Associazione italiana di psicologia giuridica
Elaborato finale del Corso di Formazione in
Psicologia Giuridica e Psicopatologia Forense
IL FUNZIONAMENTO PARANOIDE
DEL GENITORE NEI PROCESSI
DI AFFIDAMENTO
Candidato:
Dott. Marco Guadalupi
Anno: 2019
Potremmo azzardarci ad affermare che l’isteria è la
caricatura di una creazione artistica, che la nevrosi
ossessiva è la caricatura di una religione, che il delirio
paranoico è la caricatura di un sistema filosofico.
(Sigmund Freud)
Solo perché sei paranoico non significa
che non ti stiano addosso (Kurt Cobain)
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior. (Gaio Valerio Catullo)
INDICE
Introduzione 1
1. Affidamento di minore: la cornice giuridica 5
2. Nosografia del funzionamento paranoide 10
3. Il funzionamento paranoide nel rapporto di coppia 18
4. Funzionamento paranoide e processi di affidamento 23
5. L’affidamento nei casi di funzionamento paranoide patologico del genitore 30
Conclusioni 34
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INTRODUZIONE
Il conflitto costituisce un elemento imprescindibile del rapporto di coppia. L’incontro tra due
individualità, superati gli stadi iniziali dell’innamoramento in cui si vive nell’illusione di costituire
con il partner una “unicità”, finisce prima o poi per caratterizzarsi dall’inevitabile confronto fra i
bisogni, i punti di vista, le esigenze ed i gusti che ciascun attore porta all’interno del rapporto; se ciò
non accadesse infatti, il risultato sarebbe l’imprigionamento in una simbiosi patologica.
Utilizzando un linguaggio hegeliano, si può dire che da un certo momento in poi l’interazione si
esplica sotto forma di un rapporto dialettico in cui la relazione affettiva rappresenta la “sintesi”
dell’incontro tra la “tesi” e “l’antitesi” che di volta in volta i due partner portano a confronto.
E’ esperienza comune però come a volte questo processo di sintesi fallisca, i due coniugi o fidanzati
cioè non riescono ad avvertire all’interno della relazione la realizzazione del proprio bisogno in
accordo con quello dell’altro, ma il proprio bisogno viene sentito come in “opposizione” a quello
del partner, generando un vissuto di mors tua vita mea che rende il conflitto insanabile. Ciò accade
principalmente perché le dinamiche psicologiche personali, in particolare quelle inconsce, rendono
vano ogni tentativo di riappacificazione, alimentando distanza, incomprensione ed incomunicabilità.
A quel punto la separazione è vissuta da uno dei due partner o da entrambi come l’unica soluzione
possibile per riappropriarsi della propria autodeterminazione nel perseguire i propri bisogni.
Nella legislazione del passato (e conseguentemente nella cultura di cui la legge è un’emanazione) la
separazione non era concepita ed il giuramento di “amore eterno” trovava nel diritto la sua più piena
ed irreversibile applicazione; ciò comportava che alcune relazioni restavano in piedi pur in presenza
di una distanza affettiva incolmabile, alimentando malessere, insoddisfazione ed in alcuni casi la
ricerca all’esterno della coppia di un’altra figura da assumere come oggetto d’amore.
Con l’introduzione del divorzio, la separazione tra due coniugi ha trovato un riconoscimento
giuridico: da quel momento in poi il matrimonio come istituto durevole “finché morte non vi
separi” ha lasciato spazio alla possibilità che ciascun coniuge possa gettarsi la precedente relazione
alle spalle e ricominciare una nuova vita.
In realtà l’esperienza quotidiana ci insegna che la ripartenza molto spesso rappresenta un’illusione:
il legame, rinnegato a livello cosciente fino ad arrivare al divorzio, in alcuni casi permane come
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“attrattore inconscio” per ciascuno dei due coniugi, e può manifestarsi sotto forma del non
dimenticare la persona amata, continuare ad amarla o a corteggiarla ma anche a trasformare
quell’amore in odio ed a tenere i piedi il conflitto come strategia inconscia per mantenere in vita la
relazione.
E’ frequente riconoscere nelle coppie che si sono lasciate la presenza di vissuti, atteggiamenti e
comportamenti riconducibili ad un funzionamento paranoide, che rappresenta la testimonianza di
questo legame che non vuole andare via e che spesso trova la sua massima espressione nel momento
in cui la separazione finisce in tribunale per questioni quali la dimora nella casa coniugale,
l’affidamento dei figli, l’assegno di mantenimento. Allora può osservarsi una sequela di
rivendicazioni, ripicche, posizioni assunte per questioni di principio fino ad arrivare a minacce e
denunce, il cui comune denominatore è l’attribuzione al partner della responsabilità delle proprie
difficoltà e della propria sofferenza.
La separazione è un’esperienza che ha un costo emotivo tanto più alto quanto più grande è
l’investimento che il coniuge ha riposto nella coppia e nella famiglia; a volte il senso di fallimento
rispetto ai propri obiettivi di vita è così schiacciante da produrre un’inversione nella direzione del
sentimento provato nei confronti dell’ex partner: questi, un tempo riconosciuto come unico oggetto
d’amore, può continuare ad esercitare la sua potenza ma adesso sotto forma di rappresentazione di
tutti i propri mali, assurgendo a bersaglio dell’odio e dell’aggressività del coniuge ferito.
L’elevata frequenza con cui questo processo mentale può osservarsi nelle coppie che si separano
non deve sorprendere se si pensa a quanto la colpevolizzazione dell’altro risulti più facile del “ritiro
dell’investimento dall’oggetto”: quest’ultimo infatti comporta la rinuncia reale al partner ed il
recupero della propria autonomia affettiva e della propria autodeterminazione, meccanismi più
complessi perché comportano una messa in discussione personale che invece è assente in un
processo di proiezione delle responsabilità al coniuge.
Quando il funzionamento paranoide si manifesta in ambito giudiziario, spesso dà vita a separazioni
dalla lunga durata e dalla difficile risoluzione anche per tutti gli addetti ai lavori che si trovano ad
essere coinvolti. Negli Stati Uniti, che si caratterizzano per un numero di divorzi pari circa al 50%
dei matrimoni e che tradizionalmente amano raccontare la propria cultura con la cinematografia di
Hollywood, sono stati prodotti numerosi film che narrano le odissee delle separazioni; tra questi,
una menzione particolare merita La guerra dei Roses, film del 1989 diretto da Danny De Vito, per il
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racconto puntuale e verosimile, al confine tra la commedia ed il dramma, dell’escalation di
rivendicazioni, odio e ripicche che caratterizzano una relazione in cui nessuno dei due partner si
mostra capace di sottrarsi al potere delle proprie proiezioni per riuscire a calarsi nel punto di vista
dell’altro.
Nella pellicola, il casus belli è rappresentato dal fatto che Barbara, la moglie, confessi al marito
Oliver di essere stata felice all’idea che lui potesse morire a causa di un malore che aveva accusato.
Da qui si origina la richiesta di divorzio da parte di lei e lo scontro senza esclusione di colpi per il
possesso della casa coniugale.
Ciò che colpisce in questo film è la brillante rappresentazione di come i due ex innamorati, una
volta immersi nel conflitto, diventino incapaci di riconoscere il punto di vista dell’altro; Barbara nel
momento in cui invoca la morte del marito come soluzione al proprio malessere, gliene attribuisce
responsabilità totale, Oliver, nell’ignorare il disagio della moglie (come probabilmente ha sempre
fatto durante il rapporto) resta concentrato soltanto sul suo bisogno, che è quello di salvare il
matrimonio o in alternativa di affondare insieme a lei. L’esito inevitabile della loro relazione sarà il
peggiore possibile.
La realtà dei fatti ci dice però che non è necessario andare al cinema per accorgersi di quanto la
conflittualità di coppia, esportata nei tribunali, possa risultare aspra, insanabile e caratterizzata da
una contrapposizione di proiezioni reciproche che si pongono come ostacolo alla conciliazione.
L’obiettivo del presente scritto è di compiere una riflessione su come il funzionamento paranoide
dei genitori entri in gioco, in maniera deleteria, nelle separazioni ed in particolare nei procedimenti
riguardanti l’affidamento dei figli, ambito quest’ultimo in cui si trovano ad essere coinvolti gli
psicologi che operano come consulenti tecnici per il tribunale.
A proposito del concetto di funzionamento paranoide è opportuno fare alcune precisazioni: le più
moderne concettualizzazioni della diagnosi psicologica considerano, accanto ad una componente
categoriale che colloca un individuo in un particolare gruppo nosografico (es. un soggetto
diagnosticato come “paranoico”), una componente dimensionale che permetta di valutare la severità
con cui quella determinata caratteristica (es. “la paranoia”) si presenti nell’individuo, quanto sia in
grado di compromettere i suoi processi cognitivi, affettivi ecc… e quanto interferisca con il
funzionamento nelle principali aree di vita. Anche riguardo al funzionamento paranoide osservabile
nei processi di separazione è possibile distinguere differenti livelli di gravità in una scala che va
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dall’organizzazione psicologica “normale-nevrotica” a quella “psicotica” passando per forme
intermedie quali i disturbi di personalità.
Entrando nel dettaglio degli argomenti che verranno trattati nel presente scritto, con il capitolo 1 si
porranno le premesse legislative e giuridiche in tema di separazione, divorzio e di affidamento di
minori, con particolare riferimento al ruolo dello psicologo consulente tecnico del giudice.
Nel capitolo 2 si tratterà la paranoia da un punto di vista nosografico distinguendone le varie
manifestazioni, da quelle non patologiche alle differenti forme psicopatologiche in cui può
manifestarsi.
Nel capitolo 3 si rifletterà sul processo psicologico che segna il passaggio dall’armonia del rapporto
di coppia alla conflittualità di marca paranoidea che a volte sopraggiunge nella separazione.
Oggetto del capitolo 4 sarà il funzionamento paranoide nell’ambito del tribunale, osservato in
particolare in funzione dell’attività del Consulente Tecnico d’Ufficio.
Il capitolo 5 infine si occuperà di come le manifestazioni psicopatologiche della paranoia entrino in
gioco nei processi di affidamento.
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CAPITOLO 1
AFFIDAMENTO DI MINORE: LA CORNICE GIURIDICA
Secondo l’ordinamento giuridico italiano, gli istituti in grado di sciogliere il vincolo matrimoniale
sono la separazione ed il divorzio.
Perché una coppia chieda di separarsi non è necessaria la presenza di una grave colpa da parte di
uno dei due coniugi: elementi come l’incompatibilità del carattere o in generale l’impossibilità a
portare avanti la propria unione sono motivazioni sufficienti per metterla in atto.
La separazione non rappresenta un istituto definitivo, in qualsiasi momento cioè la coppia può
decidere di tornare insieme. Inoltre, essa non prevede la cessazione di tutti gli effetti civili del
matrimonio ma solo di alcuni quali la comunione dei beni o l’obbligo di fedeltà e di coabitazione; in
virtù della separazione inoltre il coniuge economicamente “forte” è tenuto a versare l’assegno di
mantenimento al coniuge economicamente “debole” ed agli eventuali figli della coppia. E’ già in
sede di separazione inoltre che si decide per l’affidamento e la collocazione dei figli stessi.
La legge italiana distingue una separazione consensuale ed una separazione giudiziale, a seconda
che si riesca a raggiungere o no un accordo sulle condizioni riguardanti l’affidamento dei figli,
l’assegno di mantenimento, la dimora nella casa coniugale. Si rende necessaria la separazione
giudiziale anche quando l’intento viene portato avanti da un solo coniuge.
