PROGETTO DIPARTIMENTALE
Bioetica e Biotecnologie avanzate
II Modulo
“Eutanasia e fine vita”
La prospettiva filosofica, etica e antropologica
Prof.ssa Sonia Venturi (organico dell’autonomia) a.s. 2016-2017
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Indice
Introduzione p.3 1.Concetto di eutanasia e suo excursus storico
1.a. Concetto p.4
1.b. Breve excursus storico p.4 2.Il morire e l’accettazione della sofferenza nella prospettiva religiosa e Cattolica
2.a. Origini del male e della sofferenza p.6
2.b. Le conseguenze in ambito biomedico ed etico p.10 3.Il morire e i risvolti sociali dell’eutanasia
3.a. La morte nella società contemporanea p.11
3.b. Motivi di richiesta dell’eutanasia p.14 4.Dignità della persona nella prospettiva filosofica ed epistemologica
4.a. Concetto di vita e persona nella prospettiva cattolica e laica p.17
4.b. Bioetica della sacralità della vita p.18
4.c. Bioetica della qualità della vita p.19
4.d. Il concetto di natura per la bioetica cattolica e laica p.23
4.d.1. La natura per la bioetica cattolica p.23
4.d.2.La natura per la bioetica laica p.24
5.Tipi di eutanasia e posizione della bioetica laica e cattolica
5.a Tipi di eutanasia p.26 5.b Posizione della bioetica cattolica e laica sull’eutanasia p.27
5.b.1. La bioetica cattolica p.27 5.b.2. La bioetica laica p.29
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6. Nuova attenzione alla fine della vita: accanimento terapeutico, trattamento
proporzionato/sproporzionato. La prospettiva laica e cattolica 6.a. Definizione p.30 6.b. Terapia e cura p.32
6.c. Bioetica cattolica ed accanimento terapeutico p.33
6.d. Bioetica laica ed accanimento terapeutico p.35 6.e.Accanimento terapeutico: il Codice deontologico medico
ed il Comitato Nazionale di Bioetica p.35
7.Nuova attenzione alla fine della vita: la medicina palliativa e la cura del malato terminale
7.a. Significato di medicina palliativa p.36
7.b. Le origini e l’articolazione delle terapie p.38
7.c. Per un confronto p.39
7.d. Obiettivi della medicina palliativa p.40
Documenti p.42 Bibliografia p.65
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Introduzione
Il tema che il progetto Bioetica e Biotecnologie avanzate affronterà questo anno, si colloca
come il proseguo del percorso iniziato l’anno precedente che ha riguardato la Bioetica
generale intesa come introduzione ai modelli fondamentali della bioetica, alle sue origini ed
ai suoi perché. Questo anno entriamo nell’ambito della Bioetica speciale che si occupa dei
grandi problemi, sempre sotto un profilo generale, tanto del capo medico che di quello
biologico relativo all’uomo (ingegneria genetica, aborto, eutanasia, clonazione...).Il tema
scelto è quello della eutanasia inserito nella più vasta tematica della morte e della
sofferenza. Questo tema considerato spesso “scomodo”, tocca le più intima radice del
nostro essere chiamandoci e mettendoci davanti al senso della vita, alla nostra libertà
nonché alle nostre vere radici.
Per questo molte volte il discorso non viene affrontato così come quello del dolore che alla
morte è spesso correlato. E’ invece importante riflettere su questi temi sempre di più
allontanati dal vissuto quotidiano e sociale, temi che non possono essere sempre nascosti
ed accantonati perché comunque toccano la nostra esistenza. Nella consapevolezza che
non si è mai preparati alle situazioni di dolore, importante è però familiarizzare, discutere,
riflettere anche a livello scolastico di questi argomenti, per capire che sono parte integrante
della vita dell’uomo ed essere meno impreparati ad affrontarli, cercando così di colmare il
vuoto della società odierna intorno al tema. A partire da questo contesto si può discutere
del tema eutanasico avvicinandoci con rispetto alle situazioni di sofferenza e cercando di
fornire solo spunti di riflessione e di discussione partecipata.
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1.Concetto di eutanasia e suo excursus storico
1.a. Il concetto
Etimologicamente eutanasia deriva dal greco “Eu Thanatos” e significa “la buona morte”.
Con essa si intende qualsiasi “azione o omissione che di sua natura o nelle intenzioni,
procura la morte allo scopo di eliminare il dolore. L’eutanasia si situa dunque a livello delle
intenzioni e dei metodi usati.”1 Altra definizione di eutanasia è :“la soppressione indolore o
per pietà di chi soffre o si ritiene che soffra e possa soffrire nel futuro in modo
insopportabile.”2Si tratta dunque di una azione o omissione per sopprimere
intenzionalmente la vita di un malato terminale o inguaribile(ma anche di un neonato con
gravi handicap, di un anziano, di un disabile) al fine di evitare sofferenze fisiche e psichiche.
In questo senso va chiarita che l’eutanasia è sempre una azione o omissione diretta, volta
cioè, a provocare intenzionalmente la morte (sia facendo una azione che omettendola…non
interessa infatti il modo ma l’intenzione che è dietro l’azione).3
1.b.Breve excursus storico
Il termine nella sua accezione moderna è di Francesco Bacone (Francis Bacon filosofo
inglese,1561-1626) che lo introdusse nelle lingue moderne occidentali nel saggio
“Progresso della conoscenza” (1605) dove l’autore invita i medici a non abbandonare i
malati inguaribili e ad aiutarli ad alleviare le loro sofferenze. Il termine eutanasia era
utilizzato dunque nell’accezione della buona morte; il medico non doveva dare la morte ma
solo evitare il dolore. Nel Novum Organum Bacone afferma:
“Il compito del medico non è solo quello di ristabilire la salute, ma anche quello di calmare i
dolori e le sofferenze legate alle malattie;… i medici, se non vogliono mancare al loro ufficio
e quindi all’umanità, dovrebbero acquisire l’abilità di aiutare i morenti a congedarsi dal
mondo in modo più dolce e quieto….” 4
1 Congregazione per la Dottrina della fede, Dichiarazione sull’Eutanasia, Ed.Paoline 1980, p. 6.
2V. Marcozzi, Il cristiano difronte all’eutanasia, in E. Sgreccia, Manuale di Bioetica vol. I , p. 63 3F. D’Agostino, L. Palazzani, Bioetica. Nozioni fondamentali, La Scuola, Brescia 2007, p.128. 4G. Milano, Bioetica dalla A alla Z, Feltrinelli, Milano 1997 , p. 126
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L’interesse di una ricerca storica sull’eutanasia si è intrecciato con lo studio della concezione
della morte nei vari popoli e nelle varie epoche per merito del lavoro di molti studiosi.
L’esame di questo tema nel mondo occidentale ha evidenziato che pratiche di uccisioni di
malati, o persone in situazione di handicap erano presenti fin dall’antichità: a Sparta i neonati
deformi erano uccisi dopo essere stati sottoposti al consiglio degli anziani, a Roma i bambini
con handicap venivano gettati dalla rupe Tarpea.
Nel terzo libro della Repubblica di Platone viene fatto un richiamo inequivocabile
all’eutanasia passiva e attiva pur senza utilizzare questi concetti: “Pertanto stabilirai per
legge nella città una medicina e un’arte giudiziaria nelle forme che abbiamo descritto, in
maniera che curino soltanto i cittadini validi nel corpo e nell’anima e, quanto agli altri, i medici
lascino morire coloro che presentano difetti fisici, i giudici sopprimano coloro guasti e
incurabili nell’anima”. Aristotele nella Politica approva la pratica di uccisione dei neonati con
malformazioni per ragioni di utilità politica. A Roma l’esaltazione della forza, del vigore, della
gioventù facevano concepire ripugnanza per la malattia e la vecchiaia al punto tale da
elogiare il suicidio quando queste situazioni si fossero presentate. Silio Italico che applicò
su di sé l’eutanasia, elogiava i Celti che erano prontissimi ad accellerare la morte per i loro
vecchi, malati, ed i feriti di guerra. Tra gli oppositori di queste pratiche nel mondo greco-
romano troviamo Pitagora ed il medico Galeno.5 Dello stesso parere contrario Ippocrate,
medico del V sec. a.C.(470a.C.-370a.C.) che nel famoso Giuramento, che ispira ancora
oggi (anche se modernizzato e rivisto) la deontologia medica, afferma :
“Giuro per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panacea e per tutti gli dei e per tutte le dee,
chiamandoli a testimoni, che eseguirò, secondo le forze e il mio giudizio, questo giuramento e questo
impegno scritto: di stimare il mio maestro di questa arte come mio padre e di vivere insieme a lui e
di soccorrerlo se ha bisogno e che considererò i suoi figli come fratelli e insegnerò quest'arte, se
essi desiderano apprenderla, senza richiedere compensi né patti scritti; di rendere partecipi dei
precetti e degli insegnamenti orali e di ogni altra dottrina i miei figli e i figli del mio maestro e gli allievi
legati da un contratto e vincolati dal giuramento del medico, ma nessun altro.
Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal
recar danno e offesa. Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale,
né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo. Con
innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte.
5E.Sgreccia, Manuale di Bioetica vol. I, Vita e Pensiero , 1988, p.632.
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Non opererò coloro che soffrono del male della pietra, ma mi rivolgerò a coloro che sono esperti di
questa attività. In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni
offesa e danno volontario, e fra l'altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini,
liberi e schiavi. Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell'esercizio
sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto
cose simili. E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di
godere della vita e dell'arte, onorato degli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se lo violo
e se spergiuro. »
Successivamente, con l’avvento delle grandi religioni monoteistiche, le quali tra i cardini
delle loro morali avevano e hanno la sacralità della vita umana, l'eutanasia venne ritenuta
un’azione moralmente inaccettabile. Bisogna giungere al nazismo per poterne riparlare
come una forma organizzata. Ovviamente la richiesta di eutanasia di oggi ha delle
connotazioni e delle motivazioni che non possono essere identiche a quelle dei periodi
precedenti dove la morte era sostenuta principalmente per motivi di pietà. Oggi se ne
richiede la legalizzazione e ciò ha motivazioni ulteriori rispetto alla semplice “pietà per il
morente”, chiamando in gioco il principio di autonomia di libertà di scelta, il diritto a decidere
consapevolmente della propria vita quando non la si considera (per vari fattori) degna di
essere vissuta.
2.Il morire e l’accettazione della sofferenza nella prospettiva religiosa e cattolica 2.a Origine del male e della sofferenza
La sofferenza ed il dolore sono sicuramente uno “scandalo” per l’uomo poiché lacerano la
sua vita ed i suoi rapporti interpersonali soprattutto perché spesso non esiste al dolore ed
alla sofferenza una risposta “ragionevole e plausibile”, o quando c’è, seppur logica, non
elimina né attenua la sofferenza che si prova. La domanda sul perché del dolore è forse
quella fondante delle religioni e del rapporto tra il credente ed il suo Dio: è la domanda
originaria, dalla cui risposta dipende il rafforzamento o la perdita della fede. Il dolore è il vero
spartiacque nel nostro esistere tra una fede forte e provata ed una fede culturale e subita.
In particolar modo la sofferenza, il male “fortuito” e “casuale” (malattie inguaribili, morte dei
bambini, morti improvvise) sono quelle che rendono più difficile il credere in un Dio buono
ed amorevole come è assunto nel cristianesimo e nelle grandi religioni monoteiste.
Riferendoci alla prospettiva specificatamente cattolica: quale dunque il significato del dolore
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e della sofferenza? Ha un valore? Come comportarsi davanti al dolore? Accettarlo o
combatterlo? Considerarlo una prova di “Dio” da accettare con fede o ribellarsi ad esso?
Proviamo ad accennare una risposta in ambito cristiano cattolico ad uno dei problemi
fondamentali della teologia e della filosofia quello definito della teodicea(come è possibile
“giustificare Dio per il male presente nel creato”)coniato in questa accezione dal
filosofo tedesco Leibniz, (1646-1716) in Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà
dell'uomo e l'origine del male, opera redatta nel 1705 dove l’autore attribuisce il male del
mondo alla libertà che Dio ha concesso alle creature. Sebbene si debba a Leibniz il termine,
il concetto ed il problema erano presenti da sempre nella filosofia cristiana e non, a partire
dai greci, segno dell’importanza che il tema acquisisce nella ricerca di senso della vita
umana.
Cercando di sfrondare un tema così complesso possiamo dire che nel cristianesimo l’origine
del male e della sofferenza non sono opera di Dio e della sua creazione, ma sono solo la
conseguenza della libertà dell’uomo che è il dono più grande che Dio ha fatto alle sue
creature. Infatti il male e la morte sono entrati nel mondo solo dopo il peccato originale (il
peccato di superbia, il voler essere come Dio, il non accettare i propri limiti creaturali): dopo
cioè che Adamo ed Eva (intendendo con questo concetto l’umanità) si sono ribellati a Dio
facendo un uso sbagliato della loro libertà.
Da questo atto volontario di disobbedienza nasce la morte ed il dolore. Nella Genesi si legge
infatti che da quel momento i due saranno cacciati dal giardino di Eden: l’uomo lavorerà la
terra con il sudore delle sue mani e la donna partorirà con dolore. La sofferenza, il male
dunque non sono voluti da Dio ma solamente permessi, in quanto conseguenza della libertà
umana. (Dio non può intervenire nella libertà dell’uomo, altrimenti contraddirebbe se stesso
e l’ordine della creazione). Ovviamente nei racconti della creazione presenti nella Genesi si
deve ricordare, per completezza, che gli uomini non sono soli ma tentati dal serpente:
Satana, l’avversario (satan = significa appunto l’avversario, colui che vuole separare l’uomo
da Dio). Non si può imputare però a lui ed alla sua tentazione la colpa commessa dall’uomo:
Satana tenta, ma non costringe e seppure tentato l’uomo aveva la libertà di rifiutare. Ed
anche Satana, il Demonio, il Tentatore come spesso viene chiamato, emblema del male per
i cristiani, nella tradizione cattolica è creato libero (è Lucifero = “l’angelo della luce”, uno dei
cherubini, cioè delle schiere angeliche più vicine a Dio) e sceglie di ribellarsi a Dio grazie a
questa propria libertà.
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Dunque il male delle creature(angeliche ed umane) ha come origine l’errato utilizzo della
libertà .
“In conseguenza del peccato originale la natura umana, senza essere interamente corrotta,
è ferita nelle forze naturali, è sottoposta all’ignoranza, alla sofferenza, al potere della morte
ed è incline al peccato”.6
Evidenziata questa origine che ci dice della finitezza dell’uomo ed il perché della sua morte,
si può affermare che spesso la sofferenza dell’uomo è riconducibile alla sua libertà (si pensi
ad atti lesivi della propria salute, o vita, ad atteggiamenti sbagliati che portano sofferenze
psicologiche) o alla libertà degli altri (si pensi a qualcuno che uccide un’altra persona, o alle
guerre, alle violenze volute dall’egoismo degli uomini). C'è comunque una sofferenza che
rimane “immotivata” in relazione al senso, al perché proprio a me e non ad un altro? E la
spiegazione della nostra caducità data dal peccato, non attenua di un attimo la domanda ed
il nostro dolore. Dobbiamo riconoscere che il senso ultimo della morte e del dolore,
soprattutto di quello innocente, anche nel cristianesimo resta un mistero che l’uomo fa fatica
a comprendere ed accettare anche se credente. Spiegatane l’origine, come si dovrebbe
dunque avvicinare il cristiano al vissuto della sofferenza? Quale il corretto approccio alla
luce della fede?
La Chiesa Cattolica riconosce la frattura che la sofferenza porta nel nostro animo e nella
nostra vita. Per questo afferma che il cristiano deve fare di tutto per alleviare la sofferenza
propria e quella degli altri sia fisica sia spirituale, accettando ogni giusta pratica medica.
Occorre infatti allontanare i pericoli di alcune posizioni e dottrine che per diversi secoli si
sono diffuse all’interno della Chiesa:
quella che afferma che il dolore e la malattia sono una punizione di Dio per i peccati
dell’uomo. Questo concetto se mai era soprattutto tipico dell’antico ebraismo per il
quale la sofferenza era la punizione di Dio per la colpa che la persona o i suoi antenati
avevano commesso. I ciechi, i malati, i poveri, espiavano una colpa loro o dei loro
avi. Questo concetto è stato stravolto completamente da Cristo che afferma
chiaramente che la malattia non è collegata al peccato, né è una punizione: “Né lui
6Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, p 11
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ha peccato, né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”
(Gv9,3)
Ancora prima, nell’Antico Testamento, nel libro di Giobbe, libro sapienziale sul mistero del
dolore, si evidenziava come la sofferenza capiti anche all’innocente ed al giusto, eliminando
dunque la concezione che il dolore sia una punizione divina per i peccati commessi;
la seconda, che afferma che Dio fa soffrire chi ama per provarne la fede. Questa
teoria che ha preso il nome di “dolorismo” e tende ad attribuire un grande valore al
dolore in sé creando un amore più o meno morboso della sofferenza, è evidenziata
anche da alcuni santi che desideravano ed invocavano il dolore per far piacere a Dio.
Questi atteggiamenti dovuti alla evoluzione ed alla elaborazione storica del concetto di
sofferenza e dolore non sono assolutamente condivisi dalla posizione ufficiale Chiesa
cattolica che li ritiene una “deviazione” della corretta dottrina cristiana. Il Concilio Vaticano
II (1962-1965) infatti ha chiaramente rifiutato il dolorismo dimostrando che tale concezione
è del tutto contraria al Vangelo. Giovanni Paolo II affermava nella Salvifici Doloris: “Il
Vangelo è la negazione della passività di fronte alla sofferenza”. 7Per la Chiesa il dolore, il
male, la sofferenza devono infatti sempre essere combattuti; Dio vuole l’uomo felice non
malato o sofferente. Per questo, per sanare il peccato umano fonte di sofferenza e morte,
ha mandato suo Figlio per liberare l’uomo attraverso la resurrezione. La morte in Croce di
Cristo è il dono che Dio ha fatto all’uomo per consegnarlo nuovamente all’eternità che gli
aveva promesso all’inizio. Il Cristo sofferente in croce ci restituisce infatti non solo l’idea di
dolore, anche l’idea della resurrezione: grazie a Lui la morte ed il peccato sono sconfitti. Il
binomio presente nel cristianesimo è quello dunque del dolore-speranza. La resurrezione
dà un nuovo significato alla sofferenza di tutti i cristiani.
