Neviana Dusi (Cesenatico) in me-
moria del padre Luigi Dusi e della
madre Ada Pagan: 30,00
Pina Specchio Quagliotti (Ao):
10,00
Valentina Lucchi (Bo) in ricordo del
marito Medardo Anderlini: 100,00
Sollecitati a replicare allo “sfogo” pubblicato nel numero scorso, i lettori rispondono
Due Risposte a Terracciano
La lettera di Nicola Terracciano
pubblicata sul mensile L’antifascista
dell’ottobre - dicembre 2011 (p.
2) dipinge dell’Italia attuale un
quadro a nero di pece, dove tutto è
buio e non si distinguono forme.
Mentre si legge, in certo modo vi si
ritrova se stessi, perché ognuno di noi
(intendo noi democratici e antifascisti)
soffre nelle proprie viscere la bruttura
del mondo quale si è andato delineando
da qualche decennio a questa parte.
Per noi italiani in particolare si
aggiunge l’umiliazione di un paese
in preda all’illegalità e alla rapina.
Eppure, proseguendo nella lettura
delle due “colonne infami” si ricevono
stilettate ulteriori, non più ascrivibili
all’oggetto rappresentato, ma inerenti
alla rappresentazione stessa. Insieme al
presente, viene coperto di fango anche il
passato, anche quello più nobile, quello
che dovrebbe e forse potrebbe segnare la
via del riscatto. Giudizi gettati qua e là,
così perentori e ingiusti che non possono
essere lasciati senza risposta puntuale.
“… imperversano partiti e loro
cinghie di trasmissione che sono i
sindacati di cosiddetto centro-destra
e di cosiddetto centro-sinistra…”.
Anche la CGIL, anche la FIOM,
che si stanno battendo contro, che
continuano a lottare, che sono ancora
l’unica organizzazione di massa contro
l’arbitrio finanziario? Un po’ di solidarietà
non stonerebbe. Già, ma a rileggere
daccapo l’articolo, si scopre che aveva
preso le mosse proprio dall’arbitrio
finanziario, assunto però come “mercato”
e “fiducia” (sfiducia) degli altri paesi
nei confronti di un’Italia peccatrice.
Terracciano assume la finanza nazionale
e internazionale come termometro,
laddove sappiamo tutti che è il cancro.
“… la cara miracolosa democrazia
repubblicana conquistate [sic!] con lacrime e
sangue dall’Antifascismo e dalla Resistenza,
specialmente non comunisti [sic!]……”.
Palesemente la foga rabbiosa fa smarrire
all’autore il rispetto, oltre che della verità,
delle concordanze grammaticali. A parte
questo, ognuno ha il diritto giuridico
di essere anticomunista nella maniera
e nella misura che crede, ma affermare
che la democrazia e la repubblica furono
riconquistate in Italia grazie alla Resistenza
soprattutto non comunista è un falso
storico, una pura e semplice menzogna!
E, tra l’altro, vogliamo ricordarci, se
non altro un pochino, l’oscuro lavorio
nell’ombra di certi “resistenti non
comunisti”, come ad esempio Pacciardi e
Sogno, golpisti in futuro, ma all’opera già
allora per una democrazia imbrigliata?
Ma vediamo il seguito della frase:
“… non comunisti (cioè non bacati,
contorti, capovolti, ridimensionati dal mito
totalitario stalinista)…”. Personalmente,
sono nato alla politica come socialista; mi
iscrissi al PSI nel 1963 all’età di 23 anni; vi
militai fino al 1976 quando, disgustato dalle
prime avvisaglie del craxismo, passai con
convinzione e passione al PCI, del quale
era allora segretario e guida Berlinguer.
Noi
Lettere
comando di Torino e come redattrice di un giornale clandestino. È signifi-cativa la sua partecipazione ai Gruppi di difesa della donna, che dà inizio alla sua attività politica dedicata al mondo femminile.
Dopo la Liberazione Carmela si adopera nel settore sociale riunendo l’Associazione Pionieri d’Italia (ragazzi fino ai 15 anni) e difendendo i diritti delle donne. Nell’Anppia, da vedova, ha dato un valido contributo di idee e di attività insieme a Rita Como-glio ved. Bazzanini, tuttora viva e quasi coetanea.
Carmela Mayo in una rara foto giovanile
Non ho mai cambiato le mie idee e i miei
valori di fondo, salvo che su questioni
di analisi contingente, ad esempio sul
grado di snaturamento raggiunto prima
dal PSI (negli anni del centro-sinistra),
poi dal PCI (negli anni Ottanta). Non
posso perciò che essere d’accordo che
lo stalinismo sia stato una tragedia per il
comunismo internazionale e anche per il
comunismo italiano: nel suo sbandamento
totale dopo la Bolognina ha certo avuto
parte non secondaria il crollo del mito
sovietico, che nei cuori di troppi comunisti
si legava troppo inestricabilmente con
l’ideale comunista. Ma come negare che,
nonostante quest’ipoteca, e in parte anche
grazie ad essa, il PCI, dal ’45 all’84, fece
molte grandi cose? Vogliamo elencarle?
Sarebbe troppo lungo! Facciamo a capirci!
“… il sostanziale “colpo di stato” del
novembre-dicembre 1945 ordito dal
Vaticano, dai democristiani di De
Gasperi, dai comunisti di Togliatti, dai
socialisti proletari di Nenni, dai liberali
di Croce e di altri contro il governo del
rinnovamento radicale democratico
dell’azionista liberal-socialista Parri…”.
