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ANIEM
Rassegna Stampa del 10/02/2014
INDICE
ANIEM
08/02/2014 Unione Sarda
L'edilizia e la sfida in Bulgaria9
ANIEM WEB
07/02/2014 gazzettadimodena.gelocal.it
Stazione Italia-Costa Rica un po' di Modena nella foresta11
07/02/2014 www.salernonotizie.it 14:53
Salerno: Stazione e Piazza Concordia, progetto da 350 mln12
SCENARIO EDILIZIA
10/02/2014 Il Sole 24 Ore
Tra le imprese salgono del 78% gli importi medi non liquidati14
10/02/2014 Il Sole 24 Ore
Il lavoro dei giovani? In proprio e da soli16
10/02/2014 Il Sole 24 Ore
Ammortamento pieno all'acquisto a tempo18
08/02/2014 La Repubblica - Milano
Il progetto Piazza Fontana, via all'ultimo cantiere un palazzo sul cratere della guerra19
09/02/2014 La Repubblica - Palermo
Quei 200 milioni "divorati" dal centro storico20
10/02/2014 La Repubblica - Milano
Cgil: "Drammatici ritardi nel piano per i controlli nei cantieri Expo"22
09/02/2014 La Stampa - Torino
Cantieri nelle scuole Il piano di manutenzione tocca 26 istituti su 2823
08/02/2014 Il Messaggero - Nazionale
Parcheggi bloccati, persi 18 milioni24
08/02/2014 QN - Il Resto del Carlino - Reggio Emilia
Il presidente dell'Ance: «Solidarietà a Enrico Zini»25
10/02/2014 QN - Il Resto del Carlino - Modena
CARPI Alloggi popolari, Benatti (FI) attacca: «Bando da rivedere»26
08/02/2014 QN - Il Giorno - Brianza
Cantiere delle case Aler ancora fermo M5S scrive al sindaco27
08/02/2014 Libero - Milano
L'allarme di Maroni «Teem senza fondi tra 2 giorni si chiude»28
10/02/2014 Il Secolo XIX - Levante
"Imprese che resistono" convoca gli Stati generali29
10/02/2014 Il Foglio
Roma fa schifo Una capitale senza futuro30
09/02/2014 Il Tempo - Abruzzo
Il sistema case popolari al collasso: 214 famiglie si contendono 12 alloggi35
08/02/2014 QN - La Nazione - Lucca
Fallita la «Baldassari» dopo il «no» delle banche37
08/02/2014 QN - La Nazione - Pisa
Il cimitero di Lari è senza 'riposo'38
08/02/2014 QN - La Nazione - Viareggio
Firmato il protocollo per i nuovi alloggi popolari40
09/02/2014 QN - La Nazione - Arezzo
«La rabbia di Fabozzi è per i mancati emolumenti»41
09/02/2014 QN - La Nazione - Massa Carrara
La crisi entra nel condominio42
10/02/2014 ItaliaOggi Sette
Ance: il Pis va ridimensionato43
08/02/2014 Milano Finanza
Destinazione Kazakhstan44
08/02/2014 Milano Finanza
Il riuso nell'edilizia vale più di 115 miliardi45
10/02/2014 Il Fatto Quotidiano
Tecnologia&politica: una collina di soldi46
08/02/2014 Edilizia e Territorio
Con i progetti spazio al green49
08/02/2014 Edilizia e Territorio
Incertezze e freni sulla demolizione e ricostruzione50
SCENARIO ECONOMIA
08/02/2014 Corriere della Sera - Nazionale
La Corte tedesca e lo scudo Bce «Decidano i giudici europei»53
08/02/2014 Corriere della Sera - Nazionale
La fiducia dei mercati, tassi sui Btp ai minimi dal 200655
08/02/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Salta lo stop alle cartelle Equitalia Ora spunta la «compensazione»56
08/02/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Le sofferenze bancarie e la relazione di Visco58
08/02/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Perché i vincoli all'Eurotower rallentano la liquidità al mercato59
09/02/2014 Corriere della Sera - Nazionale
e Ora le banche non hanno scuse61
09/02/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Visco: ripresa fragile, meno tasse sul lavoro62
09/02/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Crediti dubbi, per gli istituti una partita da 150 miliardi64
09/02/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Frequenze tv, pretendenti in fuga E l'asta rischia di andare deserta66
09/02/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Vodafone spinge sulla banda larga: in Italia 3,6 miliardi da investire in 2 anni68
09/02/2014 Corriere della Sera - Milano
Mentasti: bisogna puntare sul lavoro fatto Salvare le infrastrutture, non gli operatori69
10/02/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Niente scorciatoie sui tagli alla spesa O questa volta l'Italia finirà sotto tutela70
10/02/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Rocca: la ripresa? Iniziamo con aeroporti e treni veloci72
08/02/2014 Il Sole 24 Ore
Le città metropolitane, una via per competere74
08/02/2014 Il Sole 24 Ore
Quel bazooka utile all'Italia76
08/02/2014 Il Sole 24 Ore
Gallia: «La bad bank non risolve il credit crunch»78
08/02/2014 Il Sole 24 Ore
Se cresce il «partito» di una Bce in stile Fed81
08/02/2014 Il Sole 24 Ore
Le misure tampone e le esigenze del Paese82
09/02/2014 Il Sole 24 Ore
Il coraggio di «garantire» il rilancio delle imprese83
09/02/2014 Il Sole 24 Ore
Ilva, interesse di ArcelorMittal85
09/02/2014 Il Sole 24 Ore
Il piano piace a banche e imprese87
09/02/2014 Il Sole 24 Ore
Visco: «Una bad bank di sistema»89
09/02/2014 Il Sole 24 Ore
Squinzi: «Siamo terrorizzati dal trend dell'economia reale»91
10/02/2014 Il Sole 24 Ore
Nella gara del «Made in» l'Italia scopre nuovi rivali93
10/02/2014 Il Sole 24 Ore
Una riforma lasciata a se stessa95
10/02/2014 Il Sole 24 Ore
La Pa investe 100 miliardi in meno97
08/02/2014 La Repubblica - Nazionale
La battaglia di Draghi per lo scudo salva-euro99
08/02/2014 La Repubblica - Nazionale
"Questo governo ormai è alla paralisi se continua così meglio che se ne vada"101
09/02/2014 La Repubblica - Nazionale
Arriva il via libera dei banchieri "Ma serve solo agli istituti piccoli"103
09/02/2014 La Repubblica - Nazionale
"Siamo un grande Paese investire non è un azzardo"104
09/02/2014 La Repubblica - Nazionale
" La nostra sfida è dare un futuro ai più svantaggiati"105
09/02/2014 La Repubblica - Nazionale
"A Telecom serve un'alleanza con Vivendi"106
09/02/2014 La Repubblica - Nazionale
Moretti: "Fs in Borsa nel 2015 Vendo i negozi di Grandi Stazioni"108
09/02/2014 La Repubblica - Nazionale
Marchionne potenziale secondo socio ma fino al 2017 farà solo l'ad di Fiat109
10/02/2014 La Repubblica - Nazionale
Quei segnali per l'Unione110
10/02/2014 La Repubblica - Nazionale
Generazione Boomerang così la crisi spinge i 30enni a tornare dai genitori"Impossibile farcela da soli"
112
10/02/2014 La Repubblica - Nazionale
Guerra alla burocrazia e alla criminalità economica così Letta prova a rilanciare114
10/02/2014 La Repubblica - Nazionale
"Basta lentezze, serve una terapia d'urto meno tasse sul lavoro e più operepubbliche"
115
09/02/2014 La Stampa - Nazionale
"Preoccupati dall'immobilismo del governo Spargere ottimismo non conviene"116
10/02/2014 La Stampa - Nazionale
Svizzera-Ue, crisi sugli immigrati118
10/02/2014 La Stampa - Nazionale
Commercio, export e dazi le intese che possono saltare120
10/02/2014 La Stampa - Nazionale
Venturi: le imprese muoiono Basta aumentare le tasse e inseguire l'emergenza121
10/02/2014 La Repubblica - Affari Finanza
Magistrati acchiappa fantasmi del rating122
10/02/2014 La Repubblica - Affari Finanza
La "bad bank" all'italiana una lavatrice da 300 miliardi123
10/02/2014 La Repubblica - Affari Finanza
BEFERA IL MANDARINO PASSA INDENNE ANCHE IL PASTICCIO DEI FUNZIONARI"ANOMALI"
125
10/02/2014 La Repubblica - Affari Finanza
Corruzione, come toglierci la maglia nera126
10/02/2014 Corriere Economia
La «banca cattiva» può fare bene alla ripresa italiana128
10/02/2014 Corriere Economia
Le sofferenze? Alle spalle (quasi)131
08/02/2014 Milano Finanza
ORSI & TORI133
08/02/2014 Milano Finanza
Euro, porto sicuro136
08/02/2014 Milano Finanza
I nuovi paradisi (legali)138
SCENARIO PMI
09/02/2014 Il Sole 24 Ore
Bankitalia: tagliare il cuneo fiscale141
10/02/2014 Il Sole 24 Ore
Arriva dalla Bei una dote di 500 milioni143
08/02/2014 ItaliaOggi
Da Fei e Credem 80 mln per le pmi innovative145
10/02/2014 La Repubblica - Affari Finanza
Contratto dirigenti e quadri, i soldi nel 2015146
10/02/2014 La Repubblica - Affari Finanza
Quel fascino discreto dei minibond147
10/02/2014 Corriere Economia
Minibond, i fondi aprono la caccia148
07/02/2014 Bluerating
I big cartolarizzano il credito, che non viene dato ai piccoli150
ANIEM
1 articolo
. La proposta dell' Aniem : consorzi di aziende per il mercato estero L'edilizia e la sfida in Bulgaria 8 E se andassimo a cercare nuovi mercati all'estero? L'internazionalizzazione può rappresentare una
soluzione per aiutare le imprese sarde a uscire dalla crisi. «Una delle ipotesi è sondare i Paesi europei che
hanno un Pil in crescita come la Bulgaria», spiega Valentina Meloni, presidente regionale dell'Associazione
nazionale imprese edili manifatturiere che nell'Isola conta 300 associati. «Siamo tutti consapevoli che nei
prossimi dieci anni il lavoro sarà un problema per tutti. All'interno o al di fuori dalla comunità europea ci sono
Paesi come la Bulgaria che gode di tanti finanziamenti, come succedeva in Italia tanti anni fa». Molte imprese
sarde, piccole e medie, hanno però difficoltà a rivolgersi ai mercati esteri. «Spesso un imprenditore non ha la
forza economica e neppure la struttura d'azienda per il mercato all'estero. La soluzione è accorparsi in reti di
imprese». Pietro Murru, direttore regionale di Edilcassa, traccia un difficile quadro sul comparto. «In
Sardegna i lavoratori edili sono 40.000. Dal 2008 al 2013, tra le imprese iscritte a Edilcassa, c'è stato un calo
delle ore lavorate del 52% e una diminuzione degli addetti da 18.000 a 9.200. Le aziende sono passate da
3.350 a 2.100. Nei lavori pubblici, la crisi è determinata dai ritardi nei pagamenti dei crediti che le pubbliche
amministrazioni devono alle imprese. Il paradosso è che ci sono lavori da eseguire, materiali, attrezzature e
maestranze, ma mancano i soldi. Le banche poi non concedono più mutui e prestiti alle imprese. Il problema
è a monte: si chiama emissione monetaria». E nel frattempo tante imprese sono costrette a chiudere.
Eleonora Bullegas
08/02/2014 20Pag. Unione Sarda(diffusione:68332, tiratura:81580)
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ANIEM - Rassegna Stampa 10/02/2014 9
ANIEM WEB
2 articoli
Stazione Italia-Costa Rica un po' di Modena nella foresta pagerank: 7 Un pezzetto di Modena nel cuore del Centro America. Il 1 marzo sarà ufficialmente inaugurata la stazione
Biologica Meteoclimatica "Italia Costa Rica" realizzata nella Riserva Karen Mogensen nella...
Un pezzetto di Modena nel cuore del Centro America. Il 1 marzo sarà ufficialmente inaugurata la stazione
Biologica Meteoclimatica "Italia Costa Rica" realizzata nella Riserva Karen Mogensen nella Penisola di
Nicoya in Costa Rica. Il progetto di costruzione iniziato nel febbraio 2011 grazie a un primo finanziamento di
imprese modenesi tra cui la Piacentini Costruzioni, la Turchi Cesare SpA, la Granulati Donnini e la
partecipazione di Confimi Impresa Modena e Aniem Modena, si è concluso grazie all'impegno congiunto delle
associazioni Gev Modena e Foreste per Sempre con l'associazione costaricense Asepaleco, gestore della
Riserva Karen. La Stazione ha avuto il patrocinio dell'Università di Modena, della Società dei Naturalisti e
Matematici di Modena. La costruzione immersa nella foresta tropicale è costituita da una piattaforma di 160
metri quadrati a 4 metri di altezza su cui si sono costruiti un laboratorio scientifico, un ufficio, una sala
riunioni, e un alloggiamento per i ricercatori. Scopo della struttura è fornire una base logistica per ricercatori e
studenti italiani e costaricensi per lo studio e la didattica dell'ecosistema forestale tropicale e della sua
preziosa biodiversità minacciata dai cambiamenti climatici in atto anche in questa parte del mondo.
07/02/2014 Sito Webgazzettadimodena.gelocal.it
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ANIEM WEB - Rassegna Stampa 10/02/2014 11
Salerno: Stazione e Piazza Concordia, progetto da 350 mln "Un progetto imponente, è vero, ma occorre saper anche essere ambiziosi". Apre così la conferenza stampa
il presidente Aniem Salerno Pietro Andreozzi per illustrare il progetto di riqualificazione urbana che abbraccia
la vastissima area compresa tra la Cittadella Giudiziaria e la Stazione ferroviaria di Salerno fino ad arrivare in
piazza della Concordia. Un'area di circa 130 mila metri quadrati di superficie che vivrà una modifica
sostanziale nella sua mobilità pedonale e veicolare, una nuova vivibilità dove a fare la parte del leone è il
verde pubblico a cui sono dedicati oltre 80mila metri quadrati.
Il progetto "Salerno Sviluppo Centro" su cui l'Aniem Salerno lavora da oltre due anni affidandosi a grandi
professionisti del settore a livello locale ma anche internazionale, sarà realizzato senza usufruire di alcun
contributo pubblico: l'impegno di spesa previsto è di circa 350 milioni di euro. L'opera che appare dalle tavole
dell'architetto Dante Benini, mostrano come saranno messe in relazione le due grandi aree cittadine, quella di
piazza della concordia e quella alle spalle della stazione ferroviaria.
Attenendosi perfettamente al piano regolatore, il progetto presenta anche 5000 metri quadrati di aree da
destinare allo sport, mentre solo una piccola percentuale verrà dedicata alla costruzione di abitazioni con la
formula del Social Housing e questo per consentire a chiunque di poter acquistare un appartamento al centro
della città, in un'area verde, a prezzi estremamente contenuti.
Previsti oltre 2700 posti auto, ma tutti interrati su due livelli in tre grandi aree: piazza della Concordia, piazza
Vittorio Veneto e la piazza dinanzi al nuovo Palazzo di Giustizia, così come tutti gli attraversamenti carrabili
saranno interrati. Un meraviglioso parco urbano al centro di Salerno che con tutti i servizi accessori riuscirà a
dare lavoro a tantissimi giovani oltre a portare una grande boccata d'ossigeno al comparto dell'edilizia in un
momento di grave crisi.
07/02/201414:53
Sito Webwww.salernonotizie.it
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ANIEM WEB - Rassegna Stampa 10/02/2014 12
SCENARIO EDILIZIA
26 articoli
Tra le imprese salgono del 78% gli importi medi non liquidati Netti u pagina 7 Enrico Netti
Sette anni segnati dal moltiplicarsi del numero dei mancati pagamenti e, per diversi settori, dal raddoppio
degli importi medi non liquidati. È quanto emerge dall'edizione 2014 del Report dei mancati pagamenti
realizzato da Euler Hermes. Il report contiene un focus, realizzato per Il Sole 24 Ore, che mostra come si è
evoluto il quadro dal 2007 (prima della crisi) al 2013.
Nel periodo considerato il valore medio non saldato ha visto un aumento del 78 per cento. In flessione invece
il trend degli inadempimenti, sceso del 44 per cento. Per quanto riguarda le imprese che esportano, nello
stesso arco temporale il numero dei mancati pagamenti è diminuito del 63%, mentre l'importo è cresciuto di
quasi il 50 per cento.
«Questo scostamento è legato a due fenomeni: la contrazione della crescita economica e il credit crunch
finanziario - spiega Michele Pignotti, capo della regione Paesi Mediterranei, Medio Oriente e Africa di Euler
Hermes -. Dopo un "effetto scrematura" avvenuto nella prima parte della crisi, oggi sono le aziende medio-
grandi a soffrire, con margini di resistenza che si assottigliano sempre più».
Lo scorso anno, per esempio, il numero degli inadempimenti ha segnato un rallentamento di quasi il 20 per
cento. Questa è la buona notizia. L'aspetto negativo, però, è l'aumento (+9% sul 2012) dell'importo medio
non liquidato, trend registrato sia per il mercato interno che per l'export.
I settori più colpiti sono quelli delle commodities, che nel corso della crisi hanno visto raddoppiare l'importo
medio non saldato arrivando, nel 2013, a 94mila euro. Situazione allarmante anche nell'automotive, nelle
costruzioni e nella siderurgia, il settore che ha visto un aumento del 35% degli incagli. Chimica, alimentare e
sistema casa sul fronte degli importi hanno subìto un deterioramento di poco superiore al 30% con una
"severità" (importo medio non saldato) che resta sopra i livelli del 2007. Sotto stress anche i comparti della
gomma e della plastica, mentre nel food «sembra emergere un trend di riduzione dei casi d'insoluto, con
l'importo medio intorno ai 25mila euro» sottolinea Pignotti.
A livello territoriale sono Lazio, Lombardia, Emilia-Romagna, Marche e Molise le regioni dove, dal 2007 al
2013, è raddoppiato l'importo medio degli insoluti, mentre è il Mezzogiorno ad avere registrato l'aumento
maggiore, intorno al 60%, del numero degli insoluti.
Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte nel 2013 hanno visto il calo del numero dei casi di mancati pagamento
e degli importi. Sul podio delle regioni con il maggiore importo medio non saldato figura l'Emilia-Romagna con
35mila euro, soglia raddoppiata rispetto al periodo pre-crisi, che precede Lombardia (31mila) e Lazio
(29mila). È Reggio Emilia, con 79mila euro, la provincia al top per gli insoluti (più diffusi tra le imprese
siderurgiche e meccaniche), seguita da Pavia (68mila) e Fermo (51mila). Nelle prime due province le
maggiori criticità sono arrivate dai settori della distribuzione carburanti e della chimica, mentre per Fermo
hanno pesato meccanica e calzaturiero. Situazione critica anche ad Avellino, dove si registra il raddoppio
dell'importo medio, ora a 50mila euro, e a Pordenone, con il distretto del mobile-arredo in affanno.
«Quest'anno prevedo un lieve miglioramento sul fronte degli importi non liquidati, grazie anche alla leggera
ripresa dell'economia nazionale - conclude Pignotti -. L'ulteriore sblocco dei debiti della Pa e l'allentamento
dei parametri di accesso al credito per le imprese potranno garantire alle imprese nuovo slancio per ripartire».
© RIPRODUZIONE RISERVATA LE REGIONI MANCATI PAGAMENTI Siderurgia 35 Commodities 2
Trasporti 0 Meccanica -6 Automotive -11 Chimica -19 Food -21 Costruzioni -33 Carta -35 Sistema casa -37
Tessile -63 SEVERITÀ Commodities Automotive Siderurgia Costruzioni Chimica Food Sistema casa
Meccanica Trasporti Tessile Carta MANCATI PAGAMENTI Valle d'Aosta -70 Campania -62 Sardegna -62
Trentino A. A. -62 Sicilia -60 Calabria -58 Puglia -55 Liguria -54 Basilicata -50 Toscana -48 Lazio -48 Abruzzo
10/02/2014 1Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 14
-46 Molise -46 Veneto -42 Piemonte -38 Umbria -36 Marche -33 Emilia R. -31 Friuli V. G. -25 Lombardia -24
SEVERITÀ Lazio Lombardia Emilia R. Marche Molise Umbria Puglia Sicilia Trentino A. A. Piemonte Friuli V.
G. Liguria Campania Abruzzo Sardegna Toscana Veneto Basilicata Calabria Valle d'AostaL'evoluzioneVariazione del numero di mancati pagamenti e dell'importo medio non liquidato nel 2013 rispetto al 2007. Dati
in percentuale I SETTORI LE REGIONI - Fonte: Euler Hermes
10/02/2014 1Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 15
PRIMATO ITALIANO Il lavoro dei giovani? In proprio e da soli Francesca Barbieri La patria del "working solo"? È l'Italia, che tra i grandi Paesi europei ha il record di lavoratori in proprio senza
dipendenti. Nel 2013 se ne sono contati oltre 1,3 milioni sotto la soglia dei 40 anni, pari al 15% di tutti gli
occupati. Un primato rispetto alla media dell'area euro, che si ferma alla metà (7,5%), ma anche nei confronti
di Francia e Germania, entrambe al di sotto del 5 per cento. E se la crisi ha inciso sui settori tradizionali,
come edilizia e manifattura, ci sono segnali positivi da ristorazione, consulenza e servizi informatici.
Servizio u pagina 5 Francesca Barbieri
La patria del "working solo"? L'Italia. Tra i grandi Paesi europei, il nostro ha il record di lavoratori in proprio
senza dipendenti, soprattutto tra i giovani. Nel 2013 se ne sono contati oltre 1,3 milioni sotto la soglia dei 40
anni, come dire il 15% del totale degli occupati di quella fascia d'età. Un primato assoluto rispetto alla media
dell'area euro, che si ferma alla metà (7,5%), ma anche nei confronti di Francia e Germania, entrambe al di
sotto del 5 per cento.
Dal report del centro studi Datagiovani per Il Sole 24 Ore risulta che nella nostra Penisola si concentra quasi
un terzo di quelli che nelle statistiche ufficiali sono definiti come own account workers. E anche sul versante
femminile è alta la quota di donne che lavorano "per se stesse", pari al 44% del totale.
Sarà perché sempre più fabbriche chiudono, sarà perché per i giovani ottenere un posto fisso sta diventando
un miraggio, fatto sta che ancora in tanti - per scelta o per necessità - e nonostante il clima economico
sfavorevole, un lavoro decidono di darselo da sé.
«I giovani - commenta Luigi Campiglio, ordinario di Politica economica all'Università Cattolica di Milano -
dimostrano un forte impegno e per tanti la strada di essere imprenditori di se stessi è obbligata, ma a causa
delle dimensioni ridotte sono i più esposti alle intemperie della recessione».
Come tutte le medaglie, infatti, anche questa ha il suo rovescio. E la crisi occupazionale che ha travolto il
lavoro dipendente ha lasciato il segno pure su quello in proprio. L'Italia, insieme alla Germania, ha registrato
una flessione nel 2013 di dimensioni consistenti (-8,3%) sull'anno precedente, e allargando l'orizzonte
temporale fino al 2008 il flop è stato del 19,3%, leggermente inferiore rispetto a quella dei dipendenti under
40 (-19,4%).
Non tutti i settori però hanno risentito della crisi. Anzi, ci sono nicchie in cui i lavoratori in proprio possono
trovare spazi: restringendo l'obiettivo sui capitani d'azienda under 30 spicca il comparto degli alloggi e della
ristorazione (+1,1% sul 2012), ma vanno in controtendenza anche i servizi di noleggio e consulenza alle
imprese (+4,7%), quelli informatici e di comunicazione (+2%), le attività finanziarie ed assicurative (+12,9%).
«La quota di lavoro professionale altamente specializzato - commenta Maurizio Del Conte, docente di diritto
del lavoro all'Università Bocconi - nei settori con maggiore utilizzo di tecnologia da noi è consistente rispetto
ai Paesi europei più avanzati. Per questo in Italia queste figure possono offrire con successo i propri servizi
alle moltissime piccole imprese che non sono in grado di trattenerle stabilmente al proprio interno».
I giovani sono in fuga, invece, dai settori costruzioni, manifatturiero, attività immobiliari e professionali. Il
settore che soffre di più, il secondo in assoluto per numero di imprenditori giovani, è l'edilizia (-11%), seguito
da agricoltura (-6,2%) e attività manifatturiere (-4,7%). Forte è stata poi la flessione in due rami che, seppure
non prevalenti rispetto ad altri, riflettono le effettive condizioni economiche del Paese: si tratta delle attività
immobiliari (-8,9%) e di quelle professionali, scientifiche e tecniche (-6,7%). Tutto sommato, invece, tengono
commercio e riparazioni (-1,2 per cento).
Gli own account workers sono titolari di se stessi e quindi hanno potere assoluto su ogni scelta e decisione,
pienamente responsabili di meriti e insuccessi. Ma che peso hanno i giovani nelle imprese più strutturate?
Piuma, a giudicare dai numeri. Nel 2013 sono state circa 410mila le cariche imprenditoriali detenute da
giovani, l'equivalente di poco più del 5% del totale (quasi 7,8 milioni), con il 32% di quote rosa (132mila
10/02/2014 1Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 16
donne ai vertici). Inoltre il numero di imprenditori under 30 è stato ridimensionato dagli anni di crisi: nel 2008,
infatti, se ne contavano 94mila in più rispetto a oggi, e in un solo anno se ne sono persi 16mila.
© RIPRODUZIONE RISERVATA La percentuale sul totale 17 Altre attività 7 Manifatturiero 9 Agricoltura 16
Costruzioni 30 Commercio 12 Ristorazione In crescita In calo 0 5 10 15 20 25 30 9 Servizi avanzati (3) Italia
Totale area euro (17 Paesi) 1.310.267 571.367 4.409.067 1.694.467 Paesi Totali 15-39 anni di cui donne
Francia 549.100 155.533 Germania 634.033 265.500 Grecia 274.633 97.300 Gb 1.143.133 297.367 Svezia
74.533 23.900 Spagna 657.800 269.900 Olanda 305.533 93.967La fotografia di Datagiovani DOVE SI
CONCENTRANO I GIOVANI LEADER I settori a maggior presenza di amministratori e titolari under 30 in
imprese attive nel 2013. In % IL RECORD EUROPEO Lavoratori in proprio senza dipendenti (own-account
workers (1)) dai 15 ai 39 anni in alcuni Paesi nel 2013 (2) - Note: (1) la definizione di own account workers
prende origine dalla rilevazione dei self employed without employees, vale a dire i lavoratori in proprio che
non hanno lavoratori alle proprie dipendenze; (2) media dei primi tre trimestri; (3) comprendono servizi di
informazione, attività finanziarie e servizi alle imprese Fonte: elaborazioni Datagiovani su dati Eurostat e
Infocamere
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 17
I riflessi per l'impresa. Come incide la durata dell'acquisizione Ammortamento pieno all'acquisto a tempo In caso di acquisto del diritto di superficie a tempo determinato, può essere previsto il pagamento di canoni
periodici, o di un importo una tantum.
I canoni periodici devono essere imputati nella voce B.8) del conto economico. Sotto il profilo fiscale, questi
costi sono deducibili in base al principio di competenza economica (articolo 109 del Tuir). Il pagamento di una
somma in un'unica soluzione, non è disciplinato invece dai principi contabili.
L'agenzia delle Entrate, con la risoluzione 157/E/2007, ha indicato che il diritto di superficie deve essere
iscritto tra le immobilizzazioni immateriali o come onere accessorio alla costruzione del fabbricato. La prima
modalità è da seguire in caso di acquisto del solo diritto di superficie e successiva realizzazione del
fabbricato, mentre la seconda è da adottare se il fabbricato è già esistente al momento dell'acquisto. Se la
realizzazione del fabbricato avverrà dopo l'acquisto, il diritto di superficie è iscritto tra le «Altre
immobilizzazioni immateriali» (B.I.7 dello stato patrimoniale) e ammortizzato in base alla durata del contratto.
L'eventuale fabbricato, invece, deve essere ammortizzato nel periodo inferiore tra l'effettiva vita utile e la
durata del contratto. Una tesi diversa è fornita dalla circolare 16/2013 dell'Irdcec, che indica come «soluzione
preferita» la contabilizzazione del corrispettivo riconosciuto per il diritto di superficie, sia in caso di somma
una tantum, sia in caso di canoni periodici, tra le immobilizzazioni immateriali (pur sottolineando che il
comportamento non è conforme ai principi contabili dell'Oic). È anche possibile che sia acquistata la proprietà
di una costruzione esistente senza però acquisire la proprietà del suolo su cui giace la costruzione: in questo
caso, il diritto di superficie deve essere trattato come onere accessorio del fabbricato e iscritto tra le
immobilizzazioni materiali (B.II.2 dello stato patrimoniale).
Sotto il profilo fiscale, l'ammortamento del diritto di superficie è deducibile lungo la durata contrattuale per cui
è costituito (articolo 103 del Tuir), mentre gli ammortamenti relativi all'eventuale fabbricato realizzato saranno
deducibili nel limite dell'aliquota ordinaria (articolo 102 del Tuir).
Per l'Agenzia, la disciplina dello scorporo dell'area ai fini dell'ammortamento (articolo 36, comma 7, del Dl
223/2006) non è applicabile quando il diritto di superficie è acquistato a tempo determinato, perché in questo
caso il superficiario non acquista la proprietà del terreno ma solo un diritto. Nel caso invece di acquisto del
diritto a tempo indeterminato, il costo sostenuto è assimilabile all'acquisto in proprietà (risoluzione
192/E/2007). Il criterio per calcolare il costo fiscale dipende dalle modalità di acquisizione di questo diritto. Se
il diritto di superficie è stato oggetto di acquisizione autonoma, il costo è pari all'ammontare pagato per
l'acquisto della proprietà superficiaria, mentre se è acquisita la sola proprietà superficiaria, ossia il solo
fabbricato, il costo fiscale è pari al maggiore tra il valore indicato in bilancio e l'ammontare forfettariamente
definito pari al 20-30% del costo totale (che, essendo riferito al terreno è fiscalmente non ammortizzabile).
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10/02/2014 22Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 18
Si preparano le fondamenta dell'edificio di quattro piani: appartamenti di lusso, uffici e negozi Il progetto Piazza Fontana, via all'ultimo cantiere un palazzo sul crateredella guerra La proprietà dovrà finire il restauro del teatro Gerolamo Già ottenuti i permessi: la struttura sarà del tuttosimile allo Starhotel COME SARÀ Sopra lo Starhotel di piazza Fontana. Il nuovo edificio sarà molto simile, eperciò la proprietà ha ottenuto il via libera dalla Soprintendenza e dalla commissione per il Paesaggio FRANCO VANNI UN PALAZZO di quattro piani, che ospiterà appartamenti, uffici, negozie un porticato aperto
al piano terra.
Un edificio del tutto simile nell'aspetto esteriore allo Starhotel a cui sarà affiancato. Dopo 70 anni dai
bombardamenti di Milano nella Seconda guerra mondiale, si rimargina l'ultima ferita di piazza Fontana: dopo
la demolizione dell'edificio di un piano soltanto che ospitava una macelleria e la boutique orafa Gioielli nel
tempo (trasferitasi a poca distanza), è aperto il cantiere all'incrocio con piazza Beccaria. Assieme alla
costruzione del nuovo edificio, sarà anche completato il restauro dello storico teatro Gerolamo, che fra
maggio e ottobre 2015 sarà prestato al Comune come "teatro per Expo".
Il progetto dell'edificio di quattro piani, presentato in Comune dalla Sanitaria Ceschina&C Spa proprietaria
dell'area, è sul tavolo del consiglio di Zona 1, chiamato a fare osservazioni.
Ma i via libera necessari sono già stati espressi: nel 2013 la commissione per il Paesaggio e la
Soprintendenza per i Beni architettonici hanno dato l'ok. L'impresa edile ha cominciato a scavare le
fondamenta, che ospiteranno posti auto e locali di servizio. Secondo i dati comunicati dal costruttore, il nuovo
stabile prevede 2.295 metri quadrati di superficie di abitazioni, 534 metri di uffici e 926 di negozi al piano
terra.
«Il progetto riempie un vuoto urbano ed è importante far rivivere il teatro Gerolamo», dice Fabio Arrigoni,
presidente del consiglio di Zona 1. «Un simile investimento in cultura non può che fare piacere», aggiunge
Mattia Abdu, presidente della commissione Urbanistica del parlamentino di quartiere. L'accordo con il
Comune prevede che il costruttore si impegni a concludere il restauro in atto del teatro Gerolamo in piazza
Beccaria, che occupa 1.278 metri quadrati in uno stabile sempre di proprietà di Sanitaria Ceschina&C Spa. Il
teatro ottocentesco in legno da circa 200 posti, chiuso per ragioni di sicurezza nel 1983 dopo le norme post
rogo del cinema Statuto a Torino, potrebbe riaprire già a gennaio 2015. La sala, che sarà gestita dalla
famiglia Ceschina, grazie a un accordo con Palazzo Marino sarà affidata al Comune per l'intera durata di
Expo 2015. In questo modo l'amministrazione avrà a disposizione un luogo in pieno centro per ospitare
spettacoli collegati all'Esposizione universale. Dal 1° novembre 2015 il Gerolamo tornerà alla proprietà, che
avvierà una programmazione di varietà, prosae canzone d'autore, sul solco di quanto accadeva prima della
chiusura, quando sul palco si alternavano Ornella Vanoni, Laura Betti, Paola Borboni, Enzo Jannacci, Dario
Fo, Carmelo Bene, Umberto Simonetta, che ne fu l'anima negli ultimi anni. Improbabile invece che al
Gerolamo, un tempo regno di Carlo Colla, tornino le marionette, escluse dalla programmazione già dagli anni
Cinquanta. A questo tipo di rappresentazione potrebbe essere dedicata una mini rassegna annuale.
08/02/2014 5Pag. La Repubblica - Milano(diffusione:556325, tiratura:710716)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 19
Il dossier Quei 200 milioni "divorati" dal centro storico SARA SCARAFIA ADESSO che l'ennesima palazzina è venuta giù, la conta dei soldi spesi negli ultimi vent'anni per il
risanamento mancato è un esercizio di memoria che fa male. Almeno 200 milioni - tra fondi europei, statali e
comunali - che non hanno salvato il centro storico dall'ineluttabile convivenza tra sfarzo e orrore, degrado e
lusso.
Attici vista mare sopra bassi da quali spingere a colpi di scopa i liquami che tracimano dalle fognatura a ogni
acquazzone. «Il risanamentoè fallito», dice chi in centro storico ha investito. «Il risanamento si è fermato per
colpa della crisi», dice l'amministrazione che tenta faticosamente di racimolare idee e risorse per rendere la
città antica quantomeno sicura ma in cassa, adesso, ha solo spiccioli. Dopo il crollo di piazza Garraffello, il
sindaco Leoluca Orlando se l'è presa con i privati e ha annunciato un giro di vite contro chi non mette in
sicurezza gli immobili: sì, ma quanti sono i proprietari? Il Comune ha appena fatto una scoperta
sorprendente: i 228 ruderi da bollino rosso - cioè quelli che potrebbero sbriciolarsi da un momento all'altro -
appartengono a 7.740 persone.
SARA SCARAFIA OLTRE settemila proprietari per duecento palazzi. Una cifra da capogiro. Sperare che si
mettano d'accordo tutti? Impossibile. Così l'amministrazione ha deciso di tentare una altra strada: prima ha
inviato a ciascuno una diffida, poi ha individuato 60 dei 228 edifici degradati che restaurati possono
trasformarsi in palazzine con almeno dieci appartamenti e ha deciso di metterlia disposizione delle
cooperative edilizie, quelle titolari di finanziamento regionale, che vogliono restaurarle. Il bando che avvia gli
espropri, però, non è stato ancora pubblicato, bloccato dal caos seguito alla cancellazione dell'ufficio Centro
storico, sottratto alla giurisdizione dell'assessore Agata Bazzi.
Ma anche se il bando si sbloccasse subito, qualcuno risponderebbe? I numeri fanno presagire un flop. Per
esempio, solo una cooperativa delle undici che avevano risposto al bando per il recupero delle fabbriche
dismesse sta andando avanti col progetto. Perché le coop per azionare le ruspe devono anticiparei soldi-
l'assegno dalla Regione arriva solo a consuntivo - e di soldi ne hanno in pochi. I contributi, dunque, non
bastano. Un esempioè Palazzo Mazzarino, che si affaccia sulla stessa piazza Garraffello oggi invasa di
macerie: «È trai palazzi che hanno ottenuto i contributi del sesto bando per i privati che ristrutturano in centro
storico - dice la Bazzi - Ma i lavori non sono mai partiti».
I numeri parlano chiaro: con il sesto bando. quello del 2006, cioè alla vigilia della crisi, sono state rilasciare
168 concessioni edilizie per altrettanti immobili. Ma i cantieri completati sono circa la metà. Gli altri bandi -
quattro tra il 1995 e il 1999, uno nel 2002 - hanno rimesso a posto complessivamente 320 immobili: ma i soldi
investiti- 51 milioni- non sono bastati a cambiare il volto del centro storico. Così come non sono stati
sufficienti i 44 miliardi di lire del progetto Urban che ha consentito anche il restauro di Villa Giulia, i 28 miliardi
di lire della Conferenza Onu del 2000, usati pure per il prato del Foro Italico. E ancora gli 8 milioni di fondi
europei per il rifacimento delle piazza Bellini, Vittoria e Marina (i lavori
sono ancora in corso), i 4,5 milioni spesi per il Teatro Garibaldi o i quasi 14 milioni investiti nella Galleria
d'arte moderna. «Maculato», ecco come nei mesi scorsi ha definito il centro storico l'ormai ex dirigente
dell'ufficio Nicola Di Bartolomeo. La discarica accanto al monumento. Il museo tra i palazzi diroccati.
Adesso in cassa ci sono solo spiccioli: l'assessore Bazzi - che con la riorganizzazione degli uffici deve
cedere il timone al collega Tullio Giuffrè- annuncia che entro un mese arriverà a Sala delle Lapidi una
delibera per rimodulare le somme residue di una leg- ge regionale del '93: circa 15 milioni che il Comune
vorrebbe utilizzare per il risanamento delle botteghe e il recupero del patrimonio comunale. Non molto.
La speranza restano i privati anche se nessuno ci crede più: fuggono tutti. Persino l'Ersu pare avere
abbandonato il progetto di realizzare un ostello al Collegio della Sapienza di piazza Magione, mentre
nessuno sembra interessato a Palazzo Sammartino di via Lungarini che da quasi dieci anni il Comune cerca
09/02/2014 1Pag. La Repubblica - Palermo(diffusione:556325, tiratura:710716)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 20
di vendere. Così, si navigaa vista. Nei prossimi giorni partiranno i lavori da 2,2 milioni per la nuova
pavimentazione della Vucciria. Prima, però, dal basolato vanno tolte le macerie.
Le cifre/1 25 MLN I primi bandi per il recupero degli immobili del centro storico risalgono agli anni Novanta:
182 i cantieri 26 MLN Il Comune ci riprova nel 2002 stanziando 26 milioni che hanno finanziato 138 recuperi
18 MLN L'ultimo bando per i privati risale al 2006: 18 milioni per 162 concessioni
Le cifre/2 44 MLD Il progetto Urban portò a Palermo 44 miliardi di vecchie lire spesi a esempio per Villa
Giulia e il Khalesa 28 MLD Altri soldi arrivano nel 1999 con la conferenza Onu che finanzia anche il prato al
Foro Italico 15 MLN Le somme, residui di una legge regionale, sulle quali punta il Comune per nuovi lavori
Foto: Un cantiere al centro storico
09/02/2014 1Pag. La Repubblica - Palermo(diffusione:556325, tiratura:710716)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 21
Cgil: "Drammatici ritardi nel piano per i controlli nei cantieri Expo" "Mancano fondi e personale, bloccati 15 milioni dalla Regione". Oggi vertice col prefetto ZITA DAZZI C'È UN ritardo «drammatico» nell'assunzione di personale per i controlli sui cantieri Expo e alle
manifestazioni collegate. Fondi per 15 milioni della Regione disponibili a questo scopo sono congelati. La
denuncia arriva dalla Cgil: la macchina Expo ancora non lavora a pieno regime ma il sindacato è già
preoccupato per la mancanza di personale e finanziamenti che potrebbero inceppare il meccanismo, ancora
prima dell'arrivo dei milioni di visitatori. A lanciare l'allarme è Antonio Lareno, responsabile progetto Expo
della Camera del lavoro, che ha già avvisato l'assessore al Lavoro, Cristina Tajani, e l'amministratore
delegato Expo Giuseppe Sala. Oggi farà lo stesso con il prefetto Francesco Tronca, mercoledì con la
Regione. Lareno parla di «situazione drammatica e paradossale», sottolineando che «a Milano c'è un piano
che attualmente stiamo discutendo con la giunta denominato "City operations", e a quel livello si è
evidenziato una rilevante mancanza di risorse per quanto riguarda il personale per garantire la tutela della
salute sui cantieri e parimenti la tutela della igiene pubblica, in particolare quella alimentare» durante l'Expo.
La Cgil stima che solo il Comune dovrebbe assumere con contratti a termine almeno 80 persone,e altrettanti
vigili urbani, oltre a prevedere un capitolo di spesa anche per pagare gli straordinari. Per quanto riguarda
l'Asl, le persone da contrattualizzare sarebbero almeno una quindicina.
La preoccupazione si rafforza ora che circa 80 progetti dei padiglioni devono essere verificati dalla
commissione comunale vigilanza integrata, con l'autorizzazione dell'attività. Lo stesso organismo dovrà dare
tutte le autorizzazioni per le circa 3mila manifestazioni previste durante i sei mesi di esposizione. «A queste
attività si aggiungeranno tutte quelle per lo sviluppo della ricettività e del riarredo urbano della città - aggiunge
il sindacalista - , che vedranno impegnato personale della Asl. Ovviamente le attività relative ad Expo non
devono penalizzare la normale attività dell'Asl, già in tensione per il mancato reintegro del turn over». Non
basta. La Cgil, assieme a Cisl e Uil, punta il dito contro la Regione che starebbe «ostacolando anche tutte le
forme di assunzioni temporanee» e avrebbe già «circa 15 milioni che potrebbero essere utilizzati allo scopo»,
tratti dal fondo delle multe pagate dalle aziende per violazioni nella sicurezza sul lavoro, anche se «non ha
dato specifiche indicazioni alle Asl sull'utilizzo di tali fondi».
La denuncia EMERGENZA Oggi la Cgil incontrerà il prefetto Tronca per segnalare le carenze di personale
anche in Asl e vigili del fuoco in vista di Expo SICUREZZA Il sindacato chiede che il Comune di Milano
assuma almeno 80 tecnici e altrettanti vigili urbani per i controlli della sicurezza e nei cantieri
FINANZIAMENTI La Cgil accusa la Regione di mettere ostacoli burocratici per l'utilizzo di 15 milioni che
potrebbero servire proprio per fare i contratt i PER SAPERNE DI PIÙ www.expo2015.org
www.cgil . lombardia.i t
Foto: I LAVORI Sul cantiere Expo presto gli operai saranno presenti dalle 6 alle 2 di notte
10/02/2014 4Pag. La Repubblica - Milano(diffusione:556325, tiratura:710716)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 22
Rivoli Cantieri nelle scuole Il piano di manutenzione tocca 26 istituti su 28 PATRIZIO ROMANO Scuole in primo piano a Rivoli. Non fa in tempo a chiudere un cantiere che un altro apre. Infatti è da poco
finita la diaspora dei 60 bambini dell'asilo nido Donini, dove è terminata la ristrutturazione, che ora toccherà
all'asilo Melograno preparare le valige, perché a marzo è previsto il trasloco. Il motivo? Sempre lo stesso,
ristrutturazione della scuola.
Al nido Donini tutto era iniziato nel dicembre 2012, quando un forte acquazzone aveva mandato sott'acqua la
scuola. In quei giorni si stavano svolgendo dei lavori proprio su alcune parti del tetto. «A quel punto abbiamo
deciso di chiudere - spiega il sindaco Franco Dessì - e dare il via ad un'operazione di restyling, rifacendo
l'impianto elettrico, cambiando infissi e ripristinando il piano interrato con problemi di infiltrazioni d'acqua».
Per una spesa di circa 400 mila euro. «Oggi, però, il Donini è completamente rimesso a nuovo - dice il
sindaco - ed ha il certificato prevenzione incendi».
Archiviato il Donini si è passati al nido Melograno. «Con i genitori abbiamo concordato di chiudere a marzo -
dice l'assessore Marisa Maffeis -. E i lattanti verranno spostati al Donini, mentre i divezzi andranno alla
Neruda». Anche in questo caso si dovrà risanare il seminterrato e rifare l'impianto elettrico. E poi, alla fine,
ottenere il certificato prevenzione incendi: lavori per 150 mila euro. «Il rientro a scuola è previsto a
settembre» conferma la Maffeis. Ma di lavori nelle scuole ne sono in pista diversi: alla Matteotti, alla Vittorino
da Feltre, alla Piaget, e a giugno partiranno alla Levi e alla succursale dei Tetti. Intanto sta per terminare il
cantiere alla materna Garcia Lorca. «Un piano di recupero per 13 milioni di euro tra manutenzione
straordinaria e opere per ottenere il cpi - conclude il sindaco -. Lavori che sono conclusi o in corso, oppure
sono stati assegnati i cantieri o si è in fase progettuale. E che riguardano 26 dei 28 edifici scolastici».
09/02/2014 59Pag. La Stampa - Torino(diffusione:309253, tiratura:418328)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 23
LO STOP Parcheggi bloccati, persi 18 milioni Sono venticinque i progetti pronti ad andare in cantiere ma che restano fermi perché manca l'ok delCampidoglio Se fossero realizzati i nuovi garage il Comune incasserebbe attraverso i vari municipi gli oneriper il diritto di superficie L'ULTIMA VERSIONE DEL PIANO URBANO PREVEDEVA UN PROGRAMMA PERCOSTRUIRE 30MILA POSTI AUTO Lorenzo De Cicco Venticinque nuovi parcheggi pronti per andare a cantiere che rimangono bloccati. I progetti hanno già
ricevuto i permessi ma, secondo l'Associazione Roma Parcheggi, mancherebbe ancora «un atto politico della
giunta» per far partire i lavori. E pensare che i municipi incasserebbero circa 18 milioni di euro grazie ai diritti
di superficie legati ai nuovi garage. Soldi che farebbero comodo alle casse delle amministrazioni locali.
Eppure, denuncia Giorgio Nena, a capo dell'organizzazione che riunisce imprese e professionisti interessati
ai progetti previsti dal Programma comunale Parcheggi, «ad oggi siamo in un limbo». A poco sembra essere
servito l'incontro tenuto a settembre con l'assessore comunale alla Mobilità Guido Improta. «Ci aveva
promesso una memoria di giunta, ma non è arrivata. E i cantieri rimangono fermi». La bozza di memoria,
secondo l'Arp, sarebbe rimasta «in pasto al personale politico dei vari municipi, che mette insieme quanti
ritengono che meno si faccia e meglio si sta». IL PIANO La prima versione del Piano urbano per i parcheggi
risale addirittura al 1992, ma nel corso degli anni il progetto è stato rimodulato molte volte, con l'ultima
modifica che risale al 2012. Con questo cambiamento sono rimasti in piedi circa 150 progetti per oltre 30mila
posti auto. Ad oggi però i cantieri aperti sono solo quattro, mentre altri 25 aspettano il via libera. E non è un
problema di spesa pubblica. «I costi dei lavori sono tutti a carico dei costruttori», dicono dall'Arp. Quindi
devono solo arrivare i permessi dal Comune. Che dopo le autorizzazioni, attraverso i municipi, incasserebbe
anche i fondi derivati dagli oneri per il diritto di superficie, che prevedono l'esborso da parte delle imprese di
un conguaglio che va dai 4mila ai 10mila euro a posto auto a seconda della zona. «Circa 18 milioni. Soldi che
finirebbero direttamente nelle casse dei municipi», spiegano dall'Arp. Per fare un esempio il parcheggio già
realizzato a via Teulada, vicino piazzale Clodio, ha fatto intascare al vecchio Municipio XVII 878mila euro. I
parcheggi ora in costruzione sono a viale XXI Aprile (II Municipio), largo Vercelli e via Imera, entrambi nel
territorio del VII Municipio, e via Ottoboni, al Tiburtino. Venticinque invece i cantieri che dovrebbero aprire e
che hanno già ricevuto i primi permessi ma da aprile dell'anno scorso attendono un via libera definitivo.
CANTIERI FERMI Qualche esempio? Il garage che dovrebbe nascere sul lungotevere Arnaldo da Brescia,
oppure a largo dei Fiorentini, a piazza Monteleone da Spoleto e all'incrocio tra via di Grottaferrata e viale
dell'Automobilismo. Ne rimangono poi altri 120 contenuti all'interno dell'ultima versione del Programma
Parcheggi. Progetti che però fino a oggi sono rimasti solo sulla carta perché non sono arrivate neanche le
autorizzazioni necessarie da parte del Comune. Di certo non ha contribuito ad accelerare i tempi il continuo
valzer di poltrone al timone dell' Ufficio Parcheggi, dove è stata sostituita una manager storica, Angela
Musumeci. Ad oggi quel posto è vacante dopo che si sono avvicendati per breve tempo due dirigenti.
Foto: Indagini archeologiche per la realizzazione di un parcheggio
08/02/2014 43Pag. Il Messaggero - Ed. nazionale(diffusione:210842, tiratura:295190)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 24
Il presidente dell'Ance: «Solidarietà a Enrico Zini» «Subito chiarezza per salvare il lavoro della Sincre» «LA PRESIDENZA di Ance Reggio Emilia, inoltre, nell'esprimere piena solidarietà al collega Enrico Zini,
auspica che al più presto vengano chiarite le situazioni che hanno originato il provvedimento e possano venir
ripristinate le condizioni affinché la Sincre Spa possa riprendere la propria operatività, garantendo in questo
modo il lavoro a decine di famiglie». Aldo Dall'Aglio, presidente provinciale dell'Ance, l'associazione dei
costruttori edili degli Industriali, interviene dopo l'interdittiva antimafia emessa dalla prefettura nei confronti
dell'azienda edile Sincre Spa. Il presidente della società, Enrico Zini, è anche vicepresidente del consiglio
direttivo dell'Ance. NELL'ESPRIMERE la propria solidarietà a Zini, Dall'Aglio sottolinea anche in una nota che
«Ance Reggio Emilia da sempre apprezza e riconosce l'importanza dell'attività prefettizia quale elemento di
garanzia per la promozione e la tutela della legalità ed esprime perciò piena fiducia nell'operato della
prefettura con riferimento al caso dell'impresa Sincre Spa. La stessa Ance - continua la nota - da tempo
sostiene e promuove l'applicazione degli strumenti che favoriscono il rispetto delle regole e loro piena
diffusione presso le aziende del comparto». IL PROVVEDIMENTO della prefettura, emesso sulla base dei
risultati emersi dagli accertamenti del tavolo interforze, conclude che sono «stati acquisiti oggettivi elementi
per ritenere comprovato il pericolo di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le le scelte e gli
indirizzi della Sincre Spa». Con queste motivazioni, la prefettura ha emesso l'interdittiva antimafia nei
confronti della Sincre Spa ed escluso l'azienda edile dalla white list per la ricostruzione del dopo terremoto in
Emilia. s.p.