Nella separazione consensuale, avendo i coniugi trovato un accordo senza bisogno di “mediazione”,
il ruolo del giudice consiste esclusivamente nel verificare che quanto stabilito sia conforme alle
norme vigenti. Nella separazione giudiziale invece, a causa della conflittualità della coppia e
dell’impossibilità di giungere ad un accordo, l’intervento del giudice si rende necessario per
disporre a proposito degli elementi sopra citati oggetto della controversia.
L’istituto giuridico del divorzio è stato introdotto in Italia in tempi piuttosto recenti: con la legge
Fortuna-Baslini del 1° dicembre 1970, “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”, fu
sancita la possibilità per le coppie di vedere riconosciuta da un punto di vista giuridico la cessazione
del vincolo matrimoniale; in realtà fu però necessaria la vittoria del “no” al Referendum abrogativo
del 12 maggio 1974 perché la legge trovasse una sua affermazione definitiva, vincendo
l’opposizione delle frange antidivorziste. Con il divorzio, la cessazione degli effetti giuridici del
matrimonio si rende definitiva e gli ex coniugi possono unirsi in nuove nozze “civili”.
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Precedentemente era possibile fare richiesta di divorzio solo una volta passati tre anni dalla
domanda di separazione; dal 2015 invece è stata introdotta la formula del “divorzio breve”, del
quale si può fare richiesta sei mesi dopo la domanda di separazione consensuale ed un anno dopo la
domanda di separazione giudiziale.
Anche rispetto al divorzio sono previste le due differenti condizioni del divorzio congiunto e del
divorzio giudiziale, a seconda che i coniugi procedano di comune accordo o siano in conflitto
riguardo alla decisione di divorziare o sulle questioni precedentemente citate a proposito della
separazione: assegnazione della casa, assegno di mantenimento, affidamento dei figli.
Oltre a decidere l’affidamento più idoneo in caso di controversia, al giudice spetta anche il compito
di stabilire il genitore “collocatario” dei figli e la frequentazione con l’altro genitore. La normativa
relativa all’affidamento è valida anche per le coppie non unite in matrimonio.
In virtù di quanto previsto dalla legge, risulta evidente come la questione dell’affidamento dei
minori nei casi di separazione e di divorzio coinvolga non solo elementi correlati agli aspetti
“affettivi” del legame tra figli e genitori ma anche più “materialistici” come la casa o il
mantenimento. Ciò fa sì che in molti casi la strada intrapresa dai coniugi per mettere fine al loro
rapporto sia di tipo giudiziale, nonostante le lungaggini che questo percorso comporta, perché gli
interessi in gioco sono elevati e, come vedremo, proprio per questo possono più facilmente
sollecitare dimensioni inconsce legate alla sensazione di essere riconosciuti e rispettati dall’ex
partner, dagli addetti ai lavori che si trovano a contribuire alle decisioni finali e dallo Stato più in
generale.
A proposito della decisione che spetta al giudice nei casi di una separazione o di un divorzio
giudiziale, è necessario citare la legge n.54 dell’8 Febbraio 2006 che ha “ridisciplinato” l’Art. 155
del Codice Civile nello stabilire i criteri riguardo ai provvedimenti relativi ai figli.
Prima di tale legge, i giudici tendevano a preferire l’affidamento esclusivo a quello congiunto,
principalmente poiché quest’ultimo richiedeva un livello di accordo tra i genitori troppo elevato da
potersi realizzare facilmente.
Con la legge 54 il legislatore si è posto come obiettivo quello di sancire il principio della
“bigenitorialità” sulla scorta di quanto decretato dall’art. 9 della Convenzione di New York, che
afferma tra le altre cose come debba essere garantito il rapporto tra ciascun genitore ed il figlio o i
figli a meno che non sussistano motivazioni che ledano la salute o il benessere dei fanciulli, quali i
maltrattamenti o le trascuratezze.
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Così risulta l’Art. 155 del codice civile (“Provvedimenti riguardo ai figli”) dopo la modifica
apportata dalla legge 54:
“Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un
rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione ed istruzione
da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo
genitoriale.
Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, il giudice che pronuncia la separazione
personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento
all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori
restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quali di essi sono affidati, determina i
tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissano altresì la misura e il modo
con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione
dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori.
Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole.
La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i
figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo
conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la
decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria
amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente”.
Con la modifica in questione si esplicita la necessità del mantenimento di un rapporto continuativo
tra ciascun genitore e figlio indipendentemente dagli esiti della relazione tra i genitori; tale rapporto
va inoltre a configurarsi come un “diritto” per il figlio e non per il genitore, per il quale invece
rappresenta principalmente un “dovere” in riferimento alle aree citate nella legge e della cui cura
risponde ciascun genitore: la salute, l’istruzione, l’educazione. Appare evidente come il criterio
fondamentale che guida la normativa in questione sia quello di porre l’interesse dei minori al primo
posto, collocando invece i genitori in una posizione di responsabilità nei confronti delle propria
prole anche una volta terminata la relazione coniugale.
L’affidamento condiviso costituisce dunque la soluzione preferibile per realizzare nei fatti il
principio della bigenitorialità così come sancito dalla legge; esso prevede l’effettivo esercizio della
responsabilità genitoriale da parte di entrambi i genitori e la partecipazione di tutti e due alla cura
dei figli. L’affidamento condiviso non implica però una suddivisione “aritmetica” del tempo passato
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dai figli con entrambi i genitori: al minore viene riconosciuto il diritto di avere un punto di
riferimento abitativo presso uno dei due genitori che sarà dunque il “collocatario”. Si garantisce in
ogni caso al figlio la frequentazione anche con il genitore non collocatario.
In base alla normativa attuale è tutt’ora previsto l’affidamento esclusivo quale soluzione
eccezionale che il giudice può disporre se ritiene che l’affidamento condiviso causi un danno al
minore. In caso di affido esclusivo, il genitore affidatario esercita la responsabilità genitoriale in
maniera esclusiva, anche se va sottolineato come il genitore non affidatario non perda la titolarità
della responsabilità sul figlio, anzi è tenuto a partecipare alle decisioni di maggiore interesse
riguardanti la salute, l’educazione e l’istruzione ha il diritto ed il dovere di vigilare sulla crescita del
minore, avendo la facoltà di rivolgersi al giudice se ritiene che le decisioni prese dal genitore
affidatario siano contro gli interessi del giovane.
L’affidamento esclusivo è disposto solo nei casi in cui il genitore non affidatario si sia dimostrato
non idoneo ad occuparsi del figlio ed in tutti i casi in cui l’affidamento condiviso può costituire un
oggettivo pregiudizio per il minore (es. genitore infermo al punto da non poter assumere la
responsabilità genitoriale oppure genitore che si disinteressa del figlio rendendo impossibile la
condivisione delle scelte riguardanti la sua educazione), mentre la distanza geografica tra i domicili
dei genitori non rappresenta un criterio in grado di indirizzare automaticamente verso l’affido
esclusivo.
La decisione da parte del giudice per un affidamento di tipo esclusivo deve essere motivata, a
testimonianza del fatto che per derogare dal principio della bigenitorialità siano necessarie delle
fondate motivazioni.
La bigenitorialità è dunque il criterio che guida l’orientamento attuale rispetto all’affidamento prima
di tutto a livello legislativo e poi a livello giudiziario. La realtà dei fatti ci dice però che la sua
realizzazione non è così automatica neanche nei casi di affidamento condiviso, anzi è spesso
processo complesso per molte coppie che si separano a causa della conflittualità che le
contraddistingue. Ostilità, rancori e diffidenze reciproche non facilitano il compito dei genitori di
trovare uno spazio di condivisione sulle scelte riguardanti il figlio. Spetta al giudice individuare i
percorsi più idonei per realizzare la bigenitorialità anche nei casi di coppie altamente conflittuali.
Per portare a termine il compito decisionale a cui è chiamato, il giudice può essere coadiuvato da
uno psicologo che svolga la funzione di Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU); il giudice si rivolge
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al CTU ponendogli dei quesiti specifici a proposito dell’affidamento dei figli, a cui lo psicologo
risponderà con una Consulenza Tecnica.
Nello specifico, il quesito del giudice solitamente riguarda la valutazione delle competenze
genitoriali di ciascun genitore, osservate sia da un punto di vista pratico che psicologico ed emotivo,
e la qualità della sua relazione con il figlio; altri elementi oggetto del quesito possono essere la
capacità di ciascun genitore di gestire il conflitto con l’ex partner e di favorire il rapporto di questo
con il figlio; nel quesito spesso figura anche l’osservazione dello stato psicologico del minore, in
particolare in relazione al rapporto coi genitore e tra i genitori. Tendenzialmente il quesito si
conclude con la richiesta al CTU di proporre la formula di affidamento considerata più opportuna, il
genitore collocatario ed i tempi di permanenza del figlio da ciascun genitore.
Il CTU per svolgere la sua consulenza si avvale di una serie di pratiche e di strumenti quali: l’analisi
dei fascicoli processuali, i colloqui condotti con entrambi i genitori singolarmente ed in coppia, i
colloqui con eventuali altre figure implicate nelle dinamiche in oggetto (parenti, insegnanti,
assistenti sociali), i colloqui con il minore stesso qualora abbia raggiunto i dodici anni di età, la
somministrazione di test psicologici ai genitori ed al figlio, le visite domiciliari e di ogni altro
strumento o procedimento ritenuto utile a rispondere ai quesiti. Al termine redige una relazione
finale nella quale risponde ai quesiti del giudice e propone le soluzioni ritenute più idonee.
L’avvalersi da parte del giudice di un consulente tecnico esperto nel campo della psicologia risulta
particolarmente opportuno se si considera le molteplici implicazioni psicologiche che gli eventi
della separazione e dell’affido comportano sia per i genitori che per i figli. Tra questi, la diffidenza,
la sospettosità e l’ostilità tipiche di un funzionamento paranoide, che possono riscontrarsi in genitori
più o meno patologici coinvolti nel processo della separazione, richiedono tutta l’esperienza e la
competenza clinica dello psicologo che si trova a dover comprendere - elemento propedeutico al
giudicare - e nello stesso tempo a gestire queste delicate situazioni in cui gli interessi del minore
scompaiono, soffocati dalle pretese e dalle rivendicazioni dei genitori.
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CAPITOLO 2
NOSOGRAFIA DEL FUNZIONAMENTO PARANOIDE
La diagnosi in ambito psicologico è un processo che presenta delle caratteristiche differenti rispetto
alla diagnosi medica. Individuare una patologia della mente non è esattamente come riconoscere
una malattia fisica, che presenta un’eziologia (la causa scatenante) ed una patogenesi (l’alterazione
anatomopatologica conseguente) ben precise. Spesso è più corretto descrivere le patologie della
mente come delle “sindromi”, cioè come insieme di sintomi (cognitivi, affettivi, comportamentali)
che tendono a presentarsi contemporaneamente in un numero sufficiente di soggetti tanto da
permettere di individuare una categoria nosografica.
In realtà però si è giunti da tempo alla consapevolezza che la diagnosi psicologica non riesce a
descrivere il malessere psichico esclusivamente utilizzando delle categorie discrete di patologie,
come accade nella medicina. L’insieme dei sintomi che costituiscono alcune sindromi possono
infatti presentarsi in differenti livelli di intensità negli individui; più propriamente andrebbe detto
che in alcuni casi ci si trova di fronte a modalità di intendere, sentire e rapportarsi al mondo che nel
loro manifestarsi in maniera rigida ed intensa assurgono alla dimensione di sintomi patologici,
altrimenti, se manifestantisi nell’individuo in maniera moderata, saltuaria e flessibile costituiscono
solo tratti del carattere.
