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I dannati dello sviluppo Relazioni di:
1. Chiara Marchetti – «La decrescita alla prova delle migrazioni»
2. Valerio Calzolaio – «Migrazioni sostenibili»
3. Monica Di Sisto – «La fabbrica globale e le migrazioni»
4. Alessandra Sciurba – «Migrazioni e business della cura»
5. Domenico Maffeo – «Progetto H2OS»
6. Anna Brusarosco – «Un modello per il ritorno: il progetto di coltivazione di grano
saraceno di Muhammed Avdić a Osmače (Bosnia)»
Venezia, 6 novembre 2012
1. I dannati dello sviluppo. La decrescita alla prova delle migrazioni
Chiara Marchetti
Migrazioni e decrescita
Critica dello sviluppo
Critica dell’etnocentrismo
Nesso tra crescita/sviluppo e migrazioni (1)
L’immaginario dello sviluppo e l’ideologia della crescita
rappresentano un potente motore di attrazione verso i paesi
del nord del mondo e verso le città/megalopoli (pull factor)
L’economia della crescita provoca direttamente e
indirettamente l’impoverimento di fasce sempre più ampie
della popolazione mondiale e incrementa le disuguaglianze
L’economia della crescita ha sempre più fame di risorse
naturali che vengono prelevate senza scrupoli soprattutto nei
paesi del sud del mondo. Questo vale anche per la green
economy.
Nesso tra crescita/sviluppo e migrazioni (2)
L’economia della crescita ha sempre più bisogno di risorse
umane in termini di manodopera facilmente ricattabile.
Questo vale anche in tempi di crisi.
L’economica della crescita produce scarsità e incrementa i
conflitti.
Lo sviluppo è causa diretta di migrazioni forzate, soprattutto
nei casi di grandi opere o grandi progetti di sviluppo (v. dighe
in India e Cina).
Lo sviluppo e la crescita sono alla base del cambiamento
climatico. Le conseguenze saranno patite in modo altamente
diseguale dalla popolazione mondiale.
Una tipologia (da White, 2011)
Tipologia dei rifugiati ambientali
I. Disastro Evento inintenzionale e catastrofico
II. Espropriazione Distruzione intenzionale e premeditata
III. Deterioramento Incrementale
Sotto-categoria
Naturale Tecnologico Sviluppo Ecocidio Inquinamento Esaurimento
Esempio generale
Uragano Disastro nucleare
Costruzione di dighe
Defogliazione Inondazione di isole e litorali
Deforestazione
Caso Katrina, 2005
Fukushima, 2011
Diga delle Tre Gole, 2006
Agente Orange, 1963-1969
Isole Carteret Amazzonia
Prospettive future
In uno scenario di aumento delle migrazioni legate a sviluppo e
crescita le possibili prospettive sono:
a. «Securitizzazione»
b. «Etnocentrismo umanitario»
c. Giustizia ambientale e diritti sociali
La barriera innalzata tra India e Bangladesh
Nuovo scenario
Scenario geo-politico in cui al centro della scena non sono
tanto gli Stati-Nazione (eventualmente schierati come durante
la guerra fredda oppure giudicati “fragili” e non in grado di
proteggere i propri cittadini – failed states), ma piuttosto aree
trans-nazionali minacciate dal cambiamento climatico (portata
potenzialmente globale);
La principale minaccia all’origine delle migrazioni forzate non
riguarda tanto guerre e conflitti, quanto piuttosto l’insicurezza
ambientale;
Fondamenti non “ideologici” e politici della fuga e della
protezione.
Abbandono delle isole dell’arcipelago di San Blas. Fotografia di Francesco Vicenzi
2. Migrazioni sostenibili
Valerio Calzolaio
La storia del migrare
• L’intervento al seminario di questa sera trae
spunto da un volume pubblicato poco meno di
due anni fa.
• E’ una storia del migrare, come attività diversa dal
muoversi, che presuppone una geografia di luoghi
(ambienti diversi, ecosistemi), all’interno
dell’ecosistema terrestre (atmosfera-acqua-terra,
fattori biotici e abiotici), iniziata da specie
(individui, comunità) precedenti quelle umane.
• Il migrare ha una sua storia, una sua evoluzione
(descritte nel volume) per molte specie e poi, in
particolare, per la specie umana sapiente (non
saremmo chi, dove, come siamo senza aver
migrato).
• La sostenibilità della presenza della nostra
specie sulla Terra si pone da quando diventiamo
soprattutto stanziali.
Inciso su terminologia e definizioni
Utilizzo con circospezione critica il termine
“decrescita” ma utilizzerei con parsimonia
anche il termine “ambiente”:
ha troppi apparenti usi e sinonimi, in genere è
preferibile “contesto”;
comunque non è un oggetto perché tutti i
soggetti (umani e non umani,) ne fanno parte
e dunque spesso è sostituibile da
“ecosistema” o da “biodiversità”;
formalmente non c’è nella Costituzione
italiana, sarebbe meglio mettercelo come
l’insieme dei fattori biotici e abiotici di un
luogo, di un bioma, di una territorio
nazionale, della Terra.
Migrazioni e sostenibilità
C’è un problema di definizioni. Il viaggio delle specie e dei sapienti in giro per il pianeta è un
andare oltre, prima estendere l’areale, poi cambiare residenza ovvero migrare ovvero:
superare una barriera e cambiare territorio? ecosistema? comunità? popolo? città? stato? La
biologia evolutiva e ogni altra “scienza” antica e moderna, sociale e naturale, fisica e umana o
definiscono male o definiscono solo a proprio modo cosa sono queste benedette migrazioni.
La novità di lunghissimo periodo è l’agricoltura stanziale. Gli umani sapienti si fermano a lungo,
escono dalla nicchia e adattano l’ecosistema alla propria migliore sopravvivenza, non in
sincronia e in progressione, sempre mescolando caratteri antichi e recenti.
Le “impronte” idriche, energetiche, produttive, sanitarie (quella che oggi
chiamiamo “sostenibilità”) andrebbero calcolate da allora, dall’inizio diacronico
dell’agricoltura stanziale umana sapiente. Anche la storia delle migrazioni umane
diventa allora “contemporanea”, si emigra e si immigra da una “residenza”
(villaggi, poi città, stati), evolve il mosaico della diversità biologica e il puzzle della
diversità culturale.
Tutti parenti, tutti differenti: le radici intrecciate della civiltà (da cui i sette miliardi di oggi e le
settemila lingue “parlate”) mostrano che non ha nessun senso genetico o biologico dividerci in
“razze”. L’apprendimento è l’attitudine umana più “specifica”. Non c’è “progresso” verso un
“esito”. Le civiltà sono organismi in evoluzione, ricchi di differenze interne e interdipendenti
l’una rispetto all’altra, sia nel tempo che nello spazio. Civili e incivili!
La “storia” umana prima della sostenibilità:
6 milioni, 2 milioni, 200 mila, 11 mila anni fa
• In Africa hanno origine ed evoluzione le specie umane, l’Africa è la comune patria degli ominidi e degli umani: le tante specie di “Homo”
ramificatesi (non linearmente) da poco meno di 2 milioni di anni e l’unica ora rimasta “Sapiens” hanno “speciato” in Africa (isolamento
geografico, frammentazione da quelle ancestrali, selezione naturale, equilibri punteggiati), poi si sono mosse altrove, erano (eravamo) di
pelle nera, primati parenti di scimmie. Spostandoci, è capitato di convivere anche con altre specie umane sullo stesso pianeta e comunque,
sempre, in ecosistemi in cui ci organizzavamo piccole nicchie fra tante altre specie, quasi mai commestibili e predabili, né ci siamo posti
presto problemi di coltivazione, domesticazione, allevamento.
• I geni, i popoli, le lingue mostrano come prima del Neolitico c’è stata la “Rivoluzione Paleolitica”: arte, riti, tecnologie, comunicazione,
cottura dei cibi, innumerevoli “adattamenti” cominciano ad accompagnare l’atlante del popolamento umano, sopravvivenza e riproduzione
in tutti i continenti dove siamo via via arrivati, attraverso multiple lente differenti ondate di animali sociali (in Australia prima che in
Europa).
• I cambiamenti climatici e le migrazioni hanno fatto la storia di continenti, ecosistemi, confini e popoli. Per la nostra
specie le migrazioni sono state uno straordinario ordinario meccanismo evolutivo, una strategia prima inconscia poi
conscia, iniziata prima dell’agricoltura e continuata poi, come mutazione – selezione - speciazione, come derive -
estinzioni, come polimorfismo, un’alternativa alla crisi della sopravvivenza o della riproduzione, un retaggio filogenetico
(di altre specie, di precedenti generazioni), un costrutto identitario ontogenetico e culturale.
Da ca. 11000 anni umani sapienti coltivano e modificano terra,
acqua, biodiversità, ecosistemi, clima…
La pratica dell’attività agricola è un punto di svolta infraspeciale e interspeciale, globale. È stato incerto, è stato
graduale, è stato conflittuale, è stato accelerato o abbandonato se l’uso delle altre specie presenti
spontaneamente (da raccogliere o cacciare) era meno o più favorevole, lineare, pacifico. È stato molto condizionato
da confini planetari e limiti biologici, dalla biodiversità della Biosfera e dei vari ecosistemi. Esistevano da prima.
L’agricoltura non era una strategia, la strategia; lo è solo divenuta poi, ora prima ora dopo, ora qui ora là; in assoluto
la strategia umana (prima inconscia, poi conscia, poi desiderata) evolutivamente più stabile e co-evolutivamente più
invasiva.