08/02/2014 2Pag. QN - Il Resto del Carlino - Reggio emilia(diffusione:165207, tiratura:206221)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 25
CARPI Alloggi popolari, Benatti (FI) attacca: «Bando da rivedere» - CARPI - «IL BANDO è andato deserto, nonostante a ottobre fossero pervenute una quindicina di
manifestazioni di interesse. Questo vuol dire che il Comune non ha ascoltato le richieste di chi ha manifestato
interesse, e ha sbagliato completamente il bando». E' quanto afferma Roberto Benatti, esponente Fi e
candidato sindaco, sul bando flop per gli alloggi popolari, che ha visto solamente due offerte, come riportato
dal Carlino. E aggiunge: «Non è evidentemente possibile comprare 'blocchi' di edilizia residenziale per farla
diventare edilizia popolare, a prezzi di edilizia popolare, perché i costruttori, anche se in difficoltà, hanno
comunque dei vincoli di bilancio e non possono vendere sottocosto. Poi è difficile trovare palazzine
completamente libere, in quanto chi costruisce una palazzina lo fa avendo già venduto 'sulla carta' un certo
numero di appartamenti; altrimenti è impossibile trovare i finanziamenti. E c'è il problema che vendendo al
Comune 4 alloggi su 8 sottocosto, per esempio, poi gli altri si deprezzano a loro volta, quindi i costruttori sono
restii a farlo». Quindi incalza l'amministrazione e la invita a rivedere i requisiti del bando. «Non dobbiamo
commettere di nuovo - dice - l'errore che è stato fatto con l'acquisto dei 12 appartamenti di Unieco. Ora
l'amministrazione deve fare 'mea culpa' e rivedere completamente il bando. Come abbiamo suggerito in
occasione della discussione a ottobre, deve concentrarsi sul reperire 'singoli appartamenti', non 'palazzine': a
nostro avviso quelli sono ampiamente disponibili, a prezzi migliori, e facendo così si eviterebbe anche il
problema delle 'palazzine-ghetto'».
10/02/2014 4Pag. QN - Il Resto del Carlino - Modena(diffusione:165207, tiratura:206221)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 26
CARATE Cantiere delle case Aler ancora fermo M5S scrive al sindaco - CARATE - IL MOVIMENTO 5 Stelle di Carate scende in capo a difesa delle case Aler di via Kennedy. Da
mesi il cantiere che doveva sistemare gli alloggi è fermo e dopo queste settimane di piogge intense la
vivibilità dell'intero quartiere è fortemente messa a rischio da maxi pozzanghere. «Il cantiere è stato aperto
dal 2012 per il rifacimento del manto stradale e dopo un mese si è verificato il primo blocco dei lavori per i
lavori delle fognature. Il tutto ha portato a ben 5 mesi di fermo - ha ricordato Franco Amato nella lettera
inviata al sindaco -. I lavori sono ripresi il 14 marzo 2013 e sono stati sospesi il 16 ottobre, lasciando il
cantiere a metà. Chiediamo un rapido intervento per capire i motivi del fermo e garanzie sulla fine dei lavori».
08/02/2014 12Pag. QN - Il Giorno - Brianza(diffusione:69063, tiratura:107480)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 27
L'opera Expo L'allarme di Maroni «Teem senza fondi tra 2 giorni si chiude» Per finire l'opera mancano 70 milioni, ma il governo non paga L'Ad Maullu: «Continueremo comunque aversare gli stipendi» MARCO FERRARI Dopo la chiusura del piano finanziario da 2,2 miliardi di euro definita a fine dicembre, sembrava che per la
Tangenziale est esterna di Milano (Teem) il percorso per essere completata prima dell'appuntamento con
l'Expo sarebbe stato tutto in discesa. Invece, i lavori per il nuovo tracciato di 32 chilometri che collegherà
l'autostrada A4 alla A1 partendo da Agrate Brianza per arrivare a Melegnano, alleggerendo notevolmente il
traffico sulle tangenziali milanesi, rischiano di subire uno stop tanto inatteso quanto disastroso. Il pericolo
pare essere imminente. Tanto che il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, ha fatto scattare l'allarme
rosso. «Oggi ho chiamato il ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni, perché ancora stiamo aspettando
la firma del decreto che stanzia 70 milioni di euro per l'avanzamento dei lavori della Tangenziale est esterna
di Milano», ha spiegato ieri Maroni. «I soldi ci sono già, manca solo la firma del decreto. Il ministro ha risposto
che si sarebbe interessato», ha proseguito il governatore, sottolineando che «se non firma il decreto in un
paio di giorni, il rischio è che i cantieri chiudano». Un'eventualità che produrrebbe un danno enorme. E che,
oltre a lasciare senza lavoro una parte dei 1.600 addetti che quotidianamente sono impiegati nei cantieri della
Teem, metterebbe seriamente in pericolo la sua inaugurazione entro l'Expo. Il cronoprogramma per la
realizzazione della Tangenziale esterna prevede infatti la sua conclusione nella primavera del 2015, giusto in
tempo per l'apertura dell'Esposizione universale fissata per il Primo maggio del prossimo anno. Un ritardo
anche solo di poche settimane rischierebbe quindi di tradursi in un disastro. Non a caso, a puntare l'indi ce
contro la lentezza romana è anche Stefano Maullu, consigliere d'amministrazione di Tangenziale esterna spa
con delega alle relazioni istituzionali. Pur assicurando che «il cronoprogramma verrà rispettato» e che
«nessuno dei lavoratori rimarrà a casa», Maullu ha infatti attaccato «la burocrazia romana», che «non deve
stoppare quel volano di occupazione attivato dalla costruzione di Teem che la concessionaria, resa
finanziariamente più solida dall'acquisizione del controllo da parte del Gruppo Gavio, non ha alcuna
intenzione di rallentare». Eppure, il fatto che il decreto siglato quasi un mese fa «dal collega alle Infrastrutture
Maurizio Lupi, che sblocca l'eroga zione dei primi 70 milioni di contributo pubblico messi a disposizione dallo
Stato (su 330 milioni in totale) per la realizzazione dell'infrastruttura (2,2 miliardi l'investimento complessivo)»
non sia ancora stato controfirmato da Saccomanni non lascia certo tranquilli. Tanto più dopo il precedente
della Rho-Monza, il cui destino è ancora avvolto da un alone di incertezza a causa dei numerosi ostacoli
incontrati dal progetto per avere il via libera definitivo da Roma. Sia come sia, per avere un'idea più precisa di
ciò che accadrà con la A 58, questo il codice alfanumerico assegnato il mese scorso dal ministero delle
Infrastrutture e trasporti alla Teem, basterà aspettare i prossimi giorni. Stando ai tempi indicati da Maroni,
infatti, se lo sblocco delle risorse da parte del ministero dell'Economia non arriverà per inizio settimana i
problemi saranno parecchi. L'augurio è che, anche se sul filo di lana, alla fine la firma di Saccomanni arrivi in
tempo per salvaguardare la continuità degli interventi in corso. E con loro i 1.600 posti di lavoro nei cantieri e i
3.000 nell'indotto.
Foto: È stato Roberto Maroni a lanciare l'allarme [Fotogramma]
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 28
IL CASO L'IMPRENDITORE CHE PAGÒ I SUOI DIPENDENTI PERCHÉ SCIOPERASSERO TORNA ALLACARICA "Imprese che resistono" convoca gli Stati generali Martin: venerdì chi è stufo di crisi e tasse venga a "Santa" PARTECIPAZIONE Spediti oltre 250 inviti a realtàedili e imprese dell'intero comprensorio MESSAGGIO «Andare avanti così non è possibile: discuteremo delfuturo delle aziende, daremo un segnale» SILVIA PEDEMONTE SANTA MARGHERITA. Più di 250 inviti già spediti, alle realtà edili ed imprenditoriali del Tigullio. Per un una
riunione che vuole mettere al centro la crisi, sì. La rabbia di chi non ce la fa più. La voglia di risollevarsi. Si
chiama "Io voglio resistere alla crisi" ed è l'iniziativa organizzata, per il 14 febbraio, a Santa Margherita, da
Fabrizio Martin, imprenditore alla guida della Kris Costruzioni e persona di riferimento, nel Tigullio e in Liguria,
di Imprese che Resistono. Cos'è, Imprese che Resistono? E' una realtà apolitica, nata nel 2009, da un
gruppo di imprenditori piemontesi che si sono messi assieme per far sentire la propria voce contro la crisi,
contro la pressione fiscale, contro la burocrazia e contro una lista lunga così di cose che non vanno, in Italia.
Nei mesi scorsi, Martin aveva fatto scalpore - in Liguria, ma anche in tutta Italia - per aver pagato i suoi
dipendenti per scioperare, nella prima giornata nazionale della serrata nazionale per le piccole imprese, gli
artigiani, le partita Iva, i commercianti. Perché, aveva detto allora: «Il mio motto è che non c'è impresa senza
collaboratori e non ci sono collaboratori senza imprenditori - racconta - dobbiamo farci sentire, tutti. Tasse
troppo alte, burocrazia incredibile, un cuneo fiscale alle stelle: non si può andare avanti così. Perché lo Stato
non abbassa il costo del lavoro? Vorrei una legge che mi dicesse: assumi a un costo più basso e poi se io,
Stato, in cantiere trovo un lavoratore in nero tu chiudi. Oggi che succede, invece? Che chi vuole fare le cose
in regola non ce la fa. E prolifera il lavoro nero, tanto l'imprenditore al massimo prende 2 mila euro di multa e
finita lì». Ora, in attesa che dal governo giunga finalmente qualche segnale nella direzione invocata - è
proprio di questi giorni la notizia di un'iniziativa del presidente del Consiglio Enrico Letta per ridurre le tasse
sul lavoro - l'idea di riunire i tanti alle prese con la crisi in particolare nel settore edile. Per fare quadrato,
guardarsi in faccia, cercare di uscirne. L'appuntamento è per il 14 febbraio, alle 20.30, all'Auditorium delle
scuole medie Vittorio G.Rossi di Santa Margherita. Fra i presenti, ci saranno il sindaco di Santa Margherita
Roberto De Marchi; il segretario regionale Fillea Cgil e vicepresidente di Cassa Edile Silvano Chiantia; il
segretario provinciale Filca Cisl Paola Bavoso; Fabrizio Tassara, segretario regionale Feneal Uil; l'assessore
al Bilancio di "Santa" Giovanni Battista Raggi. «Discuteremo del futuro delle imprese edili nel Tigullio e nella
Liguria; del cuneo fiscale; del rapporto con la cassa edile genovese; della sicurezza nei cantieri - racconta
Martin - Dobbiamo dare un segnale forte che le imprese del Tigullio, e non solo, sono arrivate al limite della
sopravvivenza. Come piccole medie imprese chiediamo la possibilità di continuare a esistere e a
salvaguardare l'occupazione sul territorio nazionale: siamo 4 milioni di micro, piccole e medie imprese in
Italia, con tutti i dipendenti. Siamo la vera spina dorsale del Paese. Da gennaio facciamo parte di "Sì
Salviamo l'Italia", un gruppo di movimenti spontanei. Ho deciso di intraprendere questa iniziativa, chiamando
tutti alla riunione del 14 febbraio, coinvolgendo imprese e istituzioni per evidenziare che non è più possibile
far fronte a costi insostenibili, rispettare leggi assurde e continuare a preservare posti di lavoro nel Tigullio».
Un approccio battagliero per provare - tutti insieme - a porre il problema. E a cambiare le cose.
Foto: Fabrizio Martin (primo a sinistra) durante lo sciopero della sua impresa edile davanti a Santa Margherita
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 29
Sporca, a pezzi, insicura. Sembra Kabul Roma fa schifo Una capitale senza futuro Corriere della sera, martedì 21 gennaio Il crepitio delle fiamme che divorano rabbiose una Smart squarcia il
silenzio della notte. L'aria è irrespirabile, il calore tremendo. Il vetro blindato della posta che sta dirimpetto, sul
marciapiede, cede di schianto. Le finestre degli uffici del Senato, a venti passi di distanza. Siamo dietro
Palazzo Madama, nella zona più controllata della capitale d'Italia, con una garitta dei carabinieri ogni dieci
metri. In 2.767 anni di storia a Roma si è visto certamente di peggio. Soprattutto di notte. «Un incosciente sei,
uno che non considera l'imprevedibilità degli eventi se vai fuori a cena senza aver fatto testamento: in ogni
finestra aperta, dove di notte si spiano i tuoi passi, sta in agguato la morte», ammoniva nelle sue Satire
diciannove secoli orsono il poeta Giovenale. Anche a piazza dei Caprettari, il posto dove alle tre del mattino
di venerdì 17 gennaio i coatti hanno dato fuoco a quella Smart, sono accaduti fatti ben più gravi. E non serve
andare tanto indietro nel tempo. Basterebbe ricordare la rapina che nel febbraio 1975, in quello stesso ufficio
postale davanti al quale è bruciata la piccola utilitaria, si concluse con l'assassinio del poliziotto Giuseppe
Marchisella: prima tragica impresa romana del Clan dei marsigliesi, antesignani della Banda della Magliana.
Ma quel gesto sfrontato nel cuore del potere, in faccia a telecamere disseminate ovunque, dice tutto del
degrado anche sociale nel quale è ripiombata Roma. Specchio di un Paese mai come oggi identificabile con
quel lapidario aforisma regalatoci un secolo e mezzo fa da Mark Twain: «Così come noi americani non
abbiamo passato, l'Italia sembra non avere futuro». Tanto da far tornare alla mente l'equazione della prima
squassante inchiesta sulla speculazione edilizia e i rapporti fra affari e politica condotta dall'Espresso
cinquantotto anni fa: «Capitale corrotta = Nazione infetta». Nel 2008 il futuro sindaco Gianni Alemanno aveva
promesso in campagna elettorale tolleranza zero verso la criminalità, dopo l'omicidio a Tor di Quinto di una
signora, Giovanna Reggiani, per mano del rumeno Nicolae Mailat. Cinque anni e mezzo dopo il suo
successore Ignazio Marino si ritrova a guidare una città che la classifica della sicurezza stilata proprio
dall'università romana La Sapienza per ItaliaOggi Sette colloca al posto numero 101 sui 110 capoluoghi. Due
posizioni dietro Napoli, che occupa la casella 99. E non può consolare il fatto che Milano sia ritenuta ancora
meno sicura, la peggiore d'Italia. Perché la graduatoria della qualità complessiva della vita piazza il
capoluogo lombardo ben 27 posti sopra Roma, precipitata negli ultimi due anni dalla cinquantunesima alla
sessantaquattresima posizione. E gli incidenti? Anche attraversare la strada può essere statisticamente un
bel rischio. Nel 2012 sono stati travolti e uccisi dalle auto 56 pedoni, contro 24 a Milano, 9 a Napoli, 8 a
Torino, Firenze e Palermo. Perché mai proprio a Roma il 37,8 per cento dei 148 investimenti mortali registrati
in tutta Italia? Forse perché c'è l'abitudine di attraversare fuori dalle strisce o con il semaforo rosso. Ma pure
chi al Comune ha il compito di studiare come far passare i pedoni da un lato all'altro della strada deve avere
le sue responsabilità. Secondo i test degli attraversamenti pedonali realizzati dall'Epca, l'European pedestrian
crossing assessment, Roma è al trentesimo posto su 31 città europee esaminate. Poi c'è il traffico: un girone
dantesco. Se si eccettua Catania, nel Paese (l'Italia) che ha il record mondiale di veicoli a motore in rapporto
agli abitanti, Roma è la città in assoluto con più automobili: 67 ogni cento residenti. Contro 53 di Milano, 50 di
Madrid, 45 di Parigi, 43 di Bruxelles, 41 di Barcellona, 40 di Vienna, 32 di Londra e Berlino. Senza
considerare il numero enorme di moto, motorini, furgoni e pullman turistici che stringono il fragile centro
storico della capitale in una morsa d'acciaio. È stato calcolato che il 20% della superficie urbana della città sia
coperta da veicoli. Ogni cittadino romano trascorre mediamente in auto 227 ore l'anno. Conseguenza di uno
sviluppo urbano folle e insensato, con quartieri periferici cresciuti senza alcun criterio intorno a strade del
tutto insufficienti e un trasporto pubblico inesistente o allo sbando. Anche se i dipendenti dell'azienda di
trasporto comunale sono quasi 12 mila, uno ogni 229 abitanti. Il risultato di decenni di gestione sconsiderata
della città, in assenza di qualunque visione strategica, si può condensare nei 37 chilometri di linee
metropolitane di cui è dotato il Comune territorialmente più vasto d'Europa, con quasi tre milioni di residenti e
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 30
un'area urbana di cinque milioni: due chilometri in meno dei 39 della città spagnola di Bilbao, un sesto di
Parigi, meno di un decimo di Londra. Commenta la scrittrice Dacia Maraini, che vive nella capitale da
sessant'anni: «A Roma tutto ciò che appartiene alla mano pubblica è difficile, quasi nemico. Penso al sistema
viario. Al traffico privato infernale. Ai tram e agli autobus strapieni, alle file alle fermate...». Il tutto in un clima
di arbitrio assoluto, nel quale nessuno sente il dovere di far rispettare le più elementari regole di convivenza
civile. La prova è in piccoli episodi, come quello avvenuto in una sera di novembre davanti a una famosa
pasticceria in via Albalonga, nel quartiere Appio. Da mesi gli abitanti protestavano inutilmente per le auto in
sosta selvaggia in seconda e terza fila, con esposti al sindaco, ai vigili, al questore e al prefetto. Quella sera
c'erano tante macchine a ostruire il traffico che il bus 87 non riusciva a passare. È finita che anziché
rimuovere le auto hanno deviato il bus, dopo aver chiamato senza successo la polizia municipale. Tante
automobili, in una struttura urbana in larghissima misura inadatta al traffico veicolare, per di più nel caos
assoluto, significa tanti incidenti. Nel 2012, ben 43 al giorno per un totale di 15.782. E tanti morti. Secondo
l'Istat le vittime nella sola Roma sono state 154, contro 61 a Milano, 26 a Torino, 34 a Napoli e 932 nell'intero
Paese. Con meno del 5 per cento della popolazione, la capitale è responsabile del 16,5 per cento degli
incidenti mortali. La manutenzione delle strade è ai minimi termini. Al punto che una importante casa
motociclistica ha deciso di collaudare la resistenza delle carrozzerie dei suoi scooter facendogli percorrere
piazza Venezia. Negli ultimi due anni il numero delle voragini è quasi raddoppiato, da 44 nel 2011 a 84 nel
2013. Smottamenti del terreno, pessima qualità dei lavori stradali, scavi per condutture chiusi
maldestramente, perdite idriche: le cause sono tante. Può perfino succedere, com'è accaduto il 16 luglio
scorso, che un camion dei Vigili del fuoco, chiamato per l'apertura di una voragine sprofondi a sua volta in
un'altra voragine. Come può anche accadere che nel pieno centro della città, fra piazza Venezia e il
Pantheon, i telefoni restino isolati quattro giorni perché un cavo dell'alta tensione dell'Acea è andato a fuoco,
bruciando tutte le linee. O che, tre mesi più tardi, l'illuminazione pubblica intorno al Senato rimanga
misteriosamente spenta per giorni. Questo per dire come il livello dei servizi pubblici in una grande città sia
essenziale per determinare la qualità della vita. I rifiuti, per esempio. Roma da anni è pericolosamente
sull'orlo di una colossale emergenza ambientale, con la discarica più grande d'Europa che periodicamente
viene considerata esaurita per essere di nuovo prorogata. La produzione di spazzatura è mastodontica: 660
chili l'anno ad abitante. Per capirci, 113 chili più di Napoli, 127 più di Milano, 155 più di Messina, 200 più di
Trieste. Ufficialmente, la raccolta differenziata è al 25,1%, percentuale fra le grandi città superiore solo a Bari,
Napoli, (segue da pagina due) Catania e Palermo. Ufficialmente... Per quanto riguarda poi l'igiene urbana,
basta guardare in quali condizioni indecenti è tenuto uno dei monumenti più importanti dell'Italia intera: la
Breccia di Porta Pia, attraverso cui i bersaglieri guidati da Giacomo Pagliari entrarono nella Roma papalina il
20 settembre del 1870. Assediata dalla spazzatura, senza nemmeno un cartello che spieghi dove ci si trova:
le aiuole circostanti infestate dalle erbacce, sono un ricovero di senzatetto. A 300 metri da una sede dell'Ama,
l'azienda municipale ambiente che conta poco meno di 8 mila dipendenti. Compreso un discreto numero di
spalatori di foglie: 164 assunti in un colpo solo dalla giunta di Gianni Alemanno nel 2011. Eppure molte strade
alberate, da mesi, sono in condizioni pietose. Non sono cose di oggi, intendiamoci. Nel centro si incontrano
praticamente a ogni angolo le targhe di marmo che nel Settecento ammonivano gli abitanti a non gettare
l'immondizia per strada, al prezzo di severe pene corporali. Minacce che però non dovevano incutere tanto
timore, se all'inizio dell'Ottocento Stendhal raccontava: «Regna nelle strade di Roma un odore di cavoli
marci». Il problema è non avvertire che siano passati due secoli. L'incuria è totale, in linea con la reputazione
dei servizi pubblici. C'è un sito internet con centinaia di fotografie, scattate in ogni via e strada, dal centro alla
periferie, che testimoniano lo stato pietoso del capitolo rifiuti. Tra queste, lo scatto formidabile che ha
immortalato alcuni maiali grufolare tra i sacchetti di immondizia in via Boccea, appena dopo le feste natalizie.
Grazie a quella foto si è scoperto che a fine anno l'Ama aveva il personale a ranghi ridottissimi: erano tutti in
ferie. Per non parlare del campo profughi abusivo che da anni resiste indisturbato sul Colle Oppio, a due
passi dalla Domus Aurea neroniana, con inferriate del parco ridotte a stendini per la biancheria e i vestiti
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 31
lavati nelle fontane a cento metri dal Colosseo. L'indirizzo di quel sito è tutto un programma:
www.romafaschifo.com. In questo scenario non poteva mancare una piaga che sta affliggendo tante città,
soprattutto al Sud: il furto dei cavi di rame. Ma non solo. Nel Cimitero monumentale del Verano, progettato da
Giuseppe Valadier tra il 1807 e il 1812, continuano a sparire croci di bronzo e suppellettili delle tombe che
alimentano il traffico clandestino dei metalli, in mano a molte famiglie di nomadi. Intorno ai sepolcri, e in
alcune cappelle, la notte dormono disperati senza casa. Ha scritto un giorno al Corriere il lettore Gordon
Tanzarella: «Ho visto un cartello che diceva: "In questa tomba ci sono i nostri cari, vi preghiamo di averne
rispetto e di non usarla come dormitorio"». La conclusione non può che essere una. La città che è la più
grande azienda italiana per stipendi pagati, con un numero di dipendenti comunali pari a oltre il doppio degli
occupati negli stabilimenti italiani della Fiat, non è governata. Certo, governarla non è semplice. Pensando
soltanto al delirio delle 600 manifestazioni che l'attraversano ogni anno, con un impatto terrificante sui servizi.
E a chi, come il Financial Times gli ha messo il dito in un occhio, parlando di una città «depressa», Marino
replica serafico: «Roma non fu fatta in un giorno. Stiamo facendo progressi». Auguri. Dice lo storico Vittorio
Vidotto, autore del saggio Roma contemporanea : «Il problema principale di Roma è la sua incapacità di
diventare una moderna capitale. Non si è modellato lo sviluppo della città sulla base dei trasporti. L'antica
struttura radiale di Roma sarebbe potuta essere la base per linee logiche di espansione ma così non è stato.
Poi c'è la sua triplice identità: grande città storica, capitale della Repubblica e centro del cristianesimo. E
troppo spesso l'amministrazione comunale si è trovata in aperto conflitto col governo nazionale e con le altre
città italiane, assai poco disposte ad assicurare finanziamenti a Roma per la sua condizione di capitale. E poi
c'è la pochezza degli ultimi sindaci. Infine un male diffuso: l'assenza di qualsiasi cultura legata alle regole
condivise e rispettate da tutti». Colpa dei cittadini, dunque. Ma anche di una classe dirigente che ha
privilegiato gli interessi privati a quelli collettivi. (segue dall'inserto I) Non c'è altra capitale occidentale la cui
crescita urbana sia stata così disordinata e di scarsa qualità. Fra il 1951 e il 2013 i residenti nella città sono
aumentati da un milione 651 mila a 2 milioni 753 mila. Il consumo del suolo è risultato vertiginoso, con il 20
per cento del territorio ormai non più naturale. Frutto di una espansione assurda, che non si è mai arrestata,
anche dopo l'edificazione degli immensi quartieri dormitorio degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Ha
solo cambiato pelle. Fra il 1993 e il 2008 altri 4.800 ettari di terreno agricolo sono stati resi edificabili e coperti
di cemento ben oltre la domanda di case. Con il risultato che oggi abbiamo nel solo Comune di Roma 245
mila abitazioni vuote, spesso in zone senza servizi, prive di collegamenti e di strutture decenti. E se adesso
nella città dei 600 mila lavoratori edili degli anni d'oro le costruzioni incidono appena il 5,4 per cento sul valore
aggiunto totale, contro l'86,5 dei servizi, continuano a girare molti soldi. Il mattone ha lasciato segni
profondissimi nella geografia del potere. Non per nulla il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone controlla
un rilevante pacchetto azionario dell'Acea, la più grande municipalizzata italiana tuttora guidata da uomini a
lui non sgraditi, e possiede il Messaggero , maggiore quotidiano della capitale. Mentre il secondo giornale, il
Tempo , è nelle mani di un altro costruttore: Domenico Bonifaci, il quale tanti anni fa l'ha comprato dallo
stesso Caltagirone. E segni fisici profondissimi ha lasciato l'abusivismo edilizio, abbattutosi sulla città come
una piaga biblica. Lo dimostrano le 597.000 (cinquecentonovantasettemila) domande di condono presentate
dal 1985. Per dare un'idea del tasso di illegalità, è come se un cittadino su quattro o poco più avesse
commesso un abuso, senza considerare quanti non hanno compilato il modulo. La piaga ha attraversato tutte
le amministrazioni: emblematica la storia delle Terrazze del Presidente nella zona di Acilia, oltre 1.300
appartamenti sanati in un colpo solo durante la giunta di sinistra al termine di un'offensiva speculativa nata
vent'anni prima su terreni un tempo agricoli grazie a un accordo fra i costruttori Antonio Pulcini e Salvatore
Ligresti. Il bello è che di quelle domande di condono, con l'ultima sanatoria chiusa ormai dieci anni fa, ne
devono essere ancora esaminate almeno 150 mila. Non sarà perché, come dice Toni Servillo, alias Jep
Gambardella in quel meraviglioso e sconcertante affresco del potere che è La grande bellezza , «a Roma si
perde un sacco di tempo»? Paolo Conti, Sergio Rizzo «Non ti chiedo oro, o marmo. Solo un po' di catrame!»,
sbotta Carlo Verdone, imbufalito per lo stato pietoso in cui versa Roma, sua amatissima città, da quando ha
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 32
cominciato a piovere. Una cosa normale, d'inverno. Ma un evento catastrofico per la Capitale, da tempo
abbandonata a se stessa e ora in ginocchio. Via del Corso allagata, buche e voragini ovunque, acqua a
catinelle nei tunnel della metropolitana, gente impaurita e dispersa: un degrado impensabile per la Città
Eterna. Visto che è successo, per qualche giorno di pioggia? «È un vero disastro! Adesso, non ti chiedo il
marmo, o l'oro. Ma un po' di catrame sì. Almeno per salvare quello che resta. Amo profondamente questa
città magnifica. Che adesso, però, è zozza, trascurata, piena di buche. Dove si muore, o ci si fa molto male.
Io ne so qualcosa». Caduto nelle buche anche lei, come Fellini ai tempi? «Io sono finito dentro le buche due
volte. Con tutta la moto. Per fortuna i miei polsi, tenendo saldamente il manubrio, hanno impedito il peggio.
Più passa il tempo, più le voragini s'allargano. Qua pare Kabul... La prima volta, era il '95, mi sono rotto la
schiena. Dolori enormi, pensavo fosse l'ernia. E invece, era la frattura che si risaldava. Mi sono dovuto
operare. Un tipo, per passare con la sua Mercedes, aveva tolto le fiaccole che segnalavano il pericolo.
Sapevo dei lavori in corso: al mattino, (segue dall'inserto II) gli operai scavavano. Poi, rientro a notte fonda e
non c'è più segnalato nulla. Anvedi che bravi!, penso, hanno già finito il lavoro. E mi ritrovo dentro il fosso,
con la moto su di me e la colonna vertebrale fratturata ». Altro che Grande Bellezza... «La domenica mattina,
Roma è un cimitero di bottiglie e sporcizia. I giovani bevono e ne lasciano migliaia a terra. Se vai a Campo
de' Fiori, al Pantheon, o a Piazza Navona, non c'è un residente che non si lamenti del rumore, delle risse, del
caos. La gente scappa. E i turisti si adeguano: a Parigi, mai farebbero il bagno nelle fontane. A Roma, sì. E
poi, il Tevere sembra il Mekong. Di notte, le sue rive si riempiono di gente vociante. Se passi a Via del Corso,
pare la Praga del 1973: poco illuminata, serrande chiuse, luci basse». Possiamo parlare di neobarbarie? «Se
continua così, il problema non saranno più le buche, o le voragini gonfie d'acqua. Le consolari, per esempio,
sono un inferno. Di recente, ho ripensato alla prima scena di Roma , il film di Fellini: gigantesco ingorgo sul
Grande Raccordo Anulare, maxi-tamponamento e diluvio. Ho vissuto la stessa angoscia. Ma mentre la
grandezza di Fellini rendeva la romanità poetica e simpatica, qua di simpatico è rimasto poco. Ma porca
miseria! Con tutte le tasse che paghiamo, dove finiscono i soldi per la città? Ci sono troppi soldi buttati, o
regalati agli amici degli amici. Meno eventi frivoli e più servizi essenziali per i cittadini. Più attenzione alla loro
salute. Quando mio zio, negli Ottanta, fu ricoverato al San Giacomo, già c'era il piano dei motociclisti. L'80%
dei motociclisti romani è caduto nelle buche. Siamo allo sfascio». Uno sfascio anche culturale? «Certamente.
Ogni giorno, un cinema chiude. Abbiamo perso l'Etoile, il Corso, il Metropolitan, il Roma... Chiudono i teatri.
Chiudono i templi della cultura. Il grande Tombolini, l'unico che vende libri rari, è in difficoltà. Vedo negozi
rassegnati ai souvenirs, alle t-shirt, all'elmo dell'antico romano, alla maglietta di Totti». Che cosa farebbe per
risollevarne le sorti? «Bisogna riempire le buche. Ma non con materiale di risulta, bensì con del vero catrame.
Non oso pensare come stanno, adesso, le periferie. Ma certo, l'idea degli allagamenti a Via del Corso è
insostenibile. E poi, occorre un'illuminazione migliore. Le strade sono buie. Roma è una città buia. Penso a
Cesare Augusto, quando disse: "M'avete dato una città di pietre, io ve la restituisco in marmo". Io dico: da
teci una manciata di catrame. Il catrame ci salverà». Cinzia Romani
Il Messaggero, venerdì 7 febbraio Roma, ovvero le buche con la città intorno. È questo il degrado? Sì. Ed è
rappresentato questo degrado, nella sua fisica e metafisica, dai fossi, dalle voragini, dai pozzi marroni (per il
fango) o giallognoli (per le foglie imputridite che contengono) che in questi giorni di pioggia, ma anche prima,
hanno fatto dell'Urbe la città porosa per eccellenza. Guardi una buca, tanto ormai si vedono solo buche, e
non puoi che chiedere alla tua bella con cui giri in motorino: «Amo', 'ndo vuoi casca'?». Si può scegliere l'éra
geologica, tra quelle della Seconda Repubblica, della buca in cui finire. C'è quella appartenente al primo
mandato di Rutelli - la buca giubilea - o quella scavata dalle intemperie durante il bis di Francesco. E poi c'è
la buca Veltroni I e la buca Veltroni II, la buca della parentesi alemannea (la famosa buca Gianni) e
soprattutto quella, quelle, tante, targate Marino (ormai Sottomarino). Anzi, la buca marina. C'è anche questa.
È spuntata a via Canina, al Flaminio, sotto il palazzo del Tar. Ha la forma della Sardegna e vanta una
particolarità quasi assoluta: sembra contenere uno specchio di mare limpido e non il solito terriccio misto a
briciole di asfalto. È una buca cristallina (spunterà la barriera corallina al suo interno?) al contrario delle altre
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 33
che sono torbide e limacciose come il Tevere o come un caffè fatto male. Un passante lungo via Canina ha
fatto un gesto bellissimo, in mezzo al traffico impazzito per colpa (segue da pagina tre) della voragine
(transennata probabilmente per i prossimi due secoli e munita di un lampeggiante che non lampeggia). Il tizio
ha visto una cartaccia che galleggiava in questo specchio d'acqua pura, l'ha raccolta e buttata via.
Sacramentando contro chi maltratta la Grande Bellezza . A proposito del film di Paolo Sorrentino, ambientare
un trenino («I nostri trenini sono i più belli di Roma perchè non vanno da nessuna parte», dice Jep
Gambardella) dentro queste voragini («A far l'amore comincia tu?») e non più sulle terrazze intorno al
Colosseo sarebbe l'idea migliore, e senz'altro la più neorealistica, per un sequel di questo capolavoro da
Oscar. Così il mondo conoscerebbe l'Urbe com'è, anzi com'è diventata. Il simbolo del degrado può essere a
forma allungata: ovvero la buca magra e profonda e chi ne risale vivo può gridare ai quattro venti: «Ho visto
la luna nel pozzo!». O può essere largo, rappresentato cioè dalla buca grassa come la Luisona, quella pasta
gigante, orribile e invecchiata, di cui parla Stefano Benni in Bar sport . E non c'è strada ormai che non abbia
la sua Luisona inamovibile e perenne o la sua buca a trincea - siamo pur sempre nel centenario della prima
guerra mondiale - che è fatta così: stretta come un tunnel e dentro ci si può trovare di tutto, pezzi di
ammortizzatori e resti alimentari, cicche a mascelle, fiori appassiti (qui cadde la buonanima...) ed echi di
parolacce rivolte al Campidoglio. L'altra sera (prima che la riempissero, una volta su mille succede) la buca
che accoglie i visitatori fuori dal cinema Mignon, a via Viterbo, ha ospitato una signora quarantenne. Ahhhh,
si sente il suo grido e finisce in buca come una pallina da golf. Si sloga una gamba. Si avvicinano i
soccorritori e dicono: «Chiamiamo l'ambulanza, facciamo la foto alla buca e denunciamo il Comune». E qui
sembra di stare di nuovo nello show del comico Battista: «Se uno nun c'ha 'na buca, sai che fa? Chiama er
Comune: me fai 'na buca, ce l'hanno tutti!». Ma non sono tutte uguali le buche di Roma città porosa e
basterebbe poco per curare la sua pelle. La buca con rotaia, che accarezza i binari del tram, ha una sua
campionessa all'angolo tra via Rossini e via Mercadante. Non ci si può vantare di essere un vespista dei
Parioli o del Pinciano, se non si può raccontare in slang: «Io so' ito lungo lì dentro». La buca a oceano
indiano, immensa e solcata da onde che in certi casi sono cavalloni, è più tipica in periferia. La buca-tombino
è nterclassista ma in fondo è la meno rischiosa: sai dove comincia e sai dove finisce. Non sempre, però. La
buca coperta di foglie è la più insidiosa, è la buca ingannatrice: non la vedi, e sei già in fondo. Però, è
preferibile atterrare sulla fauna bagnata piuttosto che sulle pietre. Che possono essere di due tipi: pietre nere
d'asfalto sbriciolato (diventi a pois quando s'infilano sotto la pelle) o, più raramente, pietre bianche. Una buca
del secondo tipo - la buca Itaca o buca Zante, perchè somiglia a una candida e sassosa spiaggetta greca - è
spuntata a Piazzale Paolina Borghese, a due passi dalla Galleria nazionale d'arte moderna. Sta proprio di
fronte alla statua del poeta arabo Ahmed Shawky (1862-1932). Il quale guarda perplesso i capitomboli
sottostanti delle vecchiette a passeggio. Ci sono le buche ad acqua ferma e ad acqua bulicante, e
quest'ultime nascono dal doppio effetto dell'asfalto che si buca e che buca a sua volte i tubi che passano
sotto. Ed evviva le terme! Al Trieste-Salario, va molto la buca a culla: un dolce avvallamento in cui ci si può
accoccolare, tornando poppanti. La buca a grattugia - tante buchette minime uno dopo l'altra - predilige le
grandi vie di scorrimento: la Tiburtina è lo showroom di questa specificità che ai viandanti produce il delirium
tremens. Ma forse, tra tutte, la buca più gustosa e quella a ossobuco. Un esemplare è rintracciabile all'inizio
di via Crispi. Una larga cornice, vuota al centro, ma guarnita nel mezzo con un laghetto di prelibata fanghiglia
(chi ci è caduto dentro ha avuto modo di assaggiarla). Sembra l'ossobuco, con salsa, che si gusta per
esempio al ristorante El Matarel, specialista di questa pietanza. Ma lì stiamo a Milano. L'ossobuco di Roma è
indigeribile come l'immagine a cui questa città è stata ridotta. E non soltanto per colpa delle pioggia troppo
abbondante. Mario Ajello
10/02/2014 1Pag. Il Foglio(diffusione:25000)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 34
Montesilvano Tutti gli appartamenti sono occupati. Comune e Ater in emergenza Il sistema case popolari al collasso: 214 famiglie si contendono 12 alloggi Metà degli inquilini non paga l'affitto, impossibile la manutenzione Sonia Irimiea PESCARA L'emergenza abitativa a Montesilvano è contenuta nei numeri che fotografano l'ultimo anno:
cento famiglie sfrattate per morosità e altre dieci a un passo dalla strada. Le case popolari, 384 in tutto, sono
interamente occupate e metà degli inquilini non paga l'affitto da mesi. Impennata di richieste - più di cento -
anche per le «case parcheggio». Un'emergenza sociale sempre più pressante che si congiunge con la
criticità degli alloggi popolari. Con un'unica certezza: le case disponibili del Comune e dell'Ater non sono
sufficienti ad assorbire le richieste delle nuove famiglie, 214 finora, che si ritrovano senza un'abitazione. Tutti
restano in attesa di quei dodici alloggi che saranno disponibili, forse, all'inizio del 2015. Stessa storia per le
«case parcheggio», appartamenti di transito affidati, di norma, per un periodo di 18 mesi a disoccupati o
sfrattati. Affitti bassi e tempi abbastanza lunghi per il reinserimento nella collettività e nel mondo del lavoro,
ma la realtà non segue le previsioni su carta. Al momento metà di questi alloggi sono occupati abusivamente.
«Montesilvano è travolta da un'emergenza sempre più sentita che trova le sue radici in un ambiente sociale
ed economico particolare - spiega Mario Nino Fusco, assessore alle politiche sociali del Comune - . Una città
cosmopolita che fa i conti con la crescita demografica esponenziale avvenuta negli ultimi vent'anni dopo
l'impennata del settore edile». Mentre le richieste di aiuto sono raddoppiate rispetto al 2012, le case popolari
e i fondi per l'emergenza sono in diminuzione. Per ragioni di bilancio, 10 alloggi popolari sui 41 di proprietà
saranno alienati per reperire nuove risorse. Inoltre dal 2013 dalla Regione non arrivano più finanziamenti
previsti dalla Legge 431 del 1998 a supporto dei contratti di locazione nei comuni ad alta densità abitativa,
fondi che nel 2007, per esempio, erano 500mila euro. Il Comune deve fare anche i conti con il fenomeno
della morosità. «I canoni sono bassissimi, da un minimo di 14 euro fino a cento euro al mese - spiega Fusco -
eppure metà degli inquilini non paga l'affitto, alcuni addirittura da anni. Seppur minimi, questi introiti servano
per fare un minimo di manutenzione»". Affrontare l'emergenza sarà possibile con il social housing, un'edilizia
popolare con affitti e mutui calmierati per quella fascia che non riesce più a sostenere le spese della casa, ma
non ha i requisiti per un alloggio popolare. Il tutto senza correre il rischio dell'emarginazione. Un bando partirà
a breve e in base all'interesse collettivo il Comune individuerà delle aree per la costruzione di nuovi edifici
oppure degli immobili da ristrutturare. "Bisogna capire che uso si farà di questo strumento, però - avverte
l'assessore Fusco- non vogliamo rischiare una nuova ondata di cementificazione della città». L'augurio è di
creare invece «un impianto più sociale che edile, con i cittadini che si riuniscono in cooperative e fanno le
case invece di lasciare lo spazio ai soliti costruttori»".
12 gli alloggi disponibili dal 2015
2011100 le famiglie sfrattate nel 2013 per morosità l'anno in cui è stato realizzato l'ultimo bando per
l'assegnazione delle case popolari
Case popolari214 le richieste per le case popolari
50% delle persone nelle case popolari non paga l'affitto
41 le case popolari di proprietà del comune
10 verranno alienate per reperire fondi
10020 0le "case parcheggio" di cui metà occupate abusivamente le richieste per le "case parcheggio"
inanziamenti regionali per contratti di locazione nel 2013. Nel 2007 sono stati stanziati 500mila
10 le famiglie che rischiano lo sfratto dall'inizio dell'anno senzatetto che dallo scorso luglio condividono una
casa alloggio in corso Umberto
09/02/2014 5Pag. Il Tempo - Abruzzo(diffusione:50651, tiratura:76264)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 35
Foto: Assessore Mario Nino Fusco si occupa di politiche sociali
09/02/2014 5Pag. Il Tempo - Abruzzo(diffusione:50651, tiratura:76264)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 36
Fallita la «Baldassari» dopo il «no» delle banche Saltato il concordato. Un passivo di 36 milioni PAOLO PACINI di PAOLO PACINI NIENTE da fare. La «Baldassari Costruzioni Srl» è fallita. La parola fine alla vita del
colosso lucchese dell'edilizia, di Dante Baldassari, è stata messa due giorni fa dal tribunale di Lucca dopo la
presentazione dell'istanza di auto-fallimento. Il tribunale ha nominato curatore il ragionier Pier Luigi Landi di
Barga e fissato al 14 ottobre la verifica dello stato passivo. Il cospicuo patrimonio immobiliare della
«Baldassari» finirà dunque all'asta. Un esito scontato in seguito al recente naufragio dell'articolato piano
concordatario che aveva trovato l'opposizione di alcune banche e di creditori chirografari. A PESARE in
maniera significativa è stato il pesante passivo dell'azienda, intorno ai 36 milioni di euro, anche se la
«Baldassari» aveva cercato di controbilanciare con le stime del proprio compendio immobiliare: più di 34
milioni, ben 25,7 dei quali per la sola la Colonia Rosa Maltoni di Calambrone, il mega complesso di
appartamenti sul lungomare (ex colonia delle Ferrovie) la cui ristrutturazione è rimasta da anni a metà. LA
«BALDASSARI» era stata la prima azienda lucchese ad avvalersi oltre un anno fa della nuova legge che
consente di evitare il fallimento, dietro presentazione di una concreta ipotesi di concordato. Il nodo di tutta la
complessa operazione era l'arrivo di nuovi finanziamenti bancari per i cantieri di Lucca (il complesso i
Gelsomini a S. Vito, il complesso La Magnolia in via del Brennero, un appartamento in Fillungo, l'immobile Le
Fresie a San Donato) e soprattutto di Calambrone, in modo da completare qui il recupero della grande
Colonia Rosa Maltoni. Il piano prevedeva anche il pagamento dell'impresa appaltatrice con la permuta di
unità immobiliari in base allo stato di avanzamento dei lavori di ristrutturazione. Il tutto da distribuire in 3-5
anni, per pagare integralmente i creditori privilegiati e dare una percentuale attorno al 10% ai chirografari.
UNA PARTE di questo piano è andata avanti per alcuni mesi a partire dal marzo scorso, con la prosecuzione
dei lavori nei complessi immobiliari ancora in fase di realizzazione: la «Baldassari» aveva ottenuto in permuta
7 appartamenti del residence per un valore di 2 milioni di euro e 4 unità immobiliari in via Vecchia Pesciatina
per circa 800mila euro. Dante Baldassari ci credeva e ce l'ha messa tutta. Poi però il meccanismo si è
inceppato alla resa dei conti con le banche creditrici che dovevano concedere le restrizioni ipotecarie per la
cessione dei beni all'impresa appaltatrice che avrebbe dovuto eseguire le opere di completamento dei
cantieri. Immobili che andranno ora all'asta. Con ricavi aleatori e tempi che rischiano di essere biblici. Image:
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08/02/2014 10Pag. QN - La Nazione - Lucca(diffusione:136993, tiratura:176177)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 37
LARI I lavori vanno avanti da tanto tempo tra cantieri aperti e altri negati perché mancano le risorse Ilcontenzioso sull'ampliamento ancora resta appeso al collaudo Carlo Baroni Il cimitero di Lari è senza 'riposo' LARI I lavori vanno avanti da tanto tempo tra cantieri aperti e altri negati perché mancano le risorse Ilcontenzioso sull'ampliamento ancora resta appeso al collaudo Carlo Baroni ILAVORI vanno avanti da tempo. Troppo tempo. Il cimitero di Lari è come un cantiere incompiuto che non
trova pace. Così come di fatto non riescono a trovare pace i defunti del cimitero e neppure per i loro parenti
che, tra cantieri aperti ed altri negati per mancanza di risorse, negli ultimi anni si sono visti negare l'accesso
ad alcune parti di quello che detto come un tempo è il «campo santo» Ma vediamo un po' cosa succede e
cosa è successo nel tempo. All'inizio - precisamete due anni fa - a creare problemi era stato il cantiere aperto
per l'ampliamento del cimitero, ora invece altri problemi sono emersi anche in una parte più vecchia vecchia
della struttura cimiteriale che è stata addirittura dichiarata pericolante. Ma c'è di più e questo, di fatto, è anche
l'aspetto che apre inquitanti scenari sui tempi che la gente dovrà attendere per veder tornare la normalità:
non è ancora stato del tutto risolto il contenzioso sull'ampliamento. Ovvero: l'impresa a cui sono stati affidati i
lavori è stata cambiata ma ora manca il collaudo dell'edificio nuovo che non può esserci in quanto dovranno
essere realizzati ulteriori lavori che non erano stati previsti. Un'altra tegola, dunque, sulla già precaria
situazione del cimitero. UNASTORIA lunga. Già nel 2012 la ditta che aveva vinto l'appalto aveva chiuso il
cantiere perché il Comune non pagava. Fatto confermato allora dall'amministrazione che avvea due milioni di
euro di fatture da pagare e possibilità di manovra, alla luce del patto di stabilità, per soli 500mila euro. E' per
questo che nel 2012 non furono fatte opere importanti a Lari, se non manutenzioni d'urgenza. In questa rete
rimase intrappolato anche l'ampliamento del cimitero del capoluogo. Opera che a Lari sanno bene come sia
una questione che si trascina da molto tempo, addirittura da quindici anni. Così come sono noti i problemi
avuti da una specie di parcheggio sotto il cimitero oggi usato in modo assurdo come un magazzino: ci sono,
sotto il piano delle tombe, anche i carri di carnevale, materiale per l'edilizia, fino ad un vecchio frigo per gelati.
Il parcheggio, infatti, fu costruito e mai reso agibile a causa delle molteplici infiltrazioni d'acqua che si sono
verificate a lavori conclusi. Nel 1997 per i lavori del parcheggio e dell'ampliamento il Comune aveva messo a
bilancio 900 milioni delle vecchie lire. Il Comune, comunque si è adoperato per far ripartire i lavori che sono
arrivati a buon punto: ora c'èa cnhe il nuovo fabbricato che però non è definitivamente pronto: c'è tanto di
transenna che impedisce l'accesso. Ma gli occhi dellla gente di Lari sono tutti puntati anche sulla parte non
agibile del cimitero che riguarda circa 300 loculi. Nella sezione ora chiusa il Comune aveva intenzione di
spendere 590mila euro, progetto che fa parte del piano triennale delle opere pubbliche fermato dal patto di
stabilità. La gente però è stanca, le proteste di questi anni - perà, appunto, la vicenda è annosa - sembrano
non aver prodtoto neanche uno dei frutti sperati, le cose invece di cambiare sono peggiorate e ha iniziato a
segnalare disagi diventati non più accettabili.
Foto: MICHELACINI Ilcamposantononèunposto qualsiasi,anchequandosifanno ilavoribisognatenerlopresente:
quelloèunluogochedeve esserecuratoetenutobene nell'interesseditutti
Foto: NICOLAMARINARII Quantisoldibuttatialvento: sonostatespeseimportanti cifreepoidopoannieanni
siamoancorainqueste condizioni;iodico piùrispettoperilcimitero
Foto: L'OPERA L'impresa a cui sono stati affidati i lavori è stata cambiata ma ora manca il collaudo che non
può esserci perché dovranno essere realizzati altri interventi
Foto: PIERLUIGIPIZZINI Leloggesonomessemale, i loculichecisonodentro nonsonoaccessibili,
ciconoletransenne:siparla diinfiltrazioniepossibili cedimentidatroppotempo
Foto: MICHELE CINI Ci sono avvallamenti e crepature nel terreno, anche vicino ad alcune tombe, che
veramente fanno paura: speriamo che questa lunga storia arrivi alla fine GAETANO MAZZA La gente
ovviamente ha ragione, ci sono state troppe lungaggini in questa storia.... Cantiere che si sono fermati, altri
08/02/2014 8Pag. QN - La Nazione - Pisa(diffusione:136993, tiratura:176177)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 38
che non sono partiti e oggi ci troviamo con il cimitero pericolante MASSIMO NOVI A Lari non si è mia capito
bene che costruire in colline e costruire in pianura comporta scelte diverse: così oggi siamo in questa
situazione, con pericoli di smottamenti nel cimitero
08/02/2014 8Pag. QN - La Nazione - Pisa(diffusione:136993, tiratura:176177)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 39
EDILIZIA FINANZIATO IL COMPLESSO DI VIA BUGNETA Firmato il protocollo per i nuovi alloggi popolari CON LA FIRMA del protocollo d'intesa tra Erp, Regione e i comuni di Lucca, Pietrasanta e Castelnuovo
Garfagnana, avvenuta giovedì a Lucca, è stato concretizzato il percorso che porterà alla realizzazione di
dodici nuovi alloggi di edilizia popolare. Le case sorgeranno precisamente in via Bugneta, dando seguito al
primo programma d'attuazione approvato dall'amministrazione comunale nel 2010, coprendo un'area di
2.648,50 metri quadri. «Il protocollo - spiega l'assessore alla casa Pietro Lazzerini (nella foto) - prevede
complessivamente un finanziamento di 4 milioni di euro, di cui 1,5 milioni concessi per gli alloggi di
Pietrasanta. Lo considero un atto molto importante che evidenzia il lavoro svolto dagli assessorati alla casa e
all'edilizia e che darà risposte concrete alle richieste sempre più elevate di abitazione da parte dei nostri
concittadini. Oltre alla realizzazione di alloggi destinati all'edilizia convenzionata - conclude - il programma
d'attuazione contiene anche previsioni per l'edilizia sovvenzionata, da realizzare con le più moderne tecniche
di bio-edilizia». Image: 20140208/foto/3631.jpg
08/02/2014 14Pag. QN - La Nazione - Viareggio(diffusione:136993, tiratura:176177)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 40
IL GIALLO SUI CORSI DURO ATTACCO DEL PRESIDENTE DELLA CASSA EDILE DOPO L'INTERVISTAA REPORT. «TUTTO REGOLARE» «La rabbia di Fabozzi è per i mancati emolumenti» «TUTTE LE ATTIVITÀ si svolgono nel più assoluto rispetto dello statuto, delle norme vigenti, dei contratti
nazionali di lavoro sottoscritti dall'Ance e dai sindacati e dai relativi accordi intercorsi a livello della provincia di
Arezzo». Giovanni Bartolucci, presidente della Cassa Edile della Provincia risponde così alle accuse di
presunte irregolarità avanzate da Giuseppe Fabozzi in qualità di vicepresidente dell'Associazione Industriali.
