Download - Deleuze e La Filosofia Costruttivista
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA
__________________________________________
DORA GIURDANELLA
GILLES DELEUZE
E LA FILOSOFIA COSTRUTTIVISTA
TESI DI LAUREA
Relatore: Chiar.mo Prof. Giancarlo Magnano San Lio
_____________________________________________
ANNO ACCADEMICO 2003-2004
INTRODUZIONE
Presentare G. Deleuze e le sue opere non è certo
cosa facile, sia perché la sua proposta filosofica si
dispiega su un versante di radicalità e di novità, sia
per la notevole mole di problematiche sulle quali ha
investigato il suo lavoro di maître à penser.
Problematiche di diversa natura che si intersecano, a
volte, in una stessa opera; oppure si può riscontrare
che ogni sua trattazione è attraversata da alcuni
concetti chiave, ma con una forma differente nel
momento in cui entrano a far parte di un altro regime
di segni. Di conseguenza, si è ritenuto opportuno
individuare alcune tappe del suo percorso
7
intellettuale che, peraltro, scandiscono alcuni
momenti della sua biografia.
A parte il primo capitolo, nel quale viene descritta la
sua vita dedicata quasi interamente
all’insegnamento, l’articolazione della tesi consiste
di altri cinque capitoli, corrispondenti ad altrettanti
“nodi” di fondamentale importanza dell’opera
deleuziana. Il secondo capitolo tratta il confronto del
filosofo con alcuni autori della storia della filosofia,
che preparano e perfezionano le basi del suo
dispositivo teorico. Il terzo fa ancora parte della
storia della filosofia, ma in esso le tematiche
vengono affrontate autonomamente e preludono già
alla genesi di una originale creazione concettuale,
che assumerà la forma più compiuta nelle sue opere
successive.
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Nel quarto e nel quinto capitolo è il momento del
confronto del suo impianto teorico con altri campi
del sapere e con l’arte. Infine, il sesto evidenzia la
sua maturità con il ritorno a “fare filosofia”,
interrogandosi, anche, sul significato della filosofia
stessa, per mostrare come ogni domanda “sulla”
filosofia sia una domanda posta “alla” filosofia e
come quest’ultima non cessi di divenire negli atti
stessi che sembrano instaurarla1. Nelle conclusioni,
si è cercato di recitare o di “ripetere”, in sintesi, il
gesto filosofico di Deleuze.
1G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, trad it. a cura di A. de Lorenzis, Torino, Einaudi, 1996, (ed. originale: 1991), appendice di C. Arcuri, «Le ultime lezioni sono già state fatte, da sempre», pag. 235.
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CAPITOLO PRIMO
La formazione
1.1 Gli studi giovanili Gilles Louis Réné Deleuze nasce a Parigi il 18
gennaio 1925, da famiglia benestante il padre,
ingegnere, si occupa di attività imprenditoriali. Negli
anni che precedono lo scoppio del secondo conflitto
bellico, al pari di tanti altri nuclei familiari, la
sicurezza economica dei Deleuze si deteriora. Le
entrate si riducono e costringono ad un
ridimensionamento dello stile di vita che, tra le altre
cose, induce il padre a cambiare lavoro e l’intera
famiglia a trasferirsi nel modesto XVII
arrondissement parigino.
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Gilles Deleuze sfugge così alla tradizione delle
scuole cattoliche private e frequenta gli istituti
pubblici. Durante l’invasione tedesca, Deleuze e il
fratello sono trasferiti a Deuville, in Normandia,
luogo di villeggiatura frequentato dai genitori. Qui
Deleuze frequenta il liceo per un anno e conosce il
giovane professore Pierre Halbwachs, che lo
introduce al piacere della letteratura, ed in
particolare all’incontro con le opere di Charles
Baudelaire, Andrè Gide, Anatole France.
Il fratello più grande, arrestato per attività partigiana,
morì sul treno che lo portava ad Auschwitz.
Ritornato nella capitale, Deleuze continua il suo
percorso di studi al Liceo Carnot. È in questi anni
che Deleuze inizia a leggere testi filosofici.
Compiuti gli studi liceali, asseconda la sua
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inclinazione per la materie umanistiche scegliendo la
facoltà di filosofia.
1.2 La prima formazione filosofica
Deleuze si iscrive alla Sorbona nel 1944 (la sua
classe sarà esentata dal servizio di leva per la
Liberazione). I suoi professori sono Ferdinand
Alquié (studioso di Cartesio, Spinoza e Bergson),
Jean Hyppolite (specialista dell’opera di Hegel) e
Georges Canguilhelm. Fra i suoi compagni di studi
ci sono Michel Butor e Michel Tournier, destinati a
diventare, nella seconda metà del Novecento,
scrittori di fama nazionale.
Nel 1947 egli ottiene il Diplome d’Etudes
Supérieures, con una tesi su Hume che sarà
pubblicata, nel 1953, con il titolo Empirismo e
12
soggettività. Saggio sulla natura umana secondo
Hume2. In questi anni, dedicati allo studio di testi
classici per la preparazione del concorso per
l’insegnamento, Deleuze scopre Jean-Paul Sartre, il
filosofo contemporaneo che ammira di più.
Ottiene l’abilitazione in filosofia, nel 1948, e fino al
1957 insegna per quattro anni al liceo di Amiens, per
due al liceo di Orléans e per altri due al liceo Louis-
le-Grand a Parigi.
Nel 1956 si sposa con Fanny (Denise Paule)
Grandjouan, dalla quale ha due figli, Julien (1960) e
Emile (1964). Nel 1957 ottiene un posto come
assistente di Storia della filosofia alla Sorbona.
Partecipa all’opera di Storia della filosofia diretta da
François Châtelet. Tre anni dopo, in qualità di
2 G. Deleuze, Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume, trad. it. a cura di M. Cavazza, Napoli, Cronopio, 2000, (ed. originale: 1953).
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ricercatore, entra a far parte del CNRS (Centro
Nazionale della Ricerca Scientifica), dove resterà
fino al 1964.
Nel 1962 pubblica Nietzsche e la filosofia3, con cui
contribuisce alla riscoperta dei temi nietzscheani nel
dibattito filosofico. Sempre nel 1962, Deleuze
incontra Michel Foucault. È l’inizio di una grande
amicizia intellettuale. L’anno successivo pubblica
La filosofia critica di Kant4, dove affronta la dottrina
delle facoltà. Nel 1964 ottiene la prima cattedra
all’Università di Lione e pubblica Marcel Proust e i
segni5, la prima opera sulla letteratura, che contiene
numerosi spunti filosofici, che esplorerà nei testi
successivi. Da Proust a Bergson il passo è breve, e 3 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, trad. it. a cura di S. Tassinari, Firenze, Colportage, 1978, (ed. originale: 1962). 4 G. Deleuze, La filosofia critica di Kant, trad. it. a cura di M. Cavazza, Torino, Cappelli, 1979, (ed. originale: 1963). 5 G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, trad. it. a cura di C. Lusignoli, Torino, Einaudi, 1967, (ed. originale: 1964).
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l’anno dopo Deleuze ne affronta le molteplici
implicazioni nell’opera Il Bergsonismo6.
Nel 1967 pubblica uno studio sull’opera di Sacher-
Masoch, Presentazione di Sacher-Masoch7, in cui
anticipa la critica dell’analisi psicoanalitica che
svilupperà in modo più completo negli anni
successivi. Nel 1968 discute e pubblica la tesi di
dottorato Differenza e ripetizione8, sviluppata sotto
la guida di Maurice de Gandillac, nella quale pone il
problema della differenza, sganciandolo dalla sua
tradizionale relazione con l’identità e la negazione.
L’anno successivo esce Logica del senso9, un libro
in cui Deleuze affronta la teoria del senso e il suo
6 G. Deleuze, Il bergsonismo, trad. it. a cura di F. Sossi, Milano, Feltrinelli, 1983, (ed. originale: 1966). 7G. Deleuze, Presentazione di Sacher-Masoch, trad. it. a cura di M. De Stefanis, Milano, Bompiani, 1978, (ed. originale: 1967). 8 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, trad. it. a cura di G. Guglielmi, Bologna, Il Mulino, 1972, (ed. originale: 1968). 9 G. Deleuze, Logica del senso, trad. it. a cura di M. De Stefanis, Milano, Feltinelli, 1979, (ed. originale:1969).
15
legame con il non-senso attraverso un inconsueto
accostamento tra Lewis Carroll e gli Stoici.
1.3 L’esperienza socio-politica
Nel 1969 si trasferisce al Dipartimento di filosofia
dell’Università di Parigi VIII – Vincennes, a fianco
del suo amico Michel Foucault. Nello stesso anno
avviene l’incontro con Félix Guattari, psicanalista,
allievo di Lacan, impegnato nell’esperienza della
clinica di La Borde. Insieme scriveranno numerosi
testi. È anche l’anno di un’intensa attività politica,
nonostante i gravi problemi polmonari che lo
costringeranno a una delicata operazione. Deleuze
aderisce al Gauche Prolétarienne, al cui interno
conosce vari esponenti maoisti, prende
pubblicamente posizione per la causa palestinese,
16
entra in contatto con i movimenti politici della
sinistra italiana, in particolare a Milano, dove
incontra anche alcuni esponenti dell’anti-psichiatria.
L’attività militante confluirà nella elaborazione di
una teoria nuova, quella del desiderio inteso come
forza direttamente sociale e storica. Insieme a
Guattari, Deleuze imposterà questo discorso del
desiderio, affrancato dal bisogno e inteso
unicamente come produzione, ne L’Anti-Edipo10.
Pubblicato nel 1972 il volume provoca un acceso
dibattito culturale, dovuto alla critica radicale nei
confronti della pratica psicanalitica. Riferimento
costante e implicito de L’Anti-Edipo è il pensiero di
Spinoza, cui Deleuze ha dedicato un testo pubblicato
10 G. Deleuze e F. Guattari L’Anti-Edipo, trad. it. a cura di A. Fontana, Torino, Einaudi, 1975, (ed. originale: 1972).
17
nel 1970, Spinoza. Filosofia pratica11. In esso
Deleuze si concentra soprattutto sulla teoria degli
affetti delineata nell’Ethica, mettendone in risalto la
scomparsa del soggetto trascendente rispetto alle
passioni che ne scuotono il corpo e i pensieri.
Nel 1975 Deleuze e Guattari pubblicano un altro
libro, questa volta dedicato alla creazione dal punto
di vista linguistico e letterario, intitolato Kafka. Per
una letteratura minore12.
1.4 Le opere della maturità
L’Anti-Edipo viene pubblicato come primo volume
di un’opera che avrà come contesto il secondo titolo
Capitalismo e schizofrenia. Ma il secondo volume
11 G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, trad. it. a cura di M. Senaldi, Milano, Guerini e Associati, 1999, (ed. originale: 1970). 12 G. Deleuze e F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. a cura di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1975, (ed. originale 1975).
18
uscirà solo dieci anni più tardi, nel 1982, con il titolo
Millepiani13, nel quale gli autori mettono in gioco il
molteplice puro in una logica del divenire, senza
dilungarsi in premesse, giustificazioni, motivazioni o
discorsi sul metodo.
Nel 1981, in occasione della personale del Francis
Bacon a Parigi, la casa editrice che si occupa del
catalogo completo delle sue opere commissiona a
Deleuze una breve Introduzione. Il testo, pubblicato
con il titolo Francis Bacon. Logique de la
sensation14, è, in realtà, un denso trattato
sull’estetica baconiana nonché su tematiche inerenti
all’intera storia della pittura. Subito dopo Deleuze
affronta il tema dell’immagine dal punto di vista
13 G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani, trad. it. a cura di G. Passeroni, Roma, Castelvecchi, 1997, (ed. originale: 1982). 14 G. Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation Vol. I (texte) – Vol. II (peintures), Paris, Editions de la Différence, 1984.
19
cinematografico, in due ricchi volumi in cui l’analisi
rigorosa delle riprese si mescola con la concezione
bergsoniana del movimento e del tempo. Il primo
volume, Cinema 1 – L’immagine-movimento15, sarà
pubblicato nel 1983, mentre il secondo, Cinema 2 –
L’immagine-tempo16, due anni dopo.
Nel 1987 Deleuze lascia l’insegnamento per motivi
di salute, l’anno dopo pubblica La piega. Leibniz e il
Barocco17, in cui delinea una concezione della
materia e della percezione attraverso il modello
estetico della piega.
Nel 1991 pubblica l’ultimo libro scritto con Fèlix
Guattari, Che cos’è la filosofia?18, interessante
15 G. Deleuze, Cinema 1 – L’innagine-movimento, trad. it. a cura di J. P. Manganaro, Milano, Ubulibri, 1984, (ed. originale: 1983). 16 G. Deleuze, Cinema 2 – L’immagine-tempo, trad. it. a cura di L. Rampello, Milano, Ubulibri, 1989, (ed. originale: 1985). 17 G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, trad. it. a cura di Torino, Einaudi, 1992, (ed. originale: 1987). 18 G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, trad. it. a cura di A. De Lorenzis, Torino, Einaudi, 1996, (ed. originale: 1991).
20
trattato sul fare filosofia, intesa come attività di
creazione dei concetti. Fèlix Guattari morirà l’anno
successivo. Nelle ultime interviste Deleuze confida
di voler scrivere su Il Capitale di Marx, ma la sua
condizione di salute peggiora gravemente. Muore la
notte del 4 novembre 1995, lanciandosi dalla finestra
del suo appartamento, nel XVII arrondissemet.
21
CAPITOLO SECONDO
Deleuze e la storia della filosofia
2.1 Un nuovo empirismo
Si definisce generalmente l’empirismo come una
dottrina secondo la quale l’intellegibile scaturisce
dal sensibile, tutto ciò che appartiene all’intelletto
deriva dai sensi. Ma questo, afferma Deleuze, è il
punto di vista di coloro i quali si limitano a cercare
nella storia della filosofia dei principi primi astratti.
C’è da dire che alcuni filosofi vi si lasciano
volentieri conquistare e si mettono così a discutere
attorno a ciò che dovrebbe costituirsi come principio
primario (l’essere, l’io, il sensibile?...)19. E, quel che
19 G. Deleuze e C. Parnet, Conversazioni, trad. it. a cura di G. Comolli, Milano, Feltrinelli, 1980, pag. 64 (ed. originale: 1977).
22
peggio, altri ancora ambiscono a preservare
un’immagine del pensiero che fanno passare per
filosofia, agenti del potere della filosofia che
giocano un ruolo repressivo nel pensiero; ciò è
dovuto ad un antico rapporto tra filosofia e politica
dominante (Stato), ad un conformismo dell’esercizio
del pensiero ai fini del potere reale ed alle esigenze
dell’ordine stabilito20.
Qualsiasi storia della filosofia ha il suo capitolo
sull’empirismo: Locke e Berkeley vi trovano spazio,
ma c’è in Hume, secondo Deleuze qualcosa di molto
singolare, che richiede un posto d’osservazione
specifico. Deleuze rivaluta le tesi dell’empirismo a
partire da un suo studio, appunto, su Hume –
20 Ibidem, pag. 18.
23
Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura
umana secondo Hume21.
L’empirismo di Hume, afferma Deleuze, non pone
come essenziale il problema dell’origine della
mente, ma quello di una costituzione del soggetto. Il
suo problema fondamentale è spiegare in che modo
una collezione di idee diventa sistema, o, più
esattamente, in che modo la mente diviene un
soggetto, l’immaginazione una facoltà? L’organismo
e i sensi non posseggono immediatamente, da soli, i
caratteri di una natura umana o di un soggetto:
dovranno perciò riceverli dall’esterno. Hume
afferma continuamente l’identità della mente,
dell’immaginazione e dell’idea. La mente non è
natura e non ha natura. Essa è identica all’idea della
21 G.Deleuze, Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume, trad. it. a cura di M. Cavazza, Napoli, Cronopio, 2000, (ed. originale: 1953).
24
mente. L’idea è il dato in quanto dato, è
l’esperienza. La mente è data. È una collezione di
idee, non un sistema22.
Il Trattato sulla natura umana di Hume mostra che i
due modi in cui la mente è affetta sono
essenzialmente il passionale e il sociale, che si
implicano a vicenda, assicurando l’unità del soggetto
di una scienza autentica; ovvero, il soggetto
empirico è costituito nella mente per effetto di tutti i
“principi” congiunti. Il fatto è, dice Deleuze, che le
cose cominciano a muoversi e ad animarsi solo a
livello del secondo, terzo o quarto principio, e a
questo punto non sono neanche principi23.
Comunque, Hume concepisce due specie di principi:
da un lato quelli di associazione, dall’altro quelli
22 Ibidem, pag. 13. 23 G. Deleuze e C. Parnet, Conversazioni, op. cit., pag. 65.
25
della passione. Questi ultimi, sotto certi riguardi,
potranno presentarsi sotto forma di un principio di
utilità. Il soggetto è l’istanza che, sotto l’effetto di un
principio di utilità, persegue uno scopo,
un’intenzione, organizza mezzi in vista di un fine e,
sotto l’effetto dei principi di associazione, stabilisce
relazioni tra idee. La collezione di idee diventa un
sistema quando queste sono organizzate, collegate24.
Deleuze sottolinea il fatto che la questione più
importante sollevata dall’Empirismo è quella delle
relazioni: «Le relazioni sono esterne ai loro
termini»25. Questo vuol dire che le idee non rendono
conto della natura delle operazioni che si fanno su di
esse, in particolare delle relazioni che si stabiliscono
tra loro. I principi di associazione sono solo la
24 G. Deleuze, Empirismo e soggettività, op. cit., pag. 125. 25 G. Deleuze e C. Parnet. Conversazioni, op. cit., pag. 65.
26
condizione necessaria. L’associazione delle idee non
spiega perché è evocata questa piuttosto che quella.
Le relazioni trovano la loro direzione, il loro senso
nella passione; l’associazione presuppone progetti,
intenzioni, occasioni, tutta una vita pratica,
un’affettività. Tra l’associazione e la passione c’è il
medesimo rapporto che vi è tra il possibile e il reale,
una volta stabilito che il reale precede il possibile.
L’associazione dà al soggetto una struttura possibile,
solo la passione gli dà un essere, un’esistenza. La
relazione orientata dalla passione può essere definita
come la circostanza particolare per cui giudichiamo
opportuno confrontare due idee, perfino quando
queste sono unite arbitrariamente nell’immagi-
nazione. Solo questa circostanza dà alla relazione la
sua ragione sufficiente, cosicché un insieme di
27
circostanze singolarizza sempre un soggetto, poiché
rappresenta uno stato delle sue passioni e dei suoi
bisogni, una ripartizione dei suoi interessi, una
distribuzione delle sue credenze26. Se la relazione
non si separa dalle circostanze, se il soggetto non
può separarsi da un contenuto singolare che gli è
strettamente essenziale, è per il fatto che, nella sua
essenza, la soggettività è pratica. Che non ci sia e
non possa esserci soggettività teorica diventa
proposizione fondamentale dell’empirismo.
Questo primo approccio di Deleuze all’empirismo di
Hume costituisce un’anticipazione di quello che sarà
lo sviluppo successivo della sua architettura
concettuale. Invero, l’empirismo di Deleuze non è
solamente un rifiuto del trascendentale, ma assume
26 G. Deleuze, Empirismo e soggettività, op. cit., pagg. 131-132.
28
anche un aspetto attivo: “L’empirismo non è affatto
una reazione contro i concetti, né un semplice
appello all’esperienza vissuta. Esso instaura al
contrario la più folle creazione di concetti che mai si
sia vista o intesa”27. Questa tesi sulla filosofia come
creazione empiristica di concetti sarà ripresa in uno
dei suoi ultimi testi: Che cos’è la filosofia?28, ma
viene sviluppata anche attraverso lo studio di altri
filosofi ai quali Deleuze attribuisce questo
particolare punto di vista empiristico, in particolare
Spinoza e Nietzsche. Un nuovo empirismo viene
realizzato da Deleuze mediante la “costruzione” di
altri concetti fondamentali che attraversano tutte le
27 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, trad. it. a cura di G. Guglielmi, Bologna, Il Mulino, 1972, (ed. originale 1968). 28 G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia, trad. it. a cura di A. De Lorenzis, Torino, Einaudi, 1996, (ed. originale 1991).
29
sue opere. I più importanti sono quello di
“immanenza” e quello di “ecceità”.