La specie umana sapiente ha trovato l’energia (tramite l’acqua) per praticare e organizzare alcune attività sempre più
ingegnose e sofisticate, non sempre più sapienti.
Fino a circa 11.000 anni fa c’erano sulla Terra non più di dieci milioni di donne e uomini, sparsi in gruppi di poche
decine, abbastanza isolati sul piano sociale, economico, linguistico. Stava terminando l’ultima glaciazione (gran parte
dell’emisfero nord era ghiacciato), capace di spingere quasi tutti gli abitanti del Nord un poco o molto più a sud.
Probabilmente solo in 7 indipendenti aree abitate, popolazioni umane cominciano spontaneamente ad
addomesticare piante (grano, orzo, riso,mais) e animali (bovini e caprini).
Ciò avviene in momenti diversi, prima nella Mezzaluna Fertile (Mesopotamia), poi nella valle del Fiume Giallo, nelle
Ande centrali, in Asia orientale, nella valle del Tehuacan, negli Stati Uniti orientali, nell’Africa immediatamente sub
sahariana. Ciò avviene lentamente, molto lentamente all’inizio, con onde di progressivo avanzamento e dinamiche
molto diverse da continente a continente, da bioma a bioma, da isola a isola.
La specie umana sapiente impara (anche) a gestire fattori biotici e abiotici, a non essere più una
specie debole o parassitaria (eventualmente migrante) nelle gerarchie dell’ecosistema; a costruire e a
piantare, a usare i metalli (rame, bronzo, ferro), a piantare e a costruire; a dividersi i compiti fra e
oltre i sessi; a memorizzare esperienze, cicli e generazioni; ad affinare cure parentali; a ritualizzare
consonanti e vocali, linguaggi e tecniche; a capire meglio luoghi e tempi; a numerare; a scrivere, a
guarire; ad amare. C’è crescita demografica, emergono le civiltà.
La novità agricola nella co-evoluzione delle
specie La storia dell’appropriazione umana di habitat, della prevalente appropriazione di ecosistemi ad uso umano,
spesso a danno di altre specie (non solo di singoli individui di altre specie) inizia per qualcuno di noi da qualche
parte con l’agricoltura, una pratica umana che si poteva poi portare con sé, migrando, in aree non già umanizzate, in
aree teoricamente non favorevoli, in aree dove almeno costruirsi una nicchia, per quanto angusta. Anche coltivando
la terra e addomesticando animali i sapienti hanno pensato di poter migrare ovunque. E lo hanno fatto. Coltivando la
terra hanno teoricamente pensato di potersi opporre alle costrizioni ambientali date, di poter produrre nuove
biodiversità. E lo hanno fatto.
Gli ecosistemi cominciano ad essere definiti dalle attività umane, prima ecosistemi agricoli, poi urbani, poi
industriali. Non va bene dire che non sono più naturali. La Biosfera resta, in ogni ecosistema continuano ad interagire
fattori abiotici e altri fattori biotici. I processi naturali modificano gli ecosistemi continuamente, talvolta in modo
sistematico e/o ciclico, connesso all’evoluzione dell’organizzazione delle varie comunità di specie. Gli ecosistemi
vivono attraverso una successione ecologica, come complesso processo di relazioni e di cicli vitali. Cresce la
successione indotta dall’uomo, il tentativo umano di conoscere tutti i meccanismi macroevolutivi, tutti i cicli dei
fattori abiotici (acqua, azoto, fosforo, ossigeno, ecc.), tutti i meccanismi di evoluzione e adattamento per usarli,
imitarli o cambiarli.
La presenza umana diventa via via più invasiva, introduce necessitati co-adattamenti e co-evoluzioni, provoca
mutazioni e selezioni, ordina nuove gerarchie e nuove migrazioni.
Dopo l’agricoltura la specie umana sapiente ha via via reso più sofisticata e complessa l’appropiazione umana degli
habitat e vi sono molte fasi e periodizzazioni per ogni ecosistema (sempre meno quelli non “umani”). Forse solo da
circa cinque secoli si può tentare anche una periodizzazione “globale” dell’ecosistema Terra, molto segnata
dall’”appropriazione” da parte delle comunità della specie umana sapiente che vivevano in Europa, l’arrivo in altri
continenti e le colonie, la proprietà delle terre e lo “sviluppo” capitalistico, l’evoluzione istituzionale e la
“statizzazione” del mondo, fino all’attuale “globalizzazione”.
Non dimentichiamo le dinamiche di più lungo periodo per capire crescite e decrescite dell’attuale
sviluppo.
La co-evoluzione e la termodinamica
L’energia non si crea né si distrugge, l’energia ha varie gradazione di qualità (informazione), l’energia si conserva
e si degrada (di qualità), i fossili sono energia solare immagazzinata ed esauribile, l’energia termica può
trasformarsi in lavoro (prodotto di una forza in un certo tempo), il trasferimento di energia ha bisogno di lavoro
e consuma anche energia termica che degrada, produzioni e consumi possono essere più o meno
energeticamente efficienti, esiste la funzione termodinamica entropia.
Il tempo provoca irreversibilmente entropia, disordine energetico, cioè minore capacità
dell’energia di produrre lavoro, cioè movimento direzione probabilità di eventi; l’entropia ha anche
dimensioni spaziali e temporali, può restare costante o accelerare, può diminuire localmente e
crescere globalmente; ordine e disordine di un sistema dipendono anche dalle informazioni
(entropia negativa) e dalla comunicazione. Gli organismi viventi sono flussi di materia ed energia,
stabilmente dissipativi. L’equilibrio è sempre movimentato e precario, l’ecosistema di adatta
permanentemente. E l’evoluzione non è desiderata, libera, volontaria; è variata anche da disordine
e caos, da casi ed errori; ci sono inconsce strategie evolutivamente stabili e non c’è identità fra chi
è premiato dalla selezione naturale e chi è moralmente buono.
Entropia del sistema e metabolismo degli organismi sono fattori evolutivi delle specie e della vita. L’ecologia è
una scienza storica, la scienza della casa e dell’abitare (del trasferirsi): riguarda gli scambi di materia ed energia, gli
organismi e le condizioni dell’esistenza, la pluralità degli e negli ecosistemi. L’energia che una specie ha
disposizione è quindi funzione del contesto oltre che delle proprie caratteristiche (che spesso sono proprio lenti
adattamenti ai vari contesti). Le specie e le popolazioni di una specie sono confinate in spazi e limitate nel tempo
da clima e biodiversità. La specie umana sapiente ha diffusamente lentamente trovato energia per molte altre
attività, di movimento e rifugio, di ricerca alimentare e costruzione di cibo (alimenti cotti e/o conditi), di difesa
della salute, di competizione, di informazione, di comunicazione, di produzione. Oggi noi usiamo circa il 24% di
tutta l’energia generata dalla fotosintesi sulla Terra. L’enorme assoluto aumento della tecnosfera si associa alla
crescente percentuale di energia usata dalla nostra specie rispetto all’energia complessiva.
Storia, scienze e scienze sociali…
È arduo pensare la storia e la geografia a compartimenti stagni: geosfera (fattori abiotici), Biosfera (fattori biotici),
genosfera (fattori replicanti), noosfera (attività cognitive e spirituali). Da quando esiste una Biosfera, c’è evoluzione
della vita, ogni altro fattore e ogni attività vitale co-evolve. Si utilizza sempre “sfera” perché ingloba e interseca
insiemi. L’evoluzione è co-evoluzione, matematica e insiemistica. Cause e casi non sono opposti, se non si
valutano contingenze e coincidenze ci si capisce poco. E anche gli eventi hanno loro connessioni, causali e casuali,
sincronie coincidenti, coincidenze diacroniche. Vi sono cicli e coordinamenti indicibili, per ora inintelligibili, forse.
Rimaniamo aggrappati ai fatti della fisica e della biologia, originiamo pensieri dall’antropologia e dall’etnologia,
dalla genetica e dalla demografia, non per questo bisogna aver paura della filosofia e della politica, di una libera
rappresentazione del mondo. Da quando ne abbiamo il tempo e lo spazio, con la cosiddetta rivoluzione neolitica, il
peso della noosfera, di culture filosofie e religioni cresce molto nelle vicende umane. E cresce il ruolo della politica e
delle politiche.
Ogni migrazione è un fatto sociale totale, cambia tutto o molto o qualcosa, per l’individuo e per il suo gruppo, per gli
individui umani e per gli ecosistemi che incontra, per quelli che lascia, per quelli che trova. Le migrazioni sono un
elemento di evoluzione della biodiversità, anche genetica ambientale culturale politica. Non è comunque mai solo un
cammino di liberazione e di libertà. Assumono enorme rilievo i condizionamenti psicologici individuali e collettivi.
La variabilità delle costrizioni infraspeciali diviene sempre più sofisticata, fenomeni migratori forzati sono una
costante di tutti i periodi.
Le migrazioni sono un fenomeno umano fra tanti, ormai trattabile in modo unitario per le varie
discipline che riflettono l’evoluzione storicamente determinata della nostra sapiente specie. È maturo
il momento e l’uso di una ricostruzione globale delle migrazioni umane, nei tempi e negli spazi, del
fenomeno e dei comportamenti migratori, interdisciplinare e complessa, né solo cronologica, né
schematicamente tipologica, né puramente sistematica. E sarà interessante studiare il rapporto fra
migrazioni e crescite/decrescite di altri fenomeni sociali, in vari tempi e in vari luoghi.