«Aggiungo una necessaria ricostruzione storica - prosegue Bartolucci - estate del 2013, ore 17 di venerdì 5
luglio, nella la sede della Cassa Edile si riunì il Comitato di Gestione della Cassa medesima con la presenza
in quella circostanza di: Giovanni Bartolucci presidente, Giuseppe Fabozzi, Alessio Ferrabuoi, Giacomo Ferri,
Igor Michele Magini, Andrea Bertelli vicepresidente,Xhemalaj Hektor, Fabio Carruale, Antonio D'Angelo,
Giuseppe Siniscalchi. Svolgeva le mansioni di segretario il direttore della Cassa Edo Tanganelli. Nel corso
della riunione ad un certo punto intervenne l'ingegner Fabozzi sull'assenza di compensi alle cariche
associative in ambito Ance-Confindustria. Fabozzi fece però un'eccezione per il presidente della Cassa Edile,
solo in qualità anche di responsabile dello sportello unico previdenziale per il rilascio del Durc, ruolo
paragonabile a quello di un funzionario pubblico. Di fatto, Fabozzi sostenne nell'occasione che quest'ultima
particolare carica non doveva essere gratuita, ritenendo quindi che una giusta retribuzione poteva essere di
circa 4mila/ 5mila euro mensili e che doveva essere subito riconosciuta. Un ultimo aggiornamento - prosegue
il presidente provinciale della Cassa Edile - in data 8 gennaio 2014, Fabozzi ha scritto alla Cassa Edile della
Provincia di Arezzo, nella persona del suo legale rappresentante. Nel testo si legge, tra l'altro, "Ho svolto per
codesto spettabile ente la funzione di responsabile dello sportello unico previdenziale, nel periodo
intercorrente tra l'anno 2008 e l'anno 2013. Nella detta qualità, tra le altre funzioni tipiche inerenti la carica,
con cadenza pressoché giornaliera ho sottoscritto i documenti unici di regolarità contributiva (cd. Durc
richiesti dalle imprese iscritte). E ancora "Per lo svolgimento delle dette funzioni, non ho ancora percepito
alcuna retribuzione, talchè intendo richiedere quanto di mia spettanza". Giuseppe Fabozzi ha chiesto quindi,
pur sapendo che nell'intero sistema delle casse edili le cariche associative interne non hanno e non danno
diritto a compensi - conclude Bartolucci - una cifra che per gli anni da lui indicati oscillerebbe intorno a
300mila euro». Image: 20140209/foto/1712.jpg
09/02/2014 8Pag. QN - La Nazione - Arezzo(diffusione:136993, tiratura:176177)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 41
ALLARME CNA LE NUOVE NORME IMPONGONO UN APPOSITO FONDO La crisi entra nel condominio Ristrutturazioni a picco: colpa della recessione ma non solo - MASSA - LA GRAVISSIMA CRISI che attanaglia l'edilizia condiziona pesantemente anche il settore dei
lavori condominiali. I numeri parlano da soli: nel 2013 si è registrato un crollo pari al 90%. «Le ristrutturazioni
degli edifici - spiega Enrico Mallegni, vice presidente provincinale Cna Costruzioni - sono il futuro dell'edilizia
ma la norma vigente sta tagliando le gambe al settore. Si è rivelata un boomerang per le imprese edili e per
gli stessi condomini timorosi di affrontare una spesa tutto e subito». Non solo la crisi economica ha generato
la brusca frenata delle opere di mantenimento e ristrutturazione commissionate dai condomini, ma anche la
norma contenuta nella "riforma". Norma che prevede infatti la costituzione di un fondo speciale per le opere
straordinarie di pari entità al valore dei lavori da eseguire. Detta in poche parole, si chiede ai condomini di
"accantonare" un fondo per pagare, nel rispetto dello stato di avanzamento dei lavori, la ditta incaricata.
Quindi sborsare soldi prima che i lavori abbiano inizio. In mancanza del fondo previsto dalla norma, i lavori
non possono iniziare a meno che non intervenga un istituto di credito a finanziare l'importo. Il risultato, ormai
scontato e sotto gli occhi di tutti,, sono facciate ed edifici brutti, a volte anche pericolosi, che contribuiscono
"involontariamente" al degrado urbano estetico, e spesso in zone ad alta intensità turistica. Ci siamo attivati in
questi mesi - ricorda il vice presidente Mallegni - per rispondere alle richieste delle imprese che lamentavano
l'impossibilità e la difficoltà di lavorare con partner affidabili». Dunque, una problematica seria, quella del
crollo delle ristrutturazioni, che Cna ha messo al centro di un incontro aperto a tutti gli imprenditori e agli
amministratori dei condomini in programma per domani alle 17,30 presso la sede provinciale in viale G.
Galilei, 1/A, ad Avenza-Carrara, nel corso del quale sarà presentato un dedicato strumento finanziario per
riaccendere il settore delle ristrutturazioni nei condomini. «L'incontro - anticipa Mallegni - sarà l'occasione per
presentare uno di questi strumenti che imprese ed amministratori di condomini possono utilizzare per
eseguire i lavori di ristrutturazione senza infrangere la normativa". L'incontro è gratuito e la partecipazione è
libera. Angela Maria Fruzzetti
09/02/2014 9Pag. QN - La Nazione - Massa carrara(diffusione:136993, tiratura:176177)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 42
Il presidente dell'Associazione costruttori, Buzzetti, indica come rilanciare il programma Ance: il Pis va ridimensionato Sono l'eccessivo divario fra risorse necessarie e disponibilità fi nanziarie effettive e la difficoltà nella gestione
del consenso a livello territoriale le principali criticità che, secondo Paolo Buzzetti, presidente
dell'Associazione dei costruttori, hanno caratterizzato il destino, non proprio felice, del Programma delle
infrastrutture strategiche lanciato nel 2002. Il presidente dell'Ance suggerisce però anche alcuni correttivi:
ridimensionare il programma con poche e prioritarie opere, applicare l'istituto del «débat public» francese
come strumento di gestione del consenso territoriale, riportare nella competenza esclusiva dello stato la
materia delle infrastrutture e delimitare l'applicazione dell'affi damento a contraente generale a opere molto
complesse. Domanda. I risultati che emergono dal rapporto del servizio studi della Camera evidenziano
ancora un volume insufficiente di opere realizzate (il 13% in valore). Quali sono le principali cause di questa
estrema lentezza realizzativa di opere che sono state programmate nel 2001? Risposta. Il destino del
Programma delle opere strategiche era scritto chiaramente nella distanza tra le risorse necessarie per un
numero così grande di interventi e le disponibilità effettive. Questa sproporzione tra opere annunciate e
risorse necessarie è emersa chiaramente in tutte le analisi sull'attuazione fi nanziaria e procedurale della
Legge Obiettivo. Qualche risultato si è potuto ottenere con l'individuazione di una short list di opere realmente
prioritarie sulle quali far con uire le (insuffi cienti) risorse pubbliche realmente disponibili, una soluzione,
questa, più volte invocata dall'Ance. C'è stata, poi, la questione del contrasto dei territori alla realizzazione
delle grandi opere.A fronte del consenso di quasi il 90% della popolazione italiana sulla loro realizzazione,
come elemento fondamentale per lo sviluppo del paese non siamo andel paese, non siamo ancora riusciti a
individuare un meccanismo in grado di raccogliere l'adesione dei territori coinvolti, tale da minimizzare il
rischio di paralisi del procedimento. Su questo punto, proponiamo l'introduzione di una procedura di «dibattito
pubblico», sul modello francese, gestito da un soggetto autorevole e terzo, che garantisca imparzialità,
autonomia di giudizio e tempi certi per la realizzazione delle opere. D. Anche il ministro Maurizio Lupi,
nell'allegato infrastrutture, ha richiamato l'esigenza di una riforma delle norme sulle grandi infrastrutture. A
suo avviso su quali linee dovrebbe muoversi questa revisione? R. In primo luogo è necessario ridimensionare
il programma della Legge obiettivo, ritornando alla impostazione originaria, che avrebbe dovuto prevedere
poche opere di natura veramente strategica per lo sviluppo del paese, concentrando su queste le risorse
disponibili. Occorre perciò evitare ciò che si è verificato in passato e cioè un eccessivo ampliamento del
numero degli interventi su richiesta delle regioni nell'ambito delle intese di programma. Proprio per evitare il
fenomeno sopra descritto e il lungo iter burocratico dovuto alla fordimensionare il programma mazione delle
intese ritengo mazione delle intese, ritengo importante riportare alla competenza esclusiva dello stato la
realizzazione delle grandi infrastrutture ora rientranti nelle materie di legislazione concorrente tra stato e
regioni. Concordo perciò con quella linea di pensiero che intende riformare il titoloV della Costituzione e in
particolare l'art.117 sulle competenze legislative. Infi ne, per quel che riguarda le modalità di esecuzione delle
grandi infrastrutture, credo che l'affidamento al general contractor vada circoscritto alle opere di particolare
complessità tecnico realizzativa, per le quali sia necessario affi dare a un'unica unità organizzativa, dotata di
competenze multidisciplinari, progettuali ed esecutive il coordinamento e la gestione dei rapporti e delle
competenze tecniche necessarie alla realizzazione dell'opera fi nale. In altri termini, il contraente generale
dovrebbe essere, un organizzatore di tutte le attività inerenti la progettazione e la realizzazione di una grande
e complessa opera infrastrutturale.
Foto: Paolo Buzzetti
10/02/2014 7Pag. ItaliaOggi Sette - N.34 - 10 febbraio 2014(diffusione:91794, tiratura:136577)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 43
BONATTI Destinazione Kazakhstan Stefano Catellani Lungo la via Emilia molte imprese di costruzioni, anche storiche e blasonate, sono sull'orlo del fallimento e
vivono una lunga crisi che sembra senza fine ma la parmigiana Bonatti continua a crescere e grazie a un
super cantiere appena aperto in Kazakhstan per costruire da zero nelle steppe a ridosso del Mar Caspio una
«città del petrolio» ha aperto la strada per un ulteriore sviluppo anche nei prossimi anni. Merito delle intuizioni
del presidente Paolo Ghirelli che sull'internazionalizzazione ha giocato le sue sfide più rilevanti. E ha vinto.
Anche quando iniziò a investire in Kazakhstan sembrava una scommessa azzardata, ma la nuova mega
commessa che si inserisce nei piani di sviluppo del giacimento di Tengiz, forse il più profondo al mondo con
riserve stimate tra i 6 e i 9 miliardi di barili di greggio (nel solo 2013 l'estrazione ha raggiunto quota 150
milioni), è la conferma che aveva visto giusto. È un contratto del valore complessivo di 500 milioni di dollari,
che vedrà Bonatti impegnata insieme al partner kazako «Isker Group» nella costruzione di un nuovo campo
residenziale per conto del Consorzio TCO (Tengiz ChevrOil), operativo sul giacimento di Tengiz, il sesto al
mondo per potenzialità di estrazione, dal 1993 e guidato da Chevron al 50%. Gli altri soci sono ExxonMobil al
25%, la locale KazMunayGas al 20% e LukArco, controllata della russa Lukoil, al 5%. Sarà una vera cittadella
del petrolio, quella che verrà consegnata «chiavi in mano» fra 34 mesi. La prova della capacità operativa
della Bonatti che è riconosciuto nel mondo come un general contractor Internazionale in grado di fornire
servizi di ingegneria, costruzione, procurement e operation & maintenance all'Industria dell'oil & gas and
power. Bonatti attualmente è presente in 15 Paesi e il suo fatturato si è attesta a circa 600 milioni di euro. Ma
quel che conta per Ghirelli è il portafoglio lavori che a fine novembre 2013 era attestato a 1,8 miliardi di euro.
Quella che la Bonatti deve realizzare sarà una città di 150 mila metri quadri con tutto quello che serve per la
vita quotidiana di settemila abitanti che arriveranno da mezzo mondo per lavorare nel polo petrolifero kazako
attorno al quale c'è un deserto di sterpaglia senza fine e il mar Caspio fuori dall'orizzonte. Per la Bonatti è la
commessa più grande e importante mai ricevuta, un record storico. Paolo Ghirelli, presidente e
amministratore delegato della Bonatti è anche presidente della Camera di Commercio Italo - Kazaka, vede
premiata la presenza pluriennale nelle aree di sviluppo come la capitale Astana. L'azienda parmigiana fornirà
la città chiavi in mano e con la garanzia di vivibilità in un clima che passa da meno 40 gradi in inverno a più
40 in estate su una superficie complessiva di 150 mila metri quadrati. Una delle peculiarità del progetto è il
carattere permanente delle nuove costruzioni. Per l'imprenditoria italiane nel settore delle costruzioni è un
successo rilevante. Se da un lato Chevron si è avvalsa della consulenza progettuale di importanti società di
ingegneria americane come Fluor e Worley Parsons, dall'altro Bonatti con la Isker hanno dovuto battere la
concorrenza di colossi come Bechtel, uno dei primi general contractor al mondo, e di agguerrite società
kazake. A rendere vincente l'offerta di Ghirelli ha contribuito certamente l'aspetto occupazionale: solo il 10%
del personale impiegato (come avviene sempre nei cantieri Bonatti) non sarà locale. Una scelta di campo che
finora si è sempre rivelata vincente. (riproduzione riservata)
Foto: Paolo Ghirelli
08/02/2014 53Pag. Milano Finanza - N.28 - 8 febbraio 2014(diffusione:100933, tiratura:169909)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 44
INCONTRO AL COLLEGIO SANTONOCETO DI ACIREALE Il riuso nell'edilizia vale più di 115 miliardi Carlo Lo Re Riuso del territorio, a cominciare dai centri storici e dai molti contesti sottoutilizzati in Sicilia, e ristrutturazione
come parole chiave per uscire dalla crisi dell'edilizia, rilanciando il ruolo di architetti e ingegneri civili. È questo
il messaggio emerso ad Acireale durante la conferenza ospitata al Santonoceto, uno dei grandi collegi della
città, di proprietà dell'Ipab (Istituzione pubblica di assistenza e beneficenza), un tempo fulcro della comunità
acese, successivamente simbolo palese di declino e oggi recuperato con il progetto Acirewrite del Gruppo
Rinnovaci. L'incontro, organizzato in collaborazione con la Fondazione dell'Ordine degli architetti di Catania,
presieduta da Paola Pennisi, ha chiamato a raccolta i principali interlocutori ed esperti del comparto. «Il riuso
non è un problema solo degli architetti, ma di tutti coloro che con lavoro e impegno appartengono alla filiera,
nonché dei politici che dovrebbero programmare e gestire il governo del territorio», ha sottolineato la Pennisi,
«secondo i professionisti, infatti, le fette di mercato su cui è necessario puntare sono quelle del risparmio
energetico e della riqualificazione urbana e residenziale, lasciando in fondo alla lista le nuove costruzioni».
Insomma, «non serve consumare altro territorio o emanare nuove regole», ha specificato il presidente
dell'Ordine degli architetti etneo, Giuseppe Scannella, «ma una visione olistica, che consenta una
compenetrazione delle destinazioni, ovvero responsabilità, cultura e sostenibilità economica insieme,
nell'ottica di una rivalutazione globale. Abbinando il recupero dei centri storici e dei contesti sottoutilizzati, a
una "lettura" degli edifici, per comprenderne le finalità e non snaturarli». In Italia nel 2013 hanno chiuso ben
13 mila imprese costruttrici, con le concessioni edilizie che hanno registrato un -37%. Dati che, sommati a
quelli sempre negativi dell'anno precedente, vanno a dipingere il quadro fosco di una crisi che per il settore
sembra davvero inarrestabile. Anche a Catania, dove la filiera è bloccata da tempo, le opere cantierabili, ad
esempio, sono ferme, gli appalti sono pendenti e le professionalità di maestranze e professionisti vari spesso
si disperdono, per un calo totale del 60% in soli quattro anni. Dal canto suo, il presidente degli Ingegneri
etnei, Santi Maria Cascone, si è soffermato sull'importanza della messa in sicurezza sismica e la
riqualificazione energetica dell'esistente per la quale «la competenza degli ingegneri è fondamentale per
avviare i cambiamenti necessari», mentre il presidente dell'Ance di Catania, Nicola Colombrita, ha sollevato
la questione della burocrazia e «del sistema di regole che spesso ostacolano i costruttori e rallentano l'intero
ciclo di produzione e sviluppo. Norme chiare, semplificate e rispettate porterebbero nella direzione del
superamento della crisi». Le categorie professionali e gli enti del comparto si chiedono quindi quale possa
mai essere il fattore di cambiamento in grado di definire gli scenari futuri. La risposta sembra unanime:
l'opportunità del riuso, ossia la riqualificazione del patrimonio abitativo esistente, senza cedere alla tentazione
di nuove costruzioni, dispendiose e inutili viste le correnti condizioni finanziarie di gran parte dei siciliani. Un
mercato, quello del riuso, che, a detta del Cresme (Centro ricerche economiche sociali di mercato per
l'edilizia e il territorio), vale oggi più di 115 miliardi di euro, rappresentando il possibile principale driver del
nuovo ciclo di ripresa, sia economica che sociale. (riproduzione riservata)
08/02/2014 2Pag. Milano Finanza - N.28 - 8 febbraio 2014(diffusione:100933, tiratura:169909)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 45
Tecnologia&politica: una collina di soldi di Ferruccio Sansa e Carlo Tecce É vero che il parere per gli Erzelli l'ho firmato io, però il Consiglio era d'accordo all'unanimità. Il nostro atto
non è vincolante, l'Università di Genova può decidere in autonomia se quel bene merita un acquisto urgente.
É vero anche che la presidenza della Repubblica si è interessata, ma non ho ricevuto pressioni. Ho avuto
solo, molto indirettamente, contatti con il Quirinale: mi sembra normale, li abbiamo di frequente", racconta il
presidente dell'Autorità per gli Appalti pubblici, Sergio Santoro. Negli uffici di via di Ripetta c'è chi, parlando
off the records, è meno diplomatico. Del resto agli addetti ai lavori non era sfuggito quel "dettaglio": il parere
che di fatto rimette in discussione il grande progetto genovese degli Erzelli era stato firmato anche dal
presidente dell'Autorità. Quasi a rafforzare la decisione su un'opera che ha molti santi in paradiso: parliamo
della cittadella tecnologica. Operazione privata da oltre mezzo miliardo, su cui stanno arrivando, però, molti
soldi pubblici. Come quelli dell'Università, che doveva partecipare al progetto realizzato senza gara europea.
Di qui lo stop dell'Autorità. AMICIZIA DI VECCHIA DATA La spiegazione di Santoro colpisce: il Presidente
della Repubblica si interessa a un progetto privato portato avanti da un amico di vecchia data. Niente di
illecito. E nemmeno una sorpresa: il sostegno di Giorgio Napolitano agli Erzelli è noto da tempo. Addirittura è
stato riportato - in tono entusiastico - sui giornali genovesi di poche settimane fa: "Sarebbe stato Napolitano a
confidare al presidente della Regione, Claudio Burlando, che per l'insediamento della facoltà di Ingegneria ad
Erzelli, si aspetta che intorno alla metà di gennaio arrivino notizie positive", scriveva l'edizione genovese di
Repubblica. Nessuno si è chiesto come e perché il Quirinale si aspettasse novità (e positive). E se si riferisse
al parere dell'Autorità che doveva ancora arrivare. "Napolitano ed Erzelli? Non è una novità", scrive ancora
Repubblica, "Napolitano si è sempre interessato alle vicende di Genova e a quella di Erzelli in particolare,
probabilmente anche perché la sua naturale curiosità è stata solleticata da personaggi come lo stesso
Burlando e come Carlo Castellano, il presidente di Genova High Tech", la società privata che ha in mano il
progetto. E ancora: "Castellano e Napolitano si sono sentiti anche nei giorni immediatamente precedenti le
festività natalizie. Dunque, se il Presidente si è sbilanciato su una nota positiva, c'è da immaginare che abbia
avuto notizie tali da far pensare che la querelle dell'Università possa essere sbloccata". Sembra che sia tutto
normale. Come già in occasione di un'altra visita di Napolitano a Genova: il Presidente e Castellano si
incontrarono. E, riferirono le cronache, "i due, amici di vecchia data, uniti da sintonia politica fin dai tempi del
Partito Comunista, si salutano con affetto, ma è stato il Capo dello Stato a entrare per primo in argomento (il
progetto Erzelli, ndr): "Carlo, come va lassù?". Nessuno che a Genova abbia sollevato domande sulla natura
dell'interessamento del Presidente. Forse perché a Genova gli Erzelli sono tabù: s'hanno da fare. Punto. IL
SOGNO TARGATO PD Tutti d'accordo. A cominciare dal centrosinistra. Il Governatore Burlando è in pole
position, è proprio il caso di dirlo, visto che durante un sopralluogo agli Erzelli incappò nell'inglorioso
contromano con successiva esibizione della tessera parlamentare - scaduta - agli increduli agenti della
Stradale. E poi il sindaco Marco Doria, non si sa se convinto o meno, visto che il suo schieramento gli mette
la pistola alla tempia. Ma non mancano banche, cooperative, costruttori, organi di informazione. Tra i pochi
che hanno espresso perplessità ci sono i 5 Stelle e il consigliere comunale Enrico Musso (indipendente). In
passato c'erano stati l'ex sindaco Marta Vincenzi e l'architetto senatore a vita Renzo Piano. Che aveva
firmato il progetto e poi ha sbattuto la porta: doveva essere una cittadella della tecnologia, rischia di diventare
una mega operazione immobiliare, è il dubbio di Piano. Altri critici si spingono oltre: un progetto
mastodontico, gestito da privati, ma tenuto in piedi con soldi pubblici. Centinaia di milioni. Vero? Erzelli nasce
per un'idea dell'intraprendente Castellano (il Fatto lo ha interpellato chiedendogli se volesse fornire una sua
versione): Genova città in crisi, senza industrie, senza più una vocazione, voleva puntare sull'innovazione.
Costruendo un polo tecnologico sulle alture della città. Strada facendo, però, alle luci si sono aggiunte
sempre più ombre. Cui nessuno ha mai dato risposte. L'unica cosa sicura è che Erzelli è voluto
10/02/2014 8Pag. Il Fatto Quotidiano(tiratura:100000)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 46
fortissimamente dalla politica - segnatamente dal Pd - e dalla finanza. Oltre che dal padre dell'iniziativa: Carlo
Castellano, un manager risoluto, ruvido, passato dalle partecipazioni statali al privato dove ha creato una
società di successo, l'Esaote biomedica. Un manager "rosso" che ha pagato questa sua atipicità quando fu
gambizzato dalle Br. Castellano alterna il suo impegno nell'industria con la passione politica nel Pci e poi via
via fino al Pd (partito finanziato dalla società Erzelli) di cui è stato membro del direttivo. LA PLUSVALENZA
DEL 900% Ma partiamo dall'inizio. Per la realizzazione degli Erzelli viene individuata intorno al 2000 un'area
alle spalle di Genova, una delle poche alture non cementificate. Peccato che due anni prima l'imprenditore
Aldo Spinelli - terminalista portuale con amici a sinistra e a destra - abbia ottenuto le aree per depositarci i
suoi container, pagandole un tozzo di pane, dalla società pubblica che le gestiva: 8 miliardi di lire. Ed ecco
che nel 2006 Spinelli rivende le aree alla Genova High Tech per la bellezza di 35 milioni di euro. Una
plusvalenza del 900% in otto anni. Spinelli trasloca in porto, ottiene altre aree a prezzi sempre vantaggiosi.
Un'operazione su cui nessuna autorità cittadina ha mai offerto chiarimenti. É solo l'inizio: Erzelli è
un'operazione da 400mila metri quadrati. Ma la parola magica "tecnologia" spalanca le porte. E poi c'è una
promessa: il 70% delle costruzioni andrà al settore produttivo, 15% sarà parco verde. Le residenze non
supereranno il 5%. PIANO SE NE VA E L'EX SINDACO RACCONTA Soprattutto pesa la firma di Renzo
Piano sul progetto. L'architetto genovese disegna cinque torri, la più alta raggiunge i 165 metri, per
concentrare le costruzioni e realizzare un parco che digrada verso la città. Ma passano gli anni e le superfici
destinate alle case crescono (25%). C'è odore di operazione immobiliare: arriveranno 1.500 appartamenti per
3.600-4.500 persone. Così Piano si ritira dall'operazione. Ma i retroscena più succosi li racconta Marta
Vincenzi, allora sindaco di Genova: "Se parte del mio partito mi ha voltato le spalle e non sono stata
ricandidata dipende anche dalle modifiche che chiesi per il progetto Erzelli", esordisce Vincenzi. E rincara la
dose: "Fu la goccia che fece traboccare il vaso e portò alla rottura dei miei rapporti con la Regione, Burlando,
e i poteri forti della città". Ricevette pressioni? "Uno dei responsabili dell'operazione mi disse chiaramente di
non mettermi di mezzo. Disse che lo avrebbero spiegato anche a Piano". Ci fu un interessamento di
Napolitano? "Non mi risulta. Ricordo che Romano Prodi appoggiò calorosamente l'opera... del resto tra i soci
c'è un suo grande sostenitore, Rasero. Ma chissà come gliel'avevano presentata a Prodi...". E lei, Vincenzi,
che dubbi aveva? "Non mi piaceva che si costruisse ancora sulle colline di Genova. Le abbiamo già
cementificate e con effetti devastanti. E poi, strada facendo, ho visto aumentare i casermoni e diminuire il
verde. Per non dire dell'aspetto finanziario, che secondo me era fragile". Alla fine le eleganti torri di Piano
restano sulla carta. Il nuovo progetto prevede una quindicina di palazzi squadrati in stile un po' sovietico. LE
MANI DELLE BANCHE Ma chi sta dietro all'operazione Erzelli? Tutti. Dalle onnipresenti cooperative alle
banche. Ecco Intesa, Unipol assicurazioni, ma soprattutto Carige, l'istituto genovese con tanti agganci nel
mondo politico. Quella stessa banca che è stata rivoltata come un calzino dagli ispettori di Bankitalia. Che
hanno puntato il dito anche su questa operazione: Carige - socia di Erzelli - interviene con finanziamenti
enormi (circa 240 milioni). Tra i soci, si diceva, anche Giuseppe Rasero, poco noto al grande pubblico, ma
non agli ambienti della politica che conoscono i suoi rapporti di amicizia con Prodi che lui chiama
familiarmente "Romano". Erzelli doveva essere il paradiso hi-tech del Nord-Ovest. Qui dovevano installarsi
decine di imprese. Almeno sulla carta. PIOVONO SOLDI PUBBLICI Ma le imprese che si trasferiscono agli
Erzelli si contano sulle dita di una mano. Spiega Enrico Musso: "Ovunque nel mondo, da Sophia Antipolis a
Taiwan, i parchi scientifici-tecnologici sono un motore d'innovazione e crescita anche indotta. Bene quindi il
progetto. Ma il suo sviluppo lascia perplessi: tre aziende ottengono forti contributi per un trasloco da Genova
a Genova che non crea lavoro. Lo riduce. Ed Esaote ha ottenuto di convertire lo spazio che libera nella
vecchia sede per l'ennesimo centro commerciale". Già, Siemens ed Ericsson avevano già sede a Genova, si
tratta di un semplice trasferimento. Non solo: per il trasloco agli Erzelli (che costa 73 milioni), la sola Ericsson
si è vista garantire 11 milioni dalla Regione Liguria, 24 dal Miur e 6,9 dal ministero dello Sviluppo Economico.
Totale 42 milioni pubblici (quasi il 60%). Con beffa finale: lo spostamento doveva garantire l'occupazione (in
Liguria il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 30%). Ma, appena trasferita, l'impresa ha annunciato una
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 47
riduzione del personale. IL JOLLY DELL'UNIVERSITÀ Il grande sogno arranca. E così si cala il jolly: agli
Erzelli andrà la facoltà di Ingegneria. Operazione da 152 milioni. Pubblici, ovviamente: almeno 110 milioni
arriveranno dallo Stato e dalla Regione. Poi finanziamenti da Carige, socia dell'operazione. Ed ecco l'ultima
pagina: la bocciatura dell'Autorità. Ma il piano B è già pronto: l'Università comprerà le aree dalla società
privata e farà costruire con una gara europea. Stefano Camisasso (M5S), una delle poche voci critiche,
spalanca gli occhi: "L'Ateneo dovrebbe sborsare circa 30 milioni solo per comprare i 59mila metri quadrati
dell'area. Quando, pochi anni fa, l'intera zona è stata pagata dai privati 35 milioni. A ogni passaggio di
proprietà l'area aumenta valore esponenzialmente. E alla fine a pagare è il pubblico". Aggiunge Camisasso:
"Pensate se l'Università di Genova investisse quei 152 milioni per la ricerca ... sarebbe un'occasione
irripetibile. E poi in città esistono strutture pubbliche che potrebbero accogliere Ingegneria. A un costo
decisamente inferiore". Difficile dire poi che cosa ne sarà delle tante promesse snocciolate in questi anni:
come la vasca per le simulazioni di Ingegneria navale, fiore all'occhiello dell'ateneo. C'è chi avanza dubbi: la
vasca si farà, ma più piccola. Anzi, forse non si farà proprio. Addirittura qualcuno ipotizza che Ingegneria
navale traslochi a La Spezia. Allora, è possibile sapere che cosa andrà agli Erzelli? "Potremmo costruirci un
nuovo ospedale", buttano lì in Regione. Ancora soldi pubblici. E cosa dire della promessa di pochi giorni fa?
Una stazione ferroviaria firmata dall'archistar Santiago Calatrava. Altri soldi pubblici. L'AFFARE DEGLI
IMMOBILI DISMESSI Comunque vada, l'operazione Erzelli sarà molto vantaggiosa per qualcuno: il business
potrebbe essere quello delle aree dismesse. Ingegneria libererebbe edifici di pregio nel quartiere più pregiato
di Genova. Chi li comprerà e a quanto? Non solo: il Comune ha cambiato la destinazione d'uso dei palazzi
dove sorgeva l'Esaote. Addio uffici, arrivano i centri commerciali: grazie a un accordo Esaote-Cooperative ne
nascerà uno da 2.500 metri quadrati. Speculazione? A chiederlo a Castellano, incappi nelle sue ire. Come è
accaduto in diretta tv: "Erzelli è un grande progetto. Basta con questa idea della speculazione. Scherziamo?".
Stop. Ma di questi dubbi nessuno parla. Grandi giornali mandano a Genova famosi inviati - gli stessi che
scrivono libri a quattro mani con Giorgio Napolitano - per inchieste dai toni trionfalistici sul progetto.
D'accordo, l'idea poteva essere buona. Ci sono ancora delle luci. Ma le ombre? Vietato parlarne. DOVEVA
ESSERE CENTRO HI-TECH PER RILANCIARE GENOVA. MA LE IMPRESE NON CI VANNO E PIOVONO
FINANZIAMENTI. L'ACCUSA: "OPERAZIONE IMMOBILIARE CON SOLDI PUBBLICI?". STORIA DI UN
PROGETTO DA 500 MILIONI CHE PIACE AI PARTITI LE TORRI Accanto, le prime torri già ultimate. Finora
le imprese che hanno deciso di trasferirsi agli Erzelli sono soltanto Ericsson (che ha tagliato il personale),
Siemens ed Esaote.
10/02/2014 8Pag. Il Fatto Quotidiano(tiratura:100000)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 48
Le opportunità nel costruire sostenibile Con i progetti spazio al green L'edilizia del futuro sarà sempre più legata alla manutenzione, demolizione e ricostruzione in chiave
sostenibile. E le figure professionali altamente qualificate saranno sempre più coinvolte non solo nella
progettazione "green", ma in una vera e propria filiera del costruire sostenibile». Ermete Realacci,
responsabile green economy, non ha dubbi sulle grandi opportunità che il mercato dell'edilizia e
dell'architettura "verde" offre ai progettisti: una vera e propria leva contro la crisi che certo non si limita alle
attività di certificazione energetica, ma che coinvolge tutto il sistema delle costruzioni. «La progettazione in
chiave sostenibile significa non solo risparmio energetico ma anche messa in sicurezza antisismica,
domotica, installazione di impianti per fonti rinnovabili, caldaie, serramenti, fino ai materiali più innovativi»
dice Realacci, spiegando, dati alla mano, che «secondo il rapporto 2013 GreenItaly elaborato da
Unioncamere e Symbola il 22% delle imprese che dall'inizio della crisi hanno investito sulla sostenibilità e sul
risparmio energetico si sono rivelate le più forti sul fronte dell'export e dell'innovazione, creando quasi il 38%
dei nuovi posti di lavoro che si sono concretizzati nel 2013». E si si guarda alle posizioni nel settore della
ricerca e del'innovazione «la percentuale di nuove assunzioni - aggiunge Realacci - sfiora il 61 per cento». E
un concreto impulso alle attività legate al "green" è arrivato anche dall'ecobonus fiscale del 65% previsto dal
Governo per gli interventi finalizzati al risparmio energetico che, ricorda il parlamentare democratico «ha
prodotto nel 2013 oltre 280mila posti di lavoro calcolando anche l'indotto e quasi 19 miliardi di euro di
investimenti». Il fatto che la riqualificazione energetica del patrimonio rappresenti un importante volano per
affrontare la recessione, stanare (o creare ex novo) opportunità di mercato e aprire spazi concreti per nuove
figure professionali ad alto tasso di innovazione è confermato anche dal più recente rapporto sull'efficienza
energetica pubblicato la scorsa settimana dall'Enea, secondo il quale oltre il 65% degli investimenti messi in
campo grazie alle detrazioni fiscali «verdi» sono serviti a finanziare proprio interventi di recupero e
manutenzione in chiave sostenibile degli edifici. Un trend che, secondo l'Enea, sta generando una «radicale
trasformazione del settore dell'edilizia» grazie anche ai nuovi materiali ad alte prestazioni, come quelli per
l'involucro edilizio e il retrofitting. E sul fronte delle competenze? Il sistema universitario è in grado di
preparare i progettisti ad affrontare le nuove sfide del mercato? «Sarebbe auspicabile una programmazione
più seria dei percorsi formativi - dice Realacci - ma ho molta fiducia nel darwinismo, nella capacità di
adattamento, visto che abbiamo fatto grandi passi avanti senza leggi. D'altronde - conclude - la più
importante fonte di energia rinnovabile è l'intelligenza umana». di Alessia Tripodi
08/02/2014 11Pag. Edilizia e Territorio - Progetti e concorsi(tiratura:25000)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 49
Ancora nulla di fatto sulla «sagoma libera» introdotta dal Dl 69 Incertezze e freni sulla demolizione e ricostruzione Dal Piemonte al Veneto, dalla Toscana al Lazio: le sovrapposizioni con le leggi regionali, le prudenze deiComuni e la crisi hanno finora bloccato la riforma Il Comune di Torino attende un parere del Ministero prima di consentire gli interventi di demolizione e
ricostruzione senza rispetto della sagoma preesistente, la novità più importante introdotta dal Dl 69/2013 per
sbloccare l'edilizia privata. A Milano il nuovo regolamento resta fermo alla legislazione precedente, e anche
qui è tutto bloccato, fra le proteste di Ance e professionisti. La Regione Toscana ha presentato una proposta
di legge per vanificare del tutto la novità. Ma più in generale, in Veneto, in Emilia Romagna, in Piemonte, a
Roma, il sovrapporsi di normative statali, regionali e comunali in materia di edilizia privata e la solita prudenza
da parte delle burocrazie comunali hanno finora fatto prevalere l'incertezza, e la novità del decreto Fare è
rimasta del tutto inattuata, come emerge dalla nostra inchiesta, nei servizi a pagina 4. Ancora una volta
dunque, non ha funzionato, dopo i casi del silenzio-assenso sui permessi di costruire e del super sportello
unico, la "stanza dei bottoni" nazionale in materia di edilizia privata. Le novità legislative, salutate a caldo
come importanti e capaci di sbloccare o semplificare l'edilizia, restano cioè sulla carta e non si trasformano in
cantieri o comportamenti effettivi sul territorio o negli uffici dei Comuni. Questa volta la vittima della
maledizione del Testo unico edilizia è appunto la "sagoma libera", introdotta dal decreto Fare dell'estate
scorsa (Dl 69/2013, entrato in vigore in via definitiva l'8 agosto): la possibilità cioè di realizzare interventi di
demolizione e ricostruzione (D&R) di edifici rispettando solo il volume preesistente, e non la sagoma (i
contorni dell'edificio), e rientrando lo stesso nella categoria della "ristrutturazione edilizia" (articolo 3 Dpr
380/2001, si vedano i servizi di Francesco Basile e Massimo Ghiloni sul Dossier on line «Bonus Fiscali»). La
novità era stata presentata dal Governo e salutata da Ance e professionisti come uno dei "pezzi forti" del
decreto Fare per rilanciare l'edilizia. Da subito si sottolineò che classificando la D&R senza rispetto di sagoma
non più come nuova costruzione bensì come ristrutturazione, gli interventi si possono realizzare con Scia
anziché con permesso di costruire (salvo sugli immobili vincolati e sulle parti dei centri storici, Zone A, che i
Comuni decideranno di risottoporre a permesso, entro il 30 giugno prossimo). Ma gli effetti vanno in realtà
molto oltre. Gli interventi di D&R con rispetto del volume, in quanto modifica dell'esistente, non sono tenuti in
base alla giurisprudenza ad attenersi ai limiti posti da un Prg "sopravvenuto", ad esempio in materia di
altezze, distanze, superficie coperta, destinazione, purché si mantengano i parametri dell'edificio demolito. E
c'è infine una terza novità, del tutto sottovalutata nel dibattito a luglio sul Dl Fare: le D&R senza rispetto di
sagoma, visto che rientrano nella ristrutturazione e non più nel "nuovo", possono beneficiare degli sgravi
fiscali al recupero, prorogati dalla legge di Stabilità al livello massimo del 50% per tutto il 2014. Le detrazioni
possono essere utilizzate dal singolo proprietario, ad esempio sulla villetta ereditata da ricostruire; oppure
anche per operazioni effettuate dalle imprese, ad esempio il rifacimento di una palazzina fatiscente acquisita
ad hoc, e in questo caso lo sconto si applica sui singoli appartamenti venduti, sui quali l'acquirente può
detrarre il 50% calcolato sul 25% del prezzo di acquisto. Insomma, una batteria di novità non da poco, che
per ora tuttavia sono rimaste sulla carta. A pesare è ancora una volta il famigerato Titolo V della Costituzione,
che crea sovrapposizioni e incertezze tra il testo unico edilizia nazionale e le leggi regionali, lasciando
sempre aperta la possibilità di interpretazioni divergenti o ostruzionismi applicativi. Come sempre, poi, le
norme che ampliano il raggio dell'edilizia autocertificata (Dia-Scia) trovano resistenze negli uffici dei Comuni,
che preferiscono sempre suggerire la richiesta del permesso di costruire o almeno la verifica preventiva della
Scia. E gli stessi professionisti, che devono asseverare l'intervento, sono assai prudenti in questo quadro di
incertezze normative e freni della burocrazia locale. C'è poi, nello specifico delle novità del decreto Fare, il
nodo dei prospetti. Il Parlamento, infatti, ha lasciato l'obbligo di rispettare i prospetti dell'edificio preesistente
(le facciate) per rientrare nella ristrutturazione edilizia "leggera", soggetta a sola Scia. Secondo alcuni giuristi
un vero blocco, e da qui parte il quesito di Torino, perché non serve a nulla poter modificare la sagoma se
08/02/2014 2Pag. Edilizia e Territorio - Edilizia e territorio(tiratura:25000)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 50
devo poi rispettare i prospetti. Secondo la maggior parte dei giuristi, però, tra cui i nostri commentatori nel
Dossier, l'eliminazione del vincolo di sagoma assorbe anche quello dei prospetti, perché non avrebbe senso
poter modificare la sagoma senza poter modificare i prospetti. Fatto sta che questo dubbio non aiuta
l'applicazione della norma. © RIPRODUZIONE RISERVATA servizi a cura di Alessandro Arona
08/02/2014 2Pag. Edilizia e Territorio - Edilizia e territorio(tiratura:25000)
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SCENARIO EDILIZIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 51
SCENARIO ECONOMIA
51 articoli
Berlino si rimette alla Ue. Btp ai minimi dal 2006 La Corte tedesca e lo scudo Bce «Decidano i giudici europei» Basso, de Feo, Lepri La Corte costituzionale tedesca decide di non decidere. Sulla legittimità dello «scudo Bce» voluto da Draghi,
ovvero l'acquisto dei titoli di Stato dei Paesi indebitati in cambio di riforme e interventi per risanare i bilanci, ha
stabilito di cedere la parola alla Corte di giustizia europea. Pur avendo molti dubbi non si è però spinta a
bloccare il «piano Draghi». ALLE PAGINE 5 E 6
A PAGINA 50 il commento di Riccardo Puglisi
Nessuno può negare che il destino dell'eurozona sia fortemente influenzato da quel che succede in
Germania, ma talora capita che la Germania lasci decidere l'Unione Europea. Più precisamente, nella
giornata di ieri la Corte costituzionale federale tedesca ha deciso di rimettere alla Corte europea di giustizia il
giudizio sull'operato della Banca centrale europea (Bce) e in particolare sulla legittimità del programma di
acquisti illimitati di titoli di Stato da parte di essa - noti come Omt (Outright Monetary Transactions, ossia
«transazioni monetarie dirette»)- che è stato introdotto nel settembre 2012. Tale programma molto
probabilmente ha rappresentato il punto di svolta positivo nella crisi dei debiti sovrani all'interno dell'eurozona
stessa.
Dal punto di vista giuridico, la questione sollevata davanti alla Corte costituzionale tedesca è che la Banca
centrale europea avrebbe agito oltre i poteri a essa assegnati dai trattati fondativi dell'Unione Europea (Ue):
essi infatti proibiscono che la Banca centrale «monetizzi il debito», cioè finanzi gli Stati membri dell'Unione
anche in maniera indiretta. D'altro canto - sempre secondo i trattati- la Bce non può perseguire di sua
spontanea iniziativa una politica economica indipendente, ma soltanto supportare l'indirizzo generale delle
scelte europee una volta che abbia ottenuto il suo scopo principale, cioè la stabilità dei prezzi.
Vi sono punti controversi e nel contempo interessanti nella decisione presa dalla Corte tedesca: il tema
principale sottolineato dalla maggior parte degli osservatori è la scelta stessa di rimettere la decisione alla
Corte europea di giustizia. Un esito vagamente attendista, ma nel contempo aperto all'idea che la decisione
sulla costituzionalità di queste armi di politica monetaria debba essere presa a livello federale europeo e non
all'interno del singolo Stato.
Nel contempo la Corte tedesca, nel momento in cui rimette la decisione alla Corte europea, comunque «dice
la sua» sulla questione specifica, lamentandosi del fatto che il programma Omt debba essere giudicato come
un'infrazione dei trattati, a meno di un'interpretazione restrittiva dello stesso.
Un terzo punto degno di nota è che la decisione non è stata unanime, in quanto due giudici su otto (Lübbe-
Wolff e Gerhardt) hanno sposato una tesi ancor più «federale», nel senso europeo del termine, ritenendo che
la Corte tedesca non avrebbe neppure dovuto pronunciarsi sul tema.
La risposta da parte della Bce alla decisione della Corte tedesca non si è fatta attendere, nella forma di un
breve comunicato in cui essa «ripete che il programma Omt sta dentro i limiti del suo mandato». L'idea
sottostante al programma è che la Banca centrale europea deve fare in modo che il meccanismo di
trasmissione delle sue decisioni di politica monetaria «funzioni bene».
L'Omt di acquisti di titoli di Stato va in questa direzione, in quanto si prefigge di gestire in maniera decisa i
casi in cui lo spread sui titoli di un dato Paese sale a motivo del timore stesso che questo esca dall'euro. La
speculazione che scommette su questo esito distruttivo si troverebbe ad affrontare una Bce che agisce «in
direzione ostinata e contraria».
Un altro aspetto importante e tranquillizzante è che l'acquisto dei titoli è condizionale, cioè può essere attivato
soltanto se il Paese in questione attua un programma di riforme concordato con le istituzioni europee. Infine il
programma Omt è stato efficace nello stabilizzare i mercati dei titoli di Stato semplicemente attraverso la
minaccia di acquisti illimitati, senza che la Bce abbia dovuto di fatto intervenire.
08/02/2014 1Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 53
Per concludere, ben venga questa decisione di lasciar decidere la Corte europea. Dal punto di vista
sostanziale, non è mai elegante suggerire di «non disturbare il manovratore», ma in questo caso sarebbe
davvero buona cosa «non disturbare il governatore centrale» che riesce a pacificare l'eurozona non
manovrando, ma semplicemente minacciando di manovrare. Le autorità fiscali dell'eurozona, cioè i governi
dei singoli Stati, avrebbero anzi di che imparare dal modo in cui la Bce agisce ed è decisiva.
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08/02/2014 1Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 54
L'effetto della sentenza La fiducia dei mercati, tassi sui Btp ai minimi dal 2006 Marika de Feo FRANCOFORTE - Mercati borsistici in rialzo, in rafforzamento anche l'euro (a 1,3612 dollari), mentre lo
spread (il differenziale di rendimento tra i titoli italiani e quelli tedeschi) fra i Btp e il Bund è calato a quota 204
punti, con il rendimento dei titoli decennali italiani in forte diminuzione, a quota 3,70% dal 3,76% di giovedì.
Un valore ai minimi degli ultimi otto anni. Vale a dire, da prima che iniziasse la crisi finanziaria. Si tratta di un
altro segnale guardato con soddisfazione dalla Banca centrale europea, che raccoglie i frutti di tutti i
provvedimenti lanciati in questi ultimi anni per salvare la moneta unica dalla tempesta finanziaria. E per di più
la tregua dei mercati si è manifestata proprio il giorno in cui la Corte costituzionale tedesca ha deciso di
sospendere il procedimento legato all'Omt, alla compatibilità del piano di acquisto di titoli di Stato, lanciato nel
settembre 2012, con la Costituzione tedesca, demandandolo alla Corte di giustizia europea. La sentenza -
anche una attenuata a un «sì, ma» - era temuta, come erano temute le reazioni dei mercati.
E quindi ieri la Banca centrale europea, poco dopo aver laconicamente «preso atto» del comunicato della
Corte costituzionale europea, ha ribadito che «il programma Omt (Outright monetary transactions, ndr )
rientra nell'ambito del suo mandato» regolato dal trattato di Maastricht. E come unica voce si è levata quella
del lussemburghese Yves Mersch, membro del board in Bce responsabile per le questioni legali. Il quale da
Dublino si è detto «molto fiducioso» sulla legalità del piano, aggiungendo che «spetta alla Corte europea di
giustizia decidere» in merito, e che comunque la credibilità della Bce non sarà intaccata.
Un duello a distanza fra Francoforte e Karlsruhe, la sede dei massimi custodi della Costituzione. D'altra parte,
fra i banchieri centrali e a Bruxelles, c'è certezza sul futuro sostegno alla Bce da parte della Corte europea. E
forse anche per questo la Corte costituzionale tedesca ha gettato un ponte ai «colleghi» europei. Sottolineato
che in realtà la maggioranza dei giudici ritiene che il piano Omt «possa rimanere nell'ambito del mandato
della Bce se applicato in modo restrittivo». Il programma Omt prevede che la Bce possa acquistare titoli (della
durata al massimo di tre anni) dei Paesi in difficoltà, a condizione che questi ultimi si impegnino ad avviare un
programma di aiuto finanziario con la Ue.
Finora lo strumento - lanciato nel luglio 2012, quando il presidente della Bce Mario Draghi, aveva promesso
che avrebbe fatto «tutto il possibile» per salvare l'euro, nell'ambito del suo mandato - non è stato mai attivato.
Ma il solo effetto dell'annuncio era bastato a placare il panico nei mercati.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 55
Conti pubblici Non ci sarà più la soppressione automatica dei provvedimenti Salta lo stop alle cartelle Equitalia Ora spunta la «compensazione» La Ragioneria: ma l'operazione non dovrà causare squilibri Passaggi obbligati Per fare scattare davvero lanuova norma servirà un decreto attuativo del ministero dell'Economia Burocrazia I tempi di pagamentorestano molto lunghi anche per i nuovi contratti, nonostante il limite di 30 giorni Lorenzo Salvia ROMA - Non è proprio una marcia indietro ma qualche somiglianza c'è. La Camera riscrive la norma che
prevedeva lo stop alle cartelle di Equitalia per le aziende che hanno crediti nei confronti della pubblica
amministrazione. Lo stop alle sanzioni fiscali era passato con un emendamento del Movimento 5 Stelle,
approvato mercoledì scorso nelle commissioni Finanze e Attività produttive, durante i lavori sul decreto legge
Destinazione Italia. Ma quel testo non ha retto al passaggio in Aula. Prima i rilievi della Ragioneria generale
dello Stato, che vigila sulla spesa pubblica. Poi i paletti della commissione Bilancio, chiamata a valutare tutte
le modifiche prima del voto dell'Aula. Alla fine, dopo un lungo tira e molla e sospensioni a raffica,
quell'emendamento è stato riscritto con una nuova formulazione e sarà votato in Aula lunedì.
Per chi aspetta di essere pagato dalla pubblica amministrazione le cartelle di Equitalia non saranno più
«soppresse» come diceva l'emendamento del Movimento 5 Stelle. Ma «compensate» con il credito verso lo
Stato. Tradotto: se un'azienda deve avere dallo Stato 100 e deve pagare al fisco 80, avrà (quando l'avrà)
dallo Stato direttamente 20 e chiuderà i giochi. La differenza non è da poco. E soprattutto l'operazione non è
automatica. Per farla scattare davvero servirà un decreto attuativo del ministero dell'Economia, da firmare
entro 90 giorni. Ma con un arretrato di 850 norme applicative che il governo deve ancora varare sarà difficile
rispettare i tempi. Non solo. Si potrà procedere alla compensazione solo a patto di garantire «gli equilibri di
finanza pubblica», clausola generale che il ministero dell'Economia può sempre impugnare in caso di
difficoltà. Ma perché la soppressione non va bene e la compensazione sì? In realtà il nuovo testo potrebbe
aiutare il governo in quella difficile operazione che va sotto il nome di pagamento dei debiti arretrati della
pubblica amministrazione. Anche se nel bilancio generale non cambierebbe nulla perché pur sempre di
somma algebrica si tratta, la compensazione farebbe migliorare le tabelle aggiornate periodicamente dal
ministero dell'Economia. Per un carico di arretrati che si aggira sui 100 miliardi di euro, il piano di smaltimento
ne ha stanziati finora 27, mentre quelli effettivamente pagati sono 22. Non solo. Perché un'altra montagna si
sta alzando davanti a noi, visto che i tempi di pagamento continuano ad essere biblici anche per i nuovi
contratti, nonostante il nuovo limite di 30 giorni, e l'Unione Europea ci ha appena regalato l'ennesima
procedura d'infrazione.
C'è poi un altro nodo da sciogliere sul decreto Destinazione Italia. Sempre le commissioni Finanze e Attività
produttive avevano bloccato l'ennesimo aumento delle accise a carico della birra, previsto per il primo marzo.
Ma anche su questo punto la commissione Bilancio ha chiesto una modifica, visto che ci sarebbero meno
entrate. Non è ancora chiaro come la questione sarà risolta. Già votato in Aula, invece, un altro correttivo
chiesto sempre dalla commissione Bilancio: è stata cancellata la norma che prevedeva l'iscrizione alla
gestione Inps artigiani dei soci delle cooperative artigiane, perché ci sarebbero minori entrate contributive.