Una prima configurazione del concetto di
immanenza, di chiara ispirazione spinoziana, è
contraddistinta da un significato ontologico: c’è
solamente una sostanza, e perciò tutto ciò che esiste
deve essere considerato sullo stesso piano, sullo
stesso livello e deve essere analizzato dal punto di
vista delle relazioni, piuttosto che da quello della sua
essenza. L’immanenza consiste, appunto, di un
campo o piano dove si rilevano solo rapporti di forze
o di movimenti intensivi. Deleuze definisce, nelle
opere della maturità, questo “piano d’immanenza”
come il terreno su cui un filosofo deve costruire i
suoi concetti; anche se, bisogna precisare, questo
30
piano non è gia dato così quanto i concetti, ma
entrambi debbono essere concepiti.
Deleuze riporta, a proposito, una frase di Nietzsche:
«I filosofi non devono limitarsi a ricevere i concetti,
a purificarli e a rischiararli, ma devono cominciare
col farli, col crearli, col porli, e cercare di
inculcarli»29.
Il concetto di “ecceità” si contrappone ugualmente al
trascendentale, liberandosi, oltretutto, del dualismo
soggetto – oggetto. Un oggetto, un tavolo per
esempio, invece che essere determinato dalla sua
essenza o idea (Platone), o riferito ad una categoria
trascendentale (Kant), deve considerarsi come una
composizione di forze che lo costituiscono e lo
superano (Nietzsche). Il tavolo non ha un per-sé, ma
29 Ibidem, pag. XIII.
31
ha una esistenza in un campo di relazioni che va
oltre il suo significato o controllo. Così, il tavolo
esiste nella cucina di una casa di una famiglia che è
parte di una società capitalistica. Ovvero, il tavolo è
usato per mangiare, è collegato al corpo umano, ad
un articolo commestibile, ecc. Lo stesso può dirsi
del processo di soggettivazione: esso è
immediatamente storico e sociale, afferma Deleuze,
riprendendo le tesi del suo amico Foucault, è
imprescindibile dalle condizioni determinate dai
sistemi di potere e di sapere: “La soggettivazione
non ha niente a che vedere con la «persona»: è
un’individuazione, particolare o collettiva che
caratterizza un avvenimento (un’ora del giorno, un
fiume, un vento, una vita…). È un modo intensivo e
non un soggetto personale. È una dimensione
32
specifica senza la quale non si potrebbe né superare
il sapere né resistere al potere”30.
La soggettività, secondo Deleuze, si manifesta come
un effetto, un evento eccedente, un vapore, una
nebbia che si solleva dal terreno o dal campo (di
battaglia) esistenziale: “Le ecceità sono soltanto dei
gradi di potenza che si compongono, ai quali
corrispondono un potere di impressionare e di
venire impressionati, delle affezioni attive o passive,
delle intensità”31. Insomma, l’empirismo radicale di
Deleuze consiste nel considerare il tutto dispiegato
secondo un piano d’immanenza nel quale non si
danno che eventi o ecceità, confacente sempre ad un
mondo, ad un popolo che si attualizza e si esprime in
una soggettività non individuale. Tale empirismo, 30 G. Deleuze, Pourparlers, Paris, Édition de Minuti, 1990 - Intervista a G. Deleuze su M. Foucault di D. Eribon per Le Nouvel Observatour, pag. 135 (trad. mia). 31 G. Deleuze e C. Parnet, Conversazioni, op. cit., pag. 107.
33
tratta il concetto come la possibilità dell’incontro tra
l’essere e il mondo, non riconducibile più a un
soggetto trascendente: “La sua forza comincia nel
momento in cui definisce il soggetto: un habitus,
un’abitudine, nient’altro che un’abitudine in un
campo d’immanenza, l’abitudine di dire Io…”32.
2.2 Critica ed etica
Nei suoi primi lavori inerenti la storia della filosofia,
Deleuze esprime un aspetto principalmente critico,
conseguenza del fatto, forse, di essersi molto
occupato di filosofi come Kant e Nietzsche, che per
motivi diversi hanno fatto della critica un loro punto
di forza.
32 G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, op. cit., pag. 38.
34
Deleuze ha dedicato a Kant un’opera, La filosofia
critica di Kant33, di notevole interesse e di estrema
chiarezza per il modo in cui presenta le tre Critiche.
In un intervista Deleuze dichiara: «Il mio libro su
Kant è diverso; mi piace, lo feci come un libro
ricordando un amico, che tenta di mostrare come
lavora il suo sistema, i suoi ingranaggi – il tribunale
della Ragione, gli esercizi legittimi delle facoltà»34.
Nell’approccio di Deleuze alle critiche di Kant, ci
sono comunque elementi di novità che riflettono i
suoi interessi intellettuali – due in particolare. Il
primo è il rifiuto di ogni enfasi della
trascendentalità, in favore di un generalizzato
pragmatismo della ragione. Mentre egli stesso
localizza in Kant lo sviluppo del concetto 33 G. Deleuze, La filosofia critica di Kant, trad. it. a cura di Marta Cavazza, Cappelli, Bologna, 1979, (ed. originale: 1963). 34 G. Deleuze, Pourparlers, op. cit., pagg. 14-15 (trad. mia).
35
trascendentale in tutta la sua moderna rilevanza,
sostiene che, anche come facoltà trascendentali,
ragione, intelletto e immaginazione determinano la
sintesi di rappresentazione (conoscenza, desiderio,
sentimento di piacere e dispiacere) solamente in
maniera immanente, per arrivare ai propri fini. Il
secondo elemento distintivo è la convinzione della
importanza centrale della terza Critica, ossia La
Critica del giudizio35. Deleuze argomenta non
soltanto che ci sono conflitti tra l’attività delle
facoltà, e così tra le prime due Critiche, ma anche
che la terza Critica risolve questo problema
proponendo la natura di un accordo libero tra le
facoltà più profondo dei loro conflitti. Il risultato
dell’operazione deleuziana consiste, in definitiva, 35 Questa tesi di Deleuze è opposta a quella di molti studiosi di Kant, che considerano la terza Critica un’opera meno valida delle altre due, come un risultato dell’età avanzata di Kant e delle sue ormai decadenti abilità mentali.
36
nella messa in movimento dell’articolazione
architettonica delle tre Critiche al fine di intendere il
divenire-filosofia del criticismo nella sua
costituzione come metodo trascendentale. Si
potrebbe sintetizzare la procedura deleuziana intorno
a Kant con la formula di “empirismo
trascendentale”36. La peculiare posizione della
Critica del Giudizio permette, inoltre, di intendere
una nuova teoria della finalità, la cui genesi esige
l’accordo tra facoltà, che si produce nel giudizio
riflettente, e la sua determinazione nell’attività
pratica. Ciò dimostra – secondo Deleuze – che Kant
ha trovato la via di una subordinazione armonica
dell’oggetto al soggetto finito, individuando un
fondamento umano finale della stessa dimensione
36 G. Polizzi, Deleuze e la “tradizione” filosofica, in AA. VV., Il secolo deleuziano, Milano, Ed. Mimesis, 1996, pag. 244.
37
teologica. Questo dà alla terza Critica, sostiene
ancora Deleuze, una potenza creativa ed affermativa.
La stessa considerazione va fatta sulla filosofia
critica di Nietzsche: essa non va assolutamente
separata dall’elemento essenziale dell’affermazione.
La grandezza di Nietzsche, secondo Deleuze, sta
nell’aver saputo individuare le forze reattive (il
risentimento e la cattiva coscienza) che hanno
soggiogato e si sono impadronite dell’istinto di
conoscenza o del pensiero, ma soprattutto, nell’aver
operato quella che lui chiamava “trasvalutazione”:
non un cambiamento di valori, bensì un
cambiamento nell’elemento da cui deriva il valore
dei valori. La stima al posto della svalutazione,
38
l’affermazione come volontà di potenza, la volontà
come volontà affermativa37.
Nel suo studio Nietzsche e la filosofia, Deleuze
argomenta sull’ontologia nietzscheana, sul suo
monismo della forza, intesa, però, come pluralità.
Questa forza è solamente forza di affermazione, dal
momento in cui esprime solamente se stessa e tutta
la sua pienezza; ovvero, la forza dice “si” a se stessa.
Il “si” di Nietzsche si oppone al “no” della dialettica.
Nel suo rapporto con un’altra, la forza si fa obbedire,
non la nega, bensì afferma la sua differenza e ne
gioisce. All’elemento speculativo della negazione o
della opposizione, Nietzsche sostituisce quello
pratico della differenza. Il rapporto tra forze, sotto
questo aspetto, viene chiamato volontà (di potenza),
37 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, trad. it. a cura di S. Tassinari, Firenze, Colportage, 1978, pag. 238 (ed. originale: 1962).
39
che è l’elemento differenziale della forza: “La
volontà di potenza è dunque l’elemento dal quale
derivano sia la differenza di quantità di forze che
siano tra loro in rapporto, sia la qualità che, in
questo rapporto, è propria a ciascuna forza”38. Il
carattere plastico del principio della volontà di
potenza risiede nel suo essere interno a ciò che esso
condiziona, alle forze stesse, nella sua inseparabilità
dalle singole forze determinate che, però, implica un
irriducibile elemento differenziale. Ecco, quindi,
ancora un “empirismo trascendentale” che rende
conto – come in Hume – di una ontologia della
differenza39. Deleuze, leggendo Nietzsche, parte da
questo punto e ne spiega l’intera tipologia critica
38 Ibidem, pag. 84. 39 G. Polizzi, Deleuze e la “tradizione”filosofica, op. cit., pag. 247.
40
(forze reattive, risentimento, cattiva coscienza) su
questa base.
Per Nietzsche l’unico principio possibile, per una
critica totale, è il “prospettivismo”: non c’è fatto o
fenomeno morale, bensì un’interpretazione morale
dei fenomeni; non esistono conoscenze illusorie, ma
la conoscenza stessa è un’illusione, un errore, peggio
ancora, una falsificazione. Soltanto la volontà di
potenza come principio genetico e genealogico,
come principio legislativo, è in grado di realizzare la
critica interna. Essa soltanto rende possibile una
trasmutazione. Nella critica non si tratta di
giustificare, ma di sentire diversamente: un’altra
sensibilità.
Deleuze dimostra il limite in cui Nietzsche rigetta
l’immagine tradizionale o dogmatica del pensiero, la
41
quale confida su un’armonia naturale tra
intellettuale, verità e attività di pensiero. Il pensiero
non è naturalmente correlato alla verità di un tutto,
ma, piuttosto, è un atto creativo, un atto di affezione
di una forza su altre forze. Anche questa lettura che
Deleuze fa di Nietzsche svela, oltre alla sua
caratterizzazione empirica, un’attestazione
costruttivistica del pensiero: vale a dire
l’affermazione di un pensiero come creatività.
Tale affermazione, per Deleuze, assume valore
massimo se utilizzata a proposito delle opere di
Spinoza. Spinoza è “il più filosofo di tutti i
filosofi…la cui Etica è il primo libro sui concetti”40.
La grandezza di Spinoza, viene precisamente dalla
creazione di un regime intero di nuovi concetti che
40 G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, op. cit., pag. 49.
42
argomentano intorno al rapporto tra le dimensioni
ontologica, epistemologica e antropologica,
coniugando l’univocità dell’essere, quale è espressa
nella teoria della sostanza, con la genesi del senso
nella espressione dell’idea e con la gioia pratica
nell’espressione delle passioni41. In breve, come
recita il titolo di uno dei libri di Deleuze, Spinoza.
Filosofia pratica42, l’Etica si capisce solamente
quando si è visto che è allo stesso tempo teorica e
pratica. Le grandi teorie dell’Etica - unicità della
sostanza, unicità degli attributi, immanenza,
universale necessità, parallelismo, ecc. - non sono
separabili dalle tre grandi tesi pratiche sulla
coscienza, i valori e le passioni tristi. Sotto certi
aspetti, sarebbe anche corretto dire che Deleuze 41 G. Polizzi, Deleuze e la “tradizione”filosofica, op. cit., pag. 250. 42 G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, trad. it. a cura di M. Senaldi, Milano, Guarini e Associati, 1999, (ed. originale:1970).
43
legge Spinoza e Nietzsche uno attraverso l’altro,
accentuando la continuità del loro pensiero. Ci sono,
tra Nietzsche e Spinoza, due fondamentali punti
critici in comune. Il primo è la critica della
coscienza. Spinoza sostiene che la coscienza
presume solamente le cause dopo che degli effetti
sono stati percepiti dal nostro corpo. La coscienza
rovescia l’ordine delle cose (“illusione delle cause
finali”). La coscienza fa dell’effetto di un corpo sul
nostro la causa finale dell’azione del corpo esterno;
e fa dell’idea di questo effetto la causa finale delle
azioni. Di conseguenza, essa prende se stessa per
causa primaria e invoca il suo potere sui corpi
(“illusione del libero arbitrio”). E quando la
coscienza non può immaginarsi causa primaria, né
organizzatrice dei fini, essa invoca Dio, dotato di
44
intelletto e di volontà operante secondo cause finali
o liberi decreti, per preparare un mondo a misura
della sua gloria e dei suoi castighi (“illusione
teologica”). Non è sufficiente dire che la coscienza
si fa delle illusioni: essa è inseparabile dalla triplice
illusione che la costituisce: illusione della finalità,
illusione della libertà, illusione teologica. Nietzsche
è strettamente spinozista, quando scrive: “La grande
attività principale è inconscia; la coscienza non
appare d’abitudine che laddove il tutto desidera
subordinarsi ad un tutto superiore; essa è
principalmente la coscienza di questo tutto
superiore, della realtà esteriore a me; la coscienza
nasce in rapporto all’essere di cui noi potremmo
esser funzione, essa è il mezzo di incorporarlo”43.
43 Ibidem, pag. 32.
45
Il secondo punto è la critica della moralità. L’Etica
di Spinoza, secondo Deleuze, costituisce un rifiuto
della distinzione bene/male trascendente in favore,
solamente, di un’opposizione funzionale buono/
cattivo. Bene e male, per Spinoza come per Lucrezio
e Nietzsche, sono illusioni da un punto di vista
moralistico che riducono il nostro potere d’agire e
incoraggiano l’esperienza delle passioni tristi.
L’Etica rovescia il sistema di giudizio.
All’opposizione dei valori (bene/male) si sostituisce
la differenza qualitativa dei modi di esistenza
(buono/cattivo). Buono è quando un corpo compone
direttamente il suo rapporto con il nostro, e, con tutta
o con parte della sua potenza, aumenta la nostra, per
esempio, un alimento. Cattivo, per noi, è quando un
corpo decompone il rapporto del nostro, benché esso
46
si componga con delle nostre parti, ma secondo
rapporti diversi da quelli che corrispondono alla
nostra essenza: così, per esempio, un veleno che
decompone il sangue. L’Etica, per Deleuze, è,
piuttosto, un incitamento a considerare gli incontri
tra corpi sulla base della loro relativa bontà. L’Etica
è una “etologia”, che, per uomini e animali, non
considera in ogni caso che il potere di essere affetti.
Ora, proprio dal punto di vista di una etologia
dell’uomo occorre distinguere, innanzitutto, due tipi
di affezione: le “azioni”, che si esplicano grazie alla
natura dell’individuo affetto e derivano dalla sua
assenza; le “passioni”, che si esplicano attraverso
altro e derivano dall’esterno. La capacità di subire
affezioni si presenta, dunque, come “potenza di
agire”, quando si ritiene che sia appagata da
47
affezioni attive, ma come “potenza di patire”,
laddove sia colmata da passioni. Così, le azioni non
hanno nessuna scala trascendentale per essere
misurate, ma solamente una stima relativa e
un’ottica prospettica nella variabilità di un
continuum buono/cattivo. Finalmente, Gilles
Deleuze vede in Spinoza il rifiuto delle passioni
tristi, mettendole in correlazione alla critica di
Nietzsche sul risentimento e la moralità dello
schiavo. In tutta la sua opera Spinoza non cessa di
denunciare tre generi di personaggi: l’uomo delle
passioni tristi; l’uomo che sfrutta queste passioni
tristi, che ha bisogno di esse per stabilire il suo
potere; l’uomo che si rattrista per la condizione
umana e per le passioni dell’uomo in generale. Lo
schiavo, il tiranno, il prete… trinità moralista.
48
L’Etica traccia il ritratto dell’“uomo del
risentimento”, per il quale ogni felicità è un’offesa e
che fa dell’impotenza e della miseria la sua unica
passione44. Vi è, dunque, una filosofia della “vita”,
in Spinoza: essa consiste nel denunciare tutto ciò che
ci separa dalla vita, tutti quei valori trascendenti
rovesciati contro la vita, legati alle condizioni e alle
illusioni della nostra coscienza.
L’etica spinoziana emerge da questo lavorio di
connessione concettuale come un positivo esercizio
affettivo in alternativa alla morale del diritto
costituito. Etica atea e culto della vita corroborano
una filosofia dell’immanenza radicale, che
oltrepassa le “passioni tristi” e trova gli spazi per
44 È un singolare angolo di approccio, quello di Deleuze, all’Etica di Spinoza: piuttosto che enfatizzare le strutture teoriche fondate nelle prime sezioni, egli enfatizza la seconda parte del libro (particolarmente la parte V) che consiste in argomenti dal punto di vista di modi individuali, evidenziando l’importanza della realtà individuale piuttosto che la forma, e del pratico piuttosto che il teoretico.
49
una potenza di vita gioiosa e concreta, per una “gaia
scienza” della “grande identità” Spinoza-
Nietzsche.45
2.3 Bergson e Leibniz: il concetto di virtuale
Il concetto di virtuale, introdotto da Deleuze nei suoi
studi sulle opere di H. Bergson, si muove nella
direzione opposta a quella del significato corrente. Il
suo uso più comune, affermatosi come oggetto di
dibattito teorico in questi ultimi trent’anni,
proveniente dagli studi sull’intelligenza artificiale e
sulla computer graphics, si identifica con un nuovo
tipo di copia o di simulazione del reale.
45 G. Polizzi, Deleuze e la “tradizione”filosofica, op. cit., pag. 253.
50
Ovviamente Deleuze non parlava di virtuale nel
senso di ciò che è costruito dal computer, ma
ricavava questo concetto all’interno di una serie di
tematiche bergsoniane: l’immagine-materia, la
durata, la memoria. Questo gli permise di riflettere
anche, come vedremo in seguito, sullo statuto
filosofico dell’immagine cinematografica46. Infatti,
il concetto di virtuale non è affrontato da Deleuze
rispetto alla sua potenzialità rappresentativa dello
spazio, ma a partire dalle nozioni di tempo e di
movimento. Egli ci dice che già all’inizio del
pensiero bergsoniano, nella tesi di dottorato, Essai
sur le donneés immediates de la coscience del 1889,
la durata è il sentimento del proprio cambiamento
46 Deleuze ha dedicato due volumi al cinema: Cinema 1. L’immagine-Movimento trad. it. a cura di J. P. Manganaro, Milano, Ubulibri, 1984, (ed. originale: 1983); Cinema 2. L’immagine-Tempo, trad. it. a cura di L. Rampello, Milano, 1989, (ed. originale: 1985).
51
radicale nel tempo e rappresenta la temporalità
autentica. La durata non è solo esperienza vissuta; è
anche esperienza allargata, separata: condizione
dell’esperienza. La durata ci presenta una
successione soltanto interna, priva di esteriorità47.
Essa è un dato immediato che la mediazione
dell’intelligenza tenderebbe a spazializzare. Secondo
Deleuze, l’immediatezza del dato “durata” è soltanto
virtuale: esso va riguadagnato, va ritagliato dal misto
che ci offre l’esperienza48, impedendo la traduzione
in spazio. La scomposizione del misto spazio-tempo
ci rivela due tipi di “molteplicità”49. Una è
rappresentata dallo spazio: è una molteplicità di
47 G. Deleuze, Il bergsonismo, trad. it. a cura di F. Sossi, Milano, Feltrinelli, 1983, pag. 31 (ed. originale: 1966). 48 Ciò che nell’esperienza si dà è sempre un misto di spazio e di durata. 49 G. Deleuze, Il bergsonismo. op. cit., pag. 33: “Il termine molteplicità non viene qui usato come un vago sostantivo corrispondente alla nota nozione filosofica di Molteplice in generale, Per Bergson non si tratta affatto di opporre il molteplice all’Uno, ma al contrario di distinguere due tipi di molteplicità”.