Dunque quale è il giusto approccio del cristiano?
Decisamente lottare per allontanare il dolore, ma quando la sofferenza è inevitabile il
cristiano la deve accettare vivendola in comunione con Dio e trovando conforto nel Cristo,
in un Dio cioè che ha capito e sa comprendere le sofferenze umane perché le ha provate:
sia la sofferenza fisica (morte in croce) sia la sofferenza spirituale (la solitudine data
7Giovanni Paolo II, Salvifici doloris ,Ed.Paoline, Milano 1984 p.49
10
dall’abbandono degli amici e anche del Padre :“Dio mio, Dio mio, perchè mi hai
abbandonato?”). La sofferenza dunque in questa ottica acquisisce anche un valore salvifico
perché:
a) l’uomo può unire la sua sofferenza a quella di Cristo che ha salvato l’umanità ;
b) può divenire feconda, insegnare il vero senso della vita cambiando le persone
facendo individuare i veri valori, ciò che realmente conta nella nostra esistenza.
2. b. Le conseguenze
In ambito biomedico:
il cristiano deve combattere il dolore, decidendo di accettare tutte le terapie mediche
che possono contribuire ad alleviarlo, escludendo la morte diretta;
le pratiche mediche rispettose della vita del paziente devono essere perseguite ed in
questa ottica, si deve incoraggiare la ricerca.
Nel documento Eutanasia, la Chiesa si pronuncia a questo proposito in modo specifico sul
dolore fisico ed sull’utilizzo degli antidolorifici in relazione ai malati terminali. Infatti gli
analgesici per i malati terminali (morfinoidi) eliminano il dolore ma accorciano la vita e
possono far cadere in uno stato di incoscienza. Come conciliare ciò con la tutela della vita
da sempre affermato dalla Bioetica cattolica?
La risposta della Chiesa si rifà al principio bioetico del doppio effetto(da una azione
scaturiscono due effetti: uno voluto ed uno permesso) per cui afferma che nel caso di
situazione di dolore del fine vita, il cristiano può accettare (è libero anche di non farlo per
associarsi spiritualmente e volontariamente alla sofferenza di Cristo) tutti gli antidolorifici
che servono per lenire il dolore in quanto una persona ha il diritto a morire con dignità (in
assenza cioè di sofferenza).La morte infatti in questo caso, non è cercata ma solo la
conseguenza, non voluta direttamente, della somministrazione degli analgesici (da una
azione, in questo caso la somministrazione degli antidolorifici scaturiscono due effetti: uno
positivo-cioè l’eliminazione/attenuazione del dolore e l’altro negativo: l’accellerazione della
morte).
11
In ambito etico:
Il cristiano deve combattere la propria sofferenza ma nel caso sia inevitabile viverla
da cristiano, affidandosi a Cristo nella sicurezza del suo amore più forte della morte
e del dolore.
Il cristiano ha il dovere di aiutare chi è nella sofferenza attraverso la vicinanza,
l’affetto e la solidarietà. La famiglia, la scuola e le istituzioni tutte devono affinare a
livello educativo la sensibilità verso il prossimo in situazioni di sofferenza.8
3. Il morire e i risvolti sociali dell’eutanasia
3a.La morte nella società contemporanea
“Gli uomini, non avendo potuto liberarsi
dalla morte, dalla miseria, dall’ignoranza,
hanno deciso per essere felici, di non pensarci”
(Blaise Pascal)
Il tema che viene trattato, quello dell’eutanasia non può prescindere da una riflessione sul
senso della morte nella società odierna. La morte non è infatti un mero dato biologico ma
sociale, relazionale, che coinvolge il soggetto nella sua più intima radice: quello della identità
personale, di significato di vita (senso) e di rapporto con il mondo. Tocca infatti la persona
in primis ma coinvolge i suoi affetti, chiamando tutti alla riflessione sul fondamento
esistenziale e sull’origine.
“La morte non può essere considerata alla stregua di un mero evento biologico o medico: essa
appartiene ad un ordine completamente diverso, rispetto a quello cui appartiene l'evento morboso.
Mentre questo incide (in misura più o meno significativa) sull' identità del soggetto, la morte sta
paradossalmente a fondamento stesso di questa identità: essa è portatrice di un significato, nel
8Giovanni Paolo II, Salvifici Doloris, op. cit.p.48
12
quale va ravvisata la radice della dignità stessa dell'uomo. La morte infatti propone all'uomo un
compito propriamente morale: quello di trovare un senso che guidi e sostenga la sua libertà, che
come libertà umana trova la sua radice nella consapevolezza da parte del soggetto della propria
invincibile caducità. La rimozione culturale della morte, che è tipica del nostro tempo, così come la
sua esclusiva medicalizzazione, costituiscono pertanto problemi tra i più rilevanti
per la riflessione bioetica.”9
Oggi sicuramente nella società secolarizzata, dove la dimensione religiosa non diventa più
nel bene e nel male, un collante sociale capace di fornire un orizzonte valoriale anche in
relazione alla tematica escatologica, la morte e la sofferenza risultano i grandi “assenti” dalla
vita dell’uomo: non se ne parla, si fugge il pensiero o il discorso come se non facessero
parte della vita umana e non ci toccassero, fino a quando non bussano con forza alle porte
della nostra esistenza trovandoci completamente impreparati ad affrontare situazioni ed
eventi.
La sua esorcizzazione ed allontanamento è evidente in primis da un punto di vista
linguistico: spesso ci si riferisce alla morte in modo impersonale, in terza persona (si dice
infatti ci si ammala o si muore); quando si deve parlare ai bambini della morte si dice “il
nonno è andato in cielo”, è “diventato un angelo”. Anche gli adulti utilizzano un linguaggio
che non coglie la realtà effettiva delle cose ma che diventa evocativo o addolcisce: non si
dice più “ha un cancro, un tumore” ma “ha una malattia inguaribile”, non che è “morto” ma
che è “defunto” che “si è spento”. I manifesti funebri riportano che la persona è “mancata”,
che salma del “caro estinto” procederà per il cimitero cittadino. Nei confronti di tali
esperienze cioè, si cerca un processo di occultamento/rimozione che esclude dall’universo
del linguaggio e del pensiero dell’uomo quanto significa la precarietà della vita. Lo storico
Philippe Aries in un testo che analizza con acume il concetto di morte nelle varie epoche
storiche afferma:
“Una maniera del tutto nuova di morire è comparsa nel corso del XX secolo in alcune tra le
regioni più industrializzate, più urbanizzate e più tecnicamente avanzate del mondo
occidentale (…). La società ha espulso la morte, eccetto quella degli uomini di Stato. Niente
più nella città avverte che qualcosa è accaduto: il vecchio carro funebre nero e argento è
diventato una banale automobile grigia che si perde nel flusso della circolazione. La società
9Comitato Nazionale di Bioetica , “Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana”, 14 luglio 1995,p.8
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non segna più una pausa: la scomparsa di un individuo non intacca più la sua continuità. In
città tutto si svolge come se nessuno morisse”10
Ed ancora:
“Oggi i bambini sono iniziati, fin dalla più giovane età, alla fisiologia dell’amore e della
nascita, ma quando non vedono più il nonno e domandano il perché, si risponde loro, in
Francia che è partito per un grande viaggio molto lontano, e, in Inghilterra che risposa in
un bel giardino in cui spunta un caprifoglio. Non sono più i bambini che nascono sotto i
cavoli, ma i morti che scompaiono tra i fiori.” 11
Inoltre una società opulenta e produttivistica come quella occidentale, dove il benessere
materiale è troppo spesso esaltato ad unico bene possibile, e dove i mezzi di
comunicazione di massa tendono a costruire un'immagine dell'esistenza fatta solo di
bellezza, ricchezza e successo, i lati oscuri della vita quali la sofferenza, la vecchiaia e la
morte, vengono sempre più emarginati, nel tentativo di rimuoverli dalla coscienza comune.
Solo ciò che è sano ed espressione della esuberanza vitale e di forza è buono; solo il
piacere sembra riempire di senso la vita dell’uomo. In una prospettiva fatta solo di beni
terreni, la dimensione dolorosa dell'esistenza non può dunque che apparire come un vuoto
inconcepibile ed inspiegabile, da esorcizzare. E’ inevitabile che la perdita del significato
trascendente della vita umana privi di significato anche la sua naturale conclusione, la
morte.12
La morte ed il morire rappresentano dunque un dato scomodo per la società odierna perché
mettono davanti alla fragilità della vita, segnano per tutti il limiti contro il quale si infrange
ogni illusione e si rivela come la negazione della pretesa di autosufficienza dell’uomo
contemporaneo. La sconvenienza della morte delegittima ogni possibile discorso su essa:
preoccuparsi di dover morire è scandaloso perché infrange i valori sui quali la società
contemporanea si basa (materialismo, l’efficientismo, vitalismo, l’edonismo).
All’interno di questo contesto non possiamo citare né dimenticare la lezione del filosofo
Heidegger che fa invece dell’essere-per-la-morte il fulcro della prima parte della sua
10Philippe Aries, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Mondadori, 1992 Milano p.660
11Philippe Aries , Saggi sulla storia della morte in Occidente, in E. Sgreccia, Manuale di bioetica, op. cit., p .637
12Comitato Nazionale di Bioetica, op.cit., p.26
14
riflessione filosofica. La vera esistenza infatti, quella “autentica” con la chiama Heidegger,
è vivere -per- la- morte, avere cioè la consapevolezza della nostra finitezza. La morte è colei
che svela il limite umano e solo questa consapevolezza rende autentica la vita e le nostre
scelte. Anche l’autore condivide l’idea che nella società odierna, dove si vive in superficialità
(si chiacchiera ma non si parla, si aspira alla curiosità più che alla conoscenza) la morte è
stata rimossa. La vita inautentica della società di massa, vive la morte nella caratteristica
dell’impersonalità, del cosiddetto “Sì” inautentico; si dice “si” muore, generalizzando la
morte, come se non ci coinvolgesse più in prima persona. L’essere-per -la morte è invece
vivere con la consapevolezza che l’esistenza è finita, è rischio, instabilità e problematicità
davanti al futuro. E solo con questa consapevolezza l’uomo può vivere la vita vera.
3.b. Motivi di richiesta dell’eutanasia
Il contesto appena descritto è il quadro sociologico ed assiologico all’interno del quale
possiamo collocare l’odierna richiesta e/o dibattito sull’eutanasia. A questo contesto occorre
aggiungere altri elementi altrettanto necessari per comprendere il perché dell’attuale
dibattito.
L’asetticità della morte
Oggi la morte diventa sempre più una esperienza solitaria. Se è vero che nessuno può
sostituirsi al malato in questo tragico momento della vita, è sicuramente vero che nel
passato i comportamenti e le abitudini sociali esprimevano nei confronti del morente
maggiore solidarietà, compassione (nella sua accezione etimologica cum-patire cioè
soffrire con); i familiari erano vicini al malato che così “presiedeva” alla propria morte, si
preparava in una atmosfera familiare a separarsi dalla vita. Oggi si muore sempre più in
ospedale o strutture cliniche, in strutture asettiche dove non si trovano volti familiari e quelle
sicurezze relazionali e psicologiche di cui in momenti di fragilità si avrebbe bisogno (chi di
noi ha avuto qualche anziano, nonno, genitore, zio, in ospedale per una malattia grave o
negli ultimi momenti della vita avrà sentito sicuramente che il malato, se può, chiede di
essere riportato a casa).Questo processo di spersonalizzazione dell'assistenza sanitaria,
a motivo del quale si invoca oggi una umanizzazione delle cure ospedaliere, sfocia dunque
nella progressiva emarginazione del paziente ospedalizzato dai rapporti significativi,
15
determinando quella che è stata a giusto titolo chiamata la solitudine del morente .Il morire
spaventa, a volte terrorizza ma il morire soli forse di più.
“La morte diventa un fatto privato, individuale: quasi non tocca più neppure le famiglie; sono
gli ospedali che si occupano del malato; dopo la morte il compito è affidato alla agenzie
funebri. L’interessato stesso tende ad essere espropriato della propria morte(…) finisce per
sentirsi persino colpevole perché ormai fuori di ruolo, di peso per gli altri, perché non si
rassegna a morire.”13
Le nuove tecnologie
Il progresso biomedico e biotecnologico ha reso oggi possibile prolungare la vita attraverso
le maggiori possibilità di curare molte malattie un tempo mortali ed anche di mantenere
tramite apposti macchinari le funzioni vitali in modo artificiale. Queste possibilità scientifiche
sono all’origine di nuove opzioni, non presenti tempo fa, che suscitano una profonda
riflessione. Quando infatti la medicina non presentava queste opportunità, se si aveva un
grave incidente si moriva in pochi giorni; oggi tramite i macchinari si può fortunatamente
salvare una persona, ma anche tenerla in vita in condizioni non da tutti ritenute “dignitose”.
Lo scenario dunque che si presenta è quello di riflettere e discutere relativamente
all'accettazione o meno, delle scoperte biomediche e biotecnologiche nelle ultime fasi della
vita.
Il principio di autodeterminazione
Oggi ha acquisito sempre più importanza in ambito sociale il principio di autodeterminazione
e di autonomia, inteso come la manifestazione concreta della facoltà dell’uomo di scegliere
e decidere liberamente della propria vita, del proprio destino e dei valori ai quali richiamarsi.
Se sono libero di scegliere la mia vita ed i miei valori, sono libero di scegliere anche della
fase finale, di decidere cioè autonomamente della mia morte. Ogni individuo infatti non deve
avere una autorità superiore che si arroghi il diritto di scegliere per lui nelle questioni
riguardanti la sua vita e salute. “Questo principio conferisce ad ognuno di noi il diritto di
definire e ridefinire per sé lo stile di vita che intende perseguire, i valori che intende
13D.Tettamanzi, Eutanasia, Piemme, Casale 1985, p.19
16
condividere, insieme al diritto di poter assumere le decisioni che riguardano la propria vita
insieme al diritto di poter assumere le decisioni che riguardano la propria vita in modo
indipendente ed autonomo. In quanto autonoma (…) ogni persona ha diritto al rispetto delle
decisioni che assume per governare la propria vita in accordo ai valori che condivide.”14
La non accettazione del limite
La rimozione della malattia e della morte se in parte è giustificabile sul piano psicologico,
essendo comprensibile sia l’istinto vitale che l’inclinazione di noi esseri umani a conservare
la vita, è comunque anche il prodotto dell’illusione dell’uomo che dominato dall’impulso di
onnipotenza è ormai incapace di riconoscerei suoi limiti e soprattutto di accettarli. Si rimuove
la morte perché l’uomo non accetta più che il suo potere abbia dei confini, si scontri con
qualcosa che limita il dominio sulla sua vita.15La psicoanalisi stessa afferma che nel
profondo del nostro inconscio, noi ci consideriamo immortali e la consapevolezza della fine
della propria vita, pur affiorando alla nostra coscienza come una certezza inoppugnabile,
trova difficoltà ad essere pienamente accettata: solo l'ignoranza del momento esatto in cui
essa avverrà ci consente di sopportarne l'esistenza.16
Tutto questo mutato scenario valoriale, sociale, tecnologico, ha portato ad un nuovo
confronto con il tema del fine vita.
Secondo alcuni autori, in base tutti questi elementi l’uomo dovendo confrontarsi con la
morte e non riuscendo a sconfiggerla o a darle un senso attua due diversi atteggiamenti:
a) da una parte la ignora e la bandisce dalla coscienza, dalla cultura, dal linguaggio;
b) dall’altra la anticipa (richiedendo l’eutanasia) nel tentativo di dominarla.17
Secondo altri invece oggi non si può più parlare di un semplice atteggiamento di rimozione
della morte ma di un nuovo modo di affrontare il problema: l’atteggiamento di chi prendendo
atto della ineluttabilità della morte ne parla apertamente volendo decidere sul da farsi
14D.Neri, Filosofia morale. Manuale introduttivo, Guerini, Milano1999 in G. Fornero, Bioetica Cattolica e Bioetica laica, Mondadori, Milano 199, p. 82. 15F. D’Agostino, L. Palazzani , Bioetica. Nozioni fondamentali, op.cit.,p.127
16Comitato Nazionale di bioetica, Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana ,op.cit. ,pp .48-51
17E. Sgreccia, Manuale di Bioetica vol. I, op. cit., p. 637.
17
coscientemente senza volerla allontanare o rimuoverla ma in una nuova gestione del
tema.18
“L’eutanasia si ricollega al processo di secolarizzazione che pervade la nostra società e che
si esprime, soprattutto, come forma suprema di rivendicazione della indipendenza
dell’uomo(…) e conseguentemente come vanificazione della sofferenza e come rifiuto del
simbolismo religioso della morte”.19
La prima posizione è più relativa ad una bioetica di matrice cattolica tesa ad evidenziare
come la inevitabilità della morte sia uno scacco alla visione efficientista ed autoreferenziale
dell’uomo che ha perso l’orizzonte di sacralità e valoriale che la religione sapeva fornire,
mentre la seconda posizione è decisamente più di matrice laica e rivendica, seppure nella
percezione della ineluttabilità della morte, l’assunzione di coscienza e di piena
responsabilità dell’uomo, quasi un atto di prometeico coraggio di sfidare la morte utilizzando
l’arma più tipicamente umana: la libertà di scelta.
4.Dignità della persona nella prospettiva filosofica ed epistemologica
4.a. Concetto di vita e persona nella prospettiva cattolica e laica
Nel dibattito bioetico intorno all’eutanasia bisogna ricordare e tenere presenti i due concetti
fondamentali della dignità della persona e di vita che emergono dalla bioetica “cattolica”
(etica della sacralità) e “laica”(etica della qualità).Utilizziamo questi due modelli come quelli
predominanti, anche se i campo bioetico ci sono molti autori che non amano questa
dicotomia definendola una lettura conflittuale, affermando che esiste solo la bioetica in
quanto tale. Sicuramente però, come afferma Fornero , “la bioetica, pur richiamandosi il più
possibile ad una imparzialità, non viene elaborata in uno spazio neutro ma a partire da una
specifica visione del mondo, all’interno di determinati orizzonti di senso che finiscono per
condizionare le diverse proposte teoriche”.20Li richiamiamo brevemente utilizzandole due
grandi opzioni sopracitate e già studiate l’anno scolastico precedente, cercando di
implicazioni in ambito biomedico.