Si salvi chi può! Ma si salva solo Parri. La
carta costituzionale, un capolavoro politico
e giuridico riconosciuto come tale da
tutto il mondo, compresi storici e giuristi,
viene declassato a colpo di stato! Data
l’ammucchiata dei personaggi elencati non
sembra trattarsi solo della questione della
costituzionalizzazione del Concordato
con la Chiesa cattolica, ma anche di altro:
di che cosa? Terracciano avrebbe fatto
bene a spiegare. A questo punto viene il
dubbio che, nonostante le sue precedenti
professioni mercatiste e anticomuniste,
egli avrebbe vagheggiato, dopo la caduta
del fascismo, la rivoluzione socialista
immediata e una sorta di repubblica
sovietica (fatalmente, gli piaccia o no,
egemonizzata da Stalin). Questo avrebbero
dovuto fare nel ’45-’48 Togliatti, Nenni e i
loro “antagonisti-complici”? Saggiamente,
non vollero farlo. Ma, se anche avessero
voluto, non avrebbero potuto, dati i vincoli
internazionali oggettivi. La storia non
è così semplice, e non la si capisce con
la rabbia e il disprezzo generalizzato.
“Maggioranze eroiche politiche e
intellettuali con il “vero popolo lavoratore”
[la maggioranza silenziosa?] hanno
compiuto il miracolo della “ricostruzione’,
con l’aiuto degli Alleati e in particolare
degli Stati Uniti d’America…”.
Viva la DC! Viva Saragat! Viva la CIA!
Non ne verrà nulla di buono, se all’attuale
sfascio aggiungiamo lo smarrimento della
memoria, l’oblio di quanto fece la classe
l’antifascistaMensile dell’ANPPIAAssociazione Nazionale Perseguitati
Politici Italiani Antifascisti
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Antonella Amendola
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Ccp n. 36323004 intestato a “l’antifascista”
Chiuso in redazione il: 5 aprile 2012
finito di stampare il: 16 Aprile 2012
Registrazione al Tribunale di
Roma n. 3925 del 13.05.1954
lavoratrice che, con l’aiuto determinante
delle sue organizzazioni sindacali e
politiche, sognò un mondo migliore
e, mentre sognava, trasformò davvero
l’Italia e tante altre nazioni in paesi
civili, o anche soltanto meno incivili.
Giovanni Cerri (Roma)
Sull’ultimo numero della nostra rivista
ho letto l’articolo del signor Nicola
Terracciano. Sono rimasta esterrefatta
ed ho pensato ad un uomo molto
infelice e, soprattutto, inutile a se stesso
e pericoloso per la società nella quale
vive; dirò brevemente il perché, anche
se il nostro “amico” è di quel genere
di persone che non si convince.
Ho partecipato – come modesta
staffetta – alla lotta di Liberazione
nel bolognese in una Brigata gloriosa
– la “Bolero’. Io ero – e sono rimasta
– COMUNISTA anche se mi adeguo
alle ginnastiche politiche attuali. Nella
Brigata i comunisti erano la maggioranza
(ed anche i Caduti), ma anche altre
ideologie – o assenza di ideologie – erano
presenti ed attive: lo scopo era unitario,
cacciare i nazi-fascisti e conquistare
la LIBERTÁ e la DEMOCRAZIA.
Finita la guerra ci siamo dedicati
TUTTI (cioè tutto il popolo e non solo
una minoranza americaneggiante)
alla ricostruzione materiale e morale.
Partiti, Sindacati, Istituzioni tutti per un
unico scopo. E sono stati anni lunghi e
colmi di battaglie politiche e sindacali.
Occorrerebbero libri molto grossi per
descriverle anche per sommi capi.
Io ho fatto a lungo parte di queste battaglie,
all’interno delle Istituzioni. Oggi ho quasi
86 anni, ne ho lavorati 47 e vivo della
mia pensione in un appartamento che
non è mio. Non ho mai preso nulla che
non fosse frutto del mio lavoro, neppure
quando ho fatto parte di organi dirigenti.
Ma non soltanto io ho vissuto in modo
onesto e pulito: come me milioni di
italiani ed anche sindaci, politici,
sindacalisti, giudici, poliziotti ecc. ecc.
Certo la corruzione esiste, la mafia,
la ‘ndrangheta ecc. sono realtà
vere e pericolose. La corruzione ci
opprime, specie dopo la triste epopea
berlusconiana che tutto copriva (e copre).
La maggioranza degli italiani è convinta
che è necessario lottare “contro” e lo fa,
anche se spesso il prezzo è molto alto.
Pensa di mettere nel “mucchio” dei
corrotti anche i tanti giudici, poliziotti,
sindacalisti, intellettuali, politici abbattuti
vigliaccamente? E studenti, e popolo?
Inoltre, le sembrano “corrotti” milioni
di persone (lavoratori, donne, studenti,
pensionati, disoccupati ecc.) che lottano
nelle piazze? O sono la maggioranza del
Paese convinta ed unita dei propri diritti
e nel nome di chi tutto ha sacrificato?
Sono d’accordo soltanto su una citazione
della lettera del signor Terracciano:
la nobiltà della figura di Parri. Ma era
a capo di un partito molto piccolo
(anche se intellettualmente di livello
alto) e da solo non avrebbe potuto
fare molto. Ma Lui lavorava assieme
agli altri Partiti del CLN nati dalla
Resistenza e composti da persone
oneste e decise. Anche i Comunisti.
Per quanto riguarda il “colpo di
stato” del novembre-dicembre 1945,
provi ad indagare sui suoi amici
americani e sul Convegno di Yalta…
Lei, signor Terracciano, che cosa ha
fatto o fa per cambiare la situazione?
Dalla sua lettera emerge una persona
pericolosa per la società italiana:
rabbiosa, astinente e comodamente
inutile, per poter dire “l’avevo detto”…
Gabriella Zocca (Bologna)
Lettere