Il concetto di “diagnosi dimensionale”, che nella pratica diagnostica va affiancato alla “diagnosi
categoriale”, si fonda proprio sulla concezione che esistono determinate caratteristiche di
personalità individuate dalla presenza di pattern e cioè da manifestazioni psicologiche che si
verificano sovente in associazione. Da un punto di vista psicodinamico, si può dire che alla base di
tali pattern sono presenti meccanismi di difesa differenti, ovvero differenti modalità di adattarsi al
mondo. E’ l’intensità, ovvero la frequenza con cui queste caratteristiche si palesano, a connotare lo
“stile caratteriale” di un soggetto, che a seconda dei casi potrà presentare più marcati aspetti
narcisistici, dipendenti, ossessivi ecc… in una personalità non strettamente psicopatologica; quando
invece uno o più di questi tratti di personalità assume un carattere significativamente pervasivo,
tanto da quasi monopolizzare il funzionamento mentale dell’individuo ed il suo modo di
approcciarsi al mondo, allora si potrà parlare di una condizione psicopatologica.
Il concetto di “dimensionalità” è particolarmente chiaro nello studio dei disturbi di personalità, che
secondo il manuale psichiatrico DSM-5 sono definiti tra gli altri dal criterio: “il modello abituale
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risulta inflessibile e pervasivo in una varietà di situazioni personali e sociali” (American
Psychiatric Association, 2013).
Ciò che da un punto di vista descrittivo si può definire un tratto di personalità o un pattern
sintomatico, da un punto di vista più profondo e processuale identifica un tipo di funzionamento che
il soggetto mette in atto in una determinata situazione per adattarsi al mondo interno ed esterno e
gestire le situazioni fonte di stress; ne è un esempio il funzionamento paranoide, che consiste in una
modalità ricorrente di percepire la realtà in maniera sospettosa, diffidente, prevenuta.
In linea con quanto detto precedentemente, è possibile collocare il funzionamento paranoide su un
continuum dimensionale che va da livelli di funzionamento normale-nevrotici - ossia chiunque in
situazioni di scarsa confidenza potrebbe avvertire la sensazione di essere esposto ad un rischio e
reagire in maniera sospettosa ed ipervigile - a forme più gravi come appunto il Disturbo della
Personalità Paranoide o all’estremo di gravità del continuum le psicosi paranoidee.
L’etimologia del termine “paranoia”, mutuato dal greco antico nel quale significava “follia”,
rimanda alle parole “para”, cioè “oltre”, e “nous”, “mente”. Il riferimento ad una “mente che va
oltre” rimanda alla propensione a “leggere” la realtà attribuendo ad essa significati che vanno al di
là della pura percezione.
La paranoia propriamente detta è una manifestazione clinica collegata ai quadri psicotici, in quanto
elemento che può caratterizzare il delirio. Il Disturbo di Personalità Paranoide consiste invece in
una patologia del carattere rigidamente incentrata sulla sospettosità ma in assenza di franco delirio.
Il manuale di psichiatria realizzato dall’American Psychiatric Association, il DSM, fino alla sua
quarta edizione del 1994 descriveva un tipo di schizofrenia, la schizofrenia paranoide, caratterizzata
dalla presenza di deliri di stampo paranoideo (questa sottocategoria è stata eliminata nel DSM-5,
ultima versione del manuale pubblicata nel 2013, mentre è ancora contemplata nell’ICD-10, cioè la
classificazione internazionale delle patologie mediche stilata dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità).
Il quadro sintomatico della schizofrenia paranoide prevede i sintomi schizofrenici ed in particolare
la preoccupazione riguardo ad uno o più deliri, oltre a frequenti allucinazioni uditive. Il delirio
consiste in un’interpretazione errata ed incrollabile della realtà non correggibile da critica, giudizio
o esperienza, dal contenuto tendenzialmente assurdo; nel caso della schizofrenia esso si
accompagna ad una alterazione dei processi logici. Il delirio dello schizofrenico paranoide è
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caratterizzato da “idee di riferimento”, e cioè la convinzione che eventi esterni casuali siano riferiti
a sé.
La letteratura scientifica prevede la presenza di un altro tipo di psicosi paranoidea, in passato
definita Paranoia Cronica e che tutt’ora il DSM-5 chiama Disturbo Delirante; essa si distingue dalla
schizofrenia paranoide per il fatto che il soggetto non manifesta i principali sintomi schizofrenici
(deliri, allucinazioni, eloquio e comportamento disorganizzato, sintomi negativi) tranne un delirio
cronico, sistematizzato ed incrollabile, dai contenuti piuttosto realistici. In questa psicopatologia la
persona risulta sufficientemente adattata all’ambiente ed adeguata nelle interazioni con il mondo
esterno, fatta eccezione per l’esperienza delirante che appare “incapsulata”. Il rifiuto del confronto
con l’esterno rappresenta la principale testimonianza del carattere delirante di un determinato
contenuto mentale, che comunque risulta meno assurdo e più realistico rispetto al delirio dello
schizofrenico. Il fatto inoltre che le funzioni cognitive del soggetto per il resto funzionino
adeguatamente rende tale patologia meno evidente ad una prima osservazione.
Il DSM identifica alcuni sottotipi di Disturbo Delirante in base ai contenuti del delirio: il delirio
erotomanico consiste nella convinzione che qualcuno sia innamorato/a dell’individuo; il d. di
grandezza rimanda alla credenza di avere una grande dote, intuizione o di aver compiuto una grande
scoperta; il d. di gelosia è riferito alla certezza di essere esposti ad un tradimento dal coniuge; il d.
di persecuzione consiste nel convincimento di essere perseguitato da qualcuno ed è il delirio
paranoideo che trova le più variegate e fantasiose declinazioni; il d. somatico riguarda funzioni e
sensazioni corporee; infine il DSM prevede anche il Disturbo Delirante di tipo misto (nessun tema
delirante predomina) e di tipo senza specificazione (non è chiaro il tema predominante).
Il Disturbo di Personalità Paranoide non rientra invece nel novero dei disturbi psicotici poiché non
prevede un’alterazione “dell’esame di realtà” (cioè un disturbo dei processi percettivi e logico-
associativi) ma piuttosto di quello che potremmo definire “il senso della realtà” e cioè del
significato che viene attribuito agli eventi. Chi soffre di questo disordine caratteriale non manifesta
ideazioni deliranti ma riconosce la realtà percettiva per quello che è; la patologia nasce dal fatto che
il soggetto attribuisce all’esterno un significato rigido, immutabile e refrattario ad ogni forma di
critica, improntato al sospetto ed alla diffidenza. Tali individui sono perennemente all’erta, molto
acuti nel cogliere i dettagli e continuamente preoccupati dall’idea di essere esposti ad un attacco da
parte degli altri. Chi soffre di Disturbo di Personalità Paranoide presenta uno stile caratteriale
talmente pervasivo da essere causa di sofferenza soggettiva ed interpersonale.
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Secondo il DSM-5, il Disturbo di Personalità Paranoide è caratterizzato da diffidenza e sospettosità
pervasiva nei confronti degli altri (tanto che le loro intenzioni vengono interpretate come malevole);
secondo il manuale per diagnosticarlo sono necessari quattro o più dei seguenti criteri:
1) sospetta, senza una base sufficiente, di essere sfruttato, danneggiato o ingannato;
2) dubita senza giustificazione della lealtà o affidabilità di amici e colleghi;
3) è riluttante a confidarsi con gli altri a causa del timore ingiustificato che le informazioni possano
essere usate contro di lui;
4) legge significati nascosti umilianti o minacciosi in osservazioni o eventi benevoli;
5) porta costantemente rancore, cioè non dimentica gli insulti, le ingiurie e le offese;
6) percepisce attacchi al proprio ruolo o reputazione non evidenti agli altri ed è pronto a reagire con
rabbia o contrattaccare;
7) sospetta in modo ricorrente, senza giustificazione, della fedeltà del coniuge o del partner
sessuale.
Numerosi autori si sono occupati di descrivere il funzionamento paranoide nelle sue caratteristiche
strutturali a livello di processi cognitivi, affettivi o meccanismi difensivi prevalenti. Esistono infatti
degli elementi comuni nel funzionamento paranoide nel nevrotico che si trova a vivere in maniera
paranoidea una situazione inattesa e stressante, nel Disturbo di Personalità e nelle patologie
psicotiche con connotati paranoidi.
Fra gli studiosi della paranoia va citato Sigmund Freud. Nelle “Osservazioni psicoanalitiche su un
caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (caso clinico del presidente
Schreber)” il padre della psicoanalisi riflette sul caso di Daniel Paul Schreber, un noto giurista
affetto da psicosi, cogliendo il pretesto per sistematizzare le sue concettualizzazioni a proposito
della paranoia.
In quest’opera, Freud spiega l’insorgenza della psicopatologia paranoidea in base all’attivazione di
due meccanismi difensivi: la proiezione e la formazione reattiva. Egli descrive la sequenza per cui il
paranoico, a causa di sentimenti di fragilità sperimentati nella relazione con l’altro, trasforma il “ti
amo” in “ti odio” (formazione reattiva) e poi, dal momento che il senso di colpa non gli permette di
sostenere il proprio sentimento negativo, muta il “ti odio” in “tu odi me” (proiezione).
Nella sua teorizzazione Freud individua una connessione tra questa categoria patologica e
l’omosessualità; oggi è possibile reinterpretare questo nesso come piuttosto il bisogno del paranoide
di relazionarsi ai propri “simili” (laddove la similitudine non riguarda solo il genere sessuale),
poiché troppo turbato dal rischio associato all’interazione con persone diverse da sé.
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Lo psicologo americano David Shapiro ha descritto lo stile di personalità paranoide non psicotico
come caratterizzato da un’interpretazione “autistica” di elementi “effettivi”: il soggetto paranoide
cioè non ha nessun disturbo del pensiero-logico formale, ma a livello interpretativo rinuncia ad
utilizzare elementi contestuali per attribuire significato a ciò che sperimenta, perché troppo preso
dalla necessità difensiva di rintracciare conferme di proprie aspettative di pericolo. Per questo
motivo il suo approccio alla realtà è ipervigile, rigido, prevenuto, improntato alla ricerca
unicamente di una conferma del proprio sospetto. La tensione psichica che ne deriva a volte può
evolvere in tensione fisica costante ed implica una perdita di spontaneità nel comportamento, che
diventa intenzionale ed orientato ad un fine, tendenzialmente quello di prevenire un attacco.
Alla base del funzionamento paranoide è rintracciabile uno scarso senso di autonomia,
probabilmente derivante da esperienze infantili che non hanno incoraggiato la propria self efficacy,
e la tensione auto-prodotta concorre ad aumentare la mancanza di libertà nel potersi abbandonare
alle situazioni o affidare agli altri. Il sentimento di costrizione è proiettato all’esterno e diventa la
sensazione che gli altri vogliano limitare l’autonomia del soggetto, con conseguente reazione di
rabbia e di aggressività.
Secondo la psicoanalista Nancy McWilliams il funzionamento paranoide è rintracciabile in
individui con organizzazione nevrotica, borderline e psicotica della personalità.
Nella descrizione della personalità paranoide secondo l’autrice sono cruciali alcune emozioni: il
soggetto con personalità paranoide innanzitutto fin dalla prima infanzia ha sperimentato una
difficoltà a gestire la propria aggressività, anche a causa di caregiver inadeguati a fare da
contenitori ad essa.