… valutando anche le migrazioni forzate
(in-sostenibili)
La specie umana sapiente non ha sapienti comuni regole di comportamento. Fra tutti gli individui che vivono in un singolo momento sulla Terra e l’individuo che è vissuto in singoli momenti in singoli luoghi della Terra c’è appartenenza alla stessa specie ma non c’è un riconosciuto universale interesse comune. In ogni tempo, in tanti luoghi, singoli individui e gruppi hanno causato non solo la migrazione ma anche la fine della vita terrestre di altri. Il nesso è sociale, non morale o istituzionale, o almeno non moralmente e istituzionalmente comune. Né finora è stato mai posto correttamente il tema della sostenibilità delle migrazioni.
Migrare non è peccato. Si è sempre migrato. Migrare ha fatto del bene alle specie. Donne e uomini che ne obbligano altri a migrare non va bene, sia quando avviene come conseguenza voluta di un conflitto oppressivo (guerra, schiavitù, persecuzione), sia quando avviene come conseguenza involontaria di comportamenti sociali (i cambiamenti climatici antropici), tanto più se si è coscienti dell’effetto e se proseguire i comportamenti diventa scelta consapevole che obbligherà (altri) a migrare. Questi “obblighi” comportano migrazioni forzate.
La Dichiarazione Universale dei diritti umani contempla il diritto alla libertà di movimento e di migrazione. Freedom of movement and residence, cose diverse e connesse. Il primo comma dell’articolo 13 dichiara che “ogni individuo” ha il diritto di muoversi e risiedere “entro i confini di ogni Stato” (ecco anche una libertà individuale e collettiva di migrazione interna al singolo stato nazionale). All’art. 29 si aggiunge che eventuali limitazioni devono essere stabilite dalla legge per rispettare eventuali diritti e libertà di eventuali altri. Il secondo comma dell’articolo 13 dichiara che “ogni individuo” può liberamente lasciare il proprio paese e ritornarvi, lasciare “qualsiasi paese” e ritornare nel “proprio” (ecco anche una libertà individuale e collettiva di migrazione esterna e generale, come andata, come ritorno, come andata senza ritorno, come andata con ritorno). Diritto di restare, libertà di migrare. Libertà di isolamento (volontario per popoli indigeni), diritto di partire, libertà di migrare. Una migrazione forzata è di norma arbitraria e vietata, transitoriamente ammissibile se proprio si vuole solo in casi eccezionali, in sostanza quando non c’è alternativa alla necessità immediata di spostare qualcuno.
La libertà di partenza non può essere libertà permanente dai vincoli di ogni partenza, innanzitutto quelli “tecnici” (avere i mezzi, non solo quelli economici) e, soprattutto, alla libertà di partire non corrisponde il dovere di accogliere. La libertà di arrivo in ogni paese non è prevista e resta condizionata dalla volontà (anche mutevole nel tempo) dei paesi dove si arriva, da specifici norme nazionali e accordi internazionali (fra sistemi normativi statali).
Le migrazioni contemporanee
Siamo in un mondo con più di 7 miliardi di umani sapienti (9 entro il 2050), che vivono nelle città più che in
campagna (oltre il 50%, quasi il 70% entro il 2050). Un recente rapporto dell’United Nations Development Programme
(UNDP) fa il punto sulle, migrazioni mondiali, purtroppo senza tematizzare criticamente la specificità delle migrazioni
forzate. Nel titolo e nel box di definizioni, “human mobility” diventa il cambio di residenza, cioè la migrazione, le
migrazioni interne o internazionali. All’interno di complesse dinamiche sociali e demografiche di proporzione fra le
prime e le seconde in ogni Stato (per esempio si migra di più in percentuale dagli stati meno popolosi e migrano di più i
più benestanti e alfabetizzati), c’è una netta predominanza delle prime (ancora più marcata se si distingue una terza
categoria di migrazioni regionali, quelle interasiatiche ad esempio). Le migrazioni internazionali riguarderebbero 214
milioni di migranti, quindi il 3,1% della popolazione globale, solo per il 34% da paesi in via di sviluppo verso quelli
sviluppati.
Il cuore del rapporto è corretto e centrato: anche le migrazioni libere hanno molte barriere, costrizioni; eppure la
mobilità migratoria è spesso stata, talora è e potrebbe essere un decisivo fattore di sviluppo umano. Per la prima volta
si mettono in rete statistiche istituzionali, sociali, migratorie nazione per nazione, indice per indice, decennio per
decennio e si enfatizza il grande peso delle migrazioni interne ai confini amministrativi dello stato, fra aree diverse
dello stesso paese, senza cedere alla tentazione di contabilizzare e ideologizzare il semplice cambio di casa. Negli ultimi
anni nel mondo il totale di liberi (più o meno) emigranti internazionali sarebbe di circa duecento milioni di donne e
uomini (solo un terzo da paesi in via di sviluppo a paesi sviluppati); i forzati emigranti politici sarebbero quindici milioni
(quasi tutti nei paesi in via di sviluppo). Ogni paese ha forti libere (più o meno) migrazioni interne, il rapporto UNDP
del 2009 parla di circa 740 milioni in 192 paesi; i forzati migranti politici interni sono almeno 27 milioni in 54 paesi.
Va affermato per tutti un diritto di restare, di non migrare! Ovviamente adattandolo con misure di
prevenzione, riduzione, mitigazione e con fondi per l’assistenza. Questo diritto dovrebbe correre
parallelo ad una libertà positiva, la libertà di migrare! La libertà di poter scegliere il luogo dove risiedere.
Ecco le migrazioni sostenibili! Bisogna averne i presupposti di conoscenza, informazione, mezzi materiali.
E ovviamente scegliere il luogo significa anche scegliere le regole e i lavori della comunità nella quale si
vuole integrarsi. Libertà come capacità effettiva di scelta. Libertà come responsabilità.
Costrizioni, libertà, opportunità, scelte
La valutazione dell’impatto ambientale delle migrazioni va valutata sia per l’ecosistema che si lascia, sia
per gli ecosistemi che si attraversano, sia per l’ecosistema che accoglie alla fine, almeno dai tempi
dell’agricoltura stanziale.
Altra questione è la sostenibilità delle migrazioni contemporanee, non solo sui piani economico sociale istituzionale.
Occorre vederne anche l’impatto ambientale (come di ogni attività umana o di ogni fenomeno sociale), attraverso
valutazioni innanzitutto demografiche e occupazionali (sotto entrambi i punti di vista l’Europa ha un gran bisogno di
immigrati …). Occorre soprattutto vederne la “libertà”.
L’umano migrare è da sempre un atto che mescola costrizione e libertà. Le costrizioni e le libertà evolvono con
l’evoluzione della specie, sappiamo che spesso la libertà è stata apparente, che vi sono eredità e retaggi genetici,
inclinazioni climatiche e ambientali, costrutti culturali, favole e bugie che motivano comportamenti, origini complesse di
bisogni e desideri, di piaceri e scelte. Il combinato disposto di geni neuroni ormoni, ambiente clima biodiversità, cultura
immaginario inconscio; l’esistenza di mutazioni, casi, disordine, errori, handicap per ciascuno e per tutti; l’intreccio fra
vita in gruppo e identità individuali... tutto ciò lascia sempre e comunque il futuro aperto a più esiti, anche se non
sempre ciò significa maggiore libertà di scelta.
La libertà è funzione anche delle diverse (quasi mai pari) opportunità di conoscenza, desiderio, mobilità,
comunicazione, mezzi, non sempre (quasi mai) è sostanziale, non sempre è durevole lungo la vita di un individuo o di
una popolazione. Le costrizioni umane evolvono con l’evoluzione dei poteri e dei domini di individui e gruppi su altri.
Nella dialettica fra libertà e costrizione rispetto alle migrazioni umane quello che fa una sostanziale differenza è la
durata, una certa irreversibilità dell’emigrare. La libertà di restare e la libertà di partire si completano a vicenda ed
evolvono vitalmente insieme; se e quando si emigra con ampi margini di libertà, si sceglie di andare e magari se e
quando tornare.
Migrazioni forzate, il massimo di costrizione collettiva, esistono soprattutto per cause infraspeciali (fughe dai
conflitti armati, dalle malattie biologiche e sociali) o interspeciali (cambiamenti climatici), Gruppi di donne e uomini
hanno anche optato per lasciarsi morire, per scegliere di non sopravvivere a determinate condizioni.
Migrazioni forzate e cambiamenti climatici Le migrazioni forzate sono migrazioni, mutamenti fisici e temporali degli spazi di una e più vite. L’uomo è un animale
sociale, insediato nel proprio ambiente e nella propria evoluzione. In ogni periodo, in ogni luogo migrare è atto umano di
relazione con lo spazio e con il tempo, agito all’interno degli estremi dell’assoluta costrizione (che esiste) e dell’assoluta
libertà (che esiste talora solo individualmente), elaborato dalla stessa specie, secondo una propria geografia e una
propria storia.
Sappiamo che ogni migrazione si situa in un intervallo fra libertà e costrizione, scelte e vincoli. Nessuno può negare
che siano esistite “forze” che hanno fatto cambiare residenza a individui e gruppi umani, che siano esistiti trasferimenti
forzati. In quei casi il margine di libera scelta può anche essere collocato in altre libere scelte umane. Oppure in contesti
non umani. Si può retrospettivamente tentare di circoscrivere i casi effettivi di obbligo assoluto, non negare la
concretezza del fenomeno. La dialettica fra libertà e costrizione non è superabile, sia a livello personale precedente il
movimento migratorio sia a livello analitico successiva al fenomeno vissuto da più individui. Noi abbiamo il dovere
morale ed ecologico e l’obbligo istituzionale e politico di lasciare qualche margine di libertà personale.