Passata anche la correzione sul buono sconto per i libri che, come annuncia il Pd Marco Causi, «sarà
deducibile dai pagamenti fiscali e contributivi delle librerie».
L'esame dell'Aula riprenderà lunedì, il voto finale è fissato per martedì per poi andare al Senato. Sempre se
non ci saranno altri ritardi visto l'andamento lento della seduta di ieri. Il decreto Destinazione Italia era nato
come il primo pezzo delle misure studiate dal governo per attirare gli investimenti stranieri. Poi si è arricchito
di materie che con gli investimenti stranieri non c'entrano molto. Compreso l'articolo sull'assicurazione Rc
auto, poi stralciato e trasformato in un disegno di legge che ha pochissime possibilità di tagliare il traguardo.
«La maggioranza - dice il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta - manda a picco i
provvedimenti del governo. Il presidente Enrico Letta non ha nulla da dire?».
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 56
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Le novità La nuova norma
È saltato l'emendamento presentato da M5S che prevedeva la possibilità di bloccare le cartelle di Equitalia da
parte di chi vanta crediti nei confronti della pubblica amministrazione. La norma è stata riscritta e al posto
dello stop è stata prevista una compensazione tra debiti tributari e crediti della pa.
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Arretrati per 100 miliardi
I crediti arretrati della pubblica amministrazione ammontano a circa 100 miliardi di euro. Il piano di rientro
definito dal governo ha stanziato finora 27 miliardi di euro ma ne sono stati effettivamente pagati soli 22. E i
tempi di pagamento si stanno allungando, nonostante il vincolo dei 30 giorni.
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Gli effetti
sul bilancio
La soluzione della «compensazione» aiuterebbe il governo a smaltire i debiti della pubblica amministrazione.
Nel bilancio generale non cambierebbe nulla perché pur sempre di somma algebrica si tratta, la
compensazione farebbe migliorare le tabelle aggiornate periodicamente dal ministero dell'Economia.
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Salta l'Inps
per le Coop
È stata cancellata la norma che prevedeva l'iscrizione alla gestione Inps artigiani dei soci delle cooperative
artigiane. Il provvedimento avrebbe provocato una riduzione delle entrate contributive. L'Aula aveva già
approvato l'emendamento voluto dalla commissione Bilancio.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 57
La lente Le sofferenze bancarie e la relazione di Visco Paola Pica Classica o light, interna o esterna, con altri soci o da soli, purché si faccia. Tocca oggi a Ignazio Visco tirare le
fila del gran parlare di «bad bank» degli ultimi giorni. Il monte dei crediti in sofferenza del sistema italiano
sfiora ormai i 150 miliardi (netti) e il governatore della Banca d'Italia non potrà evitare il tema sua riduzione
nell'intervento conclusivo al Forex di Roma. Quello che si è capito fin qui è che, superato il dibattito sul
veicolo pubblico, resta da scegliere quale forma giuridica dare alle diverse iniziative private. Unicredit ci sta
lavorando da tempo, da quando ha dato vita a una controllata ad hoc. E anche in Intesa Sanpaolo ha aperto il
cantiere e sta prendendo in considerazione la «bad bank» cosidetta interna. Una soluzione light ma «non
ipocrita» per dirla con il bocconiano Stefano Caselli. Rispetto al veicolo esterno, la struttura tenuta in pancia
alla banca limita la raccolta di risorse ma permette di mantenere intatta la relazione con i clienti . E soprattutto
non tradisce la duplice attesa dei mercati: l'«outing» sugli incagli e la pulizia degli attivi delle banche italiane.
paolapica
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 58
L'analisi La restituzione dei prestiti da parte degli istituti di credito e la spinta verso la deflazione Perché i vincoli all'Eurotower rallentano la liquidità al mercato I rendimenti sui depositi Tassi negativi sui depositi delle banche presso la Bce potrebbero essere una spintaa liberare liquidità Danilo Taino Giovedì scorso, la Banca centrale europea (Bce) non ha tagliato i tassi d'interesse e non ha introdotto novità
di politica monetaria. Il suo presidente Mario Draghi ha però fatto intendere che qualcosa succederà: «Siamo
pronti e determinati ad agire», ha detto. Ne ha tutti i motivi: seppure involontariamente, da qualche mese la
politica monetaria della Bce sta avendo un effetto restrittivo, di contrazione della liquidità presente nel sistema
economico dell'Eurozona. Di fronte a pericoli di deflazione (calo dei prezzi) e di diminuzione dei prestiti delle
banche all'economia, è una situazione difficile da sostenere. Qualcosa andrà fatto. «Un buon monetarista -
come in teoria sono la Bce e la banca centrale tedesca Bundesbank - drena liquidità quando ce n'è troppa
ma ne immette, o comunque non ne toglie, quando cala. Anche la rigida Bundesbank lo sa», dice un
banchiere d'affari europeo.
Cosa sta succedendo è illustrato dal grafico accanto. Per tutta la prima parte della vita dell'euro, il bilancio
della Bce - in sostanza l'attività della banca di Francoforte, cioè diversi tipi di prestiti alle banche, moneta in
circolazione, acquisti di titoli di Stato e altro - è rimasto sotto i mille miliardi di euro. Nel 2007 è iniziato a salire
e poi, con la crisi esplosa nel 2008, si è impennato: tra la fine del 2011 e l'inizio del 2012 ha superato i tremila
miliardi, grazie alle due operazioni chiamate Ltro, cioè prestiti a lungo termine per più di mille miliardi (in due
tranche) che la Bce ha fatto alle banche dell'Eurozona a tassi bassi. Allo scopo di immettere liquidità nel
sistema del credito sperando che andasse a finanziare l'economia. Come si vede nel grafico, ormai da più di
un anno il bilancio della Bce diminuisce e negli ultimi tempi la tendenza sembra accentuarsi. A causa
soprattutto delle restituzioni alla Bce dei prestiti Ltro che le banche avevano accettato.
Senza che la Bce lo voglia, siamo insomma in presenza di un restringimento delle condizioni monetarie.
Quando si dice che la banca centrale sta ferma, in realtà si dice che la politica monetaria diventa restrittiva. Il
risultato - segnalato in un interessante studio appena pubblicato dalla Banca Profilo - è che la crescita
dell'offerta di moneta cala: oggi è all'1% (su base annua) rispetto a una media pre-crisi superiore al 6%. E
che i prestiti all'economia reale (al netto del settore pubblico) sono in contrazione del 2,3% (crescevano
attorno al 6% prima della crisi). Se a questa situazione si somma il fatto che la velocità di circolazione della
moneta è bassa, per la ridotta attività dell'economia, siamo in presenza di una spinta verso la deflazione
piuttosto forte: un pericolo serio per la crescita che Draghi ha più volte rimarcato. Situazione preoccupante,
visibile anche da un altro punto di vista. Dal momento che la Bce ha un obiettivo di inflazione per l'area euro
attorno al 2%, il fatto che oggi l'indice sia allo 0,7% significa che il discostamento è dell'1,3%. Così come un
discostamento dell'1,3% verso l'alto - cioè in direzione di più inflazione - richiederebbe un intervento deciso
della Bce in senso restrittivo della politica monetaria, un discostamento dell'1,3% verso il basso consiglia un
intervento in senso espansivo. Già. Ma come, dal momento che il tasso d'interesse è già ai minimi (0,5%) e i
prestiti Ltro sono in via di restituzione?
Portare in territorio negativo i tassi d'interesse che la Bce riconosce alle banche che depositano denaro
presso di essa potrebbe essere una spinta a mettere in circolazione liquidità, ma non garantirebbe che
questa finisse alle imprese e alle famiglie, magari andrebbe a creare distorsioni di mercato. Comprare azioni
(cioè investire sui listini di Borsa per non discriminare) è un'ipotesi di cui ogni tanto si parla - l'ha rilanciata
due giorni fa Nikhil Srinivasan, il chief financial officer del gruppo Generali: ha il vantaggio di aiutare
direttamente le imprese ma potrebbe alterare significativamente i valori del capitale di rischio. Una terza
possibilità è che la Bce compri debito delle imprese e dei consumatori (cartolarizzato). Comunque sia,
immissione di liquidità nel sistema. Sarebbe importante però che qualsiasi operazione fosse fatta senza
sterilizzarne gli effetti, cioè senza annullare l'aumento della liquidità «aspirando» denaro in altri modi come
08/02/2014 40Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 59
invece ha fatto finora la Bce. Pochi giorni fa, la Bundesbank ha segnalato di essere disposta a sostenere la
fine della sterilizzazione, ipotesi alla quale si era fino ad adesso opposta. Svolta in arrivo. Forse.
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08/02/2014 40Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 60
DOPO la DECISIONE tedesca sulla bce e Ora le banche non hanno scuse ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI La Corte costituzionale tedesca ha concluso che l'acquisto da parte della Bce di titoli di Stato dei Paesi
dell'eurozona violerebbe i trattati e ha deferito la Banca centrale alla Corte di giustizia europea.
Apparentemente un ulteriore passo indietro nel processo di integrazione europea, una sconfitta della Bce e
un irrigidimento tedesco. In realtà l'esatto contrario: una vittoria per la Bce e un segnale di ammorbidimento di
Berlino. La Corte tedesca avrebbe potuto proibire alla Bundesbank di partecipare agli acquisti rendendoli così
impossibili. Invece ha riconosciuto la giurisdizione della Corte europea, la quale quasi senza dubbio
approverà l'operato della Bce.
È molto importante che quanto è accaduto venerdì venga interpretato nel modo giusto, ovvero come un
passo avanti e non indietro. Un passo che attenua la tensione fra la Germania e i Paesi del Sud dell'Europa,
che è stato l'effetto più grave della crisi finanziaria nell'area euro. C'è chi lo aveva previsto. Vent'anni fa, in un
articolo su Foreign Affairs , allora ridicolizzato dalla stampa europea, Martin Feldstein, un economista
americano, aveva scritto che con l'euro si rischiava un aumento della tensione all'interno dell'Europa, anziché
maggior cooperazione. Negli ultimi anni la sua profezia purtroppo sembrava avverarsi. È importante ora
smentirla nei fatti.
Molti sostengono che la Bce dovrebbe seguire la Federal Reserve, che ha acquistato a man bassa titoli
federali americani. Ma la Bce è in una posizione diversa. Non esistono titoli federali europei che la Banca
possa acquistare. Comprare titoli di singoli Paesi avrebbe effetti redistributivi avvantaggiando una nazione o
l'altra. Ma ogni intervento di una Banca centrale produce inevitabilmente questi effetti. Ecco il nocciolo della
questione. Quando si è costruito l'euro non ci si è preoccupati abbastanza di capire, chiarire, e regolare in
modo realistico quali e quanti flussi redistributivi tra un Paese e l'altro fossero politicamente accettabili. La
gravità e l'eccezionalità della crisi finanziaria che ha investito il mondo ha messo violentemente a nudo
questo fondamentale difetto.
Ora il problema è come accelerare l'uscita dalla recessione. Il continuo sostegno monetario della Bce è
ovviamente necessario. Il rischio di inflazione al momento è inesistente, semmai c'è da temere che i prezzi
comincino a scendere. Il segnale verde che quasi sicuramente la Bce riceverà dalla Corte di giustizia europea
aiuterà. Ma ci sono modi più diretti e politicamente meno delicati con cui la Bce potrebbe aiutare l'economia.
Ad esempio acquistando dalle banche un po' dei prestiti che esse hanno fatto alle imprese: in questo modo
alleggerirebbe i loro bilanci e farebbe ripartire il credito.
La Bce si è detta pronta a farlo, andando al di là della stessa Fed la quale acquista prestiti bancari solo se
garantiti dallo Stato americano, condizione che Francoforte non pone. Ma la Bce non può acquistare singoli
prestiti: è necessario che prima le banche li aggreghino costruendo pacchetti diversificati di prestiti (le
cosiddette cartolarizzazioni). In questo le banche europee sono molto indietro. La responsabilità di far
ripartire il credito oggi è soprattutto loro.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 61
Il Forex «L'occupazione rischia di tornare a crescere lentamente e con ritardo rispetto all'attività produttiva» Visco: ripresa fragile, meno tasse sul lavoro Il Governatore apre a una «bad bank» di sistema per gli attivi deteriorati Il Pil 2014 salirà dello 0,75%.Squinzi: l'andamento dell'economia ci terrorizza S.Ta. ROMA - «La ripresa appare ancora debole e incerta», esordisce il governatore della Banca d'Italia, Ignazio
Visco, intervenendo all'annuale assemblea dell'Assiom-Forex, l'associazione che riunisce cambisti e tesorieri.
Un tale incipit non promette nulla di troppo positivo e difatti Visco nella sua analisi si sofferma soprattutto sui
rischi che pesano sulla fragile crescita e sulle condizioni che servono per percorrere «lo stretto sentiero» che
porta all'uscita dall'emergenza.
Di rassicurante c'è solo il fatto - e non è poco secondo gli economisti presenti in platea - che i segnali di
ripresa non sono più solo qualitativi ma anche quantitativi, come quel prezioso 1% di aumento della
produzione industriale registrato nell'ultimo trimestre dello scorso anno. D'altra parte il miglioramento -
osserva il governatore - è stato diseguale, non ha riguardato tutti i settori produttivi né l'intero territorio
nazionale ma solo le aziende più grandi localizzate al Centro-Nord che realizzano all'estero una quota
rilevante delle proprie vendite. I dati complessivi sono scoraggianti: nell'ultimo triennio la produttività in Italia
ha appena recuperato la contrazione del 2009 a fronte di incrementi dell'1,5% in Francia e di circa il 5% in
Germania. E poi c'è il tasso di disoccupazione che ha raggiunto un livello prossimo al 13%,«il doppio di quello
prevalente prima della crisi e il più elevato dagli anni Cinquanta» e l'occupazione «che rischia di tornare a
crescere lentamente e con ritardo rispetto alla ripresa dell'attività». E c'è la diminuzione dei consumi delle
famiglie che risentono anche «dell'insufficiente dinamica dei redditi». In questo quadro difficile - che fa dire al
Presidente della Confindustria Giorgio Squinzi: «Siamo terrorizzati dall'andamento dell'economia reale» -
premono i rischi sulla dinamica dei prezzi, del mercato dei debiti sovrani e dell'accesso al credito. «Non siamo
in una situazione di deflazione» assicura Visco, ma ciò non toglie che «anche un periodo prolungato di
variazione dei prezzi al di sotto del livello compatibile con la stabilità monetaria non sia desiderabile». E
quindi richieda l'azione di contrasto della Bce che «userà tutti gli strumenti necessari» a sua disposizione.
Quanto al debito sovrano, la riduzione dello spread in prossimità di quota 200 punti riflette la migliorata fiducia
dei mercati, ma «non possono essere escluse» nuove spinte al rialzo sui tassi di interesse». La fiducia
faticosamente riguadagnata sui mercato, dove il Tesoro colloca titoli per 400 miliardi annui, «non deve essere
indebolita dal riaccendersi di timori sulla risolutezza dell'Italia- e degli altri paesi dell'Euro - a proseguire sulla
strada delle riforme e della responsabilità». Cosa che vuole dire prima di tutto rispettare i vincoli di bilancio.
Il calo dei prestiti alle imprese italiane infine, pari al oltre il 9% negli ultimi due anni, richiede un cambio di
marcia anche nell'individuazione di canali alternativi al finanziamento bancario delle imprese. E sollecita una
soluzione per il problema del l'enorme peso dei crediti non rimborsati, come potrebbe essere la creazione di
apposite bad bank che il governatore promuove suggerendo interventi ampi e «ambiziosi».
Contrastare i rischi però, rileva Visco, potrebbe non bastare. È necessario recuperare la competitività,
riducendo le imposte sul lavoro, e «una strategia di riforma articolata e coerente, a cui contribuiscano il
settore pubblico, le imprese, il sistema finanziario». Serve insomma uno sforzo comune, lo stesso che anche
il ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni richiama nel suo messaggio di saluto all'assemblea. «Le
turbolenze valutarie sono un ricordo del passato ma resta viva l'esigenza di orientare i mercati finanziari ad
obiettivi di stabilità e di sostegno forte all'economia reale e all'investimento produttivo», in un «impegno che
deve vedere affiancati tutte le autorità di governo e monetarie quanto gli operatori dei vari segmenti di
mercato».
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I nodi
09/02/2014 20Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 62
Cuneo fiscale, serve una riduzioneUscita dalla crisi ancora «debole e incerta»
Più credito e sostegno alle imprese
La previsione di Bankitalia per la crescita del Pil di quest'anno si ferma allo 0,75%
Per il Governatore occorre «una riduzione del carico fiscale sui fattori di produzione»
Occorre «far ripartire il credito, facendo sì che non manchi il finanziamento a chi lo merita», ha detto Visco
09/02/2014 20Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 63
L'analisi Ma per Bankitalia non si tratta di replicare il modello pubblico spagnolo Crediti dubbi, per gli istituti una partita da 150 miliardi I progetti Unicredit-Sanpaolo e Mediobanca Le misure Allo studio da parte di Via Nazionale misure disemplificazione normativa e di agevolazione fiscale Stefania Tamburello ROMA - L'affondo di Ignazio Visco, è giunto inaspettato, a sentire i big del credito presenti all'assemblea
Assiom Forex. Il governatore della Banca d'Italia infatti non solo ha promosso («vanno nella giusta direzione»
ha detto) gli interventi allo studio «presso alcune banche » per gestire le sofferenze in bilancio con la
creazione di apposite strutture - una sorta di bad bank di banche cattive - ma ha anche esortato la nascita di
soluzioni «più ambiziose». Cioè di progetti compatibili con le norme europee in grado «di liberare, a costi
contenuti, risorse da utilizzare per il finanziamento dell'economia». Visco non ha fornito ulteriori indicazioni
sulla strada da seguire, forse per lasciare da una parte lo spazio all'iniziativa delle stesse aziende di credito e
dall'altra la parola al governo e al ministro dell'Economia che dovrebbe rivestire il ruolo principale nel caso,
per esempio, di una bad bank di sistema. La Banca d'Italia non pensa certo, come ha chiarito il direttore
generale Salvatore Rossi, ad una soluzione di tipo spagnolo, di marca cioè completamente pubblica ma ciò
non toglie che misure di semplificazione normativa per rivitalizzare il mercato delle cartolarizzazioni e di
agevolazione fiscale possano favorire soluzioni tali da consentire alle banche di smobilizzare dai propri bilanci
i crediti non rimborsati, quasi impossibili da recuperare. A riguardo tra i progetti in corso vi è quello di Intesa
SanPaolo e Unicredit che oltre a pensare ad una bad bank interna starebbero verificando con la società di
investimento KKR la fattibilità di un veicolo in cui far confluire i crediti ristrutturati dei due gruppi. Mediobanca,
invece, starebbe lavorando a un progetto per le banche di medie dimensioni.
Quel che è certo è che dietro al colpo di acceleratore di Visco c'è la gravità del problema delle sofferenze,
esplose con la crisi, arrivate a sfiorare , secondo i dati dell'Abi, i 150 miliardi di euro che salgono a 300
miliardi se si comprende il totale dei crediti deteriorati, difficili da riscuotere. La loro crescita - fermatasi solo
nell'ultimo trimestre del 2013 - è la prima causa della caduta dei prestiti alle imprese e le rettifiche di valore,
rileva il governatore, nei primi 9 mesi del 2013 hanno assorbito i tre quarti della redditività operativa delle
banche. Senza contare che i crediti deteriorati rappresentano un atout negativo per gli esami - la valutazione
degli attivi bancari e gli stress test - della Bce.
Gli interessati ieri hanno reagito con la stessa prudenza di Visco. «Il governatore non ha voluto indicare una
soluzione definita ma ha espresso disponibilità a valutare varie ipotesi» ha affermato il presidente del
consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, Gian Maria Gros-Pietro, mentre l'amministratore delegato di
Unicredit, Federico Ghizzoni, si è detto convinto che «le banche di una certa dimensione siano in grado di
gestire le soluzioni sui crediti in sofferenza da sole. Le altre magari possono avere interesse a valutare ipotesi
di aggregazione». Per Fabrizio Viola, amministratore delegato di Mps, «ci sono diversi aspetti tecnici da
approfondire» mentre per Pier Francesco Saviotti, amministratore delegato di Banco Popolare, «forse, se
fosse possibile, una bad bank nazionale sarebbe una soluzione». Per il Presidente dell'Abi, Antonio Patuelli,
infine quella del governatore «è un'esortazione a proseguire nelle iniziative in corso», pluralistiche e di
mercato. Patuelli si è anche soffermato sulla rivalutazione delle quote della Banca d'Italia che secondo Visco
dovrà «contribuire a sostenere l'offerta del credito». Con con ogni probabilità, ha detto il presidente Abi, «non
ci sarà bisogno che la Banca d'Italia riacquisti nemmeno una quota eccedente il tetto al possesso e spenda
nemmeno un euro» perché i soggetti istituzionali «apprezzeranno questa forma di investimento qualificato»
In ogni caso, per Visco «il sistema finanziario deve riguadagnare la fiducia del pubblico» e «deve dimostrare
di saper svolgere appieno la propria funzione»
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Le sofferenze del sistema bancario italiano Dati in milioni di euro nette lorde dicembre 2008 dicembre 2009
dicembre 2010 dicembre 2011 dicembre 2012 novembre 2013 41.319 21.787 51.721 64.774 75.638 107.197
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 64
124.974 149.593 77.837 59.104 35.997 46.518
Protagonisti
Foto: Alessandro Profumo (Mps) e Federico Ghizzoni (Unicredit)
Foto: Gian Maria Gros Pietro e Gaetano Miccichè (Intesa Sanpaolo)
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Il caso La capacità di trasmissione nazionale è già ritenuta in eccesso e i canali si possono più facilmenteaffittare sul mercato Frequenze tv, pretendenti in fuga E l'asta rischia di andare deserta I dubbi di Sky, Rete A e Cairo. La crisi frena le emittenti locali Sorprese Qualche sorpresa potrebbe arrivaredagli outsider come Discovery Channel Massimo Sideri L'ombra del flop aleggia sull'ultimo programma che il ministero dello Sviluppo economico si appresta a
lanciare in tv: l'asta delle frequenze televisive. Il bando di gara è stato firmato venerdì e, dunque, questa
dovrebbe essere la settimana clou per le decisioni. Come era già emerso lo scorso aprile con il regolamento
preparato dall'AgCom guidata da Angelo Cardani, alla nuova asta non potranno partecipare né la Rai, né
Mediaset e né tantomeno Telecom Italia Media, anche se nel frattempo La7 è passata nella galassia di
Urbano Cairo. Nella sostanza i candidati ideali per garantire il pluralismo televisivo, obiettivo ultimo della gara
come ci chiede l'Europa, e una copertura adeguata del territorio, sono Sky Italia di Rupert Murdoch e Rete A
della famiglia De Benedetti. Ma, anche se nulla di ufficiale è trapelato, i due gruppi non sembrano intenzionati
a fare un'offerta.
Il rischio che l'asta vada deserta è molto alto: Sky ha già un canale in chiaro ed evidentemente l'esperienza
ha spinto il gruppo a tornare a focalizzarsi sul core business della pay tv. Rete A ha siglato nel frattempo un
accordo con Telecom Italia Media per ridurre i costi con alcune sinergie. E il gruppo Cairo, che tecnicamente
potrebbe partecipare, non ha ancora deciso nulla e non mostra segni di deciso interesse. Qualche sorpresa
potrebbe arrivare dagli outsider come Discovery Channel, operatore che si sta muovendo bene in Italia e che
sta crescendo molto. Anche se il gruppo già in passato si era mostrato freddo sulla possibilità di diventare
proprietario delle frequenze. La capacità trasmissiva nel nostro Paese è considerata da molti in eccesso e le
frequenze si possono facilmente affittare sul mercato. Dunque chi ne avesse bisogno in questo momento
difficilmente opterebbe per un elevato costo fisso (la base d'asta è di circa 30 milioni di euro, cifra alla quale
bisogna aggiungere gli investimenti per garantire almeno il 51% della copertura nazionale in 5 anni) rispetto a
un costo variabile con molti meno vincoli. L'unica strada per rientrare da questi investimenti è la pubblicità,
mercato molto incerto in questa fase. Nessuna sorpresa al contrario è attesa dalle piattaforme locali: le tv
regionali sono in grave crisi. Il fallimento di Telemarket è solo la punta dell'iceberg di un più generale
indebolimento degli ex piccoli imperi da Telenorba a Telelombardia.
Le tv locali sono rimaste schiacciate anche dal taglio dei sussidi che spesso e volentieri venivano elargiti in
cambio di una vetrina per il consenso politico. Ma dal punto di vista economico la mazzata finale è arrivata
dalla guerra del telecomando (uscite dai primi 9 numeri ora sono come la seconda o terza pagina di risultati di
una ricerca su Google, dove nessuno arriva) e dal digitale terrestre che doveva favorire la pluralità, ma che
nei fatti si è rivelato un ulteriore ostacolo. Il governo Monti - che pure aveva messo la salvaguardia delle tv
locali nel proprio programma - aveva previsto tagli di circa 200 milioni a questa industria dal 2013 al 2023.
L'attuale governo Letta li ha ridotti di circa la metà, ma le tv locali hanno già messo in cassa integrazione il
50% dei 5 mila dipendenti. Numeri che appaiono incompatibili con l'asta. L'operazione riguarda frequenze
che compongono tre reti televisive digitali terrestri nazionali con un diritto d'uso ventennale non trasferibile per
i primi tre anni suddivise nei seguenti lotti: L1 con l'utilizzo dei canali 6 e 23 con una copertura nominale
stimata di popolazione pari all'89,5%; L2 con l'utilizzo dei canali 7 e 11 con una copertura pari al 91,1%, L3
con l'utilizzo dei canali 25 e 59 con una copertura pari al 96,6%. Il provvedimento consente di concorrere per
tutti e tre i lotti ai soli nuovi entranti o piccoli operatori (cioè che detengono un solo multiplex), di concorrere
per due lotti (L1 e L3) agli operatori titolari di due reti in DVB T; agli operatori integrati, attivi su altre
piattaforme con una quota di mercato superiore al 50% della tv a pagamento (Sky), è permesso partecipare
al solo lotto L1. Il bando esclude espressamente gli operatori che detengono tre o più multiplex (Mediaset,
Rai e Telecom Italia Media Broadcasting).
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La gara D'ARCO Le regole Possono concorrere per tutti e tre i lotti (L1, L2, L3) i soli nuovi entranti o piccoli
operatori (cioè che detengono un solo multiplex) Possono concorrere per due lotti (L1 e L3) gli operatori
titolari di due reti in DVB T Possono concorrere al solo lotto L1 gli operatori integrati, attivi su altre piattaforme
con una quota di mercato superiore al 50% della tv a pagamento (Sky) Il bando esclude dalla partecipazione
alla gara gli operatori che detengono tre o più multiplex (Mediaset, Rai e Telecom Italia Media Broadcasting)
Lotto L1 Lotto L2 Lotto L3 Utilizzo dei canali 6 e 23 Utilizzo dei canali 7 e 11 Utilizzo dei canali 25 e 59 89,5%
91,1% 96,6% La copertura nominale stimata di popolazione Base d'asta prevista 29,3 milioni di euro 29,8
milioni di euro 31,6 milioni di euro
I protagonisti L'asta
Il ministero dello Sviluppo economico ha firmato venerdì scorso il bando di gara per le frequenze tv. Come
stabilito dal regolamento preparato dall'AgCom, lo scorso aprile, alla nuova asta non potranno partecipare né
la Rai, né Mediaset e nemmeno Telecom Italia Media, anche se nel frattempo La7 è passata nella galassia di
Urbano Cairo. I candidati ideali per garantire il pluralismo televisivo, obiettivo ultimo della gara come ci chiede
l'Europa, sono Sky Italia di Rupert Murdoch e Rete A della famiglia De Benedetti
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 67
Internet veloce Vodafone spinge sulla banda larga: in Italia 3,6 miliardi da investire in 2anni Fanalino di coda La copertura italiana Adsl è al 55% delle famiglie, contro il 72% della media Ue Gabriele Dossena MILANO - Peggio di noi solo Grecia e Portogallo. In fatto di collegamenti veloci a internet attraverso la banda
larga, l'Italia è fanalino di coda nel confronto europeo: la copertura nazionale nell'Adsl raggiunge il 55% delle
famiglie, contro il 72% della media europea, e la velocità media di download è di 6 Megabit, contro una media
mondiale di 14, per non parlare dei 20 Megabit registrati nel Regno Unito. Non sono grandi novità. Di nuovo,
però, c'è che qualcosa si è mosso nella seconda metà del 2013, e importanti movimenti si segnalano con
l'avvio di quest'anno. Negli ultimi mesi si è intensificata l'attività, e quindi l'offerta, da parte di diversi operatori,
sia con offerte in fibra a 20 Megabit, sia con proposte a 30 e addirittura fino a 100 Megabit. Solo per citare
l'esempio dei tre maggiori gruppi attivi in questo settore, il numero delle città in cui oggi sono attivi i
collegamenti ultraveloci in fibra,ha registrato un'impennata finora sconosciuta: Telecom in 42 città, Vodafone
in 37 e Fastweb in 19.
Del resto il traguardo lo ha fissato l'Agenda digitale europea: bisogna arrivare alla copertura dell'intero
territorio con 30 Megabit entro il 2020. Tra gli utilizzatori della rete, ma anche tra alcuni operatori, lo
scetticismo domina. C'è chi, forse con un eccesso di realismo, più che alle «autostrade digitali» del futuro,
preferisce guardare al presente fatto da «strade provinciali» tortuose e con collegamenti fortemente rallentati.
Ma è anche vero che l'Italia sconta il prezzo, caso unico in Europa, del monopolio infrastrutturale della rete
fissa. Ecco quindi che anche il governo ha deciso di intervenire. Con il premier Enrico Letta che nei giorni
scorsi ha minacciato, come «extrema ratio» lo scorporo della rete Telecom. Spronando al tempo stesso gli
altri operatori a fare la loro parte sul fronte degli investimenti. Lo scorso novembre, Vodafone ha annunciato
un piano da 7 miliardi di sterline (8,2 miliardi di euro) per investimenti concentrati nello sviluppo e nella
differenziazione di reti e servizi di nuova generazione. E, per quanto riguarda l'Italia in particolare, ha deciso
di mettere sul piatto 3,6 miliardi di euro nei prossimi due anni, raddoppiando le risorse per lo sviluppo dei
collegamenti a banda ultra larga, mobile e fissa. Più nello specifico, con il programma denominato «Spring»,
Vodafone intende sviluppare infrastrutture e piattaforme evolute, e accelerare gli investimenti, oltre che sulle
reti mobili 3G e 4G, anche nella rete fissa in fibra ottica, lanciando un piano di copertura delle 150 principali
città con la rete Fttc (Fibre to the home, quella che arriva direttamente in ogni singola casa), con l'obiettivo di
raggiungere entro il 2016 almeno 6 milioni e mezzo di famiglie, pari a un quarto della popolazione italiana. Il
traguardo europeo resta un miraggio. Ma intanto ci si avvicina.
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I più veloci Trentino A. A. Emilia R. Friuli Puglia Liguria Marche Lazio Veneto Molise Sardegna Piemonte
Valle d'Aosta Toscana Lombardia Abruzzo Umbria Sicilia Campania 7.430 7.400 7.290 7.255 7.250 7.247
7.241 7.219 7.183 7.157 7.136 7.121 7.057 6.987 6.942 6.896 6.870 6.725 Velocità di connessione in Mbps
(Dati al I° semestre 2013) TeleTu Vodafone Tiscali Tiscali TeleTu Tiscali Tiscali Wind Vodafone D'ARCO
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 68
L'intervista Il direttore generale della società che gestisce Orio al Serio: «Attenti a non vanificare gli ingentiinvestimenti» Mentasti: bisogna puntare sul lavoro fatto Salvare le infrastrutture, non glioperatori Il futuro di Alitalia «Alitalia è una compagnia che sta a cuore a tutti, ma se dovesse saltare il mercatoandrebbe avanti lo stesso» Cesare Zapperi «Dobbiamo salvaguardare le infrastrutture, cioè gli aeroporti. E gli investimenti che sono stati fatti, non gli
operatori. Alitalia è una compagnia che sta a cuore a tutti, ma se dovesse saltare, come è già successo ad
altre realtà, il mercato andrebbe avanti lo stesso. A quello dobbiamo pensare». Andrea Mentasti, manager di
Sacbo (la società di gestione dello scalo di Orio al Serio, partecipata al 30% da Sea), non nasconde la
preoccupazione per le conseguenze che potrebbero derivare al sistema aeroportuale lombardo dal temuto
ridimensionamento di Malpensa.
Il vostro aeroporto è tra i pochi con il segno più. Di cosa avete paura?
«Quello che succede a Milano non ci lascia indifferenti. Noi stiamo sempre più andando verso una
specializzazione degli scali. Il ruolo di Malpensa è fondamentale. È una sorta di architrave. Se vi dovesse
essere una polarizzazione su Linate salterebbe tutto».
Polarizzazione, cosa intende?
«Da qualche parte si ipotizza una liberalizzazione degli slot per il Forlanini che a quel punto diventerebbe un
centro di raccolta per il traffico diretto negli altri hub europei. Il sistema che faticosamente abbiamo cercato di
costruire (Malpensa voli intercontinentali, Linate city airport, Orio low cost, Montichiari cargo, ndr )
salterebbe».
In ballo c'è Alitalia.
«Ci teniamo tutti, ma il tema centrale è un altro. Negli anni scorsi sono stati fatti ingenti investimenti sugli scali
e sulle infrastrutture di supporto. Alitalia è un operatore. Importante, certo, ma nessun aeroporto può legare il
suo destino a una compagnia».
Lei parla del sistema lombardo. Per la verità si è creato in maniera, diciamo così, un po' spontaneistica. Non
c'è stata quella strategia di cui da più parti si lamenta la mancanza.
«È vero, ma è il mercato che ha portato a questa situazione. D'altra parte, basta guardarsi attorno: c'è il polo
Firenze-Pisa, quello che si sta prefigurando tra Catania e Comiso. Se ci mette la mano qualcuno dall'alto si
rischiano stravolgimenti pericolosi».
Quindi, sembra voler dire alla politica che si preoccupa di salvare Alitalia di non fare passi azzardati?
«Sì, ognuno deve stare al suo posto. Per il pubblico è forse arrivato il momento di fare un passo indietro,
anche dalle società di gestione. Il che non significa uscire del tutto, ma ritagliarsi un ruolo diverso, più di
controllo e di indirizzo che operativo».
Lei cosa consiglia, allora?
«Penso che in Sea, come in Sacbo, ci sono professionalità di alto livello che sanno quali sono le strategie
migliori per far crescere il sistema. Un confronto con chi opera sul campo non può che essere utile a tutti».
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09/02/2014 3Pag. Corriere della Sera - Milano(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 69
conti pubblici Niente scorciatoie sui tagli alla spesa O questa volta l'Italia finirà sottotutela MAURO MARÈ e PIETRO REICHLIN L a permanenza dell'Italia
nell'Unione monetaria, forse la sopravvivenza dell'euro, dipendono dalla stabilizzazione del nostro debito
pubblico. Senza misure straordinarie, dovremo mantenere un avanzo primario del 3-4% del Prodotto interno
lordo per almeno una decina di anni, anche se il criterio del cosiddetto output gap potrebbe consentirci uno
sforzo più contenuto. Possiamo farlo senza compromettere la crescita economica? Nella gran parte dei casi, i
debiti sovrani sono stati abbattuti solo con varie forme di ristrutturazione - inflazione, default esplicito, imposte
patrimoniali e controlli sui movimenti di capitale - ma alcuni Paesi ci sono riusciti grazie al consolidamento
fiscale e senza cadere in recessione, come, negli anni 90, Belgio, Canada, Danimarca, Svezia e, più
recentemente, gli Stati baltici.
Gli scenari possibili dipendono da molte incognite: il sentimento degli investitori, le scelte delle autorità
politiche europee, la credibilità dei governi, l'economia globale. Riformuliamo allora la questione in modo
diverso: esiste, per l'Italia, una strada diversa dal consolidamento fiscale, che non sia l'uscita unilaterale
dall'Unione monetaria? Risponderemo a questa domanda prendendo in esame due alternative: la proposta di
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, cioè lo sforamento del vincolo del 3% di disavanzo in cambio di un
programma di riduzione della spesa pubblica e di riforme strutturali (Corriere della Sera , 17 maggio 2013 e 5
gennaio 2014), e le misure «straordinarie» per l'abbattimento del debito.
La proposta Alesina-Giavazzi non va confusa con l'ingenua richiesta di «battere i pugni sul tavolo». Sarebbe
da irresponsabili dissipare la nostra credibilità nei confronti della Ue e dei mercati minacciando di far saltare il
banco. I due economisti suggeriscono, piuttosto, un accordo preventivo con l'Europa. Il problema, però, è che
la Ue non ha a disposizione strumenti credibili per sanzionare l'Italia se il nostro Parlamento o i governi futuri
rinnegassero le promesse, e anche se tali strumenti fossero previsti o annunciati sarebbero comunque
un'arma spuntata. La proposta Alesina-Giavazzi, cioè, non risolve il difetto principale dell'architettura
istituzionale della Ue: l'assenza di un forte governo centrale con un credibile potere sanzionatorio e una
politica economica comune.
Le misure straordinarie possono essere di tre tipi: dismissioni di patrimonio pubblico, patrimoniale
straordinaria o misure di «repressione finanziaria» (prestito forzoso da parte di banche, fondi pensione e altri
intermediari, limiti ai movimenti di capitale).
Le dismissioni sono una politica necessaria e auspicabile, ma non risolutiva. Il governo ha cominciato a
percorrere questa strada in modo prudente (8-10 miliardi), ma è evidente che un piano più sostanzioso
richiede tempo, perché occorre tutelare la concorrenza, indurre gli enti locali a vendere le società partecipate
e cambiare la destinazione d'uso degli immobili.
Una patrimoniale straordinaria è auspicata da molti in ragione della consistenza elevata della ricchezza
finanziaria degli italiani. Escludendo alcune voci, come circolante, titoli di Stato e depositi postali, con alcune
franchigie per i patrimoni piccoli e medi, si può arrivare a una base di 6 mila miliardi. Un'imposta una tantum
del 5% produrrebbe, in teoria, un gettito di 300 miliardi che, utilizzato per abbattere il debito, consentirebbe un
risparmio di spesa per interessi di circa 20 miliardi all'anno. Ma gli effetti sarebbero incerti e, probabilmente,
iniqui. Si consideri che tale imposta colpirebbe i risparmi previdenziali e si aggiungerebbe a quelle ordinarie
sul patrimonio. Oltre al problema della liquidità, essa sarebbe molto impopolare e potrebbe ledere
ulteriormente il rapporto di fiducia tra i cittadini e lo Stato. Poiché il risparmio annuo di interessi equivarrebbe
a poco più di un terzo dell'avanzo primario richiesto da un programma ordinario di consolidamento fiscale, ci
sembra che i costi superino i benefici...
10/02/2014 26Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 70
Cosa dire, infine, delle misure di repressione finanziaria/prestito forzoso? L'effetto immediato sarebbe la
svalutazione dei nostri titoli pubblici. Data l'enorme esposizione del sistema creditizio nei confronti del debito
italiano, sarebbe poi necessario ricapitalizzare le banche, mettendo in pericolo la stabilità del sistema
finanziario
e gli stessi conti pubblici.
Contrariamente a ciò che si sente dire spesso sui media, le istituzioni europee non sono all'origine dei nostri
mali. È, piuttosto, l'appartenenza all'Eurozona che ci consente di risparmiare sul costo del debito pubblico, un
vantaggio che nello scorso decennio non abbiamo saputo utilizzare. Le gestioni finanziarie irresponsabili
perseguite per molti anni alla fine inevitabilmente si pagano. A noi non resta che agire sui saldi primari. Non
essendo possibile aumentare ancora la pressione fiscale, la scelta è obbligata: la riqualificazione e la
riduzione della spesa. Come farlo è quindi la questione cruciale di qualsiasi governo. Ed è meglio che lo
facciamo presto prima di essere messi sotto tutela.
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10/02/2014 26Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 71
Il presidente Assolombarda «In vista dell'Expo serve una deroga per consentire alle compagnie di tutto ilmondo di attivare voli su Milano» Rocca: la ripresa? Iniziamo con aeroporti e treni veloci <p>«Il rilancio di Malpensa e Linate non può dipendere solo da un buon accordo Alitalia-Etihad» </p> Armando Stella MILANO - Volare alto, partendo dal basso. «Ristrutturare il sistema aeroportuale», «aprire al mercato»,
«chiedere una deroga al "tetto" del traffico aereo» per migliorare la capacità attrattiva della Milano che
aspetta l'Expo. Nei giorni delle frizioni tra Confindustria e governo, Gianfelice Rocca allarga il dibattito alle
«piccole cose» da fare presto e bene. Oltre ai finanziamenti: collegamenti. Assieme al cuneo fiscale: treni
veloci. Accanto agli schemi politico-elettorali: liberalizzazioni. Questione di metodo «Partiamo dai numeri, per
cambiarli». Gianfelice Rocca, classe 1948, presidente di Techint, è il timoniere di Assolombarda, la maggiore
organizzazione nazionale, e l'imprenditore che prova a rompere il guscio dell'immobilismo italiano: «Le
imprese sono l'unica forza del Paese. Se rinascita sarà, arriverà dal basso. Dai cluster, dalle filiere, dalle
città...».
Tra Roma e Firenze si discute di legge elettorale e rimpasto: le priorità sono altre?
«La legge elettorale è cruciale, ma l'Italia ha bisogno anche di una profonda e urgente revisione del Titolo V
della Costituzione. È una riforma più importante della legge elettorale per le conseguenze strutturali che può
produrre, a cascata, per sbloccare i poderosi ostacoli allo sviluppo manifestati in questi anni da una confusa e
conflittuale articolazione dello Stato».
Il suo slogan è: «Far volare Milano per far volare l'italia». Ma come può volare, Milano, se è emarginata dalle
rotte intercontinentali?
«Milano ha un indice di connessione insufficiente, abbondantemente inferiore alla capacità di Monaco e
Francoforte. Ma il modello tedesco dimostra che possiamo "permetterci" due grandi aeroporti, Fiumicino e
Malpensa. Quanto al sistema milanese, non possiamo indebolire Linate nella teorica prospettiva di rinvigorire
Malpensa. Certo, i nostri scali vivono una difficoltà oggettiva...».
Occasioni perse o decisioni strategiche sbagliate?
«Si è privilegiata l'ottica dei produttori anziché quella dei consumatori. Le imprese esportano il 40 per cento
del Pil, abbiamo bisogno di aeroporti di grande livello».
L'ingresso di Etihad in Alitalia potrà dare una svolta?
«Dobbiamo augurarci che la trattativa con Etihad porti a un buon accordo per Alitalia. Tuttavia l'esperienza
degli ultimi anni, e anche un'analisi delle scelte sin qui fatte da Etihad nelle compagnie europee (vedi Air
Berlin e Darwin) dovrebbero energicamente sconsigliarci dal credere che il rilancio di Malpensa e il ruolo di
Linate possano dipendere, o essere collegati a doppio filo, dalle scelte di Etihad».
Il caso Alitalia-Malpensa sta provocando frizioni tra Regione, Comune e governo. Lei come la vede?
«Mi rivolgo idealmente al governatore Maroni: quel che serve alla Lombardia non è la ripresa di uno scontro
politico in grande stile tra Milano e Roma. La cosa migliore è mettere in condizione Malpensa e Linate di agire
liberamente sul mercato dei vettori».
Deve cambiare il ruolo di Sea?
«Sì. Chiediamo alle istituzioni locali, socie di Sea, di riflettere con attenzione se non sia il caso di privatizzare
la società di gestione».
Perché i trasporti sono al centro del suo programma per il rilancio?
«L'economia digitale non ha contratto la domanda di mobilità, anzi. Da Seattle a Londra, alla Silicon Valley,
vincono i nodi globali che offrono sistemi di mobilità di massa. Guardiamo Milano: tutti i progetti vanno
misurati sull'asse Bergamo-Varese, un distretto che ha bisogno di infrastrutture e linee veloci».
A Malpensa, come noto, non arriva neppure l'Alta velocità.
10/02/2014 11Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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«L'Alta velocità è una condizione imprescindibile per uno scalo intercontinentale. Se un imprenditore non sa
quanto tempo impiega nel viaggio Bergamo-Malpensa, come possiamo chiedergli di non volare su
Monaco?».
Mancano solo 14 mesi all'Expo: è tardi per le rivoluzioni, o no?
«Arriveranno 20 milioni di persone ed Expo sarà anche una vetrina di servizi e stile. Diceva un grande
architetto: la battaglia si vince in anticamera. Bene: aeroporti e stazioni saranno l'anticamera dell'Italia.
Dobbiamo investire di più nell'accoglienza. Mattei visitava le toilette dell'Agip: noi dobbiamo ritrovare la qualità
del dettaglio e la passione per le piccole cose».
Il sistema aeroportuale attuale è in grado di reggere l'urto?
«È fondamentale che il governo compia ogni azione possibile per consentire alle compagnie di tutto il mondo
di attivare voli su Milano. Serve una deroga agli accordi bilaterali e multilaterali che limitano la possibilità di
introdurre destinazioni, frequenze dei voli e servizi di compagnie diverse da quelle già presenti. Altrimenti
corriamo il rischio che un milione di passeggeri cinesi finisca per prenotare un soggiorno di una settimana a
Parigi, a Londra o altrove, per fare solo una capatina all'Expo. Sarebbe un danno gravissimo per Milano e per
il Paese».
Milano esce da uno sciopero selvaggio dei taxi e si prepara a viverne un altro. Chiede riforme anche qui?
«Lo sciopero dei taxi senza preavviso, le controversie sul servizio di noleggio Uber e i quasi centomila
abbonati alle società di car sharing consegnano agli amministratori milanesi la necessità di scelte regolatorie
coraggiose. Bisogna completare la liberalizzazione dei servizi di trasporto, eliminando le incertezze esistenti».
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La legge elettorale è cruciale, ma occorre una revisione del Titolo V della Costituzione Imprenditore
Gianfelice Rocca, 65 anni, è il numero uno di Assolombarda e presidente del Gruppo industriale Techint, tra i
leader mondiali nei settori della siderurgia, energia e infrastrutture
L'associazione
Le imprese associate ad Assolombarda sono 4.837, per un totale di 283.772 dipendenti nel territorio di
competenza dell'Associazione: le province di Milano, Lodi e Monza e Brianza Chiediamo alle istituzioni locali
socie di Sea se non sia il caso di privatizzarla
10/02/2014 11Pag. Corriere della Sera - Ed. nazionale(diffusione:619980, tiratura:779916)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 73
IL MANIFESTO DEGLI INDUSTRIALI Le città metropolitane, una via per competere Nicoletta Picchio Un "Manifesto delle città metropolitane italiane". Per affermare che sono il motore delle economie nazionali e
che, una volta istituite, potranno realizzare interventi incisivi per la competitività del territorio, dall'attrazione di
investimenti alla realizzazione di aree produttive, poli tecnologici, utilizzare al meglio i fondi europei. Ma non
solo: questa forma di governo sovracomunale dovrà essere soprattutto un'occasione per modernizzare la
Pubblica amministrazione, e rispondere con una struttura snella ed efficiente a bisogno di imprese e cittadini
di una burocrazia più efficiente.
È l'impegno della Rete delle associazioni industriali metropolitane, il network realizzato da dieci associazioni
territoriali di Confindustria che hanno preparato il Manifesto per sottolineare la necessità di istituire le città
metropolitane, non come sostituzione automatica delle province, ma per far nascere una governance
innovativa, snella ed efficace. Evitando che la cornice legislativa sia l'occasione per creare un ulteriore livello
politico e amministrativo.
Nicoletta Picchio
L e città metropolitane hanno assunto un ruolo sempre più rilevante nella geografia economica globale. E le
dieci associazioni confindustriali delle aree metropolitane chiedono un avvio «contemporaneo e tempestivo»
di tutte le città metropolitane italiane. La questione è di stretta attualità, con la discussione del disegno di
legge Delrio, che dovrebbe snellire le province e definire il ruolo delle città metropolitane.
Un'occasione da non perdere, per i presidenti delle dieci associazioni territoriali della Rete, che sono
Assolombarda, Confindustria Bari e Barletta-Andria-Trani; Confindustria Firenze; Confindustria Genova;
Confindustria Reggio Calabria; Confindustria Venezia; Unindustria Bologna; Unindustria Roma, Frosinone,
Latina, Rieti, Viterbo; Unione industriali di Napoli; Unione industriale di Torino. C'erano tutti giovedì mattina a
Firenze, alla presentazione del Manifesto. Un evento aperto dal sindaco, Matteo Renzi, che ha rilanciato la
necessità della riforma e l'importanza del ruolo delle città.
Quali sono le priorità e le aspettative del mondo produttivo? Le città metropolitane italiane dovranno essere
un motore di programmazione e pianificazione strategica, all'altezza delle migliori esperienze europee, e
quindi Barcellona, Lione, Monaco, Stoccolma, Amsterdam, capaci di individuare risorse, tempi, soggetti e
modalità attuative dei progetti, con una visione condivisa dello sviluppo.
È la visione di Benjamin Barber, politologo americano, che a questo tema da dedicato libri e conferenze: le
città come istituzioni, culla della democrazia, capaci di reagire alle sfide globali e di spingere la crescita
meglio degli Stati-nazione, istituzioni ormai arcaiche. L'ha ripetuto alla platea di imprenditori e amministratori,
a Firenze: le metropoli sono il luogo dove vive il 78% della popolazione dei paesi sviluppati e si genera l'80%
del pil mondiale.
«Il rilancio economico del paese sarà necessariamente trainato dal sistema delle aree metropolitane. Il
nostro piano Far volare Milano nasce proprio con lo scopo di favorire la sua trasformazione in città
metropolitana», è il parere di Gianfelice Rocca (Assolombarda). Una priorità nazionale, quindi, dal Nord al
Sud: «Dobbiamo dare un assetto efficiente al territorio e al suo sistema imprenditoriale. Nelle zone industriali
esistono problemi di manutenzione, trasporti, servizi. I comuni interessati sono cinque, è complicato trovare
l'intesa», dice Angelo Michele Vinci (Bari e Barletta-Andria-Trani). L'assetto di città metropolitana come
occasione di rilancio: «Venezia corre il rischio di trasformarsi in una città vetrina. Come città metropolitana
può esaltare il ruolo di motore del turismo nazionale e di hub logistico Europa-Mediterraneo», commenta
Matteo Zoppas (Venezia).
«Siamo convinti che questa possa diventare la riforma delle riforme, Roma può diventare una megacity
come Londra e Parigi ma è fondamentale il raccordo con le altre province del Lazio», sottolinea Maurizio
Stirpe (Unindustria).
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 74
Alberto Vacchi (Bologna) fa un esempio concreto dei disequilibri locali: «Le nostre imprese nello stesso
contesto provinciale sono soggette a regolamenti, tassazioni e normative che cambiano da comune a
comune, sui rifiuti per i capannoni industriali lo scarto è da +23 a -11 rispetto al 2012».
Sono importanti i tempi: «L'agenda pubblica deve andare in parallelo con quella delle imprese. I territori sono
fondamentali per la catena del valore», sottolinea Simone Bettini (Firenze). Il provvedimento Delrio rischia
però di di non snellire ma anzi creare un nuovo livello burocratico. Le aree metropolitane potrebbero arrivare
ad oltre venti. «Va modificato, ma comunque è meglio avere qualcosa, da rimettere a punto in seguito,
rispetto al niente», è la convinzione di Paolo Graziano (Napoli). Le problematiche esistono, e le ha elencate
Giuseppe Zampini (Genova), che mercoledì a Firenze si è soffermato sui principali problemi da affrontare in
termini di organizzazione, costi e funzioni della città metropolitana.
