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In quest’epoca le considerazioni fatte ancora valgono per il
cinema nella sua interezza, poiché il panorama non è ben
differenziato e gli scambi fra i vari ambienti geografici e sociali
sono fitti e continui, ma la guerra mondiale, come vedremo,
cambierà le cose, e renderà più evidenti quelle differenze che
in questo momento si presentano ancora come lievi scarti
strutturali tra il cinema europeo e quello americano.
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Il cinema in America, scontando le idiosincrasie di Edison, ha
resistito più a lungo sia allo spostamento della centralità sul
software, sia all’idea della visione collettiva, impastoiato in una
ottica di tipo commerciale che è all’origine sia del suo «ritardo
culturale» sia del suo exploit produttivo.
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Proprio il carattere ostinatamente commerciale del cinema
statunitense pone una diversità fondamentale che, più o meno
marcata, resiste fino ai giorni nostri. Il cinema europeo, meno
omogeneo ed economicamente scoordinato, sviluppa presto
infatti una forte tendenza a considerare l’aspetto artistico del
cinema, mentre quello americano, come una macchina ben
oliata, si concentra sulla scioltezza e sulla vendibilità del film.
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Già nel 1915, l’anno della Nascita di una nazione, la mentalità
più diffusa negli Stati Uniti riguardo al cinema viene sancita
dalla Corte Suprema con una decisione “storica”. In
quell’anno, infatti, la Mutual Film Corporation, ritenendo d’aver
subito un danno economico in seguito alla censura di alcuni
suoi film, porta in giudizio la Industrial Commission of Ohio.
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La Mutual si appella alla libertà di espressione, garantita dalla
Costituzione dell’Ohio così come dal Primo Emendamento; ma
la Corte decide all’unanimità che quel tipo di tutela non vale
per il cinema, in quanto non manifestazione del pensiero ma
semplice passatempo mosso da interessi economici: «un puro
e semplice affare economico […] da non considerare […] parte
della stampa nazionale, o come organo di opinione pubblica».
Chaplin e il Presidente della Mutual John Freuler sul set di The Cure (1917)
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“the exhibition of moving pictures”, scrive la Corte nella
sentenza, “is a business, pure and simple, originated and
conducted for profit (…) not to be regarded, nor intended to be
regarded by the Ohio Constitution, we think, as part of the
press of the country, or as organs of public opinion”.
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Arte e business
Ancora nel 2005, il critico inglese Barry
Norman afferma che «la differenza
essenziale è data dal fatto che il
cinema europeo, eccezion fatta di
quello britannico, ha la tendenza a
considerare il film come una vera e
propria opera d’arte. Gli americani
vedono il cinema come un business.
Ma si tratta di una differenza che sta
pian piano scomparendo.
http://www.cafebabel.it/articolo/il-critico-il-cinema-europeo-perde-colpi.html
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Paolo Taviani
«Mi viene in mente una pièce di Sam Shepard che ha come
protagonisti due fratelli americani. Uno dei fratelli dopo essere
andato al cinema dice all’altro: «Ho visto un film europeo: era
bellissimo». L’altro gli risponde: «Ne sono sicuro ma la
differenza tra noi americani e gli europei è che noi facciamo
cinema e loro dei film». Questa dialogo rispecchia la
situazione reale, perché in Europa si realizzano sicuramente
delle opere d’arte a cui registi americani come Martin
Scorsese, Francis Ford Coppola ed altri fanno riferimento, ma
sono da sempre gli americani a far cinema a tutto campo,
attraverso una vera e propria industria» (2003).
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Questa biforcazione fondamentale ne trascina con sé,
potenzialmente e poi nei fatti, molte altre, che riguardano gli
aspetti drammaturgici, l’uso delle tecniche, la definizione
dell’essenza del cinema e delle funzioni che deve assolvere.
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Su entrambe le sponde dell’Atlantico il cinema cerca una sua
dignitosa cifra stilistica e anche il favore del pubblico, ma il
cinema americano imbocca decisamente la via del racconto e
dell’identificazione nel personaggio - che sarà perfezionata e
codificata nel periodo della golden age, fra gli anni Venti e
Quaranta – mentre il cinema europeo non abbandona mai le
proprie ambizioni culturali e la strada della sperimentazione.
Fabula e Segno
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George Scheffauer, scrivendo
con entusiasmo di Caligari,
mesi prima dell’uscita del film
negli Usa, descrive il mondo
cinematografico americano di
quegli anni come un deserto
cosparso di «bambole
smorfiose coi denti sempre
ben in vista e occhi da gufo,
cavalieri spiegazzati e
marionette imbellettate».