Un altro sentimento cruciale in questo tipo di personalità è la vergogna; non si tratta però di una
vergogna consapevole, ma piuttosto di un affetto negato e proiettato all’esterno, il soggetto
paranoide cioè non riconosce la propria paura di essere sottomesso, umiliato o soverchiato dall’altro
come uno stato emotivo proprio, ma come un effettivo rischio presente all’esterno e ciò fa sì che il
sentimento da lui sperimentato sia piuttosto di rabbia, “giustificata” dall’intenzione malevola che
ritiene l’altro abbia nei suoi confronti.
Infine, secondo la studiosa, la personalità paranoide è caratterizzata dal senso di colpa, anch’esso
però è prevalentemente proiettato e trasformato in minaccia di essere punito per proprie
responsabilità più o meno coscienti.
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Secondo la McWilliams i soggetti paranoidi hanno subìto nella loro infanzia esperienze familiari di
umiliazione e sopraffazione che non li hanno aiutati ad interiorizzare un’immagine dell’altro come
sufficientemente accogliente e comprensivo nei loro confronti. Ciò favorisce lo sviluppo di un sé
caratterizzato da due polarità: “un’immagine di sé impotente ed umiliata” e dall’altra parte
“un’immagine onnipotente, vendicativa e trionfante” che svolge una funzione compensatoria. “Il
lato debole di questa polarità è evidente nel grado di paura in cui i paranoici vivono cronicamente.
[…] Il lato grandioso si manifesta sotto forma di autoriferimento: tutto ciò che accade li riguarda
in qualche modo personalmente” (MCWilliams, 1994). Il senso di grandezza del paranoide è
considerato dall’autrice tra le cause del senso di colpa, poiché quest’ultimo sorge in reazione al
vissuto di potere sull’altro che a sua volta compensa il terrore della svalutazione. Non a caso, nota
la psicologa, le situazioni precipitanti per la manifestazione di una forte sintomatologia paranoide
possono essere costituite sia da fallimenti (umilianti) che da successi (che producono senso di
onnipotenza, colpa e timore di punizione).
Secondo il PDM (Manuale Diagnostico Psicodinamico) nel soggetto paranoide sono presenti dei
temi dominanti di cui i più significativi sono il tema dell’ostilità - che è prevalentemente proiettata
all’esterno e diventa il timore di subire un attacco che a sua volta “giustifica” la propria ostilità -,
della dipendenza – il bisogno dell’altro è trasformato dal soggetto paranoide nella paura di essere
sottomessi -, del potere – “quello persecutorio degli altri e quello megalomanico che attribuiscono
a se stessi”- (AA.VV., 2006)
Un altro contributo importante alla descrizione della personalità paranoide è quello offerto da Glen
O. Gabbard: lo studioso americano sottolinea come il pensiero paranoide di per sé non costituisca
una manifestazione patologica: la modalità schizoparanoide, consistente nello scindere pensieri e
sentimenti dolorosi ed attraverso la proiezione attribuirli agli altri, appartiene al ciclo di vita ed è
utilizzata largamente dagli individui ad esempio in situazioni gruppali, dando vita alla nota
dinamica in group/out group. Secondo l’autore, quando invece tale modalità si radica a tal punto in
una personalità da diventarne dominante, assume i connotati di un’entità patologica.
Sottolineando l’ingerenza della scissione nella genesi di questo tipo di funzionamento mentale,
Gabbard evidenzia come questa sia indispensabile per il soggetto paranoide per tenere “l’oggetto
buono” preservato dalla distruttività “dell’oggetto cattivo”. Ogni tentativo di integrazione tra i due
cioè, è fonte di profonda ansia e la proiezione dell’oggetto cattivo all’esterno diventa funzionale alla
gestione di questa angoscia.
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Il paziente paranoide è descritto dall’autore come teso, ipervigile, costantemente impegnato a
controllare l’altro per compensare i propri sentimenti di inferiorità ed il timore di essere controllato
dall’esterno, ovvero di sperimentare vissuti di dipendenza. A causa della presenza di tali rigide
modalità difensive e della conseguente impossibilità di costruirsi un oggetto interno stabile ed
integrato, l’esperienza che il paranoide fa della propria realtà è priva di continuità, caratterizzata
dall’incapacità di apprendere e di costruirsi una fiducia dalle esperienze positive con gli altri.
Un altro aspetto che caratterizza questo stile di funzionamento è la difficoltà a distinguere il
sentimento dalla “cosa”, e quindi vivere le proprie esperienze emotive cogliendone la valenza
simbolica e la natura “come se”. Gabbard spiega questo concetto con l’esempio per cui il paziente
paranoide non è in grado di dire: “sento di reagire verso di lei come se lei fosse sadico come lo era
mio padre” (Gabbard, 2000), ma piuttosto credendo davvero che l’interlocutore goda nel fargli del
male. L’autore aggiunge, citando Ogden, che “quando i pazienti sviluppano un Sé mediatore in
grado di interpretare accuratamente e di pensare simbolicamente in termini di “come se”, allora
essi hanno raggiunto la posizione depressiva” (Ogden, 1986)
Per descrivere efficacemente il funzionamento paranoide è necessario soffermarsi sui meccanismi
di difesa che più lo contraddistinguono, e cioè la proiezione, l’identificazione proiettiva, la
negazione e la formazione reattiva.
La proiezione consiste nell’attribuire all’altro “i propri sentimenti, impulsi o pensieri non
riconosciuti” (Lingiardi, 1994). Nel caso del paranoide l’utilizzo di questo meccanismo di difesa è
evidente ad esempio nell’attribuire all’altro la propria aggressività, ma anche il proprio desiderio di
vicinanza.
Nell’identificazione proiettiva invece “il soggetto proietta su qualcun altro un affetto o impulso per
lui inaccettabile come se fosse realmente l’altro ad aver dato vita a tale affetto o impulso. Il
soggetto non disconosce ciò che ha proiettato (a differenza della proiezione semplice),
semplicemente lo interpreta erroneamente come reazione giustificabile nei confronti dell’altro”
(Lingiardi, 1994). Il soggetto paranoide per espellere la propria aggressività ricorre anche
all’identificazione proiettiva, giustificando la propria rabbia nei confronti dell’altro come “normale
reazione” all’ostilità altrui.
Nella negazione il soggetto nega un vissuto emotivo interno o un aspetto della realtà esterna perché
costituisce per lui fonte di stress. Tali contenuti non appaiono presenti nella coscienza del soggetto.
E’ il caso ad esempio del bisogno dell’altro, che il paranoide non si riconosce ma trasforma nel suo
opposto, l’ostilità, tramite l’azione della formazione reattiva.
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La formazione reattiva consiste infatti nel sostituire pensieri o sentimenti non accettati nel loro
opposto che è sentito come più gestibile o più coerente con la propria identità.
Nel complesso il funzionamento mentale paranoide si caratterizza per un difetto nel processo di
attribuzione di significato che produce una confusione tra realtà esperita ed interpretazione di essa:
la lettura che si dà della realtà è esagerata, mossa da elementi soggettivi, irreale.
La disamina appena compiuta osserva questo fenomeno in particolare in rapporto alla patologia che
come visto può essere intensa, pervasiva e difficile da affrontare da un punto di vista
psicoterapeutico. Ciò non toglie che questa tipologia di funzionamento mentale, che rimanda ad una
strategia difensiva drastica, fondata sulla scissione e diretta a prevenire situazioni sentite come
estremamente rischiose soprattutto per l’incolumità dell’Io può manifestarsi in chiunque, in
ossequio alla logica della diagnosi dimensionale. Qualunque persona cioè, se esposta ad un evento
stressante come può essere una separazione da un partner o dai propri figli, può sviluppare
sentimenti paranoidei, poiché l’interruzione del legame familiare in particolare ha l’effetto di
mettere in discussione numerosi aspetti significativi riguardanti il proprio valore, la sensazione di
essere amati, il senso di riuscita personale nella vita, e può sollecitare sentimenti quali la vergogna e
l’umiliazione. La capacità di gestire la proiezione paranoidea “riconoscendo” la propria parte
proiettata costituisce anche in un individuo normale, esattamente come in un soggetto patologico,
una risorsa preziosa per superare esperienze conflittuali e pervenire ad un adattamento il più
possibile efficace e soddisfacente al proprio ambiente.
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CAPITOLO 3
IL FUNZIONAMENTO PARANOIDE NEL RAPPORTO DI COPPIA
La relazione di coppia è un’esperienza comune a quasi tutti gli esseri umani, nonostante richieda a
ciascuna persona un importante “lavoro” da un punto di vista psicologico. La condizione di essere
“due” invece di “uno” apre infatti uno scenario nuovo, caratterizzato dalla rinuncia ad alcune libertà
individuali a favore della condivisone del proprio percorso di vita con un’altra persona.
Stare insieme implica necessariamente una riorganizzazione; ciò riguarda tanto le situazioni
pratiche, come la gestione del tempo, le abitudini, la condivisione dei possessi materiali
ecc…quanto la qualità del vissuto psicologico individuale: una dimensione duale impone una
ridefinizione personale, è impossibile cioè restare immodificati dall’incontro affettivo e relazionale
con un’altra persona; eppure moltissimi soggetti ricercano insistentemente questa condizione di
immutabilità, inseguendo all’interno dei rapporti esclusivamente la conferma di se stessi, spesso a
scapito dell’individualità dell’altro.
Costituire una coppia significa costruire un “sistema” che con l’avvento dei figli diventa un sistema-
famiglia; in quanto sistema, la coppia si caratterizza per il disvelamento di “proprietà emergenti”,
cioè di elementi che non sono riconducibili ai caratteri degli individui che la costituiscono e che non
possono essere spiegati con la loro semplice somma algebrica; in altre parole, il modo di essere e di
sentire dei singoli e le modalità di funzionamento di quel sottosistema della coppia che è il sistema
personale non sono sufficienti a spiegare il modo in cui la coppia funziona ed i percorsi che essa
intraprenderà per conseguire gli obiettivi comuni.
Stare in una relazione significa dunque essere coinvolto con l’altro in un rapporto di interrelazione,
di influenza e di trasformazione reciproca, e realizzare due funzionalità fondamentali per la
sussistenza psicologica individuale: quella “dell’essere”, cioè del sentirsi confermato in quanto se
stesso nel proprio sentire, nelle proprie credenze e nel proprio agire - aspetto realizzato attraverso il
riconoscimento che l’individuo sente di ricevere dal partner - e quella del “divenire”, cioè
l’esperienza della trasformazione, dell’evoluzione, che nella coppia esattamente come nella
psicoterapia è garantita dalla presenza dell’altro come portatore di un punto di visuale differente da
quello in cui si trova il soggetto stesso.
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La coppia però, in quanto sistema, costituisce a sua volta un’unità che necessita di realizzare le
stesse funzionalità ricercate a livello individuale: una relazione d’amore ha bisogno di essere
confermata nella sua immutabilità, che è garanzia di coerenza e continuità, e nello stesso tempo ha
bisogno di evolvere e di diventare altro.
Il giuramento di amore eterno ed il radicarsi delle abitudini della coppia sono esempi della parte che
si conferma; la ricerca invece dei cambiamenti, dalla casa nuova alla decisione di avere un figlio,
rappresentano la parte evolutiva.