52
esteriorità, simultaneità, di differenziazioni
quantitative, di differenze di grado, discontinua e
attuale. L’altra si presenta nella durata pura; è una
molteplicità interna, di successione, di
discriminazioni qualitative o di differenze di natura,
continua e virtuale50. Questo iniziale dualismo di
Bergson viene sviluppato più compiutamente in
quello che Deleuze considera il suo capolavoro,
Matière e Mémoire. La materia non ha né virtualità,
né potenza nascosta, per cui possiamo identificarla
con l’“immagine”, con una molteplicità sempre
crescente di impressioni e/o idee che ne
costituiscono la rappresentazione oggettiva. La
memoria, invece, è il virtuale come sintesi di una
molteplicità di durate successive, che costituiscono il
50 Ibidem, pag. 32.
53
soggettivo. All’oggettività della materia, composta
spazialmente di differenze di grado, corrisponde la
soggettività della durata, le cui differenze di natura
contengono la possibilità di un passaggio aperto
verso una durata ontologica e testimoniano di una
virtualità “inseparabile dal movimento di
attualizzazione”51. Tra la materia e la memoria, tra il
presente e il passato, per Bergson, deve esserci una
differenza di natura, non di grado. Il passato non è il
presente che non c’è più, un grado inferiore del
presente. Il passato continua ad essere. Ma il
presente non è l’essere: è l’attuale, dunque l’utile e
l’attivo. Il passato, al contrario, è la virtualità
dell’inutile, dell’inattivo. Ma non per questo cessa di
essere. Anzi, dice Deleuze, esso in un certo senso si
51 Ibidem, pag. 36.
54
identifica con l’essere in sé, con un Tutto nella
durata: “C’è quindi un «passato in generale» che non
è il particolare passato di questo o quel presente, ma
che esiste come elemento ontologico, passato eterno
e di ogni tempo, condizione per il «passaggio» di
ogni presente particolare. Il passato in generale
rende possibili tutti i passati. Bergson dice che prima
di tutto noi ci ricollochiamo nel passato in generale:
in questo modo descrive il salto nell’ontologia.
Saltiamo realmente nell’essere, nell’essere in sé,
nell’essere in sé del passato”52.
La durata comprende in sé la totalità del passato,
essa è “coesistenza virtuale”. L’idea di una
coesistenza virtuale di tutti i livelli del passato viene
estesa all’intero universo: l’idea non comprende più
52 Ibidem, pagg. 50–51.
55
solo il mio rapporto con l’essere, ma il rapporto di
tutte le cose con l’essere: “Tutto si svolge come se
l’universo fosse una Memoria straordinaria”53.
La soggettivazione, tema caro a Deleuze, attraverso
Bergson, risulta, allora, come un processo di
attualizzazione del virtuale.
Deleuze riporta la famosa immagine del “cono
rovesciato”54 di Bergson per descrivere, nei suoi vari
aspetti, la dinamica del ricordo nel suo duplice
movimento di attualizzazione dall’immagine-ricordo
all’immagine-percezione e viceversa; vengono così a
distinguersi - senza contraddizione - un inconscio
psicologico, nel quale il ricordo si trova in via di
attualizzazione, e un inconscio ontologico, ricordo
53 G. Deleuze, Il bergsonismo, op. cit. pag., 71. 54 Secondo quest’immagine, il ricordo è rievocato attraverso un movimento di roto-traslazione: la memoria si porta nella sua totalità contratta verso il presente (traslazione), per poi presentarsi nel suo aspetto più utile (rotazione).
56
puro e virtuale. Virtuale è, così, sia quella
dimensione di passato da estrarre dalla memoria, per
essere attualizzata e personalizzata nel ricordo, che
quella dimensione attraverso la quale è possibile
concettualizzare il Tutto.
Contro ogni filosofia della positività attuale,
meccanicista o finalista, Deleuze asserisce che il
Tutto non è mai dato attualmente, ma possiede una
realtà, è reale senza essere attuale, “ci libera dalla
gabbia dell’attuale, allargando le dimensioni di
realtà piuttosto che sostituirvi un elemento di
artificio, di simulazione, come avviene
comunemente”55. Ma questo Tutto non smette di
attualizzarsi e di differenziarsi in base a linee
divergenti, ognuna delle quali corrisponde ad un
55 Intervista di F. Coscia a P. A. Rovatti nell’ambito della manifestazione «La memoria ribelle», pubblicata sul quotidiano Il Mattino 7 maggio 2003.
57
determinato livello della totalità virtuale
(“evoluzione creatrice”). La realtà positiva e
creatrice della differenziazione recupera il carattere
ontologico e vitale del virtuale, lungo una linea
corrispettivamente deleuziana: lungo la direzione
dell’umano, Deleuze conclude la descrizione del
processo di differenziazione prodotto dallo slancio
vitale sottolineando la dimensione sociale, etica e
religiosa dell’attività creatrice negli uomini. In tal
modo, durata, memoria e slancio vitale trovano il
loro punto di unione intorno ad un concetto di
virtualità interno alla ontologia differenziale
dell’evento56.
Questo concetto di virtuale secondo Deleuze è anche
la principale chiave di lettura per un’opera della sua
56 G. Polizzi, Deleuze e la “tradizione” filosofica, in op. cit., pag. 260
58
maturità, nella quale, dopo quasi un ventennio, si
occuperà di un altro personaggio della storia della
filosofia – Leibniz. Solamente che in questa opera,
La piega. Leibniz e il Barocco57, egli collega il
concetto di virtuale, oltre che ad una dimensione
dello spirito (la sintesi temporale), ad una
disposizione interna dell’anima – la piega. La figura
della piega esprime un nuovo concetto creato da
Deleuze attraverso le opere di Leibniz, ma, bisogna
precisare, questo concetto era stato già introdotto da
Deleuze in un suo studio precedente su Foucault, a
proposito del rapporto a sé e dei modi di
soggettivazione. Lì, egli definiva la piega come
incorporamento del fuori nel dentro: “Pensare
significa piegare, raddoppiare il fuori in un dentro
57 G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, trad. it. a cura di Ed. Einaudi, Torino, 1992, (Ed. originale: 1987).
59
coestensivo… Pensare significa collocarsi nello
strato del presente che funge da limite… Ma ciò
significa pensare il passato così come esso si
condensa nel dentro, nel rapporto con sé (c’è un
greco in me, o un cristiano…). Pensare il passato
contro il presente, resistere al presente, non per un
ritorno ma «a vantaggio, spero di un tempo
avvenire» (Nietzsche), e cioè rendere il passato
attivo e presente al fuori, affinché accada finalmente
qualcosa di nuovo e il pensare giunga al pensiero”58.
Le pieghe in Leibniz, ci dice Deleuze, sono
nell’anima, e non esistono se non nell’anima che le
include; ma è altrettanto vero che esse non possono
realizzarsi se non nel dispiegamento in un universo
materiale: “La piega separa o passa tra la materia e
58 G. Deleuze, Foucault, trad. it. a cura di P. A. Rovatti e F. Sossi, Milano, Feltrinelli, 1987, pagg. 119-120, (ed. originale: 1986).
60
l’anima, l’esterno e l’interno… È una virtualità che
non smette di differenziarsi: si attualizza nell’anima
ma si realizza nella materia… Ma differenziandosi si
disperde da entrambe le parti: la piega si differenzia
in pieghe, che si insinuano e fuoriescono
all’esterno… Ripiegamenti della materia sotto la
specie di esteriorità, pieghe nell’anima sotto la
specie di chiusura”59. Nella piega Deleuze trova, più
in generale, la figura del barocco, momento basilare
della cultura moderna: pieghe infinite di materia e di
spirito tengono lontane le filosofie dell’essenza,
oltrepassando il cartesianesimo: “La piega non
simula soltanto tutte le materie che diventano anche
materie di espressione, seguendo scale, velocità e
vettori differenti (le montagne e le acque, le carte, le
59 G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, op. cit., pagg. 53-54.
61
stoffe, i tessuti viventi, il cervello), ma determina e
fa apparire la forma, ne fa una forma
dell’espressione, Gestaltung, l’elemento genetico o
linea infinita d’inflessione, la curva variabile
unica”60.
La piega, proprio dello stile del pensare barocco,
sostituisce lo stile del meccanicismo e
dell’essenzialismo, sia in qualità di multiplo del
continuo (nella materia), che in qualità di multiplo
della libertà (nell’anima)61. La descrizione
deleuziana procede mettendo in campo tutti i
possibili orizzonti di attivazione della piega: logico,
matematico, ontologico, psicologico, fisico e anche
musicale. Ma, rimanendo alla nostra tematica, ciò
che risulta convergente tra Bergson e Leibniz sta
60 Ibidem, pag. 53. 61 G. Polizzi, Deleuze e la “tradizione filosofica, in op. cit., pag. 260.
62
solo nel processo di soggettivazione. C’e sempre
un’anima (un soggetto) che include al suo interno,
che coglie dal suo punto di vista, l’evento del fuori:
“Noi procediamo dall’inflessione all’inclusione in
un soggetto, come dal virtuale all’attuale,
l’inflessione definisce la piega, ma l’inclusione
definisce il soggetto, cioè quello che avviluppa la
piega, la sua causa finale, il suo atto compiuto”62.
Sia in Bergson che in Leibniz Deleuze rileva che il
passaggio dal mondo al soggetto avviene tramite una
torsione che impone l’attualizzazione del mondo nei
soggetti, ma anche il rapporto tra soggetti e mondo
nei sensi di una virtualità che si attualizza.
Inflessione e inclusione distinguono il movimento
62 G. Deleuze, La piega . Leibniz e il Barocco, op. cit., pag. 34.
63
che fa sì che le pieghe del mondo si esprimano a
partire da quelle dell’anima.
Ancora una volta emerge l’ancoraggio ontologico
della filosofia leibniziana, tutta giocata nella
dinamica tra virtuale e attuale: il mondo di Leibniz è
virtualità pura, “pura inflessione come idealità”63,
puro predicato, pura riserva degli eventi.
63 Ibidem, pag. 156.
64
CAPITOLO TERZO
La filosofia della differenza
3.1 La differenza in sé Fin dall’inizio della sua attività di filosofo, Deleuze
si è proposto di continuare il programma
nietzscheano di un “rovesciamento del platonismo”,
ossia di un rovesciamento delle forme tradizionali
del pensiero, e più specificatamente della
rappresentazione, che costituisce il centro e il
termine comune della metafisica, della teoria della
conoscenza, della logica e della morale
tradizionale64. Questo proposito assume la sua forma
più compiuta in un suo testo del 1968, Differenza e
64 D. Fusaro, Gilles Deleuze, sul sito “La filosofia e i suoi eroi” (www.filosofia.3000.it).
65
ripetizione65, che è ritenuto ormai un classico del
pensiero contemporaneo. La differenza e la
ripetizione, o meglio, un certo modo di concepire la
differenza, la ripetizione e il rapporto tra l’una e
l’altra, sono le strutture entro le quali si è
cristallizzata la visione occidentale dell’essere come
rappresentazione. Colgo, comprendo, rappresento un
fenomeno in quanto ne individuo il ripetersi, al
variare delle circostanze, ovvero il ripetersi con
differenze, la ripetizione assoggettata alla differenza
e la differenza legata alla ripetizione. Tutto questo
insieme, poi, si offre alla generalità del concetto,
dell’universale. Lo scopo di Deleuze, in quest’opera,
è riuscire a pensare la realtà come gioco di
differenze, analogia, identità, ma anche farci pensare
65 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, trad. it. a cura di G. Guglielmi, Bologna, Il Mulino, 1972, (ed. originale: 1968).
66
la ripetizione stessa come gioco di differenze66.
Come egli stesso ha scritto, nella Prefazione del
libro, la sua ricerca si volge alla riformulazione dei
concetti di “differenza pura” e di “ripetizione
complessa”. Concetti che inevitabilmente si trovano
in questa “avventura” deleuziana, secondo una
chiara ispirazione al non facile concetto di “eterno
ritorno” nel pensiero nietzscheano. La tesi centrale
di Deleuze è che l’identità non esiste come principio
primo, ma come principio secondo, principio
“divenuto”, che gira attorno al differente: tale
sarebbe la natura di una rivoluzione copernicana che
apre alla differenza la possibilità di un suo concetto
66 P.A. Rovatti, Deleuze, oltre l’effimero, articolo pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 16 febbraio 1998.
67
proprio, invece di mantenerla sotto il dominio di un
concetto in generale posto già come identico67.
Da Platone a Heidegger, Deleuze argomenta, la
differenza non è stata accettata per suo conto, ma
solamente dopo la comprensione tramite il
riferimento agli oggetti stessi-identici, che fa della
differenza una “differenza tra…”. Deleuze tenta di
invertire la situazione e di comprendere la differenza
in sé. Possiamo afferrare la sua argomentazione
partendo dall’analisi che egli fa della famosa triade
platonica: idea, copia e simulacro. Per definire
qualcosa come coraggiosa, bisogna che sia riferita
all’idea di coraggio - identica a sé stessa, quest’idea
non contiene null’altro. Atti coraggiosi e persone
coraggiose possono essere giudicati, così,
67 G.Deleuze, Differenza e ripetizione, op. cit., pag. 73.
68
dall’analogia con quest’idea. Ci sono anche,
comunque, coloro che imitano atti coraggiosi,
persone che usano il coraggio come fonte di
guadagno personale, per esempio. Questi atti non
sono copie del coraggio ideale, ma, piuttosto,
contraffazioni, distorsioni dell’idea. Essi non sono
riferiti all’idea in modo analogo, ma cambiano l’idea
stessa, la fanno degenerare. Platone ha
frequentemente argomentato in proposito, dice
Deleuze, dall’uomo di stato (il Dio-pastore, il re-
pastore, il ciarlatano) al sofista (il saggio, il filosofo
sofista)68. Il problema che attraversa tutta la filosofia
di Platone è sempre di misurare rivali, di selezionare
i pretendenti, di distinguere la copia dai simulacri:
“Tutto il Platonismo è costruito su questa volontà di
68 Ibidem, pag. 106.
69
scacciare i fantasmi o simulacri, identificati nello
stesso sofista, demone, insinuatore o simulatore,
falso pretendente sempre mascherato e spostato”69.
La tradizione filosofica, cominciando da Platone ed
Aristotele, si è schierata a favore del modello e della
copia, e ha risolutamente lottato per escludere il
simulacro da ogni considerazione, o rifiutandolo
come un errore esterno (Cartesio), o assimilandolo
ad una forma più alta, tramite un’operazione
dialettica (Hegel). Ma, dal momento in cui la
differenza è subordinata allo schema modello/copia,
essa può solamente essere considerata tra gli
elementi che le danno una connotazione interamente
negativa, come un non-questo.
69 Ibidem, pag. 206.
70
In contrapposizione, Deleuze suggerisce che se noi
volgiamo la nostra attenzione ai simulacri, il regno
dell’identico e dell’analogia è destabilizzato: “In
effetti, per simulacro, non si deve intendere una
semplice imitazione, ma piuttosto l’atto attraverso
cui l’idea stessa di un modello o di una posizione
privilegiata si trova contestata e rovesciata. Il
simulacro è l’istanza che comprende la differenza in
sé…”70. La sua esistenza è immediata, esso stesso è
differenza immediata. È per questa ragione che
Deleuze sostiene che una vera filosofia della
differenza non possa nascere se non a partire dal
rovesciamento del platonismo. L’essere dei
simulacri è l’essere della differenza, ed ogni
simulacro è il suo modello.
70 Ibidem, pag. 117.
71
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, come
possiamo parlare di un essente, di qualcosa che è
differenza in sé. Secondo Deleuze non c’è un’unità
ontologica e intrinseca. Egli riprende l’idea di
Nietzsche secondo la quale l’essere è divenire: c’è
una differenza intrinseca nella differenza stessa, il
differente differisce da sé stesso in ogni caso. Tutto
quello che esiste diviene solamente, e non è mai.
La sola identità è quella prodotta dalla differenza,
ma come potenza seconda. E Nietzsche con l’eterno
ritorno non voleva dire altro. Ritornare è l’essere,
ma soltanto l’essere del divenire. L’eterno ritorno
non fa tornare «lo stesso», è vero, invece, che il
tornare costituisce il solo stesso di ciò che diviene.
72
Una siffatta identità, prodotta dalla differenza, si
determina come ripetizione71.
3.2 Differenza contro dialettica
La disputa di Deleuze contro una certa tradizione
filosofica, in verità, non ha per oggetto Platone,
quanto Hegel. Sebbene questa sua posizione critica
sia chiaramente evidente in tutte le sue opere, la
rivalutazione della differenza in sé acquista una
connotazione precisa nel contrasto con la dialettica
di Hegel, che rappresenta lo sviluppo più estremo
della logica dell’identico. La dialettica, dice
Deleuze, è un caso esemplare di asservimento della
differenza al negativo: nell’identità idealistica
hegeliana, ogni differente è pensato come il negativo 71 Ibidem, pag. 73.
73
ed è perciò sottoposto alla dominanza dell’identico.
Attraverso il dominio del negativo, la dialettica
riesce ad integrare ed a neutralizzare le differenze,
esattamente come la ragione metafisica classica, che
esorcizza le differenze creando generalità, leggi,
principi universali. Come nella logica classica della
rappresentazione, anche nella dialettica sopravvive il
dualismo (essere/non-essere, originale/copia). La
dialettica nel suo procedimento generale prende le
differenze specifiche, le differenze in sé e nega il
loro essere individuale immolandolo sull’altare di
un’unità superiore: “Sotto la piattezza del negativo
c’è il mondo della «disparità»”72. Non ci sono
determinazioni della differenza in sé in un’unità più
alta che comprenda la differenza. Qui Deleuze si
72 Ibidem, pag. 426.
74
richiama alla sua ontologia spinozista e nietzschiana
di un’unica sostanza espressa in una molteplicità di
modi, scrivendo la famosa frase: “Una sola voce
suscita il clamore dell’essere”73.
Hegel è noto anche per aver asserito che la
negazione dialettica è il motore della storia,
portando a compimento il travestimento della storia
come realizzazione dello spirito assoluto. Per
Deleuze la storia non è un elemento teleologico, la
direzione di una realizzazione, questo è soltanto
un’illusione della coscienza: “La Storia non passa
attraverso la negazione, e la negazione di negazione,
ma attraverso la decisione dei problemi e
l’affermazione delle differenze, senza per questo
73 Ibidem, pagg. 64-65.
75
tuttavia essere meno cruenta e crudele. Solamente le
ombre della Storia vivono di negazione”74.
In conclusione, Deleuze, in considerazione
dell’aspetto etico, denuncia come un’ontologia
basata sul negativo faccia delle affermazioni etiche
una possibilità secondaria, derivata: “Tutto questo
non sarebbe nulla senza le implicazioni pratiche e i
presupposti morali di tale snaturamento”75.
3.3 Ripetizione e tempo
Per Deleuze il nodo centrale nella considerazione
della ripetizione è il tempo. Come la differenza, la
ripetizione è sottoposta alla legge dell’identico, ma
anche ad un modello precedente di tempo: ripetere
una frase vuol dire, tradizionalmente, dire due volte 74 Ibidem, pag. 428. 75 Ibidem, pag. 428.
76
la stessa cosa, in momenti diversi. Questi momenti
devono essere loro stessi uguali ed imparziali, come
se il tempo fosse un piano, una distesa informe. Così
la ripetizione è stata considerata, essenzialmente,
come l’idea tradizionale della differenza nel tempo,
inteso comunemente come successione di momenti.
Deleuze si chiede se, data la rinnovata comprensione
della differenza in sé, non si possa riconsiderare
anche la ripetizione. Ma, qui c’è anche un
imperativo: se noi consideriamo il tempo basato
sulla logica tradizionale della ripetizione, arriviamo
ancora una volta allo stesso identico punto. Così, la
critica di Deleuze sull’identità deve riconsiderare la
questione del tempo.
La sua argomentazione procede attraverso tre
modelli di tempo e riferisce il relativo concetto di
77
tempo ad ognuno di loro. Il primo tempo è come un
cerchio. Il tempo circolare è il tempo mitico e
stagionale, la ripetizione dello stesso dopo che il
tempo è passato attraverso i suoi punti cardinali.
