Download - Farfalle a Milano
Collana LaGialla Serie BIG‐C Grandi Caratteri
La serie Big‐C, Grandi Caratteri, grazie all’alta leggibilità del carattere utilizzato in stampa e alle sue dimensioni (generalmente 13 o 14), propone testi di agile lettura rivolti in particolare a lettori con problemi visivi (ipovedenti). Assieme a questo libro e fino a esaurimento scorte, viene dato in omaggio un audiolibro su CD che permette in particolare a persone non vedenti o con problemi di dislessia, di ascoltare il racconto anziché leggerlo. Precisiamo che per i lettori con problemi di dislessia sono in commercio pubblicazioni a stampa realizzate con caratteri e accorgimenti particolari, che i libri della nostra serie non utilizzano. Tuttavia, il carattere utilizzato nella serie Big‐C (Candara) si presta comunque molto bene allo scopo. La presente opera è stata realizzata SENZA alcun finanziamento o contributo statale, pubblico o privato, ma esclusivamente con il capitale della Casa Editrice. Gli audiolibri forniti, offerti in omaggio a scopo promozionale e realizzati in collaborazione con l’Associazione Servizi Culturali, sono narrati da non professionisti dalla voce chiara e gradevole. Grazie a una particolare e rivoluzionaria iniziativa, JukeBook, i CD allegati ai libri possono essere scambiati con altri CD.
All’interno del CD sono presenti tutti gli approfondimenti sull’argomento.
www.jukebook.it www.labandadelbook.it www.0111edizioni.com
DAVIDE GORGI
FARFALLE A MILANO
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com www.labandadelbook.it
FARFALLE A MILANO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni
Copyright © 2012 Davide Gorgi ISBN: 978-88-6307-417-8
In copertina: disegno di Oliver “Psycho” Catenacci
Finito di stampare nel mese di Febbraio 2012 da Logo srl
Borgoricco - Padova
A Gaia,
a Simona
«Passi la vita a farti dire che
prima sei troppo giovane, poi troppo vecchio:
mi dico, ci sarà una fase intermedia
in cui si devono godere le cose, no?
L'effetto velocità... ci sarà una ragione.»
(dal film: Turné)
9
14 febbraio ‐ Sabato ore 13:47
La Ford Taunus del ’74 è rossa con le bande laterali
bianche, se ne sta ferma in mezzo alla strada, i quattro
cilindri del motore che gira al minimo borbottano segnali
di noia sprezzante soffiando, nell’aria ferma, leggeri sbuffi
di un fumo bianco, denso, impregnato di benzina e olio
non combusto. Il fanalino posteriore destro ciondola
malamente, in terra ci sono schegge di plastica rosse e
arancioni. Il cielo è un panno bianco, lattiginoso, che ti si
appiccica addosso come un pigiama di quelli 100% acrilico.
Il silenzio che si respira intorno è un’immersione nei mari
del sud: profondo, caldo e irreale. La sensazione è quella
di trovarsi di fronte a un fotogramma di un B‐movie, uno
di quei film a basso costo con immagini e sentimenti nudi
e crudi tipo “Milano a mano armata”, un unico
francobollo di pellicola, un frame al quale hanno tagliato
10
le braccia, le gambe e tappato la bocca: sai che prima c’è
stato per forza qualcosa ma non ti è dato sapere cosa, hai
solo quello che vedi per capire e non basta. Allargando il
campo visivo compaiono altre macchine, anch’esse
ferme, persone accovacciate ben nascoste dietro a
portiere aperte, pistole puntate, occhi socchiusi nella
concentrazione del momento, respiri spaventati
trattenuti a mezz’aria. Un poliziotto nano ha lo sguardo
famelico di un lupo che sta per azzannare la preda. Puzza
di gomma bruciata e di polvere da sparo, bocche che si
muovono con effetto slow‐motion, suoni ammutoliti persi
nel vuoto come stelle alla deriva.