Va evidenziato che la parte evolutiva della coppia non si manifesta solo sotto forma di una
trasformazione condivisa da entrambi i partner ed in sintonia con il desiderio cosciente comune a
tutti e due; a volte il bisogno di trasformazione non è percepito, o è percepito solo da uno dei due
partner, ed in quel caso può prendere le forme prima dell’insoddisfazione, poi del conflitto ed infine
della crisi di coppia; è in quel frangente che possono manifestarsi fenomeni quali il litigio, il
distanziamento, il tradimento fino ad arrivare alla separazione. Si tratta di situazioni in cui il
proseguimento armonico del rapporto è messo in discussione dalla presenza di tensioni interne che
non riescono a trovare una positiva elaborazione.
“La crisi nel rapporto di coppia è inevitabile. […] E’ nell’innamoramento che noi viviamo la dolce
sensazione di essere amabili. Tuttavia forse siamo amabili anche perché viene colta la disponibilità
ad andare oltre, cioè di procedere assieme sulla strada evolutiva dell’amore. Questo ci spinge
verso lidi inesplorati. Purtroppo, spesso, accedere al movimento della vita viene vissuto come
perdere l’amore dell’altro. Non è un rischio che si è disposti a correre facilmente. Seguire la
propria evoluzione è una prospettiva non facile. Da una parte dovrebbe essere naturale, visto che
la vita è movimento. Dall’altra però, per una serie di motivi, si ha paura di cambiare perché entra
in gioco la “riflessività” che blocca il processo. Il più delle volte ci irrigidiamo e ci fossilizziamo”.
(Minolli, 2011)
Nei casi in cui i partner non riescono a trovare la strada per sciogliere la crisi accogliendo il bisogno
di evolvere come un’opportunità per entrambi e non come un rischio, allora tendenzialmente la
rottura può diventare definitiva.
Il cambiamento che favorisce il movimento della coppia ma che, se non compreso, può generare la
crisi e la sofferenza, può essere spiegato attraverso il concetto “dell’alterità”. Stare in relazione
significa aprirsi inevitabilmente all’incontro con un altro, il quale ci propone una realtà individuale
differente dalla nostra. La presenza dell’altro permette il realizzarsi della dialettica così come
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concettualizzata da Hegel: l’alterità costituisce il “differente” rispetto alla nostra idea, “l’idea fuori
di sé” che in quanto antitesi alla nostra tesi crea i presupposti per cui si realizzi il processo di
sintesi; la sintesi permette il movimento sia a livello di psiche individuale, sia a livello di esperienza
duale, cioè di coppia.
Fare i conti con l’alterità non è però compito semplice; a tal proposito è interessante la riflessione
che ne fa lo psicoanalista argentino Isidoro Berenstein: egli parla “dell’ovvio”, inteso come “ciò che
è scontato, (che) si basa sull’idea di attribuire agli altri le nostre stesse credenze ed i nostri stessi
pensieri, come se questo fosse una cosa naturale” (Berenstein, 2005). L’autore afferma che l’ovvio
in sé tende alla negazione dell’altro mentre le “credenze” personali sono il materiale psicologico su
cui si struttura la dimensione soggettiva dell’individuo.
In contrapposizione all’ovvio, il partner all’interno della relazione prima o poi fa i conti anche con
la credenza altrui, che è vissuta come qualcosa di estraneo da sé; allo stesso modo, anche l’altro
vive in una realtà psichica per cui la propria credenza costituisce l’ovvio mentre quella del partner
l’elemento “estraneo”. Secondo lo psicoanalista tale estraneità, in quanto non inglobabile all’interno
della propria credenza, crea incertezza ma anche dinamismo. Poter accogliere e fare tesoro della
credenza dell’altro permette di non restare imprigionati nella propria, ma aprirsi ad una visione del
mondo più completa e meno limitante, rendendo la dimensione relazionale un’occasione di
arricchimento reciproco. Non entrare in connessione con la credenza altrui, perché troppo spaventati
dal dinamismo che questa comporta, ha invece come risultato il generarsi di una tensione che può
evolvere in azioni incontrollate che generano conflitto ed infine la rottura del rapporto.
E’ possibile definire la fine di una relazione d’amore come un’esperienza traumatica nella misura in
cui implica, esattamente come l’inizio del rapporto, una profonda riorganizzazione del senso di sé,
consistente nella fattispecie nel passare dall’essere coinvolto in un sistema duale al tornare ad essere
unicamente sistema individuale.
La perdita della persona amata rappresenta la perdita di un percorso comune, fatto di obiettivi,
aspirazioni e necessità di entrambi; essa rappresenta un “lutto” che è necessario elaborare -
passando attraverso la fase “melanconica” - per potersi ristrutturare come sistema individuale,
conquistando uno stato di rinnovata autonomia rispetto alla relazione che fino a poco prima
includeva l’individuo e gli conferiva un significato a cui, nelle prime fasi dell’elaborazione del
lutto, appare impossibile rinunciare. La difficoltà insita in questa rinuncia deriva infatti
dall’identificazione del sistema-soggetto con il sistema-coppia, e dalla sensazione che perdere il
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secondo implichi la perdita anche del primo. L’elaborazione del lutto permette la lenta ricostruzione
del significato di sé come persona, ed una volta realizzatasi mette l’individuo in condizione di
funzionare di nuovo in maniera indipendente nonché di concedersi l’ingresso in una nuova
esperienza di coppia.
Non sempre però il processo di elaborazione del lutto, che in sé è percorso faticoso, si conclude
senza strascichi con il lasciare andare l’oggetto amato.
E’ necessario inoltre considerare che, nel momento in cui il sistema duale si separa e si ritorna a due
sistemi individuali, è inevitabile la spartizione di tutto ciò che un tempo era condiviso, che
comprende non solo pensieri, sentimenti, progetti ma anche aspetti concreti che vanno dai possessi
(case, automobili ecc..) al tempo passato con i figli. Non si tratta di un’operazione semplice poiché
richiede che l’individuo lasci andare qualcosa che un tempo sentiva parte di sé, affrontando il
proprio vissuto luttuoso. Quanto più la strada di elaborazione del lutto è ostruita, tanto più gli
aspetti precedentemente condivisi diventano oggetto di disputa. Nei procedimenti giudiziari di
separazione e di divorzio spesso i figli, oltre che la casa familiare, si trovano a svolgere questa
funzione di oggetto di una contesa che non riguarda effettivamente la relazione tra loro ed i genitori,
ma piuttosto i fantasmi relazionali di questi ultimi che, incapaci di elaborare la fine della loro storia,
si attribuiscono l’un l’altro le colpe.
Se l’elaborazione non si compie l’amore, a causa di un processo di formazione reattiva, è
trasformato in odio, un sentimento cioè altrettanto intenso che permette da un lato di mantenere la
connessione con l’oggetto, da un altro di attribuire all’oggetto stesso “proiettivamente” tutte le
responsabilità della propria sofferenza.
La formazione reattiva e la proiezione, come abbiamo già descritto nel capitolo precedente,
costituiscono il substrato difensivo del funzionamento paranoide. A volte la paranoia rappresenta la
“soluzione” che il soggetto si dà per gestire, in maniera ricorsiva e non risolutiva, la sofferenza per
la fine del sistema-coppia. L’attribuire al partner non solo la responsabilità del proprio dolore ma
anche l’intenzionalità nell’averlo provocato fa pensare che sia stata adottata una soluzione di tipo
paranoide; in questo senso l’altro, che un tempo era visto come oggetto prezioso in quanto in grado
di dare la risposta più piena al proprio bisogno di riconoscimento, diventa “oggetto malvagio” che
va combattuto ed ostacolato. Quando una coppia non è capace di elaborare il lutto della separazione
può osservarsi un’escalation di risentimento, odio ed aggressività che avvolge i due ex amanti in
una spirale che ha l’effetto di mantenerli uniti, ma all’interno di un’atmosfera emotiva opposta a
quella precedente.
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La paranoia si alimenta dall’incapacità di entrambi a rinunciare alla soluzione proiettiva per gestire
il proprio malessere, e ciò è confermato dal fatto che basterebbe che uno dei due componenti della
coppia riuscisse ad elaborare positivamente il lutto per rompere la spirale di ostilità.
Alcuni aspetti descritti come caratterizzanti il funzionamento paranoide sono ben rintracciabili negli
ex coniugi ai ferri corti. Uno di questi è il sentimento di umiliazione: quando avviene una
separazione, soprattutto quando si percepisce che la decisione sia stata presa unilateralmente, chi si
sente “lasciato” può fare i conti con un senso di vergogna; sentire che l’altro ha ritirato
l’investimento da se stessi rimanda infatti alla sensazione di essere stati giudicati negativamente, e
squalificati. Tale esperienza emotiva è ancor più intensa nei casi in cui sia presente un “terzo”,
rappresentato dal nuovo partner dell’ex coniuge; che questi ci fosse già negli ultimi tempi della
relazione coniugale in veste di amante oppure sia giunto quando il rapporto si era già concluso, in
ogni caso la sua presenza indica che l’investimento ora è stato spostato su un altro oggetto, e questa
consapevolezza può aumentare nel partner “sostituito”, a causa del meccanismo di confronto, il
senso di svilimento personale. Come detto precedentemente, in questi casi la rabbia può costituire
un’efficace “antidoto” per non percepire la vergogna, ed il ricorso ai meccanismi difensivi
paranoidei prima descritti permette di esprimerla sentendola giustificata e legittima.
Un’ulteriore componente tipica del funzionamento paranoide, e rintracciabile nella conflittualità di
una coppia che si separa, è la dialettica potere-dipendenza. La sensazione di non essere più amato e
riconosciuto può generare nel soggetto, che non riesce a distaccarsi dal partner, il vissuto di
dipendere da un “oggetto cattivo”, che lo pone in un angosciante stato di mancanza e lo spinge ad
“alzare la posta”, accrescendo la richiesta che questo riconoscimento sia restituito ed alimentando
dunque la dipendenza dall’oggetto. In questi frangenti può entrare in gioco ancora una volta la
formazione reattiva, che trasforma il desiderio di dipendere nel bisogno di riacquisire potere. Allora
la contesa o in alcuni casi addirittura il ricatto riguardo alle questioni condivise, ad esempio
riguardo a questioni inerenti l’affidamento dei figli, diventa la strategia per il recupero di quel
potere da cui ci si sente privati.
La coppia che scivola in un tipo di funzionamento paranoide non è dunque riuscita ad intraprendere
quel percorso tortuoso ma risolutivo dell’elaborazione del lutto della separazione. Si tratta di casi in
cui la via del conflitto con l’altro, di cui il tribunale funge da palcoscenico, è la scelta messa in atto
per evitare di fare i conti con il conflitto interiore, che è sentito come troppo doloroso.
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CAPITOLO 4
FUNZIONAMENTO PARANOIDE E PROCESSI DI AFFIDAMENTO
Un fenomeno piuttosto familiare per tutti i professionisti che hanno lavorato come consulenti
d’ufficio in processi di affidamento di minori è la tendenza da parte dei due coniugi a raccontare la
storia della coppia e del nucleo familiare, durante la raccolta delle informazioni anamnestiche,
utilizzando dei punti di vista radicalmente diversi, a tratti inconciliabili, tanto da dare in alcuni casi
la sensazione che non si stia parlando della stessa relazione o della stessa famiglia.
Premesso che potrebbe essere anche solo uno dei coniugi a raccontare una visione distorta della
realtà, e che spesso nel differenziarsi dei racconti c’è l’ingerenza delle strategie studiate a tavolino
con i legali per produrre visioni parziali perché funzionali ai propri scopi, in molti casi la distanza di
vedute non è esclusivamente figlia di un processo volontario, ma rappresenta il manifestarsi
dell’incapacità della coppia di riconoscere la realtà mentale e dunque il punto di osservazione
presso cui si colloca l’altro. Così ad esempio in un caso si potrà ascoltare un marito lamentarsi per il
tradimento della moglie, che l’ha lasciato per un altro uomo, mentre la moglie spiegare la
separazione con le violenze messe in atto da lui, violenze a cui quest’ultimo invece non fa cenno nel
suo racconto.