Oltre alle guerre, storicamente l’altra grande forza di costrizione è il contesto climatico ambientale e,
infine, lo sviluppo insostenibile. Forza di costrizione, non fattore da tener presente nel fenomeno
migratorio (insieme alle condizioni sociali, alle dinamiche economiche, alle relazioni culturali, alle
barriere legali, ecc.). Anche prima dei cambiamenti climatici antropici globali, abbiamo visto che per
persone in fuga da improvvisi cambiamenti climatici e ambientali può esserci una costrizione assoluta a
evacuare la propria residenza abituale: molti non sarebbero voluti migrare, non sono più nelle condizioni
di tornare (ammesso che l’evento disastroso renda possibile insediarsi di nuovo quasi dove si stava). Sono
“dannati dello sviluppo”.
Con i cambiamenti climatici antropici globali, seguendo IPPC e ONU, distinguiamo gli “ecoprofughi” o profughi
climatici secondo la specifica costrizione: climate change-induced sea level rise, “more frequent and severe” estreme
meteorological or weather-related disasters, “permanent” water stress and/or water scarcity, innalzamento del mare, eventi
climatici estremi (comprese le inondazioni e le siccità), permanente scarsità d’acqua. Questi sono immediatamente
urgentemente meritevoli di assistenza internazionale.
Profughi, refugees, rifugiati
Quasi ogni giorno purtroppo si leggono drammatiche notizie o si vedono palpitanti immagini di evacuazioni per crisi
ambientali. Fugge o precipitosamente evacua chi si salva. Spesso, prima, qualcuno non ce la fa, muore. Decine di
migliaia di morti, decine di milioni di ecoprofughi sono stabili “statistiche” di ogni anno, ormai da almeno un
ventennio. A ottobre scorso c’è stata l’acqua altissima a Bangkok, in Italia le gravi esondazioni a Genova e nel bacino
del Magra. In Pakistan poco più di un anno fa le inondazione dell’Indo, in Somalia l’estate scorsa le mancate stagioni
delle piogge, in Cina pochi mesi fa le piogge torrenziali, ulteriori esempi, grandi e piccoli, sono innumerevoli e recenti:
cambiamenti climatici e crisi ambientali hanno indotto a fuggire dai luoghi di pacifica civile convivenza comunità di
milioni di donne e uomini, fra i quali la maggior parte sono propriamente profughi, rifugiati. Tali situazioni (storie e
geografie) risultano ormai frequenti in quelle e in altre aree del pianeta, la causa prevalente sono i cambiamenti
climatici antropici globali.
I cambiamenti climatici in corso sono stati indotti fino all’ultimo decennio del secolo scorso dalle
emissioni di gas serra non in molti di quei paesi ma solo in 39 paesi industrializzati, questo ha concluso
e sancito l’Onu, con unitarie ricerche da almeno 20 anni a questa parte (il primo rapporto IPCC risale
al 1990 e nel 1992 fu “tradotto” a Rio nella convenzione sui cambiamenti climatici, la UNFCCC).
Sinteticamente si può dire che i profughi climatici sono migranti forzati da scelte cattive e
comportamenti sbagliati di altri umani, fuggono da lì per cose che abbiamo fatto e facciamo qui. E’
possibile prevedere che nel prossimo ventennio vi saranno decine di milioni di nuovi ecoprofughi,
soprattutto in alcune aree, soprattutto verso l’Europa, soprattutto attraverso il Mediterraneo.
Rifugiati e profughi (sinonimi), rifugiati politici (“refugees”) ed ecoprofughi non sono un’invenzione della modernità.
Oggi coloro costretti a diventare profughi da ragioni “politiche” (violenza o persecuzione di istituzioni e comunità
umane verso altri umani) acquisiscono lo status di “rifugiato” (refugee) e sono assistiti da una convenzione e da un
commissariato dell’ONU. Anche gli attuali profughi climatici hanno origine da comportamenti di altri umani anche se
non avrebbe senso dare loro lo stesso “status”. Troviamo allora uno specifico modo di prevenire e assistere le
migrazioni forzate dai cambiamenti climatici antropici contemporanei!
Rifugiati politici (o refugees) e climatici (o ecoprofughi)
L’ottenuto godimento del diritto di asilo designa il “rifugiato” secondo una procedura oggetto di un’apposita
normativa ONU, che tiene conto delle esperienze di concrete migrazioni forzate e delle misure internazionali
sperimentate fra la fine delle due guerre. Alcuni mesi prima dell’approvazione della Convenzione, il 1° gennaio
1951, ha già statutariamente cominciato a operare l’UNHCR. Poi a Ginevra, una conferenza speciale dell’ONU
approva la Convenzione relativa allo status dei rifugiati, che entra in vigore il 22 aprile 1954.
La Convenzione ha due vincoli temporale e geografico. Si riferiva all’inizio solo a eventi avvenuti prima del primo
gennaio 1951 in Europa. Entrambi sono rimossi dal Protocollo aggiuntivo adottato ed entrato in vigore nel 1967. Lo
Statuto non pone invece limitazioni temporali e geografiche, fin dal principio è stato soggetto di protezione e
assistenza chiunque ha e ottiene lo status di rifugiato.
La Convenzione e il Protocollo definiscono ancora oggi chi può essere considerato un rifugiato (e chi no, ad
esempio i criminali di guerra), la ragione (razza, religione, nazionalità, gruppo sociale, opinione politica) della
minaccia (alla vita all’integrità, alla libertà), le forme di protezione legale, di assistenza, di diritti sociali che il rifugiato
dovrebbe ricevere dagli Stati contraenti e le clausole di cessazione dello status. Al contempo, la Convenzione
definisce anche gli obblighi del rifugiato nei confronti dei governi ospitanti.
UNHCR e Convenzione debbono e possono occuparsi solo dei rifugiati politici.
I rapporti IPCC spiegano: a) quali cambiamenti climatici antropici provocano migrazioni umane forzate: non
inquinamenti e incidenti, no degrado e spreco, bensì innalzamento del mare, scarsità d’acqua, eventi meteorologici
estremi; b) dove, quando, come si verificano tali migrazioni: non ovunque, non sempre, non tutti, bensì dalle aree
vulnerabili, prima o poi, d’ora in avanti.
I rifugiati climatici non sono tutti quelli forzati dalle condizioni ambientali, sono e saranno il risultato
di comportamenti umani che già ci sono stati e che, in parte, ci saranno ancora. Molti (e anch’io)
hanno peraltro tentato di offrire tipologie dei rifugiati ambientali (ancor più di quelli “climatici”).
Solo il numero dei refugees è ufficiale e (ora) costante
RIFUGIATI POLITICI
Negli ultimi anni il numero dei refugees ovvero dei rifugiati
internazionali “politici” (quelli con lo status di “rifugiato”) è
ruotato sempre intorno a circa 15 milioni, gli ecoprofughi
internazionali sono stati ufficialmente di più. E anche i rifugiati
politici interni (che non superano il confine) sono ormai meno
degli ecoprofughi interni. Ci piaccia o meno, qualche centinaio di
migliaia arrivano in Europa ogni anno, ancor più ne arriveranno in
futuro.
Secondo l’UNHCR, alla fine del 2011 in tutto il mondo vi
erano 42,5 milioni di persone tra rifugiati (15,2 milioni, 11,4
refugees e gli altri “palestinesi”), sfollati interni (IDPs, 26,4 milioni)
o persone in attesa di una risposta in merito alla loro domanda
d'asilo (895.000). Nonostante l'elevato numero di nuovi rifugiati,
la cifra complessiva è risultata inferiore al totale del 2010 (43,7
milioni), soprattutto per effetto del ritorno alle proprie case di un
gran numero di sfollati: 3,2 milioni, la cifra più alta da oltre un
decennio. Per quanto riguarda i rifugiati, nonostante un
incremento nel numero dei rimpatri rispetto al 2010, il 2011 si
trova comunque al terzultimo posto per numero di ritorni a casa
(532mila) nell’ultima decade.
Fra gli sfollati interni calcolati dall’UNHCR vi sono sia profughi
“politici” (non diventati refugees solo perché non hanno superato
il confine e sono assistiti in patria) che profughi ambientali
(ovviamente solo parte del totale, perché non tutti i paesi hanno
bisogno di assistenza internazionale).
RIFUGIATI CLIMATICI
Il numero dei rifugiati climatici, ovvero degli
ecoprofughi è più difficilmente calcolabile sia per
l’inutilità e precarietà della distinzione di chi
supera o meno subito il confine del proprio paese
d’origine, sia per l’assenza ancora di una
distinzione fra gli specifici rifugiati climatici e
l’insieme dei profughi ambientali. Tutte le ipotesi
sulla situazione attuale e gli scenari futuri stimano
cifre superiori agli attuali e futuri rifugiati politici.
Provò a calcolare i profughi ambientali un noto
docente ecologista inglese alla metà degli anni
novanta, Norman Myers, dopo che un decennio
prima la “categoria” era stata già riconosciuta da
El-Hinnawi in uno studio dell’UNEP. Molta
letteratura è passata da allora sotto i ponti
(insieme a derelitti e relitti). La Banca asiatica per
lo sviluppo ha parlato di 30 milioni di ecoprofughi
solo nel 2010.