18M. Mori ,Bioetica , 10 temi per capire e discutere, B .Mondadori 2002, pp. 95-96 19G. Campanini, Eutanasia e società, in E.Sgreccia, op.cit., p. 637. 20G.Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica ,op.cit., p.17
18
4.b. Bioetica della sacralità della vita
a) La vita
La bioetica cattolica è detta etica della sacralità della vita perché afferma che la vita è
sacra in quanto dono di Dio e per questo motivo va rispettata dal momento del suo inizio a
quello della sua fine. In quanto dono è sottratta alla disponibilità individuale: nessuno ha il
diritto di interrompere volutamente questo processo (dunque no al suicidio, omicidio, aborto,
eutanasia …). L’uomo risulta essere solo il custode di questo “dono” non proprietario (lo è
Dio). La vita dunque è degna di valore perché donata da Dio e perché in strutturalmente
relazionata con Lui. Per questo motivo la vita è “indisponibile” all’uomo.
b) La persona
La nozione tipica di persona di questa bioetica è quella che si rifà a Boezio, ripresa poi da
San Tommaso d’Aquino ed afferma che la persona è una “sostanza individuale di natura
razionale” ha cioè uno statuto ontologico dato dall’essere sintesi di corpo e spirito. Questa
sintesi è inscindibile: lo spirito vivifica, umanizza il corpo ed è unito ad esso in modo
sostanziale ed il corpo non è un semplice strumento (qualcosa di esterno a me, come un
oggetto) ma un mezzo espressivo cioè esprime, manifesta la mia interiorità. La persona è
dunque un corpo spiritualizzato, uno spirito incarnato biologicamente in un corpo, che ha
una propria natura ontologica che si manifesta in capacità e comportamenti ma che non è
riducibile ad essi. La persona cioè è distinta dalle sue funzioni: le trascende.
c) Le implicazioni in ambito bioetico La conseguenza importante a livello bioetico di queste due premesse è che se la persona
ha uno statuto ontologico prioritario rispetto alle facoltà, ciò fa sì che un uomo sia sempre
persona in tutte le fasi della sua vita e dunque sempre degno di rispetto. E’ tale anche
quando non è ancora in grado(embrione) o non potrà mai esserlo (handicap) o non potrà
più esserlo (malattie mentali insorte, coma, stato vegetativo...) di esercitare le sue facoltà.21
21E. Sgreccia, Manuale di Bioetica vol.I, op. cit., p.137
19
L’assenza di proprietà o funzioni cioè, non nega l’esistenza del sostrato ontologico che
preesiste alle sue qualità; l’assenza di funzioni non modifica la sua natura ontologica.
Dunque non si può essere più o meno persone, secondo gradi diversi di intensità, in base
al livello raggiunto della maturazione fisica o psichica, ma si è sempre persone.
Il personalismo afferma che le funzioni sono sempre in relazione al soggetto, alla persona
e non che la presenza di una funzione o capacità costituisce l’esserci di un soggetto. Non
esistono cioè comportamenti razionali, sensitivi o volitivi, ma esistono i soggetti incarnati in
un corpo che percepiscono, vogliono, ragionano. Le qualità astratte non esistono: esistono
solo le concrete determinazione di un ente incarnato identificabile nella persona umana.22
4.c. Bioetica della qualità della vita
a) La vita
La bioetica della qualità della vita afferma che il fine della vita umana è il mantenimento di
un adeguato livello di qualità della vita che non dipende da nessun principio esterno o
assoluto, ma solo dalla libertà e razionalità dell’uomo; non è detto infatti che la vita sia
sempre considerata degna di essere vissuta. Per alcuni, in determinate situazioni, essa può
essere modificata o interrotta.
La vita cioè non è un bene in sé e per sé ma ha un valore prima facie (che vincola a prima
vista-prima facie appunto- ma che ammette delle eccezioni nel caso si scontri con altri
principi). Questo valore dunque può variare ed è conferito dall’uomo in base alle circostanze,
un uomo che non accetta altra autorità se non la sua coscienza.
Infatti “non è la vita in quanto tale [...] a possedere pregio, bensì la qualità (o il ben-essere)
della vita».23
Per garantire dunque il diritto di scegliere come vivere e come morire, deve essere tutelato:
a) il principio di autonomia ed autodeterminazione di ogni individuo che è libero di
scegliere della propria esistenza in tutti i suoi stadi;
b) il concetto di “disponibilità della vita” che ritiene che della vita si può disporre sulla
base di scelte individuali al fine di migliorane la qualità.
22F.D’Agostino, L.Palazzani , Bioetica .Nozioni fondamentali , op.cit., pp.50-51 23Giovanni Fornero Bioetica cattolica e bioetica laica, op.cit., p. 74
20
La moralità dunque diviene una impresa umana in quanto l’uomo è libero di stabilire le
norme e di stabilirle secondo la sua volontà, previo il consenso del gruppo che forma la
comunità morale ed in modo responsabile rispetto agli altri individui.24
Valori fondamentali di questo approccio risultano dunque essere l’autonomia degli individui
e la loro responsabilità rispetto agli altri.
b) La persona
Nel modello della qualità della vita la persona è tale solo se soddisfa alcune caratteristiche
che la rendono persona (quali razionalità, autocoscienza, relazione).
La bioetica laica che si ispira al principio della qualità della vita, afferma che la persona
umana è tale per le sue facoltà (sopracitate) cioè le vite presentano un diverso rilievo
qualitativo a seconda dei contesti e delle caratteristiche concrete (coscienza, capacità o
meno di scelta ecc.) delle persone coinvolte.25
Tutti dunque siamo individui umani nel senso di appartenenti alla specie umana, ma non
tutti siamo persone o non in tutti i momenti della nostra vita. Nel testo “Valori comuni”
l’autore S. Maffettone, docente e filosofo italiano, fa proprie le tesi sostenute da quella che
lui chiama la visione laica e pluralista della bioetica presentando il tema della persona
separato da quello di essere umano. Per l’autore, si deve partire dall’assunzione che non
tutte le persone siano esseri umani e viceversa. I feti, gli uomini in coma ed altri casi sono
esseri umani ma non persone. Dio, gli angeli sono persone ma non esseri umani.26
Esponenti italiani di questo concetto di persona sostenuto dalla Bioetica laica sono Mori,
Lecaldano, Scarpelli. A livello internazionale non si può non citare i due autori più
emblematici e discussi, le cui affermazioni hanno sempre dato origine ad accesi dibattiti:
Tristam Engelhardt e Peter Singer.
«Not all humans are persons. Not all humans are self-conscious, rational, and able to
conceive of the possibility of blaming and praising. Fetuses, infants, the profoundly mentally
retarded and the hopelessly comatose provide examples of human nonpersons.
Such entities are members of the human species. They do not in and of themselves have
standing in the moral community. They cannot blame or praise or be worthy of blame or
24Elena Soetje, La responsabilità della vita, Paravia, Torino 1997, pp20-21 25E. Lecaldano, L’etica teorica e la qualità della vita, Rivista di filosofia, 2001. 26A.Pessina, Bioetica l’uomo sperimentale, Bruno Mondadori, Milano 1999 ,p. 8
21
praise. They are not prime participants in the moral endeavor. Only persons have that
status».
“Non tutti gli esseri umani sono persone. Non tutti sono autocoscienti, razionali, e capaci di
concepire la possibilità di biasimo e della lode. Feti, infanti e ritardati mentali gravi o feriti in
coma irreversibile sono umani ma non sono persone. Sono membri della specie umana.
Essi non hanno lo status di membri della comunità morale. Non possono biasimare né
essere biasimati, né lodare né essere lodati. Essi non sono attori primari dell’impresa etica.
Solo le persone hanno questo status”.27
Per Engelhardt dunque sono le persone e non gli esseri umani a godere di uno statuto
speciale ed ad essere moralmente rilevanti. Come si evince dal testo riportato, ciò che fa
una persona, persona, è la sua capacità di essere razionalmente consapevole ed agire
moralmente (meritare lode ed evitare biasimo).
Similmente, Peter Singer distingue tre categorie:
gli esseri autocoscienti, cioè gli adulti in grado di intendere e di volere, ma anche alcuni
animali con un certo grado di razionalità e di autocoscienza (gorilla e scimpanzé), per i quali
è valido il rispetto dell’autonomia;
gli esseri coscienti, animali, feti, neonati, persone con disabilità o patologie mentali, nei
confronti dei quali si pone il problema della massimizzazione del piacere e della
minimizzazione della sofferenza;
gli esseri non coscienti, embrioni, neonati anencefalici, persone in stato vegetativo
persistente di fronte ai quali non si pongono problemi etici e morali, dato che essi non vivranno
mai una degna qualità di vita. Di conseguenza, la loro soppressione, risulta moralmente
accettabile.
“La mia tesi è che venga accordato alla vita di un feto un valore non più grande di quello della
vita di un animale non umano a livello simile di razionalità, autocoscienza, consapevolezza,
capacità di sentire. Siccome il feto non è una persona, nessun feto ha la stessa pretesa alla
vita di una persona(…). Il fatto che un essere sia un umano nel senso di membro della specie
homo sapiens non è rilevante alla immoralità di ucciderlo; sono piuttosto caratteristiche quali
la razionalità, l’autonomia e l’autocoscienza che fanno la differenza. Neonati con
27Engelhardt H. T., The Foundations of Bioethics, Oxford University Press, New York - Oxford 1986, 104.
22
malformazioni mancano di tali caratteristiche. Pertanto l’ucciderli non può essere posto sullo
stesso piano dell’uccidere esseri umani normali, o qualsiasi altro essere autocosciente”28
Per entrambi si parla di un personalismo funzionalista, tipico della visione laica dato dal fatto
che non tutti gli esseri umani sono persone degne dello stesso rispetto morale, per i quali
l’esserci della persona (e quindi di un soggetto titolare di diritti) dipende dalla presenza o
meno di determinate caratteristiche, di determinate funzioni definite “indicatrici di personalità”.
In conclusione il personalismo laico approda ad una specie di antiegualitarismo bioetico con
tutte le implicazioni che questo comporta in merito a pratiche come l’aborto, l’eutanasia e
l’infanticidio.29
c) Le implicazioni in ambito bioetico
Se la vita pur essendo un bene non è un bene assoluto, in base al principio di
autodeterminazione, io posso scegliere liberamente cosa fare della mia vita quando ritengo
che non presenti più standard di qualità adeguati. Non c’è infatti nessuno, se non il soggetto
stesso che può dirmi cosa fare, né nessuna morale eteronoma che guidi all’interno di un
orizzonte valoriale prestabilito il mio cammino.
Il considerare inoltre non tutti gli uomini persone, ma il subordinare la persona alle sue
facoltà apre a scenari problematici non solo in campo valoriale, ma anche in ambito di
distribuzione delle risorse sanitarie. A chi dare un cuore da trapiantare nel caso dovessimo
scegliere tra un individuo sano fisicamente ed un uomo con handicap e prospettive di vita
ridotte? Nell’eventualità di risorse sanitarie limitate, chi aiutare? A chi distribuirle? Non
sicuramente a pioggia su tutti i malati perché probabilmente alcuni avranno priorità su altri
dato l’assunto che la “vita umana” ha fasi differenti su cui è più o meno lecito intervenire
bioeticamente, per gradi di importanza e di legittimità. L’esserci della persona dipende infatti
dalla presenza di determinate caratteristiche o funzioni.
Possiamo concludere affermando che la differenza sostanziale tra i due ambiti è data dalla
sacralità, dalla indisponibilità della vita per la prima visione, in contrasto con la qualità -
disponibilità della vita per la seconda visione.
28 P. Singer , Etica pratica, Ed. Liguori, Napoli 1989, p.102 29G.Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, op.cit. p.116
23
Ciò implica che la bioetica cattolica non sia indifferente alla qualità della vita, ma che il
criterio primario e decisivo per ogni intervento è la sacralità della vita non la sua qualità.
Infatti come afferma E. Sgreccia “prima viene la valutazione della vita in se stessa e nel suo
valore trascendente, e poi si deve cercare anche la migliore qualità della vita, nel senso
sanitario e sociale.” Viceversa nella bioetica della qualità della vita la nozione di qualità della
vita non significa che la vita non sia “sacra” nel senso di alto valore, ma solo che nella scelta
tra la difesa della vita come dogma assoluto e la qualità di essa si dà priorità alla qualità.30
4.d.Il concetto di natura nella prospettiva della bioetica laica e cattolica
Queste due prospettive hanno un modo diverso di intendere il concetto di natura dal quale
dipende o meno la possibilità di rendere leciti o meno determinati intervento sulla vita umana
.La nozione classica di natura in Aristotele è quella per la quale la natura è ciò che ha in sé
il principio del proprio movimento senza l’intervento dell’uomo. La natura ha dunque un
finalismo intrinseco che non è toccato dall’uomo differendo così da ciò che è invece
artificiale, cioè che è opera della produzione umana.
4.d.1 La natura per la Bioetica cattolica
Per la bioetica cattolica e l’etica della sacralità della vita, il processo biologico naturale è da
rispettarsi in quanto l’ordine naturale del creato riflette il piano di Dio rivelando dunque un
ordine divino che intrinseco all’essere, è conoscibile dalla ragione umana. C’è dunque una
verità, una legge che Dio ha inserito nel creato e nella natura che l’uomo deve riconoscere
con la sua ragione. Nella natura parla dunque la sapienza di Dio, c’è un ordine metafisico
naturale delle cose e di conseguenza la vita in quanto dono di Dio deve rispettare il finalismo
intrinseco nel processo biologico naturale che non può essere fermato. Se la natura ha un
principio dinamico di sviluppo orientato verso determinati scopi, l’individuo nel suo agire non
deve disattenderlo ma solo rispettarlo.
Il medico cioè può intervenire per curare una patologia che aveva modificato il naturale
sviluppo o corso del corpo perché ciò consentirebbe il proseguo dello sviluppo della
persona, ma è illecito ogni intervento che si oppone allo sviluppo naturale ed è cioè difforme
dalle modalità che la natura utilizza per conseguire questo sviluppo. Dunque la medicina ed
30Ivi , p.212
24
il progresso tecnico-scientifico hanno come compito solo la difesa e la protezione dell’ordine
voluto da Dio, non la sua manipolazione. In relazione alla liceità o meno degli interventi in
ultima analisi si può affermare in base a queste premesse che:
è lecito ogni intervento medico che favorisce lo sviluppo naturale della vita di una
persona(es. medicinali, interventi chirurgici…): sono gli interventi secondo natura.
È illecito ogni intervento che si opponga allo sviluppo naturale della vita di una
persona(aborto, eutanasia): sono gli interventi contro natura.
E’ illecito ogni comportamento che è difforme dal modo che la natura umana indica
per conseguire tale sviluppo (es. fecondazioni artificiali): sono gli interventi
innaturali.31
4.d.2 La natura per la Bioetica laica
Nella bioetica laica si ritiene invece che la natura non sia una realtà immutabile che porta in
se stessa l’immagine e la volontà di Dio, né un contenitore di valori dal quale ricavare regole
fisse di comportamento, ma solo un prodotto culturale: ciò che è naturale è deciso e stabilito
dall’individuo in base alla libera scelta.
Il concetto di natura diventa così culturale (cioè frutto dell’uomo) storico e convenzionale,
soggetto cioè a cambiamenti nel corso del tempo, della storia e della stessa vita
dell’individuo. Il confine tra naturale e quello che non lo è, dipende dai valori e dalle decisioni
degli uomini.
“I laici sanno che il confine tra quel che è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e
dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell’idea di natura. Nel momento in cui le
tecnologie biomediche allargano l’orizzonte di quello che è fattualmente possibile, i criteri
per determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è non possono in alcun modo derivare da
una pretesa distinzione tra ciò che sarebbe naturale e ciò che naturale non sarebbe.” 32
31Ivi,p.40 32Manifesto di bioetica laica, da Il Sole 24 ore
25
E’ dunque l’uomo che di volta in volta decide con le proprie scelte cosa fare della propria
vita, cioè ciò che è naturale o meno è stabilito dall’uomo (è appunto culturale). Per questo
a differenza dell’etica della sacralità della vita, dove nella natura in quanto espressione della
legge divina deve essere sempre rispettata la intrinseca finalità, nella bioetica laica la natura
dell’uomo “è quella di non avere una natura, ma di determinare la propria storia attraverso
le proprie scelte.”33
Conseguentemente in relazione a questo concetto di natura ed al principio di autonomia in
ambito biomedico, il paziente diviene un soggetto attivo e responsabile che assume su di
sé le decisioni che lo riguardano per il suo bene e che concordano con la sua visione del
mondo. Per questo non si devono porre limiti alla possibilità di utilizzo delle biotecnologie
per “manipolare” la propria vita. Lo stesso Engelhardt afferma che in futuro l’uomo avrà
sempre una maggiore capacità di forzare la natura umana in vista dei suoi scopi al fine di
produrre cambiamenti radicali.
“Se nella natura umana non c’è nulla di sacro, non sussisterà più nessuna ragione per cui,
con le dovute cautele, non la si possa trasformare radicalmente”.34
Ovviamente ciò deve essere letto non come una forma di prometeismo assoluto che non si
cura della salvaguardia della persona e della sua dignità cara anche ai laici, ma solo che
nessun principio a priori possa limitare la libera autoprogettazione dell’uomo.
Un confronto riepilogativo di quanto detto delle due visioni lo si può evincere dal testo di E.
Soetje La responsabilità della vita, quando l’autrice afferma :
“Il principio della sacralità della vita impone il rispetto assoluto del finalismo intrinseco nel
processo biologico-naturale e quindi il dovere di rispettare tale processo senza ammettere
eccezioni: ciò implica il divieto, dell’aborto che interrompe il processo naturale che può
portare allo sviluppo ed alla nascita di un individuo; il divieto dell’eutanasia che interrompe
anticipatamente il processo naturale che conduce alla morte (…)e così via. Per l’etica della
sacralità della vita pertanto l’uomo è libero di scegliere se seguire o meno le norme dettate
dal principio primo e date indipendentemente dalla sua volontà; ma il suo dovere resta
l’obbedienza a tali norme. (…) All’uomo è negata qualsiasi possibilità di frapporsi al corso
naturale dei processi biologici: egli ha solo la libertà di obbedire o meno alle leggi date, ma
33M. Mori, Bioetica, 10 temi per capire e discutere, op.cit., p.29
34T.Engelhardt ,Manuale di bioetica, p.430 in G. Fornero , op. cit. p. 83.