Nell’auto rossa, due grossi dadi di pelo viola ondeggiano
imperturbabili appesi allo specchietto retrovisore; dalla
vecchia autoradio Philips accesa fa capolino una
musicassetta; sul divanetto posteriore dell’auto, coperto
da un vecchio plaid a scacchi rossi, una rivista aperta su
una foto a doppia pagina di una ragazza bellissima e
molto nuda, che sorride con quella tipica e sofisticata
malizia femminile che annichilisce il sesso debole maschile
al freddo obiettivo del fotografo. C'è poi un cuscino
sgualcito che ritrae il logo dei Pink Floyd, sul quale sono
appoggiati due grossi zaini. Per terra, sui tappetini sporchi
11
da decenni di aria inquinata, pioggia e vita di strada, due
lattine di birra parzialmente schiacciate e una di acqua
tonica.
L’uomo alla guida è reclinato mollemente sul volante;
sulla maglietta, sporca di qualcosa di scuro che
dall’altezza delle spalle scende fino al petto, l’immagine di
un Cristo sofferente o forse di Jim Morrison. È un ragazzo
ed è immobile.
L’uomo al suo fianco ha la testa appoggiata al finestrino
appannato e tiene gli occhi chiusi, un sorriso sereno
attraversa il viso ben rasato. È vecchio ed è immobile.
Il parabrezza davanti a loro ha crepe minacciose come
fiordi ghiacciati e quattro buchi dalla forma irregolare, che
come occhi di uno spirito maligno scrutano l’interno
dell’abitacolo dal vetro sbeccato.
Sangue scuro come un pozzo asciutto da millenni si
spande lento, arrogante e irriverente tra la plastica
consumata dal tempo, il velluto dei sedili, malridotto
come la faccia di un pugile suonato, e la finta radica di
scarsa qualità.
12
9 febbraio ‐ Lunedì
Il ragazzo cammina guardando distrattamente la merce
esposta nelle vetrine riccamente colorate di Corso
Buenos Aires, dove cuori dalle forme e dalle dimensioni
più improponibili la fanno da padrone, visto
l’approssimarsi della festa degli innamorati o presunti tali.
Il solo pensiero di questa ricorrenza così sciocca e
commerciale fa storcere, in una smorfia di disgusto, la
bocca al giovane. Il traffico caotico è un serpente di
lamiere, acciaio e plastica, che non arriva a disturbare le
sue orecchie, troppo abituate al rumore e
irrimediabilmente vaccinate al caos frenetico e
dodecafonico di Milano per farci realmente caso. Nuvole
di smog aleggiano minacciose nell’aria immobile ad
altezza passeggino, per la quotidiana, barbara strage
degli innocenti. Clacson barriscono nevrotici in faccia a
13
mamme dagli occhi spiritati che, dominatrici di una
mobilità invariabilmente immobile, osservano la plebe
dall’alto dei loro immancabili SUV, agili come elefanti
senza zampe, appropriati come cravatte blu su t‐shirt
viola. A bordo i loro piccoli pargoli, palesemente obesi,
ipervitaminizzati e play‐station dipendenti, pronti per
un’altra giornata nella loro bella scuola privata. Padri
tachicardici urlano bestemmie al telefonino da centinaia
di euro, le vene sulle fronti pronte a esplodere insieme
alle corde vocali strizzate dall’orgasmo spasmodico di una
comunicazione ritenuta vitale, che non riesce però a
comunicare nulla, perché ormai non c’è nessuno che si
prenda la briga di ascoltare veramente.
Il piccolo e sconfortato neurone ancora attivo nel cervello
del ragazzo è impegnato a dettare ordini alle gambe per
schivare le merde di cane in bella e massiccia presenza sul
marciapiede lurido; inoltre regola il ritmo del respiro, due
attività che lo impegnano completamente: non c’è posto
per pensieri o ragionamenti complicati. L’espressione sul
volto del ragazzo è assimilabile a quella che avrebbe uno
scimpanzé davanti al Vaso di girasoli di Van Gogh: neutra,
indifferente e vuota.