Cosa si può fare per i rifugiati climatici…
Serve uno strumento legale ONU dedicato al riconoscimento, alla prevenzione mirata, alla protezione e
all’assistenza di profughi o rifugiati climatici. Abbondano proposte di definizioni dottamente argomentate,
bisognerà valutarle in sedi istituzionali dotandosi di solide basi scientifiche interdisciplinari e cercando un complesso
consenso intergovernativo. Una soluzione globale, rapida e ottimale non c’è, ognuna sconta limiti e controindicazioni,
ognuna richiede volitività incerta negli esiti, ognuna impone una qualche modifica al sistema dato del diritto
internazionale.
Si potrebbe:
integrare formalmente il mandato UNHCR;
approvare una specifica Convenzione internazionale;
definire un Protocollo o un meccanismo, o una serie di accordi regionali o di cooperazione interregionale, corollari del nuovo accordo
globale sui cambiamenti climatici;
definire un meccanismo o un vero e proprio Protocollo attuativo di un’altra convenzione globale, come quella contro la siccità e la
desertificazione, l’UNCCD.
Nessuna norma o convenzione dell’ONU, allo stato attuale, contempla e tratta esplicitamente la questione dei diritti
umani, dell’assistenza umanitaria, degli impatti ambientali connessi ai profughi climatici. Le vittime sono individui inseriti
in contesti “vulnerabili” e prima o poi “vulnerati”, si tratta di garantire un’assistenza individuale, l’individuazione e la
prevenzione sono comunque azioni che li riguardano collettivamente, servono norme generali e astratte (per aree e
comunità) non provvedimenti nominativi.
Si decida presto insieme quale convenzione può dedicare tempo e mezzi a definire (con un comitato negoziale
intergovernativo) la proposta di uno strumento globale legalmente vincolante sui profughi climatici, con il supporto
anche dell’UNHCR, dell’UNEP, dell’UNDP, del meccanismo di coordinamento UN-Water, da negoziare e ratificare nel
più breve tempo possibile. Nel prossimo decennio il negoziato climatico resterà la sede più importante di decisioni
multilaterali fondamentali per la specie umana sapiente.
È comunque necessario aumentare i fondi e rafforzare le politiche per la cooperazione allo sviluppo sostenibile e
il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio.
… visto che sono tanti. E saranno di più!
Gli ecoprofughi, i profughi climatici, i rifugiati climatici sono già oggi decine di milioni. Chi ha
cominciato a tradurre gli scenari dell’ultimo rapporto IPCC in costi economici e finanziari ha
segnalato enormi numeri di profughi climatici e un intervallo ampio fra i vari scenari (buono o
migliore o sopportabile il primo, cattivo, molto cattivo o peggiore o terribile il terzo). In ogni
scenario si calcola non se ma quanti (tanti) saranno gli umani costretti a migrare dai cambiamenti
climatici (tra 100 milioni e un miliardo entro il 2050, in genere in sede ONU si dice 200), da dove
(Sud ed Est asiatico, tutta l’Africa e in particolare il delta del Nilo e la costa occidentale). Nessuno
dice se e dove immigreranno. Alcuni cominciano comunque a partire, a emigrare.
Il principale contenuto sostanziale è il processo di delimitazione, cioè d’individuazione sia delle aree (a
prescindere inizialmente dai confini statali), ove è quasi certa la necessità di future delocalizzazioni, che degli
individui e gruppi potenzialmente interessati. Ognuna delle costrizioni climatiche ha specificità geografiche e
temporali: pensiamo alle isole o ai delta e all’innalzamento del mare, alle aree secche degradate e alla scarsità
d’acqua per ogni uso non solo umano, alle aree urbane inondabili nei vari bacini idrografici, ai fenomeni con alto
livello di probabilità a breve medio e lungo termine. Basandosi sui materiali dei rapporti IPCC si può giungere a un
elenco di aree abitate e di eventi molto probabili che possano renderle inabitabili, un elenco “certificato” visto che
un’ elencazione informale degli evidenti potenziali hotspots è diffusa in letteratura e diventa spesso oggetto di
drammatiche cronache contemporanee. L’individuazione delle aree consente anche di articolare i possibili
interventi: prevenire o assistere migrazioni forzate non garantiscono che non si determini comunque un collasso di
risorse e un insieme di disastri per la biodiversità (anche umana) che resta.
Nell’anno internazionale dei deserti e della desertificazione (2006) l’UNCCD raccolse dati e studi sui flussi
migratori dalle aree secche dell’Africa, concludendo che entro il 2020 circa 60milioni di nuovi migranti avrebbero
potuto spostarsi dalle regioni sub sahariane verso il Nord Africa e l’Europa, attraverso una direttrice prima trans-
sahariana, poi tran mediterranea. Dall’Africa, quando si superano i confini nazionali e limitrofi, il principale corridoio
ad un certo punto ha sempre intersecato e interseca un piccolo mare, il Mediterraneo, antico insieme di mari e
terre di transito di profughi climatici.
Il Mediterraneo è il cuore delle migrazioni forzate!
La periodizzazione delle migrazioni assume sempre anche un contorno mediterraneo e il Mediterraneo ha sempre rappresentato una barriera fisica ai movimenti non solo umani e alle migrazioni latitudinali (anche favorendo nicchie e rifugi, però). In tutti i periodi il Mediterraneo è stato fattore di co-evoluzione dei gruppi e degli individui umani sulle diverse coste; sparse per isole insenature penisole, si trovano tracce (non solo megalitiche) di antiche migrazioni, anche cospicue.
Il Mediterraneo resta mare di transito da più origini verso più destinazioni. Rotte importanti attraversano il mare senza lambire coste africane. E per l’immigrazione non “regolare” spesso le rotte e le modalità di arrivo le scelgono i trafficanti della “merce” clandestina più che i migranti. Resta il fatto che terre africane sono a pochi chilometri da terre europee, il mare è lì.
Dalle guerre puniche alle Crociate, dallo schiavismo al dominio coloniale è dal Nord del Mediterraneo che si è invaso, occupato, forzato il Sud, che al Sud sono state imposte (non riconosciute) etnie e identità.
Parlare di strategia mediterranea significa parlare di maggiore integrazione Europa-Africa, a partire dal crocevia di quel che avviene di globale nel piccolo mare. Qui convergono parte preponderante del turismo mondiale, inquinamenti e degradi, scambi commerciali e energetici cruciali. I paesi meridionali sono ad una svolta demografica, sociale, politica ed energetica (per il solare).
Oggi risalta e ancor più in futuro le coste mediterranee risalteranno come luoghi di tensioni migratorie, libertà di partire, non libertà di arrivare, blocco della libertà di partire, partenze illegali, morti in mare, arrivi illegali, rimpatri, un mare di tutti e nessuno, un mare sul quale convergono impatti sociali e flussi migratori dell’intero pianeta.
Oggi accade che comportamenti sociali adottati e persistenti da parte di gruppi, popoli e nazioni (diventate più benestanti e potenti pure direttamente grazie a tali comportamenti) abbiano provocato cambiamenti climatici che, decenni dopo e molto lontano, hanno obbligato, obbligano e obbligheranno a migrare individui e gruppi, spesso già poveri o impoveriti pure indirettamente grazie a quegli stessi comportamenti. Molti dall’Africa, molti attraverso il Mediterraneo, molti in Europa. Le politiche migratorie del diritto internazionale e comunitario, degli Stati, dei soggetti collettivi devono meglio occuparsene, prevenire e assistere tutti i migranti forzati, tutti i profughi., tutti gli eco profughi. ONU e UE potrebbero e dovrebbero occuparsi subito dei rifugiati climatici, degli ECOPROFUGHI.
I diritti del vivente non umano (termine antropocentrico)
Sotto varie forme sono stati misurati i raggiunti limiti dello sviluppo, la perdita dei patrimoni genetici, le capacità
di carico degli ecosistemi e della Terra, le impronte ecologiche, il peso di politiche conservative nei contesti
dissipativi, gli sprechi energetici, i costi sociali ed economici dei rischi, gli scenari quantitativi e anche gli impatti delle
tecnologie e della eventuale riconversione verso comportamenti sostenibili di individui e gruppi. È bene che
qualcuno si occupi di tutto ciò. L’ONU e ogni volenteroso, singolo e associato (anche non compassionevole o
solidale).
Capire che non ci sono normalità e norme dell’evoluzione nella Terra non significa che la nostra
specie può prescindere dall’evoluzione della Terra. Aggrappati alla realtà. Indignati verso certe realtà.
Solidali con l’ambientalismo dei poveri, che mischia linguaggi, chiede giustizia sociale, attiva conflitti
vitali. Senza appelli alla natura o alla morale. In lotta per la sopravvivenza e la capacità riproduttiva.
Militanti di diritti umani e non umani. Abbiamo bisogno del vivente non umano. Molti dei nostri
diritti li garantiamo se vive il non umano.
Il 29 gennaio del 1948, in un incidente aereo in California, vicino al confine con il
Messico, persero la vita 28 "deportati" ovvero 28 lavoratori messicani che stavano per
essere forzatamente rimpatriati. Il loro permesso di soggiorno era scaduto, insieme col
contratto di lavoro, pertanto venivano rispediti in Messico da dove avrebbero cercato
con ogni mezzo di tornare negli States. Era questa la vita dei lavoratori stagionali,
impiegati soprattutto nella raccolta della frutta, nei campi della ricca California. Il giorno
dell'incidente aereo la radio locale diede subito la notizia precisando che erano morti
"soltanto" dei deportati.