26
qualora decida per la non obbedienza, il suo agire viene giudicato moralmente
illecito.(…).Caratteristica fondamentale e discriminante dell’etica della qualità della vita è il
riconoscimento di principi e di doveri stabiliti dall’ uomo in relazione alle circostanze storico-
sociali, e pertanto mai assoluti, suscettibili di essere mutati, tali da ammettere comunque
almeno una eccezione: da questi discendono delle norme considerate valide finchè
riescono a garantire un livello di qualità di vita considerato sufficientemente adeguato. Non
appena tale condizione sia insoddisfatta, norme, principi, e giudizi risultano ingiustificati.
Fine dell’etica della qualità della vita è pertanto il mantenimento di un adeguato livello di
qualità della vita e l’obbedienza alle norme è solo il mezzo per raggiungerlo.”35
5. Tipi di eutanasia e posizione della Bioetica laica e cattolica
5.a. Tipi di eutanasia
Daremo ora delle definizioni dei vari tipi di eutanasia che sono proposti anche se
effettivamente solo un tipo viene oggi preso in considerazione nel dibattito bioetico e
legislativo.
Eutanasia attiva: qualsiasi azione che provoca direttamente la morte(es. staccare il
respiratore, fare una iniezione mortale).
Eutanasia passiva: qualsiasi omissione di azione che provoca indirettamente la morte
(es…non attaccare il respiratore ad una persona che sta per morire soffocata, non dare
terapie salvavita). Non si compie cioè una azione diretta, ma non facendo una azione si
provoca la morte. La morte è dunque intenzionalmente voluta anche se non si interviene
direttamente.
Eutanasia sociale: relativamente a categorie considerate improduttive nella società, in
relazione al rapporto costi-benefici(cioè sono un eccessivo costo per la società senza un
corrispettivo produrre), alcuni ritengono che possano essere uccise. Il primo progetto di
eutanasia sociale (anche se in altro contesto e per altre finalità) lo fece Hitler quando uccise
circa 70.000 malati mentali o con altri handicap tedeschi nei manicomi utilizzando le camere
a gas, per promuovere la purezza della razza ariana. Il progetto di chiamò Aktion T4 e
avvenne tra il 1933 ed il 1939. L'Aktion T4, sotto responsabilità medica, prevedeva la
35E. Soetje, La responsabilità della vita, Paravia, Torino 1997, pp.20-21
27
soppressione come detto di persone affette da malattie genetiche inguaribili o da più o meno
gravi malformazioni fisiche e disturbi psichici, cioè delle cosiddette "vite indegne di essere
vissute".
Eutanasia neonatale: eutanasia per i neonati (eutanasia legale in Olanda dal 2014 per
neonati che presentano patologie tanto gravi da impedire loro di sopravvivere. Il medico
potrà decidere, insieme ai genitori, di porre fine alla vita del bambino).
Suicidio medicalmente assistito o suicidio eutanasico: consistente nella anticipazione
della morte del paziente che consapevolmente chiede aiuto al medico che prescrive dei
farmaci letali, che poi assume personalmente (permesso in Svizzera dal 1942 anche per i
non residenti). Differisce dunque dalla eutanasia vera e propria perché l’atto di uccidersi è
compiuto dal soggetto e non da terzi. Il medico o la struttura dove è permesso si occupano
di preparare la dose e di assistere la persona nel ricovero e di sbrigare le pratiche post-
mortem.
Il tipo di eutanasia che ha contribuito a sviluppare il moderno dibattito intorno al problema
della “buona morte” è l’eutanasia “individualistica” (cioè relativa ad un singolo
individuo) attiva e volontaria dunque un atto nel quale qualcuno procura la morte di una
persona che soffre di gravi dolori nella fase finale della sua vita, e chiede volontariamente e
consapevolmente di essere aiutato a morire. 36
Nel dibattito sull’eutanasia infatti è fondamentale la consapevolezza e la volontà della
persona malata di porre fine alla sua esistenza: i medici o chi per loro attuano una precisa
volontà del paziente (altrimenti si configurerebbe l’atto come omicidio). Ovviamente anche
su quanto il paziente sia libero di decidere in situazioni di estrema gravità fisica e psicologica
si accende il dibattito bioetico.
5. b. Posizione della bioetica cattolica e della bioetica laica sull’eutanasia
Dal principio della disponibilità o non disponibilità della vita che sottostà ai due paradigmi,
unito al diverso concetto di persona, ne consegue chiaramente l’accettazione o meno della
eutanasia.
5.b.1 La Bioetica Cattolica
In relazione ai principi affrontati nel punto 4.b e cioè:
la sacralità della vita;
36E. Lecaldano, Dizionario di bioetica, Laterza 2002, p.120
28
la sua indisponibilità;
il concetto di persona tipico del personalismo ontologico;
appare chiaro come conseguenza logica, che l’eutanasia attiva volontaria non è mai
accettata dalla morale cattolica. Un simile atto costituisce infatti un non rispettare il dono di
Dio e la sua sovranità. Il documento ufficiale di riferimento, che riassume tutti i
pronunciamenti dei papi37 precedenti sull’eutanasia è il documento “Eutanasia” della
Congregazione per la Dottrina della fede che afferma:
“Ora, è necessario ribadire con tutta fermezza che niente e nessuno può autorizzare
l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto,
vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto
omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi
esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né
permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di una offesa alla dignità
della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità.”38
Nel documento, benchè ci sia il totale rifiuto dell’atto che in sé è considerato immorale e
configurato come omicidio, si evidenzia come la responsabilità di chi chiede o pratica su
richiesta l’atto eutanasico possa essere diminuita o anche non sussistere a motivo delle
sofferenze e di ragioni di ordine affettivo. Perché ci sia un peccato grave infatti, occorre la
libertà di scegliere volontariamente il male tra più possibilità. La Chiesa si chiede in questi
casi quanto il dolore e la sofferenza prolungata possano aver limitato la libertà di scelta del
soggetto e quanto il vedere soffrire una persona che si ama porti ad un errore di valutazione
e di coscienza da parte di chi l’assiste. Malgrado ciò, anche se ci si deve astenere dal
giudicare coloro che in casi limite hanno chiesto o siano stati indotti dalla compassione a
porre fine ad una vita ritenuta non più tollerabile, il divieto della Chiesa resta immutato.
37Prima del documento ufficiale moltissimi sono gli interventi di Papa Pio XII (Eugenio Pacelli papa dal 1939 al 1958) in relazione all’uccisione pietosa del medico su richiesta del paziente. (Per citarne alcuni: Discorso tenuto all’associazione S.Luca del 1944; Discorso tenuto ai partecipanti del I congresso di Istopatologia del sistema nervoso nel settembre del 1952, Discorso ai partecipanti al VII congresso dei medici cattolici dell’11.09.1956). In tutti i documenti si ribadisce il divieto del medico di uccidere una paziente e quello del paziente di disporre del proprio corpo liberamente fino alla morte. Papa Paolo VI (1963-1978) rafforza questi concetti introducendo il concetto di dignità della morte che deve essere non anticipata dal medico ma se mai accompagnata evitando sofferenze (cfr Discorso al Collegio Internazionale di medicina psicosomatica del 18.09.1975). 38Congregazione per la Dottrina della fede, “Eutanasia”, Ed. Paoline, Torino 1980, p.6
29
La richiesta di eutanasia si configura infatti per la Chiesa più che come una richiesta di
morte, come una richiesta di aiuto e di affetto del paziente. Oltre alle cure mediche il malato
in queste situazioni ha più bisogno di altri di amore, calore umano e spirituale con il quale
tutte le persone devono circondarlo. Nella richiesta del malato di essere ucciso non si deve
perciò leggere, come si fa spesso frettolosamente, la manifestazione di un autonomo
esercizio di disponibilità della propria vita, ma la dichiarazione, nemmeno troppo celata, di
essere caduti in una situazione di abbandono e di disperazione che risulta essere peggiore
della morte stessa (che infatti viene richiesta). Praticare l’eutanasia non è rendere omaggio
alla libera scelta di una persona ma sanzionare lo stato di abbandono morale e sociale che
le istituzioni e la società dovrebbero combattere.39
“Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre,
l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà(…): la vera “compassione”, infatti rende solidale con il
dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza”.40
5.b.2 La bioetica laica
In relazione ai principi affrontati nel punto 4.c. e cioè:
principio di autodeterminazione;
concetto di disponibilità della vita;
concetto della persona nell’ottica funzionalista;
per la bioetica laica l’eutanasia, qualora decisa consapevolmente, è un diritto che deve
essere garantito ad ogni uomo che liberamente può scegliere cosa fare di se stesso e della
propria vita. Nel Manifesto sull’eutanasia, pubblicato nel 1974 e firmato da un gruppo di
scienziati tra i quali Monod, Pauling, Thomson ,si legge:
“… affermiamo che è immorale accettare o imporre la sofferenza. Crediamo nel valore e
nella dignità dell’individuo; ciò implica che lo si lasci libero di decidere ragionevolmente la
propria sorte.” 41
Più articolata la posizione di Rachels che distingue all’interno del concetto di vita, tra vita in
senso biologico(essere vivi) e vita in senso biografico(avere una vita, cioè desideri,
39D’Agostino, L. Pallazani, Bioetica…, op.cit., p.130 40 Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae, Ed.S.Paolo, Milano1995,p.100 41G.Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica , op.cit.,p.173
30
aspirazioni, attività, progetti). Gli uomini non solo sono vivi, ma hanno una vita cioè ognuno
di noi ha una sua propria storia esistenziale e morale. Da qui la distinzione tra:
Vita Biologica (zoe) essere vivi
Vita Biografica (bios) avere una vita
In virtù della distinzione tra essere vivi ed avere una vita, Rachels deduce che la vita da
rispettare, quella che essere considerata “sacra” è solo la vita in senso biografico e non
puramente la vita in senso biologico. Ci sono momenti della vita infatti, dove una persona
non ha più una vita in senso biografico e dunque ucciderla non implica la distruzione della
vita in senso proprio, ma solo della vita biologica. Una persona con l’Alzheimer non ha più
una vita in senso biografico, una in stato vegetativo nemmeno. La conseguenza è dunque
la legittimazione dell’eutanasia sia attiva che passiva poiché non c’è niente di male a
causare la morte di qualcuno, se la sua morte è, considerate tutte le alternative, un bene.42
In certi casi l’eutanasia dunque è eticamente doverosa e non solo umanamente accettabile.
Perciò la struttura che caratterizza oggi la bioetica è una struttura dicotomica tra i sostenitori
dell’etica della indisponibilità della vita e l’etica della disponibilità della vita. Questa divisione
tende ad assumere la forma di una contrapposizione tra etiche della vita ed etiche della
scelta, cioè tra coloro che privilegiano il valore della vita (pro life) e sono contrari alla
possibilità di decidere liberamente di sé (anti-choice) e coloro che privilegiando il valore della
autonomia sono a favore della scelta(pro-choice).43
6. Nuova attenzione alla fine della vita: accanimento terapeutico, trattamento
proporzionato/sproporzionato. La prospettiva laica e cattolica
6.a Definizione
Per accanimento terapeutico si intende la persistenza nell’uso di terapie quando è
comprovata la loro inefficacia ed inutilità sia sul piano di guarigione/ miglioramento, sia in
42 Ivi, p.160 43 Ivi, p.176
31
relazione alla qualità della vita (poiché si aggiunge un rischio elevato o una maggiore
sofferenza al paziente).Il primo criterio è dunque quello della documentata inefficacia, e
quindi inutilità della terapia. Il secondo criterio, è quello della gravosità del trattamento che
rischia di determinare nuove ulteriori sofferenze, fisiche e morali, tali da configurare un
atteggiamento di “violenza terapeutica”.44
Nei paesi anglosassoni il termine accanimento terapeutico è sostituito da termini
come futility o therapeutic obstinacy, over treatment, aggressive medical treatment che
rendono in modo migliore l’idea di trattamenti eccessivi ed inefficaci.
Questo concetto è espresso anche nel Codice Italiano di Deontologia Medica, dove
l'accanimento terapeutico è definito come una irragionevole ostinazione in trattamenti da cui
non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della
qualità della vita.
L’accanimento terapeutico sembra essere oggi una conseguenza del cosidetto “vitalismo”
medico, concetto per il quale:
a)la vita biologica è sempre buona in sé;
b) il dovere primo del medico è quello di fare sempre tutto il possibile per prolungare la vita
e posticipare la morte del paziente.
Ora, questo atteggiamento nel passato aveva una sua plausibilità data la brevità della vita
e gli scarsi strumenti a disposizione per contrastare la morte: gli interventi possibili infatti
erano pochi e su persone abbastanza giovani. Intervenire sempre per il medico era
doveroso perché se l’intervento avesse avuto successo, il beneficio sarebbe stato notevole
in quanto venivano ridati anni di vita ad una persona; qualora invece l’intervento fosse stato
infausto il costo del tentativo non sarebbe stato grave. Oggi con i mezzi a disposizione, la
situazione è mutata ed è diventato chiaro che il vitalismo medico oltre una certa soglia si
configura come accanimento terapeutico, perché l’intervento che pretende di essere
“terapeutico” (cioè che serve a guarire), non fa altro che aumentare il suo dolore.45
Stabilire quando si configura accanimento terapeutico o no, non è sicuramente facile. Ci si
richiama al principio di proporzionalità terapeutica che è un principio di giustificazione etica
e giuridica dell’atto medico. La proporzionalità terapeutica è individuata confrontando la
terapia, i rischi, le spese necessarie, la reale possibilità di applicazione ed i risultati che si
44 Comitato Nazionale di Bioetica , op.cit., p.28 45M.Mori, Bioetica, 10 temi per capire e discutere, op.cit. pp.97-98.
32
possono avere tenendo conto delle condizioni del paziente e delle sue forze fisiche e morali.
Avendo davanti questi fattori è lecito solo l’atto i cui benefici sono superiori o uguali ai rischi
previsti. E’ proposta la distinzione tra:
trattamenti eticamente doverosi, perché c’è una proporzione tra benefici attesti e
rischi previsti. Infatti anche se gli interventi risultano aggressivi ed intensivi, essi sono
leciti se c’è una seria speranza di guarigione e quando la sofferenza è accettabile in
relazione ai benefici che si otterranno;
trattamenti che non si devono effettuare perché si configurerebbero come
accanimento terapeutico poiché prolungherebbero la vita di poco con maggiori
sofferenze del paziente;
trattamenti opzionali, dove cioè c’è una limitata proporzione tra rischi e benefici ed il
paziente può decidere se accettare o no di sottoporsi al trattamento. Infatti l’uso di
terapie messe a disposizione dalla medicina più avanzata (anche se sperimentali)
vanno valutate caso per caso: sono da ritenersi facoltative, in quando lecito ricorrevi
in assenza di altri rimedi quando, anche se non risolutive, servono ad alleviare la
sofferenza e a migliorare, seppur temporaneamente la qualità della vita.
L’accanimento terapeutico, il vitalismo medico, è dunque considerato in generale
sbagliato(proibito per es. dalla Chiesa Cattolica, dal Codice deontologico medico) perché
non fa il bene del paziente. C’è infatti la consapevolezza da parte di tutti che le situazioni
terminali, di fine vita, vanno trattate con modalità diverse a quelle elaborate per la terapia
delle altre malattie (acute o croniche).46
6.b Terapia e cura
Poiché l’accanimento terapeutico si configura come un utilizzo sproporzionato di terapie,
occorre in questo ambito ricordare la distinzione tra terapia e cura.
Per terapia si intende qualsiasi atto volto a favorire la guarigione del paziente; per cura si
intendono gli atti ordinari volti a mantenere la dignità del paziente. In genere si configura
46 Ivi, p.100
33
come cura l’alimentazione, l’idratazione, l’aspirazione del catarro bronchiale, la detersione
delle ulcere da decubito.47
Mentre le terapie possono dunque essere sospese (perchè si potrebbero configurare
accanimento terapeutico qualora fossero gravose e senza benefici) le cure no, in quanto
dovute per il mantenimento minimo della dignità della persona (una persona non può cioè
essere lasciata morire di fame, sete, infezione, o soffocamento).La bioetica cattolica fa
propria questa distinzione mentre in alcuni ambiti bioetici, l’alimentazione e l’idratazione
artificiali si configurano come terapie e non come cure, dunque possono essere sospese in
quanto proseguirle si configurerebbe come accanimento terapeutico (caso Terry Schiavo in
America- caso Englaro in Italia)
6.c. Bioetica cattolica ed accanimento terapeutico
La Bioetica cattolica valuta negativamente l’accanimento terapeutico, configurandolo come
una forma di dominio dell’uomo sul corso degli eventi. L’atteggiamento di dominio (basato
sul principio di autonomia ed autodeterminazione) che porta ad anticipare la morte con la
richiesta eutanasia ,è lo stesso che porta a volerla procrastinare a tutti i costi non
arrendendosi a questo evento(quando ovvio si configurano le situazioni sopracitate).
Già Papa Pio XII nel 1957 parlò di mezzi terapeutici “ordinari” e “straordinari” fornendo la
direttiva della obbligatorietà dei mezzi ordinari per il sostegno dei morenti, ma anche della
possibilità di rinunciare ai mezzi straordinari anche quando questa rinuncia determina una
anticipazione della morte. I mezzi “straordinari” erano considerati quelli che generalmente
incrementavano la sofferenza del paziente.
Oggi questi termini sono sostituiti da mezzi “proporzionati” e mezzi “sproporzionati”: sempre
obbligatorio è l’uso del mezzo proporzionato, mentre si può rinunciare al mezzo
sproporzionato. Nel documento “Eutanasia” già citato, si legge:
“In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi
a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale
e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio
di generosità per il bene dell’umanità.