14
Il ragazzo è lungo come una malattia incurabile e secco
come una risaia fuori stagione. I capelli biondicci e lunghi
sulle spalle non riescono a nascondere una calvizie che ha
vinto la sua battaglia spietata con le tempie, e sta
marciando trionfalmente verso il resto del cranio. Il
giubbotto di pelle nero e la vecchia maglietta dei Doors
non sono un riparo sufficiente al freddo pungente della
tarda mattina a Milano, in questo lungo inverno che
sembra non volersi arrendere alla primavera. Una
pioggerellina fastidiosa come la sabbia nelle mutande
cade sulla città e sui pedoni, accartocciati su se stessi per
evitare di bagnarsi troppo con gocce impestate di
pesticidi, scorie radioattive e porcherie altrettanto
velenose e letali. Ombrelli neri, gialli, verdi o rosa sono
un’armatura inutile e ingombrante nello spazio affollato
da pedoni ammalati di una fretta che li sta conducendo
giorno dopo giorno alla morte: ci arriveranno di corsa,
contenti loro. Il ragazzo tiene le mani affossate nelle
tasche dei vecchi jeans e le spalle curve, le All Star rosse
alte hanno visto tempi migliori, hanno quell’aria sbiadita e
stanca di chi sta per lasciare questa desolata landa di
lacrime, troppi chilometri sotto le suole, troppe volte
15
sono state annodate le stringhe ormai mortalmente,
irrimediabilmente sfilacciate.
Oggi sarebbe dovuto andare all’ufficio di collocamento,
forse sarebbe stata la volta buona, magari un posticino
mal pagato sotto un capo bastardo e vessatorio si
sarebbe finalmente reso disponibile. Forse. Sua madre
sarebbe stata, almeno per una volta, fiera di lui e si
sarebbe evitato la ramanzina giornaliera, traboccante di
delusione e di ansia materna, sul suo stato catatonico di
giovane smidollato senza orizzonti. Solo che oggi proprio
non ha voglia di andare a farsi sbattere sul muso la realtà
di un’esistenza grigia come il cielo sopra di lui, oggi no,
vorrebbe solo camminare, camminare all’infinito. E non
importa se non arriverà da nessuna parte, non conta la
strada, non contano i muri, gli ostacoli, la gente, conta
solo il movimento. Muoversi significa vivere, vivere
significa avere uno scampolo di futuro da sfruttare, uno
scopo. Il suo non gli è ancora ben chiaro, ma pensa di
avere tempo per pensarci con calma, del resto è così
dannatamente giovane, non ha ancora compiuto
ventiquattro anni: il futuro è la speranza di un sole tiepido
seduto su una spiaggia di sabbia fine a osservare il mare
calmo, il presente è l’angoscia di infinite giornate tetre e
16
solitarie, il passato è la malinconia di un bosco rinsecchito
in una foto in bianco e nero sgualcita dal tempo.
Il vecchio è seduto su una sedia di formica gialla
affiancata ad altre sedie di formica gialla addossate alla
parete, gialla anch’essa. È di corporatura media, i capelli
brizzolati ben pettinati, negli occhi scuri un’espressione di
malcelata rassegnazione. Legge un libretto che ha
raccolto con timore da una vecchia scrivania traballante,
che nella logica delle cose dovrebbe avere una persona
seduta dietro pronta a dare informazioni utili e invece è
sempre immancabilmente vuota; è completamente
avvinto dalla lettura, la gente intorno è silenziosa,
rassegnata alla noia, sconfitta dall’attesa di un lavoro che
non arriva mai: una terra promessa, ma a qualcun altro.
Ha aspettato a lungo, in piedi, per strada al freddo per
quasi un’ora che aprissero quel cancello arrugginito, poi si
è unito alla calca di questa moderna e scalcagnata armata
Brancaleone ed è entrato nel palazzo al cui confronto le
rovine di Pompei sono un Hotel di lusso.
Corsi per idraulici, falegnami, contabili, elettricisti,
operatori sociali, addetti a paghe e contributi, specialisti
nel settore finanza, pony express, pizzaioli su navi da
17
crociera, informatici: tutti mestieri onorevoli ma al di là
delle possibilità dell’uomo strenuamente concentrato
sulle pagine plastificate del libricino colorato che tiene in
mano come una reliquia preziosa, ancora di salvezza che
in quanto ancora lo trascinerà verso fondali di una
disperazione profonda e paludosa. Una vita passata su
una macchina; ogni singolo ingranaggio, ogni pezzo, ogni
piccolo componente, ogni rumore, tutto di quella
macchina aveva un senso, un odore, un suono per lui
familiari, chiari, ogni sua azione sincronizzata come il
passo di una danza che solo i suoi occhi potevano vedere.
Un tango dalla sensualità nascosta ai non addetti ai lavori.