Woody Guthrie (14 luglio 1912–3 ottobre 1967) era stato costretto a lasciare la sua
terra, l'Oklahoma, ai tempi della Grande Depressione e dopo anni di «hard travelin’»
finì per stabilirsi a New York. Guthrie aveva scritto solo il testo di «deportee» che fu
poi musicata, dieci anni dopo, da Martin Hoffman, e cantata per la prima volta da Pete
Seeger nel 1958.
Woody Guthrie, "Deportee" (Arlo's singing)
3. La fabbrica globale e le migrazioni
Monica Di Sisto
I numeri della recessione
Il FMI sostiene che il mondo crescerà appena del 3,3%
quest’anno e del 3,6% nel 2013 e che il rallentamento in
tutte le maggiori economie minacci sia la ripresa negli Usa
sia in area Euro.
La Cina, che cresceva di un 9,3% nel 2011 andrà al
7,7% nel 2012 per recuperare all’8% nel 2013
Aumenta la disoccupazione anche in Cina. Secondo
dati della banca HSBC, il sub indice dell’occupazione è
sceso al 47,7% a luglio rispetto al 48,8% di giugno, il suo
peggior livello del marzo 2009. L’indice è in continua
discesa da cinque mesi.
E' una de-crescita con meno lavoro…
Mancano all’appello 200 milioni di posti di lavoro, ivi compresi i 27 milioni di nuovi disoccupati dall’inizio della crisi. 74,8 milioni sono giovani.
Il tasso mondiale di disoccupazione non cambierà da qui al 2016, rimanendo al 6 % della forza lavoro mondiale.
900 milioni di lavoratori continuano a vivere, insieme alle loro famiglie, sotto la soglia di povertà dei 2 dollari al giorno, soprattutto nei paesi in via di sviluppo e l’80% dei lavoratori nell’Africa sub sahariana e dell’Asia meridionale sono “working poor”.
Nella stessa area l’85% delle lavoratrici sono precarie.
Dal 1997 al 2007, mentre i fatturati globali crescevano del 4,2% l’anno, l’occupazione aumentava appena dell’1,6%.
…e con meno produzione
A settembre, la produzione in Cina non è
ripartita come sperato: l'indice manifatturiero
Hsbc Mpmi è infatti a 47,9 in lieve risalita dal 47,6
di agosto, ma resta ancora in rosso, sotto quota
50. Colpa dei nuovi ordinativi, che non arrivano
dall'export. E’ il calo maggiore dal marzo del
2009.
La produzione manifatturiera in Italia
passa dal 4,5% al 3,3% del totale globale e
da quinta diventa ottava nella classifica
internazionale, che vede sul podio Cina, Stati
Uniti e Giappone.
La contrazione dell'attività industriale in Italia è
stata del 22,1% tra l'aprile 2008, punto massimo,
e il marzo 2009, punto minimo.
La crisi non è meteorologica…
sono passati più di 10 anni da Seattle
Lee Kyung Hae
Una bella favola: l’International Trade
Organization
La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale sono stati istituiti in un incontro tra i 43 “vincitori” a Bretton Woods, ridente località balneare del New Hampshire (USA) nel 1944.
A fianco ad essi venne prevista la creazione di un’International Trade Organisation (ITO).
Fu ratificata nel 1948 durante la Conferenza delle Nazioni Unite di L’Avana.
Il commercio secondo l’ITO: un sistema di REGOLE
Il Congresso USA ne esaminò più volte il documento istitutivo, ma non lo approvò mai
John Maynard Keynes e Harry Dexter White alla Conferenza di Bretton Woods
Arriva il GATT
6 Dicembre 1950: il presidente Truman annuncia che non avrebbe più presentato il documento istitutivo dell’ITO al Congresso.
Al suo posto venne elaborato il General Agreement on Trade and Tariffs (GATT) che fino al 1995 ha ridotto del 40% le barriere non commerciali e introducendo misure
Pochi sanno che il GATT ancora esiste
Il sistema in vigore ha sei aree:
L’accordo ombrello istitutivo della WTO
L’accordo su beni e investimenti (GATT 1994 e TRIMS),
L’accordo sui servizi (GATS),
Quello sulla proprietà intellettuale and intellectual property (TRIPS);
Il dispute settlement body (DSB);
L’organismo di revisione delle politiche commerciali dei Governi (TPRM).
E poi la World Trade Organisation
Prima che il GATT compisse 40 anni i suoi membri decidero
che il mondo era cambiato.
L’ottavo round di negoziati, l’Uruguay Round, lanciato nel 1986
a Punta del Este, in Uruguay, raccolse il mandato più ambizioso
di tutti i tempi: far entrare nello spazio del mercato globale
nuovi “prodotti” (i servizi e la proprietà intellettuale) e
liberalizzare di più i settori del tessile e dell’agricoltura.
Cade il muro di Berlino (1989)
Il negoziato doveva chiudersi a fine 1990 ma Stati Uniti e
Europa non si misero d’accordo.
Nel 1991 scoppia la Guerra del Golfo
Nel 1992 con il "the Blair House Accord“ firmato nel 1994, in
Marrakesh (Marocco) i think thanks di Clinton spingono alla
creazione della World Trade Organization, che diventa operativa
il primo gennaio del 1995
Karl Polanyi: il lavoro è una merce
“Il capitalismo industriale ha innescato un processo di individualizzazione e
di privatizzazione del rapporto di lavoro trasformando fittiziamente
quest’ultimo in merce liberamente vendibile e acquistabile sul
mercato a seconda delle proprie prospettive di produzione e di profitto.
Da questo punto di vista la finanziarizzazione globale ha completato il
processo di mercificazione togliendo al lavoro ogni diritto e riducendolo
ad una condizione sempre più precaria e servile”.
Tecnicamente, per la Wto il lavoro è un servizio
La WTO considera il lavoro all’interno dei negoziati nel capitolo GATS (servizi).
Attualmente in discussione è il flusso della merce-lavoro attraverso le frontiere
(mode 4: temporary movement of “natural persons” across borders to provide
services).
L’UNCTAD da circa 10 anni stima in circa 200 miliardi di dollari il potenziale
guadagno che i Paesi poveri ed emergenti potrebbero avere con una maggiore
liberalizzazione del flusso dei lavoratori migranti.
Le discipline a riguardo della “fortezza Europa” e degli States, li conoscete. Siamo
liberisti intermittenti.
Il potenziale guadagno, naturalmente, si concentra essenzialmente nel capitale
delle rimesse.
Assumiamo un’altra prospettiva. Il danno: brain drain!
Paesi poveri al centro?
Il clima culturale e politico era cambiato (Neoliberismo, ma soprattutto la
Recessione economica degli anni 80…)
La WTO nasce con la missione di portare, attraverso il multilateralismo
commerciale, maggiore prosperità, accrescere i livelli d’impiego,
ridurre l’ineguaglianza e promuovere lo sviluppo sostenibile a
livello globale attraverso un tasso crescente di libero mercato
E dopo le Torri Gemelle…
“La maggioranza dei Paesi membri del WTO sono Paesi in via di
sviluppo. Poniamo le loro necessità e i loro interessi al centro del
programma di lavoro adottato in questa Dichiarazione”. (Paragrafo 2
della Dichiarazione Ministeriale di Doha, 14 novembre 2001)
Martin Khor: il riequilibrio non c’è
“This is a major problem because the rebalancing of WTO rules in favour of
developing countries is no longer there. The last remaining aspect is the
question of whether we have development at the centre of agriculture,
industrial tariffs and services.
If you do an objective analysis you will find that the answer is no”.
Meno dazi = meno servizi sociali
Una conseguenza negativa della riduzione/cancellazione delle tasse di dogana è la conseguente riduzione di entrate per lo Stato. Per molti paesi Africani, privi di un efficace sistema fiscale, si tratta di una fonte di entrata tutt’altro che secondaria.
La Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite (UNECA), stima che negli ultimi dieci anni le rendite derivanti dalle tasse sul commercio abbiano fornito ai Paesi dell’Africa Sub-Sahariana il 30,5% delle entrate statali.
I Paesi europei non sono sensibili a questo problema poiché hanno sviluppato nel tempo un sistema fiscale in cui questa voce di entrata è marginale: per i paesi industrializzati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), vale un esiguo 0,8%.
Le bon élève: a quale prezzo?
FMI e BM hanno imposto dopo gli anni Ottanta ai Paesi più poveri la cura: meno Stato, più mercato
I costi sostenuti a seguito della riduzione o dello smantellamento degli strumenti pubblici a sostegno del mercato interno dei Paesi dell'Africa Sub-Sahariana nel ventennio 1980-2000 sono stati di 272 miliardi di dollari
Una cifra di circa 70 miliardi di dollari, superiore all'ammontare complessivo del debito estero stimato verso creditori pubblici per i Paesi del continente.
Quando i poveri cominceranno a stare meglio?
(Hong Kong)
Trade not aid: davvero?
Il commercio globale cresce nel 2011 del 5.0%, nel 2010 era il 13.8%. Questo
rallentamento preoccupa ed è il sintomo che è il sistema che non va
Le esportazioni delle economie sviluppate, al contempo, sono cresciute del
4,7% e quelle in via di sviluppo del 5,4%.
In Africa le importazioni sono cresciute del 5.0%
Si prevede per il mondo in via di sviluppo nel suo complesso che le
importazioni crescano del 6.2%
Gli aiuti, bontà nostra, calano: l’OCSE/DAC registra un crollo
globale del 3,3% negli aiuti ai Paesi piu' poveri da parte dei Paesi
donatori. Taglio che per i Paesi dell'area euro arriva al 6,4% rispetto
al 2010.