Questi punti possono essere le semplici ripetizioni
naturali, come il sole che sorge quotidianamente, il
movimento dalla primavera all’estate, o gli elementi
della tragedia, che operano ciclicamente, suggerisce
Deleuze. C’è un senso di destino e di teleologia, nel
concetto di tempo come cerchio, come successione
di istanti governati da una legge esterna. Quando il
tempo è considerato in questo modo, Deleuze
disserta, la ripetizione è data soltanto dall’abitudine.
Il soggetto sperimenta il passare ciclico dei
momenti, e l’abitudine appresa fa sì che il senso del
tempo divenga come un continuo presente.
78
L’abitudine è, così, sintesi passiva dei momenti che
creano il soggetto.
Il secondo modello di tempo è collegato da Deleuze
a Kant. Kant libera il tempo dal modello circolare,
proponendolo come una forma impostata
sull’esperienza sensoria, nella Critica della ragione
pura. Per Deleuze questo inverte la situazione,
collocando gli eventi nel tempo (come su una linea
retta), piuttosto che lasciando vedere la catena degli
eventi che costituiscono il tempo nel passaggio dei
momenti presenti. L’abitudine non può avere nessun
potere, secondo questo modello di tempo, nessun
ritorno. Ci deve essere un processo attivo di sintesi
che fa degli istanti passati una rappresentazione
significativa di ciò che è accaduto. Deleuze chiama
questo processo sintesi attiva della memoria.
79
Abitudine dissimile, la memoria non si riferisce al
presente, ma al passato che non è mai stato
presente, dal momento in cui sintetizza una forma in
se stessa che mai esistette prima dell’operazione76.
I romanzi di Marcel Proust sono, per Deleuze, lo
sviluppo più profondo della memoria come passato-
puro, o nella terminologia di Proust, come «tempo
ritrovato». La ripetizione ha, così, un senso attivo in
linea con la sintesi, in questo secondo modello di
tempo – questo, nondimeno, la salva dall’essere lo
stesso un’operazione di identità. La ripartizione
kantiana consiste in uno sforzo supremo per salvare
il mondo della rappresentazione richiamandosi a una
nuova identità dell’io, con l’estrema conseguenza di
frazionare il soggetto in due: l’io della memoria,
76 Ibidem, pagg. 136-137.
80
come risultato del processo di sintesi, e l’io
dell’esperienza, come semplice ricettività sensoria77.
Deleuze sostiene che entrambi i modelli di
ripetizione la schiaccino al servizio dell’identico, e,
invece, fa di essa un processo secondario nei
confronti del tempo.
Il terzo modello di tempo che Deleuze propone tenta
di fare della ripetizione stessa la forma del tempo.
Per fare ciò, Deleuze riferisce i concetti di differenza
e di ripetizione l’uno all’altro. Se la differenza è
l’essenza di ciò che esiste, generando la grande
diversità in tutto ciò che esiste, nessuno dei primi
due modelli può rendere conto di ciò per la loro
insistenza sulla possibilità e sulla necessità della
sintesi della differenza nell’identità.
77 Ibidem, pag. 146.
81
È solamente quando gli esistenti sono ripetuti come
qualcosa d’altro che la loro disparità è rivelata. Di
conseguenza, la ripetizione non può essere compresa
come ripetizione dello stesso, risultando così liberata
dalla domanda della filosofia tradizionale. Deleuze
torna al concetto nietzscheano di eterno ritorno per
dar corpo alla concezione della ripetizione come
forma pura del tempo. Esso non va considerato come
un movimento ciclico, come ritorno dell’identico.
Come forma del tempo, l’eterno ritorno è, per
Deleuze, quella ripetizione che differisce in sé
stessa, o, nella terminologia di Nietzsche, la
ripetizione di quegli esseri il cui essere sta
divenendo: “Il soggetto dell’eterno ritorno non è lo
82
stesso ma il differente, non il simile ma il dissimile,
non l’uno ma il molteplice…”78.
La ripetizione come terza sintesi del tempo prende la
forma dell’eterno ritorno. Tutto ciò che esiste come
un’unità non ritorna, ritorna solamente ciò che
differisce in sé stesso: “La differenza vive nella
ripetizione”79. Così, mentre l’abitudine è il tempo
del presente e la memoria il tempo del passato, la
ripetizione, come eterno ritorno, è il tempo del
futuro. La superiorità di questa definizione della
ripetizione come tempo ha due sostanziali vantaggi,
nell’argomentazione di Deleuze. Il primo è che la
differenza si mantiene intatta nel suo movimento di
differire da sé stessa. Il secondo è anche più
rilevante nel suo significato: se quello che differisce
78 Ibidem, pag. 204. 79 Ibidem, pag. 128.
83
ritorna, l’eterno ritorno, quindi, opera
selettivamente, e questa selezione è un’affermazione
della differenza, piuttosto che un’attività di
rappresentazione o di unificazione basata sul
negativo, come in Hegel.
3.4 L’immagine del pensiero
Nello stesso testo, Differenza e ripetizione, Deleuze
affronta anche un’altra importante questione
filosofica, il problema delle presupposizioni (e
quindi del cominciamento: “Difatti cominciare
significa eliminare tutti i presupposti”80).
Un esempio è la celebre frase di Cartesio sul
Discorso sul metodo: «Il buon senso è la cosa più
uniformemente condivisa al mondo… la capacità di
80 Ibidem, pag. 211.
84
giudicare correttamente e distinguere il vero dal
falso, che è ciò che uno chiama comune senso della
ragione, è naturalmente uguale in tutti gli uomini»81.
Per Cartesio il pensiero ha un naturale orientamento
verso la verità; come per Platone, l’intelletto è
naturalmente orientato verso la ragione e ricorda la
vera natura di ciò che esiste. Questo, per Deleuze, è
un’immagine del pensiero.
Sebbene le immagini seguano la forma comune di
un “ognuno sa…”, noi non siamo essenzialmente
consapevoli di esse. Piuttosto, esse operano a livello
sociale e inconscio, agendo “tanto più efficacemente
in silenzio”82.
Deleuze intraprende un’analisi completa
dell’immagine filosofica e tradizionale del pensiero, 81 R. Cartesio, Discorso sul metodo, trad. a cura di A. Carlini, Bari, Laterza, 1969, pag. 41. 82 Ibidem, pag. 271.
85
elencando alcune caratteristiche che, in tutti gli
aspetti della ricerca filosofica, implicano la
subordinazione del pensiero ad un principio imposto
esternamente. Egli vi include la buona natura del
pensiero, la priorità del modello o il riconoscimento
come mezzo del pensiero, la sovranità della
rappresentazione sugli elementi immaginari nella
natura e nel pensiero, la subordinazione della cultura
al metodo. Tutti questi implicano una natura del
pensiero, un “telos”, un significato e una logica della
pratica. Queste caratteristiche schiacciano il pensiero
sotto un’immagine dello stesso e del similare nella
rappresentazione, ma, soprattutto, tradiscono
profondamente ciò che vuole dire pensare e alienano
i due poteri della differenza e della ripetizione, del
86
cominciamento filosofico e del nuovo inizio83.
Questo passo del libro è fondamentale per
comprendere il modo in cui Deleuze valuti i concetti
di identità e di tempo della filosofia tradizionale e
come egli intenda superarli: la sua rifondazione di
differenza e ripetizione è stata possibile attraverso
questa critica. Un altro aspetto che si ricollega ai
precedenti deriva dalla critica di Nietzsche al
pensiero occidentale. Quando Nietzsche mette in
dubbio le presupposizioni più generali della
filosofia, egli dice che questi sono essenzialmente
morali; solamente la moralità è capace di
convincerci che il pensiero ha una natura buona e il
pensatore una volontà buona e che solamente il
buono può fondare l’affinità supposta tra il pensiero
83 Ibidem, pag. 271.
87
e il vero. Come abbiamo già constatato a proposito
di Hegel, il problema è che questa immagine del
pensiero è al servizio di forze pratiche, politiche e
morali; non è semplicemente una questione della
filosofia, separata dal resto del mondo. Alla
domanda “perché abbiamo questa immagine del
pensiero?” Deleuze e Nietzsche rispondono che si
tratta di un’immagine morale e che essa è al servizio
del potere; ma c’è anche un problema più intrinseco,
che sarà sviluppato pienamente da Deleuze più
avanti (in Che cos’è la filosofia?), cioè che il
pensiero in sé è pericoloso.
In contraddizione alla bontà naturale del pensiero
nell’immagine tradizionale, Deleuze dice che il
pensiero è come un incontro: “Qualche cosa nel
88
mondo ci costringe a pensare”84. Questo incontro ci
riporta all’impotenza del pensiero stesso ed evoca il
bisogno di un pensiero che si raffronti con la
violenza e la forza di questi incontri. L’immagine
tradizionale del pensiero ha sviluppato, come ha ben
rilevato Nietzsche in Genealogia della morale, una
sorta di reazione alla minaccia che questi incontri
offrono. Noi possiamo considerare l’immagine
tradizionale del pensiero, quindi, come un sintomo
di questa violenza. Risulta, così, che il rapporto tra
filosofia e pensiero deve avere due aspetti
correlativi: l’attacco all’immagine morale e
tradizionale del pensiero, ma anche il movimento
verso la comprensione del pensiero come auto-
produzione. È in questo secondo aspetto che il
84 Ibidem, pag. 227.
89
pensiero si fa veramente pericoloso, perché un
pensiero senza immagine, che non si riferisce a
nessuna rappresentazione di potere, conduce fuori
dalle pastoie esegetiche e morali e si apre ai rapporti
di forze reali, alle problematiche sociali, all’attualità
della storia, comunque in divenire. Un pensiero più
direttamente prossimo all’articolarsi dell’esperienza
creativa e innovatrice dell’uomo, ed il solo capace
di accostare la differenza in se stessa e la ripetizione
complessa.
90
CAPITOLO QUARTO
Filosofia e scienze sociali
4.1 Filosofia e psicanalisi
A partire dal 1969, l’anno in cui conosce Felix
Guattari85, Deleuze intraprende tutta una ricerca che
lo porta ad occuparsi di problematiche “non-
filosofiche”, che assumeranno una rilevante
importanza nelle sue opere successive. Deleuze,
infatti, sosteneva che “il non-filosofico si trova nel
cuore della filosofia forse più della filosofia
85 Felix Guattari nasce a Parigi nel 1930. Già dai tempi del liceo manifesta un forte interesse nei confronti della psichiatria. È a quegli anni che risale l’amicizia con Jean Oury, psichiatra di orientamento fenomenologico con il quale in seguito dirigerà la clinica di La Borde. Fondamentale, nel definire il suo percorso intellettuale, è stato l’incontro con lo psicanalista Jacques Lacan. Nel 1969 Guattari entra a far parte dell’École freudienne come membro analista. Oltre alla sua attività nella clinica, svolge anche un’intensa attività politica; a partire dagli anni Sessanta, diviene uno dei principali animatori del gruppo Opposition de gauche, una sorta di federazione di carattere non partitico fra diverse realtà della sinistra radicale.
91
stessa…”86, e la sua fondamentale importanza è
dovuta al fatto di “forzare” la filosofia a pensare, a
produrre nuovi concetti.
L’incontro con Guattari segna l’inizio di una
fruttuosa collaborazione che si concretizza in diverse
opere scritte insieme. La prima di queste è un libro
tra i più letti e dibattuti degli anni Settanta: L’Anti-
Edipo87. Come il titolo stesso del libro lascia intuire,
il suo punto di partenza è una risoluta critica della
teoria e della prassi psicoanalitica. Tuttavia, come
già si è visto per le altre opere di Deleuze, la critica,
il momento negativo non è mai isolato, ma serve a
preparazione per un movimento concettuale
affermativo. Proprio per il tipo di critica a cui viene
sottoposto il discorso psicoanalitico, il testo eccede 86 G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, op. cit., pag. 31. 87 G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Edipo, trad. it. a cura di A. Fontana, Torino, Einaudi, 1975, (ed. originale: 1972).
92
ampiamente l’ambito settoriale, per coinvolgere un
ampio spettro di problematiche. L’ambizione de
L’Anti-Edipo è alta, ed esplicitamente formulata:
ripartire dalla scoperta freudiana dell’inconscio per
percorrere la via, oltre le impasse di Edipo, di una
psichiatria materialista88: “La grande scoperta della
psicanalisi è stata quella della produzione
desiderante dell’inconscio. Ma, con Edipo, questa
scoperta è stata occultata da un nuovo idealismo:
all’inconscio come fabbrica si è sostituito un teatro
antico; alle unità di produzione dell’inconscio si è
sostituita la rappresentazione…”89.
Deleuze e Guattari, con la loro strumentazione
concettuale, vogliono promuovere una logica del
88 Deleuze e Guattari definiscono una psichiatria materialistica caratterizzandola con una duplice operazione: introdurre il desiderio nelle dinamiche storico-sociali, introdurre il processo di produzione materiale nel desiderio. 89 G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Edipo, op. cit., pag. 26.
93
desiderio e della produzione reale che stabilisca il
primato della storia sulla struttura. All’inizio del
libro si parla di macchine: la dimensione
dell’inconscio si struttura a partire dal comporsi, in
combinazioni mutevoli, sempre distanti
dall’equilibrio di un sistema, di una moltitudine di
macchine desideranti. La macchina viene opposta
alla struttura, e rimanda alla contingenza e alla
finitudine della connessione tra una serie di flussi e
cesure: “Che errore aver detto l’(es). Ovunque sono
macchine, per niente metaforicamente: macchine di
macchine, con i loro accoppiamenti, colle loro
connessioni. Una macchina-organo è innestata ad
una macchina-sorgente: l’una emette un flusso che
l’altra interrompe.”90 Per chiarire il concetto di
90 G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Edipo op. cit., pag. 3.
94
“macchina desiderante”, bisogna comunque partire
da una chiarificazione del secondo termine. In
effetti, buona parte de L’Anti-Edipo ruota intorno
alla ridefinizione della nozione di desiderio.
Innanzitutto, il desiderio, secondo Deleuze e
Guattari, va inteso non più nelle forme private
antiche (il desiderio come acquisizione) né in quelle
cosmiche lucreziane (la Voluptas come forma
generatrice dell’universo), né in quelle penitenziali
del mondo cristiano (il desiderio è ciò di cui si può
parlare, sotto la specie del corpo peccaminoso e
colpevole, nei modi regolamentati della
confessione), né in quelle scenico-teatrali ( il
desiderio è il «ritorno del rimosso» nello spazio
ambiguo e controllato della scena), né, infine, in
quelle medico-penali a partire dal XVIII secolo
95
(nelle varie codificazioni anatomico-patologiche,
neurologiche, coi loro correlati giuridici). Il
desiderio dà impulso alla macchina. E la macchina
desiderante non è niente di tutto questo: il desiderio
non è iscritto in alcun organismo, non è correlato ad
alcun soggetto (il soggetto è prodotto dalla macchina
come un pezzo adiacente), non manca di nulla, non
significa nulla, ma produce e funziona. Non è facile
comprendere cosa si intende per macchine
desideranti: Deleuze e Guattari ne operano il
montaggio mettendo insieme i pezzi lavorativi
(oggetti parziali91, il corpo senza organi92 e il pezzo
91 Diversamente dal ricondurre gli oggetti parziali alle figure globali dei genitori, quanto teorizzato nella prassi psicoanalitica, Deleuze e Guattari li considerano come elementi costitutivi, ingranaggi delle macchine desideranti (ad esempio: il seno non è solo oggetto parziale della madre, ma anche la soglia di un flusso di latte che si concatena alla bocca dell’infante). 92 Deleuze e Guattari definiscono così il corpo senza organi: “…non è una proiezione; nulla a vedere con il proprio corpo, o con un’immagine del corpo. È il corpo senza immagine… è un uovo: è attraversato da soglie, da latitudini, da longitudini, da geodetiche, è attraversato da gradienti che segnano i divenire e i passaggi, le destinazioni di colui che si sviluppa. Nulla è qui rappresentativo ma tutto è vita e vissuto”, Ibidem, pag. 21.
96
adiacente, il soggetto); tre tipi di energie (la libido, il
numen, la voluptas); tre modi di sintesi (sintesi
connettive d’oggetti parziali e flussi, disgiuntive di
singolarità e catene, congiuntive di intensità e
divenire). Le macchine desideranti sono macchine
molecolari che funzionano nell’infrastruttura, come
macchine produttive sociali, per quanto con un
regime diverso, connettendo e tagliando flussi (come
stati di puro divenire), oggetti parziali (tutto ciò che
viene localmente investito dalla libido, senza
riferimento ad alcuna totalità mancante), incrociando
trasversalmente catene e segmenti di catene
polivoche ed eterogenee. È importante, a questo
punto, la distinzione tra molare e molecolare
formulata dai due autori. L’ordine molare
corrisponde alle stratificazioni che delimitano gli
97
oggetti, i soggetti, le rappresentazioni e i loro sistemi
di riferimento. L’ordine molecolare, al contrario,
riguarda i flussi, il divenire, le transizioni di fase, le
intensità. Per semplificare, si potrebbe distinguere
tra segmenti e flussi, il cui regime è rispettivamente
molare e molecolare. Ogni organizzazione sociale si
compone di segmenti e di flussi, di flussi che
fuggono e di segmenti, organizzati in linee molari
secondo configurazioni variabili, che li bloccano. Il
livello molare – stato, ceto, nazione o classe, per
esempio – opera per linee di codificazione binarie
che rallentano e irrigidiscono i flussi molecolari,
stratificandoli in strutture segmentarie. I flussi, a
loro volta, investono, con il loro procedere
molecolare le sedimentazioni molari, provocando
oscillazioni, slittamenti, fratture, riconfigurazioni. I
98
due livelli sono inestricabilmente connessi, ma si
presentano come due differenti regimi di
funzionamento macchinico, come due diversi modi
di investimento del desiderio, corrispondenti a due
aspetti dell’inconscio, molare e molecolare. La
macchina desiderante è, allora, l’inconscio che
produce, un inconscio orfano, prepersonale, non-
umano, senza colpa, senza mancanza, senza
credenze, non terrorizzato dalla famiglia, dallo Stato,
da Edipo. Edipo, dicono Deleuze e Guattari, è
l’insieme delle operazioni che fanno passare il
desiderio dal piano della produzione a quello della
rappresentazione, dal piano reale a quello simbolico
e immaginario. Non è tanto la famiglia borghese ad
aver generato l’Edipo, ma, piuttosto, è al contrario,
un dispositivo complesso, penale, giuridico, ad aver
99
tagliato il sociale dal privato, ad aver isolato la
famiglia dal corpo sociale, ad aver innestato il corpo
dei genitori sul corpo dei bambini nella crociata anti-
masturbazione (famiglia borghese), ad aver separato
il corpo dei bambini da quello dei genitori
(campagna anti-incesto nella famiglia proletaria), ad
aver medicalizzato e psicologizzato i rapporti
genitori-bambini (teorie della perversione, della
degenerazione e della normalità), ad avere, infine,
codificato nei dispositivi raffinati, ontogenetici e
filogenetici dell’Edipo (interdetto dell’incesto come
accesso al desiderio): la famiglia come fabbrica di
«corpi docili», i genitori come agenti delegati del
controllo e della repressione93.
93 Ibidem, pag. XXVIII (Introduzione di A. Fontana).
100
A partire dai dispositivi d’iscrizione del desiderio,
Deleuze e Guattari procedono a delineare una teoria
delle formazioni sociali, individuandone tre
momenti principali: la società primitiva inscrive il
desiderio sul corpo della terra, la società barbarica
sul corpo del despota, la società capitalistica sul
corpo del capitale-danaro. La prima codificazione
dei flussi di desiderio avviene sul corpo della terra
(scrittura in piena carne – supplizi e sacrifici,
filiazione e alleanza matrimoniale), alla quale viene
sovrapposta la codificazione dispotica (la nascita di
Edipo, gran Significante dispotico, la nascita dello
Stato, l’emersione della legge dell’interdetto), infine,
l’assiomatizzazione capitalistica: i flussi vengono
decodificati in un primo momento di
101
deterritorializzazione e subito riassiomatizzati nelle
territorialità cliniche dell’Edipo familiaristico 94.