Nelle città metropolitane italiane, ha detto Licia Mattioli (Torino), si concentra il 36% del pil, il 35% degli
occupati, il 32% degli italiani e il 34% della popolazione straniera. Deve intanto fare i conti con il
commissariamento Andrea Cruzzocrea (Reggio Calabria): a maggio o in autunno ci saranno le elezioni,
racconta. Solo dopo questo passaggio si potrà realizzare l'area metropolitana necessaria per superare le
inefficienze amministrative del territorio e puntare al rilancio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA I nuovi enti di area vasta 11 12 13 20 21 15 14 1 2 4 5 6 7 8 9 10
PIEMONTE Valle D'aosta LOMBARDIA Trentino Alto Adige VENETO TOSCANA Umbria Marche EMILIA
ROMAGNA LIGURIA LAZIO Abruzzo Molise Basilicata CAMPANIA PUGLIA CALABRIA SICILIA
SARDEGNA FRIULI VENEZIA GIULIA 17 17 18 18 3 16 19 A richiesta in province con oltre 1 mln di abitanti
Bergamo Brescia Salerno 19 20 21 Possibili perché capoluogo di regione a statuto speciale Trieste Cagliari
Palermo 11 12 13 Già previste dal Ddl Torino Milano Venezia Genova Bologna Firenze Roma Bari Napoli
Reggio Calabria 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Possibili perché previste da legge di regione a statuto speciale Messina
Catania 14 15 A richiesta di 2 province con una somma di 1,5 mln di abitanti Verona-Vicenza Treviso-Padova
Padova-Verona, Treviso-Vicenza Oppure: 17 16 Varese-Monza 18 Il disegno di legge "Disposizioni sulle Città
metropolitane, sulle Provincie, sulle unioni e fusioni di Comuni", approvato alla Camera e ora in discussione
al Senato, individua esplicitamente 10città metropolitane. Se ne aggiungono altre 5, se istituite dalle Regioni
a statuto speciale.Aqueste 15 se nesommano altre "eventuali", con precisi requisiti: se richieste da due
province con unasomma di 1,5 milioni di abitanti o se richieste in province con oltre un milione di abitantiLe
dieci associazioni territoriali della Rete che hanno lanciato il Manifesto
Le dieci associazioni confindustriali delle aree metropolitane (Assolombarda, Confindustria Bari e Barletta-
Andria-Trani; Confindustria Firenze; Confindustria Genova; Confindustria Reggio Calabria; Confindustria
Venezia; Unindustria Bologna; Unindustria Roma, Frosinone, Latina, Rieti, Viterbo; Unione industriali di
Napoli; Unione industriale di Torino) chiedono un avvio «contemporaneo e tempestivo» di tutte le città
metropolitane italiane. La questione è di stretta attualità, con la discussione del disegno di legge
DelrioGianfelice Rocca Assolombarda «Il piano su Milano per favorire la trasformazione in città
metropolitana» Angelo Michele Vinci Confindustria Bari e BAT «Occorre rendere efficiente il territorio e il
sistema delle imprese»
Simone Bettini Confindustria Firenze «L'agenda pubblica deve andare in parallelo con quella delle imprese»
Giuseppe Zampini Confindustria Genova «Organizzazione, costi e funzioni sono i problemi della città
metropolitana» Andrea Cruzzocrea Confindustria Reggio Calabria «Un passaggio che si potrà fare dopo la
fine del commissariamento» Matteo Zoppas Confindustria Venezia «Venezia può esaltare il ruolo di motore
del turismo nazionale» Alberto Vacchi Unindustria Bologna «In provincia le regole per le imprese cambiano
da comune a comune» Maurizio Stirpe Unindustria RM, FR, LT, RI e VT «Roma può diventare una megacity,
da raccordare con le altre province» Paolo Graziano Unione industriali Provincia di Napoli «Il ddl va
modificato ma meglio avere qualcosa rispetto al nulla» Licia Mattioli Unione Industriale Torino «Nelle città
metropolitane si concentra il 36% del Pil e il 34% degli stranieri»
08/02/2014 1Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 75
L'INTERVENTO BCE Quel bazooka utile all'Italia Isabella Bufacchi Le banche centrali hanno svolto e svolgono un ruolo decisivo per uscire dalla peggiore crisi bancaria-
economico-finanziaria dal Dopoguerra. È così per Usa e Federal Reserve, Regno Unito e Bank of England,
Giappone e BoJ e lo è soprattutto nell'Eurozona dove la Bce ha il compito aggiuntivo rispetto ai mandati
standard, e dunque esclusivo, di mantenere la fiducia dei mercati nella tenuta della moneta unica europea.
L'Italia è tra tutti gli Stati dell'area dell'euro quello che più di ogni altro confida sulla capacità della Bce, con
strumenti convenzionali e non, di proteggere l'euro, la stabilità finanziaria e migliorare le condizioni del credito
per banche, imprese, famiglie e per lo Stato, snodi fondamentali per la crescita. Questo perché l'Italia è
l'unico Paese dell'Eurozona periferica a non aver chiesto aiuto all'Efsf-Esm per uscire dalla crisi, a volercela
fare da sola come i membri del ristretto club "core". L'efficacia delle OMTs, vLTRO a lungo termine, forward
guidance e ribasso del tasso di rifinanziamento e di altre operazioni finora inesplorate nel cassetto del
presidente di Eurotower Mario Draghi è dunque essenziale per accompagnare l'Italia sulla via di uscita dalla
crisi.
Isabella Bufacchi
Se i mercati dovessero convincersi che la rete di sicurezza a oltranza delle OMTs potrebbe venire a
mancare, l'impatto sui BTp sarebbe devastante: perchè per prima cosa, nel peggiore dei casi e del ritorno
della speculazione violenta contro l'euro e l'Eurozona periferica, l'Esm da solo non avrebbe le dimensioni
adeguate per assistere finanziariamente l'Italia. Il bazooka delle OMTs sul tavolo di Draghi è credibile soltanto
se ha il colpo in canna, come per esempio quello della potenzialità illimitata: assicurando la tenuta dell'euro e
la stabilità finanziaria, la Bce può comprare tempo per la classe politica italiana, affinché riporti il debito/Pil
sulla traiettoria di un calo strutturale e vari le riforme strutturali per rilanciare la ripresa economica; per le
banche affinché si rafforzino patrimonialmente e ripuliscano i bilanci dell'eccessivo fardello delle sofferenze;
per le Pmi, che devono crescere in termini di dimensioni, patrimonio, innovazione e internazionalizzazione.
Prima il Securities markets programme (acquisti di titoli di Stato periferici nel periodo 2010-2011) e poi le
Outright monetary transactions (annunciate nel 2012 ma mai attivate) hanno avuto e stanno avendo un
impatto fortemente positivo sui prezzi e sui rendimenti dei BTp, aiutando il Tesoro ad abbattere il costo della
raccolta e quindi gli interessi sul debito. Nel SMP la Bce, con lo status di creditore senior, ha acquistato sul
secondario 100 miliardi circa di BTp quando gli stranieri erano in fuga dall'euro e dal rischio-Italia; dopo
l'annuncio delle OMTs - acquisti potenziali sul secondario mirati ai Paesi aiutati dall'Esm e senza limite di
intervento da parte della Bce, non più creditore senior - lo spread BTp/Bund è crollato. Non solo. L'anno
scorso il prezzo medio all'emissione ha toccato il livello record del 2,08%: tutto questo non sarebbe stato
possibile se la Bce non fosse riuscita a depurare lo spread BTp/Bund dal rischio di disgregazione dell'euro
con uscita dall'Unione monetaria dei Paesi in crisi.
L'Italia è il principale emittente di titoli di Stato nell'Eurozona: anche quest'anno dovrà rimborsare 200 miliardi
circa di titoli a medio-lungo termine in scadenza ai quali si aggiunge il finanziamento del deficit e dei 20
miliardi del pagamento dei debiti commerciali pregressi della Pa. Il ritorno della fiducia nell'euro da parte di
investitori istituzionali non residenti nell'Eurozona - come quello registrato in questi giorni di forti turbolenze
nei mercati emergenti - è decisiva per mantenere i rendimenti di BoT e BTp sui minimi record, come avvenuto
nelle prime aste del 2014. La credibilità della forward guidance e soprattutto della determinazione della Bce a
scongiurare il pericolo della deflazione saranno quest'anno elementi chiave per facilitare le aste del Tesoro,
non aiutate invece dalla litigiosità della classe politica e dallo stallo delle riforme strutturali.
Un altro intervento vitale della Bce per l'Italia è stato e continua ad essere quello delle "vLTRO", i prestiti a
tre anni per importo illimitato a tassi vigenti accordati alle banche europee nel dicembre 2011 e nel gennaio
2012. In un'Eurozona bancocentrica, con le imprese finanziate per il 70-80% e in molti casi per le Pmi al 90%
08/02/2014 1Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 76
tramite il sistema bancario, l'Eurotower ha privilegiato un'iniezione di liquidità extra tramite il sistema bancario
e sulla base della richiesta delle banche (e non l'acquisto di titoli di Stato, bond e cartolarizzazioni come per
Fed, BoE, BoJ). Se da un lato il "quantitative easing" risulta estremamente complicato in un'Eurozona a 18
Paesi, con 18 debiti pubblici nazionali, dall'altro lato la liquidità erogata direttamente al sistema bancario ha
impatto immediato. Le banche italiane, assieme a quelle spagnole, sono state le principali utilizzatrici delle
vLTRO: in virtù di queste risorse extra hanno tamponato, tra fine 2011 e prima metà 2012, le ondate di
vendite di BTp e Bonos provenienti dagli investitori non residenti. L'entità dei titoli di Stato nel portafoglio delle
banche italiane è aumentata di oltre 200 miliardi nel corso della crisi e per sgonfiare questa montagna
occorre tempo: il mercato è convinto che la Bce non si tirerà indietro nel caso in cui fosse necessario un
rinnovo o un'estensione delle vLTRO.
Sempre alla Bce guarda l'Italia e il mercato per allentare il credit crunch che attanaglia ancora le Pmi, con
soluzioni nuove e alternative. Verrebbe bene accolto sicuramente un ulteriore taglio dei tassi Bce. Ma non
avrebbe lo stesso effetto benefico per le imprese italiane rispetto, per esempio, a quelle tedesche.
Dall'Eurotower il settore bancario e industriale si aspetta di più, andare oltre gli strumenti convenzionali
perchè dalla crisi peggiore dal Dopoguerra ancora non ne siamo usciti: la sospensione della sterilizzazione
dei titoli del SMP (inietterebbe almeno 95 miliardi di liquidità extra nell'Eurozona), i depositi nell'Eurosistema a
tassi negativi, acquisti o garanzie di Bce o anche Bei per speciali ABS (che consentono alle banche di
cartolarizzare i prestiti alle imprese per liberare capitale e rilanciare gli impieghi a imprese e famiglie) sono
tutti interventi potenziali per abbattere il costo del denaro in Italia.
Anche i rilievi della Corte costituzionale tedesca, però, che mirano a spuntare la lancia delle OMTs quando
questa rischia di avere il doppio taglio della politica monetaria e dell'aiuto di Stato, in prospettiva dovranno
pesare sull'Italia. Perché sono l'ennesimo puntolo alla politica, a fare di più e meglio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA LA PAROLA CHIAVE Esm Esm è l'acronimo di European Stability
Mechanism (meccanismo europeo di stabilità). È lo strumento permanente di risoluzione delle crisi per i paesi
della zona euro. L'Esm emette strumenti di debito per finanziare prestiti e altre forme di assistenza finanziaria
a Stati membri dell'area dell'euro.
La decisione che ha portato alla creazione dell'Esm è stata presa dal Consiglio europeo nel dicembre 2010.
Gli Stati membri dell'area dell'euro hanno firmato un trattato intergovernativo che istituisce il meccanismo il 2
febbraio 2012. L'Esm è stato inaugurato l'8 ottobre 2012. // I titoli di Stato e il peso dell'Eurotower LA
DISTRIBUZIONE Dati in miliardi di euro al 31 ottobre 2013 LO STOCK IN MANO ALLE BANCHE % sul totale
degli asset 2008 2009 2010 2011 2012 2013 RISCHIO ITALIA SUL COSTO DEL CREDITO ALLE PMI Tassi
di interesse per prestiti tra 1 e 5 anni con importi inferiori a 1 milione di euro. Dati in % LE EMISSIONI Esclusi
BoT. Dati in miliardi di euro Banca d'Italia Banche Altre istituzioni Investitori Famiglie e imprese Italia Estero
Bce 99 416 377 173 598 95 1.759 Anno 2014 Anno 2013 TOTALE 0 12 2 10 8 6 4 Attesi 268 di cui emessi
34 Da rimborsare Fabbisogno 191 67 257 Da rimborsare Fabbisogno 155 102 2003 0 1 2 3 4 5 6 7 8 2005
2009 2011 2013 5,6% 23,7% 21,5% 9,8% 34,0% 5,4% Italia Eurozona Core Tasso BCE
Foto: - Fonte: Bce, Banca d'Italia, Rbs Credit strategy, UniCredit Research
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 77
L'INTERVISTA Gallia: «La bad bank non risolve il credit crunch» Alessandro Plateroti Alessandro Plateroti u pagina 21 Fabio Gallia, classe 1963, è amministratore Delegato e Direttore generale
di BNL, Country Head per l'Italia del Gruppo BNP Paribas, oltre che unico rappresentante italiano nel suo
Comitato Esecutivo. È inoltre membro del Comitato Esecutivo dell'Associazione bancaria italiana, della
Giunta di Assonime (Associazione fra le società per azioni), nonchè di altri board di aziende italiane di vari
settori. Per molti banchieri, una posizione di questo tipo è il punto di arrivo di un'intera carriera, visto che in
Italia gli amministratori delegati delle banche hanno in media 60 anni. Ma Gallia rappresenta una delle rare
eccezioni: a 50 anni, il manager di Alessandria non è solo tra i banchieri più giovani del sistema, ma è anche
considerato come tra i più promettenti a livello internazionale.
Forse anche per questa ragione, Gallia accetta di parlare della banca, dell'Italia e della rivoluzione in corso
nel sistema bancario europeo con estrema franchezza e la giusta dose di diplomazia. Afferma che la
situazione del nostro Paese è delicata ma raddrizzabile e che sull'attuale classe politica gravano enormi
responsabilità in questo senso. Condivide la necessità e l'urgenza di risolvere il nodo dei prestiti in sofferenza
che gravano sui bilanci delle banche, ma rifiuta l'idea di «operazioni di sistema» come la creazione di una
bad bank in cui far confluire i crediti inesigibili. Ammette che l'immagine e la reputazione delle grandi banche
sia stata danneggiata dalla crisi finanziaria e dalle inchieste sui derivati, ma poi aggiunge che dai sondaggi
effettuati di recente in Italia e all'estero la fiducia dei clienti nei confronti della propria banca sia ancora molto
forte e soprattutto in aumento.
Infine, Gallia ritiene che la ristrutturazione del sistema bancario italiano non sia ancora finita, ma chiama fuori
con decisione la Bnl e la Bnp da un ruolo-guida in questo processo e soprattutto da un'operazione tra le più
chiacchierate del momento: la cessione del Monte dei Paschi di Siena. «Se è questo che vuole sapere -
spiega Gallia - le rispondo che Bnl vuole crescere di più nel settore del retail, quello delle famiglie per capirci,
ma non lo farà con le acquisizioni. In altre parole, non compreremo Mps. Nel nostro piano industriale è scritto
che la banca crescerà su base organica migliorando la capacità di rispondere ai bisogni dei clienti, sfruttando
l'innovazione della banca digitale, investendo sulla promozione finanziaria e soprattutto sfruttando al
massimo le sinergie con le società del gruppo Bnp Paribas in Italia.
Il Forex è forse uno degli appuntamenti-chiave per misurare la pressione del sistema bancario italiano. Qual
è la sua impressione sullo stato di salute del sistema?
Siamo tutti ben consapevoli dei contraccolpi sul modo di far banca sia della recessione e delle crisi
finanziarie mondiali, sia delle conseguenti nuove regole di garanzia e di controllo. In una situazione di
incertezza e di grandi difficoltà globali, il mondo del credito non è né entità astratta, né variabile indipendente.
La salute del sistema bancario italiano è lo specchio della salute del Paese, delle sue famiglie e delle sua
imprese: senza crescita, il sistema si blocca e la crisi rischia di travolgere tutti. Ebbene, a mio avviso l'Italia ha
raggiunto il punto di svolta, il peggio è passato, ma non ha ancora iniziato una vera crescita.
A che cosa pensa esattamente?
In sei anni abbiamo perso nove punti di Pil; si tratta del secondo peggior risultato nell'arco di
centocinquant'anni. È andata peggio solo con la Seconda Guerra Mondiale. Soprattutto, in questi sei anni
abbiamo sviluppato un differenziale di crescita del Pil di quasi 12 punti con la Germania e di 10 con la
Francia. L'Italia ha ossigeno per iniziare la risalita, perché nonostante tutto siamo la seconda manifattura
europea, le famiglie non sono troppo indebitate e il Paese è ancora ricco. Sui fondamentali, dunque, ci siamo
ancora, ma servono subito riforme: in particolare è necessario una sorta di testo unico della competitività per
spingere rapidamente sui capitoli del lavoro e della semplificazione. C'è troppa burocrazia e un fisco
penalizzante: il cuneo fiscale va ridotto per sostenere i redditi delle famiglie e delle imprese. L'ideale sarebbe
agire in tempo per il semestre italiano di guida dell'Unione europea. L'Italia, è bene ricordarlo, ha già fatto un
08/02/2014 1Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 78
importante passo avanti annunciando la privatizzazione delle Poste e questo processo deve proseguire su
molti fronti, a cominciare dalle municipalizzate. Vorrei anche aggiungere che il nuovo sistema di intervento
sull'economia e sulle imprese creato dalla Cassa Depositi e Prestiti sta funzionando molto bene.
La nostra manifattura soffre. La sensazione, è che senza risposte immediate - da parte della politica ma
anche delle banche - sarà difficile fermare il processo di deindustrializzazione che rischia di metterci in
ginocchio.
La crisi di fiducia esiste, ma bisogna combatterla con il realismo. È vero che il Paese è in forte difficoltà, ma è
anche vero che la maggior parte delle imprese è riuscita a superare i momenti peggiori della crisi e l'Italia
resta uno dei grandi player tra i paesi industrializzati. Non solo. Se guardiamo avanti, il quadro è decisamente
migliore che in passato. Prendiamo il cosiddetto «tapering» della Fed, cioè la manovra di riduzione delle
liquidità messa in atto dalla banca centrale americana: ebbene, la riduzione degli stimoli ha spostato gran
parte della liquidità dall'Asia verso l'Europa e in parte anche verso l'Italia. Per noi si tratta di una grande
opportunità: con le giuste riforme strutturali, il Paese ha una grande occasione per attrarre capitali e investitori
che si erano allontanati con la crisi di fiducia e il peggioramento della nostra congiuntura. La Spagna, per
esempio, sta beneficiando delle riforme fatte.
Le imprese lamentano ancora la scarsa disponibilità di capitali bancari per lo sviluppo. Bnl è considerata
come una banca molto proiettata sul segmento corporate: qual è la situazione?
Il credit crunch c'è stato e le imprese hanno subito un doppio colpo: oltre alla contrazione del credito
bancario, hanno sofferto e soffrono per i mancati pagamenti della Pubblica Amministrazione. Per uscire dal
tunnel serve però anche l'impegno degli imprenditori. Servono più manager d'esperienza, servono maggiori
dimensioni e patrimonio, più internazionalizzazione e più ricorso al mercato dei capitali. Bisogna prendere
atto che il mercato bancario è cambiato, che le regole di Basilea 3 impongono comportamenti prudenziali. Noi
come banca abbiamo accompagnato e stiamo accompagnando tante imprese sia sull'emissione dei bond sia
sui collocamenti privati di azioni e adesso lavoriamo molto anche sui cosiddetti mini-bond, per i quali abbiamo
lanciato da poco un fondo specifico. Come banche, una delle nostre responsabilità è accompagnare le
imprese italiane che hanno i numeri per crescere verso un percorso che le renda più forti: più estero e più
mercato dei capitali.
Ma la situazione delle banche italiane appare spesso peggiore di quella dei concorrenti stranieri...
Sull'attività bancaria incidono tre grandi forze: l'economia, le regole e la tecnologia. Ebbene, almeno sui primi
due fronti, le banche italiane soffrono più di altre. L'importante è non percepirsi sempre come i peggiori: sono
convinto per esempio che al termine della verifica patrimoniale europea e delle ricapitalizzazioni che si
renderanno eventualmente necessarie, il sistema bancario che emergerà nel 2015 avrà le carte in regola per
competere alla pari con gli altri e accompagnare la crescita del Paese.
Sappiamo però che le banche italiane sono schiacciate dall'enorme quantità di crediti in sofferenza che
hanno nei bilanci...
È vero. Le sofferenze sono un problema che va affrontato con urgenza. Ma per risolverlo non servono
necessariamente le operazioni di sistema, come l'idea della bad bank. Noi lavoriamo per migliorare l'efficacia
dell'azione di recupero dei crediti deteriorati e contiamo su un accresciuto interesse degli investitori
specializzati per una migliore valorizzazione. Per quanto ci riguarda, eroghiamo più di quello che
raccogliamo: un segnale che il nostro azionista Bnp Paribas crede nelle prospettive di medio-lungo termine
del Paese, così come mantiene in portafogli titoli di Stato di quello che è il secondo mercato domestico del
gruppo Bnp-Paribas. In questi anni abbiamo aumentato quote di mercato sugli impieghi, anche con il mercato
corporate; adesso l'obiettivo è crescere concentrandoci sulle imprese che vanno bene, anche grazie a una
serie di servizi che in gruppo può mettere loro a disposizione. Detto questo, sono convinto che il sistema
bancario si rafforzerà tanto più quanto il sistema-Italia nel suo insieme saprà riformarsi e rimettersi sui binari
della crescita. La crescita è la chiave di tutto.
08/02/2014 1Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 79
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Parola di manager IL DOSSIER MPS « È vero che Bnl vuole crescere di più nel settore del retail ma non lo
farà con le acquisizioni: in altre parole, non compreremo Mps»
IL RILANCIO «Serve una sorta di testo unico della competitività: bisogna intervenire subito sul cuneo fiscale
per sostenere i redditi di famiglie e imprese»
Foto: Banchiere. Fabio Gallia, amministratore delegato e direttore generale di Bnl
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 80
L'ANALISI Se cresce il «partito» di una Bce in stile Fed Isabella
Bufacchi Il rendimento dei BTp è calato ieri in risposta alla decisione della Corte tedesca di riconoscere alla
Corte europea il potere dell'ultima parola sulle OMTs. C'è di positivo in questo che il mercato, da un punto di
vista formale e sostanziale, non teme più come prima l'effetto-mannaia della sentenza della Corte tedesca in
questo ambito. La reazione a caldo dei mercati, che ha migliorato lo spread BTp-Bund, ha scontato anche la
scommessa di una Corte europea meglio disposta, rispetto a quella tedesca, nei confronti del famoso
bazooka che è riuscito a risollevare le fortune dell'euro solo perchè i mercati si sono convinti non sia caricato
a salve.
Fin qui tutto bene. Ma dare per scontato che le decisioni di ieri non possano avere alcuno strascico
destabilizzante, alcun impatto negativo in prospettiva sarebbe semplicistico, riduttivo. Se non altro perchè la
crisi dell'euro ci ha abituati ai colpi di scena e ai cambiamenti di umore repentini degli investitori: l'euro è una
moneta talmente giovane che per affermarsi è costretta a camminare sul filo del rasoio. E paga cari gli errori,
anche minimi.
Non andranno sottovalutati, quindi, i malumori che comunque fin da ieri hanno rabbuiato gli animi di chi ha
pesato e soppesato i rilievi della Corte.
Le OMTs non per tutti escono rafforzate da quanto accaduto ieri: i tempi di una soluzione definitiva si
allungano e come noto i mercati sono messi a disagio dall'incertezza. Il "dossier" delle OMTs resta dunque
aperto forse per altri otto mesi ed esposto al dibattito che la Corte tedesca non mancherà di infervorare.
Nel caso anche di un solo nuovo paletto tedesco accolto dalla Corte europea, le OMTs così come sono ora
ne uscirebbero indebolite. Ma i mercati stessi hanno la soluzione nel loro cassetto: se le OMTs dovessero
essere smontate, allentate, depotenziate, la politica del "whatever it takes" ne sfornerebbe delle nuove.
C'è chi ieri ha letto nelle pieghe del documento tedesco una presa di posizione preventiva, un mettere le
mani avanti per stroncare sul nascere il dibattito sulla necessità del QE all'europea: perchè sta crescendo il
partito di chi vede bene una Bce impegnata nel quantitative easing stile Federal Reserve, con acquisti di titoli
di Stato in euro ripartiti in base alla partecipazione dei 18 al capitale della Bce. Paradossalmente, tanto più la
Corte tedesca minerà le OMTs e dunque la stabilità dell'euro, tanto più darà voce e corda a chi vorrebbe il
quantitative easing nella cassetta degli attrezzi di Eurotower. Per Draghi la strada dell'acquisto di titoli di Stato
sul secondario, per quanto tollerata dallo statuto ai fini della politica monetaria, resta tutta in salita: ma non è
chiusa.
@isa_bufacchi
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 81
L'ANALISI Le misure tampone e le esigenze del Paese Paolo
Bricco
«Adelante, Pedro, si puedes». E, ancora, «adelante, presto, con juicio». Nel tredicesimo capitolo dei
Promessi Sposi, il Cancelliere Ferrer riesce a fendere la folla con un abile gioco diplomatico. Mostra un volto
disponibile a quasi pacioso ai dimostranti in tumulto. Invita il suo cocchiere, Pedro, a muoversi con rapidità,
ma anche con prudenza. Lo stesso atteggiamento ultrarealistico, mentre il rischio della deindustrializzazione
assume il profilo sociale ed emotivo di una sorta di moderno assalto ai forni, va posto nei confronti delle crisi
in corso nel nostro Paese. Electrolux e Ilva. Electrolux ha fatto una apertura di gioco violentissima,
paventando l'adozione di salari polacchi per non chiudere Porcìa. Adesso, incassato tutto quello che poteva
incassare dal Governo centrale e dalle istituzioni locali, riapre la partita con una mossa altrettanto
spregiudicata, usando l'espressione - sibillana ma portatrice di una ventata di ottimismo - di «un piano
industriale», addirittura «con investimenti». Ora, l'auspicio è che si chiarisca il quanto, in cambio del cosa.
Quanto la mano pubblica italiana deve trasferire nelle casse della Electrolux. In cambio di quali investimenti a
Porcìa e negli altri insediamenti italiani. Adesso il pericolo è che, allo shock dell'annunciata chiusura e allo
sventolio del cartellino rosso di un costo del lavoro polacco che butterebbe fuori dal campo di gioco della
manifattura la squadra (ogni squadra) italiana, prenda forma un clima di eccitazione e di gaudio non del tutto
motivato. Vedremo che cosa, in concreto, succederà nei prossimi giorni: quanto (la pecunia) e che cosa (il
numero dei posti di lavoro salvati). Dunque, con juicio. L'atteggiamento del Cancelliere Ferrer, in questa Italia
che nell'economia rischia di essere segnata da una minorità assimilabile a quella politica dell'Italia
manzoniana del Seicento, è utile anche per l'Ilva. La conclusione dell'iter regolatorio - con l'approvazione
della legge - non deve provocare una caduta di tensione. Adelante. Ora serve una rapida - prima possibile -
definizione del piano ambientale. A cui seguirà il piano industriale. A quel punto si dovrebbe tenere una
assemblea straordinaria per un aumento di capitale necessario, data la fragilità patrimoniale e lo stress della
finanza dell'Ilva. I suoi tessuti industriali si stanno allentando. La sua fisiologia finanziaria è in piena
sofferenza. A Taranto, ma anche a Cornigliano. Non si pensi, dunque, che il problema dell'Ilva sia risolto. Si
pensi, invece, che occorre accelerare: a partire dalla rapidità con cui vedrà la luce il piano ambientale. In
questo momento, per evitare che succeda qualcosa di molto brutto nel tessuto industriale italiano, occorre
l'arguta prudenza di Ferrer e la rapidità del cocchiere Pedro.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 82
Il coraggio di «garantire» il rilancio delle imprese Marco Fortis Al Forex 2014 due temi hanno tenuto banco: quello dei crediti deteriorati delle banche e quello delle difficoltà
di accesso al credito delle piccole e medie imprese che operano prevalentemente sul mercato domestico,
maggiormente colpito dalla crisi rispetto al più dinamico e relativamente soddisfacente mercato dell'export.
Abbiamo scritto qualche giorno fa che chi esporta ha successo o quantomeno sopravvive, mentre chi è più
concentrato sul mercato interno a causa delle sue piccole dimensioni o per la natura del suo business (ad
esempio le costruzioni e molti settori del commercio), o per entrambi i fattori, è in grandissime difficoltà. Se
dal fatidico ottobre del 2008, cioè da quando è scoppiata la crisi finanziaria mondiale, a tutto il mese di
novembre del 2013, il fatturato dell'industria manifatturiera italiana è crollato di oltre il 16% mentre quello degli
altri maggiori Paesi Ue è tornato ai livelli pre-crisi (Germania e Uk) o è addirittura leggermente cresciuto
(Francia), c'è una ragione precisa. Non è dipeso dal fatto che l'Italia sia stata invasa da prodotti stranieri
essendo i nostri diventati improvvisamente meno competitivi. Infatti, anche l'import è precipitato e assai di più
di molti beni di produzione nazionale.
La ragione del crollo del fatturato domestico, che fino alla primavera del 2011 si stava in realtà riprendendo
allo stesso ritmo di quello degli altri principali Paesi, è da ricercarsi esclusivamente nella ricetta di austerità
che l'Europa ha brutalmente imposto anche all'Italia, oltre che a economie obiettivamente "scassate" come
Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. Poco importa che l'Italia fosse stata nel 2010 uno dei soli 4 Paesi Ue in
avanzo statale primario (con Svezia, Estonia e Malta), che il debito pubblico italiano fosse stato tra quelli
cresciuti di meno al mondo dall'inizio della crisi e che, sempre nel 2010, il nostro Pil, al netto della spesa
pubblica, fosse aumentato ben più di quello di varie altre economie importanti, come Francia, Gran Bretagna
e Olanda.
A metà 2011, con questi dati ufficialmente certificati dall'Eurostat (anche se forse non del tutto noti a mercati,
agenzie di rating e istituzioni internazionali), pagammo le conseguenze degli scandali, della confusione e
della perdita di credibilità della nostra "politica", più che la debolezza dei "fondamentali": ormai è storia.
Ma la storia purtroppo ha fatto il suo corso ed avuto le sue conseguenze drammatiche sull'economia reale.
Senza esserci potuti risollevare come gli altri principali Paesi, in quel 2011 anziché continuare a crescere
come stavamo facendo dopo il temporaneo collasso del commercio mondiale del 2009, ricominciammo a
cadere e il Pil fu ulteriormente trascinato verso il basso. Questa volta non per colpa dell'export, che anzi dal
2010 in poi non ha mai smesso di crescere, ma degli effetti devastanti della "cura" europea, cioè una paralisi
degli investimenti e soprattutto un calo dei consumi privati da "tempi di guerra". Nella svolta negativa del
2011, sta tutta la differenza tra una crisi che avrebbe potuto guarire in 3-4 anni e che invece si è protratta per
6, perché anche questo 2014, va sottolineato, sarà un anno ancora molto debole.
Applicare a un Paese forte produttore ed esportatore come l'Italia e con una base industriale composta da
decine di migliaia di Pmi la stessa "cura" di austerità richiesta a Paesi tendenzialmente importatori come
Grecia o Spagna non è stato intelligente da parte di Bruxelles. Innanzitutto, perché menomando la capacità
produttiva italiana si è menomata la stessa base competitiva dell'Europa nel contesto globale e in più si è
generata una micidiale frenata a livello di scambi intracomunitari. E poi perché così facendo la crisi italiana è
stata drammaticamente resa più complicata anziché risolta. In 6 anni di agonia è andato soprattutto in tilt un
universo di relazioni e di pagamenti tra le stesse imprese, oltre che tra Stato e imprese. I crediti deteriorati
sono aumentati in notevole misura e l'erogazione del credito, specie alle Pmi, si è fatta sempre più difficile.
Per queste ragioni ieri al Forex il convitato di pietra era la paralisi della domanda interna con tutte le sue
implicazioni devastanti su imprese e banche, non solo nel nostro Paese ma nell'intera Europa.
Opportunamente il Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco ha sottolineato l'importanza della nostra
ritrovata credibilità, che «potrà consentire al Paese di utilizzare i margini di flessibilità previsti dalle regole
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 83
europee per finanziare investimenti pubblici». Inoltre, Visco ha sottolineato l'importanza della riduzione del
carico fiscale sui fattori della produzione, accompagnata da tagli selettivi di spesa che riducano gli sprechi e
da interventi volti a rendere più efficiente l'amministrazione pubblica. Ed ha richiamato la necessità di puntare
di più sull'innovazione e le nuove tecnologie per accrescere la competitività complessiva del sistema. In
aggiunta, affrontando il tema dei crediti deteriorati e l'ipotesi di una possibile bad bank, Visco ha detto che
«interventi più ambiziosi, da valutare anche nella loro compatibilità con l'ordinamento europeo, non sono da
escludere».
Ma la vera svolta per far ripartire l'economia, la cui parte più sofferente sono proprio le Pmi dell'industria e
del commercio maggiormente coinvolte dalla caduta della domanda interna, può venire solo riannodando i fili
lacerati della fiducia e del credito. A tal fine, è stata rilanciata ieri da alcuni partecipanti al Forex l'ipotesi di un
potenziamento del Fondo di Garanzia.
L'erogazione del credito alle Pmi e il rafforzamento della loro base patrimoniale sono aspetti cruciali che
vedono intersecarsi i ruoli di tre attori chiave: Fondo di Garanzia (che già nel 2013 ha accolto oltre 77mila
domande di Pmi per un importo di 10,8 miliardi di cui 6,4 garantiti), Confidi e Fondo di Sviluppo Italiano. Il
Fondo di Garanzia non deve essere solo rifinanziato ma ampliato. Inoltre, si dovrebbe ipotizzare un maggior
coinvolgimento diretto delle banche nel capitale dei Confidi per elevare la quota garantita dei finanziamenti. Il
potenziale conflitto di interesse si può superare considerando le banche alla stregua di un semplice socio di
capitale, minoritario rispetto agli altri soci e, comunque, privo di ruoli esecutivi (come avviene in altri Paesi).
Occorrerebbe poi prevedere una garanzia dello Stato in misura da definire pure finalizzata all'obiettivo di
potenziare, indirettamente, il patrimonio di riferimento dei Confidi, affinché possano assicurare alle imprese
un sostegno ancora più importante. Ed anche il Fondo di Sviluppo andrebbe dotato di maggiori risorse.
In vista del prossimo semestre europeo, non è ancora ben chiaro quali siano gli intendimenti del nostro
Governo riguardo alle possibili azioni da porre sul tavolo di discussione per passare finalmente dalla sola
austerità alla combinazione più intelligente di rigore e crescita. Il nostro Paese non può pretendere la luna
rispetto ai vincoli europei ma ha le carte in regola per avanzare proposte ragionevoli ed accettabili sulla
crescita perché ha fatto i "compiti a casa" più di tutte le altre economie, come prova un avanzo statale
primario 2013 previsto in 36 miliardi di euro. Roma, ad esempio, potrebbe chiedere a Bruxelles di poter
scomputare dal calcolo degli obiettivi programmati di deficit/Pil pochi ma importanti miliardi da destinare al
triplice potenziamento di Fondo di Garanzia, Confidi e Fondo di Sviluppo. Non sarebbe chiedere troppo visto
che alla Spagna, che pure a fine 2013 ha presentato un disavanzo statale primario simmetrico al nostro di
ben 34 miliardi, sono stati erogati senza batter ciglio oltre 40 miliardi di euro per salvare le sue banche e
rimettere in moto il suo sistema creditizio. Ovviamente Madrid non si è posta problemi di orgoglio nazionale a
chiedere questi soldi e ad assoggettarsi alle condizioni europee.
La nostra richiesta a Bruxelles per rilanciare il credito alle
Pmi sarebbe di gran lunga
più modesta.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 84
Il big siderurgico franco-indiano apre il dossier per entrare nel gruppo controllato dai Riva Ilva, interesse di ArcelorMittal Bricco e Palmiotti Arcelor-Mittal studia il dossier Ilva. Il big siderurgico franco-indiano valuta la possibilità di intervenire nel
capitale del gruppo controllato dai Riva. La preferenza va a un'operazione amichevole con gli imprenditori
italiani, già contattati l'anno scorso.
u pagina 17
Commento u pagina 14
Paolo Bricco
MILANO
ArcelorMittal ha allo studio il dossier Ilva.
Secondo più fonti interpellate dal Sole 24 Ore, la multinazionale franco-indiana starebbe valutando la
possibilità di intervenire nel capitale del gruppo siderurgico italiano. Già l'anno scorso alcuni emissari si erano
mossi per contattare la famiglia Riva, che però aveva fatto cadere ogni abboccamento.
Adesso, che il quadro regolatorio è ormai definito con la trasformazione in legge del decreto sull'Ilva e con
una ritrovata centralità della famiglia Riva dopo il dissequestro dei suoi beni da parte della Cassazione, la
multinazionale avrebbe deciso di tornare a guardare con rinnovata attenzione dentro al gruppo che ha
nell'acciaieria di Taranto il suo perno. Anche perché la road map appare chiara: entro il 28 febbraio dovrebbe
vedere la luce il piano ambientale, a cui seguirà il piano industriale redatto dal commissario Enrico Bondi
secondo una impostazione basata sulla riconversione al metano. A quel punto, serviranno i soldi. Il conto è
già stato fatto. Dei tre miliardi che servono per realizzare i due piani, che sono perfettamente integrati, le
banche ne metteranno 2,3 (1,7 per gli investimenti, 600 milioni per il circolante). Per intervenire in maniera
tanto rilevante, gli istituti di credito si aspettano però che altri 700 milioni provengano dagli azionisti. Chiunque
essi siano.
Prima di entrare nel merito con la famiglia Riva, ArcelorMittal avrebbe iniziato a fare filtrare in ambienti
governativi la disponibilità ad aprire il dossier Ilva, sottolineando con astuzia la caratura anche europea - per
quanto la componente indiana sia prevalente - di una operazione di questo genere. L'operazione avrebbe un
carattere amichevole. Nel senso che i franco-indiani preferirebbero entrare nella società rilevando una parte o
tutto il pacchetto della famiglia lombarda prima che si tenga l'assemblea straordinaria in cui il commissario
Bondi dovrebbe lanciare l'aumento di capitale.
L'interesse per l'Ilva, però, è tale da fare presumere che, in caso di diniego da parte della famiglia lombarda,
il gruppo franco-indiano potrebbe comunque pensare di aderire a un ipotetico aumento di capitale. Secondo
quanto risulta al Sole 24 Ore, la ratio strategica di ArcelorMittal sarebbe infatti quella di impedire, con una
relativa rapidità, che l'Ilva si trasformi in una porta di accesso all'Europa per i colossi cinesi e russi, che
nonostante la complessa rimodulazione del mercato internazionale dell'acciaio restano fra i pochi ad avere la
forza finanziaria per provare uno sbarco in grande stile in quella che, pur segnata da mille acciacchi, resta la
maggiore area manifatturiera del mondo. E Taranto potrebbe proprio servire a questo.
Nessuno ha la sfera di cristallo. Dunque, vedremo che cosa capiterà nelle prossime settimane. Intanto, però,
il fatto che un operatore credibile e ultra-strutturato come ArcelorMittal abbia incominciato a muoversi
informalmente mostra come il dramma dell'Ilva - giudiziario e industriale - non sia arrivato al punto di non
ritorno di tenere lontano dal dossier potenziali investitori. Non è poca cosa, soprattutto dopo che agli
abboccamenti avuti l'anno scorso non solo con ArcelorMittal ma anche con i brasiliani di Vale da parte dei
Riva, era seguito un periodo di lungo silenzio. Che, poi, l'interesse si tramuti davvero in una offerta diretta ai
Riva o nella disponibilità a partecipare all'aumento di capitale straordinario, questo è tutta un'altra cosa.
In ogni caso, ora che il quadro regolatorio appare più nitido e ora che i Riva sono tornati nella piena
disponibilità dei loro beni, non stupisce che grandi gruppi inizino a studiare - in maniera operativa - il dossier,
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 85
che ha come perno la maggiore acciaieria europea. Una grande fabbrica che, al di là dei problemi ambientali
che verranno risolti con l'applicazione dell'Aia e al netto di ogni ipotesi di riconversione al metano, già con la
gestione Riva aveva livelli di produttività puramente industriale più alti rispetto agli standard europei, una
spanna sopra a quelli tedeschi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA La produzione di acciaio nelmondo Dati in milioni di tonnellate e variazione
% 2013 su 2012 = Variazione % MESSICO +1,8% USA -2,0% 87,0 18,4 BRASILE -1,0% 34,2 FRANCIA
+0,5% ITALIA -11,7% 24,1 42,6 GERMANIA 0,0% TURCHIA -3,4% 34,7 RUSSIA -1,5% UCRAINA -0,5%
IRAN +6,6% 69,4 110,6 779,0 CINA +7,5% 66,0 81,2 22,3 32,8 15,4 INDIA +5,1% TAIWAN +8,0% SUD
COREA -4,4% GIAPPONE +3,1% 3 13 9 14 7 10 11 8 15 1 4 5 6 12 2
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 86
La tavola rotonda. Il coro unanime: indispensabile un'inversione di rotta per uscire dalle secche della crisi Il piano piace a banche e imprese Moretti (Fs): va ritrovata la capacità di innovare e creare competenze Ghizzoni (UniCredit): soluzione giàadottata in altri Paesi europei In altri Stati, come la Germania, il «volàno» dei prestiti è una soluzione cheviene già utilizzata in maniera massiccia Luca Davi ROMA. Dal nostro inviato
L'ipotesi di lanciare un fondo di garanzia pubblico-privato per il sostegno finanziario alle piccole e medie
imprese piace ai banchieri italiani e agli imprenditori italiani. Piace perché libera risorse utili al sistema
bancario, in una fase in cui i capitali sono indispensabili per il rafforzamento patrimoniale degli istituti. Ma
piace anche perché, nel contempo, fa affluire alle imprese più piccole quella liquidità che altrimenti
difficilmente potrebbe arrivare, vista la maggiore rischiosità di questi impieghi. «Sono decisamente favorevole
ad andare nella direzione di un fondo centrale di garanzia», spiega l'ad di UniCredit Federico Ghizzoni nel
corso della tavola rotonda "Italia/Europa, credito impossibile: é vero o no?", moderata da Roberto
Napoletano, direttore del Sole 24 Ore.
Ghizzoni ricorda che il fondo di garanzia statale è una soluzione già adottata anche «in altri Paesi, come la
Germania, dove é utilizzata massicciamente». Ma in prospettiva il volàno dei prestiti potrebbe assumere
dimensioni ancor più significative se, come prospettato ieri dal presidente di Bnl Luigi Abete nel corso del
congresso AssiomForex, si creasse un nuovo veicolo attraverso una partnership pubblica-privata. Ghizzoni fa
un esempio operativo: ogni 100 euro di credito, il fondo di garanzia può accollarsi la metà del rischio. Di fatto,
secondo il manager di UniCredit, «con un aumento di 2-3 miliardi possono essere attivate garanzie fino a una
cinquantina di miliardi» e questo significa che «con un costo minimo, si consentirebbe al sistema bancario di
erogare di più». Senza contare che questo meccanismo «non impatta sui costi dello Stato, perché non fa
parte del debito pubblico: lo diventa solo quando il cliente é insolvente».
Favorevole all'idea anche Fabio Gallia, amministratore delegato di Bnl, che sottolinea come «dopo 6 anni
tremendi in cui abbiamo visto un crunch di credito, di crescita e di pagamenti» ora ci troviamo con un
segmento del sistema delle Pmi che «é in grado di sfruttare delle misure intelligenti» per il rilancio e la
crescita. Il riferimento è appunto al Fondo centrale di garanzia, una delle tante misure che devono essere
«prese subito». Anche perché, è il ragionamento, «non hanno un impatto importante in termini di costi per lo
Stato».
La sintonia tra i due banchieri si avverte però anche quando si parla dell'indispensabile inversione di rotta
che il sistema Italia deve mettere in atto per abbandonare le secche della crisi. Si può guardare con fiducia al
futuro del paese, a patto però di riconoscere, come concordano i partecipanti alla tavola rotonda, che le ferite
lasciate dalla crisi sono profonde.
Guardare in faccia la realtà significa ammettere ad esempio che «il mercato delle imprese è spaccato in due
- aggiunge Ghizzoni - da una parte le aziende che stanno uscendo vincitrici», mentre dall'altra ci sono le
imprese «che non hanno una situazione patrimoniale robusta. A queste aziende, per diversi fattori, le banche
non potranno più erogare credito come prima». Perché è vero che «si può fare credito in Italia», dice il
banchiere. Ma solo se lo si fa «in maniera diversa rispetto al passato». Bisogna insomma essere «selettivi»,
visto che in passato «si è dato credito ad aziende che hanno distrutto valore», anziché crearlo. E per riuscirci
bisogna conoscere bene le aziende: «Una delle cose che faccio tutti i giorni è controllare il numero delle visite
che i miei colleghi fanno ai clienti», sottolinea Ghizzoni. Che aggiunge che la vera sfida delle banche italiane
sarà quella della «profittabilità», da raggiungere anche tramite un «aumento dei ricavi». Ma anche di «un
costo del rischio che va abbattuto», complice la mole di crediti incagliati.
Guardare in faccia la realtà, aggiunge Mauro Moretti, amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, vuol
dire ammettere anche che «per anni l'intero sistema è stato drogato» da un «grande debito diffuso», che ha
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 87
generato un sistema inefficiente che «ha scialacquato risorse pubbliche e private». Ma vuol dire pure
riconoscere che oggi «siamo affogati in un eccesso di burocrazia» che impedisce alle nostre città di «avere
infrastrutture moderne» al livello delle metropoli europee.
La soluzione? Canalizzare «le poche risorse disponibili evidenziando tutte le buone opportunità di
investimenti che in questo paese ci sono», dice Moretti. Non bisogna, in sostanza, mettere «a nudo
solamente i punti di difficoltà» per i quali «nessuno verrà a finanziare». Ma poi bisogna innovare, fare cose
belle che funzionano e che piacciono. Secondo Moretti, va «ritrovata la capacità di innovare e creare
competenze». Un pensiero comune a quello di Brunello Cucinelli, patron dell'omonimo marchio di moda,
secondo cui «il mondo è affascinato dall'Italia, dalla nostra abilità nel saper creare manufatti di grande
qualità».
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MODELLI HANNO DETTO Federico Ghizzoni
Amministratore delegato UniCredit Il fondo di garanzia a sostegno delle banche che intendono erogare credito alle Pmi è una soluzione
interessante»
Mauro Moretti
Amministratore delegato di Fs «Dobbiamo canalizzare le poche risorse disponibili evidenziando tutte le buone opportunità di investimenti
che in questo Paese ci sono»
Fabio Gallia
Amministratore delegato di Bnl «Dopo sei anni tremendi , ora ci troviamo con un segmento del sistema delle Pmi che è in grado di sfruttare
delle misure intelligenti»
Brunello Cucinelli
Patron del gruppo del cashmere «I fondi esteri vengono in Italia perché qui c'è la qualità. Noi vogliamo continuare a fare il nostro lavoro»
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Banche e imprese LA RELAZIONE DEL GOVERNATORE DI BANKITALIA Visco: «Una bad bank di sistema» «Il settore finanziario riguadagni fiducia» - Saccomanni: sostenere l'economia reale RIVALUTAZIONEQUOTE «L'aumento di capitale di migliore qualità contribuirà a sostenere l'offerta di credito» LA POLEMICAPOLITICA «Rimuovere la percezione negativa sulle banche con decisi miglioramenti sulla governance» Rossella Bocciarelli ROMA
Per dare tono a una ripresa ancora debole e incerta le banche devono dimostrare di saper fare le banche e
non far mancare il loro sostegno all'economia ed è altrettanto necessario che il sistema finanziario riguadagni
fiducia. In questo quadro «non sono da escludere» anche interventi più ampi di quelli attualmente in cantiere,
per gestire in modo efficiente incagli e sofferenze bancarie e liberare così risorse per finanziare il sistema
produttivo. È un messaggio articolato, quello recapitato ieri dal governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco
alla platea di banchieri venuti ad ascoltarlo alla riunione Forex di Roma. Un messaggio che contiene una
cauta apertura al tema della bad bank, insieme all'invito alla coerenza nei comportamenti: «Il sistema
finanziario deve riguadagnare, anche da noi, la fiducia del pubblico, erosa dagli eccessi che, generati
soprattutto in altri paesi, hanno portato a una crisi globale dai costi enormi. Deve dimostrare di saper svolgere
appieno la sua funzione» ha affermato ieri il numero uno di via Nazionale. Poi, con un accenno implicito alle
polemiche politico-parlamentari delle scorse settimane, Visco ha spiegato: «È importante che la percezione
negativa sull'operato delle banche non porti a reazioni sproporzionate: bisogna agire per rimuoverla, con
decisi miglioramenti nella governance, con un'intermediazione sana e prudente e facendo sì che non manchi
il finanziamento a chi lo merita e partecipa al rischio». Un'esortazione, quella a svolgere fino in fondo la
propria parte, contenuta anche nel messaggio indirizzato dal ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni,
agli operatori del Forex: «Resta viva l'esigenza di orientare i mercati finanziari ad obiettivi di stabilità e di
sostegno forte all'economia reale e all'investimento produttivo», ha rimarcato il ministro. Ieri, del resto, il
governatore ha ricordato che le difficoltà di accesso al credito sono uno dei tre elementi di rischio che
continuano a gravare sulle prospettive della ripresa: gli altri due sono rappresentati da un'inflazione che resti
a lungo al di sotto del 2 per cento, aspetto «non desiderabile» per la politica monetaria europea secondo il
banchiere centrale italiano, e la perdurante instabilità finanziaria, che al nostro Paese impone di tenere la
guardia alta sul fronte della politica di bilancio.
Sul primo punto, Visco ha ricordato che il calo dei prestiti alle imprese italiane è stato pari a oltre il 9 per
cento negli ultimi due anni e che anche ora la domanda di credito è debole e le tensioni sul lato dell'offerta
stentano a ridursi. Queste ultime si devono soprattutto al peso accresciuto dei prestiti deteriorati nei bilanci
delle banche. «Il tasso di ingresso in sofferenza ha smesso di crescere dal terzo trimestre del 2013», ha detto
Visco. Per effetto della lunga recessione, però, il rapporto fra crediti in sofferenza e il totale dei prestiti ha
raggiunto il 9,1 per cento e per i prestiti alle imprese questo rapporto è arrivato al 13 per cento. Visco ha poi
spiegato che finora in Italia il mercato privato degli attivi deteriorati è rimasto poco sviluppato, lasciando
intendere che proprio l'arrivo della ripresa potrebbe invece consentirne la crescita .«Vanno nella giusta
direzione», ha scandito, gli interventi di razionalizzazione dei non performing loans già in corso presso alcune
banche, perché permettono di aumentare la trasparenza degli attivi. Infine, ha detto che «interventi più
ambiziosi, da valutare anche nella loro compatibilità con l'ordinamento europeo, non sono da escludere,
possono consentire di liberare, a costi contenuti, risorse da utilizzare per il finanziamento dell'economia». Nel
suo intervento, il responsabile di Palazzo Koch ha accennato anche alla legge che permette la rivalutazione
del capitale sociale di Bankitalia: «L'aumento del capitale di migliore qualità che ne consegue per le banche
partecipanti - ha detto - pur non potendo essere considerato ai fini dell'esame della qualità degli attivi in corso
nell'area dell'euro, contribuirà a sostenere l'offerta di credito».