- È anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le
speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere, si dovrà tener conto
47E.Sgreccia, Manuale di bioetica vol.I, op.cit.,p 652
34
del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici
veramente competenti; costoro potranno senza dubbio giudicare meglio di ogni altro se
l’investimento di strumenti e di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se le
tecniche messe in opera impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici
che se ne possono trarre.
- È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può,
quindi, imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto già in uso,
tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al
suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di
evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si
potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla
collettività.
- Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza
prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un
prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali
dovute all’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che
non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo.” 48
Si evidenzia come rifiutare l’accanimento terapeutico, non equivalga ad una eutanasia
passiva. Infatti mentre in quest’ultima l’omissione delle terapie è intenzionalmente volta a
far morire il paziente, nel rifiuto dell’accanimento terapeutico l’intenzione è quella di non
opporsi al decorso naturale della morte, senza rimanere ancorati ad uno sterile vitalismo.
La morte va combattuta, ma quando non c’è più nulla da fare occorre che faccia il suo corso,
occorre lasciar morire con dignità.
La sospensione dell’accanimento terapeutico non deve infatti essere confusa con
“l’abbandono terapeutico”: una cosa infatti è sospendere trattamenti vitali sproporzionati se
non sono più in grado di arrestare il processo della morte (anzi aggiungerebbero solo dolore
e sofferenza) mantenendo invece le cure ordinarie e proporzionate; un’altra cosa è invece
sospendere i trattamenti (proporzionati e sproporzionati) con l’intento di provocare la morte.
In questo caso infatti non è la malattia a provocare la morte, ma l’omissione di sostentamenti
ordinari, sempre e comunque dovuti al paziente.49Occorre anche ricordare che pur rifiutando
le terapie, le cure (intese come abbiamo sopracitato) devono invece essere mantenute.
48Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, Eutanasia, op. cit., pp.9-10 49D’Agostino, L. Palazzani ,Bioetica…,op.cit., p. 126
35
Il diritto alla morte della persona per la bioetica cattolica infatti, non significa che ognuno
può procurarsi la morte o farsi procurare la morte come vuole, ma solo che la persona ha
diritto a morire con dignità, senza sofferenza.50
6.d. Bioetica laica ed accanimento terapeutico
Nella visione pluralista tipica della bioetica laica, dove non c’è una autorità unanimemente
riconosciuta come il Magistero della Chiesa Cattolica, possiamo affermare che il comun
denominatore che lega le varie posizioni è dato dal fatto che in base al principio di
autodeterminazione il malato è libero di decidere se accettare o meno trattamenti relativi
alfine vita. E’ solo alla coscienza del malato che spetta di decidere di rifiutare
preventivamente cure indesiderate, compresa la nutrizione e respirazione artificiali.
Come già precedentemente osservato infatti (punto6.b.),in alcuni ambiti bioetici (in particolar
modo di esponenti della bioetica laica… ma non solo), l’alimentazione, l’idratazione e la
respirazione artificiali, vengono considerate terapie e non interventi di cura ordinaria, quindi
possono essere sospesi in quanto si configurano come accanimento terapeutico, (tutto ciò
valutando ovviamente con massima attenzione i singoli casi e le condizioni di ogni singolo
paziente). Il caso Englaro e Welby in Italia hanno alimentato con forza questo dibattito
proprio perché si è interrotta l’alimentazione e l’idratazione nel primo caso, la respirazione
artificiale nel secondo.
6.e. Accanimento terapeutico: il Codice deontologico medico ed il Comitato Nazionale
di Bioetica
Per completezza e per concludere sull’accanimento terapeutico, riportiamo le posizioni del
Codice deontologico medico (che contiene le norme di autodisciplina vincolanti per gli iscritti all’ordine)
e del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB-Istituito con Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
il 28 marzo 1990 ,svolge sia funzioni di consulenza presso il Governo, il Parlamento e le altre istituzioni, sia
funzioni di informazione nei confronti dell’opinione pubblica sui problemi etici emergenti con il progredire delle
ricerche e delle applicazioni tecnologiche nell’ambito delle scienze della vita e della cura).
50E.Sgreccia, Manuale di Bioetica vol.I, op.cit., p. 651
36
Il Codice deontologico medico proibisce l’accanimento come si evince dai due articoli
sottostanti, in nome della dignità del paziente, rifiutando dunque il vitalismo medico in auge
all’inizio del 1900.
Art. 16
Procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati
Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante
legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in
procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non
proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la
salute e/o un miglioramento della qualità della vita. Il controllo efficace del dolore si
configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato.
Il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso
un comportamento finalizzato a provocare la morte.
Art. 18
Trattamenti che incidono sull’integrità psico-fisica
I trattamenti che incidono sull’integrità psico-fisica sono attuati al fine esclusivo di procurare
un concreto beneficio clinico alla persona.
Allo stesso modo il Comitato Nazionale di Bioetica valuta in modo negativo l’accanimento
terapeutico definendolo come "segno di una medicina che ha perso il vero obiettivo della
cura: una medicina che non si rivolge più alla persona malata, ma alla malattia e che avverte
la morte come una sconfitta e non come evento naturale ed inevitabile.”51
7. Nuova attenzione alla fine della vita: la medicina palliativa e la cura del malato
terminale.
7.a Significato di medicina palliativa
L’attenzione al fine vita oggi ha portato dunque a quella che è definita “l’umanizzazione della
morte”, permettendo conseguentemente lo sviluppo della la medicina palliativa. Il termine
deriva da pallium cioè mantello, proprio perché questo tipo di medicina, si occupa della
51 Comitato Nazionale di bioetica, Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana,14 luglio 1995,op.cit.,p.45
37
totalità della persona (come un mantello che avvolge tutto l’uomo) colmando il vuoto della
medicina tradizionale. Quest’ultima è volta alla cura della malattia, con l’obiettivo di guarire
il paziente. Quando non c’è più nulla da fare infatti, la medicina si trova impreparata a gestire
la situazione. Dalla riflessione su questo aspetto nasce la medicina palliativa che si prende
carico e cura del paziente nelle ultime fasi della sua vita, quando appunto non c’è più
prospettiva di guarigione. L’avvento della medicina palliativa dunque è decisamente un
grande avanzamento per la medicina, che per la prima volta rivolge la sua attenzione alla
dignità della morte e non più solo alla tutela della vita. Questa scelta parte dalla
constatazione che anche quando non è più possibile guarire, è però tuttavia ancora possibile
curare. Con questo termine si intende il prendersi cura (etimologicamente «prendere a
cuore»; nel mondo anglosassone si distingue «to cure» guarire, da «to care» assistere)
dell'ammalato nei suoi bisogni fisici, cognitivi, emotivi e spirituali, ossia nella completezza
della sua persona. Tutto ciò nel contesto relazionale in cui la persona è inserita, e cioè, nel
caso più frequente, nella sua famiglia: perché questa sia messa in grado e sostenuta nel
suo compito di vivere col proprio congiunto l'iter completo della malattia, inclusa la fase del
morire.52
Le cure palliative si rivolgono a pazienti in fase avanzata di ogni malattia cronica ed
evolutiva: in primo luogo malattie oncologiche, ma anche malattie neurologiche, respiratorie,
renali, cardiologiche e hanno lo scopo di offrire alla persona malata la migliore qualità di vita
possibile nel rispetto della sua volontà. La terapia palliativa infatti, ha il significato di
riconoscere che anche il morente è un vivente, e cioè che la fine della sua vita è inerente
alla vita e non al di fuori di essa, e che la sua natura umana e il suo essere persona non
scompaiono finché non c'è la morte. Prima di essa, la vita continua a mantenere tutta la sua
dignità e rispetto. Lo “Statuto dell' “ Associazione Europea per le Cure Palliative” afferma:
"Le cure palliative consistono nell''assistenza attiva e totale dei pazienti
terminali quando la malattia non risponde più alle terapie ed il controllo del
dolore, dei sintomi, degli aspetti emotivi e spirituali e dei problemi sociali
diventa predominante. Le cure palliative hanno carattere interdisciplinare e coinvolgono il
paziente, la sua famiglia e la comunità in generale. Le cure palliative rispettano la vita e
considerano il morire come un processo naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o
differire la morte, ma quello di garantire la migliore qualità di vita, sino alla fine".
52 Ivi, p.44
38
E’ chiaro dunque che la medicina palliativa si occupa del paziente nella sua totalità, non è
rivolta solo alla malattia, ma al malato nel suo aspetto fisico, relazionale, emotivo. Si
evidenzia anche che la terapia palliativa non è considerata una eutanasia o un
accanimento terapeutico (accellerare o differire la morte) ma solo accompagnare il
morente, non abbandonando il paziente a se stesso nelle fasi delicate e finali della sua
vita.
“Le cure palliative costituiscono pertanto una risposta adeguata al bisogno di assistenza
dei malati inguaribili. Il «malato inguaribile», proprio per la sua condizione di sofferenza, ha
bisogno di continue cure finalizzate non a prolungare la vita ad ogni costo e con ogni mezzo,
bensì a migliorarne la qualità: cure rivolte alla assistenza psicologica al paziente ed alla
famiglia, al sostegno spirituale, al trattamento dei sintomi, alla terapia del dolore”.53
7.b.Le origini e l’articolazione delle terapie
La nascita della moderna medicina palliativa, intesa come consapevole e mirata opera del
portare sollievo ai malati senza speranza di guarigione, è attribuita a d una infermiera
inglese Cecily Saunders , poi divenuta medico con lo specifico scopo di portare la medicina
su un campo allora poco praticato. Dopo aver trascorso molti anni accudendo malati di
tumore in fase terminale, decise di fondare un'istituzione apposita per permettere un
trattamento dignitoso a tutti i pazienti in fine vita. Nel 1967 nacque dunque il primo ospedale
in cui l’attenzione era rivolta al paziente inguaribile, dove si utilizzavano cure e terapie volte
appositamente a limitare la sofferenza.
Le cure palliative nel senso che abbiamo detto possono effettuarsi in tre diversi modi: in
ospedale, in hospice, nelle cure domiciliari.
L'hospice è la struttura residenziale in cui il malato inguaribile e la sua famiglia possono
trovare sollievo per un periodo circoscritto e poi fare ritorno a casa, per vivere nel conforto
gli ultimi giorni di vita. E’ il luogo in cui vengono accolti i malati temporaneamente o
definitivamente quando non possono essere assistiti a domicilio per particolare
aggravamento delle condizioni cliniche, o per impossibilità dei familiari a garantire
l'assistenza necessaria.
53 Ivi, p.45
39
Gli hospice hanno una arredamento familiare, camere dove i congiunti possono dormire e
spazi condivisi; si ricrea cioè il più possibile l’ambiente domestico. Vi si lavora in team dato
l’approccio olistico alla persona con il coinvolgimento del medico, dello psicologo,
dell’infermiere, dell’operatore socio sanitario, dell’assistente spirituale e dei volontari.
Possono venire coinvolti nel percorso di cura anche il fisioterapista e l’assistente
sociale. Impegnarsi infatti professionalmente in modo specifico ad alleviare le sofferenze
del malato terminale significa aver compreso che la fine dell'esistenza non è un residuo
materiale di vita disumanizzata, ma che si può fare di essa un tempo forte della vita dal
quale acquisire esperienza. L'hospice dunque, si configura non come il luogo dove si va a
morire ma a vivere al meglio una fase naturale della propria esistenza (terminale di una
malattia incurabile), e dai cui è sempre possibile tornare alle cure domiciliari.
In questo senso la cura palliativa è un richiamo al più antico e basilare
concetto di cura: provvedere alle necessità ed esigenze dei pazienti in qualsiasi
luogo si trovino o abbiano scelto per essere curati, al domicilio od in ambito
ospedaliero. Dati empirici inoltre mostrano che il ricorso alle cure palliative garantisce alle
persone un periodo di sopravvivenza uguale a quello che si avrebbe insistendo con le
terapie aggressive, ma con il vantaggio non indifferente di non subire effetti collaterali di
queste ed avere cioè una qualità della vita finale con una sensibile diminuzione di dolore e
sofferenze.54La medicina palliativa è auspicata dal Comitato nazionale di bioetica, dal
Codice deontologico medico, dalla bioetica cattolica (che le vede come netta alternativa alla
eutanasia)e dalla bioetica laica, anche se, in questo ultimo caso, le cure palliative sono
complementari con la morte volontaria: dapprima si interviene con le cure palliative e poi se
non bastassero è ammessa la richiesta eutanasica. 55
Da ricordare che in Italia, la legge n. 38 del 15 marzo 2010 tutela il diritto del cittadino ad
accedere alle Cure Palliative e alla terapia del dolore.
7.c. Per un confronto
Lo schema seguente evidenzia il modo sintetico il diverso approccio delle cure palliative e
dell’accanimento terapeutico nei confronti della persona malata, riassumendo sia il tipo di
etica che il concetto persona sottese ai due approcci.
54M.Mori, Bioetica, 10 temi…, op.cit., pp.100-101 55 Ivi, p.104
40
Accanimento terapeutico Cure palliative
Etica della onnipotenza dei mezzi
Etica della solidarietà e condivisione
Tecnicismo medico Rispetto della persona
Vede solo in corpo malato Guarda alla persona nella sua totalità
Difende solo la vita fisica Difende la vita personale
Non dà peso al dolore ed alla sofferenza Cura dolore e sofferenza
Toglie dignità al morire Ars moriendi
Rifiuto del limite Accettazione del limite
Vitalismo Vita personale
Disumanizzazione della morte Umanizzazione della morte
Rifiuto della morte Accompagnamento alla morte
7.d. Obiettivi della medicina palliativa
Questi gli obiettivi specifici della medicina palliativa:
a) lenire il dolore fisico affinchè la persona possa soffrire il meno possibile;
b) dare assistenza psicologica al paziente nell’accettazione della malattia e della morte;
c) dare assistenza spirituale (quando richiesta);
d) aiutare la famiglia dell’ammalato a convivere con la malattia. La medicina palliativa
oltre che del paziente si occupa anche dei familiari perché,la malattia coinvolge in
prima persona il malato, ma anche il suo ambito familiare e relazionale. La famiglia
si trova infatti a gestire la fatica fisica dell’assistenza e quella psicologica e spirituale
del fine vita. Questo evidenzia ancora una volta che la morte non è mai un fatto solo
individuale, ma sociale e relazionale.
Le cure palliative affrontano dunque il compito di una vera ars moriendi, di un
accompagnamento del paziente nel fine vita, che coinvolge non solo il morente, ma tutti
coloro che lo assistono e gli sono vicini, non esclusi i familiari. Questo accompagnamento
si può descrivere come un processo interpersonale in cui vi è un impegno nell'aiutare una
persona a concludere il suo ciclo vitale in modo costruttivo, cercando di mantenere nel più
alto grado possibile il livello di comunicazione, di ascolto, di accoglienza. Ciò nasce dalla
radicata convinzione che ogni persona esprime qualche aspetto irripetibile della ricchezza
della vita. Questa singolarità psicobiologica è un elemento che consente di riconoscere il
41
valore di ogni persona umana — della sua interiorità e di ciò che esprime — al di là delle
interpretazioni divergenti di tipo filosofico, religioso o ideologico.56
Se difendere la vita fisica infatti è un dovere sia del medico che del paziente, bisogna anche
affermare questo diritto con piena dignità umana.
56 Comitato Nazionale di bioetica, Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana,14 luglio 1995,op.cit., p.49
43
Comitato nazionale per la bioetica
Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana 14 luglio 1995
Sintesi e raccomandazioni
(pag.7-11 del documento -Per il testo completo si consulti il link presidenza.governo.it/bioetica/pdf/18.pdf )
Il Comitato Nazionale per la Bioetica, fin dalla sua istituzione, che risale - come è noto - al marzo del 1990, ha ritenuto indispensabile entrare nel merito del complesso insieme delle questioni che fanno della fine della vita umana uno dei più grandi, se non il massimo problema della bioetica. E lo ha fatto per gradi, secondo quella che è ben presto divenuta una sua prassi.
Il 15 febbraio 1991 il CNB ha approvato il documento intitolato Definizione e accertamento della morte nell'uomo. Pochi mesi dopo, esso ha preso in considerazione la Proposta di risoluzione sull'assistenza ai pazienti terminali approvata dalla Commissione per la protezione dell'ambiente, sanità pubblica e tutela dei consumatori del Parlamento Europeo ed ha con lodevole sollecitudine pubblicato il 6 settembre 1991 un proprio Parere in merito.
Sulla base di queste due elaborazioni si è fatta strada nel Comitato la convinzione che fossero maturati i tempi per affrontare il tema in una prospettiva più ampia e generale; nel 1994, grazie in particolare all'iniziativa del Prof. Eugenio Lecaldano, che ne diveniva coordinatore, veniva formalmente attivato un gruppo di lavoro, al quale davano la propria adesione Mauro Barni, Giovanni Berlinguer, Paolo Cattorini, Isabella Coghi, Francesco D'Agostino, Luigi De Cecco, Gilda Ferrando, Carlo Flamigni, Renata Gaddini De Benedetti, Aldo Isidori, Giancarla Landriscina, Corrado Manni, Paolo Martelli, Silvio Merli, Lucio Pinkus, Pietro Rescigno, Giovanna Rossi Sciumè, Elio Sgreccia, Sergio Stammati, Carlo Augusto Viano e ai quali successivamente si aggiungevano i nomi di Luigi De Carli e Gaetano Salvatore.
La prima e insieme la principale difficoltà, che il gruppo di lavoro è stato chiamato ad affrontare, è stata quella dell'articolazione stessa del documento, per mantenerlo entro limiti ragionevoli a fronte della complessità della materia e della pressoché sterminata letteratura bioetica in argomento; non secondaria difficoltà è stata quella di acquisire una rigorosa documentazione soprattutto in ambiti, per dir così, di frontiera, come quello della medicina palliativa (a tal fine il gruppo si è giovato anche di una audizione di esperti, quali i Proff. Vittorio Ventafrida, Francesco Campione e Numa Cellini, avvenuta il 15 dicembre 1994). Le riunioni che il gruppo ha tenuto nel 1994 (e in particolare il 15 luglio, il 6 ottobre, il 20 ottobre e il 24 novembre) hanno avuto come risultato la predisposizione - sia pur a livello di bozza - di diversi capitoli del documento finale, che veniva così acquistando una sua prima configurazione.