Un’intimità dettata dall’esperienza di un intenso e felice
sodalizio uomo‐macchina durato venticinque lunghi,
meravigliosi anni. Getta uno sguardo malinconico alla
gente che si affanna alla disperata ricerca di un impiego
stabile, neanche fosse il sacro Graal, nella moltitudine
disordinata di corridoi e uffici dall’aria dismessa da secoli
di incuria, dai quali esce un odore di carta stracciata,
timbri fuori corso, macchine da scrivere senza lettere,
computer senza CPU, stanchezza e disillusione. Quando si
alza sente come una morsa allo stomaco che lo costringe
ad appoggiarsi alla parete scrostata alle sue spalle per
18
non cadere; manda giù un groppo, l’ennesimo di quei
groppi che lo stanno soffocando giorno dopo giorno;
getta nel cestino il libretto che tiene tra le mani, utile per
migliorare il suo futuro come potrebbe esserlo un
Tampax usato e si incammina verso l’uscita di quella torre
di Babele.
Il ragazzo arriva in Piazzale Loreto, scende gli scalini grigi
resi scivolosi dalla pioggerella vischiosa, che cade
imperterrita con un peso impercettibile, si addentra nelle
viscere della capitale economica d’Italia e prende la
metropolitana, linea rossa. Passa in corridoi lerci, dove la
puzza di piscio toglie il respiro, circondato da cartelloni
pubblicitari dove le donne sono sempre praticamente
nude, a prescindere dal prodotto pubblicizzato. Il
progresso. Sul treno ci sono zombie in giubbotti caldi,
imbottiti come panini stantii, cappelli di lana calati fino
agli occhi socchiusi, scarpe pesanti come i loro cuori,
cuffie che sparano musica a palla dentro cervelli in
naftalina. Diretti verso mete grigie come i loro pensieri,
popolano i vagoni che sferragliano sinistri verso la
periferia della grande città, uomini e donne appesi agli
appositi sostegni come ubbidienti salami e formaggi
19
lasciati lì a invecchiare per diventare migliori ma, a
differenza di insaccati e latticini, gli uomini col tempo
difficilmente migliorano. Il ragazzo scende alla sua
fermata, San Leonardo, far west di Milano. La banchina è
vuota, la scala mobile non funziona da settimane. Quando
esce alla luce fioca del giorno ritrova il suo habitat
naturale, un cumulo di casermoni ben allineati, tutti uguali
in un dedalo di vie tutte uguali, dove vivono persone tutte
uguali; sorride amaramente al paesaggio un po’ sinistro
eppure così familiarmente accogliente. Cammina in
compagnia di una sorta di angoscia cupa dalla quale si
vorrebbe liberare e che invece è sempre lì a fargli da
fastidiosa scorta: come vorrebbe starsene da solo,
finalmente da solo senza dover fare i conti con quel peso
sul petto. Sale le scale del suo palazzo facendo i gradini
uno alla volta, evitando l’ascensore dalle pareti arancioni
che lo rende claustrofobico, fino a raggiungere il secondo
piano; estrae dalla tasca del giubbotto le chiavi, apre la
porta ed entra in casa. L’appartamento è silenzioso, sua
madre è andata a lavorare: fa i mestieri per quelle famiglie
che possono permettersi qualcuno che badi alle loro case
al posto loro. Entra nella piccola cucina e prende dal
vecchio frigorifero una birra in lattina, poi va in camera
20
sua; la sua cameretta arredata ancora come quando
aveva nove anni. Quei mobili di quell’arancione così
intenso non li ha mai sopportati, la libreria con le assi
piegate dal peso di libri polverosi, il poster di Patsy Kensit
quando era l’ottava meraviglia del mondo, un po’
scolorito; macchinine senza portiere, ammaccate, con
ruote storte, in diverse scale. Due foto sulla mensola
sopra il letto: una ritrae un bambino con un sorriso un po’
storto vestito da Zorro, l’altra ritrae lo stesso bimbo un
po’ più grande, seduto con sguardo fiero su una macchina
di quelle degli autoscontri. Quello stesso bimbo che ora si
è fatto uomo accende il vecchio giradischi, lo sfrigolio
della puntina sul vinile è una sensazione di benessere che
parte dall’attaccatura dei capelli sul collo e finisce in
fondo alla schiena; prende una sorsata di birra fredda
mentre la voce di Jim Morrison trascina le note di The end
con un misto di agonia dolorosa e di liberazione. Il
ragazzo si sfila il giubbotto nero e lo lancia sulla
poltroncina rossa, sotto la finestra. Si sdraia nel suo letto,
ancora sfatto dalla notte precedente, si sfila le scarpe da
ginnastica usando i due piedi come leva e le scaglia
lontano, poi chiude gli occhi.