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 89
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Le strade battute oltreconfine
SAREB La ricetta scelta dal governo di Madrid
Il caso più noto è sicuramente la bad bank spagnola, la Sareb (Sociedad de Gestión de Activos procedentes
de la Reestructuración Bancaria), creata dal governo di Madrid nel maggio 2012 con il compito di raccogliere
i crediti in stato di insolvenza delle banche, sostenute con capitali pubblici, e di gestire la cessione di tale attivi
nell'arco di quindici anni. A dicembre 2012, la Sareb ha quindi avviato la rimozione dei crediti delle quattro
banche che avevano già ricevuto aiuti pubblici.
NAMA La soluzione irlandese
La Nama (National Asset Management Agency), la bad bank irlandese, è stata istituita nel 2009 nell'ambito
del piano di rilancio del settore bancario messo a punto dal governo di Dublino dopo il crollo del mercato
immobiliare. Già l'anno dopo, l'istituto ha cominciato a intervenire acquisendo una prima tranche di 1.200
crediti inesigibili delle banche in difficoltà per un valore nominale di 16 miliardi di euro, a un prezzo però molto
scontato (8,5 miliardi).
SPECIALE FOREX 2014 L'appello di Saccomanni
Il ministro sprona la finanza a unire le forze con la politica per dare sostegno all'economia reale: «Le
turbolenze valutarie sono ormai un ricordo del passato ma resta viva l'esigenza di orientare i mercati
finanziari su obiettivi di stabilità e di sostegno forte all'economia reale e all'investimento produttivo»
Patuelli, presidente Abi
Il rallentamento delle sofferenze registrato negli ultimi mesi, e rilevato dal governatore di Banca d'Italia
potrebbe agevolare la ripartenza del mercato del credito nel corso del 2014. «Sarà molto importante vedere il
risultato dell'asset quality review e degli stress test»
Gros Pietro ( Intesa SanPaolo)
Il presidente del consiglio di gestione di Intesa SanPaolo:
«Dal governatore della Banca d'Italia, è arrivato «anche un incoraggiamento a ricercare soluzioni per gestire
i crediti problematici in modo da liberare le risorse per il finanziamento dell'economia»
Foto: Credito. Il Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 90
Banche e imprese L'ECONOMIA Squinzi: «Siamo terrorizzati dal trend dell'economia reale» «Preoccupa in particolare la situazione al Nord, agire in fretta» Nicoletta Picchio ROMA
«Siamo preoccupati, terrorizzati dall'andamento dell'economia reale nel paese e in particolare del Nord».
Giorgio Squinzi lancia un nuovo grido d'allarme sulla situazione del paese. E torna ad incalzare il governo
sull'urgenza di misure per la crescita: vanno fatte, e «in fretta», ha detto il presidente di Confindustria,
«perché non ho mai visto politiche e strategie costruite su macerie cercate con cura, quasi con ostinazione».
C'è in gioco la «sopravvivenza» del paese. «Nei prossimi mesi qui, in pianura padana, lungo l'asse del Po o
lungo l'asse della via Emilia, si gioca la partita per essere ancora il secondo paese manifatturiero d'Europa».
È esplicito Squinzi nel descrivere la situazione grave dell'economia italiana, mentre parla al convegno della
Fondazione Tempi "Far ripartire il Nord per fare ripartire l'Italia", a Sesto San Giovanni, una delle città simbolo
del manifatturiero. «La questione settentrionale - che Squinzi ha sollevato già nel suo primo discorso da
presidente di Confindustria - è la sindrome del motore che comincia a battere in testa in una macchina ancora
funzionante e potenzialmente sana». Dall'inizio della crisi, nel 2008, a oggi i problemi che le aziende devono
affrontare «sono ancora lì». Se qualche piccola risposta c'è stata, «purtroppo è stata solo parziale e
contingente». Eppure le imprese, ha continuato il presidente di Confindustria, chiedono cose semplici, che
«dovrebbero essere quasi scontate», ed invece «sembra impossibile ottenere». Una burocrazia non
asfissiante, un fisco non invasivo, un costo del lavoro al livello degli altri paesi industrializzati, infrastrutture
«degne del secondo paese manifatturiero d'Europa», un costo del denaro accessibile per finanziare gli
investimenti, giustizia in tempi rapidi, una digitalizzazione all'altezza dei nostri paesi competitori. «Si chiedono
le riforme strutturali in grado di liberare forza e potenzialità delle imprese».
Ma, ci tiene a precisare Squinzi, «non è la lista della spesa di un sistema produttivo che ha rinunciato a
rimboccarsi le maniche». È «il grido di soccorso di chi vuole continuare a lavorare e ne è impedito, vuole
operare per il benessere del paese. Prova inoppugnabile è chiedere ai tanti gruppi esteri che vorrebbero
investire in Italia perché esitano». Dal 2008 la manifattura ha perso il 25% della produzione, i dati raramente
sono positivi in misura sostanziosa. Ma è anche vero che esistono settori con segnali di vitalità: le macchine
di imballaggio per esempio sono un caso di eccellenza, hanno chiuso il 2013 superando i 4,5 miliardi di
fatturato, con un export superiore al 90% e un terzo della produzione mondiale. Ce ne sono altri,
dall'alimentare alla farmaceutica alla meccanica di precisione, «e l'elenco non è breve». Bene le ultime novità
della vicenda Electrolux, che non chiuderà lo stabilimento di Porcia: «Tutto quello che crea lavoro è positivo».
Ma c'è un rischio che incombe: e cioè che «senza un sistema paese e in assenza di una seria, incisiva,
continuativa politica industriale anche la resistenza dei più forti venga meno e sarebbe il crollo dell'intero
castello». Ecco perché è urgente mettere mano al tema di quale politica industriale dare all'Italia. «Altrimenti
alla questione settentrionale dovremo aggiungere una questione internazionale: nessuno investe in un paese
dove per una licenzia edilizia occorrono tre anni, se hai la fortuna di ottenerla». Ciò che è in gioco, ha
concluso il presidente di Confindustria, non è solo l'evoluzione della questione del Nord: «Si pone una
questione generale in termini di sopravvivenza».
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LE CIFRE DELL'ALLARME SULLA CRESCITA Misure urgenti
Ieri il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha lanciato un nuovo grido d'allarme sull'andamento
dell'economia reale, tornando a incalzare il governo sull'urgenza di misure per la crescita in un contesto
industriale caratterizzato da un profilo sempre più deteriorato
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 91
+14%
I fallimenti 2013
Lo scorso anno sono stati 14.200. In media ogni giorno sono finite in default formale 40 imprese
Insolvenze in aumento
Lo scorso anno i fallimenti sono stati più di 14mila (+14% sul 2012). In media, Euler Hermes, società di
assicurazione del credito di Allianz, ha calcolato +10% di insolvenze espresse nel 2013 dal sistema
industriale italiano. Secondo il Cerved, nei primi nove mesi 2013 ha chiuso il 5,2% di imprese in più
-51,6%
I prestiti alle imprese
A settembre 2013 i nuovi crediti erano 30 miliardi, contro i 62 di cinque anni prima
Il nodo credit crunch
Continua il trend negativo nell'andamento del credito alle imprese. Da settembre 2008 - cioè il mese
simbolico di inizio della crisi finanziaria con il fallimento di Lehman Brothers - a settembre 2013 i nuovi prestiti
alle aziene italiane sono passati da 62 a 30 miliardi
137 miliardi
Le perdite sui ricavi
Prometeia e Intesa Sanpaolo hanno stimato quanto dal 2009 le imprese hanno lasciato sul campo
Il freno del mercato interno
La perdita dell'equilibrio tra un mercato interno asfittico e i buoni risultati dell'export è all'origine della perdita
di ricavi registrata dal sistema industriale dal 2009. Negli ultimi cinque esercizi le imprese italiane hanno
perso 137 miliardi di ricavi aggregati
Foto: Giorgio Squinzi
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 92
Indagine tra i consumatori globali Nella gara del «Made in» l'Italia scopre nuovi rivali Nel mondo il Made in Italy è un marchio forte. Ma non è il solo «made in» a contare sulla piazza. Se ci si
affaccia a una finestra più ampia di consumatori, interpellati da FutureBrand, si scopre che il marchio Made in
Italy è al quinto posto, preceduto, nell'ordine, da Made in Usa, Made in France, Made in Germany e anche
Made in Japan. Paesi capaci di una concorrenza basata non tanto sullo stile, quanto sul senso di sicurezza
che una certificazione di provenienza garantisce. E con questi competitor l'Italia deve fare i conti.
Cappellini u pagina 13 Micaela Cappellini
Borse, vestiti, arredamento, vini, Prosciutto di Parma: nel mondo il Made in Italy è un marchio forte.
Attenzione però, sedersi sugli allori è vietato. Perché quello italiano non è l'unico "Made in" che conta sulla
piazza globale. Siamo troppo abituati a guardare all'Italia e alle nostre eccellenze coi nostri occhi. Se ci
affacciamo al mercato mondiale dei consumatori da una finestra diversa, scopriamo che il marchio made in
Italy è quinto: davanti, nell'ordine, ha Made in Usa, Made in France, Made in Germany e anche Made in
Japan.
La classifica è stata stilata da FutureBrand, che ha vagliato il peso specifico di 140 Paesi e ha dato voce a
tutti i consumatori, anche ai consumatori dei Paesi emergenti. Cosa hanno chiesto? Di valutare la
reputazione che i Paesi d'origine hanno sulle loro scelte di consumo, di dare un punteggio all'importanza che
attribuiscono alla provenienza di un prodotto. Un giudizio sulla qualità, ma anche sulla sicurezza - un tema
quanto mai caldo, in epoca di scandali alimentari - e sulla reale provenienza di un bene, dato che sempre più
spesso il luogo di progettazione e quello di produzione delle merci non coincidono più.
Dalle indagini è emersa prepotente la forza del marchio Made in Usa: aziende come Gap, Nike, Donna
Karan o Calvin Klein sono le primi che balzano alla mente dei consumatori, soprattutto nei Paesi emergenti.
Se gli Stati Uniti ottengono il massimo punteggio nelle categorie Moda e Cura della persona, la Francia vince
nella Cibo e bevande, mentre la Germania primeggia nella categoria Auto ed è terza per l'elettronica di
consumo. Il Giappone, infine, è primo per l'elettronica e va forte anche nel settore automobilistico. E l'Italia? I
brand dell'alimentare devono cedere il primo posto ai marchi francesi, che tra gli intervistati esercitano un
richiamo maggiore, specie nel settore dei vini. Nel lusso, nonostante le nostre numerose firme, l'Italia è solo
terza, alle spalle di Francia e Svizzera. Il primo posto dei Cantoni in questa categoria è dato dalla presenza di
brand che hanno saputo rafforzare il concetto di lusso trasversalmente a diversi segmenti di mercato: dagli
orologi (con Rolex, Omega, Longines, Tag Heuer, Vacheron Constantin) al caffè con Nespresso, alla cosmesi
con La Prairie, ai sigari con Davidoff, alla gioielleria con Chopard.
«È un fatto - conferma Alessandra Iovinella, managing director di FutureBrand Italia - che le aziende europee
tendono a sovrastimare il proprio appeal all'estero. Ma quando entrano in campo l'America Latina o il Medio
Oriente, i marchi a stelle e strisce non sono solo fra i primi citati, ma sono anche quelli più in grado di
rassicurare sulla provenienza del prodotto, cioè sull'effettivo Made in».
Nell'opinione dei consumatori intervistati, i parametri "Paese di origine", "Paese di progettazione" e "Paese di
produzione" sono stati giudicati più importanti di altri fattori di scelta come, per esempio, il prezzo, la
disponibilità e lo stile, e si sono posizionati alle spalle del fattore di scelta numero uno: la sicurezza. Ecco
perché oggi non è più sufficiente essere identificati con un Paese - per esempio, l'Italia con la moda - per
essere riconosciuto come Made In: i brand oggi devono dimostrare di avere una reale e profonda
connessione con il Paese da cui provengono per poter contare su un vantaggio competitivo.
Ben vengano dunque le normative a tutela del Made in. Ma potrebbero non essere abbastanza: sia chiaro, la
quinta posizione italiana è di tutto rispetto, ma ci obbliga a confrontarci con altre quattro e a imparare a
essere competitivi rispetto a loro. «Dobbiamo usare questa posizione per guardare in avanti e avere una
prima indicazione delle potenzialità che potrebbero ancora crescere - sostiene Silvia Barbieri, head of
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 93
strategy di FutureBrand Italia - per esempio, credo che abbiamo la sostanza e la forza potenziale di superare
la Francia nel Food & beverage e di attaccare insieme alla Francia il primato della Svizzera nel lusso. Nelle
altre categorie, invece, ritengo che l'Italia occupi una posizione che rispecchia le sue forze».
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http://micaelacappellini.blog.
ilsole24ore.com/ 1 Usa 2 Francia 3 Germania 4 Giappone 5 Italia Fonte: FutureBrand L'appeal del marchio
«Made in» sui consumatori nel mondo La top five globale I primi cinque Paesi della classifica e, per settore, i
primi dieciMadeIn posizionati Alimentari e bevande Cura personale Auto Elettronica Moda Lusso 1 2 3 4 5
ITALIA 5 6 7 8 9 10 USA 1 FRANCIA 2 GERMANIA 3 GIAPPONE 4 TURCHIA SVEZIA CINA TAIWAN
TURCHIA SVEZIA BELGIO THAILANDIA INDIA ITALIA CINA SPAGNA USA GB ITALIA COREA DEL SUD
GB GB ITALIA FRANCIA GIAPPONE USA ITALIA FRANCIA GERMANIA GIAPPONE FRANCIA SVEZIA
SVEZIA GIAPPONE SPAGNA SVIZZERA USA GERMANIA FRANCIA ITALIA FRANCIA USA GERMANIA
GIAPPONE USA SVIZZERA SVIZZERA AUSTRALIA COREA DEL SUD CANADA GERMANIA BELGIO GB
ITALIA SVEZIA FINLANDIA SPAGNA GERMANIA GIAPPONE GERMANIA GB CINA GIAPPONE USALaclassifica settore per settore I primi cinque Paesi della classifica e, per settore, i primi dieci Made In
posizionati - Fonte: FutureBrand
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 94
ORDINI IN EVOLUZIONE Una riforma lasciata a se stessa Maria Carla De Cesari La riforma delle professioni approvata tra il 2011 e il 2012 sulla scorta dello slogan, un po' frusto, della
«liberalizzazione», è ferma a metà strada. Dimenticata, prima di tutto, da chi è chiamato a vigilare sugli Ordini
e sul settore economico e a rappresentare un pungolo per svecchiare gli ordinamenti.
I regolamenti che dovrebbero raccogliere le norme in linea con i principi affermati nel Dl 138/2011 e nella
legge 183/2011 - libertà di esercizio della professione, garanzia rafforzata per gli utenti, trasparenza del
mercato - sono rimasti, per ora, sulla carta. A questa ricognizione è collegata la cancellazione di eventuali
regole incompatibili e anacronistiche.
La misura sull'obbligo di polizza per la responsabilità civile è slittata di un anno, per dare ai Consigli nazionali
o agli enti e alle associazioni di rappresentanza dei professionisti di concordare convenzioni a favore degli
iscritti. Giusto, ma senza verifiche puntuali su quali meccanismi sono stati attivati e senza moral suasion sulla
necessità di interventi che facilitino i professionisti si rischia che l'obbligo vada ad arricchire i capitoli di un
prossimo "milleproroghe".
Sulle società professionali il bilancio è, in sintesi, deludente: meno di 60 costituzioni. È vero, dal puzzle si
sono sfilati gli avvocati, pregiudicando di molto la possibilità di fare società multiprofessionali nell'area
giuridica-economica. D'altra parte, anche il legislatore si è sfilato dal fornire indicazioni su meccanismi di
funzionamento basilari, come il trattamento fiscale del reddito prodotto dalle società. Una norma di
chiarimento è ferma in qualche stanza del Parlamento.
Ci sono poi le incertezze sul "diritto" della società tra professionisti che, per la verità, alcune iniziative degli
Ordini - dottori commercialisti e notai in primis - hanno iniziato a dipanare. In questo quadro, l'organizzazione
in società diventa difficilmente praticabile, se non per chi ha un pronunciato spirito da pioniere. Anche la
liberalizzazione dei prezzi e l'obbligo di consegnare al cliente, se richiesto, un preventivo sul costo della
prestazione andrebbero verificati.
Le misure possono essere un fattore di trasparenza sul mercato. Tuttavia, un intervento che ha rotto quasi
un tabù avrebbe meritato più attenzione. Si dice che la liberalizzazione abbia favorito chi ha forza contrattuale
e può manovrare i prezzi dei servizi professionali facendo pressione con i volumi della domanda. Se così
fosse, i benefici sarebbero stati catalizzati dai grandi committenti lasciando a bocca asciutta i piccoli
consumatori. L'ipotesi andrebbe verificata, per correggere eventuali distorsioni. I big spender non avevano
particolare bisogno della riforma del "listino" (sia detto senza offesa per nessuno): già prima, infatti,
contrattavano condizioni scritte, ben al di là delle tariffe.
Questi esempi dimostrano come la riforma non possa essere lasciata a se stessa. Gli Ordini sono, in un
certo senso, l'espressione dell'autogoverno delle categorie professionali ma l'attuazione dei processi di
cambiamento funziona se è l'espressione della dialettica corretta tra le varie istituzioni e rappresentanze.
Anche la formazione professionale - che è diventata obbligatoria per legge - dovrebbe rientrare in questo
pacchetto. L'equilibrio del sistema è delicato. Da una parte ci sono i professionisti che hanno l'obbligo di
curare «il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale», «al fine di garantire la
qualità ed efficienza della prestazione». Dall'altra ci sono gli Ordini che organizzano i corsi, anche a
pagamento, verificano l'adempimento e contestano la violazione disciplinare. Quindi, ci sono Consigli
nazionali, che devono definire i parametri omogenei per l'organizzazione dei corsi e le modalità per
l'adempimento dell'obbligo. I Consigli nazionali deliberano anche l'accreditamento di «altri soggetti». La
proposta motivata di autorizzazione (o meno) deve essere inviata al ministero vigilante per un parere che
diventa decisivo. Questa disciplina costituisce un compromesso tra molti degli interessi in campo: il ruolo
degli Ordini, quello dei Consigli nazionali, gli enti formatori esterni e tutto si basa sulla vigilanza del ministero.
10/02/2014 1Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 95
L'esperienza passata non è esente da negatività: la rincorsa per la conquista del carnet di "bollini" annuali, i
costi relativi, il privilegio degli Ordini, che se non altro hanno tenuto il pallino dell'accreditamento degli enti
esterni. Allora è inutile imporre un numero eccessivo di crediti, che si traducono nella presenza passiva
anche a eventi non significativi per il professionista. È inutile e dispendioso, perché non tutti i corsi sono
gratuiti e la scelta dell'iniziativa a costo zero non è qualificante. Occorre poi, se si crede nella qualità della
formazione non porre ostacoli a università ed enti specializzati. La buona formazione non si acquista a peso,
ma sicuramente può essere frutto di un'ampia scelta.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 96
I dati di Ragioneria generale e Corte dei conti: gli effetti maggiori sulle infrastrutture La Pa investe 100 miliardi in meno La crisi taglia la spesa pubblica «produttiva», non quella ordinaria Cento miliardi in meno di investimenti e una trentina di miliardi in più di spesa corrente, cioè quella che serve
per far funzionare macchina amministrativa e servizi. È il conto cumulato presentato dalla crisi alla finanza
della Pa. I numeri emergono dall'analisi della spesa pubblica negli anni dal 2008 al 2012, in base agli ultimi
dati di Ragioneria generale dello Stato (bilancio centrale) e Corte dei conti (analisi sui bilanci degli enti
territoriali). Il taglio continuo agli investimenti pubblici presenta pesanti conseguenze a catena sulle
infrastrutture (materiali e tecnologiche) e sulle chance di ripresa anche delle imprese che lavorano per la
Pubblica amministrazione.
Pozzoli e Trovati u pagina 6 Luciano Cimbolini
Gianni Trovati
I buchi aperti nelle strade battute dalla pioggia di queste settimane, i cantieri infrastrutturali che si
interrompono e l'agenda digitale che tarda a passare dalle parole ai fatti. I segnali della crisi degli investimenti
pubblici sono tanti, e si incontrano in tanti aspetti della vita quotidiana. I numeri scritti nei bilanci di Stato ed
enti territoriali, però, traducono queste impressioni in dati impressionanti.
Partiamo dai numeri: 100,4 miliardi in meno di spesa per investimenti, e una trentina di miliardi in più di
spesa corrente, cioè quella che serve per far funzionare macchina amministrativa e servizi. È questo il conto
cumulato presentato dagli anni della crisi di finanza pubblica o, per essere più precisi, è l'effetto delle scelte di
politica economica che hanno puntellato gli anni dell'emergenza.
I numeri emergono dall'analisi della spesa pubblica centrale e locale negli anni dal 2008 al 2012, resa
possibile dalla pubblicazione degli ultimi dati del bilancio centrale da parte della Ragioneria generale dello
Stato e dalle analisi della Corte dei conti sui bilanci degli enti territoriali. Per questi ultimi, e in particolare per i
Comuni, l'effetto stringente del Patto di stabilità, che si è concentrato proprio sulla spesa per gli investimenti
senza troppo curarsi invece delle uscite correnti, era noto. Il Patto, però, non deve essere assunto come
unico capro espiatorio, perché i numeri dicono che la flessione più consistente si è registrata a livello
centrale: nel solo 2012 agli investimenti sono stati dedicati complessivamente 38 miliardi in meno rispetto al
2008, anno di debutto per la febbre dei bilanci, e questa "perdita" si è concentrata per il 45% nei conti dello
Stato, mentre Comuni e Province hanno contribuito alla flessione per il 37% e il resto riguarda le Regioni.
Parallelo, e ancora più evidente, è il peso della macchina centrale nella dinamica delle uscite correnti: il 2012
ha registrato impegni di spesa per 17,6 miliardi in più rispetto al 2008, e il 94% di questo incremento (16,7
miliardi) è scritto nei conti dell'amministrazione centrale. Morale della favola: la spesa corrente, su cui si è
esercitato il dibattito sui tagli lineari e sui costi standard, nonostante la pioggia di manovre e di spending
review è cresciuta, anche se in modo ovviamente meno vivace del passato, mentre quella degli investimenti,
che sarebbe chiamata a migliorare infrastrutture e competitività, è crollata. Intendiamoci: non tutta la spesa
corrente è "cattiva", perché oltre alle spese per gli uffici, gli affitti e le tante diseconomie della Pa finiscono
sotto questa etichetta anche gli ammortizzatori sociali e il welfare locale. Certe, invece, sono le gravi
conseguenze a catena che il taglio continuo agli investimenti ha sulle infrastrutture (materiali e tecnologiche)
e sulle chance di ripresa anche delle imprese che lavorano per la Pubblica amministrazione.
In pratica, le Pubbliche amministrazioni sembrano di fatto aver risposto alla crisi tagliando dov'era più facile,
ossia nel conto investimenti (in altre parole, nel futuro). Lo stesso decreto «sblocca debiti», infatti, ha
finanziato il pagamento del pregresso, ma non ha creato condizioni migliori per nuovi interventi, al punto che
l'Unione europea torna a scendere in campo per minacciare una procedura d'infrazione sui nuovi pagamenti
eternamente inceppati.
Nonostante le varie revisioni della spesa, invece, il mix fra legittime esigenze collettive (per esempio gli
ammortizzatori sociali) e resistenze di ogni genere di tipo lobbistico (per esempio agenzie, consorzi ed enti
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 97
intermedi di vario genere), ha impedito di frenare la spesa corrente. È lì tuttavia che si gioca la vera partita dei
conti pubblici (e non solo). Date le grandezze (750 miliardi al netto delle quote capitale di rimborso del
debito), senza economie correnti non sarà possibile trovare risorse per rilanciare gli investimenti, diminuire la
pressione fiscale e migliorare deficit e debito. È la congiuntura economica a imporre un'inversione di rotta. I
numeri danno l'idea dei margini di manovra: se la spesa corrente di Stato ed enti territoriali anziché
aumentare fosse scesa del 6% (1,2% su base annua), sarebbe stato possibile nel quinquennio, a saldi
invariati, mantenere sui livelli del 2008 la spesa d'investimento impegnata, assorbendo integralmente i 38
miliardi di tagli.
© RIPRODUZIONE RISERVATA L'andamento per comparti La dinamica di spesa corrente e investimenti
nello Stato e negli enti territoriali Valori in miliardi di euro LEGENDA Spesa Corrente Investimenti Differenza e
differenza % 2012/08
Foto: - Fonte: elaborazione su dati Rgs, ministero dell'Interno e Corte dei conti
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 98
Il retroscena La battaglia di Draghi per lo scudo salva-euro FEDERICO FUBINI ERANO mesi che i giudici di Karlsruhe erano bloccati davanti a tre strade, delle quali una portava dritta alla
balcanizzazione dell'euro. La prima via, difesa da una minoranza delle otto toghe (letteralmente) rosse del
"secondo Senato" della Corte costituzionale in Germania, puntava sull'inammissibilità. Pura e semplice. Il
ricorso firmato da 35mila tedeschi contro il programma della Bce che nel 2012 salvò Italia e Spagna da un
probabilissimo default, secondo loro non andava neanche preso in considerazione. All'estremo opposto,
guadagnava forza invece l'ipotesi più dinamitarda. L'idea di alcuni dei giudici costituzionali tedeschi era di
accettare sì le Outright Monetary Transactions o Omt, gli acquisti di bond di Paesi in crisi che accettano un
piano di riforme. MA DI farlo piantando certi paletti con precisione chirurgica. Per esempio gli interventi non
avrebbero comunque dovuto essere (potenzialmente) illimitati, anche se questo significava smantellare un
architrave dell'impianto con cui nell'estate 2012 Mario Draghi contenne la crisi: il presidente della Bce allora
disse che la banca centrale avrebbe fatto « whatever it takes» («qualunque cosa serva») per preservare
l'euro, e proprio quel potenziale di fuoco senza limitazioni indusse i mercati a smettere di testare la resistenza
del sistema.
Soprattutto, l'ipotesi che la Corte costituzionale di Karlsruhe determinasse ciò che un'istituzione europea non
può fare, avrebbe creato un precedente capace di disgregare l'Unione. Così la Germania avrebbe affermato
per vie legali il suo status di egemone, in diritto di decidere cosa è legale e cosa no per un organismo che
appartiene anche a 220 milioni di cittadini fuori dai suoi confini. Oppure, quantomeno, Karlsruhe avrebbe
stabilito il principio che un giudice nazionale può disfare in ogni momento la politica in vigore di un'istituzione
europea. Da quel momento, ciascuna delle Corti costituzionali dei 28 Paesi europei avrebbe cercato di sfilare
il pezzo d'Europa che più le dispiace. In modo informale il governo italiano aveva fatto notare alle altre capitali
che la vicenda non sarebbe certo finita là:a quel punto la Commissione di Bruxelles avrebbe dovuto mettere
la Germania in infrazione, poiché i suoi giudici di ultima istanza decidevano di testa propria sul diritto
comunitario senza rimettersi ai loro colleghi della Corte europea.
Aveva tutta l'aria di una spirale simile a certe dispute in punta di diritto di un quarto di secolo fa fra Belgrado,
Zagabria e Lubiana.
Chiunque avesse vinto, l'euro e 65 anni di pace, apertura, integrazione e prosperità in Europa ne sarebbero
usciti comunque a pezzi.
La Corte tedesca, nella sua diffidenza verso la Bce e Mario Draghi, non ha avuto il coraggio di andare così
lontano.
Nasce così il compromesso che, almeno per la giornata di ieri, i mercati hanno salutato portando denaro
sull'Italia e sugli altri Paesi di quella che chiamano «periferia». Le toghe Karlsruhe si rimettono
all'interpretazione preliminare dei colleghi della Corte europea di Lussemburgo, come fanno tutti gli altri
quando devono applicare il diritto europeo. Per i giudici costituzionali tedeschi - e solo per loro nell'Unione - è
la prima volta in quasi sessant'anni di storia comunitaria. Enzo Moavero, ministro delle Politiche europee (ed
ex giudice di Lussemburgo), lo ha fatto notare per sottolineare come con ieri Karlsruhe rinunci al suo
complesso di superiorità. Lì erano rimasti i soli giudici in Europa a non riconoscere una legge europea al di
sopra della loro: ora lo fanno. Tira un sospiro di sollievo Draghi, che il giorno prima aveva evitato di spingere
per un taglio dei tassi - necessario - per non irritare le toghe in seduta a un'ora di treno dal suo ufficio
dell'Eurotower. Respira meglio anche il governo di Berlino che, contro la Bundesbank, aveva dato il suo
sostegno ai piani della Bce più di un anno fa.
Forse per questo in vena di complimenti, il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier ieri a Roma ha
parlato del «miglioramento della situazione economica» in Italia e dei «passi politici intrapresi» dal Paese.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 99
Resta da capire se anche il mondo oltre i codici del diritto ora seguirà. Il prezzo della provvisoria abdicazione
di Karlsruhe alla Corte di Lussemburgo, sono parole dei giudici di una durezza involontariamente incendiaria.
Il loro giudizio sulla legittimità delle mosse di Draghi è quasi tutto negativo, in linea con le critichea quella che
ormai in Germania viene definita senza remore «politica monetaria all'italiana». I giudici parlano di «manifeste
e significative trasgressioni di potere da parte di organi europei». Sostengono che i diritti degli elettori
tedeschi sono «minati quando c'è un'usurpazione unilaterale di poteri» da parte della Bce. Secondo loro, il
governo di Berlino avrebbe «l'obbligo» di sfidare l'Eurotower in giustizia.
Sono frasi che risuonano già nei mercati e nell'opinione pubblica tedesca. La Frankfurter Allgemeine Zeitung
si chiede se le toghe prima o poi non dovranno «istruire il governo perché non partecipi» con il suo bilancio
agli interventi della Bce, se mai se ne faranno. Per ora non è successo, ma Morgan Stanley esprime dubbi
sulla reale vitalità del programma tirato fuori da Draghi nel 2012 per sedare la crisi. Anche dopo la giornata di
ieri. Perché quel piano è uscito sì dal palazzo di Karlsruhe legalmente in piedi. Ma con addosso un'ombra
politica - da morto che cammina.
Iunti LA CORTE La Corte di Giustizia dell'Unione europea di Lussemburgo dovrà decidere sulla legittimità del
piano Otm della Bce I PRECEDENTI La Corte Ue ha tradizionalmente appoggiato le istituzioni europee nella
loro interpretazione delle leggi comunitarie I TEMPI Servono in media 16 mesi, stando ai report della Corte
Ue, per i ricorsi delle Corti nazionali.
Ciò potrebbe creare incertezza sui mercati
PER SAPERNE DI PIÙ www.ecb.europa.eu http://curia.europa.eu
Foto: La sede della Bce a Francoforte e, a sinistra, il presidente Mario Draghi
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 100
L'intervista "Questo governo ormai è alla paralisi se continua così meglio che se nevada" Piano per il lavoro Il problema è il lavoro, serve un piano, ma dal governo non arrivano risposte. Al massimofa i conti del ragioniere Non c'è più tempo Rimpasto, staffetta, elezioni, sono scelte che non spettano a noi,ma ai partiti. Per noi non c'è più tempo da perdere Programma fantasma Sono due mesi che stannodefinendo il programma. Qualcuno sa qual è? Non c'è un'idea delle priorità Camusso sfida anche la Fiom:referendum sulla rappresentanza Scontro con Landini Non voglio sanzioni contro Landini e l ROBERTO MANIA ROMA - «Questo è un governo che ha solo opposizioni, il che significa un governo alla paralisi».
Dunque se continua così è meglio che se ne vada? «Sì, il Paese non ha più tempo da perdere. Invece di
agire si continuano a dare rassicurazioni mediatiche senza risolvere i problemi», risponde Susanna
Camusso, segretario generale della Cgil, seduta alla sua scrivania. Alle spalle il quadro di Carlo Levi che
raffigura Giuseppe Di Vittorio in camicia bianca. Un pezzo di storia della Cgil che mai ha vissuto un momento
così: perché lo scontro con la Fiom di Maurizio Landini non ha precedenti. Lo dirà più volte, con rammarico, in
questa intervista Susanna Camusso. Lanciando la sua proposta e la sua sfida ai dissidenti fiommini: tornare
al voto degli iscritti sul contrastato accordo con la Confindustria sulla rappresentanza. Poi «non ci potranno
essere più alibi per nessuno».
Andiamo con ordine. Perché, di fatto, lei considera vicina al capolinea l'esperienza del governo Letta? «Sono
ormai circa due mesi che stanno definendo il programma di coalizione. Qualcuno sa qual è? La verità è che
non c'è un'idea delle priorità. Lo abbiamo visto con la legge di Stabilità. Eppure sappiano tutti che la
questione principale è quella del lavoro. Serve un piano per il lavoro. Dal governo non è arrivata alcuna
risposta. La politica industriale è sconosciuta, sul versante della politica economica questo governo propone
al massimo i conti del Ragioniere. Con tutto il rispetto del ruolo del Ragioniere, questa non è una politica. E
poi: il governo aveva annunciato con enfasi la ripresa degli investimenti. Dove sono? È tutto coperto da una
fitta coltre di nebbia. Purtroppo le uniche politiche che hanno adottato sono quelle dei tagli e delle tasse. Le
politiche per lo sviluppo si sono fermate agli annunci».
Pensa che si debba andare alle elezioni, che sia sufficiente un rimpasto, oppure che Renzi debba sostituire
Letta a Palazzo Chigi? «Non spetta alle parti sociali dire che cosa si debba fare. Rimpasto, staffetta, elezioni
sono scelte che competono alle forze politiche. Per noi non c'è più tempo da perdere. Pensi al dramma degli
ammortizzatori sociali in deroga, cassa integrazione e mobilità. Il governo ha preparato un decreto che ne
modifica i criteri di accesso che escluderebbe dalle tutele decine di migliaia di persone. E sa di quanto stiamo
parlando? Di 300350 euro al mese per la mobilità in deroga. È un provvedimento ingiusto che va cambiato».
Delusa da Letta? «Il problemaè che questo governo continua a non decidere, non la persona di Letta».
Probabilmente questo è un governo nato male. Prima le larghe intese, poi le intese più piccole. Sembra un
governo senza maggioranza. «Se è senza maggioranza è una responsabilità delle forze politiche. E sono loro
a doverne trarne senza ambiguità le dovute conseguenze». Senta, mentre l'Italia è, per una parte almeno,
come lei la descrive, voi della Cgil vi state dilaniando sull'accordo sulla rappresentanza. Neanche voi vi
occupate delle priorità.
«Mettiamo ordine. La Cgil è impegnata in una discussione con i suoi sei milioni di iscritti sulle mozioni
congressuali. Una straordinaria prova di democrazia e di ascolto che affronta tutti i grandi temi del lavoro e
proprio per questo non può essere rappresentata come uno scontro interno».
Veramente è lei che ha preso una decisione clamorosa: ha chiesto al Collegio statutario se Landini e la Fiom
siano sanzionabili perché non si ritengono vincolati dalle decisioni del Direttivo della Cgil. Perché l'ha fatto?
«Ho posto un problema politico di fronte a un fatto inedito negli oltre cento anni della storia della Cgil: c'è
ancora un vincolo di appartenenza? Se viene meno cosa si fa? Penso che se le decisioni del Direttivoe la
democrazia della nostra organizzazione non valgono per tutti siamo di fronte a un cambiamento della nostra
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 101
natura. Su questo dobbiamo interrogarci».
Vuole le sanzioni per Landini e la Fiom? «Non esiste. Non ho mai pensato a interventi disciplinari. Ho posto
un problema per evidenziare che le nostre regole non offrono soluzioni politiche a problematiche di questa
natura.È un vuoto da colmare». Perché non fate votare almeno gli iscritti sull'accordo? «Le cose vanno dette
tutte e bene: gli iscritti alla Cgil, nella assemblee di base, stanno votando anche sul testo unico sulla
rappresentanza sul quale peraltro si erano già espressi quando venne raggiunta la prima intesa (questa è la
sua applicazione). L'80% fu favorevole.
Ciò che non si può fare è gettare ombre sulla vita democratica della Cgil. Per questo la segreteria proporrà al
Direttivo di tornare al voto degli iscritti. Sarà un voto sul testo unico ma anche sul nostro modello sindacale. E
una volta espresso non ci saranno più alibi, tutti dovranno trarne le conseguenze».
Il voto degli iscritti è una vittoria di Landini. Non crede? «Le pare possa essere questo il problema? No.
Quello che conta è la salvaguardia della Cgil, della sua straordinaria democrazia e la responsabilità di tutti a
non oscurarla ». PER SAPERNE DI PIÙ www.governo.it/rapportiparlamento www.cgil.it
Foto: LEADER Susanna Camusso, milanese, classe 1955, è segretaria della Cgil dal 2010
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 102
Il progetto Abete: la bad bank un'ottima idea per dare spinta ai prestiti Arriva il via libera dei banchieri "Ma serve solo agli istituti piccoli" ABETE Una bad bank "centralizzata", suggerisce Abete (Bnl-Bnp Paribas) per le banche piccole ROSARIA AMATO ROMA - Non pronuncia le parole bad bank, fa di più: al congresso Assiom Forex, il governatore della Banca
d'Italia Ignazio Visco incoraggia apertamente «interventi volti a razionalizzare la gestione dei crediti
deteriorati» e ipotizza «misure più ambiziose da valutare anche nella loro compatibilità con l'ordinamento
europeo». Aprendo la porta alle ipotesi più diverse. In Italia si sta pensando a un modello unico istituzionale
di banca nella quale far confluire i crediti deteriorati, da finanziare con fondi europei, sul modello della
spagnola Sareb? Offrendo un'interpretazione "autentica" delle parole del governatore, il direttore generale
della Banca d'Italia Salvatore Rossi si affretta a escludere categoricamente l'ipotesi: «Di sicuro soluzioni di
bad bank "alla spagnola" non ce le possiamo permettere perché implicherebbero interventi pubblici». L'Italia
ha evitato accuratamente di chiedere fondi europei nei momenti più tempestosi della crisi: evidentemente
vuole continuare a farlo, e l'ipotesi Sareb richiede ingenti esborsi pubblici.
Sicuramente, rileva il presidente dell'Abi Antonio Patuelli, Visco vuole dare un segnale di apprezzamento per
le varie iniziative private annunciateo in corso in questi giorni: dalla business unit allo studio tra Intesa
Sanpaolo, Unicredit e Kkr - al progetto di Mediobanca per le banche piccole e medie. Ma si tratta, sottolinea
Patuelli, di «forme di mercato», non di forme istituzionali pubbliche: «Non c'è nessuna trattativa tra l'Abi e le
istituzioni» per la creazione di una bad bank, assicura il presidente dell'Abi.
Anche il presidente del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, Gian Maria Gros-Pietro, vede nelle parole di
Visco un chiaro segnale di incoraggiamento alle iniziative per la gestione dei crediti deteriorati: «Ogni banca
ci sta pensando per conto proprio, anche la nostra», conferma. Ma non fa ipotesi su quale può essere la
soluzione adombrata dalle parole di Visco: «Il governatore non indica una via definita ma dà la disponibilità a
considerare anche una soluzione più ambiziosa». Mentre Luigi Abete, presidente Bnl - Bnp Paribas, un'idea
ce l'ha: «Le grandi banche possono provvedere per conto proprio, e lo stanno già facendo. Mentre le banche
più piccole non sono in grado forse di organizzarsi da sole: ecco perché può essere importante una
istituzione unitaria dove possano confluire i crediti deteriorati». A conferma indiretta arrivano le parole
dell'amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghizzoni: «Gli istituti di una certa dimensione sono in
grado di gestirsi le soluzioni autonomamente.
Altre banche possono avere interesse a ipotesi di aggregazione». L'unione può fare la forza e ridare spinta al
credito anche per le richieste future, suggerisce Abete, ipotizzando a favore delle piccole e medie imprese un
meccanismo di garanzia pubblico-privato dove possano confluire le disponibilità «di tutti quelli che danno
soldi» (dalle Camere di Commercio alle banche, che in questo modo correrebbero un rischio minore di
credito, grazie a forme di garanzia condivise). E anche per le Pmi sarebbe un vantaggio, perché le loro
richieste verrebbero valutate su criteri omogenei e oggettivi. Lo stesso Abete chiede di «andare oltre gli
strumenti di garanzia esistenti, individuando una modalità generalizzata e collettiva a favore delle Pmi», che
sia pubblica e privata. Tutte iniziative dirette a far sì «che non manchi il finanziamento a chi lo merita», come
suggerisce Visco: se non riparte il credito, è difficile che si avvii la ripresa.
Foto: GHIZZONI Le grandi banche possono "gestirsi da sole" i crediti deteriorati, dice Ghizzoni ad di Unicredit
Foto: PATUELLI "Nessuna trattativa tra l'Abi e le istituzioni" sulla bad bank, assicura Patuelli, presidente Abi
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 103
L'intervista Lorenzo Simonelli, romano, è il giovane ad di General Electric Oli&Gas "Siamo un grande Paese investire non è un azzardo" (r.ma) ROMA - «La mia è una storia molto semplice», si schermisce Lorenzo Simonelli, quarantenne,
amministratore delegato della General Electric Oil&Gas, colosso multinazionale americano, 43 mila
dipendenti e un fatturato di 17 miliardi di dollari.
Ma di semplice c'è poco nella carriera di un manager che giovanissimo era inserito tra gli under 40 più
influenti nel mondo dalla rivista Fortune (24 esima la sua posizione). Nato a Roma, cresciuto in Inghilterra,
laureatosi in Galles in Economia, entrato in General Electric nel 1994 (lo chiamò Paolo Fresco), poi un'ascesa
rapida negli Usa.
La sua carriera sarebbe stata possibile in Italia? «Ge offre opportunità globali.
Dunque la mia carriera in General Electric sarebbe stata uguale in Italia, in Gran Bretagna o in qualunque
altro Paese».
E se fosse stato in un'azienda italiana? «Non lo so. È una risposta che non posso darle semplicemente
perché non sono stato in un'azienda italiana».
In Italia è molto raro che un quarantenne guidi una grande azienda. Vale anche in politica.
Lei che idea si è fatto di Renzi? «Io penso che ogni Paese abbia i suoi tempi, anche ricambi generazionali.
Non ho mai incontrato Renzi, non posso esprimere un'opinione».
Il premier Letta dice che l'Italia è fuori dalla crisi. General Electric accrescerà la sua presenza in Italia? «Noi
come Ge continuiamo ad avere una grande presenza in Italia. Solo lo scorso anno abbiamo rilevato la
divisione aeronautica di Avio. Siamo presenti in tutti i nostri settori di business, abbiamo circa 12 mila
dipendenti. Per noi l'Italia è un Paese importante. Vorrei far capire che noi siamo un gruppo globale, con
produzioni globali, con clienti globali. I nostri azionisti decidono in una prospettiva globale. Ecco, l'Italia è
dentro questa logica».
I suoi argomenti sono molto simili a quelli che usa Sergio Marchionne. Che cosa pensa di lui? « Marchionne
sta realizzando quello in cui crede per creare valore per i suoi azionisti».
È finita la crisi nel mondo? «Vedo una ripresa lentae molto graduale».
Lei si sente più italiano o più americano? «Io non sono americano».
Foto: IL MANAGER Lorenzo Simonelli, 40 anni, è l'ad di General Electric Oil&Gas
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 104
L'intervista Nissan Bahar, creatore di Keepod " La nostra sfida è dare un futuro ai più svantaggiati" (r.l.) «KEEPOD era un progetto commerciale. Il nostro target erano le grandi aziende. Ma dopo aver lavorato nel
quel settore, il mio socio e io ci siamo accorti che la nostra tecnologia poteva fare del bene a tante persone
che avevano davvero bisogno piuttosto che rendere la vita migliore ai manager. E così abbiamo deciso di
mettere i nostri principi davanti a tutto e abbiamo trasformato Keepod in una impresa sociale». Nissan Bahar
ha 35 anni, è nato a Tel Aviv da padre israeliano e madre italiana. Ha studiato Medicina a Pavia ma poi si è
appassionato alla sicurezza informatica. A Milano ha incontrato «un fotografo pazzo, Franky Imbesi». E
assieme hanno creato Keepod.
È confermato il prezzo di 5 euro? Sembra davvero poco.
«Sì e speriamo di abbassarlo ancora. Focalizzandoci sul software invece che sull'hardware possiamo usare
chiavette Usb molto semplici».
Rispetto al prodotto che lanciaste in Italia due anni fa, sono cambiate molte caratteristiche? «Sì, moltissime e
le cose che abbiamo aggiunto sono quelle che ci chiedono in giro per il mondo. Partiamo dal Kenya ma ci
stanno arrivando tantissime richieste. Una grande soddisfazione». C'è una obiezione che molti vi faranno: a
Mathare non serviranno prima acquae cibo di una chiavetta Usb? «Certo! Keepod però è un'opportunità per
rafforzare l'azione delle organizzazioni non governative nel campo dell'istruzione, dei diritti umani e della
prevenzione dell'Aids. Vogliamo far crescere le competenze e la cultura degli abitanti in modo che possano
crearsi vere opportunità di futuro».
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 105
INTERVISTA "A Telecom serve un'alleanza con Vivendi" Fossati: il prossimo cda affidi la presidenza e i comitati ai consiglieri delle minoranze Il governo e la rete Ilgoverno non deve minacciare lo scorporo della rete ma incentivare a investire su di essa con la leva fiscaleTelefonica e Mediaset Se gli spagnoli vogliono sviluppare la televisione con Mediaset, questo non puòpassare da una svendita di Tim Brasil GIOVANNI PONS MILANO - Il cda Telecom ha appena approvato una procedura speciale nel caso arrivassero offerte su Tim
Brasil e sta studiando modifiche alla governance. La richiesta di una maggiore indipendenza da Telefònica,
risuonata nell'assemblea del 20 dicembre, è dunque giunta a destinazione. Dottor Fossati, per lei che ha
promosso questo cambiamento, quale dovrebbe essere la miglior governance per Telecom? «L'obbiettivo
finale dovrebbe essere quello di avere una public company con rappresentanza in Consiglio proporzionale ai
voti espressi in assemblea. Ma siamo consapevoli che, con un cda in scadenza e con le attuali regole del
patto Telco, premere per un cambiamento potrebbe condurre a uno strappo. Il cambio statutario può non
essere prioritario in questo momento».
E quali sono le priorità invece? «Un cda più indipendente di quello attuale, in grado di limitare al massimo i
conflitti di interesse, permetterebbe al management di elaborare, senza alcun condizionamento, il piano
strategico e operativo per la creazione del valore societario a beneficio di tutti i soci e non solo di Telefònica».
Telefònica è focalizzata sulla vendita di Tim Brasil? «Telefònica non ha ancora detto che cosa vuol fare di
Telecom. È doveroso da parte del cda e del management valutare tutte le possibili alternative di piani
strategici che creino valore per l'azienda». Può fare un esempio di piano strategico che prescinda dalla
vendita di Tim Brasil? «La fusione tra Tim Brasil e Gvt, la controllata di Vivendi in Brasile che opera nella
telefonia fissa, avrebbe molto più senso di una cessione. Con i due anelli in fibra che Tim possiede a San
Paolo e Rio de Janeiro e i contenuti prodotti dalla casa madre francese si potrebbe arrivare a un'offerta
multipla: Internet, fisso, mobile, tv, clouding. Consolidare così la presenza nel Paese e competere con Claro e
Vivo, che già offrono questi servizi».
Visto che Vivendi si è alleggerita dai debiti si potrebbero studiare anche altre alleanze con i francesi, non è
così? «Certamente. Dal momento che Vivendi controlla sia una quota importante dell'operatore francese Sfr
sia Gvt, perché non studiare un aumento di capitale di Telecom riservato a Vivendi a cui questa potrebbe
partecipare apportando i propri asset telefonici, e creando così valore?». Ma se Telco proponesse un board
con consiglieri che abbiano requisiti solo formali di indipendenza sarebbe sufficiente? «Non basta il requisito
di indipendenza secondo il codice, occorre anche la competenza. Se si deve discutere di progetti industriali
bisogna interloquire ad armi pari con il management. Si potrebbero coinvolgere anche esponenti non italiani,
con le migliori competenze nei settori della telefonia, Ict e media».
Senza toccare lo statuto, come dovrebbero essere ripartiti i comitati interni e la presidenza? «Dovrebbero
essere composti in maggioranza da esponenti eletti dalle minoranze.E la presidenza, visto che la lista di
maggioranza indica i 4/5 dei consiglieri, dovrebbe anch'essa spettare a un eletto dalle minoranze per
esercitare un ruolo di garanzia per tutti i soci».
L'attuale cda di Telecom sta andando in questa direzione? «Voglio dar credito all'ad Marco Patuano che sta
dimostrando di aver recepito le richieste del mercato e sta cercando una soluzione che renda il cda più
indipendentee orientato all'interesse di tutti i soci di Telecom».
È sufficiente il piano di Telecom per lo sviluppo della rete a banda larga? «Come ben definito dal rapporto
Caio, la velocità degli investimenti non sembra essere sufficiente rispetto alle potenzialità del mercato. Con
l'attuale rete di Telecom Italia, potenziata con l'apporto di investimenti in fibra, si potrebbero cogliere
opportunità di mercato in diversi settori, ad esempio digitalizzando la Pubblica amministrazione e
accrescendo la produttività del sistema industriale e dei servizi.
09/02/2014 22Pag. La Repubblica - Ed. nazionale(diffusione:556325, tiratura:710716)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 106
E far nascere una tv via cavo, una realtà già presente in molti Paesi industrializzati ed emergenti».
E se Telefonica volesse sviluppare la convergenza tra tlc e tv insieme a Mediaset sulla scia di ciò che stanno
facendo insieme in Spagna? «È possibile, ma ciò non può avvenire a discapito della stessa Telecom e di tutti
i suoi azionisti e soprattutto non può passare attraverso una svendita di Tim Brasil». Il governo dovrebbe
intervenire nella partita Telecom? E la Cdp dovrebbe avere un ruolo? «Il governo dovrebbe prendere
posizione, rispettando l'autonomia di una società privata, ma nell'interesse del Paese affinché Telecom
esprima un progetto di valorizzazione dell'azienda.
Senza minacciare alcuno scorporo forzato ma incentivando fiscalmente gli investimenti nella nuova rete e
favorendone con politiche regolatorie lo sviluppo. Cdp credo possa giocare un ruolo importante quale
investitore qualificato per la creazione della nuova infrastruttura di rete». La fusione di Metroweb dentro
Telecom avrebbe senso? «Sì, perché accelererebbe il progetto di sviluppo della rete di nuova generazione».