Gli aiuti nel dettaglio
A soli tre anni dallo scadere del 2015, anno in cui la comunità internazionale e'
chiamata a verificare se avrà raggiunto tutti gli Obiettivi del Millennio di
riduzione della povertà, tra cui quello di destinare stabilmente lo 0,7%
del Prodotto globale lordo alla Cooperazione allo sviluppo, i paesi
Ocse si attestano allo 0,31%, il 2,7% in meno del 2010.
Si registra, inoltre, una sorta di ''selezione dei beneficiari'' degli aiuti, che si
dimostrano concentrati verso i Paesi emergenti, percepiti come possibili futuri
mercati di sbocco per le nostre economie in crisi.
Il gruppo dei Paesi meno sviluppati, infatti, ha visto crollare i flussi di
aiuti del 8,9%, e gli stessi aiuti all'Africa - classificata come partner
prioritario - si sono ridotti dello 0,9% nonostante si sia verificato un
aumento di pari entità verso l'Africa del Nord, collegato ai moti della
primavera araba.
Esportazioni: i sogni son desideri…
Importazioni: per gli LDCs una cruda realtà
Il vecchio concetto di “filiera”
Buyer power: il caso studio delle banane
La fabbrica globale
Un modello di integrazione verticale
La trappola del “trade in task”
Ci sono due grandi domande aperte nel commercio globale oggi. La prima è
sul “dove si accumula il valore aggiunto”, e l’altra, che ci riguarda di più
oggi è “chi produce che cosa per chi”. Sono al centro di una profonda
revisione in corso dei modelli e della contabilità del commercio
internazionale.
Il modello teorico del commercio internazionale (leggi globalizzazione)
vuole che viaggino i beni come sostituto degli spostamenti dei
mezzi di produzione.
In realtà quando importi beni da un Paese partner è come se importassi i
suoi capitali e lavoratori, in competizione diretta con imprese e lavoratori
nazionali.
Con la frammentazione della produzione, però, la parte di valore
aggiunto dai fattori di produzione dei Paesi di origine dei
componenti è estremamente ridotta.
Al centro le funzioni: e le persone?
Il lavoro è assolutamente sparito dai diagrammi.
Non è nemmeno considerato un fattore di
produzione. Banalmente non c’è perché è una
variabile dipendente dai task.
Con il lavoro, sparisce il “chi” lavoratore. Il
soggetto è, a seconda delle prospettive, il
prodotto, il supplier, l’investitore/azienda.
Il commercio dei beni intermedi
La percentuale di input importati sul totale di input usati
per produrre un’unità nell’area Ocse è cresciuta tra il
1995 e il 2005 dal 24 al 32%.
Circa il 60% del commercio totale di beni (fatta
eccezione per le materie prime) è commercio di beni
intermedi. Dato che sale al 70% per i servizi.
Circa il 20% di tutte le merci esportate dai Paesi in via di
sviluppo fa capo alle Export processing zones
I “vivai” delle funzioni
Gli ambienti più adatti per questo tipo di
produzione sono Export Processing Zones,
(World Bank 2008) che sarebbero oltre 3mila in
135 Paesi, darebbero lavoro ad oltre 68 milioni di
persone, in gran parte migranti, per oltre 500
miliardi di dollari di produzione.
La sola Cina mette al lavoro nella EPZ 40 milioni
di addetti, mentre nel resto del pianeta le
presenze sono raddoppiate tra il 2002 e il 2006
passando da 13 a 26 millioni di addetti
Le EPZs impiegano circa 1/3 della forza lavoro
globale
Il valore aggiunto dove va?
Sfatiamo un mito: anche la Cina si è fatta fregare
dalla fabbrica globale, nonostante la sua capacità di
programmazione del mercato interno.
Circa 2/3 del commercio di prodotti
industriali realizzati nelle EPZ è
saldamente nelle mani di imprese di
investitori stranieri. E’ sotto questa spinta che il
Paese è diventato l’esportatore leader a partire
dal 2009 e patisce la crisi degli ordinativi.
La differenza, poi, tra il valore delle
esportazioni manifatturiere e industriali e il
costo delle importazioni degli input
intermedi riduce il valore aggiunto al 30-
35% dei prodotti esportati.
La differenza la fanno i migranti
I migranti interni in Cina sono circa 230milioni (il
17% della popolazione complessiva). Hanno un'età
media di 28 anni e il 45% è nato dopo il 1980. Sono i
protagonisti dell'esodo che sta cambiando la Cina: l'anno
scorso i residenti nelle metropoli hanno superato quelli
delle campagne, entro il 2020, il rapporto cittadini/contadini
(in seguito all‘arrivo di 10-13milioni di migranti all'anno)
dovrebbe diventare 60/40.
L'ultimo rapporto della Commissione nazionale sulla
popolazione stima il loro reddito medio, nel 2011, in
2.513 (320 euro) yuan: un aumento del 29,4% rispetto al
2009.
Il 72% di questi lavoratori, però, condivide alloggio e spese
con dei compagni, e meno del 30% ha un’assicurazione.
Impiegati nell'industria, nell'edilizia e nei servizi, lavorano
54,6 ore alla settimana. Oltre il 50% non ha contratto
fisso e non ha gli straordinari, che scattano dopo le 40h.
Che cosa ci dice l’ILO
Grossman e Rossi-Hansberg (2008) citati
dall’Ilo hanno trovato che con il “trade in
task” nei Paesi dove c’è una scarsa
specializzazione nella produzione, i
redditi degli operatori meno specializzati
sono cresciuti.
Dove c’è produzione specializzata,
l’ineguaglianza nei redditi è cresciuta nella
manodopera offshore, fatti salvi i profili più
specializzati ed indispensabili.
Nei Paesi di medie e grandi dimensioni
l’offshoring sta accelerando le
disuguaglianze, e il welfare è in picchiata
in assenza di condizionalità commerciali.
Il gioco dell’iPod
Usando l’iPod come esercizio sulla fabbrica globale,
Linden, Dedrick and Kraemer (2009) hann stimato che
questo prodotto e le sue componenti abbiano creato
nel solo 2006 circa 41.000 posti di lavoro in tutto il
mondo.
circa 27.000 sono stati creati fuori dagli Usa,
essenzialmente nella manifattura a basso
reddito.
14.000 sono stati generati all’interno degli Usa (incluse
le vendite) di cui circa 6.000 tra ingegneri e manager
d’alto livello, e circa 8.000 di lavoratori della
distribuzione e non professionali, molti dei quali
non dipendenti dalla filiera transnazionale
La geografia dei beni intermedi
Gran parte del commercio nei beni intermedi si
svolge tra tre regioni: Nord America, Europa e
Giappone. I flussi all’interno delle regioni sono più
importanti di quelli tra le regioni, e Africa e Sud
America risultano marginali.
L’Asia è specializzata in importazioni di precisione,
ottica, strumenti di telecomunicazione e computers,
mentre il focus del Nord America son i veicoli a
motore. L’Europa importa un ventaglio più ampio di
beni intermedi.
Le tre regioni presentano specializzazioni anche
nell’export di beni intermedi: l’Asia esporta
macchinari e tessili, l’Europa prodotti meccanici.
I lavoratori stranieri in Italia
Anche nel 2011, mentre gli occupati nati in Italia
sono diminuiti di 75mila unità, gli occupati nati
all'estero sono aumentati di 170mila.
Attualmente gli occupati stranieri sono circa 2,5
milioni e rappresentano un decimo dell'occupazione
totale.
Nello stesso tempo tra gli stranieri e' aumentato il
numero dei disoccupati (310mila, di cui 99mila
comunitari) e il tasso di disoccupazione (12,1%,
quattro punti in più rispetto alla media degli italiani),
mentre il tasso di attività e' sceso al 70,9% (9,5
punti più elevato che tra gli italiani). [Dossier
Statistico Immigrazione 2012, Caritas Italiana-
Fondazione Migrantes]
Qualifiche basse e molti infortuni
Anche in Italia gli immigrati sono concentrati nelle fasce più basse del mercato
Tra gli italiani gli operai sono il 40%, la quota sale all'83% tra gli immigrati comunitari e al 90% tra quelli non comunitari.
Sono oltre 1 milione gli immigrati iscritti ai sindacati, con una incidenza dell'8% sul totale dei sindacalizzati e del 14,8% sulla sola componente attiva.
Tra i lavoratori nati all'estero, in controtendenza con l'andamento generale, gli infortuni sono cresciuti, raggiungendo un'incidenza media del 15,9% sugli infortuni complessivi a fronte del 15% dell'anno precedente.
Le ispezioni condotte nel 2011 hanno riscontrato in situazione irregolare il 61% delle aziende sottoposte a verifica, in circa la metà dei casi per lavoro nero, condizione che accresce l'esposizione dei lavoratori al rischio di infortunio sul lavoro.
Global Compact e SA8000
La sigla SA 8000 (tecnicamente SA8000:2008; SA sta
per Social Accountability) identifica uno standard
internazionale di certificazione redatto dal CEPAA
(Council of Economical Priorities Accreditation Agency) e
volto a certificare alcuni aspetti della gestione aziendale
attinenti alla responsabilità sociale d'impresa (CSR -
corporate social responsibility, in inglese). Questi sono:
il rispetto dei diritti umani,
il rispetto dei diritti dei lavoratori,
la tutela contro lo sfruttamento dei minori,
le garanzie di sicurezza
la salubrità sul posto di lavoro.