21
Quando il vecchio arriva a casa lancia un saluto dall’uscio
che cade nel vuoto di un silenzio composto. Martina è
chiusa nella sua camera con un’amica: chiacchierano di
abiti, vacanze in posti inarrivabili e di quel figo che
incontrano ogni mattina all’ingresso della facoltà di
architettura. Edoardo è fuori chissà dove, in compagnia di
teenager pieni di ormoni impazziti e di brufoli a macchia
di leopardo sui loro corpi che portano ancora il cartello
work in progress. La moglie, Vittoria, è al lavoro,
responsabile di un’agenzia di assicurazioni in Corso
Magenta. Si dirige lentamente verso lo sgabuzzino,
trascinando i piedi. Toglie le scarpe e infila le pantofole.
Poi in camera da letto si sfila camicia e pantaloni per
indossare una più comoda tuta, neanche dovesse andare
a correre, e inizia un altro pomeriggio da passare in casa.
In sala, sul divano a tre posti color crema, il giornale della
settimana scorsa; lo prende e inizia a leggere le offerte di
lavoro, anzi, a rileggerle per l’ennesima volta: sembra che
a Milano, in Lombardia, in Italia, nel mondo, nessuno
abbia bisogno di un capo tecnico con esperienza
ventennale, di soli quarantanove anni.
Piega il giornale e finalmente si decide a metterlo nel
cesto della carta da buttare che è fuori sul balcone;
22
passando dalla cucina raccoglie un pezzo di pane dal
cestino di vimini sul tavolo e lo addenta senza voglia.
Quando torna a sedersi sul divano lo schermo grigio della
televisione spenta di fronte a lui assorbe ogni suo residuo
di forza, ogni stilla di energia lo abbandona all’improvviso
lasciandolo inerme come un cencio umido; chiude gli
occhi e si addormenta di un sonno pesante, senza sogni,
neutro come il detergente intimo di un neonato.
Il turno è appena finito: Achille è nello spogliatoio della
caserma, si toglie la divisa di ordinanza e infila felpa,
pantaloncini e scarpe da jogging. Il parco di Trenno si apre
proprio davanti alla caserma della polizia nella quale è di
stanza ormai da tre anni. Una grande comodità per lui, ci
ha sempre tenuto a tenersi in forma: corsa tre volte la
settimana intervallata da esercizi di body building in
palestra. Achille ha ventisei anni, viene dalla Calabria, una
manciata di case malandate arroccate sulle pendici della
Sila, dove i colpi di un kalashnikov hanno reso illeggibile il
nome sul cartello di benvenuto all’ingresso del paese. Ha
capelli scuri, fitti fitti e tagliati corti a spazzola, occhi scuri
espressivi come quelli di un bue, un fisico molto ben
definito grazie alle tante ore trascorse ad allenarsi. Ma
23
Achille ha un problema, un suo tallone, un grosso cruccio
che si porta dentro da quando era un adolescente: è
basso. Al concorso per entrare in polizia ha mentito e poi
ha pagato un medico avido e accondiscendente per
nascondere quel suo metro e sessantadue centimetri che
non gli avrebbe consentito di entrare a far parte del corpo
di pubblica sicurezza che tanto lo aveva sempre
affascinato. La palestra e la ricerca insistente di un fisico
perfetto sono un’amara medicina contro quei centimetri
che non sono mai arrivati a dargli le dimensioni di un
uomo come Dio comanda. Ma forse non è questo il vero
problema di Achille o, meglio, non quello principale.