In situazioni come quella dell’esempio, il processo di attribuzione della colpa è per entrambi i
coniugi completamente “proiettato”, mentre non è presente nessuna responsabilità attribuita a se
stessi. Di fronte ad intricate situazioni di questo tipo, in cui vengono raccontate “realtà”
profondamente differenti tra loro, spetta a giudice e CTU il complicato compito di appurare
l’effettivo stato delle cose per pervenire alle decisioni più appropriate.
L’abuso della proiezione appare come una manifestazione del funzionamento paranoide,
ampiamente presente nei processi di affidamento e che può coinvolgere anche un individuo non
affetto da psicopatologia.
In tribunale, spesso la questione dell’affidamento dei figli costituisce il campo di battaglia di una
guerra in cui vengono riversati tutti quei sentimenti di vergogna, umiliazione, angoscia per la
mancata elaborazione del lutto connessi alla fine di una relazione di coppia; questi vissuti in alcuni
casi si traducono nel pattern paranoideo, che apparentemente costituisce per il soggetto una
soluzione - come abbiamo già detto infatti la trasformazione, tramite la formazione reattiva,
dell’amore in odio e l’individuazione di una minaccia esterna svolgono una funzione difensiva
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rispetto ad un’emotività che non si riesce a gestire - ma in realtà ne preclude una positiva
elaborazione.
Il funzionamento paranoide può rivelarsi sotto forma di vissuti di diffidenza, ostilità, timore che il
partner voglia il proprio male o stia cercando di tendere una trappola. Da un punto di vista dei
comportamenti, si osservano di frequente atteggiamenti rivendicativi, come per fare un esempio il
tributarsi il diritto dell’affidamento esclusivo senza sufficienti basi per richiederlo (ricordiamo
secondo la legge l’affidamento di un figlio è piuttosto un dovere e non un diritto, e che a meno di
casi eccezionali spetta ad entrambi i genitori), prese di posizione gratuitamente oppositive come non
rendersi disponibile nel permettere al genitore non locatario di incontrare il figlio, o addirittura
comportamenti persecutori nei confronti dell’altro genitore che in alcuni frangenti possono esitare
nel reato di stalking.
Un discorso a parte merita il controverso concetto di PAS (Sindrome da Alienazione Parentale). In
questo scritto non ci si vuole interrogare sulla sua effettiva esistenza, ma piuttosto riflettere sul fatto
che un fenomeno di questo tipo sia stato prima di tutto riconosciuto nelle aule di tribunale, poi
elaborato ed infine utilizzato da avvocati e consulenti di parte all’interno dei procedimenti.
In realtà, indipendentemente dalla possibilità che che un genitore influenzi in negativo sentimenti e
comportamenti del proprio figlio nei confronti dell’altro genitore, un ragazzo che rifiuta un genitore
fa pensare ad una disfunzione dell’intero sistema-famiglia, che comprende padre, madre, il/i figlio/i,
gli eventuali nuovi compagni dei degli ex coniugi e le loro famiglia d’origine.
Sia che si pensi che sia effettivamente presente un genitore che mette in atto comportamenti
“alienanti”, cioè che con le sue posizioni ostili nei confronti dell’altro genitore finisca per
influenzare il figlio, sia che si pensi che invece l’idea di essere “alienato” sia frutto di un giudizio
prevenuto di un genitore che si sente perseguitato dall’ex partner, in ogni caso l’impressione è che
si tratti di un sistema-famiglia connotato dalla presenza di dinamiche di stampo paranoideo, dalle
quali esso non riesce a prescindere.
Di fronte a modalità di funzionamento paranoide messe in atto da uno o da entrambi i genitori, il
ruolo del CTU risulta cruciale e la sua formazione psicologica clinica costituisce un aiuto
significativo.
Va specificato innanzitutto che l’approccio dello psicologo in ambito peritale ad un fenomeno di
questo tipo non può essere assimilato a quello da tenersi in ambito clinico, principalmente perché
cambia il fine dell’intervento: se pensiamo ad una terapia di coppia infatti, l’obiettivo del terapeuta
è di fungere da “facilitatore” affinché i partner possano riconoscere le dinamiche consce ed
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inconsce che caratterizzano la loro interazione e quindi permettere loro di pervenire ad un maggiore
benessere personale e relazionale. Per raggiungere questo obiettivo, in presenza di manifestazioni
paranoidee il terapeuta non interviene mettendo in discussione la proiezione, almeno inizialmente,
perché questa è una difesa su cui si regge il soggetto e forse anche la dinamica di coppia; ma
piuttosto egli si impegna a portare alla luce gli affetti ed i bisogni che si celano dietro alla
proiezione stessa, validandoli ed alla lunga incoraggiando modalità più adattive di espressione degli
stessi.
In ambito peritale invece il fine e quindi il destinatario dell’intervento stesso sono diversi rispetto
alla situazione clinica; essi sono rintracciabili piuttosto nella tutela del benessere del figlio, da
realizzarsi attraverso l’applicazione, ove possibile, del principio della bigenitorialità. Il benessere
della coppia non è posto quindi in primo piano; esso però in molti casi rappresenta una “meta
parziale” da perseguire, poiché un sistema-famiglia libero dalla presenza di elementi paranoidei può
funzionare in maniera più armonica con conseguente giovamento di ogni parte implicata, compresi i
figli.
Innanzitutto però un CTU deve rilevare la presenza di un tale tipo di funzionamento, ed anche la
fase diagnostica si differenzia significativamente da ciò che avviene in clinica.
Fare diagnosi di una psicopatologia paranoide o semplicemente della presenza di una modalità di
funzionamento paranoide è un processo che nell’attività clinica è possibile compiere in itinere. Va
premesso che il funzionamento paranoide puro è egosintonico, e che quindi un soggetto che ne
soffre difficilmente accetta di fare psicoterapia per mettere in discussione la sua visione del mondo,
più facilmente egli incontrerà lo psicologo perché il comportamento degli altri e non la sua
percezione distorta gli risulterà fonte di disagio; un individuo che giunge nella stanza del terapeuta
riconoscendo di avere una percezione del mondo eccessivamente sospettosa, permalosa o anche
semplicemente “sensibile” alle offese già presenta un grado di consapevolezza maggiore ed un
minor radicamento del tratto nella sua personalità.
In ambito clinico il professionista ha tutto il tempo per costruirsi “passo passo” una diagnosi di
soggetto paranoide: a volte può accadere che inizialmente la persona mostri solo la parte
vittimistica, e lo psicologo sia portato a “colludere” con essa, compatendolo o aderendo ad una
visione del mondo in cui il paziente è esposto alle azioni degli altri. In questi casi è spesso
illuminante il controtransfert, le emozioni cioè che lo psicologo sperimenta nei confronti di questo
tipo di soggetti che, pur presentandosi come corretti, inattaccabili e vittime degli altri, reagiscono
con chiusura, sospetto e fastidio, a volte addirittura con rabbia, ai tentativi del terapeuta di offrire
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loro delle visioni diverse delle cose o anche semplicemente di approcciarsi al loro mondo. La
presenza di vissuti controtrasferali di disagio, timore di muoversi liberamente nel trattare i contenuti
del soggetto fino ad arrivare per il terapeuta addirittura ad un senso di rabbia “reattiva” all’ostilità
del paziente, potrebbe essere indicativa del fatto che ci si trova di fronte ad una personalità
paranoide.
Nella pratica clinica riconoscere un paziente di questo tipo è fondamentale per indirizzare il proprio
lavoro terapeutico. Tale consapevolezza permette allo psicologo di utilizzare adeguate accortezze
quali l’evitare per i primi tempi di mettere in discussione la proiezione, in quanto difesa su cui il
paziente si regge; con un paziente paranoide infatti può essere più opportuno inizialmente validare
l’esperienza soggettiva di malessere che si cela dietro alla sensazione di essere vittima di un attacco
da parte del mondo esterno, senza necessariamente confermare il contenuto della proiezione, per
rinforzare l’alleanza terapeutica e gettare le basi per un processo di riconoscimento, nel lungo
periodo, dei suoi meccanismi difensivi.
Nel contesto peritale invece, avendo a disposizione dei tempi più ristretti, è più complicato fare
diagnosi di personalità paranoide in itinere, o attendere che il periziando riveli in tempi dilatati la
presenza di un funzionamento di questo tipo; per questo motivo l’utilizzo dei test psicodiagnostici,
che sono preziosi anche nel contesto clinico, nell’ambito peritale diventano indispensabili come
elemento oggettivo da affiancare all’osservazione ed al colloquio proprio per la rapidità con cui essi
sono in grado di offrire informazioni diagnostiche sul soggetto.
Anche l’utilizzo dei test però presenta delle criticità, soprattutto nel caso di personalità paranoidi
strutturate e radicate: un individuo sospettoso che, differentemente da ciò che accade in ambito
clinico, non è neanche mosso dalla motivazione a stare meglio ma si trova “obbligato” a sostenere
una perizia diagnostica che probabilmente dal suo punto di vista non toccherebbe a lui ma a chi
considera “la fonte dei suoi mali” (nel caso di una separazione potrebbe essere il suo partner, il
nuovo compagno/a o la famiglia di questo ecc…) potrebbe vivere la valutazione compiuta su di sé
addirittura come un’invasione o un’offesa, il consulente come ostile nei suoi confronti e per questo
estremizzare una tendenza riscontrabile in diverse misure nella quasi totalità della popolazione
periziata indipendentemente dalla presenza di tratti paranoidi, e cioè quella di limitare la propria
spontaneità, aspetto che in questo caso esiterebbe nel chiudersi, nascondersi e mostrare pochissime
o nessuna informazione su di sé.
Per questo motivo alcuni tra i più famosi test della personalità considerano la presenza di
significativa rigidità da parte del soggetto e della tendenza a schermarsi ed a rivelare poco o nulla di
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personale come tra i più importanti indicatori (anche se non gli unici) del funzionamento paranoide
in un periziando.
A titolo esemplificativo si può citare il questionario MMPI, il quale prevede un scala clinica di
valutazione della paranoia (Scala Pa). Questa scala la si considera significativa della presenza di
funzionamento paranoide più o meno grave in presenza di elevazioni moderate e notevoli; si
reputano però degni di attenzione anche i casi in cui il punteggio a questa scala risulti
particolarmente basso: gli studi empirici infatti hanno dimostrato “che alcune persone con tratti
chiaramente paranoidei possono accorgersi delle finalità del test e non segnare quegli item che
produrrebbero un alto punteggio nella scala Pa. Essi rispondono invece agli item in modo
circospetto, eccessivamente cauto e diffidente in modo da nascondere il loro comportamento
sintomatico e produrre punteggi bassi” (Butcher, 2007).