Foto: LEADER DELLA MINORANZA Marco Fossati, 54 anni, erede del brodo Star inventato dal papà Danilo,
con il 5% di Telecom è il capofila della minoranza
09/02/2014 22Pag. La Repubblica - Ed. nazionale(diffusione:556325, tiratura:710716)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 107
Il caso L'ad del gruppo: costretti ad emettere bond, lo Stato non ci versa 1,2 miliardi Moretti: "Fs in Borsa nel 2015 Vendo i negozi di Grandi Stazioni" (v.co.) ROMA - Le Ferrovie dello Stato quotate a Piazza Affari. Un'ipotesi da valutare, ma solo il prossimo anno. «La
quotazione in Borsa di Fs è un'ipotesi che valuteremo nel 2015», ha rivelato ieri l'amministratore delegato del
gruppo ferroviario Mauro Moretti, interpellato a margine del Forex. «Quest'anno invece lavoreremo alla
vendita delle attività profittevoli di Grandi Stazioni», come i negozi, ha poi aggiunto.
Prima lo spin-off, dunque. Poi forse lo sbarco nel listino milanese. Per quanto riguarda il nuovo piano
industriale del gruppo, Moretti ha detto che è pronto: «Lo porteremo al prossimo Cda», in calendario entro
febbraio. Ferrovie continua intanto a finanziarsi sui mercati emettendo bond: «Ormai il processo ha la sua
regolarità, ogni sei mesi faremo emissioni. A maggio metteremo in cantiere la prossima», ha confermato
Moretti.
D'altronde «abbiamo 1,2 miliardi di euro di crediti scaduti nei confronti dello Stato, capite che è una
situazione difficile, abbiamo dovuto ricostruire tutto il sistema di finanziamento». Obbligazioni dunque
indispensabili in questa fase. Sempre in tema di trasporti, ieri il ministro Lupi ha rassicurato quanti nutrono
perplessità sull'ingresso degli arabi di Etihad nella compagine azionaria di Alitalia e quanti - a partire dal
governatore lombardo Maroni - temono un ridimensionamento o peggio la chiusura dello scalo di Malpensa in
favore di Linate,a seguito della fusione tra i due vettori. «Nei piani che sono a mia conoscenza, Malpensa
rivestirà un ruolo fondamentale anche per Etihad», ha detto ieri il ministro. «Speriamo che si concluda
positivamente», ha poi aggiunto Lupi, parlando dell'alleanza con gli arabi. «Certamente non farà sparire il
tricolore. E se tedeschi e inglesi hanno paura, ben venga». Sui tempi per la chiusura della trattativa tra Alitalia
ed Etihad ha parlato ieri anche Gaetano Micciché, direttore generale di Intesa Sanpaolo, primo azionista
dell'ex compagnia di bandiera. «Ci sono i colleghi di Etihad in questi giorni a Roma, ma per chiudere occorre
ancora qualche settimana, una quindicina di giorni». Ottimista pure Federico Ghizzoni, ad di Unicredit: «È
una trattativa seria».
09/02/2014 22Pag. La Repubblica - Ed. nazionale(diffusione:556325, tiratura:710716)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 108
Il personaggio Marchionne potenziale secondo socio ma fino al 2017 farà solo l'ad di Fiat Tra stock option e diritti un "tesoretto" di 27 milioni di azioni A febbraio, in soli 2 giorni, il manager ha raccoltofondi per 5 miliardi per l'operazione Veba PAOLO GRISERI TORINO - Il 3 febbraio, parlando a una radio di Detroit, aveva dichiarato: «Finita questa intervista vado a
Boston e New York a raccogliere fondi». Due giorni dopo, Sergio Marchionne aveva già raccolto i 5 miliardi di
dollari necessari a pagare la quota acquistata da Veba per salire al cento per cento di Chrysler. L'episodio
dimostra quanto sia decisiva oggi la figura dell'amministratore delegato nella costruzione di Fca, la nuova
Fiat. Tanto che è difficile immaginare la società senza Sergio Marchionne in ruoli operativi. Ma che cosa
accadrebbe se l'ad del Lingotto decidesse un giorno di tenere le azioni che ha ricevuto in questi anni come
stock option e stock grant e diventare azionista? Potrebbe salire fino al secondo posto tra i soci, sia pure a
notevole distanza dagli Agnelli. Anche se oggi sarebbe "solo" terzo. Chi gli ha parlato in questi mesi racconta
che «di fronte a questa ipotesi la sua reazione è una risata». Eppure è stato proprio Marchionne, a Detroit, a
spiegare che «stiamo lavorando per preparare adeguatamente la mia successione, qualsiasi sia il momento
in cui avverrà», non prima del 2017. ALLA GUIDA L'amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne
Quale sarebbe dunque il peso del Marchionne azionista? L'ad del Lingotto riceverà, entro il febbraio 2015, 7
milioni di stock grant, azioni gratuite che gli vengono consegnate in tre tranche uguali. La prima l'ha ottenuta
lo scorso anno, la seconda arriverà tra una settimana, il 22 febbraio, e la terza tra un anno. Le azioni Fiat
(che nei prossimi mesi si trasformeranno in azioni Fca) sono poco più di 1 miliardo e 250 milioni.
Oltre ai 7 milioni che arrivano a rate, il manager già possiede3 milioni di azioni. Altri 16,9 milioni sono azioni
che Marchionne potrebbe avere esercitando i diritti garantiti dalle stock option ottenute in base ai piani di
incentivazione del 2004 e del 2006. In questo caso si tratta di diritti che per essere esercitati hanno bisogno di
particolari condizioni: le stock option del 2004, che scadono nel gennaio 2016, possono essere trasformate in
azioni (oltre 10 milioni) se al momento della trasformazione il valore del titolo Fiat non supera i 6,583 euro. Le
stock option del 2006, che scadono a novembre di quest'anno, diventano azioni (6,25 milioni) solo se al
momento della trasformazione il valore del titolo è inferiore ai 13,37 euro. Oggi il titolo vale 7,3 euro e per
questo motivo se, ipoteticamente, l'ad decidesse di trasformare le stock option in azioni, otterrebbe solo
quelle garantite dal piano del 2006. Se invece nel prossimo futuro si verificassero le condizioni per esercitare
tutti i diritti in suo possesso, Marchionne otterrebbe dalle stock option 16,9 milioni di titoli Fiat. Così,
sommando le azioni oggi possedute (3 milioni), quelle che otterrà entro il febbraio 2015 (7 milioni) e quelle
che otterrebbe dalla trasformazione delle stock option, il manager potrebbe contare su un pacchetto di circa
27 milioni di azioni. Che scenderebbero a 21 nel caso in cui decidesse di pagare con la vendita di titoli le
tasse sull'acquisto (com'è accaduto nel 2012). Con 21 milioni di azioni in portafoglio, Marchionne avrebbe
l'1,7 per cento della società che salirebbe sopra il 2 (al 2,2) se decidesse di tenere tutti i 27 milioni pagando le
tasse in altro modo. E con il 2 per cento di Fiat, Marchionne sarebbe oggi il terzo azionista dopo Exor (30,1
per cento) e a poca distanza dalla società di investimento scozzese Baillie and Gifford che detiene il 2,6 per
cento. Per ora solo un'ipotesi: oggi risulta che l'ad voglia fermamente continuarea svolgere il mestiere che fa.
Ma in futuro?
I numeri
3,26 mln LE AZIONI Dal 2012, Sergio Marchionne possiede 3 milioni e 260 mila azioni della Fiat, così come
risulta dai documenti ufficiali della società con sede al Lingotto
7 mln GLI STOCK GRANT Entro il febbraio 2015, il manager otterrà 7 milioni di azioni di Fiat in stock grant.
Sono pagati in tre tranche. La prima è stata versata nel mese di febbraio del 2013
16,9 mln LE STOCK OPTIONS In base ai piani di incentivazione del 2004 e 2006, l'ad ha opzioni su 16,9
milioni di azioni esercitabili soltanto se il valore del titolo è inferiore a un certo prezzo
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 109
Le idee Quei segnali per l'Unione ANDREA MANZELLA IPRONOSTICI del 25 maggio dicono che molti voteranno contro l'Europa che sbaglia. La tragedia è che
rischiano di colpire, invece, l'Europa che cambia.I segnali di una Ue che dopo la Grande Crisi ritrova la sua
ragione sociale, quasi per un "ravvedimento operoso", sono visibili e concreti.
Forse non riusciranno a contenere il vocio brulicante "contro". Contro l'euro, contro "Bruxelles", contro la
Merkel, contro l'idea che non si possa essere più "sovrani a casa propria"(quando casa nostra dipende dal
resto del mondo). Ma questi segnali di recupero ci sono: per una impresa che non è fallita, che continua a
meritare investimenti ideali, politici, istituzionali.
Quattro di questi segnali sono i più chiari di tutti.
Il primo è quello dell'Unione che si conferma come l'unico agglomerato multistatale del mondo in cui davvero
conta il primato di un diritto sovranazionale. Ecco il Tribunale costituzionale di Germania che, appena ieri, si
spoglia del suo pregiudizio negativo (sugli acquisti di titoli dei Paesi in difficoltà da parte della Banca centrale
europea). E chiede per la prima volta che il giudizio definitivo lo dia una istituzione europea: la Corte di
giustizia di Lussemburgo. È il punto del tempo preciso in cui la "posizione semi-egemone" tedesca - di cui
parlava Jurgen Habermas su Repubblica - si stempera sino ad annullarsi nella par condicio di fronte alla
Costituzione europea.
Il secondo dei segnali di cambiamento è nella proposta, avanzata dall'ultimo Consiglio europeo, di uscire
della gabbia d'acciaio di una politica economica basata su una presunzione di validità per tutti e per ognuno
dei 28 Paesi dell'Unione. Ora l'idea è che, nel quadro dei grandi orientamenti, vi possano essere contratti
bilaterali con ciascun Paese: adattamenti che tengano conto delle diversità di ognuno.
E che l'impegno a riforme, così liberamente assunto da ciascuno Stato con l'Unione, abbia come
contrapartita incentivi finanziari e flessibilità di bilancio.
Il terzo dei segni di mutamento europeo è nella personalizzazione transnazionale della campagna elettorale,
ormai aperta.
Sarà infine, come dice il Trattato, il parlamento europeo ad eleggere il presidente di una Commissione, che
ha nuovi, rafforzati poteri per la governance economica. Probabilmente sarà come sempre un compromesso:
"tenuto conto" del risultato delle elezioni. Ma il fatto importante è che leader come Schultz, Barnier, Tsipras,
Verhofstadt si impegnino in nome di movimenti politici che mostrano un passaporto europeo (e non
nazionale) e che portano avanti una idea di Europa condivisa (non in un solo Paese).
Il loro sforzo vale a "denazionalizzare" elezioni da sempre a rimorchio di "appartenenze" domestiche. Il
quarto segnale di una Unione che cambia si è visto nelle giornate interparlamentari di Bruxelles dal 20 al 23
gennaio scorso. È parso chiaro, pur tra tenaci resistenze, che il controllo democratico sul governo economico
dell'Unione e la sua stessa legittimazione, stessero assumendo una diversa fisionomia. Non più affidati al
solo parlamento europeo ma resi vitali dall'intreccio, con commissioni congiunte, dei poteri dell'assemblea
europea con quelli dei parlamenti nazionali. Un sistema parlamentare euro-nazionale: in cui il parlamento
europeo vive una sua terza vita (dopo quella della composizione per delegazioni nazionali e dopo quella della
separatezza) come pilastro centrale della cooperazione interparlamentare.
Sono questi dunque i segnali di una Unione che riprende fiducia. Essi corrono però ora il serio rischio di
essere oscurati dai fumogeni della polemica elettorale anti-europea. Che non è polemica "eversiva". Mario
Draghi - citato da Giorgio Napolitano nel suo gran discorso di Strasburgo - ammette che «il secondo decenio
di vita dell'euro», è stato usato «per disfare gli errori del primo». Ma l'attacco all'Europa è, ora, uno
straordinario sbaglio politico. A che servirebbe un parlamento europeo che diventi antieuropeo, in assimetria
paralizzante rispetto alle altre istituzioni dell'Unione e agli stessi governi e parlamenti nazionali? In Italia -
sempre all'avanguardia in questo tipo di invenzioni politiche- lo stiamo già sperimentando un Parlamento con
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 110
il 25 per cento dei voti nella ghiacciaia del "no a prescindere". In scala europea, dove sono necessariamente
più complicati e fragili gli equilibri istituzionali, sarebbe un disastro. E toccherà proprio a noi, da giugno a
dicembre, presiedere agli effetti del dopo-voto e al rinnovo del pacchetto di nomine istituzionali della Ue. Ecco
anche perché è essenziale, per noi e per l'Europa, avere in quei mesi un governo stabile, non insidiato da
trappole interne, capace di parlare con la voce della nostra tradizione europeista: che è logica di moto
continuo per l'integrazione. La strada è difficile: ma il percorso è in un certo senso già tracciato proprio da
quei segnali di ripresa dell'Unione.Primo.
Con tutto probabilità la sentenza della Corte di giustizia sugli OMT darà nuova legittimazione alla Banca
centralee alla sua "politica economica" con strumenti monetari. Il disegno di governo della zona Euro potrà
acquistare forza e responsabilità. La zona Euro si prospetta così come il modello di governo, concreto e
possibile, dell'intera Unione: con l'Eurosummit (il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo); con l'Eurogruppo
(il Consiglio dei ministri finanziari); con la stessa Commissione (impegnata nel coordinamento dei bilanci
nazionali). Una prospettiva da approfondire senza tabù.
Secondo. I contratti per le riforme tra Stati e istituzioni dell'Unione, nel contesto delle compatibilità europee,
dovranno segnare la svolta della differenziazione rispetto all'ossessione delle riforme "lineari". E per noi è
l'occasione di reinquadrare nell'interesse europeo le riforme nazionali del patto di governo: in cambio dei
margini di flessibilità finanziaria che ci sono necessari per la ripresa.
Terzo. Ricercando delicati equilibri nella nuova Assemblea europea e nel "pacchetto" delle altre cariche
istituzionali, dovremo lavorare per la "parlamentarizzazione" delle esordienti forze politiche di rinnovamento:
bilanciandole con la "responsabilità per l'integrazione" delle vecchie famiglie europee.
Quarto. Dovremmo risolutamente schierarci con iniziative concrete, per la cooperazione interparlamentare:
convinti che solo dalla compenetrazione dei poteri parlamentari (con il parlamento europeo nel ruolo di
federatore) potrà venire in questa fase liquida di transizione, la legittimazione determinante per il governo
economico dell'Unione. Su questi percorsi di lavoro, perfino l'avverarsi dei pessimi pronostici del 25 maggio
non potrà fermare una Europa che si muove.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 111
R2 Il nuovo fenomeno mentre l'Istat avverte: 7 milioni di giovani a carico della famiglia Generazione Boomerang così la crisi spinge i 30enni a tornare dai genitori"Impossibile farcela da soli" MARIA NOVELLA DE LUCA DE LUCA E VINCENZI ALLE PAGINE 35, 36 E 37 Alcuni dicono che è come avere le ali spezzate. Altri non
disfano mai la valigia. Altri invece, più ottimisti, parlano di "scalo tecnico", di pausa obbligata, di momentanea
sosta. Per tutti però,a venticinque,a trenta, addirittura a quarant'anni, l'approdo è lo stesso: la casa dei
genitori, il welfare sicuro di mamma e papà, il luogo da cui si era andati via per tornare al punto di partenza. I
sociologi l'hanno definita "generazione boomerang", ti lanci fuori e vieni ributtato dentro, ma il dato ancora più
nuovo è che tra i boomerang kids ci sono ormai anche le classi dell'età adulta, chi ha perso il lavoro, chi si è
separato, chi non ce la fa più a pagare l'affitto. Un (mesto) gioco dell'oca che riguarda oggi in Italia uno
spropositato numero di giovani, il 70% degli under 30, che dopo aver provato a farcela da soli sono costretti a
ripiegare sul nido domestico.
MARIA NOVELLA DE LUCA Ecosì si fa marcia indietro, a volte addirittura in coppia, con i figli piccoli, verso
l'unico ammortizzatore sociale che seppure azzoppato in Italia ancora resiste, e cioè la famiglia e le pensioni
dei genitori. (Nella fascia d'età tra i 25 e i 34 anni il 41,9% dei figli vive ancora a casa, ma persiste anche un
7% di quarantenni che non vogliono lasciare la residenza di sempre o che invece lì sono tornati). «Quando è
fallito il nostro negozio di elettronica - scrive Sonia sul suo blog Ricominciamo - i miei genitori ci hanno
proposto di sistemarci nella loro mansarda con i bambini. È stata una salvezza, anche se passare da una
casa vera ad un monolocale di 30metri quadri in quattro, e tornare a convivere con mamma e papà a 35 anni
è stata davvero dura. Ma senza più l'angoscia dell'affitto, dovendo soltanto condividere le bollette e la spesa,
Ettore ed io abbiamo provato a rimetterci in pista. Oggi vendiamo online prodotti bio per l'infanzia, soprattutto
i pannolini di stoffa. Ho quasi paura nel dirlo, ma sta andando bene...».
In tutta Europa, ma a sorpresa anche negli Stati Uniti e in quei Paesi che avevano fatto dell'autonomia dei
giovani un cardine sociale, è in corso una rivoluzione al contrario.
Il lavoro precario, gli affitti impossibili, la fine dei percorsi di studi, la stessa instabilità della vita affettiva,
stanno creando il fenomeno dei "ritorni indietro". E se in Italia la "famiglia lunga", e i legami comunque molto
stretti tra genitori e figli anche adulti fa sì che da noi l'effetto boomerang abbia caratteristiche del tutto
particolari, per nazioni come l'Inghilterra o gli Stati Uniti è un vero shock culturale. E infatti la definizione
boomerang kids è americana, ed è il racconto di migliaia di studenti, che dopo aver contratto il prestito
d'onore per poter pagare l'università, non trovano lavoro, sono indebitati, e dunque devono rinunciare
all'autonomia.
Questa migrazione al contrario è per l'Italia invece un'emergenza nuova, come dimostra il "Rapporto giovani
2013" dell'Istituto Toniolo di Milano, che ha dedicato al "boomerang" un intero capitolo. «Il nostro paradosso -
dice Alessandro Rosina, demografo e direttore scientifico del rapporto - è che proprio quando i giovani italiani
stavano provando a farcela da soli, ad anticipare l'uscita dalla famiglia, la crisi ha bloccato questa voglia di
autonomia. Il dato, altissimo, del 70% di under 30 che tornano a casa, vuol dire che però in tanti ci hanno
provato a rendersi indipendenti».
Ma nel giro di pochi anni l'entusiasmo si spegne.
«Si rientra alla fine di un periodo di studio all'estero, si torna perché il lavoro precario con cui si sperava di
cominciare una vita nuova si interrompe, perché le risorse sono finite. Tra i boomerang kids c'è chi vive la
casa di famiglia come uno scalo momentaneo, una sosta per ripartire, e c'è chi invece progressivamente si
ripiega su se stesso, accade soprattutto ai più adulti, la famiglia diventa un rifugio dal mondo». Il senso di
fallimento induce alla rassegnazione, e così anche chi aveva provato ad uscire in mare aperto, scivola
nell'esercito dei "neet", quegli oltre due milioni di trentenni che non studiano, non lavorano, ma soprattutto
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 112
non cercano più né un impiego né una nuova strada.
«Per la mia generazione - ragiona Piero, 27 anni, napoletano, una laurea in Storia, un dottorato in Inghilterra
- ripiombare nella condizione di figlio è davvero qualcosa di regressivo, una specie di anticamera della
depressione.
Viaggio da quando ero al liceo con il progetto Leonardo, poi ho fatto l'Erasmus, sono riuscito con orgoglio ad
avere una borsa di studio alla London School of Economics.
Ma finiti i fondi sono dovuto tornare. Non sopravvivi in Inghilterra senza un buon lavoro. Qui da noi
l'università è chiusa, figuriamoci, volendo posso insegnare gratis e lo faccio, meglio di niente. Sto cercando di
ripartire. Sì, il mio è uno scalo tecnico. E intanto mi ritrovo ad essere figlio. Dormo nella stanza con mio
fratello che di anni ne ha 25. A volte ridiamo come pazzi. A volte ci viene da piangere».
Sì, perché questi "rientri adulti", come sottolinea Elena Marta, docente di Psicologia di Comunità alla
Cattolica di Milano, non sono indolori. Nonostante la famiglia italiana sia antropologicamente disposta
all'accoglienza. «Se più generazioni si ritrovano sotto lo stesso tetto tutto è da riscrivere, anzi da rinegoziare:
spazi, abitudini, confini. Il rischio è che i genitori ricomincino a comportarsi come se avessero in casa un
adolescente, e i figli già grandi, complice il fallimento della vita autonoma, scivolino in una dimensione di
rinuncia». Quando poi a convivere le età sono tre, nonni, figli e nipoti, tutto è ancora più complicato. Ed è
quello che sta accadendo oggi sempre più spesso, perché la "generazione di mezzo" non ce la fa più, e sono
ormai interi nuclei a cercare riparo sotto il tetto (e la pensione) dei nonni.
«Se si sopravvive alla coabitazione forzata - aggiunge Elena Marta - si può anche creare una relazione
virtuosa di aiuto reciproco, in cui i figli adulti riscoprono i genitori anziani, e i nipoti si ritrovano in una
dimensione di affetto più vasta». Anche se, tornando ai più giovani, è proprio la conquista dell'autonomia il
vero gol dell'andare a vivere da soli. (Lo afferma il 67% degli intervistati nel "Rapporto giovani", mentre per il
77,2% affrancarsi significa soprattutto poter gestire più liberamente un rapporto di coppia).
«Il problema dei boomerang kids non è più soltanto italiano - conferma Alessandro Rosina - ma oltre i nostri
confini la situazione è sicuramente più dinamica, esistono i centri per l'impiego, ci sono i sussidi, canali più
solidi per entrare nel mondo del lavoro, mentre da noi resistono soltanto le reti informali, legate molto spesso
alla famiglia».
Certo, a guardare i numeri, sembra una disfatta. Perché al 70% di ragazzi costretti ad emigrare al contrario,
si aggiungono gli adulti che perdono il lavoro e tornano a pesare sugli anziani. E infine una categoria ben
precisa: i separati e i divorziati. Luca Salmieri insegna Sociologia della Cultura all'università "La Sapienza" di
Roma. «Quando la coppia si rompe i maschi riapprodano nella dimora d'origine. Per cultura, per bisogno, per
comodità.
Oggiè sempre più difficile avere due vite autonome dopo una separazione, spesso la casa resta alla madre
coni figli, quindiè frequente che si cerchi soccorso dai genitori. Permanenze che possono durare anni, e che
dunque ingrossano le file dei boomerang kids». Infatti. La famiglia italiana è diventata più piccola, ha perso il
suo carattere di clan, ma, dice Salmieri,i legami restano stretti, «come fosse un elastico che si allarga e si
restringe a seconda delle generazioni che deve co ntenere».
Giovanna ad esempio che dopo essere rimasta sola con Isabella, 5 anni, è tornata nella casa materna.
«Una brutta separazione, e lui è scomparso. Niente soldi, niente telefonate, nulla. Forse economicamente ce
l'avrei potuta fare, ma ho un lavoro impegnativo e Isabella era sempre da sola con la baby sitter. Così quando
mia madre mi ha proposto di andare a vivere con lei, ci ho pensato a lungo e poi ho accettato. Ho perso la
mia autonomia, a 37 anni tornare nella casa dei genitori può sembrare una sconfitta. Ma Isabella oggi è
protetta e felice e mia madre fa la nonna a tempo pieno. E in fondo siamo tutte più serene».
PER SAPERNE DI PIÙ www.istat.it www.rapportogiovani.it
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 113
Il premier Guerra alla burocrazia e alla criminalità economica così Letta prova arilanciare Il nuovo patto di governo ribattezzato "matrice" Palazzo Chigi fa proprio il rapporto Garofoli contro le mafie el'autoriciclaggio L'incontro con il capo dello Stato previsto per domani o giovedì VALENTINA CONTE ROMA - Rilancio economico e legalità. Competitività e lotta alla criminalità. Il premier Letta parte da questi
capitoli chiave per ultimare e limare "Impegno 2014", il contratto di coalizione che intende presentare al
presidente Napolitano domani o al più tardi giovedì. Un documento che raccoglie le proposte dei ministri e dei
partiti della maggioranza (consultazioni sono ancora in corso). Strutturato secondo la matrice europea
"obiettivi, azioni, scadenze, responsabili", spiegano da Palazzo Chigi. «Non un documento retorico, neanche
un file Excel», quello invocato da Renzi, che servirà a delimitare in modo stringente il campo d'azione
dell'esecutivo nell'anno in corso. In più, ad evitare se possibile la prevista " jobless recovery ", una ripresina
senza lavoro. Il mix di ingredienti del nuovo patto ruoterà attorno ad un pacchetto per le imprese -
semplificazioni fiscali, sburocratizzazione "radicale", decontribuzione, digitalizzazione, incentivi
all'internazionalizzazione, energia meno cara, credito più facile - e un nuovo impulso all'occupazione.
Certamente dentro "Impegno 2014" non finiranno né le riforme istituzionali - legge elettorale, abolizione delle
Province, fine del bicameralismo perfetto, titolo V della Costituzione - né tantomeno il jobs act, la riforma del
lavoro. Iniziative politiche di fatto "appaltate" al Pd di Renzi. «Ma entrambe, soprattutto le riforme istituzionali,
sono considerate intrecciate al nuovo patto di governo», precisano da Palazzo Chigi.
Per il resto, gli obiettivi di "Impegno 2014" sono quelli annunciati dal premier già l'11 dicembre scorso, nel
discorso sulla fiducia alla Camera. Far scendere contemporaneamente debito, deficit, spesa pubblica e tasse
su famiglie e imprese. Raggiungere l'1% di crescita nel 2014 e il 2% nel 2015. Rilanciare gli investimenti
pubblici. Aggiornare le politiche di competitività industriale. Creare un clima più favorevole agli investimenti
anche esteri, semplificando il Codice del lavoro e quello fiscale e riformando la giustizia civile.
In tema di legalità, e sempre nell'ottica di rilancio della competitività delle imprese, "Impegno 2014" recepirà il
rapporto Garofoli (redatto dai giudici Cantoni e Gratteri, sul sito del governo) e dunque misure audaci contro
la criminalità economica e l'autoriciclaggio, con la revisione della disciplina sui beni confiscati e sui
collaboratori di giustizia, oltre all'inasprimento del 41 bis. Nella nuova "matrice" troveranno spazio anche la
riforma della dirigenza pubblica (con l'esclusività degli incarichi) e il piano per il turismo. In fila, annunciati da
Letta, anche gli interventi per rilanciare università e ricerca. La Costituente della scuola. L'Agenda verde. Le
dismissioni da attuare - il primo blocco vale tra i 10 e i 12 miliardi - e il piano nazionale di porti e aeroporti da
definire. Oltre alla revisione della spesa affidata al commissario Cottarelli, la madre di tutte le risorse per
abbassare debito e tasse sul lavoro.
Infine, il contatore della semplificazione. Un sito unico del governo open data e della P.a. per verificare e
valutare tutte le promesse. Un chi fa cosa, insomma.
MATRICE Il patto di governo sarà scritto come una "matrice" con obiettivi, azioni, scadenze e responsabili
I punti COMPETITIVITÀ Una parte del patto incentiverà le imprese e il loro grado di competitività in Italia e
all'estero LAVORO Un'altra parte del patto riguarderà l'occupazione: come aiutare le aziende a creare posti di
lavoro TURISMO E DIRIGENTI Nel patto di governo, anche misure per il turismo e la riforma della dirigenza
pubblica PER SAPERNE DI PIÙ www.governo.it www.confindustria.it
Foto: IL COMMISSARIO Carlo Cottarelli presenterà il suo piano di spending review "al più tardi ad inizio
marzo". Previsti 32 mld di tagli entro il 2016
Foto: IL FILE DI RENZI Renzi chiede a Letta di usare un file Excel per indicare chi fa cosa. Il premier si
inventa la "matrice"
10/02/2014 9Pag. La Repubblica - Ed. nazionale(diffusione:556325, tiratura:710716)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 114
L'intervista Aurelio Regina (Confindustria): Monti varò gli incentivi per le start-up, dopo 20 mesi mancanoancora i decreti attuativi "Basta lentezze, serve una terapia d'urto meno tasse sul lavoro e piùopere pubbliche" Noi non siamo pro o contro Letta. Ma qui si parla solo di rimpasto Se non si agisce subito, rischia lo Statosociale LUISA GRION ROMA - Più che un grande piano, servono proposte choc: non abbiamo bisogno di tanti, dispersivi interventi,
ma di poche e mirate misure di rapida realizzazione. «Il resto del mondo non ci aspetta, gli altri Paesi-
America in testa - stanno mettendo in atto politiche industriali molto aggressive e noi dobbiamo cogliere al
volo le poche occasioni che si presentano». Aurelio Regina, vicepresidente di Confindustria per lo sviluppo
economico, crede nei progetti snelli: «Abbiamo perso troppo tempo dietro interventi mai realizzati. Un
esempio? Gli incentivi per le start-up varati dal governo Monti: sono passati venti mesi e i decreti attuativi non
sono ancora arrivati».
Cosa chiederete al premier Letta il 19 febbraio, quando interverrà al vostro Consiglio direttivo? «Una forte
terapia d'urto. Non c'è più tempo per sperimentare, qui sta cambiando la struttura dell'economia: negli ultimi 5
anni abbiamo perso 9 punti di Pil, la ricchezza per abitante è diminuita del 12%, i consumi dell'8, la
produzione è scesa del 25 e la disoccupazioneè più che raddoppiata. Serve una scossa, non un ampio
progetto».
Qual è la vostra idea di scossa? «Pochi punti, a partire dal taglio del cuneo fiscale, un intervento
fondamentale vista la sua doppia valenza: alleggerisce il carico delle imprese e aumenta la busta paga dei
dipendenti. Il rilancio degli investimenti pubblici: ci sono soldi già stanziati per opere cantierabili, cosa
aspettiamo? Il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione: ancora non si sa neanche a quanto
ammonti la somma totale che lo Stato deve alle imprese. L'allentamento del Patto di stabilità interno,
necessario per ampliare i margini di manovra delle Regioni.
Un pesante intervento sul costo dell'energia che rimoduli l'ammontare degli oneri parafiscali, promesso dal
ministro Flavio Zanonato. Il rafforzamento del fondo di garanzia, necessario a ridare ossigeno alle piccole
imprese. Un credito d'imposta per le aziende che fanno ricerca e si digitalizzano». E tutto questo si può fare
in tempi stretti e con pochi soldi? «Sì, basta individuare le priorità.
Su questo piano c'è condivisione e, rubando la battuta ai giovani di Confindustria, dico: se conosci il
problema e non intervieni, o ti manca il coraggio o la leadership».
Questo quello che pensate di Letta? «Noi non siamo pro o contro il suo governo, siamo solo molto
preoccupati che si parli solo di rimpasto o cambio al vertice e non si capisca che qui, se non si procede con
urgenza, rischiamo di perdere la nostra base industriale con conseguenze durissime sullo stato sociale». Le
riforme istituzionali non sono altrettanto importanti? «Certo che lo sono. Senza entrare nel merito del sistema
elettorale di cui si sta parlando, è necessario rendere governabile il Paese e quindi, prima di tutto, superare il
bicameralismo perfetto. Ed è di assoluta importanza anche la riforma del Titolo V: un intervento che ha
bloccato il Paese e ha fatto lievitare i costi.
Un esempio tra i tanti? Il ritardo per la mancata posa, per motivi meramente burocratici, del secondo cavo
sottomarino di collegamento per l'energia elettrica con la Sicilia,c osta ai cittadini 600 milioni di euro l'anno in
bolletta».
Foto: VICEPRESIDENTE Aurelio Regina, numero due di Confindustria
10/02/2014 9Pag. La Repubblica - Ed. nazionale(diffusione:556325, tiratura:710716)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 115
"Preoccupati dall'immobilismo del governo Spargere ottimismo nonconviene" Squinzi (Confindustria): servono interventi seri, il Nord è terrorizzato IL PRESSING SULL'ESECUTIVO «Nonho accordi con nessun politico, voglio solo rappresentare l'angoscia del paese produttivo» FRANCESCO SPINI MILANO Ormai per il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, è una corsa. Una corsa a suonare quotidianamente
l'allarme a un governo assopito perché faccia in fretta, «perché non ho mai visto politiche e strategie costruite
su macerie cercate con cura, quasi con ostinazione». A Sesto San Giovanni, primo hinterland milanese ex
terra di operai e capannoni, Squinzi può continuare a spronare il governo, rivolgendo le doglianze al ministro
di turno, Maurizio Lupi, titolare delle Infrastrutture, anche lui presente al convegno della Fondazione Tempi
sul Nord e le sue infrastrutture. «Siamo preoccupati, terrorizzati dall'andamento dell'economia reale nel
Paese e in particolare nel Nord», dice Squinzi. Racconta i chiaroscuri di un Paese in affanno, in cui emerge la
«questione settentrionale». Dalla platea gli chiedono se confermi il giudizio sul governo Letta. E lì, il
presidente di Confindustria, attacca la grancassa. «Siamo preoccupati dalla mancanza di reazione del
governo» di fronte alle «richieste precise» fatte nel tempo. Per questo spiega di aver sollecitato Letta e lo
attende al varco il 19 al consiglio direttivo. «Io credo che sia negativo spargere ottimismo in questo momento
- dice - perché purtroppo lo stato dell'economia reale non ce lo consente. I dati continuano ad essere
negativi». Dice che anche il «presunto» +0,3% previsto per l'ultimo trimestre 2013 è «tutto da confermare».
Basti pensare che a gennaio i consumi di energia elettrica sono in calo del 4%, «e non credo sia dovuto solo
a un fattore meteorologico». La situazione è complessa, «vediamo le aziende che chiudono, le centinaia di
migliaia di disoccupati, osserviamo con preoccupazione l'approssimarsi alla fine della cassa integrazione».
Insomma una situazione che «non so se riusciremo a superare: dobbiamo ritrovare la crescita». Gli tocca
pure precisare: «Non ho accordi di nessun tipo con nessun politico, voglio solo rappresentare l'angoscia del
Paese produttivo, in assenza di interventi seri per uscire da questa situazione». Da Letta, dice, attende per lo
meno «segnali di buona volontà, un impegno a operare nella direzione giusta». Ma l'immobilismo, quello no.
Tocca a Lupi difendere il governo. «Potrei elencare le cose che sono state fatte - dice -, ma se non sono
sufficienti significa che ci dobbiamo rimettere in discussione. Secondo me l'azione di governo negli ultimi 2-3
mesi dello scorso anno è stata rallentata dalle tensioni tanto nel Pd» con le primarie «quanto nel Pdl, con la
nascita di Forza Italia e Nuovo centrodestra». Quindi serve un rilancio, «con 6-7 priorità e non di più». Per
parte sua pensa a grandi, medie, piccole opere, manutenzioni straordinarie del territorio e lotta alla
burocrazia, lotta che però «si scontra con poteri consolidati all'interno della struttura pubblica che dobbiamo
scalzare». Avverte il ministro: «Noi non possiamo permetterci di galleggiare, non possiamo neanche
permetterci che il segretario del partito di maggioranza che sostiene questo governo da una parte lo sostenga
e dall'altra lo bombardi perché questo crea instabilità al Paese». E quindi: «Renzi ha delle proposte? Le
proponga. Ha degli uomini bravi che possono interpretare queste proposte? Li metta al governo!». E sempre
a Renzi manda a dire: «Basta con le manfrine» sull'opportunità o meno di andare a votare. «Non ce la
facciamo più!», sbotta Lupi. La platea sciama, con in testa i dati appena sciorinati da Squinzi, un allarme
rosso sull'edilizia dove opera con la sua Mapei: «Il consumo del cemento a gennaio è calato di un altro 9%
rispetto al gennaio 2013, quando era calato del 12% sul 2012. Non possiamo aspettare che per miracolo il Pil
cominci a migliorare, servono le cose necessarie a far partire l'economia. Siamo nelle mani di questo
governo...».
Ha dettoGiorgio Squinzi
Siamo preoccupati, siamo terrorizzati dall'andamento dell'economia reale
09/02/2014 2Pag. La Stampa - Ed. nazionale(diffusione:309253, tiratura:418328)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 116
Foto: Imprese
Foto: Giorgio Squinzi presidente di Confindustria ieri ha parlato davanti agli imprenditori lombardi
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 117
Vittoria poco sopra il 50%, Paese spaccato. Il presidente del Parlamento europeo: questo voto darà fiato aipopulisti Svizzera-Ue, crisi sugli immigrati A Berna passa il referendum: sì alle quote. Bruxelles: accordi a rischio Una scossa per l'Ue dalla Svizzera, dove vincono i «sì» al referendum sulle quote d'ingresso per gli stranieri.
Ci vorranno tre anni per definire cifre e fare una legge, ma il segnale preoccupa Bruxelles. Il presidente del
Parlamento europeo, Schulz: questo voto darà fiato ai populisti. Bresolin e Mastrobuoni ALLE PAGINE 2 E 3
La Svizzera non ha l'euro, non fa parte dell'Ue, ma a pochi mesi dalle elezioni europee sarebbe meglio non
sottovalutare il segnale arrivato ieri da un Paese nel cuore del continente, dove quasi tre milioni di cittadini
hanno deciso di votare a favore di un tetto agli stranieri. E il risultato rimbalza subito fuori dai confini della
Confederazione. Nel tardo pomeriggio il risultato scioccante del referendum anti-immigrati, col quorum al 56%
e i «sì» al 50,3%, segna inevitabilmente, come ha ammesso la ministra della Giustizia, Simonetta
Sommaruga, «una svolta fondamentale» nella politica migratoria, che avrà «ripercussioni di ampia portata»
nei rapporti con Bruxelles. Sommaruga, che ha fatto autocritica per una campagna governativa per il «no»
troppo fiacca, non ha citato ulteriori dettagli sulle intenzioni dell'esecutivo, anche perché la consultazione
popolare non propone una quota precisa. Il presidente della Confederazione, Didier Burkhalter, ha tentato di
mettere le mani avanti con Bruxelles, affrettandosi a sottolineare che l'accordo sulla libera circolazione delle
persone del 2002 non è in discussione. Al di là di regole e trattati a preoccupare sono le ripercussioni
nell'immediato fuori dai confini della Confederazione. I timori li spiega bene Martin Schulz, socialista,
presidente del Parlamento europeo che proietta il risultato referendario sul futuro e rilancia lo spettro dei
populisti: Il «sì» alle quote - dice - «rischia di essere sfruttato» in vista del voto continentale di maggio. «Ora
si aprirà -spiega - un nuovo dibattito sulla libera circolazione delle persone nella Ue». Da oggi, il Paese di
Guglielmo Tell sarà tuttavia più isolato dal resto d'Europa, o chiederà di diventarlo. Ed è, tra l'altro, un esito
che ha colto molti di sorpresa. Fino a pochi giorni fa, la partecipazione al referendum prometteva di essere
bassa. Anche perché l'intero establishment elvetico, il governo, il parlamento, i partiti tradizionali, l'industria, i
sindacati, ma anche i principali mezzi di informazione si erano schierati contro il referendum promosso dal
partito nazionalista Svp. Invece, hanno prevalso le parole d'ordine degli ultraconservatori, che ora chiedono
che la volontà popolare si traduca rapidamente in limiti agli arrivi dei migranti e regole che prediligano
lavoratori elvetici rispetto a quelli provenienti dall'Italia, dalla Bulgaria o dal Marocco. È chiaro infatti che il
risultato dovrebbe spingere il governo a mettere in discussione nel giro dei prossimi tre anni importanti
accordi con la Ue, a partire da quello che consente a chiunque che abbia un lavoro e risorse sufficienti per
mantenersi, di trasferirsi nella Confederazione. All'ondata di «sì» hanno resistito solo la parte francofona e le
grandi città come Zurigo, Ginevra e Berna. I 17 cantoni oltre «la valle del Roesti», come viene chiamato il
limite con le aree di lingua tedesca, hanno scelto di votare «sì». In Ticino i «favorevoli» sono arrivati al 68%.
Per capire l'umore che circola negli ultimi anni in Svizzera, bisogna sapere che è il Paese, assieme al
Lussemburgo, con il più alto numero di stranieri in Europa: uno su quattro. E i flussi migratori provenienti
dall'Ue si sono rivelati, da quando Berna ha sottoscritto oltre dieci anni fa l'accordo per la libera circolazione
dei lavoratori, dieci volte quelli previsti dal governo, circa 80mila all'anno. A poco sono valse le
argomentazioni degli esperti che hanno diffuso calcoli sulla scarsa convenienza di un limite all'immigrazione,
in un Paese che ha bisogno di lavoratori stranieri. La paura dell'altro, ancora una volta, è stata più forte della
ragione.
Gli euroscettici12%16,2%Cittadini svizzeri ex immigrati
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 118
15,7%Brava alla Svizzera che ha detto no all'immigrazione di massa. E ora la Ue manderà i carri armati?Stranieri: 23,3% di cuiNuovi immigrati nel 201313%5,6%Quello che è successo in Svizzera, può succedere anche da noi: limiti all'immigrazione e fuori dall'UeItaliani residenti in Svizzera5,4%80 mila
294 mila SERBI ITALIANI TEDESCHI FRANCESI PORTOGHESI Geert Wilders, Pvv olandese Marine Le
Pen, Front National francese
50,3%favorevoli La vittoria dei «sì» a un tetto per gli ingressi ha vinto di strettissima misura Affluenza al 56%
Foto: Un poster elettorale nelle strade di Zurigo invita a votare «sì» alle quote per l'immigrazione
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 119
IL CASO Commercio, export e dazi le intese che possono saltare Le merci e le persone circoleranno con maggiore fatica Effetto "ghigliottina": la fine di un patto è la fine di tutti Marco Zatterin A PAGINA 2 Commercio, export e dazi le intese che possono saltare CORRISPONDENTE DA BRUXELLES
La Svizzera rischia la ghigliottina e, per uno Stato che non ha mai avuto un re, è paradosso non da poco. Il
peggiore dei destini che può attendere la confederazione elvetica dopo il «no» all'«immigrazione di massa»
pronunciato da una risicata maggioranza è quello di vedere tagliati tutti gli accordi bilaterali con l'Ue.
Introdurre un tetto al numero dei lavoratori in entrata porterebbe la decadenza all'intesa per la libera
circolazione, cosa che farebbe scattare la cosiddetta «clausola ghigliottina», secondo cui la fine d'un patto
sarebbe la fine di tutti gli altri. Con un colpo solo. Proprio come Maria Antonietta e Luigi XVI. A Bruxelles si
registrano reazioni irritate e preoccupate. Gli uomini sul ponte di comando dell'Unione vedono nel voto
elvetico la conferma della crescente offensiva populista, e misurano la debolezza delle loro promesse e
statistiche davanti all'ondata emotiva antistraniero. Con un comunicato nelle quattro lingue cantonali, la
Commissione ha espresso rammarico per la possibile introduzione di limiti quantitativi all'immigrazione
perché « va contro il principio della libera circolazione tra Ue e Svizzera». Detto ciò, Bruxelles «esaminerà le
implicazioni sui rapporti bilaterali nel loro insieme». Il linguaggio è diplomatico, eppure è difficile che tutto resti
come prima. La Svizzera sta negoziando in queste settimane alcune intese importanti con l'Unione, la
partecipazione ai programmi di ricerca, come alle reti per l'energia comune e la cultura. C'è sul tavolo anche il
dossier Erasmus che disciplina la partecipazione degli studenti elvetici al programma per il 2014-2020. «Non
credo che si potrà discutere nello stesso clima», ammette una fonte europea. Segue la clausola ghigliottina.
Se in tre anni il governo e il parlamento svizzero adotteranno le quote, si scatenerà un micidiale effetto
domino sul primo pacchetto di accordi bilaterali in vigore dal 2002. Salteranno tutti a partire dalla libera
circolazione delle persone, ci saranno maggiori ostacoli al commercio, saranno più complesse le gare di
appalto, così come l'export di prodotti caseari ed alimentari oggi a dazio zero. Le merci circoleranno con più
fatica, mentre Schengen potrebbe salvarsi perché intergovernativo. Si tornerà indietro di 15 anni in un mondo
che, da allora è cambiato non poco. Tutto ciò preoccupa perché a Bruxelles ci si rende conto che le
statistiche non sfondano. Oggi a Bristol il commissario Ue per il Welfare, László Andor, spiegherà agli scettici
britannici che l'immigrazione non è un problema. Ha numeri ed esempi in abbondanza. Dirà che la mobilità
annuale dei lavoratori comunitari vale lo 0,2% della popolazione contro il 2,7 americano. Rileva che in Svezia
il flusso è stato minimo nonostante l'apertura. Che in Italia i romeni sono arrivati prima dell'adesione. Che la
migrazione interna è valsa un punto di Pil all'Ue nel 2004-2009. E che i cittadini mobili sono appena il 2% dei
senzalavoro del 2013. Secondo le statistiche non c'è esodo di lavoratori poveri. Ma è chiaro che non basta. E
che Bruxelles non ha ancora un antidoto.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 120
Intervista Venturi: le imprese muoiono Basta aumentare le tasse e inseguirel'emergenza ROMA Marco Venturi, presidente Confesercenti e Rete imprese Italia, in una settimana caldissima per il
futuro del governo e del Paese lei domani incontra il premier, Enrico Letta. Cosa gli dirà? «È più che altro una
visita di cortesia per parlare della manifestazione che Rete imprese Italia ha organizzato per il 18. Vogliamo
aprire un dialogo e successivamente affronteremo i temi di merito». Potrebbe perfino cambiare l'interlocutore
a palazzo Chigi, nel caso cada il governo. «Penso che per il 18 ci sarà comunque qualcuno. Vedremo. Per
noi la manifestazione è indetta e la manterremo, indipendentemente dalle vicende governative. Dev'essere
un monito, vogliamo che si affrontino una serie di problemi con Letta o con l'eventuale nuovo governo». Quali
i temi da affrontare? «I problemi con il fisco valgono per qualunque governo e anche con i partiti con cui ci
rapporteremo per chiedere un'attenzione diversa verso le piccole e medie imprese, tenendo conto di quello
che sta succedendo. La disoccupazione nasce dalla chiusura delle imprese. L'aumento dell'Iva e della
pressione fiscale sono intollerabili in una situazione in cui i consumi stanno andando molto male. Se si pensa
solo alla cassa si rischia di incassare d i m e n o, co m e aveva m o detto e come sta succedendo. È il nodo
che non è stato sciolto perché si corre continuam e n t e d i e t ro l 'e m e rge n z a . Non è il modo di
affrontare una crisi lunga anni, serve un radicale cambiamento di rotta e bisogna agire sulla spesa». Chi
preferirebbe per risolvere questi problemi, Letta o Renzi? «Siamo parti sociali, la politica decida come
posizionarsi. Noi valutiamo il merito, in questo momento stiamo valutando il governo Letta e questi nodi non
sono stati affrontati e per questo facciamo la manifestazione. Nessuno di Rete imprese Italia (che raggruppa
cinque organizzazioni di categoria Confcommercio, Confesercenti, Cna, Confartigianato e Casartigiani) lo fa
per pregiudizio. Ma non è un nostro problema decidere quale sarà il governo deputato a risolvere questi
problemi». L'allarme di Confindustria sulla crisi è ingiustificato? «È arrivato anche il turno di Confindustria per
dire questa cosa. Ma che nel 2013 hanno chiuso 372 mila imprese l'abbiamo detto noi ancora prima di loro.
Abbiamo denunciato il dramma, perché di questo si tratta. E bisogna tenere conto che in passato ci sono
state chiusure, ma poi altrettante imprese aprivano. Ora ne mancano ne mancano all'appello 42 mila, un
saldo negativo che in termini di occupazione vuol dire una sola cosa: 120 mila addetti che sono senza
lavoro». Il governo prepara nuove misure per il rilancio del turismo. Cosa serve al comparto? «Il turismo, al di
là delle singole misure, deve assumere una valenza nazionale. Finora abbiamo delegato alle Regioni e il
ministero ha dei poteri limitati. Ogni regione fa la sua politica turistica e così non incidiamo su un mondo dove
la concorrenza è sempre più agguerrita. Noi abbiamo un tesoro incredibile che non sappiamo gestire. E non
parlo degli operatori, ma di chi ci governa. Manca da anni una politica e un portale nazionale vero che
funzioni. Il turismo meriterebbe di più perché darebbe di più in termini di lavoro e di risorse. Abbiamo la
stagionalità più corta dei Paesi del Nord Europa che hanno un clima molto diverso dal nostro. È una follia. Il
Mezzogiorno potrebbe risollevarsi solo con questo e invece non facciamo niente. Anche l'aumento dell'Iva
non aiuta il settore e accentua in negativo la diversità con altri Paesi concorrenti».
Imprese Marco Venturi è presidente di Rete Imprese Italia
Rete Imprese Italia Il 18 saremo in piazza Che a Palazzo Chigi ci sia Letta o Renzi non importa, l'importante
è che il governo prenda di petto la crisi e inizi davvero a tagliare le spese
10/02/2014 7Pag. La Stampa - Ed. nazionale(diffusione:309253, tiratura:418328)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 121
Magistrati acchiappa fantasmi del rating Alessandro De Nicola Sarebbe facile ricondurre la faccenda della Corte dei Conti, che chiede un risarcimento miliardario alle
società di rating per non aver tenuto conto della "dolce vita" e del Colosseo, all'ennesimo episodio di folclore
di cui sorridere senza dargli peso. La tentazione é facilitata dall'intervista rilasciata al Corsera da chi ha
sollevato il caso, il procuratore regionale della Corte dei Conti del Lazio, Angelo Raffaello De Dominicis.