Cresciuto con i miti dell’ispettore Callaghan e di Steven
Segal, ha come unico Dio le armi e la violenza. Nel recente
passato è già stato richiamato dai superiori per l'uso di
“metodi troppo energici” durante un paio di arresti di
extracomunitari: in un caso, si trattava di un tizio
senegalese che stava vendendo elefantini di legno
all’angolo di Piazza Leonardo da Vinci, attività oltre che
indubbiamente illecita, sicuramente grave e pericolosa
per la comunità. Per questo si era beccato un paio di
ceffoni e un bel calcio nel culo, oltre a perdere per
sequestro tutta la sua mercanzia; l’altro caso invece,
24
accaduto l’estate appena trascorsa, riguardava una
coppia mista, lei bianca, lui di colore, a spasso mano nella
mano dalle parti di Piazza De Angeli, intenti a gustarsi un
gelato. Per qualche motivo inspiegabile la scena di quei
due, così affettuosamente legati in un’intimità a lui
sconosciuta, aveva generato in Achille una sete di sangue
accecante: aveva lasciato sul posto il suo compagno di
pattuglia e aveva affiancato i due con le sue piccole
falcate veloci. Dopo aver chiesto i documenti all’uomo e
aver verificato la rispondenza di questi ai termini di legge,
era passato agli insulti, prima dando della “puttana che va
coi negri” alla ragazza e poi prendendosela col ragazzo,
che a suo dire sarebbe dovuto starsene “nel tuo paese di
merda a scopare le vacche negre come te”. A quel punto
il ragazzo, giovane brillante studente al terzo anno di
ingegneria al politecnico di Milano, aveva reagito con un
timido “si può sapere cosa le prende? È forse impazzito a
trattarci così?”. Questo era bastato per far scattare la
bestia in Achille che con due pugni ben assestati, uno alla
figura e uno in faccia, aveva steso il povero ragazzo. Per
fortuna il collega, accorso con un po’ di ritardo, era
riuscito a fermarlo prima che potesse andare a finire
peggio. Il procedimento interno, in seguito alla vicenda
25
incresciosa, aveva insabbiato l’accaduto affermando che il
giovane si era dapprima rifiutato di consegnare i
documenti richiesti e aveva poi offeso pesantemente il
pubblico ufficiale con frasi ingiuriose nei confronti della
madre e del corpo di polizia tutto. La ragazza era stata
ritenuta testimone non attendibile in quanto, oltre che
come parte in causa, era stata vittima di uno shock
traumatico che l’aveva resa a tutti gli effetti incapace di
intendere e di volere. Che gran cosa la giustizia italiana.
Achille corre, corre sotto una pioggerellina fine di quelle
che entrano nelle ossa e ci rimangono per ore anche dopo
che hai finito e sei a casa al caldo. Corre e pensa che
questa città sta diventando uno schifo, piena di neri, di
musulmani, di ebrei, di musi gialli, di froci, di stupratori, di
ladri, di assassini e di prepotenti. È arrabbiato Achille, una
rabbia che nasce da lontano, dalla sua infanzia poco
felice. Veniva tormentato dai suoi amici, che poi definirli
amici era quanto di più lontano dalla realtà: erano solo
suoi compagni di scuola, vicini di casa, nient’altro. Lo
avevano sempre preso in giro per la sua statura, si era
sempre sentito inferiore, diverso, solo. Così, quando
decidevano di giocare a guardie e ladri, a lui toccava
sempre l’odiosa parte della guardia. Lo sbirro infame. E a
26
poco a poco quel ruolo se lo era sentito addosso: come
guardia poteva dire e fare cose senza onore, con
cattiveria; quando prendeva i ladri, ragazzini come lui, ci si
accaniva con un furore bestiale, colpendoli e insultandoli
fino allo sfinimento. E questo lo faceva sentire bene,
migliore di tutti gli altri. Da lì a decidere di entrare in
polizia il passo era stato breve e in fondo in paese i suoi
“amici” se lo aspettavano: se giochi a fare l’infame è
perché dentro sei un infame.