Una imprevista difficoltà, nell'iter del lavoro del gruppo, è stata però quella cagionata dal rinnovo del CNB, a seguito del decreto del PCDM del 16 dicembre 1994. Con questo decreto cessavano di far parte del Comitato - tra coloro che avevano dato la loro adesione al gruppo - i Proff. Ferrando,
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Flamigni, Landriscina, Martelli, Merli e Viano. Per solidarietà nei loro confronti presentavano immediatamente le loro dimissioni i Proff. Berlinguer e Lecaldano, che, malgrado le affettuose insistenze di tutto il nuovo Comitato, riunito appositamente in seduta plenaria, dichiaravano di non voler recedere dalla loro decisione. Il gruppo perdeva così, oltre a parecchi dei propri componenti, anche il coordinatore.
Il rischio di veder così vanificato un intenso lavoro, svolto ad alto livello, diveniva tangibile: questo è stato uno dei primi problemi con cui mi son dovuto confrontare, assumendo ai primi di gennaio del 1995 la presidenza del CNB. La soluzione che mi è sembrata migliore - e che credo lo sia effettivamente stata, almeno se si considera la conclusione della vicenda - è stata quella di assumere personalmente la guida del gruppo, di chiamare a farne parte altri membri e di considerare tutti i lavori già elaborati e discussi dal gruppo nel 1994 come un'ottima base di partenza per la definitiva messa a punto del documento. Il 18 febbraio aveva così luogo una nuova riunione del gruppo di lavoro, arricchito dall'adesione di Paolo Benciolini, Vittorio Danesino, Adriana LoretiBeghè, Vittorio Mathieu, Lucio Pinkus, Carlo Romanini e Everardo Zanella. A Vittorio Mathieu veniva affidato il compito di redigere un capitolo assolutamente nuovo, di carattere strettamente filosofico; i materiali già elaborati in precedenza dai Proff. Cattorini, Barni, Manni venivano invece ripresi, rivisti e integrati, così come il capitolo giuridico finale, già in precedenza elaborato dal sottoscritto. Il gruppo tornava a riunirsi il 22 aprile e il 19 maggio; nella seduta del 16 giugno tutto il materiale elaborato veniva globalmente e accuratamente discusso, per essere infine portato all'attenzione di tutti i membri del CNB nella seduta plenaria del 14 luglio 1995, che ha dato formalmente la propria unanime approvazione sia ai singoli capitoli che compongono il documento che alle Sintesi e raccomandazioni con cui esso si apre.
E' assolutamente superfluo richiamare l'attenzione del lettore sulla rilevanza bioetica di questo testo, che ora viene dato alle stampe. Esso è testimonianza di uno sforzo non comune, che ha accomunato studiosi di diversa formazione e di diversa ispirazione: come Presidente del Comitato e come testimone della sincerità e della gravosità del loro impegno, mi sia consentito ringraziarli tutti di cuore. Il Presidente Francesco D'Agostino.
Sintesi e raccomandazioni
Il tema della morte, e, più in generale, quello della fine della vita umana, possiede una rilevanza assolutamente primaria per l'autocomprensione dell'uomo. Probabilmente esso non è propriamente un tema, ma il tema fondamentale della nostra esistenza, l'orizzonte che la circoscrive globalmente (anche se nel nostro tempo appare ordinariamente sottaciuto, se non addirittura rimosso) poiché investe la radice stessa del rapporto che noi siamo in grado di stabilire con noi stessi e con il mondo esterno.
Proprio perché si tratta di un tema inglobante, il CNB è consapevole di quanto inadeguato non possa non essere ogni discorso ed ogni considerazione al riguardo. Così come è consapevole di quanto articolato sia il ventaglio di teorie, di dottrine, di interpretazioni, di speculazioni, di prospettive in ordine ad esso. Ed è altrettanto consapevole di come su di esso e a partire da esso muovano non solo i messaggi di vita, di speranza e di salvezza delle grandi religioni universali, ma anche quelli di innumerevoli piccole comunità di fede, di pensiero e di vita, dal carattere a volte aperto e attivo, a volte chiuso e forse settario, ma sempre meritevoli di attenzione e rispetto.
Il tema della morte -il CNB, bisogna ripeterlo, ne è ben consapevole- supera di gran lunga i confini della riflessione bioetica che il Comitato è chiamato ad elaborare. Nello stesso tempo, però, esso
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costituisce un tema bioetico fondamentale, che non può essere eluso, proprio a ragione della sua assoluta radicalità: per questo il CNB ha ritenuto fosse proprio dovere affrontarlo, senza per questo presumere non solo di poterlo trattare esaustivamente, ma anche di poterlo adeguatamente impostare.
Questa premessa è necessaria perché il lettore percepisca esattamente il senso del lavoro che si snoda nei capitoli del presente documento. Il CNB non ha voluto (né comunque l'avrebbe ritenuto lecito) sindacare le visioni del mondo di carattere religioso, filosofico, etico o anche meramente ideologico che comunque investono -anche se solo marginalmente- il tema della morte. Ha rinunciato di conseguenza alla sistematica elencazione e valutazione delle diverse possibili posizioni, diacroniche e sincroniche, che sono esistite ed esistono in merito, anche se ha riflettuto doverosamente e approfonditamente su di esse.
Il CNB si è prefisso un obiettivo: prendere apertamente posizione non nei confronti di dottrine, ma nei confronti di problemi bioetici che il tema della fine della vita umana pone oggi e con assoluta urgenza alle coscienze dei singoli e alla coscienza sociale in generale. Il CNB sa bene che le posizioni da esso prescelte non sono le uniche ipotizzabili o argomentabili; sa che ne esistono ben altre, autorevolmente proposte, e dichiara di rispettarle per come esse meritano; ma ciò non di meno intende presentare al lettore -senza alcuna ambiguità- le proprie posizioni, quelle che a seguito di approfonditi dibattiti, portati avanti in piena scienza e coscienza, il CNB è giunto a condividere e che si ritiene pertanto doveroso portare alla conoscenza della pubblica opinione.
Le posizioni bioetiche del CNB sono riassumibili nei seguenti punti fondamentali:
1. La morte non può essere considerata alla stregua di un mero evento biologico o medico: essa appartiene ad un ordine completamente diverso, rispetto a quello cui appartiene l'evento morboso. Mentre questo incide (in misura più o meno significativa) sull' identità del soggetto, la morte sta paradossalmente a fondamento stesso di questa identità: essa è portatrice di un significato, nel quale va ravvisata la radice della dignità stessa dell'uomo. La morte infatti propone all'uomo un compito propriamente morale: quello di trovare un senso che guidi e sostenga la sua libertà, che come libertà umana trova la sua radice nella consapevolezza da parte del soggetto della propria invincibile caducità. La rimozione culturale della morte, che è tipica del nostro tempo, così come la sua esclusiva medicalizzazione, costituiscono pertanto problemi tra i più rilevanti per la riflessione bioetica.
2. L' assoluta diversità di ordine che intercorre tra evento morboso e morte rende ragione del perché l'accanimento, volendo prolungare indebitamente il processo irreversibile del morire, sia riprovevole. Il CNB auspica che si diffonda sempre più nella coscienza civile e in particolare in quella dei medici, la consapevolezza che l' astensione dall' accanimento terapeutico assume un carattere doveroso.
3. Il CNB riconosce senz'altro rilievo morale alle direttive anticipate di trattamento, ma manifesta la propria perplessità quando queste acquistano il carattere di veri e propri testamenti di vita, perplessità che si fanno particolarmente gravi soprattutto nei confronti di alcune versioni di essi, di cui è possibile riscontrare oggi una sempre maggior diffusione. Non entra qui in discussione, naturalmente, la retta intenzione di coloro che se ne fanno paladini, considerandoli un tentativo di mantenere in vita la voce del paziente al di là delle sue possibilità biologiche di esprimerla. A giudizio del CNB non è comunque possibile riconoscere un valore perentorio a tali direttive, ma eventualmente quello di mero orientamento del comportamento di chi assiste il paziente.
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4. La medesima assoluta diversità di ordine che intercorre tra malattia e morte, a cui sopra si è accennato, rende invece ragione dell' alto valore bioetico che a giudizio del CNB possiedono le cure palliative. Queste infatti trovano la loro sostanza non nella pretesa illusoria di poter strappare un paziente alla morte, ma nella ferma intenzione di non lasciarlo solo, di aiutarlo quindi a vivere questa sua ultima radicale esperienza nel modo più umano possibile, sia da un punto di vista fisico che da un punto di vista spirituale. Volte primariamente ad alleviare il dolore in generale, e in particolare quello dei malati terminali, le cure palliative hanno allargato e continuano ad allargare il loro orizzonte e il loro ambito di azione e si presentano nel nostro tempo come uno dei campi in cui la moderna medicina manifesta la sua vocazione profonda di cura, in senso globale, quindi non solo fisico, ma anche psicologico e esistenziale, dei sofferenti. Il CNB richiama l'attenzione della pubblica opinione su quanto meritevole sia il lavoro svolto dalle numerose associazioni di volontariato che si prodigano nel campo della palliazione ed è convinto che il loro esempio possa e debba ampiamente diffondersi. Il CNB auspica inoltre che lo studio delle metodiche delle cure palliative possa trovare una sempre maggiore presenza nella formazione del personale sanitario.
5. Infine, il CNB si è esplicitamente soffermato sul problema dell' eutanasia, considerandolo in prospettiva strettamente giuridica, interrogandosi cioè sui risvolti etici di una possibile legislazione eutanasica. Ed è giunto alla conclusione che nessuna legislazione propriamente eutanasica possa avere valore bioetico. Il CNB non ignora la situazione obiettivamente drammatica di tanti malati terminali e ritiene che mai come in questa ipotesi sia necessario distinguere una valutazione di casi singoli, e ciascuno a suo modo irripetibile, da una valutazione di possibili norme di carattere generale e astratto finalizzate alla legalizzazione di atti eutanasici, di cui si auspichi l'introduzione nell'ordinamento giuridico positivo. Le considerazioni che qui si riassumono vanno lette appunto come aventi per oggetto norme, non singoli atti. Il CNB ha cominciato col distinguere varie ipotesi, che spesso nel linguaggio e nell'opinione comune vengono accomunate sotto la generica denominazione di eutanasia, e si è soffermato con particolare attenzione su quella che ad avviso di molti sarebbe l'unica a meritare propriamente la qualifica di eutanasia, cioè l'uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta (come è noto, è proprio su questa forma di eutanasia che si incentra il dibattito attuale sulla legalizzazione della "buona morte", che in alcuni ordinamenti giuridici contemporanei è stata non solo depenalizzata, ma addirittura resa oggetto di una normale -anche se tragica- procedura sanitario-amministrativa). Le valutazioni operate dal CNB possono così rapidamente riassumersi: si è ritenuto lecito e degno di rispetto da parte dei terapeuti il rifiuto del paziente di sottoporsi alla terapia, purché libero, attuale e consapevole (secondo le indicazioni già elaborate dal CNB nel documento Informazione e consenso all'atto medico, del 20 giugno 1992); si è ritenuto lecito ogni intervento di carattere palliativo (secondo le linee cui sopra si è fatto cenno); si è ritenuta doverosa la sospensione da parte del medico di ogni accanimento terapeutico; si è ritenuta illecita ogni forma di eutanasia eugenetica e di eutanasia su neonati malformati (tema questo, peraltro, che il CNB si impegna ad approfondire in un prossimo documento); si è ritenuta gravemente illecita ogni forma di eutanasia operata su di un paziente non consenziente.
6. In ordine infine alla valutazione di qualsiasi possibile legislazione eutanasica su paziente consenziente il CNB è giunto alle conclusioni che qui si riassumono. Il CNB è convinto che per propria natura un atto normativo non possa disciplinare adeguatamente situazioni singolari, tragiche e irripetibili come quelle eutanasiche. Per farlo, esso dovrebbe infatti individuare comunque una procedura di carattere inevitabilmente astratto, (come sono inevitabilmente astratte le formule dei c.d. "testamenti di vita"), una procedura che implicherebbe di necessità il coinvolgimento impersonale, appunto perché formalizzato giuridicamente, di almeno due soggetti, il "paziente" e "l'operatore" (in genere il medico), colui cioè che dà e colui che riceve il mandato eutanasico. E qui si situa la difficoltà radicale di ogni possibile legislazione eutanasica e che per il CNB è
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bioeticamente insuperabile: che rilevanza giuridica (e quindi formale) dare a questo "mandato"? O esso non è sindacabile da parte dell' operatore e allora questi è tenuto ad intervenire anche quando, in coscienza, ritiene non sussistenti le circostanze di fatto che il paziente indica (o aveva a suo tempo indicato) come giustificanti l'eutanasia (si pensi al caso in cui un nevrotico ritenga a torto di esser malato di tumore): la materialità dell' intervento eutanasico entrerebbe in questa ipotesi in profonda contraddizione non solo con la deontologia medica, ma col principio ancora più generale che vede solo nella convinzione l'eticità di un atto (infatti in questa ipotesi il medico sarebbe costretto ad agire contro la propria convinzione). Oppure tale mandato è sindacabile e allora il paziente non sarà mai sicuro che i propri desideri verranno effettivamente adempiuti dall'operatore; ciò significa affidare al medico un potere ultimativo di vita e di morte sul paziente: un potere che si vorrebbe naturalmente radicato nelle migliori intenzioni soggettive del terapeuta, ma che, una volta formalizzato legalmente, acquisterebbe la natura anonima e oggettiva che possiede ogni potere riconosciuto dal diritto. Il CNB ritiene non etico riconoscere ai medici un simile potere. E ritiene di conseguenza che ove questo potere fosse legalizzato (come peraltro è già avvenuto in alcuni ordinamenti giuridici) esso non solo altererebbe profondamente e irrimediabilmente l'identità della professione medica, ma la stessa fiducia che i consociati devono nutrire nel diritto. Accanto alla preoccupazione sopra espressa, il CNB ne nutre diverse altre, che concernono più che l'eticità di una legislazione eutanasica in se stessa, quella dei suoi possibili e probabili effetti socio-culturali: l'indebolimento della percezione sociale del valore della vita, la possibilità di tragici abusi resi indiscernibili dalla permissività della legislazione, il disimpegno pubblico nei confronti dell'assistenza ai morenti, la concreta possibilità di scivolare verso forme di eutanasia non volontaria.
7. Alla fine di questo elenco di indicazioni e raccomandazioni, il CNB ritiene indispensabile ribadire la propria presa di posizione (adeguatamente formulata nel documento Bioetica e formazione nel sistema sanitario del 7 settembre 1991) in ordine alla educazione del personale nel comparto della sanità. Un adeguato sostegno all' ars moriendi richiede che la rigorosa preparazione tecnico-scientifica del personale sanitario sia integrata da una corrispondente preparazione bioetica, che arricchisca la tradizione scientifica (spesse volte riduzionistica) della moderna medicina con una doverosa sensibilità antropologico-relazionale. La rilevanza di questo punto appare al CNB assolutamente primaria. Presentando queste valutazioni bioetiche fondamentali, il CNB si augura che nel nostro paese si attivi, anche grazie allo sforzo di riflessione affidato a queste pagine, un serio dibattito sulla bioetica della morte. Eludere o peggio che mai rimuovere il problema non è degno né di una società civile come la nostra, che è chiamata a costruire il futuro proprio (e quello delle generazioni che verranno) democraticamente: non a partire da pregiudizi o ideologie, ma da serene e approfondite valutazioni etiche, politiche e sociali. Il CNB auspica che le proprie posizioni siano lette e discusse col rispetto che esso dichiara di nutrire verso tutte le posizioni diverse, su cui il Comitato ha riflettuto pur senza farle proprie.
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MANIFESTO DI BIOETICA LAICA
Carlo Flamigni, Armando Massarenti, Maurizio Mori, Angelo Petroni
Premessa
L'evoluzione delle conoscenze teoriche e delle possibilità tecnologiche nel campo biologico e medico ha sollevato opportunità e problemi che non hanno precedenti nella storia dell'umanità. Se infatti la rivoluzione scientifica e tecnologica dell'era moderna ha permesso all'uomo di modificare radicalmente la natura che lo circonda, la rivoluzione biologica e medica dischiude la possibilità che egli intervenga sulla propria natura. Non ci si deve meravigliare che la 'seconda rivoluzione scientifica' porti con sé attese e timori altrettanto grandi di quelli che accompagnarono la nascita della scienza e del mondo moderno. Ed è verosimile che attese e timori si faranno man mano maggiori quanto più tra l'opinione pubblica avanzerà la percezione di quanto le nuove conoscenze scientifiche possono influire sulle vite dei singoli e sulla società nel suo insieme.
Principi e fatti
Noi reputiamo essenziale che questa nuova rivoluzione scientifica non debba essere accompagnata dallo stesso atteggiamento ideologico che ostacolò la formazione della visione scientifica nel mondo dell'età moderna. Proprio perché la nuova rivoluzione scientifica tocca la natura dell'uomo ben più profondamente di quanto non abbia fatto la prima, se essa dovesse venire a essere oggetto di disputa e opposizioni derivanti da pregiudizi ideologici le conseguenze sarebbero nefaste.
Da parte di coloro che aderiscono a una visione religiosa della natura e dell'uomo, viene spesso rimproverato ai laici di non avere principi morali che non siano una acritica adesione alla scienza e ai suoi progressi. Viene rimproverato loro di aderire a un positivismo morale che identifica sempre e comunque il 'dover essere' della morale con il mero 'essere' della scienza e della tecnica. Viene rimproverato loro di non avere altri principi al di fuori dei fatti.
Noi reputiamo che tutto ciò non corrisponda a verità. La visione laica del progresso delle conoscenze biologiche e delle pratiche mediche è fondata su principi etici saldi e chiaramente riconoscibili. Nel proporsi all'opinione pubblica, in alternativa alle visioni religiose, essa non oppone fatti a principi, ma principi a principi.
Principi e conoscenza
I primi principi della visione laica riguardano la natura della conoscenza e del suo progresso.
In primo luogo, diversamente da quanto fanno la gran parte delle etiche fondate su principi religiosi, la visione laica considera che il progresso della conoscenza sia esso stesso un valore etico fondamentale. L'amore della verità è uno dei tratti più profondamente umani, e non tollera che esistano autorità superiori che fissino dall'esterno quel che è lecito e quel che non è lecito conoscere.