4.2 Capitalismo e schizofrenia
L’ultima parte de L’Anti-Edipo, come si è visto,
prelude ad un impegno, da parte degli autori, in una
nuova stagione di ricerca analitica rivolta al campo
sociale, con tutte le conseguenze immediatamente
politiche. Deleuze e Guattari si propongono di
documentare questa loro nuova esperienza in un
altro volume, continuazione de L’Anti-Edipo, che
sarà pubblicato otto anni dopo con il titolo 94 Territorializzazione, deterritorializzazione e riterritorializzazione sono termini correlativi, coefficienti variabili la cui portata eccede l’uso che si fa di essi in etologia o etnologia. Nelle parole di Guattari, a cui si deve l’invenzione di quei concetti, “il territorio può essere relativo sia a uno spazio vissuto, sia a un sistema che il soggetto percepisce come ‘casa mia’. Il territorio è sinonimo di appropriazione, di soggettivazione chiusa su se stessa. Il territorio può deterritorializzarsi, aprirsi, essere coinvolto in linee di fuga, oppure franare e distruggersi. La riterritorializzazione consisterà quindi nel tentativo di ricomposizione di un territorio coinvolto in un processo deterritorializzante”, F. Guattari, Piano sul pianeta, trad. it. a cura di M. Guareschi, Verona, Ombre corte, 1997, pag. 102, (ed. originale: 1982).
102
Millepiani95. Entrambi i volumi portano un
sottotitolo comune - Capitalismo e schizofrenia - a
sottolineare una comune tematica di fondo, anche se
esposta in modo alquanto diverso e senza
un’evidente continuità. Un’altra caratteristica
comune sta nella complessità della trattazione: il
pensiero dei due autori, nei due volumi, incontra vari
campi delle scienze sociali, dalla psicoanalisi
all’antropologia, alla storia, ma anche ambiti
artistici, letteratura, pittura e musica, in una sintesi di
notevole potenza teorica. Il punto di partenza è
l’analisi dei sistemi sociali.
Una formazione sociale è definita, da Deleuze e
Guattari, come un sistema di strategie che cercano
continuamente di codificare i flussi prodotti dalle
95 G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani, trad. it. a cura di G. Passeroni, Roma, Castelvecchi, 1997, (ed. originale: 1982).
103
macchine desideranti, e di trattare come nemico ciò
che, in rapporto ad essa, si presenta come un flusso
non codificabile, perché ancora una volta mette in
questione tutta la terra, tutto il corpo della società. In
altri termini, codificare i flussi è l’azione
fondamentale di ogni società, anche se, Deleuze e
Guattari precisano, fa eccezione, forse, la nostra
società capitalistica: “C’è un paradosso
fondamentale del capitalismo come formazione
sociale: se è vero che il terrore di tutte le altre
formazioni sociali è stato quello dei flussi
decodificati, il capitalismo si è costituito
storicamente su una cosa incredibile, e cioè su tutto
ciò che incarnava il terrore di tutte le società:
l’esistenza e la realtà dei flussi decodificati; e ne ha
104
fatto il proprio affare”96. Il capitalismo non ha
potuto costituirsi che attraverso una congiuntura, un
incontro di flussi decodificati di ogni genere: ci sono
volute condizioni straordinarie al termine di processi
di decodificazione formatisi al declino della
feudalità, affinché avvenisse il congiungimento tra il
flusso del capitale nascente deterritorilizzato e la
mano d’opera dei lavoratori deterritorializzati. Il
capitalismo si è costituito sul fallimento di tutti i
codici e le territorialità precedenti. Esso è
l’universale di tutte le società in un senso molto
preciso, ciò che tutte le società non avevano smesso
di scongiurare, perché sarebbe stata la loro rovina:
“Il fatto è che, come abbiamo visto, il capitalismo è
certo il limite di ogni società, in quanto opera la
96 G. Deleuze, lezione su Millepiani, nel corso di filosofia a Vincennes, 16/11/1971.
105
decodificazione dei flussi che le altre formazioni
sociali codificavano e surcodificavano. Tuttavia ne è
il limite o il taglio relativi, perché sostituisce ai
codici un’assiomatica estremamente rigorosa che
mantiene l’energia dei flussi svincolata sul corpo del
capitale… deterritorializzato”97. Ciò che decodifica
con una mano, assiomatizza con l’altra98: “E la
potenza del capitalismo risiede proprio in questo: la
sua assiomatica non è mai saturata, ed è sempre in
grado di aggiungere un nuovo assioma agli assiomi
precedenti”99.
Tutto ad un tratto ci sono, ad esempio, dei giovani
che non rispondono al codice: cominciano ad avere
un flusso di capelli che non era previsto, che si fa 97 G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Edipo, op. cit., pag. 279. 98 Ibidem, pagg. 281-299. Deleuze e Guattari dissertano sul fatto di distinguere l’operazione di assiomatizzazione capitalistica da quella della codificazione dei sistemi sociali precedenti, dandone due ragioni, delle quali l’una rappresenta una sorta di impossibilità morale, l’altra un’impossibilità logica. 99 Ibidem, pag. 284.
106
allora? Si cerca di ricodificarlo, si aggiunge un
assioma, si cerca di recuperare… Se il capitalismo,
riprendendo Deleuze e Guattari, è il limite relativo di
ogni società, “la schizofrenia al contrario è certo il
limite assoluto, che fa passare i flussi allo stato
libero su un corpo senza organi desocializzato. Si
può dire che la schizofrenia è il limite esterno del
capitalismo, o il termine della sua tendenza più
profonda, ma che il capitalismo stesso non funziona
se non a condizione di inibire questa tendenza, o di
respingere e di spostare questo limite, sostituendovi i
propri limiti relativi immanenti che non cessa di
riprodurre su larga scala”100. Da questo punto di
vista, la schizofrenia viene considerata da Deleuze e
Guattari come un processo rivoluzionario e non nel
100 Ibidem, pag. 279.
107
suo statuto di malattia mentale, ed è per questo che
loro teorizzano un nuovo metodo di indagine
analitica, la schizoanalisi, con il compito positivo di
scoprire in un soggetto la natura, la formazione e il
funzionamento delle sue macchine desideranti,
indipendenti da ogni interpretazione, come queste si
innestano nelle macchine sociali e alla luce del
rapporto che vi intrattengono: “La schizoanalisi
intenderebbe opporre una prospettiva orientata verso
una «apertura processuale» in grado di rilanciare i
flussi di desiderio oltre le configurazioni
consolidate. Una processualità che assume
esplicitamente un procedere fatto anche di
riterritorializzazioni, che tuttavia non intende
scontare come definitive”101.
101 M. Guareschi, Gilles Deleuze Popfilosofo, Milano, Shake Edizioni Underground,
108
La contrapposizione tra capitalismo e schizofrenia,
come recita il sottotitolo, comune ai due volumi –
L’Anti-Edipo e Millepiani – risulta, quindi, evidente.
Da una parte la macchina capitalistica, sistema
molare di riterritorializzazione del desiderio,
dall’altra il divenire microfisico, l’irriducibilità dei
flussi desideranti ad ogni territorialità data, la
molteplicità molecolare che non presuppone alcuna
unità o soggetto: “Le soggettivazioni, le
totalizzazioni, le unificazioni sono al contrario
processi che si producono e appaiono nelle
molteplicità… La storia universale della contingenza
vi guadagna una più grande varietà”102.
2001, pag. 78. 102 G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani, op. cit., pag. 11, (prefazione degli autori all’edizione italiana).
109
4.3 Filosofia e politica
Il pensiero deleuziano, nel suo complesso, è
attraversato da un’intensa passione politica. Il
proposito di ribaltare il platonismo, di affermare il
molteplice e la differenza, di sfuggire all’immagine
dogmatica del pensiero, di sottrarre il movimento
alla dissimulazione della dialettica è infatti
inscindibile dall’esigenza di produrre macchine
concettuali in grado di rilanciare le tematiche della
trasformazione sociale o, come egli stesso
dichiarava, del “divenire rivoluzionario”.
Il primo percorso filosofico di Deleuze delineava già
un progetto di rinnovamento radicale, ma le sue
conseguenze immediatamente politiche saranno
sviluppate soprattutto a partire da L’Anti-Edipo e
dall’incontro con Guattari. Tuttavia, per quanto
110
riguarda Deleuze, non si deve parlare di una filosofia
politica, intesa come ambito distinto e dotato di una
propria, autonoma razionalità, ma di una filosofia
che, anche negli aspetti apparentemente tecnici,
assume una valenza immediatamente politica.
In una delle ultime interviste, G. Deleuze dichiarava
di essere rimasto, per molti versi, un marxista,
affermando il suo disinteresse per una filosofia
politica che non fosse centrata sull’analisi della fase
capitalistica: “Ciò che più ci interessa in Marx, è
l’analisi del capitalismo come sistema immanente
che non cessa di spingere i suoi propri limiti, e che li
ritrova sempre a scala ingrandita, perché il limite è il
Capitale stesso”103. E proprio su Marx, Deleuze
lavorava prima di morire: Grandeur de Marx doveva
103 G. Deleuze, Pourparles, op. cit., pag. 232, (trad. mia).
111
essere il titolo del suo ultimo libro, rimasto
incompiuto. Il proposito di questa opera era di
recuperare l’analisi critica marxista della società
capitalistica per rilanciarla in relazione
all’emergenza dell’attualità, liberandola dalle
impasse e dal falso movimento della dialettica.
Per Deleuze, una società si definisce e deve essere
valutata criticamente, non a partire dalle sue
contraddizioni, ma dalle linee di fuga da cui è
percorsa. Un esempio di ciò è l’Europa d’oggi: i suoi
uomini politici faticano non poco a uniformare
regimi e regolamenti, ma d’altra parte può risultare
imprevedibile e sorprendente quello che succederà
per l’allargamento dei limiti comunitari; ovvero, si
potrebbe dire che l’Europa è già sorpassata prima di
cominciare, sorpassata per i movimenti che vengono
112
dall’Est. Queste, dice Deleuze, sono delle serie linee
di fuga104.
Un’altra espressione della problematica sociale
viene individuata da Deleuze nei movimenti
minoritari, che costituiscono una variabile ben più
importante dei conflitti di classe, ormai peraltro
superati. C’è da precisare che minoranza e
maggioranza non si distinguono dal numero. Una
minoranza può essere più numerosa della
maggioranza. Ciò che definisce la maggioranza è un
modello al quale bisogna conformarsi: per esempio,
l’europeo medio, adulto, maschio, abitante di città
etc. Tanto che una minoranza non va riferita ad un
modello, è un divenire, un processo. Quando una
minoranza si crea modelli è perché vuole divenire
104 Ibidem, pagg. 232-233.
113
maggioranza ed è inevitabile per la sua
sopravvivenza (per esempio, avere uno stato, essere
riconosciuti, imporre i propri diritti). Ma la sua
potenza viene da ciò che essa ha saputo creare e che
passerà più o meno nel modello, senza dipenderne. Il
popolo è sempre una minoranza creatrice, anche
quando conquista la maggioranza: le due cose
possono coesistere perché non vivono sullo stesso
piano. Tra i segmenti che strutturano il livello
molare (maggioranza) e i flussi che percorrono
molecolarmente il sociale (minoranza), non c’è una
differenza di scala, ma di natura, così come non
esiste contraddizione fra loro, ma una continua
interazione all’interno della quale entrambi
acquisiscono la loro specifica natura. È in questo
gioco che accadono i processi di mutazione e di
114
trasformazione sociale. Il molecolare e la minoranza
si posizionano, quindi, come concetti operativi di
una politica del divenire, di una micropolitica o
politica delle minoranze che non rimuove o esclude
l’orizzonte molare o macropolitico, ma lo assume su
un piano differente.
Infine, Deleuze e Guattari introducono come
strumento di trasformazione sociale, ciò che
chiamano “macchina da guerra”. Questo nuovo
concetto non è definito tanto costituire una sorta di
cavallo di Troia, ovvero per servire la guerra, ma
“per una certa maniera di occupare, di riempire lo
spazio-tempo, o di inventare nuovi spazi-tempo: i
movimenti rivoluzionari (non si considerano
abbastanza, per esempio come l’ O.L.P. ha dovuto
inventare uno spazio-tempo nel mondo arabo), ma
115
anche i movimenti artistici sono tali macchine da
guerra”105.
La macchina da guerra, i divenire minoritari, le linee
di fuga, si generano all’interno dello spazio
dell’apparato di stato. Ma lo stato opera per
successive riconfigurazioni inseguendo la logica
immanente dello sviluppo capitalistico e traducendo
in termini molari i movimenti molecolari che si
agitano ovunque.
Già si profilava, in questi passaggi dell’opera di
Deleuze e Guattari, il presagio della crisi attraversata
dal potere statalista nelle società contemporanee:
quella che si è soliti definire come globalizzazione,
lungi dal dissolvere lo stato, ne ridefinisce la
funzione al ribasso, rivelandone l’incapacità nel
105 Ibidem, pag. 233.
116
padroneggiare i flussi di merci, di capitale, di
informazione, di tecnologia che lo eccedono
irrimediabilmente. La globalizzazione si costituisce
come un problema del nostro tempo, del passaggio
in cui siamo, peraltro posta con grande chiarezza da
Deleuze, nel momento in cui parlava di transizione
dalle società disciplinari alle società di controllo.
In breve, per Deleuze i luoghi di “internamento” (la
famiglia, la scuola, la fabbrica, il carcere) a cui
veniva affidato il disciplinamento dei soggetti sociali
cedono il passo a qualcosa di nuovo: un meccanismo
che dovrà affrontare sempre più la sparizione delle
frontiere e le esplosioni delle bidonville e dei ghetti,
capace di dare la posizione di un elemento in un
ambiente aperto – animale in una riserva, uomo in
una città –, dove ciò che conta non è più la barriera,
117
ma il computer che ritrova la posizione di ciascuno,
lecita o illecita, ed opera un controllo universale.
Tuttavia, non bisogna cedere a questa tendenza
deprimente e apocalittica emergente dalle situazioni
politiche odierne, suggerisce Deleuze: “Invece di
scommettere sull’eterna impossibilità della
rivoluzione e sul ritorno fascista di una macchina da
guerra in generale, perché non pensare che un nuovo
tipo di rivoluzione sta per diventare possibile, e che
tutte le specie di macchine mutanti, viventi,
conducono delle guerre, si congiungono e tracciano
un piano di consistenza che mina il piano di
organizzazione del Mondo e degli Stati? Infatti,
ancora una volta, il mondo e i suoi Stati non sono
padroni del loro piano più di quanto i rivoluzionari
non siano condannati alla deformazione del loro… Il
118
problema del futuro della rivoluzione è un brutto
problema, dal momento che fino a quando lo si
continua a porre, si troveranno sempre altrettante
persone che non diventano rivoluzionarie, e dal
momento che tale problema è fatto proprio per
soffocarne un altro, vale a dire quello del divenire-
rivolizionario della gente, a tutti i livelli e in ogni
luogo”106.
106 G. Deleuze e C. Parnet, Conversazioni, op. cit., pag.173.
119
CAPITOLO QUINTO
Filosofia e arte
5.1 Sulla letteratura
Deleuze ha scritto ampiamente sulla letteratura e non
ha mai smesso di confrontarsi con essa. Lo
testimoniano le sue monografie su Proust, Sacher-
Masoch, Kafka. Ha dedicato anche brevi saggi ad
altri diversi autori come Lawrence, Beckett, Artaud,
Jarry, Melville, in parte pubblicati nella raccolta
Critica e clinica107; e, ancora, un capitolo del libro
Conversazioni108 dal titolo “Sulla superiorità della
letteratura anglo-americana”. Ma non solo. I
riferimenti nel campo letterario si inseriscono nella
107 G. Deleuze, Critica e clinica, trad. it. a cura di A. Panaro, Milano, Raffaello Cortina, 1996 (ed. originale: 1990). 108 G. Deleuze e C. Parnet, Conversazioni, op. cit.
120
trama concettuale di quasi tutti gli scritti di Deleuze,
anche quelli di maggior impegno teoretico: basti
ricordare la sua opera, Logica del senso109, nella
quale espone una formulazione paradossale della
teoria del senso con un esperimento di lettura dello
stoicismo alla luce delle singolari opere letterarie del
matematico Lewis Carrol (Alice nel paese delle
meraviglie, Attraverso lo specchio, Sylvie e Bruno).
Bisogna precisare, però, che questo rapporto tra
letteratura e filosofia non va, secondo Deleuze,
frainteso. C’è un “divenire filosofia” della letteratura
che non va assolutamente confuso con la filosofia,
perché, come preciserà in una delle sue ultime opere
– Che cos’è la filosofia? – è un altro tipo di
creazione che trova la sua specificità nel compiersi
109 G. Deleuze, Logica del senso, trad. it. a cura di M. De Stefanis, Milano, Feltrinelli, 1979, (ed. originale: 1969).
121
su un piano diverso da quello filosofico e nel
costituirsi su componenti percettive ed affettive,
anziché concettuali. Di conseguenza, per il filosofo
la letteratura rappresenta una importante esperienza
non-filosofica che tuttavia lo stimola a pensare.
La tesi principale avanzata da Deleuze, per un
corretto approccio alle opere letterarie non è quella
di certe interpretazioni o letture in chiave
psicoanalitiche, intimistiche o archetipiche. La
letteratura non ha niente a che vedere con
l’interiorità ed i suoi fantasmi. È quanto si evince dai
testi monografici sopra citati. In Marcel Proust e i
segni110, Deleuze ci dice che sarebbe facile fare del
famoso testo Alla ricerca del tempo perduto una
fenomenologia della memoria. Invece, piuttosto
110 G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, trad. it. a cura di C. Lusignoli, Torino, Einaudi, 1967, (ed. originale: 1964).
122
della memoria che s’inscrive all’interno del soggetto
come il prodotto di certe operazioni trascendentali,
la questione centrale della “ricerca” di Proust è una
creazione di qualcosa che non esiste prima di un
«apprentissage»111 secondo diversi percorsi
temporali. Ad ogni specie di segni, corrisponde una
linea di tempo particolare: “I segni mondani
implicano soprattutto un tempo che perdiamo,
mentre i segni amorosi abbracciano particolarmente
il tempo perduto. I segni sensibili ci fanno spesso
ritrovare il tempo, c’è lo restituiscono in seno al
tempo perduto. I segni dell’arte, infine, ci danno un
tempo ritrovato, tempo originale assoluto che
comprende tutti gli altri”112. L’essenziale non è
111 Ibidem, pag. 8: “Apprendere è cosa che concerne essenzialmente i segni. Questi sono appunto oggetto di un apprendimento temporale non di un sapere astratto. Apprendere significa anzitutto considerare una materia, un oggetto, un essere, come se emettessero segni da decifrare, da interpretare”. 112 Ibidem, pagg. 26-27.
123
ricordare, ma apprendere. La memoria, infatti, non
vale se non come una facoltà capace di interpretare i
segni, e il ricordo, ora volontario ora involontario,
interviene soltanto in momenti precisi
dell’apprendimento per contrarne l’affetto o aprire
una nuova via. Le nozioni della «ricerca» sono: il
segno, il senso, l’essenza. Quest’ultima rivelandosi
nelle prime due, essendo al tempo stesso la cosa da
tradurre e la traduzione, il segno e il senso. Essa si
avvolge nel segno per spingerci a pensare, si svolge
nel senso per essere necessariamente pensata.
Insomma, Deleuze caratterizza la «ricerca» come
una rifondazione del pensiero: “L’atto di pensare
non deriva da una semplice possibilità naturale; è
124
invece la sola creazione autentica. La creazione è la
genesi nell’atto di pensare nello stesso pensiero”113.
Leopold von Sacher-Masoch viene considerato da
Deleuze come scrittore ingiustamente sottovalutato e
vittima di una schiavitù intellettuale che la tradizione
psicoanalitica gli ha imposto, riducendolo alla
sindrome cosiddetta sadomasochista. Nel suo testo,
Presentazione di Sacher-Masoch114, anticipa la
critica, che successivamente farà insieme a Guattari,
nei confronti delle interpretazioni psicoanalitiche.
Ragionare secondo una sindrome sadomasochista,
Deleuze insiste, equivale a commettere un errore di
prospettiva: “Con troppa fretta si è portati a ritenere
che sia sufficiente rovesciare i segni, capovolgere le
pulsioni e pensare la grande unità dei contrari per 113 Ibidem, pag. 92. 114 G. Deleuze, Presentazione di Sacher-Masoch, trad. it. a cura di M. De Stefanis, Milano, Bompiani, 1978, (ed. originale: 1967).