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«Con Caligari lo spazio ha
ricevuto voce» scrive con lirismo
«l’artista si è insinuato in una
cruda fantasmagoria e ha
cominciato a creare».
«Cubism on the Screen», The New
York Times, 28 novembre 1920
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In The Undeclared War (1997) il produttore inglese David
Puttnam mette ancor meglio in evidenza questa linea di
frattura tra i due cinema: quello americano è fatto in sostanza
dai distributori, che decidono in base alla «presa» del film sul
pubblico, quello europeo è «un’industria di idee», che cercano
poi di sfondare tra il pubblico.
Denaro e idee
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Nell’impostazione americana il cinema è il perfetto medium
della coniugazione tra ideologia ed economia che è alla base
della penetrazione americana nel mondo. Lo scarso interesse
europeo per quest’efficacia ignora che attraverso il cinema e il
suo merchandising si veicolano mode e stili di vita che
impongono all’immaginario collettivo del resto del mondo valori
e costumi che incidono direttamente sui comportamenti sociali.
Denaro e idee
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Il cinema viene così ad assumere, sulla soglia dei suoi
vent’anni, una natura bivalente: da un lato l’esteriorità, lo
«spettacolo», che incanta, stupisce e trascina; dall’altra il
tentativo di penetrare l’interiorità dei sentimenti, di incatenare
lo sguardo all’emozione.
Doppio sguardo
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Spettacolo
Da allora - da quando è possibile realizzare film di grandi
proporzioni, lunghi due o tre ore, film che il pubblico assapora
come qualcosa di straordinario, impossibile da realizzare sul
palcoscenico teatrale - e per i decenni successivi, il cinema
hollywoodiano si svilupperà lungo il percorso della
spettacolarità, utilizzando tutti i mezzi tecnici di cui si può
disporre. Per almeno quaranta anni, e ancor oggi, la
produzione di Hollywood viene identificata come il cinema
spettacolare per antonomasia.
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Ma la stessa dimensione drammaturgica assume specificità
interne che risentono delle differenze culturali emergenti e le
rafforzano. I film europei conservano a lungo l’ispirazione e
l’impianto teatrale, spillando dal nascente montaggio più il
gusto per l’accostamento delle immagini che la velocità
dell’azione, usandolo in modo «introverso», alla luce della
pregnanza emotiva e ideologica. I film americani lo adoperano
in senso «estroverso» e pragmatico, per conferire a una storia
semplicità, dinamismo e chiarezza.
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Wim Wenders
Qual è la differenza tra i film americani e europei?
«I film europei tradizionalmente sono molto specifici, hanno
sempre un’ambientazione precisa, un certo linguaggio. I film
americani sono più generici, si rivolgono a un pubblico a cui
non importa il luogo in cui si svolge la scena. Penso sia un
bene che i bambini sappiano che i film possono anche essere
specifici, che possano parlare di cose reali e non soltanto di
luoghi immaginari» (2010).
http://www.europarl.europa.eu/news/it/news-room/content/20101025STO89950/html/
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Lo stato delle cose
Il cinema americano è un cinema «del fare», un cinema che
crea il tempo del racconto, che lo plasma a suo insindacabile
giudizio come se fosse un piccolo dio alle prese col suo
piccolo universo. Il cinema europeo, invece, è un cinema che
cerca non solo di raccontare la vita, ma di emularla, copiarla
trasferendone la temporalità su pellicola.
Stefano Bertuzzi su http://quadernidicinema.blogspot.it/2011/11/lo-stato-delle-cose.html
Samuel Fuller in Lo stato delle
cose (Wim Wenders, 1982)
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Europa e Stati Uniti
Anche il cinema europeo accoglie le novità e ne approfitta per
modernizzare il proprio linguaggio, abbandonando le
inquadrature fisse in favore di un montaggio drammatizzato e
dinamico, ma mantiene tempi più distesi e campi lunghi e
soprattutto la profondità di campo (cioè l’inquadratura che mette
a fuoco particolari anche molto lontani), facendone anzi un punto
di riferimento estetico, da cui conseguono tempi diversi,
inquadrature più lunghe e complesse, che danno allo spettatore il
tempo di soffermarsi a guardare i dettagli.