In secondo luogo la visione laica vede l'uomo come parte della natura, non come opposto alla natura. Essendo parte della natura, egli può interagire con essa, conoscendola e modificandola nel rispetto degli equilibri e dei legami che lo uniscono alle altre specie viventi.
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In terzo luogo, la visione laica vede nel progresso della conoscenza la fonte principale del progresso dell'umanità, perché è soprattutto dalla conoscenza che deriva la diminuzione della sofferenza umana. Ogni limitazione della ricerca scientifica imposta nel nome dei pregiudizi che questa potrebbe comportare per l'uomo equivale in realtà a perpetuare sofferenze che potrebbero essere evitate.
Questi tre principi sono particolarmente rilevanti per quanto riguarda il progresso delle conoscenze nella genetica umana e nelle terapie genetiche. Voler conoscere quel che costituisce la propria natura biologica, fino ai componenti ultimi, non è ybris, ma è espressione dello stesso amore di conoscenza che spinge l'uomo a conoscere tutta la natura.
Principi e applicazioni
Al contrario di coloro che divinizzano la natura, dichiarandola un qualcosa di sacro e di intoccabile, i laici sanno che il confine tra quel che naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell'idea di natura. Nel momento in cui le tecnologie biomediche allargano l'orizzonte di quel che è fattualmente possibile, i criteri per determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è non possono in alcun modo derivare da una pretesa distinzione tra ciò che sarebbe naturale e ciò che naturale non sarebbe. Essi possono soltanto derivare da principi espliciti, razionalmente giustificati in base a come essi riescono a guidare l'azione umana a beneficio di tutti gli uomini.
Se è vero che gli uomini hanno sentimenti morali radicati in secoli, e se è vero che questi vanno rispettati perché svolgono un ruolo fondamentale per la vita sociale, non è però men vero che le intuizioni e le regole morali sono in perenne evoluzione. Se gli uomini si renderanno conto che modificare quel che era considerato immodificabile può condurre a uno stato di cose migliore, alla diffusione di nuovi diritti, principi o valori, derivati dall'affinamento stesso delle conoscenze e della consapevolezza morale, allora ci si può attendere che essi cambieranno la propria percezione di quel che è lecito fare.
Il cambiamento delle visioni del bene e dei principi morali è un fenomeno che ha sempre caratterizzato le culture. Neppure le società più tradizionaliste ne sono prive. Noi laici pensiamo che i cambiamenti possano essere considerati dei veri e propri progressi. Non pensiamo, tuttavia, che il progresso in quanto tale sia automatico, né che sia garantito o inarrestabile. Ma proprio per questa ragione insistiamo sulla capacità degli uomini di giudicare volta per volta, in che senso certi cambiamenti possano essere interpretati come effettivi miglioramenti e altri invece no, in un processo in cui l'analisi concettuale e la ragion critica svolgono un ruolo determinante.
Il primo dei principi che ispira noi laici è quello dell'autonomia. Ogni individuo ha pari dignità, e non devono esservi autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui tutte quelle questioni che riguardano la sua salute e la sua vita. Questo significa che la sfera delle decisioni individuali in questioni come l'eutanasia, la somministrazione di nuovo farmaci, la sperimentazione di nuove terapie, deve venire allargata al di là di quanto oggi non accada.
Una conseguenza di questo principio è che coloro che più direttamente sono toccati dai progressi delle tecnologie biomediche hanno un diritto prioritario di informazione e di scelta reale. Ciò è particolarmente vero verso le donne, che sono i soggetti primari dei progressi nelle tecnologie riproduttive.
Il secondo principio è quello di garantire il rispetto delle convinzioni religiose dei singoli individui. Noi laici non osteggiamo la dimensione religiosa. La apprezziamo per quanto possa contribuire alla
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formazione di una coscienza etica diffusa. Quando sono in gioco scelte difficili, come quelle della bioetica, il problema per il laico non è quello di imporre una visione 'superiore', ma di garantire che gli individui possano decidere per proprio conto ponderando i valori talvolta tra loro confliggenti che quelle scelte coinvolgono, evitando di mettere a repentaglio le loro credenze e i loro valori. Questo rispetto per le convinzioni religiose non ci fan tuttavia dimenticare che dalla fede religiosa non derivano di per sé prescrizioni e soluzioni precise alle questioni della bioetica. Vi può essere una discussione e una giustificazione razionale dei principi morali anche senza la fede. Vi può essere una discussione e una giustificazione razionale che parte dai presupposti della fede. Ma non vi può essere alcuna derivazione automatica di una giustificazione razionalmente accettabile a partire dalla sola fede.
Il terzo principio è quello di garantire agli individui una qualità della vita quanto più alta possibile, di contro al principio che fa della mera durata della vita il criterio dominante della terapia medica. Se vi è un senso nella espressione 'rispetto della vita' questo non può risiedere nel separare un concetto astratto di 'vita' dagli individui concreti, che hanno il diritto di vivere e morire con il minimo di sofferenza possibile.
Il quarto principio è quello di garantire a ogni individuo un accesso a cure mediche che siano dello standard più alto possibile, relativamente alla società nella quale egli vive e alle risorse disponibili. Si tratta di una conseguenza di quell'idea di equità che ispira i rapporti sociali nelle democrazie moderne, e che rispetta sia i sentimenti di libertà sia i sentimenti di uguaglianza profondamente diffusi tra i cittadini.
Noi siamo consapevoli che se all'equità non verrà dato un contenuto reale, i progressi delle tecnologie biomediche rischiano di non diventare accessibili ai membri più deboli de3lla società.
Morale e diritto
I principi sopra enunciati si fondano a loro volta su di un assunto implicito: la separazione della sfera morale da quella della fede religiosa. In modo analogo, è proprio della visione laica tenere distinti i piani della morale e del diritto. Per i laici, i principi morali si fondano sull'adesione volontaria da parte degli individui. La loro diffusione deriva dall'accordo consapevole che essi ricevono. Come tali, essi sono diversi dalle norme giuridiche, le quali inevitabilmente vincolano l'individuo in base a sanzioni imposte dall'esterno. Se è infatti vero che laddove non vi è consenso morale è pur necessario che esitano norme giuridiche che evitino quanto possibile il conflitto tra i diversi valori.
Questa distinzione è particolarmente rilevante per l'ambito biomedico. Come ogni altra sfera dell'attività umana, anche questa ha bisogno sia di principi morali che di norme giuridiche. Ma il peso relativo delle una e delle altre è peculiare, e comunque diverso rispetto ad altre sfere, ad esempio quella delle attività economiche.
La differenza essenziale tra i principi morali e norme giuridiche è che i primi danno maggiore spazio alla libertà che non le seconde. Quando ci si trova di fronte ai problemi biomedici, con conoscenze in continua evoluzione e spesso in contraddizione, dove il confine tra conoscenza positiva e valori è tenue, salvaguardare una ampia sfera di libertà di ricercatori e medici è un'esigenza indispensabile. Nessuna applicazione meccanica di norme rigide può produrre risultati positivi in una realtà mobile, in un mondo caratterizzato dal pluralismo culturale e dei valori.
Per queste ragioni noi riteniamo che la legislazione in campo biomedico debba essere guidata dall'idea di lasciare a ogni ricercatore e a ogni medico la più ampia sfera di decisioni autonome compatibile con l'interesse della collettività. La legislazione dovrebbe favorire l'emergere di codici di
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comportamento come risultato del confronto dentro la comunità scientifica, e tra la comunità scientifica e l'opinione pubblica. Dovrebbero ricorrere alla sanzione formale soltanto in quei casi dove sia dimostrabile che il comportamento del ricercatore o del medico ha recato danno accertabile ad altri individui. La libertà di ricerca deve così coniugarsi con un sempre più forte sentimento di responsabilità dei ricercatori e dei medici nei confronti della società. Soltanto un diffuso sentimento di responsabilità può garantire che la libertà di ricerca non subirà interferenze ingiustificate.
Conclusioni
La società nella quale viviamo è una società complessa. E' una società nella quale convivono visioni diverse dell'uomo, visioni diverse della società, visioni diverse della morale. Per questo è impossibile pensare che in un campo come quello della bioetica, che tocca le concezioni e i sentimenti più profondi dell'uomo, possa esistere un canone morale a vocazione universale.
La visione laica della bioetica non rappresenta una versione secolarizzata delle etiche religiose. Non vuole costituire una nuova ortodossia. Anche tra i laici non vi è accordo unanime su molte questioni specifiche.
La visione laica si differenzia dalla parte preponderante delle visioni religiose in quanto non vuole imporsi a coloro che aderiscono a valori e visioni diverse. Là dove il contrasto è inevitabile, essa cerca di non trasformarlo in conflitto, cerca l'accordo 'locale', evitando le generalizzazioni. Ma l'accettazione del pluralismo non si identifica con il relativismo, come troppo spesso sostengono i critici. La libertà della ricerca, l'autonomia delle persone, l'equità, sono per i laici dei valori irrinunciabili. E sono valori sufficientemente forti da costituire la base di regole di comportamento che sono insieme giusti ed efficaci.
da “Il Sole24Ore” – 9 giugno 1996
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Manifesto sull’eutanasia
«Affermiamo che è immorale tollerare, accettare o imporre la sofferenza. Crediamo nel valore
e nella dignità dell’individuo; ciò implica che lo si tratti con rispetto e lo si lasci libero di
decidere ragionevolmente della propria sorte. In altri termini bisogna fornire il mezzo di morire
dolcemente, facilmente a quanti sono afflitti da un male incurabile o da lesioni irrimediabili,
giunti all’ultimo stadio. Non può esservi eutanasia umanitaria all’infuori di quella che provoca
una morte rapida, indolore ed è considerata come un beneficio dell’interessato. E’ crudele e
barbaro esigere che una persona venga mantenuta in vita contro il suo volere, e che le si
rifiuti l’auspicata liberazione quando la sua vita ha perduto qualsiasi dignità, bellezza,
significato, prospettive di avvenire. La sofferenza inutile è un male che dovrebbe essere
evitato nelle società civilizzate. Raccomandiamo a quanti condividono il nostro parere, di
firmare le loro ultime volontà di vita e di preferenza, quando sono ancora in buona salute,
dichiarando che intendono far rispettare il loro diritto a morire degnamente. Crediamo che la
coscienza morale sia abbastanza sviluppata nella nostra società, per permettersi di elaborare
una regola di condotta umanitaria per quanto riguarda la morte e i morenti. Deploriamo la
morale insensibile e le restrizioni legali che ostacolano l’esame di quel caso etico che è
l’eutanasia. Facciamo appello all’opinione pubblica illuminata, affinché superi i tabù
tradizionali e abbia compassione delle sofferenze inutili al momento della morte. Ogni
individuo ha il diritto di vivere con dignità, ha anche il diritto di morire con dignità.”
Pubblicato su The Humanist (luglio 1974)
f.to da quaranta personalità della cultura e della scienza
tra cui i premi Nobel J. Monod, L. Pauling e G. Thomson
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SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE
DICHIARAZIONE SULL'EUTANASIA
INTRODUZIONE
I diritti e i valori inerenti alla persona umana occupano un posto importante nella problematica contemporanea. Al riguardo, il Concilio Ecumenico Vaticano II ha solennemente riaffermato l’eccellente dignità della persona umana e in modo particolare il suo diritto alla vita. Ha perciò denunciato i crimini contro la vita “come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario” (Gaudium et spes 27).
La Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, che di recente ha richiamato la dottrina cattolica circa l’aborto procurato, (Declaratio de abortu procurato, die 18 nov. 1974: AAS 66 [1974] 730-747.) ritiene ora opportuno proporre l’insegnamento della Chiesa sul problema dell’eutanasia.
In effetti, per quanto restino sempre validi i principii affermati in questo campo dai recenti Pontefici, (…) i progressi della medicina hanno messo in luce negli anni più recenti nuovi aspetti del problema dell’eutanasia, che richiedono ulteriori precisazioni sul piano etico.
Nella società odierna, nella quale non di rado sono posti in causa gli stessi valori fondamentali della vita umana, la modificazione della cultura influisce sul modo di considerare la sofferenza e la morte; la medicina ha accresciuto la sua capacità di guarire e di prolungare la vita in determinate condizioni, che talvolta sollevano alcuni problemi di carattere morale. Di conseguenza, gli uomini che vivono in un tale clima si interrogano con angoscia sul significato dell’estrema vecchiaia e della morte, chiedendosi conseguentemente se abbiano il diritto di procurare a se stessi o ai loro simili la “morte dolce”, che abbrevierebbe il dolore e sarebbe, ai loro occhi, più conforme alla dignità umana.
Diverse Conferenze Episcopali hanno posto, in merito, dei quesiti a questa S. Congregazione per la Dottrina della Fede, la quale, dopo aver chiesto il parere di competenti sui vari aspetti dell’eutanasia, intende con questa Dichiarazione rispondere alle richieste dei Vescovi per aiutarli ad orientare rettamente i fedeli e per offrire loro elementi di riflessione da far presenti alle Autorità civili a proposito di questo gravissimo problema.
La materia proposta in questo Documento riguarda, innanzi tutto, coloro che ripongono la loro fede e la loro speranza in Cristo, il quale, mediante la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione, ha dato un nuovo significato all’esistenza e soprattutto alla morte del cristiano, secondo le parole di San Paolo: “Sia che viviamo, viviamo per il Signore; sia che moriamo, moriamo per il Signore. Quindi, sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore” (Rm 14,8; cf. Fil 1,20).
Quanto a coloro che professano altre religioni, molti ammetteranno con noi che la fede in un Dio creatore, provvido e padrone della vita - se la condividono - attribuisce una dignità eminente a ogni persona umana e ne garantisce il rispetto.
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Si spera, ad ogni modo, che questa Dichiarazione incontri il consenso di tanti uomini di buona volontà, che, al di là delle differenze filosofiche o ideologiche, hanno tuttavia una viva coscienza dei diritti della persona umana. Tali diritti, d’altronde, sono stati spesso proclamati nel corso degli ultimi anni da dichiarazioni di Congressi Internazionali; (…) e poiché si tratta qui dei diritti fondamentali di ogni persona umana, è evidente che non si può ricorrere ad argomenti desunti dal pluralismo politico o dalla libertà religiosa, per negarne il valore universale.
I. VALORE DELLA VITA UMANA
La vita umana è il fondamento di tutti i beni, la sorgente e la condizione necessaria di ogni attività umana e di ogni convivenza sociale. Se la maggior parte degli uomini ritiene che la vita abbia un carattere sacro e che nessuno ne possa disporre a piacimento, i credenti vedono in essa anche un dono dell’amore di Dio, che sono chiamati a conservare e a far fruttificare. Da quest’ultima considerazione derivano alcune conseguenze:
1. Nessuno può attentare alla vita di un uomo innocente senza opporsi all’amore di Dio per lui, senza violare un diritto fondamentale, inammissibile e inalienabile, senza commettere, perciò, un crimine di estrema gravità. (…)
2. Ogni uomo ha il dovere di conformare la sua vita al disegno di Dio. Essa gli è affidata come un bene che deve portare i suoi frutti già qui in terra, ma trova la sua piena perfezione soltanto nella vita eterna.
3. La morte volontaria ossia il suicidio è, pertanto, inaccettabile al pari dell’omicidio: un simile atto costituisce, infatti, da parte dell’uomo, il rifiuto della sovranità di Dio e del suo disegno di amore. Il suicidio, inoltre, è spesso anche rifiuto dell’amore verso se stessi, negazione della naturale aspirazione alla vita, rinuncia di fronte ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità e verso la società intera, benché talvolta intervengano- come si sa- dei fattori psicologici che possono attenuare o, addirittura, togliere la responsabilità.
Si dovrà, tuttavia, tenere ben distinto dal suicidio quel sacrificio con il quale per una causa superiore - quali la gloria di Dio, la salvezza delle anime, o il servizio dei fratelli - si offre o si pone in pericolo la propria vita (cf. Gv 15,14).
II. L’EUTANASIA
Per trattare in maniera adeguata il problema dell’eutanasia, conviene, innanzi tutto, precisare il vocabolario.
Etimologicamente la parola eutanasia significava, nell’antichità, una morte dolce senza sofferenze atroci. Oggi non ci si riferisce più al significato originario del termine, ma piuttosto all’intervento della medicina diretto ad attenuare i dolori della malattia e dell’agonia, talvolta anche con il rischio di sopprimere prematuramente la vita. Inoltre, il termine viene usato, in senso più stretto, con il significato di “procurare la morte per pietà”, allo scopo di eliminare radicalmente le ultime sofferenze o di evitare a bambini anormali, ai malati mentali o agli incurabili il prolungarsi di una vita infelice, forse per molti anni, che potrebbe imporre degli oneri troppo pesanti alle famiglie o alla società.
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È quindi necessario dire chiaramente in quale senso venga preso il termine in questo Documento.
Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati.
Ora, è necessario ribadire con tutta fermezza che niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di una offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità.
Potrebbe anche verificarsi che il dolore prolungato e insopportabile, ragioni di ordine affettivo o diversi altri motivi inducano qualcuno a ritenere di poter legittimamente chiedere la morte o procurarla ad altri. Benché in casi del genere la responsabilità personale possa esser diminuita o perfino non sussistere, tuttavia l’errore di giudizio della coscienza - forse pure in buona fede - non modifica la natura dell’atto omicida, che in sé rimane sempre inammissibile. Le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, non devono essere intese come espressione di una vera volontà di eutanasia; esse infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto. Oltre le cure mediche, ciò di cui l’ammalato ha bisogno, è l’amore, il calore umano e soprannaturale, col quale possono e debbono circondarlo tutti coloro che gli sono vicini, genitori e figli, medici e infermieri.
III.
IL CRISTIANO DI FRONTE ALLA SOFFERENZA E ALL'USO DI ANALGESICI
La morte non avviene sempre in condizioni drammatiche, al termine di sofferenze insopportabili. Né si deve sempre pensare unicamente ai casi estremi. Numerose testimonianze concordi lasciano pensare che la natura stessa ha provveduto a rendere più leggeri al momento della morte quei distacchi, che sarebbero terribilmente dolorosi per un uomo in piena salute. Perciò una malattia prolungata, una vecchiaia avanzata, una situazione di solitudine e di abbandono, possono stabilire delle condizioni psicologiche tali da facilitare l’accettazione della morte.