125
ottenere Masoch a partire da Sade”115. Punto per
punto, Deleuze sviluppa una lettura dei due scrittori,
di Masoch in particolare, mostrando la loro profonda
disparità, i loro mondi incomunicanti, la loro tecnica
romanzesca senza alcun rapporto: “Sade si esprime
in una forma che associa l’oscenità delle descrizioni
al rigore apatico delle dimostrazioni; Masoch invece
si esprime in una forma che moltiplica i
disconoscimenti per far nascere nella freddezza, la
sospensione estetica”116. Inoltre fa anche un’analisi
minuziosa delle categorie psichiatriche del sadismo
e del masochismo rilevando la mancanza di un
terreno comune, perché, nei fatti, ad un segno
apparentemente connesso, si associa soltanto una
sindrome, dissociabile in sintomi irriducibili. In ogni
115 Ibidem, pag. IX (Premessa dell’autore). 116 Ibidem, pag. 138.
126
caso, “malati” o clinici, ed entrambi
contemporaneamente, Sade e Masoch sono anche
grandi antropologi, conclude Deleuze, nello stile di
coloro che sanno investire la propria opera di una
completa concezione dell’uomo, della cultura e della
natura; grandi artisti nello stile di coloro che sanno
estrarre nuove forme, creare nuovi modi di percepire
e di pensare, costruire un nuovo linguaggio117.
Sulla linea delle nuove concezioni teoriche
sviluppate ne L’Anti-Edipo si trova il suo terzo
studio monografico, Kafka. Per una letteratura
minore118, scritto in collaborazione con Guattari. Lì i
due autori proseguono la loro critica nei confronti di
ogni interpretazione psicoanalitica, e nella
fattispecie di questo autore, Kafka, molto spesso 117 Ibidem, pag. 4. 118 G. Deleuze e F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. a cura di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1975, (ed. originale: 1975).
127
ritenuto un esempio classico per letture in chiave
edipica o, anche, in chiave mitica o archetipica.
Certo è lo stesso Kafka a gettare l’amo. I burocrati
non sono altro che sostituti del padre; o, piuttosto, è
il padre che viene considerato come una
concentrazione di tutte le forze dalle quali il figlio
(Kafka) rimane sottomesso. Deleuze e Guattari
argomentano che la legge, la colpevolezza e
l’interiorità sono presenti in tutta l’opera di Kafka,
ma solo in quanto il tutto viene fatto scivolare lungo
le linee di fuga del desiderio. Essi trattano Kafka
come un fautore dell’“immanenza del desiderio”, in
contrasto con le peggiori interpretazioni che mettono
in campo la trascendenza della legge e l’interiorità
della colpa: “Il primato della scrittura di Kafka,
significa una sola cosa: non letteratura, certo, bensì
128
un’enunciazione che faccia tutt’uno con il desiderio,
al di sopra delle leggi, degli stati, dei regimi. Nessun
autore è stato mai tanto comico e gioioso dal punto
di vista del desiderio, tanto politico e sociale dal
punto di vista dell’enunciato”119. Inoltre, essi
considerano Kafka non come uno scrittore di genio,
che esprime un discernimento superiore sulla sua
vita intima, ma come uno scrittore di “letteratura
minore”. Per letteratura minore, i due autori
intendono una scrittura che sottopone la lingua
maggiore (per Kafka il tedesco)120 ad un processo di
variazione continua, rendendola così una lingua
intensamente espressiva, piuttosto che significante.
La letteratura minore non è quella riferita ad una di
lingua minore, ma quella che una minoranza esprime
119 Ibidem, pag. 67. 120 Kafka era un ebreo cecoslovacco che scriveva in tedesco.
129
in una lingua maggiore; o, anche, una scrittura che
esprime i tentativi di tracciare linee di fuga dalla
maggioranza o da formazioni molari sociali. È,
dunque, una scrittura che concatena il testo ad una
lotta micro-politica. In definitiva, l’aggettivo
“minore”, precisano Deleuze e Guattari, non
qualifica più certe letterature, ma le condizioni
rivoluzionarie d’ogni letteratura all’interno di
quell’altra che prende il nome di “grande”.
In una delle ultime pubblicazioni, Critica e clinica,
Deleuze afferma che la letteratura è una questione in
divenire che attraversa il vivibile e il vissuto.
Scrivere non è raccontare i propri ricordi, i propri
viaggi, i propri amori e i propri lutti, i propri sogni e
i propri fantasmi, a meno di farne l’origine o la
destinazione collettive di un popolo minore, o di tutti
130
i popoli che trovano la loro espressione solo
attraverso e nello scrittore. La letteratura è delirio,
ma non quello che innalza una razza alla pretesa
d’essere pura e dominatrice, ma quello che invoca
quella razza oppressa che interrottamente si agita
sotto le dominazioni, resiste sotto tutto ciò che
schiaccia e imprigiona. Fine ultimo della letteratura
è liberare una funzione fabulatrice che incomincia
solo quando nasce in noi una terza persona che ci
spoglia del potere di dire io, scoprendo una diversa
possibilità di vita121. È quanto hanno saputo fare
alcuni scrittori anglo-americani (F. S. Fitzgerald, T.
Hardy, H. Melville, D. H. Lawrence, V. Woolf, H.
Miller, J. Kerouac), sostiene Deleuze, rilevandone la
superiorità rispetto alla letteratura europea. La forza
121 G. Deleuze, Critica e clinica, op. cit., pag. 17.
131
della letteratura anglo-americana sta nel rigettare
l’idea del libro come una rappresentazione della
realtà e tutti i problemi adiacenti all’immagine
dogmatica della letteratura, e nel regalarci, invece,
un libro percorso da “flussi” intensivi sempre in
divenire: “Scrivere non ha altra funzione: essere un
flusso che si congiunge ad altri flussi – tutte le forme
di divenire minoritario nel mondo. Un flusso è
qualcosa d’intensivo, istantaneo e mutante fra una
creazione e una distruzione… la scrittura opera la
congiunzione, la trasmutazione dei flussi, attraverso
i quali la vita sfugge al risentimento delle persone,
delle società e dei regni”122.
122 G. Deleuze e C. Parnet, Conversazioni, op. cit., pagg. 59-60.
132
5.2 Sul cinema
Deleuze, dopo essere stato a lungo semplice
spettatore, decise di scrivere sul cinema,
pubblicando due consistenti volumi: Cinema 1.
L’immagine-movimento123 e Cinema 2. L’immagine-
tempo124. Deleuze non è solamente il primo
importante filosofo a tentare un’analisi dettagliata
del cinema (molti altri filosofi hanno scritto sul
cinema), ma, soprattutto, è il primo a considerare il
cinema come una forma d’arte a sé stante. Nella
premessa ai due volumi, sostiene che i grandi autori
del cinema possono essere paragonati non soltanto
ad altri artisti, quali architetti, pittori, o musicisti, ma
anche agli intellettuali che pensano attraverso
123 G. Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento, trad. it. a cura di J. P. Manganaro, Milano, Ubulidri, 1984, (ed. originale: 1983). 124 G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, trad. it. a cura di L. Rampello, Milano, Ubulibri, 1989, (ed. originale: 1985).
133
immagini-movimento e immagini-tempo, invece che
per concetti. Procedendo nella prospettiva di una
storia naturale del cinema, il suo intento dichiarato è
quello di stabilirne una tassonomia, una
classificazione delle immagini e dei segni, e perciò
fa spesso riferimento al lavoro del logico americano
Peirce125. Un altro supporto importante, sul quale
Deleuze ha basato le sue argomentazioni teoriche,
sono le riflessioni sulla natura del movimento e del
tempo nell’opera Matière e Mémoire di H. Bergson.
Nel primo dei due volumi, Deleuze analizza
l’evoluzione dell’arte cinematografica dalla nascita
fino alla seconda guerra mondiale; quest’ultima
viene considerata una sorta di spartiacque fra due
125 L’opera di C. S. Peirce è stata pubblicata con il titolo di Collected Papers, Harvard University Press, in otto tomi. In italiano è stata tradotta, tra l’altro, un’antologia dei principali testi di argomento semiotico: C. S. Peirce, Semiotica, trad. it. a cura di M. A. Bonfantini, L. Grassi, R. Grazia, Torino, Einaudi, 1980.
134
modi molto diversi di fare cinema. L’analisi
comincia con una rifondazione dei concetti di
immagine e di movimento. L’immagine non è
rappresentazione di qualcosa, ovvero un segnale
linguistico. Questa definizione si rifà alla vecchia
distinzione platonica tra forma e materia ed alla
struttura composta di significante e significato
teorizzata da Saussure.
Deleuze, piuttosto, riallacciandosi all’opera
sopraccitata di Bergson, considera le immagini come
corpi – «si dica che il mio corpo è materia, o si dica
che è immagine…»126 – e il movimento inseparabile
dai corpi-immagini. Ci troviamo, in effetti, davanti
all’esposizione di un mondo in cui l’immagine è
equivalente al movimento, e dove la materia non è
126 H. Bergson, Materia e memoria, trad. it. a cura di A. Pessina, Bari, Laterza, 1996, (ed. originale: 1896).
135
qualcosa che sarebbe nascosta dietro l’immagine, ma
al contrario, è identità assoluta di immagine e
movimento127. Così, le prime maniere di fare cinema
sono caratterizzate, per Deleuze, da quello che lui
chiama schema sensorio-motrice. Quest’ultimo è
l’unità di ciò che è visto e dell’occhio che vede, in
movimento dinamico. Il cinema, sebbene proceda
con fotogrammi che sono delle sezioni immobili di
tempo (sequenze di 18 o 24 fotogrammi al secondo),
ci restituisce un’immagine media (ovvero risultante
della somma di tutti i fotogrammi) a cui il
movimento non si aggiunge astrattamente, ma che
appartiene, invece, all’immagine come dato
immediato. Attraverso la cinepresa mobile ed il
montaggio, il cinema non ci offre un’immagine alla
127 G. Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento, op. cit., pag. 76.
136
quale aggiungerebbe, solo in un secondo momento,
il movimento, ma ci dà immediatamente
un’immagine-movimento.
Attraverso l’inquadratura, la macchina da presa
ritaglia dallo spazio aperto del mondo un sistema
chiuso, una sezione mobile del tempo-durata, un
sottoinsieme fatto di immagini, di personaggi e di
oggetti posti in relazione dinamica tra loro.
L’inquadratura, il piano, il montaggio sono i mezzi
attraverso i quali il cinema costruisce il suo sistema
di relazioni tra immagini. L’inquadratura è il punto
di vista, il sistema chiuso che comprende tutto ciò
che è presente nell’immagine. Il piano rappresenta il
movimento stesso, il rapporto tra le parti e il
cambiamento che ne scaturisce e l’immagine-
movimento stessa, la sezione mobile della durata,
137
secondo la visione bergsoniana. Infine, il montaggio
rappresenta il tutto del film, l’idea che ci fa dono di
un’immagine della durata e del tempo effettivi. Il
cinema, attraverso il montaggio, arriva a dare
un’immagine del tempo che può essere indiretta, se
proveniente dalle immagini-movimento e dai loro
rapporti, o diretta, se legata alle immagini-tempo.
Cinema 1 tratta, appunto, gli autori che realizzano il
primo tipo di montaggio. Tra gli autori di immagini-
movimento Deleuze individua, a sua volta, diverse
forme di montaggio utilizzate: la tendenza organica
della scuola americana (Griffith), la tendenza
dialettica della scuola sovietica (Eisenstein, Vertov,
Pudovkin, Dovzenko), la tendenza quantitativa della
scuola francese d’anteguerra (Vigo) e, infine, la
tendenza intensiva della scuola espressionista
138
tedesca (Murnau, Wegener, Whale). Qualunque sia
la forma di montaggio scelta, la macchina da presa
agisce come una coscienza giudicante, ritaglia una
visione particolare dal flusso continuo della materia
e, isolando una sezione nell’insieme infinito delle
immagini, agisce come lo schermo nero posto dietro
la lastra fotografica che fa sì che l’immagine si
distacchi. Ma il montaggio non è mai fatto con una
sola specie di immagini e che un film, almeno nelle
sue caratteristiche più semplici presenta sempre la
predominanza di un certo tipo di immagine128.
Perciò, Deleuze costruisce una vasta tassonomia di
immagini cinematografiche, elaborandola sulla scia
del sistema di classificazione generale delle
immagini e dei segni stabilito dal logico americano
128 Ibidem, pag. 90.
139
Peirce. In Cinema 1 troviamo tre tipi principali di
immagini a costituire l’immagine movimento:
immagini-affezioni (rappresentano la «primità»
secondo la semiotica di Peirce), immagini-azione
(«secondità»), immagini-relazione («terzità»). Il
primo piano cinematografico è un’immagine-
affezione, e il suo ruolo è quello di astrarre
l’immagine dalle coordinate spazio-temporali per
trasformarla in icona, espressione pura di un affetto
che non esiste separatamente da ciò che lo esprime.
(Il film affettivo per eccellenza è, secondo Deleuze,
La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer).
L’immagine-azione o «secondità» rappresenta tutto
ciò che esiste solo opponendosi a qualcos’altro,
come in una relazione duale: azione-reazione,
eccitazione-risposta, situazione-comportamento. Ci
140
troviamo all’interno della categoria del reale,
dell’attuale, dell’esistente, dove le qualità e le
potenze si attualizzano in stati di cose particolari.
Siamo nell’ambito del realismo, il genere che ha
fatto trionfare universalmente il cinema americano: i
film psicosociali (Vidor, Kazan), i film western
(Ford), i film storici (Griffith, De Mille, Hawks).
All’ultima categoria, detta «terzità», appartengono
quella specie di immagini che hanno una relazione
astratta con il senso che veicolano (immagini-
relazione). Queste immagini rendono il film più
difficile: esse vanno interpretate in quanto non sono
leggibili intuitivamente e il loro senso va cercato
nella storia che le riguarda, nella loro funzione di
simbolo all’interno della cultura a cui appartengono,
nel tessuto relazionale in cui sono inserite. Ma sono
141
proprio queste immagini ad avvicinare il cinema al
pensiero e ad allontanarlo dai luoghi comuni.
L’immagine mentale mette in crisi l’immagine
tradizionale del cinema e anche se si continuano a
fare film d’azione, essi non esprimono più la vecchia
anima del cinema che ora esige sempre più pensiero.
La crisi dell’immagine-azione dipende, secondo
Deleuze da molte variabili: dalla guerra e dalle sue
conseguenze, dal vacillare del sogno americano,
dall’inflazione delle immagini nel mondo esterno e
nella mente della gente e dall’influenza sul cinema
della nuove tipologie del racconto, già sperimentante
dalla letteratura.
Con l’immagine mentale, l’immagine-movimento
arriva al proprio limite: al di là di essa troviamo
l’immagine-tempo, costituita a sua volta da
142
immagini ottico-sonore pure, immagini-ricordo,
immagini-sogno, fino ad arrivare alle immagini-
cristallo. Dopo la seconda guerra mondiale, il
neorealismo, in Italia, e la nouvelle vague, in
Francia, inaugurano un nuovo cinema che Deleuze
definisce del “veggente”. Alle situazioni senso-
motorie del vecchio cinema d’azione realista si
sostituiscono situazioni puramente ottiche e sonore: i
personaggi dei nuovi film sembrano divenuti essi
stessi spettatori di una situazione che subiscono
senza poter reagire. Il personaggio è come
consegnato ad una visione, piuttosto che impegnato
in un’azione (De Sica, Truffaut). Gli ambienti e gli
oggetti che popolano le inquadrature acquistano
valore per se stessi (Visconti, Antonioni). La realtà
trascorre nell’immaginario e ne esce deformata dal
143
pensiero, diviene una nuova realtà creata dalla mente
attraverso la parola e la visione, finché attuale e
virtuale, reale e immaginario si fanno indiscernibili
(Fellini). Le nuove immagini che esprimono il
divenire, il passaggio, rappresentano l’essenza del
tempo. Immagini visive e sonore rendono sensibili il
tempo e il pensiero e fanno di essi uno strumento di
conoscenza.
L’immagine ottico-sonora rievoca l’immagine-
ricordo: un’immagine attuale (descrizione) si
concatena con un’immagine virtuale (ricordo)
componendo un circuito che va dal presente al
passato per tornare al presente, attraverso il
meccanismo del flash-back. Attraverso questo tipo
di montaggio (di cui Mankiewicz è il più grande
maestro, secondo Deleuze) si producono relazioni
144
non lineare tra le situazioni, si impongono svolte e
rotture di causalità nella narrazione. Anche le
immagini-ricordo, come quelle ottico-sonore pure,
instaurano un circuito di indiscernibilità tra
l’attualità del presente e la virtualità del ricordo. Le
immagini-sogno, invece, emergono quando non si
riesce a ricordare e l’immagine attuale del presente
entra in contatto con l’elemento virtuale del sogno.
Tra le immagini sogno Deleuze pone anche i film
della commedia musicale (Minnelli).
Infine, l’immagine-cristallo: essa si produce quando
“l’immagine ottica attuale si cristallizza con la
propria immagine virtuale”129, quando l’immagine
presenta una doppia faccia insieme attuale e virtuale,
producendo una nuova forma di indiscernibilità.
129 G. Deleuze, Cinema 2. l’immagine-tempo, op. cit., pag. 83.
145
Tuttavia, l’immagine-cristallo non ha una natura
mentale o psicologica, ma esiste fuori dalla
coscienza e nel tempo, quasi come un frammento di
tempo allo stato puro. Il passato si forma
contemporaneamente al presente, e non dopo di
esso, e, dunque, il tempo si sdoppia in ogni istante
nell’immagine attuale del presente che passa e
nell’immagine virtuale del passato che si conserva,
fino a formare un circolo. Tra i numerosi autori di
immagini-cristallo, ricordati da Deleuze, ci sono:
Welles, Tarkovskij, Resneis.
Con l’immagine-tempo il montaggio tende quasi a
scomparire a vantaggio del piano-sequenza e della
profondità di campo: l’uno trasmette il senso di
continuità della durata, l’altro (sperimentato da
Welles) facendo comunicare lo sfondo con il primo
146
piano, il lontano con il vicino, rappresenta il
rapporto tra passato e presente, ovvero
un’immagine-tempo diretta. L’immagine-tempo
inaugura uno stile frammentato che abbandona
l’idea di montaggio come associazione,
concatenamento tra le immagini. Mentre il cinema
classico costruiva sequenze di montaggio secondo
leggi di associazione o di opposizione che sfociava
poi in concetti, il cinema moderno instaura un nuovo
regime consistente nel fatto che le immagini, le
sequenze non si concatenano più attraverso
interruzioni razionali, che portano a termine la prima
o danno inizio alla seconda, ma si riconcatenano su
interruzioni irrazionali che non appartengono più a
nessuna delle due e hanno valore per se stesse (i film
147
di Godard sono esemplari per questo nuovo tipo di
montaggio)130.
Nella conclusioni, Deleuze afferma che il cinema
non è una lingua universale o primitiva, e nemmeno
un linguaggio; rimanda, piuttosto, ad una materia
intelligibile (immagini pre-linguistiche e segni pre-
significanti) come presupposto necessario attraverso
cui il linguaggio costruisce i propri “oggetti”.
Quindi, insiste Deleuze, bisogna distinguere la
semiotica cinematografica da quella d’ispirazione
linguistica, la quale tende a chiudere su se stessa il
significante e ad escludere il linguaggio dalle
immagini e dai segni che ne costituiscono la materia
prima: “Al contrario, si chiama semiotica
(cinematografica) la disciplina che non considera il
130 Ibidem, pag. 284.
148
linguaggio se non in relazione a questa materia
specifica, immagini e segni”131.
5.3 Sulla pittura
Uno degli ultimi libri di Deleuze sull’arte è dedicato
al pittore inglese Francis Bacon. Nella premessa (e
come suggerisce il titolo stesso del libro: Francis
Bacon. Logique de la sensation132) viene evidenziato
che quest’opera è un tentativo di costruire una logica
della «sensazione colorante» attraverso lo studio dei
diversi aspetti riscontrati nei quadri del pittore.
Ognuno di questi aspetti, a sua volta, rinvia a
sequenze particolari della storia della pittura, poiché
come dice Deleuze: “Ciascun pittore alla sua
131 Ibidem, pag. 289. 132 G. Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation Vol. I-II, Paris, Editions de la Diffèrence, 1984.