Se solo potesse fare quello che vuole con qualcuno di
quelli che stanno avvelenando la sua vita, se solo lo
lasciassero dieci minuti in una stanza con uno
appartenente a quella feccia, lui sì che saprebbe cosa
fare. Lui sì che avrebbe la soluzione. Quando si ferma per
riprendere fiato e bere un sorso d’acqua dalla fontanella
in mezzo al parco, sente il cuore che batte all’impazzata
ma non per lo sforzo fisico, per quello è allenato: è
l’istinto alla violenza pura, convogliato in ogni sua fibra
dai pensieri, tutt’altro che puri, che lo hanno avvolto
come una placenta nell’ultima mezz’ora, da quando ha
iniziato a correre. È così eccitato che sente distintamente
il martellio delle pulsazioni a centosettanta battiti al
minuto. Un po’ di stretching, qualche flessione
27
appoggiato a una panchina di cemento e un centinaio di
addominali e l’allenamento quotidiano può considerarsi
concluso. Adesso una bella doccia calda in caserma e poi a
casa, solo, come sempre, nel suo monolocale in Via Carlo
Marx, a due passi dal commissariato. Una scatoletta di
tonno e due sottaceti quasi sicuramente scaduti, seduto
sul divano letto sfondato con la compagnia altrettanto
immancabile di un programma stupido quanto lui in
televisione. Il tutto nella sua unica grande stanza, zeppa
di armi da fuoco e non, tra poster di donne nude e un
mezzo busto di marmo di una ventina di centimetri del
Duce, in ricordo dei bei tempi andati, che per sua sfortuna
ha mancato di una cinquantina d’anni.
La giornata volge al termine, il buio fuori è assoluto, nel
cielo non c'è una stella a rinfrancare lo spirito, nessun
puntino luminoso al quale spedire un desiderio, una luce
che possa dare un’idea di un mondo vivo da un’altra
parte, lontano milioni di anni luce da lì.
Il giovane è ancora sdraiato nel suo letto, sulla testa delle
grosse cuffie si avvinghiano come artigli coprendogli le
orecchie. La musica che sta ascoltando ha un volume così
alto che si può benissimo sentire anche standogli solo
28
vicino. L’urlo acuto e aggressivo di Ian Gillan sulle note di
Child in Time invade la stanza, pervadendola con il suo
drammatico riff.
Gli occhi del giovane sono chiusi, il corpo immobile, i
pensieri fermi in uno stand‐by dal sapore metallico del
piombo di un proiettile vagante.
Il vecchio, seduto sul divano di fianco alla abat‐jour gialla
accesa, sta leggendo o per lo meno mantiene lo sguardo
fisso sul libro che tiene tra le mani. Il resto della stanza è
buio, la moglie è andata a letto, stanca per l’intensa
giornata di lavoro appena trascorsa. Beata lei. Perché sta
dormendo e perché ha lavorato: due cose così semplici,
istinti primari di ogni essere umano normale, che a lui non
riescono più ‐ pensa il vecchio con una smorfia di
sarcasmo sul volto stanco. I figli sono nelle loro camere,
dormono, ascoltano musica, guardano la televisione,
sono al telefono, giocano, si masturbano: lui non sa cosa
stiano facendo i suoi figli, non lo sa più da tanti anni.
Sfoglia svogliatamente le pagine ingiallite di “Il fu Mattia
Pascal”, invidiando Adriano Meis per la sua fortuna e la
per la scaltra prontezza nel cogliere le occasioni che gli si
29
sono presentate nella vita, inventandosele anche, se era il
caso. A volte basta solo allungare la mano, sfilarla dalla
tasca dell’apatia e stringere forte, con tutta la forza che si
ha dentro, la maniglia di un treno chiamato salvezza, che
spesso passa una volta sola e se lo perdi… l’hai perso per
sempre!
Achille, con un manubrio da dieci chili in mano, è giunto
alla terza e ultima serie di sollevamenti; ora gli sembra,
studiandosi il corpo completamente depilato, che le
braccia vadano bene e un sorriso soddisfatto si dipinge
sul suo volto. La definizione muscolare degli avambracci è
vicina alla perfezione, i bicipiti sembrano scolpiti nel
marmo. Come degno sottofondo a tanta virilità in
televisione gira un film porno, che scorre veloce con la
sua trama avvincente, ricca di colpi di scena e di dialoghi
brillanti. Certo che bionde con quelle tette e con quei culi
scolpiti, anche loro nel marmo, che però deve essere del
tipo pregiato, quello rosa di Carrara, non se ne vedono
tante in giro. Almeno nel suo di giro. Appoggia il peso a
terra, di fianco al divano, si alza di scatto, si mette il
giubbotto sopra la tuta ed esce di casa in tutta fretta. Ha
30
una voglia disperata, bestiale, di una donna. Via Novara è
lì a due passi, sicuramente troverà una puttana nera da
quattro soldi che lo renderà felice per una manciata di
minuti, degna conclusione della fine di una giornata come
tante altre di quelle già passate e di quelle a venire.
FINE ANTEPRIMA
CONTINUA...