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Europa e Stati Uniti
Gli americani invece evitano sistematicamente la «profondità»
per non riempire l’inquadratura di dettagli che rallentino il
montaggio analitico e distraggano lo spettatore nel passaggio tra
le inquadrature. Fin dall’inizio perciò il cinema europeo è più
«lento», attento all’osservazione e alla contemplazione, mentre il
cinema americano è più portato all’azione veloce e brillante, con
inquadrature brevi, chiare e precise.
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Conformismo
Queste differenze si ripercuotono infine nell’immagine che di
se stesso il cinema proietta nella società. Negli Stati Uniti
l’idea che il loro contenuto drammatico fosse un semplice
veicolo commerciale per l’industria dello spettacolo mette i film
nelle mani del moralismo conformista e la fiducia nella loro
potenza, anche pedagogica, li espone al furore proibizionista,
obbligandoli all’autocensura e a un convenzionale perbenismo.
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Critica
In Europa, al contrario, la fiducia nelle capacità espressive dei
film, se toglie probabilmente qualcosa in termini di forza di
penetrazione economica, conferisce al lavoro energia morale e
dignità artistica che inducono a misurare costantemente i
prodotti sulla base dell’investimento ideologico, della quota di
anticonformismo, del contributo alla conoscenza e alla
riflessione.
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Sintesi
«La differenza tra cinema europeo e americano? Il cestino
della pausa pranzo» Jacqueline Bisset
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Codice Hays
La sentenza della Corte Suprema del 1915 legittima la
censura, affidandone peraltro la disciplina agli organismi locali.
Questa decisione scatena le associazioni dei benpensanti e il
panico dei grandi produttori, lasciando sempre aperta sullo
sfondo la possibilità di un futuro intervento federale.
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Codice Hays
Mentre le varie città iniziano a porre
divieti sulla pubblica esibizione di
film «immorali», tra i produttori
di Hollywood si sparge il timore che
porta la MPPDA (Motion Picture
Producers and Distributors
Association) a escogitare forme
sempre più raffinate di tutela della
propria immagine e di autocensura.
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Codice Hays
Gli anni Venti e Trenta del cinema americano risultano
pertanto contrassegnati da una spirale perversa che spinge
gli studios da un lato a «tagliare» il prodotto con dosi
consistenti di sesso e violenza per renderlo più vendibile e
dall’altro a morigerare i contenuti per evitare il danno
economico comportato dalla censura.
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Codice Hays Ne risulta un cinema generalmente
allegro, contiguo al clima di quegli
anni «ruggenti», che non vuole
scontentare nessuno ed è nemico
della noia quanto dei problemi
sociali; un cinema impegnato a
raccontare storie interessanti e
divertenti, perlopiù ricoperte da una
patina di ipocrisia moralistica, che
promette mirabilie e trasgressioni
ma alla fine dispensa soluzioni
rassicuranti e buoni consigli.
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Il male americano Da un saggio di una ventina di
pagine sull’identità e il ruolo
storico degli Stati Uniti,
consegnato nel 1975 da
Giorgio Locchi ad Alain de
Benoist per la pubblicazione
sulla rivista Nouvelle Ecole,
viene fuori una pubblicazione a
firma comune dal titolo Il male
americano (Libreria Editrice
Europa-Akropolis, 1978).
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A partire dal 1920 il cinema americano domina il mondo.
All'efficacia degli investimenti aggiunge una nuova tecnica: il
«pompaggio» dei talenti. Lo storico del cinema Charles Ford,
scrive a questo proposito: «Verso il 1923 i dirigenti americani
(del cinema) si posero l'obiettivo di “decapitare” letteralmente
l'industria cinematografica europea, divenuta pericolosa. La
nuova offensiva prendeva di mira particolarmente il cinema
tedesco, francese e svedese». A partire da allora, incomincia
l'esodo. Ernst Lubitsch, Paul Leni, Louis Gasnier, Friedrich
Wilhelm Murnau, Victor Sjöstrom, Benjamin Christensen,
Alexander Korda, Maurice Tourneur, Emile Chautard, etc.,
partono per gli Stati Uniti.
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Nel 1925, mentre la Motion Picture Association of America
«cartellizza» le attività dell'industria americana, i film americani
occupano il 90% del tempo di proiezione in Inghilterra, il 70% in
Francia, il 68% in Italia. Nel 1929 l’avvento del cinema parlato,
che esige budgets di produzione molto più importanti, favorisce
ancora di più Hollywood (la fine del cinema muto va di pari
passo con la crisi delle grandi cinematografie nazionali e
occorre aspettare il periodo 1935-1945 per vederle rinascere,
con il realismo poetico francese, il neorealismo italiano e il
neoromanticismo tedesco).