149
maniera riassume la storia della pittura”133. Quindi, è
l’intera storia della pittura ad essere coinvolta
nell’analisi di questo libro. Deleuze inizia con
l’esaminare il rapporto tra la “figura” e la
rappresentazione, argomentando sull’inadeguatezza
del fatto che la figurazione tende in pittura a farsi
sempre illustrazione di un racconto; ma ciò significa
subordinare la pittura alla letteratura, ripresentare un
avvenimento già accaduto: un “nulla-di-fatto”. Se si
vuole penetrare più fedelmente possibile la
rappresentazione, dice Deleuze, il prezzo da pagare è
quello di liberarsene. Raccontare una storia, in
pittura, non è interessante, il problema è quello di
riuscire a “far nascere sensazioni”. Per Bacon si
tratta di uscire dal potere magico del cliché-
133 Ibidem, pag. 79.
150
fotografia. Come salvare una figura che non sia
calco, come disorganizzare un insieme visivo
probabile (la prima figurazione) per far nascere,
attraverso tratti manuali liberi (accidenti), la figura
visiva improbabile, restando fedeli alla carne?134 Si
può sfuggire al figurativo verso l’astratto, oppure
isolando la figura, estraendola per scongiurare il
carattere narrativo e illustrativo. Bacon sceglie la
seconda strada135. Bacon, sostiene Deleuze, per
dipingere «la sua sensazione e il suo sentimento di
vita»136 non può far altro che «deformare»,
distendere il segno e il colore al di là dei canoni
estetici e della rappresentazione spaziale realistica: 134 La fascinazione di Bacon nei confronti della carne: «È sicuro, siamo della carne, delle carcasse in potenza, carne comune tra uomo e bestia, l’uomo che soffre è una bestia e la bestia che soffre è un uomo… pietà per la carne, la carne disossata, tutta la carne è una testa senza volto», (Deleuze, nel suo libro, cita spesso delle frasi tratte da un testo di Bacon: L’art de l’impossible, Entretiens avec David Sylvester, Genève, Skira, 1976). 135 Bacon rimprovera all’arte astratta la mancanza di una vera tensione, una povertà di sensazione. 136 Citazione di Deleuze dal testo: Francio Bacon, L’art de l’impossible,op. cit.
151
alla figurazione si aggiunge una sorta di equilibrio
precario o senso di caduta. La carne scende dalle
ossa, il corpo scende dalle braccia o dalle cosce
rizzate: la caduta diventa il movimento più interiore
di qualunque sensazione, il suo infinitesimo scarto o
“clinamen”. Bacon prende la bocca è «sente» di
doverla prolungare, in modo che essa vada da una
parte all’altra della testa e ne pulisce una sezione con
la spazzola, una scopa, una spugna o uno straccio.
Poi chiama questa operazione un «diagramma»; di
colpo si introduce un deserto, una zona di Sahara,
una pelle di rinoceronte vista al microscopio. Sahara,
pelle di rinoceronte: «Il mondo del disegno è
sprofondato, crollato come in una catastrofe»137,
diceva Cézanne, e la catastrofe è arrivata sulla tela
137 Citazione di Deleuze dal testo: Francis Bacon, L’art de l’impossible,op. cit.
152
per dissolvere i dati figurativi probabilistici. Ma
Bacon vuole uscire dal confuso, dal cliché del pre-
pittorico, senza cadere nell’astrattismo o
nell’informale. Secondo Deleuze, la preoccupazione
di Bacon è quella già di William Blake: salvare il
contorno ed impedire a ciò che egli chiama
diagramma di non essere più operatorio o sotto
controllo. Bacon vuole uscire dalla catastrofe con
una figura di carne, lavorandola, per cercarne il
«motivo», l’analogia, cioè una certa evidenza, una
certa presenza che s’impone immediatamente138 -
come in un quadro del 1946, The painting139, dove la
possibilità ideale di un uccello che si posa su un
campo qualunque diventa la «matter of fact»140 di
138 G. Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, op. cit., pag. 75. (trad. mia). 139 Ibidem, Vol. II – Peintures, quadro 28. 140 Citazione di F. Bacon riportata in inglese nel testo di Deleuze.
153
una macelleria/crocefissione,
in cui le braccia della carne
aperta sembrano ali di
uccello.
Questa via della figura
improbabile, dice Deleuze, è
quella a cui Cézanne dà un nome semplice: la
sensazione. La figura è la forma sensibile portata
alla sensazione; essa agisce immediatamente sul
sistema nervoso, che appartiene alla carne. Invece la
forma astratta s’indirizza al cervello, agisce per
intermediazione del cervello, più vicino all’osso.
Tutti i grandi pittori, non solo Bacon, dice Deleuze,
si propongono direttamente di liberare le presenze
sotto la rappresentazione, oltre la rappresentazione:
di dipingere le forze sconosciute che agitano i corpi.
154
È il sistema dei colori, in pittura, a prendere la
valenza di queste forze agendo direttamente sul
sistema nervoso: “Il colore è nel corpo, la sensazione
è nei corpi, e non nell’aria. La sensazione è ciò che è
dipinto. Ciò che è dipinto nel quadro, è il corpo, non
in quanto esso è rappresentato come oggetto, ma in
tanto che esso è vissuto come provante tale
sensazione (ciò che Lawrence, parlando di Cézanne,
chiamava «l’essenza singolare della mela»)”141.
Bacon, grazie ai rapporti di tonalità che generano
volumi solo per la disposizione dei diversi colori,
reintroduce la necessità di quella visione «prensiva»
(rievocato dalla pittura egiziana), in cui l’occhio
scopre la sua funzione tattile, vera risorsa della
sensazione manuale. Non bisogna più tenere conto
141 Ibidem, pag. 27.
155
dei rapporti di valore del chiaro/scuro, del contrasto
tra l’ombra e la luce, per privilegiare la modulazione
come il luogo dei caldi e dei freddi, delle espansioni
e delle contrazioni. Questa sensazione colorante
(modulazione) non consiste solamente in quanto
detto sopra, ma anche nei regimi dei colori, nei
rapporti fra questi regimi, negli accordi tra toni puri
e toni spezzati: “Ciò che chiamiamo visione
«prensiva», è questa sensazione del colore. Questa
sensazione, o questa visione, costituisce una totalità
tanto più che i tre elementi della pittura, struttura,
figura e contorno, comunicano e convergono nel
colore”142.
Deleuze individua tre periodi successivi in Bacon,
circa il modo di presentarci questa totalità. In
142 Ibidem, pag. 96.
156
principio, nei suoi quadri semplici, c’era il passaggio
in un doppio movimento, dalla struttura materiale, o
sfondo piatto, alla figura e viceversa, attraverso il
terzo elemento, il contorno come membrana: in
gioco erano soprattutto le forze di isolamento, di
deformazione e di dissipazione della figura. Poi il
movimento si trasporta tra le figure stesse, che
proliferano e si accoppiano in una risonanza della
sensazione, in un rapporto intenso e melodico.
Infine, con la serie dei trittici, c’è un terzo tipo di
movimenti e di forze, in cui non è più una figura che
raggiunge lo sfondo piatto (o struttura), ma sono i
rapporti tra le figure a trovarsi violentemente gettati
sullo sfondo, in un colore uniforme e in una luce
cruda, come dei «trapezisti» il cui solo ambiente
naturale è la luce e il colore, il loro essere ritmico.
157
Tra le figure che osservano come testimoni apparenti
la scena, un ritmo, testimone invisibile, passa per i
tre pannelli facendone vibrare, lungo l’orizzontale,
l’equilibrio cromatico: “Gli esseri-figure si separano
cadendo nella luce nera. Tutto diviene aereo in
questi trittici di luce, la separazione stessa è
nell’aria. Il tempo non è più nel cromatismo dei
corpi, esso passa in un’eternità monocromatica. È un
immenso spazio- tempo che riunisce tutte le cose,
ma introducendo tra esse le distanze di un Sahara, i
secoli di un Aiôn”143. Rendere il tempo sensibile in
se stesso, qualche trittico riuscito: è il compito
comune al pittore, al musicista e allo scrittore - al
prezzo di sforzi inauditi, per la cosa più naturale di
questo mondo, la mela di Cézanne o il seme di
143 Ibidem, pag. 56.
158
girasole di Van Gogh. Dopo tutte le serie di corpi
deformati, dell’animale e
la carne in noi, delle
figure accoppiate,
Deleuze ci dice che è lo
stesso Bacon a suggerirci
di aver voluto sempre
dipingere il grido; non un
mondo dell’orrore, perché nell’orrore c’è ancora una
figurazione primaria, una storia, forse la violenza
della sua Irlanda, del nazismo e della guerra. Ma il
papa Innocenzo X144, stravolto da Velasquez, che
grida, non ha più nulla dell’orrore: è preso in una
lotta con l’ombra e grida alla morte, non quella
visibile che ci fa soccombere, piuttosto, la forza
144 Ibidem, Vol. II- Peintures, quadro 57.
159
invisibile che è la vita da scoprire, da «rendere
visibile». Per una volta almeno la morte viene
giudicata dal punto di vista della vita, e non
inversamente. Contro ogni rappresentazione legata
al sensazionalismo a tutti i costi, Bacon crea una
figura della vita sempre più forte, indomabile per
insistenza e presenza, proprio nel momento in cui
rappresenta l’orribile, la mutilazione, la protesi, il
fallimento e la caduta. Non più la violenza dello
spettacolo, ma quello della sensazione, il momento
intorno a cui si costituisce una forza, un’affezione,
un pensiero.
160
CAPITOLO SESTO
La pratica filosofica costruttivista
6.1 La filosofia e i suoi rivali
La ricerca filosofica iniziata in Grecia, individuava
già nell’opinione, nella doxa, l’avversario contro il
quale definire la specificità di un pensare
diversamente. Alla superficialità dell’opinione, il
filosofo contrappone una elaborata concezione di
pensiero che apre uno squarcio negli assetti
consolidati e irrigiditi del comune pensare, che
rimanda all’irrompere del nuovo, a un’inedita
combinazione di forze. Per Deleuze, tuttavia, la
filosofia, nel suo sviluppo attraverso i secoli, non è
certo rimasta fedele alla propria vocazione critica,
161
creativa e costruzionista. Da qui, il suo attacco
all’affermarsi, come orizzonte egemone, di una
“immagine dogmatica del pensiero”, che ha fatto
della filosofia “un genere ufficiale e referenziale”,
un discorso astratto e universale il cui solo obiettivo
è quello di occultare ed anestetizzare il gioco delle
forze inerente ad ogni atto di pensiero: “La filosofia
è compenetrata dal progetto di trasformarsi nella
lingua ufficiale di uno stato puro. L’esercizio del
pensiero si conforma così ai fini dello stato reale,
alle significazioni dominanti come pure dell’ordine
stabilito”145. Il percorso di un apprendistato in
filosofia indicato da Deleuze va in tutt’altro senso: il
filosofo non deve rappresentare o giudicare, ma
praticare una sperimentazione intellettuale,
145 G. Deleuze e C. Parnet, Conversazioni, op. cit., pag. 19.
162
sottraendosi a qualsiasi servilismo nei confronti del
potere stabilito ed evitando di mettersi al servizio del
buon senso o di rivestire un ruolo di funzionario
sociale. Nel suo ultimo libro scritto con Guattari,
Che cos’è la filosofia?146 pone esplicitamente la
questione dell’“utilità” della filosofia e della sua
specifica funzione pedagogica. Nell’introduzione, i
due autori mettono subito in chiaro che cos’è la
filosofia e, cosa non meno importante, ciò che non è.
La loro risposta alla prima domanda è ben nota: “La
filosofia è l’arte di formare, di inventare, di
fabbricare concetti”147. La filosofia si identifica con
l’attività di costruire, di creare concetti: un’attività di
creazione perché alla filosofia concerne creare e non
scoprire, e questa creazione riguarda i concetti 146 G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, trad it. a cura di A. de Lorenzis, Torino, Einaudi, 1996, (ed. originale: 1991). 147 Ibidem, pag. X.
163
perché questi sono la materia ed il prodotto della
filosofia, la sua specificità: “Creare concetti sempre
nuovi è l’oggetto della filosofia. È proprio perché il
concetto deve essere creato, che esso rinvia al
filosofo come a colui che lo possiede in potenza o
che ne ha la potenza e la competenza… I concetti
non sono già fatti, non stanno ad aspettarci come
fossero corpi celesti. Non c’è un cielo per i concetti;
devono essere inventati, fabbricati o piuttosto creati
e non sarebbero nulla senza la firma di coloro che li
creano”148. I due autori, quindi, sottopongono a dura
critica tre prospettive molto comuni quando oggi si
cerca di definire la filosofia: secondo loro, la
filosofia non è contemplazione, né comunicazione,
né riflessione. La filosofia non è contemplazione,
148 Ibidem, pag. XIII.
164
come per molto tempo si è ritenuto per ispirazione
platonica, perché la contemplazione, anche
dinamica, non è creativa; consiste nella visione della
cosa stessa, considerata preesistente ed indipendente
dal proprio atto di contemplare, e non ha nulla a che
vedere con la creazione dei concetti. E neppure
comunicazione: ciò è detto contro certi sostenitori di
un pensiero contemporaneo che propongono una
“comunicazione democratica”; perché la
comunicazione può rinviare soltanto al consenso,
mai al concetto; e il concetto, molte volte, è più
dissenso che consenso. In ultimo, la filosofia non è
riflessione, semplicemente perché la riflessione non
è specifica dell’attività filosofica: “Non è riflessione
perché nessuno ha bisogno della filosofia per
riflettere su una cosa qualsiasi: si crede di concedere
165
molto alla filosofia facendone l’arte della riflessione,
ma al contrario le si sottrae tutto perché né i
matematici hanno mai atteso i filosofi per riflettere
sulla matematica né gli artisti sulla pittura o sulla
musica; dire che quando ciò accade essi diventano
filosofi è uno scherzo di cattivo gusto, tanto la loro
riflessioni appartiene alle rispettive creazioni”149.
Non possiamo identificare la filosofia con nessuno
di questi tre atteggiamenti perché nessuno di essi è
specifico della filosofia: “La contemplazione, la
riflessione, la comunicazione non sono discipline ma
macchine per formare degli Universali in tutte le
discipline”150.
Se la filosofia guadagna in densità ed identità come
impresa di creazione concettuale, allora perde ogni
149 Ibidem, pag. XIV. 150 Ibidem, pag. XV.
166
senso la questione, sempre discussa, dell’utilità della
filosofia o lo stesso annuncio, spesso ripetuto, della
sua morte, del suo superamento: “Quando è il caso e
il momento di creare dei concetti, l’operazione che
ne consegue si chiamerà sempre filosofia, anche se
le si desse un altro nome… Nient’altro può far
questo al suo posto. Certo la filosofia ha sempre i
suoi rivali, dai «rivali» di Platone fino al buffone di
Zarathustra. Oggi sono l’informatica, la
comunicazione, la promozione commerciale ad
essersi appropriate dei termini «concetto» e
«creativo» e sono questi «campioni del concetto» a
presentarsi come una razza spavalda che esprime
l’atto di vendere come il supremo pensiero
capitalista, il cogito della merce. La filosofia si sente
piccola e sola davanti a così grandi potenze, ma, se
167
proprio deve morire che almeno muoia dal
ridere”151.
Deleuze e Guattari concludono la loro dissertazione
su che cosa non è filosofia, escludendo anche quegli
atteggiamenti intellettuali che vedono la filosofia
come una forma di dibattito, di discussione, fedeli
all’agonismo greco delle origini. Nella prospettiva
della filosofia come creazione di concetti, la
discussione può fornire elementi per la creazione di
nuovi concetti, ma non è nella discussione che
consiste l’attività filosofica: “La filosofia ha orrore
delle discussioni, ha sempre altro da fare. Non
sopporta il dibattito, ma non perché sia troppo sicura
di sé: al contrario sono le incertezze che la spingono
verso altre più solitarie vie. Eppure Socrate non
151 G. Deleuze, Pourparles, op. cit., pag. 186, (trad. mia).
168
faceva della filosofia una libera discussione fra
amici? La conversazione degli uomini liberi non è
forse il culmine della socievolezza greca? In realtà
Socrate non ha mai smesso di rendere impossibile
qualunque discussione, sia con il rigido scambio di
domande e risposte, sia con il lungo rivaleggiare dei
discorsi. Ha trasformato l’amico in amico del suo
concetto, e il concetto nel monologo spietato che
elimina uno dopo l’altro i rivali”152.
6.2 La creazione concettuale
Il concetto assume un ruolo centrale nell’attività
filosofica di Deleuze; egli stesso, insieme a Guattari
nel libro sopraccitato, ne spiega la sua vera natura. Il
152 G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, op. cit., pagg. 18-19.
169
concetto è una molteplicità153, non una singola cosa
in se stessa: “Ogni concetto ha delle componenti…
non ci sono concetti ad una sola componente: anche
il primo concetto, quello da cui una filosofia
«comincia», ha numerosi componenti… ogni
concetto ha un contorno irregolare, definito dalla
cifra delle sue componenti. È per questo che, da
Platone a Bergson, si trova l’idea che il concetto sia
una questione di articolazione, di ritaglio e di
accostamento. È un tutto perché totalizza le sue
componenti, ma è un tutto frammentario”154.
Questo assemblaggio di componenti deve avere una
certa coerenza o consistenza (in questo senso il
153 Per fare la molteplicità non è sufficiente aggiungere uno (n+1). La molteplicità non è questione di numero. La molteplicità numerabile rimane, in qualche modo, sempre subordinata dell’unità. Diversamente essa non è fatta di unità, dice Deleuze: “ma di dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento… estensibili sopra un piano di consistenza da cui l’Uno è sempre sottratto (n-1)”, G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani, op. cit., pag. 42. 154 Ibidem, pag. 5.
170
concetto assomiglia al corpo di Spinoza), perciò che
il concetto può essere considerato come un punto di
condensazione o di accumulazione delle proprie
componenti: “Il concetto è in stato di «sorvolo»
rispetto alle sua componenti… è incorporeo, sebbene
si incarni o si realizzi nei corpi… il concetto dice
l’evento, non l’essenza o la cosa. È un evento
puro”155. Ciascun concetto può essere anche in
relazione con altri concetti per via di tematiche
simili che lo coinvolgono, e avendo elementi di
composizione simili; ma ciascun concetto è un tutto
frammentato che non si adatta ad altri concetti
perché i contorni non coincidono. Queste relazioni
fra concetti possono considerarsi, dice Deleuze, una
sorta di risonanze fra centri di vibrazione.
155 Ibidem, pagg. 10-11.
171
Il concetto non deve essere confuso con la
proposizione, come nella logica: “Il concetto non è
discorsivo, e la filosofia non è una formazione
discorsiva, perché essa non concatena
proposizioni”156. Le funzioni logiche di
esclusione/o, inclusione/e e così via, non rendono
giustizia alla natura delle relazioni concettuali: “Il
concetto non è affatto una proposizione, non è
proposizionale… Le proposizioni si definiscono a
partire dalla loro referenza e la referenza non
riguarda l’Evento, ma un rapporto con lo stato delle
cose o dei corpi, come anche le condizioni di tale
rapporto”157.
Non è necessario, invece, che il concetto abbia una
qualche referenza, piuttosto esso è intensivo ed
156 Ibidem, pag. 12. 157 Ibidem, pag. 13.
172
esprime l’esistenza virtuale di un evento nel
pensiero. (Un esempio è il famoso cogito cartesiano
che esprime l’individuo virtuale in relazione a delle
componenti virtuali implicite che si presentano come
verbi – dubitare, pensare, essere).
Infine, un concetto non ha relazione con la verità che
è una determinazione esterna, o presupposizione che
mette il pensato al servizio dell’immagine dogmatica
del pensiero: “Il pensiero è una forma o una
forza”158.
Per come i concetti agiscono, essi sono affettivi,
piuttosto che significativi, o espressivi di un
contenuto.