Tuttavia, si deve riconoscere che la morte, preceduta o accompagnata spesso da sofferenze atroci e prolungate, rimane un avvenimento, che naturalmente angoscia il cuore dell’uomo.
Il dolore fisico è certamente un elemento inevitabile della condizione umana; sul piano biologico, costituisce un avvertimento la cui utilità è incontestabile; ma poiché tocca la vita psicologica dell’uomo, spesso supera la sua utilità biologica e pertanto può assumere una dimensione tale da suscitare il desiderio di eliminarlo a qualunque costo.
Secondo la dottrina cristiana, però, il dolore, soprattutto quello degli ultimi momenti di vita, assume un significato particolare nel piano salvifico di Dio; è infatti una partecipazione alla Passione di Cristo ed è unione al sacrificio redentore, che Egli ha offerto in ossequio alla volontà del Padre. Non deve dunque meravigliare se alcuni cristiani desiderano moderare
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l’uso degli analgesici, per accettare volontariamente almeno una parte delle loro sofferenze e associarsi così in maniera cosciente alle sofferenze di Cristo crocifisso (cf. Mt 27,34). Non sarebbe, tuttavia, prudente imporre come norma generale un determinato comportamento eroico. Al contrario, la prudenza umana e cristiana suggerisce per la maggior parte degli ammalati l’uso dei medicinali che siano atti a lenire o a sopprimere il dolore, anche se ne possano derivare come effetti secondari torpore o minore lucidità. Quanto a coloro che non sono in grado di esprimersi, si potrà ragionevolmente presumere che desiderino prendere tali calmanti e somministrarli loro secondo i consigli del medico.
Ma l’uso intensivo di analgesici non è esente da difficoltà, poiché il fenomeno dell’assuefazione di solito obbliga ad aumentare le dosi per mantenerne l’efficacia. Conviene ricordare una dichiarazione di Pio XII, la quale conserva ancora tutta la sua validità. Ad un gruppo di medici che gli avevano posto la seguente domanda: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici... è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?”, il Papa rispose: “Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì” (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957: AAS 49 [1957] 147). In questo caso, infatti, è chiaro che la morte non è voluta o ricercata in alcun modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone.
Gli analgesici che producono negli ammalati la perdita della coscienza, meritano invece una particolare considerazione. È molto importante, infatti, che gli uomini non solo possano soddisfare ai loro doveri morali e alle loro obbligazioni familiari, ma anche e soprattutto che possano prepararsi con piena coscienza all’incontro con il Cristo. Perciò Pio XII ammonisce che “non è lecito privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo” (Pio XII,Allocutio, die 24 febr. 1957: AAS 49 [1957] 145; cf. Pio XII, Allocutio, die 9 sept. 1958: AAS 50 [1958] 694).
IV. L’USO PROPORZIONATO DEI MEZZI TERAPEUTICI
È molto importante oggi proteggere, nel momento della morte, la dignità della persona umana e la concezione cristiana della vita contro un tecnicismo che rischia di divenire abusivo. Di fatto, alcuni parlano di “diritto alla morte”, espressione che non designa il diritto di procurarsi o farsi procurare la morte come si vuole, ma il diritto di morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana. Da questo punto di vista, l’uso dei mezzi terapeutici talvolta può sollevare dei problemi.
In molti casi la complessità delle situazioni può essere tale da far sorgere dei dubbi sul modo di applicare i principii della morale. Prendere delle decisioni spetterà in ultima analisi alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici, alla luce degli obblighi morali e dei diversi aspetti del caso.
Ciascuno ha il dovere di curarsi e di farsi curare. Coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare la loro opera con ogni diligenza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili.
Si dovrà però, in tutte le circostanze, ricorrere ad ogni rimedio possibile? Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso dei mezzi “straordinari”. Oggi però tale
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risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi “proporzionati” e “sproporzionati”. In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali.
Per facilitare l’applicazione di questi principii generali si possono aggiungere le seguenti precisazioni:
- In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità.
- È anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere, si dovrà tener conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici veramente competenti; costoro potranno senza dubbio giudicare meglio di ogni altro se l’investimento di strumenti e di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se le tecniche messe in opera impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne possono trarre.
- È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può, quindi, imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività.
- Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo.
CONCLUSIONE
Le norme contenute nella presente Dichiarazione sono ispirate dal profondo desiderio di servire l’uomo secondo il disegno del Creatore. Se da una parte la vita è un dono di Dio, dall’altra la morte è ineluttabile; è necessario, quindi, che noi, senza prevenire in alcun modo l’ora della morte, sappiamo accettarla con piena coscienza della nostra responsabilità e con tutta dignità. È vero, infatti, che la morte pone fine alla nostra esistenza terrena, ma allo stesso tempo apre la via alla vita immortale. Perciò tutti gli uomini devono prepararsi a questo evento alla luce dei valori umani, e i cristiani ancor più alla luce della loro fede.
Coloro che si dedicano alla cura della salute pubblica non tralascino niente per mettere al servizio degli ammalati e dei moribondi tutta la loro competenza; ma si ricordino anche di prestare loro il conforto ancor più necessario di una bontà immensa e di una carità ardente. Un tale servizio prestato agli uomini è anche un servizio prestato al Signore stesso, il quale
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ha detto: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).
Roma, dalla sede della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il 5 maggio 1980.
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FEDERAZIONE NAZIONALE DEGLI ORDINI DEI MEDICI CHIRURGHI E DEGLI ODONTOIATRI
CODICE DI DEONTOLOGIA MEDICA
Modificato il 19 maggio 2016
Solo i Titoli I-II-III
(Per il testo completo si consulti il link
www.ordinemedici-go.it/wp-content/)
GIURAMENTO PROFESSIONALE
Consapevole dell'importanza e della solennità dell'atto che compio e dell'impegno che
assumo, giuro:
- di esercitare la medicina in autonomia di giudizio e responsabilità di comportamento contrastando ogni indebito condizionamento che limiti la libertà e l’indipendenza della professione;
- di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica, il trattamento del dolore e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della dignità e libertà della persona cui con costante impegno scientifico, culturale e sociale ispirerò ogni mio atto professionale;
- di curare ogni paziente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna, promuovendo l’eliminazione di ogni forma di diseguaglianza nella tutela della salute;
- di non compiere mai atti finalizzati a provocare la morte;
- di non intraprendere né insistere in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, senza mai abbandonare la cura del malato;
- di perseguire con la persona assistita una relazione di cura fondata sulla fiducia e sul rispetto dei valori e dei diritti di ciascuno e su un’informazione, preliminare al consenso, comprensibile e completa;
- di attenermi ai principi morali di umanità e solidarietà nonché a quelli civili di rispetto dell’autonomia della persona;
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- di mettere le mie conoscenze a disposizione del progresso della medicina, fondato sul rigore etico e scientifico della ricerca, i cui fini sono la tutela della salute e della vita;
- di affidare la mia reputazione professionale alle mie competenze e al rispetto delle regole deontologiche e di evitare, anche al di fuori dell'esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il decoro e la dignità della professione;
- di ispirare la soluzione di ogni divergenza di opinioni al reciproco rispetto;
- di prestare soccorso nei casi d’urgenza e di mettermi a disposizione dell'Autorità competente, in caso di pubblica calamità;
- di rispettare il segreto professionale e di tutelare la riservatezza su tutto ciò che mi è confidato, che osservo o che ho osservato,inteso o intuito nella mia professione o in ragione del mio stato o ufficio;
- di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l'esercizio della professione.
TITOLO I
CONTENUTI E FINALITÀ
Art. 1 Definizione Il Codice di deontologia medica - di seguito indicato con il termine “Codice” - identifica le regole, ispirate ai principi di etica medica, che disciplinano l’esercizio professionale del medico chirurgo e dell’odontoiatra - di seguito indicati con il termine “medico” - iscritti ai rispettivi Albi professionali. Il Codice, in armonia con i principi etici di umanità e solidarietà e civili di sussidiarietà, impegna il medico nella tutela della salute individuale e collettiva vigilando sulla dignità, sul decoro, sull’indipendenza e sulla qualità della professione. Il Codice regola anche i comportamenti assunti al di fuori dell’esercizio professionale quando ritenuti rilevanti e incidenti sul decoro della professione. Il medico deve conoscere e rispettare il Codice e gli indirizzi applicativi allegati.
Il medico deve prestare il giuramento professionale che è parte costitutiva del Codice
stesso.
Art. 2 Potestà disciplinare L’inosservanza o la violazione del Codice, anche se derivante da ignoranza, costituisce illecito disciplinare, valutato secondo le procedure e nei termini previsti dall’ordinamento professionale. Il medico segnala all’Ordine professionale territorialmente competente - di seguito indicato con il termine “Ordine” - ogni iniziativa tendente a imporgli comportamenti in contrasto con il Codice.
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TITOLO II DOVERI E COMPETENZE DEL MEDICO
Art. 3 Doveri generali e competenze del medico
Doveri del medico sono la tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore
e il sollievo della sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza
discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera.
Al fine di tutelare la salute individuale e collettiva, il medico esercita attività basate sulle
competenze, specifiche ed esclusive, previste negli obiettivi formativi degli Ordinamenti
didattici dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia e Odontoiatria e Protesi dentaria,
integrate e ampliate dallo sviluppo delle conoscenze in medicina, delle abilità tecniche e non
tecniche connesse alla pratica professionale, delle innovazioni organizzative e gestionali in
sanità, dell’insegnamento e della ricerca. La diagnosi a fini preventivi, terapeutici e
riabilitativi è una diretta, esclusiva e non delegabile competenza del medico e impegna la
sua autonomia e responsabilità. Tali attività, legittimate dall’abilitazione dello Stato e
dall’iscrizione agli Ordini professionali nei rispettivi Albi, sono altresì definite dal Codice.
Art. 4 Libertà e indipendenza della professione. Autonomia e responsabilità del medico L’esercizio professionale del medico è fondato sui principi di libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità. Il medico ispira la propria attività professionale ai principi e alle regole della deontologia professionale senza sottostare a interessi, imposizioni o condizionamenti di qualsiasi natura. Art. 5 Promozione della salute, ambiente e salute globale
Il medico, nel considerare l'ambiente di vita e di lavoro e i livelli di istruzione e di equità
sociale quali determinanti fondamentali della salute individuale e collettiva, collabora
all’attuazione di idonee politiche educative, di prevenzione e di contrasto alle disuguaglianze
alla salute e promuove l'adozione di stili di vita salubri, informando sui principali fattori di
rischio. Il medico, sulla base delle conoscenze disponibili, si adopera per una pertinente
comunicazione sull’esposizione e sulla vulnerabilità a fattori di rischio ambientale e favorisce
un utilizzo appropriato delle risorse naturali, per un ecosistema equilibrato e vivibile anche
dalle future generazioni.
Art. 6 Qualità professionale e gestionale Il medico fonda l’esercizio delle proprie competenze tecnico-professionali sui principi di efficacia e di appropriatezza, aggiornandoli alle conoscenze scientifiche disponibili e mediante una costante verifica e revisione dei propri atti. Il medico, in ogni ambito operativo, persegue l’uso ottimale delle risorse pubbliche e private salvaguardando l’efficacia, la sicurezza e l’umanizzazione dei servizi sanitari, contrastando ogni forma di discriminazione nell’accesso alle cure. Art. 7 Status professionale
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In nessun caso il medico abusa del proprio status professionale. Il medico che riveste
cariche pubbliche non può avvalersene per vantaggio professionale. Il medico valuta
responsabilmente la propria condizione psico-fisica in rapporto all’attività professionale.
Art. 8 Dovere di intervento
Il medico in caso di urgenza, indipendentemente dalla sua abituale attività, deve prestare
soccorso e comunque attivarsi tempestivamente per assicurare idonea assistenza.
Art. 9 Calamità
Il medico in ogni situazione di calamità deve porsi a disposizione dell'Autorità competente.
Art. 10 Segreto professionale Il medico deve mantenere il segreto su tutto ciò di cui è a conoscenza in ragione della propria attività professionale. La morte della persona assistita non esime il medico dall’obbligo del segreto professionale. Il medico informa i collaboratori e discenti dell’obbligo del segreto professionale sollecitandone il rispetto. La violazione del segreto professionale assume maggiore gravità quando ne possa derivare profitto proprio o altrui, ovvero nocumento per la persona assistita o per altri. La rivelazione è ammessa esclusivamente se motivata da una giusta causa prevista dall’ordinamento o dall’adempimento di un obbligo di legge. Il medico non deve rendere all’Autorità competente in materia di giustizia e di sicurezza testimonianze su fatti e circostanze inerenti al segreto professionale. La sospensione o l’interdizione dall’esercizio professionale e la cancellazione dagli Albi non
dispensano dall’osservanza del segreto professionale.
Art. 11 Riservatezza dei dati personali Il medico acquisisce la titolarità del trattamento dei dati personali previo consenso informato dell’assistito o del suo rappresentante legale ed è tenuto al rispetto della riservatezza, in particolare dei dati inerenti alla salute e alla vita sessuale. Il medico assicura la non identificabilità dei soggetti coinvolti nelle pubblicazioni o divulgazioni scientifiche di dati e studi clinici. Il medico non collabora alla costituzione, alla gestione o all’utilizzo di banche di dati relativi a persone assistite in assenza di garanzie sulla preliminare acquisizione del loro consenso informato e sulla tutela della riservatezza e della sicurezza dei dati stessi. Art. 12 Trattamento dei dati sensibili Il medico può trattare i dati sensibili idonei a rivelare lo stato di salute della persona solo con il consenso informato della stessa o del suo rappresentante legale e nelle specifiche condizioni previste dall’ordinamento. Art. 13 Prescrizione a fini di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione La prescrizione a fini di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione è una diretta, specifica, esclusiva e non delegabile competenza del medico, impegna la sua autonomia e
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responsabilità e deve far seguito a una diagnosi circostanziata o a un fondato sospetto diagnostico. La prescrizione deve fondarsi sulle evidenze scientifiche disponibili, sull’uso ottimale delle risorse e sul rispetto dei principi di efficacia clinica, di sicurezza e di appropriatezza. Il medico tiene conto delle linee guida diagnostico-terapeutiche accreditate da fonti autorevoli e indipendenti quali raccomandazioni e ne valuta l’applicabilità al caso specifico. L’adozione di protocolli diagnostico-terapeutici o di percorsi clinico-assistenziali impegna la diretta responsabilità del medico nella verifica della tollerabilità e dell’efficacia sui soggetti coinvolti. Il medico è tenuto a un’adeguata conoscenza della natura e degli effetti dei farmaci prescritti, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e reazioni individuali prevedibili e delle modalità di impiego appropriato, efficace e sicuro dei mezzi diagnostico-terapeutici. Il medico segnala tempestivamente all’Autorità competente le reazioni avverse o sospette da farmaci e gli eventi sfavorevoli o sospetti derivanti dall’utilizzo di presidi biomedicali. Il medico può prescrivere farmaci non ancora registrati o non autorizzati al commercio oppure per indicazioni o a dosaggi non previsti dalla scheda tecnica, se la loro tollerabilità ed efficacia è scientificamente fondata e i rischi sono proporzionati ai benefici attesi; in tali casi motiva l’attività, acquisisce il consenso informato scritto del paziente e valuta nel tempo gli effetti. Il medico può prescrivere, sotto la sua diretta responsabilità e per singoli casi, farmaci che abbiano superato esclusivamente le fasi di sperimentazione relative alla sicurezza e alla tollerabilità, nel rigoroso rispetto dell’ordinamento. Il medico non acconsente alla richiesta di una prescrizione da parte dell’assistito al solo scopo di compiacerlo. Il medico non adotta né diffonde pratiche diagnostiche o terapeutiche delle quali non è resa disponibile idonea documentazione scientifica e clinica valutabile dalla comunità professionale e dall’Autorità competente. Il medico non deve adottare né diffondere terapie segrete. Art. 14 Prevenzione e gestione di eventi avversi e sicurezza delle cure Il medico opera al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e degli operatori coinvolti, promuovendo a tale scopo l'adeguamento dell'organizzazione delle attività e dei comportamenti professionali e contribuendo alla prevenzione e alla gestione del rischio clinico attraverso: - l’adesione alle buone pratiche cliniche; - l’attenzione al processo di informazione e di raccolta del consenso, nonché alla
comunicazione di un evento indesiderato e delle sue cause; - lo sviluppo continuo di attività formative e valutative sulle procedure di sicurezza delle
cure; - la rilevazione, la segnalazione e la valutazione di eventi sentinella, errori, “quasi-errori”
ed eventi avversi valutando le cause e garantendo la natura riservata e confidenziale delle informazioni raccolte.
Art. 15 Sistemi e metodi di prevenzione, diagnosi e cura non convenzionali
Il medico può prescrivere e adottare, sotto la sua diretta responsabilità, sistemi e metodi di
prevenzione, diagnosi e cura non convenzionali nel rispetto del decoro e della dignità della
professione. Il medico non deve sottrarre la persona assistita a trattamenti scientificamente
fondati e di comprovata efficacia. Il medico garantisce sia la qualità della propria formazione
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specifica nell’utilizzo dei sistemi e dei metodi non convenzionali, sia una circostanziata
informazione per l’acquisizione del consenso. Il medico non deve collaborare né favorire
l’esercizio di terzi non medici nelle discipline non convenzionali riconosciute quali attività
esclusive e riservate alla professione medica.
Art. 16 Procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. Il controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato. Il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a provocare la morte. Art. 17 Atti finalizzati a provocare la morte Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte. Art. 18 Trattamenti che incidono sull’integrità psico-fisica I trattamenti che incidono sull’integrità psico-fisica sono attuati al fine esclusivo di procurare un concreto beneficio clinico alla persona. Art. 19 Aggiornamento e formazione professionale permanente Il medico, nel corso di tutta la sua vita professionale, persegue l’aggiornamento costante e la formazione continua per lo sviluppo delle conoscenze e delle competenze professionali tecniche e non tecniche, favorendone la diffusione ai discenti e ai collaboratori. Il medico assolve agli obblighi formativi. L’Ordine certifica agli iscritti ai propri Albi i crediti acquisiti nei percorsi formativi e ne valuta le eventuali inadempienze.
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