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All’indomani della guerra, il cinema europeo sopporta di nuovo
dure prove. Dal 1945 al 1957-58 (esordio della Nouvelle Vague,
primi segni di una seconda rinascita delle cinematografie
nazionali), il cinema è un’industria hollywoodiana a base di stars
e di starlets, di tycoons e di cinemactresses, di moneymakers,
di flesh-peddlers e di sex symbols, di hopefuls e di has-beens,
di moviemakers e di great lovers: tutta turba dorata, che va di
scandalo in scandalo; che fa e disfa le reputazioni, e che venera
di un culto assoluto tutto ciò che di essenziale non ha nulla.
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Se il cinema americano contiene tali
possibilità descrittive, se possiede sino a
un livello così alto il senso del montaggio
e dell’articolazione, della rapidità e
dell’ellissi, ciò deriva dal fatto che è un
cinema completamente behaviourista, un
cinema di sola esteriorità. Il primato che
accorda all’azione è dovuto a un implicito
rifiuto dell’interiorità. Il suo piglio nervoso
caratterizza un paese cui ripugna quella
lentezza, quella profondità che procede
la vera potenza.
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Gli artigiani del miraggio
hollywoodiano hanno sempre fatto
valere che non si proponevano
che di «raccontare una storia», di
mettere in scena uno «spettacolo».
Howard Hawks dichiara: «Tutto
quello che faccio è raccontare una
storia», come se le storie
riflettessero lo stato d’animo e la
concezione del mondo di coloro
che le scrivono (o che le
scelgono), come se gli spettacoli
non riconducessero a valori
ideologici o morali impliciti.
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Per via della sua esteriorità, che si ritiene esorcizzi il partito
preso e la soggettività, Hollywood pretende di essere obiettiva e
afferma di non filmare che delle «fette di esistenza». Ma questa
esistenza è completamente falsata dallo sguardo gettatole
sopra. Sulle orme di Cecil B. De Mille, l’uomo dei grandi
affreschi biblici e delle vasche da bagno incassate, il cinema
americano segue la diplomazia del dollaro e precetti della
scrittura.
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Nei film che produce, la vita non è resa nella sua forma reale,
fatta di sfumature e di contraddizioni tragiche, ma in una forma
semibiblica, in cui i personaggi sono tutti d'un pezzo (perché
corrispondono a degli assoluti) e in cui i racconti prendono un
andamento da parabola. Il cinema hollywoodiano appare dosi
come una «fabbrica di sogni», organizzato da produttori che
furono altrettanto despoti rigorosamente incolti (come attestano
ricordi di tutti gli attori di prima della guerra).
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Questo cinema ha anch’esso come scopo quello di rassicurare
lo spettatore, facendogli credere di vivere nel migliore dei mondi
possibili. Della realtà, non offre dunque che un’immagine dorata,
su cui si applicano gli antivalori dell’ideologia americana, e che
secerne l’idea che il mondo intero, ieri come oggi, sempre stato
governato dall’american way of life. È senza dubbio questo il
motivo per cui il cinema non è davvero adatto che a descrivere
l’universo americano: al di fuori di esso, non approda ad altro
che a «superproduzioni» in cui regna l’artificio, il sentimento
falsato, il lusso insipido e la cartapesta umana.
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Nel 1928 il regista francese (di nascita belga) Jacques Feyder
accetta un contratto con la Metro Goldwyn Mayer e si trasferisce
a Hollywood ma l’esperienza si rivela deludente e realizza un
solo film di rilievo, The kiss (1929; Il bacio), in cui dirige Greta
Garbo nel suo ultimo film muto. Nei suoi ricordi pubblicati nel
1946, ne lascia un’interessante testimonianza.
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Nello stesso periodo, gli anni dieci e venti del '900, si sviluppano le
avanguardie storiche: impressionismo, futurismo, surrealismo,
espressionismo, costruttivismo. I film di questo periodo caratterizzati
dall'assenza di una struttura produttiva forte, finanziati in maniera per lo più
indipendente, lodavano il potenziale sovversivo del film capace di miscelare
reale e onirico, di liberare ciò che resta represso, ovviamente in netto
disaccordo con il cinema hollywoodiano che era impostato in maniera
nettamente opposta, destinato ad uno spettatore debole che ha il solo
compito di assistere in maniera passiva.