La creazione concettuale, precisano Deleuze e
Guattari, è inscindibile dalla creazione di altri due
158 Ibidem, pag. 144.
173
elementi fondamentali della filosofia: il personaggio
concettuale e il piano di immanenza. Il personaggio
concettuale è la figura del pensiero che dà forza
specifica ai concetti, la loro ragione d’essere. Non
bisogna confondere, però, questo personaggio con
nessun tipo psico-sociale, né con i filosofi, ma sono
creati come concetti: “I personaggi concettuali sono
dei pensatori, unicamente dei pensatori e i loro tratti
personalistici si ricongiungono strettamente ai tratti
diagrammatici del pensiero e ai tratti intensivi dei
concetti”159. Deleuze, insieme a Guattari, argomenta
sul fatto che questi personaggi concettuali, sebbene
spesso impliciti alla filosofia, siano decisivi per
capire il significato dei concetti. Essi prendono in
considerazione ancora il cogito cartesiano, il
159 Ibidem, pag. 59.
174
personaggio concettuale implicito è l’idiota, la
persona normale senza istruzione, inesperto di
filosofia, potenzialmente tradito dai suoi sensi, ma
comunque capace ancora di avere perfettamente
conoscenza chiara e distinta di questi ultimi,
attraverso la certezza dell’“io penso, dunque sono”.
Sono anche menzionati i famosi personaggi di
Nietzsche, sia simpatici che antipatici: Zarathustra e
l’Ultimo Uomo, Dioniso e il Crocifisso, Socrate e i
Sofisti, etc. I personaggi concettuali sono i requisiti
interni indispensabili, non-filosofici per la pratica
della creazione dei concetti. Questi personaggi, a sua
volta, sono riferiti ad un piano d’immanenza, ovvero
tra i personaggi e il piano d’immanenza c’è un
rapporto di presupposizione reciproca: “Il piano
assicura il raccordo dei concetti con delle
175
connessioni in perenne aumento e i concetti
assicurano il popolamento del piano su una
curvatura sempre rinnovata, sempre variabile. Il
piano di immanenza non è un concetto, né pensato
né pensabile, ma l’immagine del pensiero,
l’immagine che esso si dà di cosa significa pensare,
usare il pensiero, orientarsi nel pensiero…”160. È
questa un’altra immagine del pensiero molto diversa
da quella criticata precedentemente (il
trascendentale), in varie occasioni, da Deleuze. Ogni
volta che il trascendentale è evocato, il pensiero si
arresta e la filosofia è messa al servizio di idee
dominanti. Per Deleuze e Guattari, tutte le istanze
del trascendentale discendono dallo stesso problema:
“insistere sul fatto che l’immanenza sia immanente a
160 Ibidem, pagg. 26-27.
176
qualche cosa, grande Oggetto della contemplazione,
Soggetto della riflessione, Altro soggetto della
comunicazione”161.
Per applicarsi alla creazione nel pensiero, alla
formazione dei concetti, alla sua incarnazione nei
personaggi concettuali, è fondamentale che questi
operino “immanentemente”, senza la regola di un
qualcosa che presumi un piano di immanenza già
dato. Il piano di immanenza deve essere creato dai
filosofi tanto quanto i concetti che lo vengono ad
abitare.
6.3 Le tre discipline dell’atto creativo:
filosofia, arte e scienza. Un’ultima preoccupazione di Deleuze e Guattari, a
completamento della loro argomentazione
161 Ibidem, pag. 41.
177
sull’attività creativa, è di venire ad una
comprensione distinta dei rapporti spesso confusi tra
filosofia, arte e scienza. Loro affermano che
ciascuna di queste tre discipline coinvolge l’attività
del pensiero, e che, in ogni caso, è una questione di
creazione. Quello che differisce è il piano di
creazione e le entità di cui esso è popolato. Se la
filosofia opera per concetti e piani di immanenza che
le sono propri, l’arte si avvale di un piano di
composizione e di “percetti” ed affetti, mentre la
scienza, di un piano referenziale e di funzioni, anche
questi specifici alle rispettive discipline. L’arte si
occupa di creazione di “percetti” e di affetti, che
sono insieme delle sensazioni. I “percetti” non
vanno intesi come percezioni, in ciò che si riferisce
al percepire; allo stesso modo, gli affetti non sono
178
sentimenti o affezioni per qualcuno. Come abbiamo
visto per i concetti, anche gli affetti e i “percetti”
sono indipendenti e esistono fuori dall’esperienza di
un pensatore e non hanno referenza ad uno stato di
fatto: “Il lavoro artistico è un essere della sensazione
e null’altro: esiste in se stesso”162. Il correlato del
personaggio concettuale è la figura (che è stata
investigata in profondità nel testo di Deleuze su F.
Bacon), e per piano d’immanenza, l’arte si dispone
sul piano di composizione, che è allo stesso modo
immanente alla figura ed è popolato dalle forze pure
dei “percetti” e degli affetti.
La situazione con le scienze è simile. La scienza è
l’attività del pensiero che crea funzioni. Queste
funzioni, a differenza dei concetti, sono
162 Ibidem, pag. 168.
179
proposizionali, e ciò permette alla scienza di mettere
insieme un linguaggio deduttivo, senza tuttavia
l’implicazione di una relazione a-priori con la verità,
non più di quanto faccia la filosofia. La
formulazione delle funzioni consiste nel creare dei
punti di vista referenziali, ovvero una base dalle
quale le cose possono essere misurate. Così le prime
fondamentali funzioni sono quelle che stabiliscono
lo zero assoluto della scala di Kelvin, la velocità
della luce, etc., in relazioni alle quali un piano di
referenza è presunto. Il piano di referenza, sempre
immanente alle funzioni che lo popolano, guadagna
consistenza attraverso la forza e l’efficacia delle sue
funzioni. Anche nella scienza c’è la controparte dei
personaggi concettuali nella filosofia e delle figure
nell’arte: sono gli osservatori parziali. La figura
180
dell’osservatore parziale nella scienza, come nella
filosofia, frequentemente è implicito ed esiste per
dare orientamento alle funzioni. Un esempio è la
teoria della relatività di Galileo, le cui funzioni, a
riguardo la cosmologia, formano un piano di
referenza che sconvolge i piani precedenti basati su
una struttura trascendentale e religiosa.
L’osservatore parziale in questo caso sarebbe una
figura che definisce una funzione particolare
riguardo ad un fenomeno come la relazione del sole
e della luna (eliocentrismo).
Insomma, le tre discipline, filosofia, arte e scienza,
intese da Deleuze e Guattari come attività
specificatamente creative, sostengono una sfida di
fondamentale importanza contro un opinionismo
sempre più dilagante nella nostra cultura
181
contemporanea. I due autori riscontrano che siamo
immersi nell’opinione, presentata come l’unica
forma per vincere il caos che ci spaventa, ci
angustia; ma l’opinione non vince affatto il caos ma
fugge da esso, come se la fuga fosse possibile. E
così l’opinione si consolida nel gioco dell’oblio del
caos, come se vivessimo tutti felici di non sapere - o
non voler sapere - della sua esistenza, una volta
costruito un mondo perfetto in cui tutto è al suo
posto. Da qui l’importanza che hanno acquistato
nella nostra società, ai vari livelli, i cosiddetti
opinionisti; sono loro gli artefici di questa droga che
si estende tanto quanto il buon senso che ci
imprigiona sotto questo giogo. Questo significa,
però, vivere di apparenze, come denunciava Platone
quasi millecinquecento anni fa.
182
Deleuze e Guattari reagiscono a questo
conformismo, intendendo la filosofia, l’arte e la
scienza come movimenti compiuti per squarciare il
caos, attraversarlo e convivere con esso, rigettando
l’opinione generalizzante che paralizza la creatività.
Al termine di Che cos’è la filosofia un passo di D.
H. Lawrence offre una chiara immagine della
potenza e dell’operatività della filosofia (e anche
della scienza e dell’arte): “Gli uomini fabbricano un
ombrello che li ripari, e sulla sua parete esterna
disegnano un firmamento e scrivono le loro
convenzioni, le loro opinioni; ma il poeta, l’artista
pratica un taglio nell’ombrello, lacera anche il
firmamento, per far passare il caos libero e ventoso
ed inquadrare in una luce brusca una visione che
appare attraverso la crepa… Allora sopraggiunge la
183
folla degli imitatori che rammendano l’ombrello con
una toppa che somiglia vagamente alla visione e la
folla dei glossatori che riempiono la crepa di
opinioni: comunicazione. Ci vorranno sempre nuovi
artisti per fare altre crepe, operare le distruzioni
necessarie, forse sempre più grandi, e restituire così
ai loro predecessori l’incomunicabile novità che non
si riusciva più a vedere”163. Si tratta sempre, fanno
notare Deleuze e Guattari, di vincere il caos tramite
un piano secante che lo attraversi: “l’arte, la scienza,
la filosofia esigono di più: esse costituiscono dei
piani nel caos. Queste tre discipline non sono come
le religioni che invocano delle dinastie di dei o
l’epifania di un solo dio per dipingere sull’ombrello
un firmamento, come le figure di un Urdoxa da cui
163 Ibidem, pagg. 213-214.
184
deriverebbero le nostre opinioni. La filosofia, la
scienza e l’arte vogliono che noi strappiamo il
firmamento e ci addentriamo nel caos”164.
La creazione dei concetti, così come le altre
modalità di produzione creativa, viene disposta
all’intersezione tra caos e opinione (o senso
comune). Il posizionamento risulta evidentemente
asimmetrico, soprattutto nella valenza.
Dall’opinione ci si distingue solo con un movimento
negativo (critica); mentre il caos, se da una parte si
presenta come un pericoloso “buco nero” dal quale è
difficile emergere, dall’altra costituisce una
illimitata riserva, potenza assoluta, dalla quale il
filosofo attinge per rinnovare costantemente il
proprio gesto creativo.
164 Ibidem, pag. 212.
185
CONCLUSIONE
Le opere di Deleuze costituiscono una sorta di
apprendistato in filosofia. I suoi studi attraversano
l’intera storia della filosofia, individuando alcuni
momenti singolari, il cui approfondimento ha dato
vita alle sue pubblicazioni monografiche su Hume,
Kant, Spinoza, Nietzsche, Bergson, Leibniz. Anche
se il suo lavoro sulla storia della filosofia
sembrerebbe orientato su una posizione critica
attestata su un’asse già tracciato da Spinoza e
Nietszsche (ovvero il rifiuto del trascendentale e di
tutto quanto è negazione, conseguenza del ritorno
dell’identico e della rappresentazione di un potere
repressivo nei confronti della vita), è mirabile il
186
modo in cui presenta, svolge la trama concettuale di
tanti altri filosofi. Si pensi a Platone, Cartesio, Hegel
in Differenza e ripetine, Marx e Freud ne L’anti-
Edipo, etc. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi,
eppure, nonostante le sue argomentazioni assumano
spesso un tono contrastante, Deleuze non ha mai
disconosciuto l’importanza e la portata creativa di
ognuno di tutti questi autori presi in esame. La forza
della sua trattazione sta, appunto, nel fatto che non
rimane un esercizio di “naturalismo critico”, ma
consiste nel tracciare un suo “piano di immanenza”,
affermando una nuova immagine del pensiero: “se la
storia della filosofia presenta tanti piani ben distinti,
ciò non è dovuto soltanto alle illusioni o alla varietà,
né esclusivamente al fatto che ogni piano restituisce
di volta in volta la trascendenza in maniera peculiare
187
anche, e soprattutto, al modo in cui esso produce
l’immanenza: in ogni piano opera una selezione di
ciò che spetta di diritto al pensiero, ma questa
selezione varia dall’uno all’altro”165.
Il progetto deleuziano, comunque, non si sofferma
esclusivamente su problemi inerenti strettamente alla
storia della filosofia, come si è visto, esso invade
molti altri campi, dalla letteratura al cinema, dalla
psicanalisi alle scienze sociali. Il rapporto con le
tematiche non-filosofiche, con il “fuori”, come egli
stesso li definiva, assumono una importanza
altrettanto rilevante per la costruzione delle sue
“macchine” concettuali, perché questo “fuori” è ciò
che mette il pensiero in movimento, aiuto il pensiero
a ripensarsi, a pensare altrimenti; o, anche, perché:
165 G. Deleuze, Che cos’è la filosofia, op. cit., pag. 40.
188
“il non-filosofico si trova nel cuore della filosofia
forse più della filosofia stessa, il che significa che la
filosofia non può limitarsi ad essere compresa
soltanto in maniera filosofica o concettuale ma si
rivolge, nella sua essenza, anche ai non filosofi”166.
Per verifica della vitalità del lascito della sua grande
avventura del pensiero, si può rivolgere l’attenzione
a un ulteriore ambito, quello dei movimenti.
Scorrendo volantini, fanzine e siti web, o osservando
le pratiche più svariate, alle più diverse latitudini,
non è difficile trovare, quà e là, suggestioni
deleuziane: molteplicità, divenire, macchine
desideranti o da guerra… Certo, in molti casi gli
animatori di queste esperienze non hanno letto una
riga dell’autore, forse non ne conoscono neppure il
166 Ibidem, pag. 31.
189
nome. Ma il punto non è questo, la dimensione di un
pensiero si misura non tanto su un piano
astrattamente teoretico quanto a partire dagli eventi a
cui chiama, dalla capacità dei suoi concetti di
contagiare, di aprire spazi, di produrre
configurazioni inedite167.
Tuttavia, nonostante le sue frequenti incursioni nei
più svariati territori non-filosofici, Deleuze stesso ha
fermamente rivendicato alla propria opera un
carattere strettamente filosofico: “mi sento un
filosofo in senso classico”168.
Infine rammentando una frase pronunciata prima di
congedarsi dai suoi studenti dell’Università di Sant-
Denis: “Le ultime lezioni, lo sapevate, sono già state
167 M. Guareschi, Gilles Deleuze Popfilosofo, Milano, Shake Edizioni Underground, 2001, pag. 168 G. Deleuze, Lettre-preface in J.C. Martin, Variations. La philosophie de Gilles Deleuze, Paris, Payot 1993, pag. 7.
190
fatte da sempre”, non si può che rimarcare la
genialità del suo gesto filosofico, che nella
ripetizione ha saputo vedere la differenza.
Quest’ultimo insegnamento recitato da Deleuze
indica che ciò che chiamiamo ripetizione non è altro
che un modo (forse l’unico) di “essere all’ora del
mondo” 169. E questo perché la ripetizione, lungi dal
duplicare, è il tempo dell’intempestivo, un tempo,
cioè, che fa emergere una “carta” sconosciuta.
169 G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, trad it. a cura di A. de Lorenzis, Torino, Einaudi, 1996 (ed. originale: 1991), appendice di C. Arcuri, «Le ultime lezioni sono già state fatte, da sempre», pag. 243.
191
BIBLIOGRAFIA PRIMARIA
Testi di Gilles Deleuze
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umana secondo Hume, trad. ital. a cura di M.
Cavazza, Napoli, Cronopio, 2000 (Ed.
originale: 1953).
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Tassinari, Firenze, Colportage, 1978 (Ed.
originale: 1962).
- La filosofia critica di Kant, trad. ital. a cura di
M. Cavazza, Bologna, Cappelli, 1979 (Ed.
originale: 1963) .
- Marcel Proust e i segni, trad. ital. a cura di C.
Lusignoli, Torino, Einaudi, 1967 (Ed.
originale: 1964).
192
- Il Bergsonismo, trad. ital. a cura di F. Sossi,
Milano, Feltrinelli, 1983 (Ed. originale: 1966).
- Presentazione di Sacher-Masoch, trad. ital. a
cura di M. De Stefanis, Milano, Bompiani,
1978 (Ed. originale: 1967).
- Differenza e ripetizione, trad. ital. a cura di G.
Guglielmi, Bologna, Il Mulino, 1972 (Ed.
originale: 1968).
- Logica del senso, trad. ital. a cura di M. De
Stefanis, Milano, Feltrinelli, 1979 (Ed.
originale: 1969).
- Spinoza. Filosofia pratica, trad. ital. a cura di
M. Senaldi, Milano, Guerini e Associati, 1999
(Ed. originale: 1970).
193
- L’Anti-Edipo, trad. ital. a cura di A. Fontana,
Torino, Einaudi, 1975 (Ed. originale: 1972).
Scritto in collaborazione con Félix Guattari.
- Kafka. Per una letteratura minore, trad. ital. a
cura di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1975 (Ed.
originale: 1975). Scritto in collaborazione con
Fèlix Guattari.
- Conversazioni, trad. ital. a cura di G. Comolli,
Milano, Feltrinelli, 1980 (Ed. originale: 1977).
Scritto in collaborazione con Claire Carnet.
- Francis Bacon. Logique de la sensation Vol.I-
II, Editions de la Diffèrence, Paris 1981 (Ed.
originale).
- Millepiani, trad. ital. a cura di G. Passeroni,
Roma, Castelvecchi, 1997 (Ed. originale:
194
1982). Scritto in collaborazione con Fèlix
Guattari.
- Cinema 1. L’Immagine-Movimento, trad. ital. a
cura di J. P. Manganaro, Milano, Ubulibri,
1984 (Ed. originale: 1983).
- Cinema 2. L’Immagine-Tempo, trad. ital. a
cura di L. Rampello, Milano, Ubulibri, 1989
(Ed. originale: 1985).
- Foucault, trad. ital. a cura di P. A. Rovatti e F.
Sossi, Milano, Feltrinelli, 1987 (Ed. originale:
1986).
- La piega. Leibniz e il Barocco, trad. ital. a cura
di Torino, Einaudi, 1992,
(Ed. originale: 1987).
- Pourparlers, Paris, Editions de Minuti, 1990
(Ed. originale).
195
- Critica e clinica, trad. ital. a cura di A. Panaro,
Milano, Raffaello Cortina, 1996 (Ed. originale:
1990).
- Che cos’è la filosofia? trad. ital. a cura di A.
De Lorenzis, Torino, Einaudi, 1996 (Ed.
originale: 1991). Scritto in collaborazione con
Fèlix Guattari.
BIBLIOGRAFIA SECONDARIA
Pubblicazioni su stampa
- AA.VV., Il secolo deleuziano (Saggi e interventi
di: F. Berardi, R. Braidotti, M. Coglitori, T.
Cumbo, G. Di Benedetto, P. Fabbri, M. Gebbia,
S. Lucido, F. Montanari, F. Polidori, G. Polizzi,
196
G. Pugliesi, F. Riccio, P. A. Rovatti, J. Terrè, S.
Vaccaio, T. Villani), Ed. Mimesis, Milano 1996.
- Guareschi M., Gilles Deleuze popfilosofo,
Shake Edizioni Underground, Milano 2001.
Pubblicazioni su internet
- Fusaro D., G. Deleuze, sul sito “La filosofia e
i suoi eroi” (www.filosofia.3000.it).
- Gallo S., Deleuze e la pedagogia del concetto,
sul sito “Il giardino dei pensieri”
(www.ilgiardinodeipensieri.com).
- Studer A., Con Deleuze tra Bergson a
Nietzsche, sul sito “Il giardino dei pensieri”
(www.ilgiardinodeipensieri.com).
197
INDICE
INTRODUZIONE ……………………7
CAPITOLO PRIMO: LA FORMAZIONE 1.1 Gli studi giovanili ……………….10
1.2 La prima formazione filosofica ….12
1.3 L’esperienza socio-politica ……....16
1.4 Le opere della maturità …………..18
CAPITOLO SECONDO: DELEUZE E LA STORIA DELLA FILOSOFIA 2.1 Un nuovo empirismo ……………22 2.2 Critica ed etica …………………..34
198
2.3 Bergson e Leibniz: il concetto di
virtuale …………………………...50
CAPITOLO TERZO: LA FILOSOFIA DELLA DIFFERENZA 3.1 Differenza in sé …………………65 3.2 Differenza contro dialettica …….73
3.3 Ripetizione e tempo ……………..76
3.4 L’immagine del pensiero …………84
CAPITOLO QUARTO: FILOSOFIA E SCIENZE SOCIALI
4.1 Filosofia e psicanalisi …………….91
4.2 Capitalismo e schizofrenia ………102
4.3 Filosofia e politica ……………….110
199
CAPITOLO QUINTO: FILOSOFIA E ARTE 5.1 Sulla letteratura …………………120
5.2 Sul cinema ………………………133
5.3 Sulla pittura …………………......149 CAPITOLO SESTO: LA PRATICA FILOSOFICA COSTRUTTIVISTA 6.1 La filosofia e i suoi rivali ………..161
6.2 La creazione concettuale ………...169
6.3 Le tre discipline dell’atto creativo: filosofia, arte e scienza …………..177 CONCLUSIONE ……………………186 BIBLIOGRAFIA ……………………192
200
201