Altrettanto degno di menzione è il comportamento del soggetto interessato da una patologia
paranoide nel Test di Rorschach. Anche nell’interpretare le macchie di inchiostro tali soggetti
possono rivelare una marcata rigidità, iper-controllo, iper-vigilanza il cui effetto nel rendimento al
test può essere una dilatazione dei tempi di reazione ed una produzione ridotta da un punto di vista
quantitativo, stereotipata, appiattita sui contenuti più banali e prevedibili. Ciononostante, la
presenza nella produzione del soggetto di ulteriori elementi (si citano a titolo di esempio: un
innalzamento del numero di risposte di Movimento o di Figure Umane rispetto alle medie della
popolazione, particolari verbalizzazioni critiche, sospettose, tese a rintracciare collegamenti tra gli
stimoli, la presenza di un’assertività eccessiva nel produrre le interpretazioni, la tendenza ad
aggiungere alla risposta elementi non giustificati dalla percezione, un’elevazione dell’Indice di
Impulsività accompagnata da un’elevazione dell’Indice di Autocontrollo ed altri indicatori) può
permettere di leggere in questo atteggiamento “trattenuto” e controllato lo specchio di un
funzionamento paranoide, e dunque fare diagnosi differenziale con altri tipi di personalità quali
quella ossessiva o depressiva.
Il compito del CTU non si limita ovviamente alla diagnosi, questa infatti costituisce di solito solo
una parte del quesito che il giudice gli pone; spesso il consulente è chiamato anche a pronunciarsi
sulla formula di affidamento più idonea e sugli ulteriori interventi necessari (da un punto di vista
educativo, psicoterapeutico ecc..) per i genitori e per il/ figlio/i.
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La necessità da parte del CTU di prendere delle decisioni tenendo in conto principalmente il
benessere del minore fa sì che il suo operato sia orientato principalmente ad impedire che
l’atteggiamento paranoide del genitore abbia delle ricadute nocive sul figlio, e non a “curare” tale
tipo di funzionamento.
Ciò non toglie che durante una consulenza, se ve n’è la possibilità (ciò dipende anche dalla gravità
psicopatologica del soggetto), il CTU possa riuscire, con le strategie apprese in ambito clinico che
sono state descritte prima (validare l’esperienza soggettiva senza mettere in discussione la
proiezione), ad allentare l’intensità del funzionamento paranoide di un genitore; in tal caso potrebbe
osservarsi un generale un abbassamento del livello di conflittualità, che renderebbe prima di tutto
più fluide le operazioni peritali ma soprattutto meno complicata l’applicazione delle condizioni di
affidamento ed in generale le decisioni prese dal giudice. Tale risultato inoltre gioverebbe al figlio
non soltanto da un punto di vista pratico, ma anche psicologico, basti pensare a quanto sia deleterio
per un figlio percepire l’odio di un genitore nei confronti dell’altro, e quanto invece il
riconoscimento reciproco dei genitori, pur in situazione di separazione, possa giovare al suo
percorso di crescita interiore e di strutturazione di positivi oggetti psicologici interiori.
Bisogna però tenere conto che il più delle volte l’atteggiamento paranoide di un ex coniuge nei
confronti dell’altro non si attenua durante la consulenza, ed anzi la sentenza del giudice in alcuni
casi può esacerbarlo.
Anche per questo a volte è opportuno che il CTU, nel rispondere ai quesiti, specifichi che per un
determinato genitore può essere necessario un intervento di educazione alla genitorialità o una vera
e propria psicoterapia, da svolgersi al di fuori ed al termine della consulenza. A seconda di quanto il
funzionamento paranoide è superficiale o radicato nel soggetto, tale indicazione potrà avere più o
meno effetto positivo, tenendo conto anche che maggiore è la paranoia del soggetto e minore è la
disponibilità alla collaborazione.
Vanno poi distinti alcuni casi in cui l’atteggiamento sospettoso, polemico e rivendicativo nei
confronti di un genitore non è messo in atto esclusivamente dall’altro genitore, ma dall’intera
famiglia d’origine di questo che rinforza in lui soltanto gli aspetti di ostilità, incoraggiandolo invece
a “rimuovere” i vissuti che fino a poco prima l’avevano tenuto vicino al partner. In casi come questi
l’intervento del CTU, sia in fase di operazioni peritali che in fase di proposte di affidamento e di
intervento, deve inevitabilmente riguardare la famiglia d’origine allargata.
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Ulteriori considerazioni vanno fatte a proposito della situazione in cui i consulenti stessi si trovano
ad essere oggetto delle paranoie del periziando. Ciò è raro che accada con soggetti in cui il tratto del
carattere in questione non è troppo pervasivo e si limita al rapporto con l’ex partner, costituendo per
lo più l’esito di una cattiva gestione emotiva della separazione. Ma nei casi in cui si abbia a che fare
con un individuo con un tratto paranoide più radicato nella personalità, è facile che questo aspetto
entri in gioco anche nell’interazione con il CTU, tanto più perché si tratta di una figura deputata a
valutarlo (sollecitando con questo vissuti di vergogna) e che contribuisce a prendere decisioni che lo
riguardano (alimentando con ciò un vissuto di dipendenza).
In questi casi il CTU si trova a far fronte a dinamiche “transferali” e “controtransferali” di difficile
gestione; un soggetto con atteggiamento sospettoso, polemico ed oppositivo nei suoi confronti
infatti non rende semplice nessuna fase della consulenza, dai colloqui alle rilevazioni diagnostiche
fino alle risposte ai quesiti. Tendenzialmente in questi casi le reazioni emotive controtransferali del
consulente possono spaziare dalla paura della reazione del periziando alla rabbia di fronte al sentore
di essere esposto ad attacchi continui.
In queste situazioni, la capacità del professionista di riconoscere i propri stati emotivi e distinguerli
dalle proiezioni o dalle identificazioni proiettive del soggetto, permette di gestire nel migliore dei
modi la relazione e dunque di mantenere un buon grado di obiettività nello svolgimento del lavoro.
E’ più complicato invece per i consulenti tecnici di parte riuscire a mantenere un sufficiente livello
di indipendenza nello svolgimento del proprio incarico quando lavorano per una parte
particolarmente incline al funzionamento paranoide. E’ probabile che questa infatti farà leva sul
rapporto di lavoro per imporre al professionista le proprie visioni rigide ed incrollabili sulla
situazione, squalificandolo o addirittura facendolo fuori non appena il consulente non si dovesse
allineare pedissequamente alle sue posizioni.
In questi casi è bene che il consulente, anch’egli riconoscendo e facendo i conti con i propri stati
emotivi quali la paura di deludere il proprio cliente o i vissuti relativi al rapporto economico che lo
lega a questo, riesca a mantenere un’adeguata autonomia di giudizio e di operato, e non tema come
extrema ratio anche di rinunciare all’incarico, qualora questo entrasse in contrasto con la sua etica
professionale e personale.
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CAPITOLO 5
L’AFFIDAMENTO NEI CASI DI FUNZIONAMENTO
PARANOIDE PATOLOGICO DEL GENITORE
Come descritto ampiamente nel capitolo 2, esistono numerose condizioni in cui il funzionamento
paranoide esita in una manifestazione psicopatologica. Nei casi in cui un processo di affidamento
coinvolgesse un genitore con una diagnosi pregressa di questo tipo, o tale diagnosi emergesse dalle
operazioni peritali, inevitabilmente la sua incidenza andrebbe considerata all’interno del percorso
decisionale riguardo alla formula di affidamento da considerarsi più idonea.
E’ indispensabile a tal proposito fare una premessa: in base alla legislazione attuale una diagnosi
psicopatologica, anche particolarmente severa da un punto di vista psichiatrico, non costituisce in sé
un motivo sufficiente per derogare dal principio della bigenitorialità, e quindi escludere il genitore
“malato” dall’affidamento del minore. Il principio del legislatore è infatti che l’affidamento debba
essere condiviso a meno che l’affidamento ad un genitore non risulti pregiudizievole per il minore
da un punto di vista della cura e dell’educazione.
Tale principio, che sposta la questione sul piano della concreta capacità dell’adulto di occuparsi del
figlio indipendentemente dalla sua diagnosi, ha il pregio di eliminare il rischio che un individuo sia
privato dell’affidamento in base ad un pregiudizio basato su un etichettamento diagnostico e non su
un’effettiva verifica delle sue possibilità di assolvere al suo compito di genitore.
Per il giudice che è tenuto a prendere una decisione sull’argomento, diventa dunque fondamentale il
contributo derivante dall’attività del CTU, coadiuvato dai servizi sociali, diretto all’accertamento di
quanto il disturbo psicopatologico incida sulle capacità genitoriali.
Nel caso in cui effettivamente la malattia risulti talmente grave o pervasiva da inficiarle, con ogni
probabilità il giudice propenderà per un affidamento esclusivo all’altro genitore, mentre nelle
circostanze in cui, pur in presenza di una malattia parzialmente inabilitante, le capacità di occuparsi
del minore non fossero marcatamente compromesse, è possibile attuare l’affidamento condiviso,
magari ricorrendo a degli accorgimenti particolari (quali la collocazione a casa dell’altro genitore).
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Se, come appena detto, non è l’esistenza di una diagnosi “sulla carta” a rendere un genitore carente
o privo di capacità genitoriali, va considerato però il caso specifico delle patologie oggetto della
nostra riflessione, e cioè quelle appartenenti allo spettro del funzionamento paranoide, che per le
loro caratteristiche possono costituire un serio ostacolo rispetto al sano dispiegarsi della relazione
genitore/figlio, e dunque mettere a rischio la salute psicofisica di quest’ultimo.
Un elemento fonte di pericolo in questo senso è rappresentato dal fatto che nella patologia
paranoide si assista ad un’incapacità a riconoscere ed accettare “l’alterità”; il soggetto patologico
cioè, essendo dotato di una visione rigida ed inflessibile della realtà, interpreta la diversità di punti
di vista e di modi di essere dell’altro come una minaccia, e di conseguenza assume un
atteggiamento fondato su principi assolutizzati per cui colui con cui entra in contatto può stare
soltanto o dalla sua parte o contro di lui; le vie di mezzo, derivanti dal riconoscimento delle
sfaccettature che connotano le relazioni umane, non sono concepite.
In base a questa logica spesso il figlio, soprattutto quando è molto piccolo e quindi non in grado di
prendere posizione al cospetto del genitore come potrebbe fare un adulto, è considerato dal genitore
paranoide dalla propria parte poiché egli tende a percepirlo come “un prolungamento di sé”; in
realtà, al giovane viene più o meno sottilmente imposto di uniformarsi alle posizioni del genitore,
mentre il suo punto di vista, i suoi desideri ed i suoi bisogni non sono visti e riconosciuti, poiché
l’adulto ritiene “giusto per lui” esclusivamente ciò che egli stesso, in modo rigido ed inflessibile,
considera giusto.
Va ricordato inoltre che uno dei connotati psicologici del soggetto paranoide è il bisogno di
mantenere il controllo; per questo motivo il rapporto può essere caratterizzato da una limitazione
continua della libertà per il figlio, che si trova a vivere sperimentando costantemente lo stato di
tensione in cui il genitore vive e che trasmette a lui stesso.
Non essendo in grado di accettare la diversità di vedute, il soggetto paranoide ovviamente non può
tollerare neanche la separazione. Abbiamo già sottolineato quanto sia frequente che, in presenza di
una patologia di questo tipo, la fine della relazione coniugale sia vissuta alla stregua di “un attacco”
da parte dell’altro genitore, che quindi viene sentito come un nemico da ostacolare e combattere.
Ciò ha delle gravi conseguenze sull’esperienza emotiva del figlio, che si trova a fare i conti con la
conflittualità e l’odio di un genitore per l’altro: il ragazzo può sperimentare un vissuto dilaniante di
dover compiere una scelta “impossibile” tra le due figure di accudimento, perché una conciliazione
tra loro gli appare irrealizzabile; nessun figlio, neanche chi apparentemente mostra di aver fatto la
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scelta tra i due genitori, è esente dal dolore connesso al fare esperienza di un conflitto insanabile tra
i genitori o al dover assistere alla diffamazione che l’uno porta avanti nei confronti dell’altro
davanti ai suoi occhi.