SA8000: standard “profondo”
La norma internazionale ha quindi lo scopo di migliorare le condizioni lavorative a
livello mondiale e soprattutto permette di definire uno standard verificabile da Enti
di Certificazione.
La norma nasce come aggregazione formata dai principi stabiliti da altri documenti
internazionali quali: Convenzioni ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro);
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani; Convenzione Internazionale sui Diritti
dell'Infanzia; Convenzione delle Nazioni Unite per eliminare tutte le forme di
discriminazione contro le donne.
Il suo impatto e la profondità alla quale si spinge, rispetto altre norme "formali", richiede
attenzione e partecipazione da parte della Direzione, del top management, dei Dipendenti,
dei Fornitori, dei Fornitori dei fornitori (subfornitori) e non ultimi, i Clienti.
A titolo esemplificativo, la norma viene verificata con interviste casuali direttamente nei
confronti di dipendenti, ad esempio per svelare casi di "mobbing" impossibili da
dimostrare mantenendo la verifica a livelli manageriali. Altro esempio può essere
l'applicazione nei confronti di subfornitori, tipicamente nel caso di utilizzo di lavoratori
irregolari o mal retribuiti che normalmente non sono mai direttamente a contatto con
l'Azienda certificata
Sfida agli standard: il caso Pakistan
247 morti a Karachi per il rogo della Ali Enterprises, che produceva jeans per l’export
Secondo l’indagine locale erano assenti anche le più elementari norme di sicurezza e i contratti erano irregolari
Solo un mese prima, si legge in un comunicato diffuso dalla campagna Abiti Puliti, l'azienda Ali Enterprises "aveva ricevuto la certificazione SA8000 dal Registro Italiano Navale Group (RINA), società di ispezione accreditata dal SAAS (Social Accountability Accreditation Services)".
La Social Accountability International (SAI) e la Social Accountability Accreditation Services (SAAS) hanno negato ogni responsabilità per l'incendio, opponendo un vincolo di segretezza per cui non possono condividere le informazioni di cui dispongono sulla fabbrica
Il commercio equo offre un modello di politica
Scherzosamente il Commercio Equo si aggiudica il
premio Adam Smith perché:
Aiuta a ridurre gli squilibri di filiera
Sostiene l’accesso al credito
Stabilizza i prezzi e li rende trasparenti
Stabilisce relazioni di lungo periodo
Investe parte dei profitti in beni e servizi di
rilevanza sociale
Offre canali paralleli di distribuzione alternativi
Costruisce partnership tra Nord e Sud e tra i
Sud, anche quelli nel Nord"
(Leonardo Becchetti)
Prezzo trasparente 1/2
Prezzo trasparente 2/2
Un esercizio di Cuorebio sul produttore biologico
società Terre di Sangiorgio srl
Processi multistakeholders
La rete dell’economia solidale in Italia
Il processo verso la realizzazione della Rete Italiana
di Economia Solidale (RES) è stato inizialmente
promosso dalla Rete di Lilliput (2001) e si è
sviluppato successivamente con il sostegno delle
Botteghe del Mondo, della Rete dei Gruppi di
Acquisto Solidali, delle organizzazioni della finanza
etica e di microcredito, del turismo responsabile e
reti di cooperative sociali.
Tale progetto è aperto a tutte le realtà che già
operano, che si sentono parte, o che comunque
intendono agire ispirandosi ai valori e ai princìpi
dell'economia solidale.
SOGNO GLOCALE
Distretto di Economia Solidale (DES)
Distretti di Economia Solidale come attivazione di relazioni (rete) e di flussi economici di prodotti e servizi all’interno della rete (Saroldi)
E di politica?
Contro la crisi…
Un passo in più nell’innovazione di filiera
Fair facilita la progettazione di MADE in NO (www.made-in-no.com) collaborazione anti-crisi tra diversi soggetti:
La “Sartoria Giuseppe Bruzzese” di Galliate (provincia di Novara), una piccola impresa di confezionamento che si è fatta coordinatrice di una piccola filiera locale;
Justa Trama, una rete di produzione che abbraccia tutto il Brasile nel coltivare, trasformare, tessere e in parte confezionare cotone biologico coinvolgendo oltre 700 famiglie di contadini e artigiani
Remei AG che promuove l’agricoltura biologica in filiere che coordinano circa 6mila produttori tra India e Tanzania
Botteghe del mondo e Gas
…la prima linea d’intimo eco&equo
Intimamente solidale perché genera…
Cibo, e sano, e redditi più alti per i contadini
brasiliani e indiani;
Il salvataggio di piccole imprese italiane di
un distretto in crisi
L’accesso alla pari per produttori brasiliani,
indiani e italiani alle opportunità messe a
disposizione dalle reti di economia solidale,
con una priorità per i mercati locali;
Assistenza tecnica e co-progettazione alla
pari
Ci piace definirle “mutande partecipate”, è
un po’ provocatorio ma rende l’idea!!!
Decrescita come scelta di produzione:
Morellato energia
Un'azienda del comparto fotovoltaico e termotecnico, la
Morellato di Ghezzano (Pisa), nonostante la crisi
economica che la attanaglia e parte dei suoi
lavoratori in cassa integrazione decide questa estate
di rifiutare una commessa militare offerta dalla
Waas, azienda del gruppo Finmeccanica coinvolta
nella produzione di armamenti, in particolare siluri.
E tutto questo dopo un sofferto percorso interno ed
un confronto con OdES, l'Officina dell'Economia
solidale di Pisa (associazione che cura e facilita il
consolidamento del Distretto di Economia Solidale del
comprensorio) che ha permesso di costituire un gruppo di
lavoro composto da alcuni dipendenti dell’azienda e da
membri di OdES che si focalizzerà su un progressivo
miglioramento della sostenibilità sociale ed ambientale
dell’impresa.
Cosa produrre e per chi
Una scelta coraggiosa, che testimonia come una cooperazione virtuosa tra
piccole imprese responsabili e il mondo dell'economia solidale può fare la
differenza nella costruzione di una società sostenibile e solidale.
Non ci si limita a discutere-decidere “come” e “dove” produrre
(l'organizzazione del lavoro e la localizzazione dell'investimento), ma anche
(e soprattutto) “cosa” e “per chi” produrre".
4. Migrazioni e business della cura
Alessandra Sciurba
5. Progetto H2OS
Domenico Maffeo
6. Un modello per il ritorno: il progetto di
coltivazione di grano saraceno di Muhammed
Avdić a Osmače (Bosnia)
Anna Brusarosco
«Se le società dell’Est europeo ora faranno di tutto per rincorrere in poco tempo il
nostro modello di produzione, di consumi e di vita, lo “stress” cui è sottoposto il pianeta
sarà ancora molto più grave. Se nel Sud del mondo si seguiranno anche solo alcuni dei
nostri cattivi esempi (per esempio in tema di consumi energetici, di motorizzazione, di
cementificazione dei suoli ecc.) e se chi non può o non vuole aspettare i decenni che
ancora mancano a questo traguardo per intanto tenterà la via dell’emigrazione verso il
Nord, nuovi fattori di accelerazione della corsa al collasso si aggiungeranno.»
Il demone dello sviluppo, in «Non per il potere» a cura di Federico Faloppa, Chiarelettere, 2012
ALEX LANGER: “Sviluppo? Basta! La scelta è
tra espansione e contrazione” (1991)
MIGRAZIONI diverse cause: povertà economica,
calamità naturali, condizioni ambientali sfavorevoli,
GUERRA
In BOSNIA ERZEGOVINA: la guerra (1992-1995) ha
comportato lo spostamento di oltre la metà della
popolazione (2,5 milioni di persone su 4,4 milioni di
abitanti) profughi interni e verso l’estero
Ad oggi poco più della metà dei profughi (circa 1 milione
di persone) ha fatto ritorno nel proprio luogo di origine,
questo principalmente a causa di:
difficoltà economiche: assenza di opportunità di lavoro
(stime disoccupazione 43,3% nel 2011)
debolezza istituzionale, instabilità politica, servizi scarsi
ed inefficienti
paura
Fenomeni migratori in Bosnia Erzegovina
Un caso emblematico: SREBRENICA
BREVE INQUADRAMENTO STORICO
Aprile 1992: inizio guerra in Bosnia Erzegovina – Iniziano le aggressioni delle
forze armate serbo-bosniache contro Srebrenica – Inizia lo spostamento di
popolazione (dalle campagne alla città)
Marzo 1993: intensificazione attacchi – Philippe Morillon (comandante
UNPROFOR) arriva a Srebrenica, la popolazione gli impedisce di lasciare la città
16 aprile 1993: Risoluzione 819 – Srebrenica zona protetta – caschi blu (prima
canadesi, poi olandesi)
Non cambia nulla (40.000-60.000 persone rinchiuse a Srebrenica)
6 luglio 1995: inizia l’assalto finale a Srebrenica
11 luglio 1995: caduta della città, inizia il GENOCIDIO
Perché tornare a Srebrenica?
E soprattutto come?
Per fare cosa?
UN «MODELLO PER IL RITORNO»: IL PROGETTO DI
MUHAMMED AVDIĆ a OSMAČE
Progetto di cooperazione nato dal basso: non un modello di sviluppo
esportato, ma una scelta della comunità per la propria vita
Valorizzazione e non sfruttamento delle risorse: buona pratica
esportabile in altre zone della Bosnia Erzegovina (e non solo)
Più lento, più profondo, più dolce (A. Langer)
UN «MODELLO PER IL RITORNO»: IL PROGETTO DI
MUHAMMED AVDIĆ a OSMAČE