E’ possibile anche che ad un certo punto il minore, soprattutto quando non più in tenera età, riesca a
prendere le distanze dal genitore paranoide, o quantomeno ad esprimere la sua individualità in sua
presenza; a quel punto il rischio che corre è che il suo distanziamento sia percepito a sua volta come
un tradimento, e dunque di finire anch’egli nella lista dei “nemici”.
In virtù di quanto detto infatti il processo di “individuazione” di un figlio appare inconcepibile per il
genitore paranoide, e quando il ragazzo riesce a metterlo in atto in concreto, ad esempio
schierandosi contro le sue posizioni drastiche ed inconfutabili o semplicemente rivendicando la
propria libertà di essere e di scegliere, le conseguenze possono essere molteplici, dall’abbandono a
situazioni più pericolose, quali comportamenti di stalking o gravi “passaggi all’atto” prodotti dal
genitore “deluso”; l’incapacità del paranoide a mentalizzare il proprio vissuto di minaccia può
infatti dare vita a reazioni incontrollate che costituiscono un rischio per il figlio, oltre che per l’ex
coniuge.
Il compito del CTU è dunque di accertare non solo la presenza di una diagnosi psicopatologica
appartenente allo spettro paranoide, ma anche di verificare se effettivamente sussistano modalità del
genitore di porsi nei confronti del minore che possano mettere a rischio la sua salute, il suo
benessere ed ostacolare il suo sviluppo psicofisico; in virtù di quanto emerso in proposito il
consulente potrà fornire indicazioni sulla formula di affidamento più opportuna, che sia il
mantenimento dell’affidamento condiviso, magari con dei particolari accorgimenti, che sia il ricorso
all’affidamento esclusivo oppure all’esclusivo “rafforzato” in casi di negligenze o comportamenti
più gravi da parte del genitore, fino ad arrivare nei casi estremi alla sospensione o al decadimento
della potestà genitoriale.
Risultano cruciali a questo scopo alcune fasi della consulenza. Ovviamente come già detto i
colloqui col genitore e la somministrazione dei test psicodiagnostici garantiscono una valutazione
accurata della sua personalità. Oltre a questo, il consulente compie un’osservazione di come si
svolge il rapporto genitore/figlio per rintracciare la presenza di eventuali disfunzionalità; a tale
scopo, è possibile utilizzare, oltre all’osservazione libera, anche strumenti appositi come il
Lausanne Trilogue Play Clinic (LTPc), concettualizzato dal Gruppo di Losanna e consistente
nell’assegnare ad un nucleo familiare un compito da svolgere, al fine di osservare le interazioni e le
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modalità di funzionamento familiare da un punto di vista della capacità di partecipazione, di
cooperazione, ma anche di collusione o di conflitto.
Per un’accurata valutazione del rapporto di un ragazzo con il proprio genitore, in alcuni casi è
opportuno l’ascolto del minore stesso, previsto dalla legge a partire dal compimento del dodicesimo
anno di età; conoscere il suo punto di vista sulla questione introduce infatti l’elemento della sua
soggettività, dalla quale è importante non prescindere.
Va ricordata infine l’importanza delle visite domiciliari o dei colloqui con il personale scolastico e
con il servizi sociali; la collaborazione con altre figure professionali che entrano a contatto con il
giovane è infatti un contributo prezioso per acquisire ulteriori informazioni sulla situazione in atto.
Le modalità con cui è condotta la consulenza dunque non fanno altro che confermare che ciò che
interessa principalmente nell’indagine compiuta non è tanto il grado di severità della patologia
paranoide, o l’intensità delle proiezioni che il genitore psicopatologico compie, ma come le sue
disfunzioni mentali influiscano nel rapporto con il figlio e nel benessere di quest’ultimo, osservabile
sia da un punto di vista oggettivo che a livello della sua esperienza soggettiva.
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CONCLUSIONI
Partendo dalla disanima del quadro giuridico di riferimento nell’ambito delle separazioni e
dell’affidamento di minori, e dopo aver compiuto un excursus sulla paranoia sia da un punto di vista
psicopatologico che come modalità di funzionamento nella persona normale, con questo scritto si è
voluto evidenziare come la fine di una relazione affettiva possa costituire terreno fertile per il
sorgere e lo svilupparsi di vissuti di marca paranoidea. Non tutti gli individui sono in grado di
integrare i propri sentimenti di vergogna, di umiliazione ed insieme di dipendenza dall’oggetto
d’amore perduto in un’immagine di sé che possa sopravvivere al trauma della conclusione del
rapporto, per riconoscersi di nuovo come individui autonomi ed in grado di riprendere un proprio
cammino personale. I comportamenti di ostilità, vendicatività o anche semplicemente di rigida
intransigenza conseguenti ad una separazione e riconducibili ad un funzionamento paranoide,
trovano la loro massima espressione nell’ambito giuridico dell’affidamento dei figli, dove le
questioni dell’affermazione del potere rispetto all’ex partner, se non sono contenute da un’adeguata
consapevolezza, rischiano di esplodere, generando il perpetuarsi di conflitti di cui i figli
inevitabilmente ne fanno le spese.
In riferimento a questo argomento è stato illustrato il ruolo dello psicologo che opera in qualità di
consulente tecnico del giudice; è stato sottolineato come il CTU svolga un compito di estrema
importanza, quello di coadiuvare il magistrato nel pronunciarsi sulla formula di affidamento più
idonea. Un principio fondamentale che guida il professionista in questo ambito è quello della
salvaguardia della bigenitorialità: è messo al centro cioè il diritto del minore di relazionarsi in
maniera positiva con entrambi i genitori, e nello stesso tempo affermata la responsabilità di
entrambi nella cura del figlio.
E’ evidente come l’atteggiamento paranoide da parte di uno o dei due genitori nel gestire la fase
successiva alla fine della coppia possa costituire un ostacolo alla realizzazione del diritto del figlio.
In quest’ambito diviene cruciale il ruolo del CTU che, utilizzando la propria competenza clinica e
gli strumenti a sua disposizione, individua la deriva paranoide della coppia ed agisce, ove possibile,
per contenerla.
A tal proposito va ricordato che il consulente, differentemente da un terapeuta di coppia, non ha
come obiettivo primario il benessere e la serenità della ex-coppia; questi però si configurano come
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obiettivi secondari, utili alla realizzazione di una positiva genitorialità intesa come possibilità di
svolgere il proprio ruolo di genitore in accordo e non in contrasto con l’altro genitore.
Se dunque il consulente ha un limitato margine di intervento diretto di tipo terapeutico sul
funzionamento paranoide del genitore, in quanto il suo scopo è quello di supportare il giudice
rispondendo ai quesiti che gli pone, nella risposta ai questi ha però la possibilità di tracciare le linee
di intervento, anche eventualmente di tipo psicoterapeutico, affinché i genitori possano reintegrare
le parti di sé proiettate sull’altro e pervenire ad una positiva elaborazione del proprio vissuto
paranoideo, con conseguente miglioramento delle dinamiche relazionali della triade padre-madre-
figlio.
Nello scritto si è sottolineato inoltre che una diagnosi di severa psicopatologia paranoide non
costituisce in sé una deroga del principio della bigenitorialità: anche in questi casi è necessaria la
verifica di quanto il comportamento del genitore nei confronti del figlio abbia degli effetti negativi
su quest’ultimo, sono cioè i fatti, e non le diagnosi “sulla carta”, ad orientare le posizioni di
consulente e giudice. Nel caso del soggetto affetto da psicopatologia ovviamente diviene ancora più
importante l’intervento psicoterapeutico che il CTU saprà consigliare.
La celebre psicoanalista Melanie Klein ha illustrato estesamente nella sua opera il processo di
superamento della “posizione paranoide”, inizialmente da lei definita “schizoparanoide” per il
riferimento alla scissione che la caratterizza. L’autrice considera il movimento dalla suddetta
posizione alla più evoluta “posizione depressiva” come un passaggio che ogni essere umano deve
compiere per giungere alla costanza dell’oggetto, pena l’impossibilità di accedere ad una relazione
“adulta”.
Secondo la Klein, originariamente il bambino vive nella posizione paranoide, cioè tiene separate le
esperienze positive e negative, e con esse i sentimenti associati. L’autrice spiega come gli oggetti
siano percepiti o come tutti “buoni” o tutti “cattivi”, ad esempio il seno materno è buono quando dà
piacere, cattivo quando crea disagio. In questa fase il bambino sperimenta “l’angoscia paranoide”,
legata al timore di essere distrutto dagli oggetti cattivi; tale vissuto lo porta ad “ammassare” dentro
di sé più oggetti buoni possibili.
Quando il bambino entra nella seconda metà del primo anno di vita inizia ad integrare le precedenti
percezioni scisse; a questo punto l’oggetto-madre non è più vissuto in maniera divisa ma è sentita
come “unica”, con le sue caratteristiche positive e negative. Per questo motivo, secondo la Klein, il
bambino si trova a vivere un’altra forma di angoscia, “l’angoscia depressiva”, derivante dalla
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sensazione che la sua rabbia distruttiva, conseguente alla frustrazione sperimentata soprattutto
durante lo svezzamento, abbia colpito l’oggetto-madre, ora integrato, che assomma in sé gli aspetti
buoni e cattivi. Questa è la fase depressiva; il figlio reagisce all’angoscia di aver distrutto l’oggetto-
madre con la “riparazione”, mette in atto cioè fantasie e comportamenti che hanno uno scopo di
ricostruzione dell’oggetto danneggiato.
Nel funzionamento paranoide adulto è possibile rintracciare gli stessi risultati di una scissione che
non ha trovato un’integrazione: il meccanismo paranoide di difendere se stessi dalla sofferenza
percependosi come “buoni” e proiettando sull’oggetto esterno gli aspetti “cattivi” continua a
riprodursi invariato finché l’individuo non è pronto ad affrontare il momento “depressivo” connesso
al riconoscimento della complessità e della multiformità della realtà soggettuale ed oggettuale.
Nel contesto della separazione di coppia, la scissione e la proiezione appaiono come vantaggiose
“scappatoie”, ma nei fatti si dimostrano meccanismi difensivi inefficaci a gestire il lutto della
perdita di una persona amata e di una relazione; quando, attraverso un transito doloroso, si giunge
invece all’accettazione del fatto che lo stesso oggetto un tempo gratificante sia divenuto frustrante,
si accede alla possibilità di riappropriarsi della propria individualità ed autonomia, salvaguardando
nello stesso tempo l’immagine dell’ex partner che da quel momento in poi avrà un ruolo differente
nella propria vita.
Il recupero della propria individualità e nello stesso tempo l’accesso ad un’immagine nuova dell’ex
partner rappresenta la sfida più complessa che attende due persone che si separano. Nel film La
guerra dei Roses i protagonisti Oliver e Barbara muoiono insieme, cadendo attaccati ad un
lampadario che si stacca dal soffitto, perché nessuno dei due è riuscito a ritirare la propria
proiezione per giungere a riconoscere l’altro. Il ritiro delle parti di sé che sono state messe
nell’altro, processo che si compie attraverso l’autoconsapevolezza, è una conquista non solo per la
persona ma per l’intero sistema-famiglia, ed una risorsa inestimabile per i figli che, mancando
questo processo, si troverebbero a dover compiere il proprio percorso evolutivo di fronte a figure di
riferimento che paradossalmente rinunciano a crescere, perchè statiche nella loro ostinazione.
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