Leggere che colui il quale dovrebbe capire i sofisticati meccanismi dell'assegnazione del rating parla di sprid
riferendosi allo spread e di down ground al posto di downgrade, assegnandosi il merito di aver smosso le
acque e di aver provocato il calo dello sprid , appunto, dovrebbe essere rassicurante. segue a pagina 10
segue dalla prima Infatti, si potrebbe concludere che siamo di fronte a un episodio bislacco che non porterà
alcuna conseguenza in quanto originato dall'autore di un saggio in cui si intrecciano i destini di Giulio
Andreotti, Paolo Conte e Tinto Brass, convintosi che il giudizio di Standard & Poor, Moody's e Fitch fosse un
l'indice di un attacco al nostro paese per far scendere il valore delle nostre aziende e comprarle a prezzi
convenienti. "Molto pittoresco" avrebbe commentato un gentiluomo britannico. Purtroppo le cose non sono
così semplici per due motivi. Il primo é che le imprese multinazionali prendono la situazione sul serio e, se
ricevono una notifica dell'apertura di "un'inchiesta giudiziaria contabile per il declassamento dell'Italia"
mobilitano i loro avvocati, emettono comunicati stampa e fanno filtrare la notizia al Financial Times in modo
che la ridicolizzi per bene. Se poi il procuratore di Trani, che ha trascinato in giudizio S&P per manipolazione
di mercato, subito si affretta a precisare che prende atto dell'iniziativa della Corte dei Conti "con la quale
abbiamo lavorato in piena sintonia". E, non pago, precisa che si tratta di "due strade che si muovono
parallele" e "noi ora siamo ad un passaggio chiave che dovrebbe preludere il rinvio a giudizio", anticipando
una decisione processuale, magari le agenzie di rating potrebbero convincersi che l'Italia non é un paese che
fa per loro. É vero che anche il Department of Justice americano ha iniziato un procedimento contro S&P
richiedendo 5 miliardi di dollari per la frode che l'agenzia avrebbe perpetrato assegnando un giudizio positivo
per anni alle cartolarizzazioni di mutui subprime. Tuttavia, l'accusa della giustizia USA é più dettagliata e 5
miliardi di dollari non sono i 351 miliardi di euro di cui parla il procuratore del Lazio (117 per le manovre del
governo e 234 per i danni all'immagine subiti dal Belpaese con il down-ground ). Se le tre società di rating
dovessero però decidere che dare le pagelle all'Italia o magari alle aziende pubbliche italiane é diventato un
azzardo per i rischi legali che ciò comporta, le conseguenze catastrofiche sarebbero tutte a carico del nostro
paese. Le agenzie, infatti, non hanno più il prestigio degli anni passati per gli errori commessi, ma tutt'oggi
sono obbligatoriamente prese in considerazione dagli investitori professionali di tutto il mondo quando devono
decidere quali titoli tenere in portafoglio. Vi immaginate Bot, Btp e Cct italiani e obbligazioni ed azioni di Eni,
Enel e Finmeccanica senza rating? Allora sì che lo sprid schizzerebbe. Il secondo motivo per il quale la
boutade della Corte dei Conti é dannosa é che alimenta la lunga serie di fallacie economiche che circolano
nel nostro paese. La più eclatante é quella del complotto per danneggiare l'Italia e acquistarne le aziende a
prezzo di saldo. Orbene, gli investimenti esteri sono crollati in Italia proprio per l'insicurezza della situazione
generata dai conti pubblici e dallo sprid , fatto piuttosto in contrasto con il teorema della svendita. E poiché le
poche imprese vendute sono andate in ordine sparso francesi, americani, tedeschi, indiani, spagnoli - chi
sarebbe il promotore del complotto? Il mondo intero? Ma andiamo... Quanto alla pretesa di calcolare il
patrimonio artistico, quando esso produce reddito é già presente nel valore del Pil, altrimenti no e questo vale
per tutto il mondo. Inoltre un conto é la produzione un altro lo stock di ricchezza. Le agenzie di rating valutano
la capacità di ripagare il debito allo stato dell'arte, non in caso di un'improbabile vendita di Pompei. La
Procura della Corte ha annunciato che il 19 febbraio chiarirà meglio il contenuto dell'istruttoria. C'è ancora
tempo: ci ripensino ed evitino che tra i tanti primati di cui faremmo volentieri a meno ci venga assegnato in
pianta stabile quello del ridicolo. [email protected]
10/02/2014 1Pag. La Repubblica - Affari Finanza - N.5 - 10 febbraio 2014(diffusione:581000)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 122
La "bad bank" all'italiana una lavatrice da 300 miliardi Andrea Greco Èil momento delle pulizie di Pasqua per le banche italiane. La fine della recessione e la cauta ripresa, le
meno penalizzanti norme fiscali su perdite creditizie, il doppio esame delle revisioni Bce e dei test Eba
impongono di scuotere una montagna di 300 miliardi di crediti deteriorati. Da cinque anni il monte lievita, così
ostacola la trasmissione della politica monetaria espansiva dell'Eurotower, tiene a stecchetto famiglie e
imprese, azzera la redditività e falcidia il patrimonio degli istituti. segue a pagina 2 segue dalla prima La
tentazione di chiamarla "bad bank all'italiana" c'è. Ma per sdoganarla va prima contestualizzata con rilievi di
contenuto e forma. Di quei 300 miliardi, infatti, solo metà sono effettivamente in mora nelle "sofferenze" (e
ammontano a 76 miliardi nei dati a novembre quelle nette, non coperte da rettifiche, accantonamenti o
garanzie). Quanto alla forma, va nettato il senso deteriore che ha assunto la locuzione all'italiana , oltre allo
stigma reputazionale che il concetto bad bank reca. Un anno fa, quando gli analisti di Mediobanca Securities
primi suggerirono alle istituzioni un fondo di sistema per ripulire dal cattivo credito le banche italiane, Abi e
vigilanza rigettarono la proposta: sia perché non volevano accomunarsi alle banche spagnole - costrette a
chiedere aiuti comunitari per un'esposizione all'immobiliare ormai insostenibile - sia perché richiedeva decine
di miliardi di fondi pubblici che l'Italia non aveva, né voleva chiedere alle istituzioni sovranazionali. Oggi quei
due vincoli in Italia permangono, e poco importa se la bad bank pubblica di Madrid sia additata da molti come
esempio positivo. I direttori di Bankitalia continuano a neanche nominare il termine bad bank nei discorsi
ufficiali, e l'Abi vola sempre basso. Ma qualcosa è cambiato. E le banche, ansiose di sgravare i bilanci e
ridestarsi in tempo per la ripresa, in ordine semi-sparso si stanno mettendo al lavoro. Da Natale a oggi una
mezza dozzina di cessioni creditizie (Npl, deteriorati, al consumo) hanno riguardato Unicredit, Mps, Unipol
Banca, le Bcc. Molto di più, per quantità e quantità delle operazioni, si prepara. Intesa Sanpaolo e Unicredit
hanno accreditato le indiscrezioni per cui studierebbero con Kkr la fattibilità di un veicolo per apportare crediti
tecnicamente "ristrutturati" (pari a 10,6 miliardi nei loro bilanci, vedi tabella); basta non chiamarla bad bank. E
neppure gli operativi di Piazzetta Cuccia parlano più di bad bank: ma è certo che siano intenti al varo di alcuni
fondi settoriali in cui istituti medi e piccoli - del tipo di Bper e Credito Valtellinese - possano apportare mutui
ipotecari, commerciali, chirografari delle Pmi. Poi ci sono le banche che, pur non uscendo ancora allo
scoperto, sondano una platea compratori, cercando il prezzo giusto (rispetto ai valori di mercato, ma
soprattutto a quelli di bilancio, che se troppo distanti originano minusvalenze) per liberarsi di Npl e altre
zavorre; tra queste sondano il terreno Ubi e Banco Popolare, Cariparma, Veneto Banca. In fondo, per
dimensioni, vengono le 400 Bcc, in cui la maggior foga creditizia nel decennio 2000-2010 rende forse più
problematica la gestione delle partite deteriorate, e l'esigenza di esternalizzarle pone una sfida in più alla
holding dei servizi centrali Iccrea; finora solo 22 Casse rurali del Trentino - tra le più connesse oltre le aree di
prossimità - hanno saputo cedere 150 milioni di sofferenze. Tutto questo tramestio crescente forse non darà
vita alla bad bank di sistema pubblica, tipo la Sareb spagnola. Ma certo si apparecchia una diffusa "bad bank
all'italiana", fatta con quel che c'è in casa e come si può. «Questo grande dibattito sui crediti incagliati, come
gestirli e come ridurli, entra finalmente nel vivo - ha detto Federico Ghizzoni, ad di Unicredit, tra i protagonisti
del "dibattito" - abbiamo già fatto alcune operazioni di vendita di asset, abbiamo già fatto la nostra
segregazione interna, abbiamo 1.100 persone che lavorano ai crediti difficili. Siamo attrezzati, abbiamo
obiettivi e parecchie idee, ma non voglio commentare casi specifici». Né vuol essere da meno Intesa
Sanpaolo, anche perché insieme le due ex bin valgono due terzi dei crediti deteriorati italiani. Nel piano
strategico al via il 28 marzo l'ad Carlo Messina prepara annunci rilevanti in materia. Dovrebbe nascere
un'unità di business dedicata, in cui collocare la Rehoco (Real Estate Home Company, piccola holding
dedicata ai mutui e al riacquisto di immobili in asta fallimentare) e la più ambiziosa jv con Piazza Cordusio e
Kkr, per estrarre più valore dai finanziamenti già rinegoziati con una decina di medie aziende. Il fondo Usa
10/02/2014 1Pag. La Repubblica - Affari Finanza - N.5 - 10 febbraio 2014(diffusione:581000)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 123
metterebbe la nuova finanza, Alvarez & Marsal (già consulente nella costituzione della bad bank spagnola)
fornirebbe le professionalità di turnaround management. Nella nuova divisione sul "credito anomalo" potrebbe
trovare posto anche Italfondiario, istituto pubblico divenuto nel tempo un servicer conto terzi che oggi fa capo
al fondo Fortress, e gestisce crediti anomali di Ca' de Sass. Il meccanismo di ripulire i libri, liberando capitale
che può così focalizzarsi su nuovi fidi, è intuitivo sia per gli stock che per i flussi di crediti dubbi. E l'agenda
bancaria 2014 li acuisce e correda di numeri. Tra i maggiori interrogativi di investitori e analisti settoriali c'è,
ad esempio, la probabilità di default (Pd) che l'Eba imporrà alle banche europee negli stress test autunnali.
Una misura sintetica dei livelli di accantonamento, normalmente calcolata sulla statistiche di fallimento degli
ultimi otto anni. Il rischio è che l'autorità guidata da Andrea Enria adotti un approccio più statico, restringendo
il periodo considerato fino a un anno. Inutile dire che nell'ultimo anno i fallimenti di aziende italiane sono da
record: e che in tal caso gli accantonamenti decollerebbero. Altro tecnicismo da considerare è la loss given
default (Lgd), che misura il rischio di recupero creditizio. L'accantonamento è una ponderazione tra Pd e Lgd,
per questo sulle sofferenze (100% di probabilità di default) impatta poco. Ma più scende il tasso di recupero
più sale l'accantonamento: quindi i crediti già ristrutturati potrebbero essere tra i più penalizzati agli stress
test. «Per questo è molto interessante la mossa allo studio di Unicredit e Intesa Sanpaolo sui crediti
ristrutturati - dice Enzo Chiesa, partner di Eidos Partners - se si concretizzasse potrebbe avere un forte
impatto sulla gestione crediti in Italia: si aprirebbe la rincorsa dei concorrenti più piccoli e potrebbero nascere
servicer creditizi territoriali attivi sulle sofferenze». Altri operatori nostrani guardano alle opportunità derivanti
da questo mercato in fieri. Tra loro Fonspa, banca di credito fondiario che lo scorso autunno fu rilevata dal
fondo Tages per focalizzarla sulla gestione di portafogli Npl cartolarizzati (e che allo scopo sta arruolando
Andrea Munari, per anni dg di Banca Imi). E Prelios Credit Servicing, guidata da Riccardo Serrini che con 8,5
miliardi di masse è il primo gestore italiano indipendente di Npl. Ricapitolando: i cespiti non mancano, anzi.
Gli operatori nemmeno. Il recupero dei mercati chiude da mesi lo scarto tra i valori di presunto realizzo dei
crediti difficili (dal 5 a oltre il 30%, secondo seniority e garanzie) e quelli di iscrizione a bilancio. E dove lo
scarto permane, potranno aiutare sopravvenienze attive da circa 6 miliardi in arrivo per la rivalutazione delle
quote Bankitalia (oltre la metà appannaggio di Intesa Sanpaolo e Unicredit). Cosa manca? Soprattutto una
reale discontinuità culturale e operativa nel gestire le partite a rischio. La male intesa fratellanza tra prenditori
e prestatori nel capitalismo relazionale italiano è stata fonte di molti guai. «Uno dei problemi della gestione di
crediti dubbi è che normalmente è curata dai capi dei crediti - racconta un banchiere - e puoi star certo che
sarà un fiasco, perché chi ha concesso quei crediti vuole recuperarli in toto, inoltre permane la relazione tra
responsabilità e interessi di chi ha dato e chi ha avuto i fidi». Riusciranno i banchieri del paese più
bancarizzato al mondo a separarsi dai loro clienti morosi, mettendo le loro pratiche nelle mani di recuperatori
specializzati e senza cuore?
Foto: [ I PRATOGONISTI ] Qui sopra, il ceo di Unicredit Federico Ghizzoni (1); l'ad di Intesa Sanpaolo Carlo
Messina (2); l'ad di Mediobanca Alberto Nagel (3). Unicredit e Intesa stanno studiando la creazione di un
veicolo insieme al fondo KKR per i crediti ristrutturati. L'istituto di Piazzetta Cuccia sta lavorando alla
creazione di fondi per rilevare crediti deteriorati delle banche di medie e piccole dimensioni
Foto: Il vice direttore generale della Banca d'Italia Fabio Panetta Via Nazionale sta valutando l'autorizzazione
alla costituzione di fondi di credito
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 124
OLTRE IL GIARDINO BEFERA IL MANDARINO PASSA INDENNE ANCHE IL PASTICCIO DEIFUNZIONARI "ANOMALI" Alberto Statera «Servono eroi per far pagare le tasse in Italia», ama dire Attilio Befera, capo assoluto dell'Agenzia delle
Entrate e di Equitalia. Ma gli eroi sono stanchi. Compreso il dottor Befera, detto "Artiglio". Un nomignolo che,
per la verità, sembra usurpato dopo tanti anni al comando delle agenzie fiscali. Frequentatore assiduo di
convegni, dove dispensa spesso motti scontati o insipidi ("L'evasione non è compatibile con nessun sistema
veramente democratico"), ogni anno rivendica di aver recuperato tra gli 11 e i 12 miliardi evasi. Bruscolini
rispetto alle stime dell'evasione, che oscillano tra i 130 e i 180 miliardi. E comunque quasi la metà del bottino
annuo deriva da semplici pagamenti ritardati, mentre i controlli che riesce a fare sono 200 mila su 41 milioni
di contribuenti, solo lo 0,1 per cento dei quali dichiara un reddito superiore ai 300 mila euro l'anno. E' vero
che in materia fiscale il legislatore sembra un cappellaio matto, che è riuscito negli anni a creare un sistema
tributario mostruoso e indecente per un paese occidentale, un labirinto paradossale che provoca crisi di nervi
dei contribuenti e dei commercialisti, mentre altrove pagare le tasse è un chiaro e scontato appuntamento
burocratico da non mancare. Ma al di là delle colpe intollerabili di parte rilevante della politica, che della
protezione degli evasori ha fatto il principale strumento di consenso elettorale, c'è con tutta evidenza
qualcosa che non gira nelle agenzie fiscali, che il dottor Befera ha plasmato personalmente producendo
talvolta incredibili pasticci. Come quello dei dirigenti nominati senza concorso, senza i requisiti previsti dalla
legge: sono ben 763 su 1143, con rischio nullità di migliaia di atti e di conseguente perdita di gettito. Il
governo di Enrico Letta ha cercato di metterci una pezza con una norma sui "funzionari di fatto" (sic) nel
decreto sul rientro dei capitali, che nel testo definitivo è però scomparsa. Si dice che Befera, promosso
dirigente generale ai tempi del ministro delle Finanze Vincenzo Visco, sia un animale perfettamente
bipartisan. Ma in realtà negli ultimi anni è stato ben intrinseco alla "scuderia" di Gianni Letta. L'ex factotum di
Berlusconi a palazzo Chigi, che era ed è ancora a capo di un potente network composto dagli alti gradi della
pubblica amministrazione, che gestisce potere, assunzioni e clientele. Ed è intuitiva la dimensione del potere
che risiede nelle agenzie fiscali, dove gli incarichi dei dirigenti "di fatto" sono stati spartiti politicamente. E
dove Befera è stato dichiarato sei mesi fa "non fungibile". Che, tradotto in italiano, vuol dire "insostituibile".
Già pensionato da due anni, nel giugno scorso avrebbe dovuto lasciare per legge i suoi incarichi, avendo
compiuto 67 anni, l'età massima consentita per rimanere in servizio ai pubblici dipendenti, con l'esclusione di
professori universitari, magistrati e militari. Ma il governo Letta si è affrettato a confermarlo, senza che alcuno
battesse ciglio, con poteri ancora più ampi: nell'Agenzia delle Entrate è stata assorbita l'Agenzia del
Territorio, che dovrà fare la mitica riforma del Catasto per adeguare le rendite degli immobili ai valori di
mercato. Una confusione smisurata di ruoli e di potere per il mandarino del Fisco che chiamavano "Artiglio".
Foto: Qui sopra, Attilio Befera , presidente dell'Agenzia delle Entrate e di Equitalia
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 125
Corruzione, come toglierci la maglia nera Stefano Micossi Il primo Rapporto della Commissione europea contro la corruzione - pubblicato a Bruxelles il 3 febbraio
scorso (documento COM(2014) 38) - ha avuto vasta e meritata eco non solo in Italia, ma nell'Europa intera.
La sua principale conclusione è che in gran parte dei paesi membri vi sono strumenti legali e istituzioni per
prevenire e combattere la corruzione, ma che tali strumenti sono applicati con intensità variabile. Va
sottolineata la definizione di corruzione data nel Rapporto, che va oltre la richiesta o il pagamento di
"mazzette": è corruzione qualunque abuso di potere per beneficio privato, dove privato si riferisce a individui,
ma anche a organizzazioni collettive, come partiti e sindacati. Tanto per fare esempi concreti da casa nostra,
rientrano in questa definizione sia l'assegnazione di appalti ad imprese "amiche", come con vari trucchi
continuano a fare in maggioranza gli amministratori di regioni, ASL, province e comuni, sia la nomina di
persone "espressione" di partiti e sindacati nelle amministrazioni, le aziende pubbliche (ultimo clamoroso
esempio, l'INPS, occupato militarmente da esponenti sindacali) e persino le autorità indipendenti (penso al
braccio di ferro che obbligò Monti a nominare due esponenti di partito nella neo-nata autorità "indipendente"
dei trasporti). Rispetto a questi fenomeni, la discussione pubblica sui costi diretti della politica - la numerosità
delle assemblee elettive piuttosto che le province da abolire - si concentra sulla punta dell'iceberg. L'iceberg
essendo costituito dall'occupazione sistematica di tutte le amministrazioni e aziende pubbliche da parte di
politici e sindacalisti, producendo distorsioni e costi giganteschi che sono la prima ragione della stagnazione
economica italiana. Sappiamo già che nel confronto europeo l'Italia esce male, con livelli di corruzione
percepita e accertata tra i più elevati. Quel che i commenti hanno finora trascurato sono i suggerimenti e le
raccomandazioni del Rapporto su come migliorare la situazione. Da questo punto di vista, il Rapporto
distingue le norme per la prevenzione della corruzione nell'amministrazione da quelle per la loro repressione
penale: sul primo fronte il nostro quadro normativo risulta piuttosto avanzato, ma la politica e le
amministrazioni s'industriano per ritardarne l'applicazione; sul secondo fronte, esistono serie lacune
normative da colmare. In effetti, le norme contro la corruzione promosse del governo Monti (con la legge 6
novembre 2012 n. 190) creano presidi in tutte le amministrazioni, obbligandole ad adottare piani
anticorruzione (con regole rafforzate di trasparenza su appalti e nomine), e introducono regole di integrità più
stringenti per le cariche pubbliche elettive (presidiate da nuove norme di incandidabilità e decadenza dalle
cariche elettive). Per ora però lo norme sono scarsamente applicate, né si vede alcuna spinta politica a farlo.
C'è anche un'autorità anti-corruzione, l'ANAC, ma essa per ora langue senza poteri (e anche senza il
presidente); se si volesse fare sul serio, l'azione dell'ANAC potrebbe essere irrobustita con decreti ministeriali
o del presidente del consiglio, dato che si tratta di attuare norme in vigore. Invece, viene definito debole e
formalistico il quadro di controllo sul finanziamento dei partiti, nonostante il recente decreto; qui ovviamente
sono massime le resistenze, ma c'è ancora parecchio da fare anche sul piano normativo (intanto, il disegno di
legge sul finanziamento dei partiti annaspa in parlamento). Il Rapporto propone anche di dare alla Corte dei
Conti poteri ispettivi, simili a quelli di altre autorità (Antitrust, Consob, ecc.) nei confronti di tutti i soggetti che
spendono denaro pubblico. Sul fronte penale, il Rapporto individua serie lacune normative (peraltro,
largamente coincidenti con quelle già ben identificate nel sito Piattaforma per la Giustizia, a suo tempo
promosso dal Presidente del Senato Grasso): l'Italia non ottempera ai requisiti in materia di contabilità (falso
in bilancio e obblighi di revisione), previsti dalle convenzioni penale e civile del Consiglio d'Europa sulla
corruzione. Lo spacchettamento del reato di concussione ne ha reso l'applicazione aleatoria, invece che
rafforzarla. Il codice penale non contempla il reato di auto-riciclaggio, il riciclaggio compiuto dal percettore dei
proventi di attività criminose; il Senato è al lavoro, ma senza molta fretta. Le norme sulla prescrizione fanno
decadere troppi procedimenti (ma si dovrebbe anche accrescere l'efficienza del sistema giudiziario). Simili
richieste all'Italia sono presenti nelle Raccomandazioni del Consiglio europeo all'Italia nell'ambito del
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 126
semestre europeo, che sono legalmente vincolanti. Ovviamente, quel che servirebbe come il pane, e che
finora è mancato, è un'iniziativa politica forte del governo su tutte le raccomandazioni del Rapporto; così
come servirebbe una campagna interna di moralizzazione di partiti e sindacati, centrata sull'annuncio della
fine dell'occupazione a fini privati delle pubbliche amministrazioni e delle aziende pubbliche. Se ciò
accadesse, Grillo e i suoi scalmanati sparirebbero dalle nostre assemblee elettive.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 127
IL PUNTO La «banca cattiva» può fare bene alla ripresa italiana marcello messori La «grande recessione» internazionale del 2008-09 e la successiva crisi nell'area dell'euro hanno avuto un
impatto particolarmente negativo, in Italia, sulla operatività delle imprese non finanziarie e sul reddito
disponibile delle famiglie. Anche a causa della precedente politica creditizia troppo permissiva, una delle
conseguenze è stata che le banche italiane hanno accumulato un ingente stock di sofferenze e di altri prestiti
problematici. Pur scontando il maggior rigore dei criteri statistici imposti dalla Banca d'Italia rispetto ad altre
realtà europee, il peso di questo stock sugli attivi bancari supera largamente la media dell'area euro e
impedisce una normale gestione delle nostre banche.
Nonostante vari commentatori (incluso il sottoscritto) abbiano denunciato da tempo la necessità di drastiche
iniziative di «pulizia» dei bilanci bancari italiani, fino a pochi mesi fa la strategia del settore pareva orientata
verso scelte efficaci a livello aziendale ma tali da massimizzare il credit crunch . I nostri banchieri si erano,
infatti, orientati verso una strategia gradualista: riportare l'incidenza dei crediti «cattivi» entro valori fisiologici
mediante una pesante e prolungata restrizione dei prestiti alle imprese e alle famiglie. Poi, sotto lo stimolo
della Banca d'Italia e del processo di Unione bancaria, i due maggiori gruppi creditizi italiani hanno deciso di
adottare iniziative più dirette per far fonte all'incombente vaglio della Bce (esame dei rischi, verifica della
qualità degli attivi e stress test). Unicredit ha iniziato, un po' in sordina, a cedere sul mercato internazionale
porzioni dei propri crediti problematici; e Intesa Sanpaolo ha progettato di costruire una «banca cattiva» ( Bad
bank ). Al di là della loro parzialità, le due iniziative hanno punti di forza e di debolezza. La strategia di
mercato di Unicredit ha lo svantaggio di generare minusvalenze rilevanti sui prestiti cartolarizzati e di erodere,
quindi, i fondi accantonati e la redditività corrente; essa ha, tuttavia, il grande vantaggio di cancellare in via
immediata una parte degli attivi problematici e di aumentare così la flessibilità gestionale. Viceversa, il
percorso attribuito a Intesa Sanpaolo ha il vantaggio di espungere dal bilancio ordinario parte dei prestiti in
sofferenza o dubbi.
E al contempo di «comprare» tempo per la loro liquidazione, riducendo così le perdite sia correnti che attese;
esso ha però lo svantaggio di spostare questi prestiti problematici in un contenitore interno al gruppo, a cui va
attribuita una parte del patrimonio e degli accantonamenti complessivi. È difficile mettere a confronto queste
due soluzioni, che si adattano a situazioni diverse. Resta il fatto che ambedue sono realizzabili solo da
banche con elevata patrimonializzazione e solide prospettive. Non è quindi casuale che gran parte dei gruppi
creditizi italiani di grande o medio-grande dimensione continui ad attestarsi su una strategia di assorbimento
dei propri elevatissimi prestiti problematici mediante una graduale riduzione dell'attivo e riproduca, così, i
vincoli finanziari alla crescita economica del nostro Paese. Ciò pone il problema di come fare sì che tutti i
grandi o medio-grandi gruppi bancari italiani procedano a una rapida «pulizia» dei loro bilanci. La scelta,
compiuta dal nostro governo nell'estate del 2012 di non seguire la Spagna nella richiesta di un programma
«leggero» di aiuti per il finanziamento europeo di una Bad bank di sistema, e il nostro elevato debito pubblico
rendono oggi irrealistico perseguire - per via autarchica - una soluzione del genere. D'altro canto, a
prescindere dalla valutazione che si attribuisce all'impatto della Bad bank spagnola rispetto alla dinamica dei
prestiti bancari in quel Paese, una tale soluzione comporterebbe un'eccessiva socializzazione di perdite
private. Restano aperte due strade. La prima è di riavviare in Italia un processo di consolidamento bancario
che, ricalcando quanto avvenuto venti anni fa, porti all'acquisizione dei gruppi bancari peggio patrimonializzati
e/o con il maggior peso di prestiti problematici da parte di banche (nazionali o europee) che abbiano «spalle
larghe» e siano più sane. La seconda strada, che ovviamente sfugge alle scelte italiane, è di affidarsi a
processi di cartolarizzazione su scala europea; la Bce potrebbe assumersi l'ulteriore compito di acquisire
parte dei crediti problematici delle banche europee, limitandone le minusvalenze. Nessuno dei due corni di
questa alternativa passerebbe un test di efficienza microeconomica. Eppure, ognuno dei due può evitare una
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 128
situazione ancora peggiore: aspettare anni prima che le banche tornino a finanziare l'economia «reale».
marcello messori
© RIPRODUZIONE RISERVATA continua a pagina 4 segue dalla prima
La «grande recessione» internazionale del 2008-09 e la successiva crisi nell'area dell'euro hanno avuto un
impatto particolarmente negativo, in Italia, sulla operatività delle imprese non finanziarie e sul reddito
disponibile delle famiglie. Anche a causa della precedente politica creditizia troppo permissiva, una delle
conseguenze è stata che le banche italiane hanno accumulato un ingente stock di sofferenze e di altri prestiti
problematici. Pur scontando il maggior rigore dei criteri statistici imposti dalla Banca d'Italia rispetto ad altre
realtà europee, il peso di questo stock sugli attivi bancari supera largamente la media dell'area euro e
impedisce una normale gestione delle nostre banche.
Nonostante vari commentatori (incluso il sottoscritto) abbiano denunciato da tempo la necessità di drastiche
iniziative di «pulizia» dei bilanci bancari italiani, fino a pochi mesi fa la strategia del settore pareva orientata
verso scelte efficaci a livello aziendale ma tali da massimizzare il credit crunch . I nostri banchieri si erano,
infatti, orientati verso una strategia gradualista: riportare l'incidenza dei crediti «cattivi» entro valori fisiologici
mediante una pesante e prolungata restrizione dei prestiti alle imprese e alle famiglie. Poi, sotto lo stimolo
della Banca d'Italia e del processo di Unione bancaria, i due maggiori gruppi creditizi italiani hanno deciso di
adottare iniziative più dirette per far fonte all'incombente vaglio della Bce (esame dei rischi, verifica della
qualità degli attivi e stress test). Unicredit ha iniziato, un po' in sordina, a cedere sul mercato internazionale
porzioni dei propri crediti problematici; e Intesa Sanpaolo ha progettato di costruire una «banca cattiva» ( Bad
bank ). Al di là della loro parzialità, le due iniziative hanno punti di forza e di debolezza. La strategia di
mercato di Unicredit ha lo svantaggio di generare minusvalenze rilevanti sui prestiti cartolarizzati e di erodere,
quindi, i fondi accantonati e la redditività corrente; essa ha, tuttavia, il grande vantaggio di cancellare in via
immediata una parte degli attivi problematici e di aumentare così la flessibilità gestionale. Viceversa, il
percorso attribuito a Intesa Sanpaolo ha il vantaggio di espungere dal bilancio ordinario parte dei prestiti in
sofferenza o dubbi.
E al contempo di «comprare» tempo per la loro liquidazione, riducendo così le perdite sia correnti che attese;
esso ha però lo svantaggio di spostare questi prestiti problematici in un contenitore interno al gruppo, a cui va
attribuita una parte del patrimonio e degli accantonamenti complessivi. È difficile mettere a confronto queste
due soluzioni, che si adattano a situazioni diverse. Resta il fatto che ambedue sono realizzabili solo da
banche con elevata patrimonializzazione e solide prospettive. Non è quindi casuale che gran parte dei gruppi
creditizi italiani di grande o medio-grande dimensione continui ad attestarsi su una strategia di assorbimento
dei propri elevatissimi prestiti problematici mediante una graduale riduzione dell'attivo e riproduca, così, i
vincoli finanziari alla crescita economica del nostro Paese. Ciò pone il problema di come fare sì che tutti i
grandi o medio-grandi gruppi bancari italiani procedano a una rapida «pulizia» dei loro bilanci. La scelta,
compiuta dal nostro governo nell'estate del 2012 di non seguire la Spagna nella richiesta di un programma
«leggero» di aiuti per il finanziamento europeo di una Bad bank di sistema, e il nostro elevato debito pubblico
rendono oggi irrealistico perseguire - per via autarchica - una soluzione del genere. D'altro canto, a
prescindere dalla valutazione che si attribuisce all'impatto della Bad bank spagnola rispetto alla dinamica dei
prestiti bancari in quel Paese, una tale soluzione comporterebbe un'eccessiva socializzazione di perdite
private. Restano aperte due strade. La prima è di riavviare in Italia un processo di consolidamento bancario
che, ricalcando quanto avvenuto venti anni fa, porti all'acquisizione dei gruppi bancari peggio patrimonializzati
e/o con il maggior peso di prestiti problematici da parte di banche (nazionali o europee) che abbiano «spalle
larghe» e siano più sane. La seconda strada, che ovviamente sfugge alle scelte italiane, è di affidarsi a
processi di cartolarizzazione su scala europea; la Bce potrebbe assumersi l'ulteriore compito di acquisire
parte dei crediti problematici delle banche europee, limitandone le minusvalenze. Nessuno dei due corni di
questa alternativa passerebbe un test di efficienza microeconomica. Eppure, ognuno dei due può evitare una
situazione ancora peggiore: aspettare anni prima che le banche tornino a finanziare l'economia «reale».
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 129
marcello messori
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Foto: Marcello Messori
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 130
Credito Le sofferenze? Alle spalle (quasi) stefano righi Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mediobanca, Banco Popolare. Tutte le maggiori banche italiane sono al lavoro
per eliminare dai bilanci il peso delle sofferenze, i crediti non più esigibili. Un modo per liberare risorse per
nuovi finanziamenti.
A PAGINA 4
Con venti mesi di ritardo sulla Spagna, che nel giugno del 2012 portò a casa 40 miliardi dall'Europa
impegnata nell'operazione Salva stati, le banche italiane hanno finalmente aperto la pratica dei crediti
inesigibili: che fare di quei denari prestati a famiglie e soprattutto a imprese che non torneranno mai indietro?
Impegni concreti di finanziamento e sviluppo si sono trasformati a causa della crisi in carta, sempre più
spesso carta straccia, che pesa sui bilanci come poste ammalorate e che blocca l'attività. Sono una
montagna. Secondo le ultime stime dell'Abi, l'Associazione bancaria, le sofferenze nette hanno superato i 150
miliardi di euro. Di questa una parte è fisiologica, insita nel mestiere stesso dei banchieri. Il problema è
quando dalla fisiologia si passa alla patologia, come nel caso italiano. Una massa enorme di denaro che non
c'è più, che pesa sui bilanci e toglie operatività alle banche. Se non si sbloccano queste partite di
finanziamenti, non si riesce a disporre di finanza fresca per le nuove iniziative imprenditoriali e l'economia si
piega su se stessa.
Cinque strade
La chiamano Bad bank . In verità, come si può notare dalla tabella a destra in alto, vi sono almeno cinque
modi per uscire dalla crisi dei prestiti. Ma oggi, in mano alle banche italiane, restano sostanzialmente due
opzioni: la Bad bank (privata o di sistema, ma in questo ultimo caso i termini sembrano scaduti), oppure le
cartolarizzazioni. Hanno il medesimo fine: liberare risorse per nuove attività produttive. Ma arrivano allo scopo
per strade diverse. La Bad bank , a grandi linee, si propone di confinare in una determinata e circoscritta area
del perimetro bancario tutte le partite a rischio. Lo fece, con successo, la Fed tra il 2008 e il 2009. Comperò a
prezzi stracciati titoli tossici (Cds e Abs) prelevandoli dai portafogli delle maggiori banche americane.
Quando, anni dopo, la crisi scivolò via, i titoli tossici si apprezzarono e, considerati nella loro complessità,
permisero alla Federal reserve, che li mise in vendita su un mercato risanato, di realizzare una sostanziosa
plusvalenza. È quello che stanno studiando alcune banche italiane: Intesa Sanpaolo e Unicredit sembrano
interessate da un progetto realizzato con il fondo americano Kkr per creare una Bad bank italiana. Un modo
per guadagnare tempo - i dettagli sono allo studio - in attesa che anche in Italia i segnali si ripresa siano
qualcosa più di una speranza.
Ma le due maggiori istituzioni creditizie italiane hanno anche altro al fuoco. Carlo Messina disegnerà la sua
attesa soluzione al problema nell'ambito del piano industriale che verrà presentato a primavera. Federico
Ghizzoni ha invece avviato, con maggiore decisione di altri, un progetto di cessione di partite dubbie, ovvero
la cartolarizzazione dei cosiddetti Npl (Non performing loans ). Nel dicembre scorso Unicredit ha ceduto al
fondo Cerberus il controvalore di nominali 950 milioni di euro di crediti non garantiti, derivanti da contratti di
credito al consumo e da prestiti personali, con la forma pro soluto . Del quasi miliardo nominale, a Unicredit
sono giunti meno di un centinaio di milioni, ma a fronte di una così netta minusvalenza ora il problema è di
altri, sia dal punto di vista finanziario che delle risorse necessarie per arrivare a un rimborso. Sempre a fine
2013, Unicredit ha ceduto un altro portafoglio, stavolta da nominali 700 milioni di Npl al fondo AnaCap. Due
mosse importanti, cui ne seguiranno necessariamente altre. La spinta viene dall'Europa. Il percorso verso
l'Unione bancaria continentale e l'approssimarsi dell'Asset quality review e degli stress test non concedono
più modo di tergiversare alle banche italiane. Che così devono agire. I parametri di Basilea 3 non ammettono
distrazioni: urge mettere sotto controllo i nuovi flussi e ricondurre lo stock delle passate sofferenze a livelli
storici. Mediobanca, che a bilancio ha crediti dubbi per meno di un miliardo, si propone come aggregatore
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delle sventure altrui: da qualche mese in Piazzetta Cuccia si sta lavorando a un progetto di fondi cui far
conferire gli Npl di altre banche.
Interessi diffusi
Il progetto è stato presentato a più manager: presenta diverse asset class per tipologia di prodotto e
dovrebbe decollare a primavera. Due banche stanno già chiudendo l'accordo, tra le possibili partnership
diverse popolari, il Credito Valtellinese, la Bper, il Monte dei Paschi di Siena e il Banco Popolare.
Il Veneto è al centro di molti interessi: ampie aree della regione si trovano sotto acqua, non solo per le
prolungate piogge che hanno causato esondazioni e allagamenti, ma anche per la condizione economica
delle imprese. Per questo le tre maggiori banche con sede in regione (Banco Popolare, PopVicenza e Veneto
Banca) stanno lavorando per la cessione dei crediti dubbi. La via della cartolarizzazione sempre la preferita, a
tutti i livelli. La Finanziaria Internazionale di Andrea De Vido ed Enrico Marchi, vanta una leadership di
competenza storica: sono stati i primi a importare questo strumento finanziario in Italia. Lo scorso anno la
Finint ha strutturato una decina di operazioni prendendone in gestione 15, per un totale di 500 milioni di euro.
Quest'anno conta di raddoppiare.
@Righist
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MODELLO Deleveraging progressivo Cartolarizzazione Intervento della Bce Soluzione spagnola Bad Bank
per singolo istituto COSA COMPORTA Diminuzione dei prestiti Vendita di pacchetti di Non Performing Loans
(Npl). Lo ha fatto Unicredit, lo faranno Intesa e Banco Popolare Le banche cedono all'istituto centrale
europeo i loro Npl, alla stregua di quanto fatto dalla Fed con i titoli tossici, che poi vennero rivenduti con
notevoli plusvalenze Si crea una Bad Bank nazionale. Lo ha fatto la Spagna nel giugno 2012, con un accordo
«leggero» rispetto a Grecia, Irlanda, Portogallo e Cipro, che ha portato a Madrid 40 miliardi del fondo
salvastati europeo Ogni banca crea al proprio interno una divisione nella quale far confluire i crediti
problematici in attesa di tempi migliori. La banca non risolve il problema, ma acquista tempo
CONSEGUENZE Effetto letale per il sistema economico (credit-crunch) Si registra una perdita secca, ma il
nodo è subito alle spalle Si puliscono i bilanci, trasferendo alla Bce l'onere del rischio Serve una uniformità di
valutazione dei crediti dubbi che oggi in Italia non esiste. Non esiste più neppure la disponibilità della Ue a
intervenire. Soluzione comoda, ma non sfruttata Serve una massa critica e patrimonio per pareggiare le
criticità. Ovviamente, più le dimensioni sono ridotte, più è difficile trovare senso economico Fonte:
elaborazione CorrierEconomia Le possibilità per «liberarsi» delle partite difficili 1 I crediti deteriorati netti
iscritti a bilancio Unicredit Intesa Sanpaolo Mediobanca* Monte dei Paschi Banco Popolare Ubi Banca Pop.
Milano 46.474 30.816 989 20.000 13.017 9.200 3.320 * Bilancio annuale chiuso al 30/6/2013 ** Semestrale
chiusa al 30/6/2013 Dati in milioni di euro Banca Pop. E. Romagna Banca Carige Banca Popolare Sondrio
Credem Credito Valtellinese Banca Popolare Vicenza** Veneto Banca** 6.549 3.573 1.801 798,5 2.772 3.554
3.178 S. Avaltroni Totale miliardi 146
Foto: Unicredit Federico Ghizzoni Mediobanca Alberto Nagel Intesa Carlo Messina
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 132
VENDITE DI STATO La campagna va a rilento. L'organo che dovrebbe gestire le cessioni è in bilico Mancanoi meccanismi tecnici per Sace e Poste. E i venti di crisi non aiutano**PRIVATIZZAZIONI? Non c'è nemmeno ilcomitato ORSI & TORI Paolo Panerai Una delle regole implicite nello spirito dei boyscout è l'altruismo. Il mio amico Matteo Renzi è un boyscout.
Nel tweet che ha lanciato la mattina di venerdì 7 dice: «A me conviene voto, a Italia no». È implicito che
Renzi seguirà l'interesse dell'Italia, ma da grande comunicatore ha usato ancora una volta la Rete per
nobilitare con l'altruismo la sua posizione, anche se questo non vuol dire che il presidente del Consiglio,
Enrico Letta, sia al sicuro con il suo governo. Il pungolo non è solo di Renzi. Nella recente intervista al
Corriere della Sera anche Romano Prodi ha incalzato Letta: «Non abbia paura, ora tenti la sortita. Enrico
prenda iniziative anche contestate...». Sicuramente l'ex presidente del Consiglio è più vicino all'attuale
inquilino di Palazzo Chigi piuttosto che al segretario del Pd; lo è per affinità di carattere e per frequentazione,
oltre che per il legame dell' Arel, il centro di ricerca fondato dal maestro di Prodi, Beniamino Andreatta, e di
cui Letta ha rilevato l'eredità come segretario generale. Quindi il consiglio a muoversi viene al presidente del
Consiglio anche da un suo sicuro amico, ricco di grande esperienza per i molti anni ai vertici del governo e
del sistema economico come presidente dell' Iri. Se anche Prodi gli parla così, non c'è più giustificazione
perché Letta non si muova, prendendo il toro per le corna. Lo richiede la necessità di rilanciare lo sviluppo,
ma anche il degrado del processo legislativo. Come ha spiegato in esclusiva su MF-Milano Finanza di
venerdì 7 Luisa Leone, anche il processo delle privatizzazioni, peraltro solo simboliche rispetto all'obiettivo di
generare cassa per tagliare il debito e ridurre la pressione fiscale, rischia di arrestarsi prima di cominciare: la
legge che istituisce il Comitato consultivo composto da insigni professionisti come Pier Gaetano Marchetti e
Angelo Provasoli, infatti non esiste più. L'istituzione del comitato era nel decreto Salva Roma che, come ha
segnalato la vicepresidente del Senato, Linda Lanzillotta, è decaduto. Ma sono poi decine i decreti di
attuazione e i regolamenti di numerosi provvedimenti legislativi di cui Letta mena vanto che non sono stati
ancora varati. Quindi, il serio e bravo presidente del Consiglio, vive fra due fuochi: da una parte il parlamento
va per la sua strada e la maggioranza non viene governata per approvare norme fondamentali, dall'altra,
quando le leggi sono approvate, le blocca la burocrazia ministeriale che, per infingardaggine o peggio per
giochi di potere personali, non vara i provvedimenti attuativi. Letta non può ignorare questa realtà e non
reagire con forza. È sicuro che anche con il piglio maggiore non potrà in pochi giorni (Renzi ha rimandato
ogni decisione al 20 febbraio, quando si riunirà di nuovo la direzione del Pd) rimuovere le inefficienze e i
giochi di potere della burocrazia ministeriale, vero cancro del Paese, ma un segnale forte lo deve dare
imponendo la sua volontà su provvedimenti che possono essere molto importanti per il rilancio dello sviluppo
e quindi del Paese. Uno per tutti: il centro di ricerca Astrid, fondato da Giuliano Amato (prima di diventare
giudice costituzionale) e da Franco Bassanini, aveva messo a punto una procedura per far sì che le aziende
potessero ricevere la gran parte dei 120 miliardi e passa di crediti della Pubblica amministrazione senza
aggravare la posizione debitoria dello Stato. Era sufficiente, come è stato possibile leggere più volte su
queste colonne, che lo Stato desse, con un semplice decreto, la sua garanzia sui debiti correnti in essere. In
quel momento stesso, in quanto garantiti dallo Stato, le aziende avrebbero potuto presentarli allo sconto
presso le banche, ben liete di erogare quel credito perché le norme bancarie prevedono che un credito
garantito dallo Stato non assorba capitale degli istituti stessi, tenuti da Bankitalia a non superare mai un certo
rapporto fra il capitale proprio e i capitali prestati. Proprio per questo motivo, con la garanzia dello Stato,
anche il tasso di interesse sarebbe stato sicuramente più basso del normale, realizzando in questo modo più
obiettivi: immettere nel sistema economico liquidità per quasi 80 miliardi, far crescere di fatto le capacità di
credito delle banche di pari cifra, far avere benzina alle aziende a costo molto basso. Il piano elaborato da
Bassanini e da Marcello Messori era stato apprezzato sia da Letta che dal ministro dell'Econom i a , F a b r i z
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 133
i o Saccomanni, ma è stato bloccato appena è arrivato al primo livello burocratico della direzione generale del
Tesoro e della Ragioneria dello Stato: con questo provvedimento i superburocrati avrebbero perso ogni
potere sui pagamenti da effettuare. Il risultato è che a oggi sono stati pagati soltanto 21 miliardi dei quasi 30
promessi con il decreto sblocca-debiti, che comunque costituiscono una minima parte degli oltre 120 miliardi
noti. E al vicepresidente della Commissione Europea Antonio Tajani è toccato l'ingrato compito di avviare la
procedura di infrazione contro l'Italia: se accerterà la responsabilità dello Stato, la sanzione potrà essere pari
a un anno di Imu. Probabilmente, se i pagamenti fossero stati effettuati con la procedura messa a punto da
Astrid e per la quale la Cassa Depositi e Prestiti, controllata dal Tesoro e presieduta da Bassanini, aveva dato
disponibilità per l'assistenza tecnica, Letta non avrebbe ricevuto il pugno in faccia dal presidente di
Confindustria, Giorgio Squinzi, che di fatto ha chiesto le dimissioni del governo, ma soprattutto si sarebbe
innescata una vera e propria crescita. Ora Letta si trastulla un po' con la possibilità di annunciare che
nell'ultima parte del 2013 in realtà ci sarebbe stata una crescita dello 0,3% e, in fase segue da pagina 3
difensiva, ha fatto alcuni accenni in questo senso. Ma il presidente del Consiglio deve tener conto che anche
se quel +0,3% ha un certo significato positivo, la realtà delle famiglie e imprese e soprattutto dei disoccupati
non è affatto mutata. Insomma, ciò che tutti e da ultimo anche Renzi stanno dicendo a Letta è che non può
accontentarsi di piccoli passi, di piccole mosse anche intelligenti ma insufficienti; la situazione italiana è
tuttora drammatica, se non per i mercati finanziari dei titoli di Stato, certamente per la condizione economica
e sociale del Paese, che può essere sbloccata solo con una cura d'urto, un colpo secco, che permetta di
tagliare significativamente il debito pubblico (le privatizzazioni italiane, peraltro ferme, non fanno neppure il
solletico a oltre 2 mila miliardi di stock debitorio) e di abbassare la pressione fiscale grazie ai risparmi sul
costo del debito. Solo così si può mettere in moto un circuito virtuoso in cui poi la crescita ridurrà la
disoccupazione e migliorerà il rapporto fra prodotto interno lordo e debito pubblico, cioè il principale
parametro che viene tenuto in conto a Bruxelles, dalle agenzie di rating (per quanto contano) e dagli
investitori. A Letta, pur europeista convinto, trilingue, preparato sia in materia economica che nelle relazioni
internazionali, non può sfuggire che l'Italia se la debba cavare da sola. Sta servendo a poco anche il pesante
e appropriato intervento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al Parlamento europeo sulla
necessità di una politica espansionistica dell'Ue al posto dell'esasperata politica di austerità imposta dalla
Germania. Gli applausi dei parlamentari europei sono stati molto intensi e sinceri, ma il Parlamento
nell'attuale struttura istituzionale dell'Ue conta ben poco. In ogni caso, con tempismo straordinario, è arrivata
la decisione della Corte Costituzionale tedesca che ha definito fuori dai poteri e dello statuto della Bce la
decisione del presidente Mario Draghi e di tutti i membri del consiglio, con il solo voto contrario del
rappresentante tedesco, di difendere l'euro, qualora ve ne fosse bisogno, intervenendo senza limiti sul
mercato dei titoli di Stato sotto attacco della speculazione. In gergo tecnico è l' Omt, outright monetary
transactions, mai finora usato ma brandito come arma totale per evitare il default di metà degli stati membri,
di decine di banche, di centinaia di migliaia di aziende e quindi di milioni di lavoratori. Bontà sua, la Corte
tedesca ha detto che solo un'interpretazione restrittiva dell'Omt potrebbe ritenersi entro i confini dello statuto
della Bce; in ogni caso ha rinviato il giudizio alla Corte europea e ha annunciato che ai primi di marzo si
pronuncerà sulla istituzione del fondo salva-Stati, anch'esso elaborato dalla Bce. Come dire che entro poche
settimane darà un altro colpo sulla testa di chi, come Napolitano, ha invocato una politica espansiva per
ridare condizioni di vita decente a milioni di cittadini europei, con in prima fila i milioni di giovani senza lavoro
in Italia. Letta deve capire che la diplomazia morbida non paga più, come deve accettare che è opportuno in
questo momento cambiare stile nei rapporti internazionali, non certo arrivare a battere la scarpa sul tavolo
come fece Nikita Krusciov mentre parlava alle Nazioni Unite, ma sicuramente alzare il tono. Deve essere,
anche se la sua natura è diversa, molto più simile di adesso al suo compagno Renzi. E appunto deve tirare
fuori provvedimenti come quello di poter far riavere, attraverso le banche, alle aziende quei 77 miliardi di
crediti dello Stato. Riprenda immediatamente il progetto Astrid-Cassa Depositi e Prestiti, imponendo anche al
bravo, ma anche lui troppo remissivo, Saccomanni di mettere in riga la direzione generale del Tesoro e della
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 134
Ragioneria. Nessuno ha più dubbi in Italia che molti dei problemi del Paese siano provocati dalla burocrazia
inefficiente e propensa a essere un potere autonomo. Anche Letta ne è convinto, tanto da aver chiesto ad
alcuni costituzionalisti dei provvedimenti legislativi che limitino i poteri della burocrazia. In contemporanea, nel
suo intervento di mercoledì 5 a Milano, al The Ruling companies, il suo maestro Prodi è arrivato a dire che
per salvare l'Italia occorre abolire i Tar e la Corte dei Conti. In particolare la Corte dei Conti è all'origine anche
di un grave discredito dell'Italia per la quantificazione della corruzione. La stima di 60 miliardi all'anno adottata
dall'Unione Europea nella recente classifica viene infatti proprio dalla Corte dei Conti, anche se
originariamente era stata calcolata da un ricercatore indipendente. Nessuno tuttavia si è preso la briga di
scomporre queste enorme valore: per esempio ipotizzando tangenti medie di 50 mila euro, che sono
sicuramente consistenti come media, vorrebbe dire che verrebbero pagate 100 mila tangenti al mese, ben 1,2
milioni all'anno!!! A parte la posizione radicale di Prodi, quando a Letta sono stati presentati gli schemi di
provvedimenti per ricondurre la burocrazia a pura funzionalità per l'azione di governo, quindi diminuendone i
poteri autonomi, il presidente del Consiglio ha glissato, temendo la reazione dei superburocrati. Invece il
consenso nei suoi confronti da parte del Paese salirebbe di molto se annunciasse un'iniziativa di questo
genere, o meglio preparasse in silenzio il provvedimento di legge e lo varasse in pochi giorni. Perché cittadini
e imprese si sentono profondamente vessati dalla burocrazia. Insomma, la partita di Letta può essere non
finita e, amando lui il calcio, si potrebbe dire che sono iniziati per lui i tempi supplementari; per vincere deve
mettere in campo alcuni giocatori di qualità e mostrare lui stesso una nuova determinazione. Sarebbe un
peccato sprecare il lavoro di cacciavite che ha fatto, ma ora servono anche le forbici, il martello, la chiave
inglese e, in alcuni casi, l'accetta. P.S. Non succede quasi mai che il capo di un'azienda di grandi dimensioni
e di alta capitalizzazione decida di accontentarsi di uno stipendio di 1 milione di euro, rinunciando a un bonus
di 400 mila euro e a un successivo aumento dello stipendio a 1,4 milioni per rispetto verso i lavoratori che
hanno accettato il contratto di solidarietà. È successo all'ultimo consiglio di Telecom Italia: il nuovo ceo,
Marco Patuano, pur essendosi assunto anche le responsabilità e le deleghe che erano dell'ex presidente
operativo, Franco Bernabè, ha chiesto che non gli venga erogato il bonus né che gli venga aumentato lo
stipendio, come aveva deciso il consiglio d'amministrazione. Pur essendo il suo stipendio meno di un terzo di
quello dei suoi predecessori. Bravo signor Patuano. (riproduzione riservata
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 135
SORPRESE Euro, porto sicuro Matteo Radaelli Èstato un inizio d'anno marcato da diverse preoccupazioni per gli investitori sui mercati internazionali. In
attesa delle decisioni di politica monetaria di Fed e Bce e di valutare l'andamento delle trimestrali statunitensi,
le prese di beneficio si sono abbattute sui maggiori indici azionari dei Paesi sviluppati. Queste sono state
favorite anche dalle tensioni sui mercati emergenti, i cui indici azionari si trovano in un trend negativo già da
diversi mesi sulla scia delle preoccupazioni che la fine della politica monetaria ultra-espansiva da parte della
Fed possa favorire un'uscita di capitali da questi Paesi. Le tensioni sui mercati azionari hanno favorito i
mercati obbligazionari dei Paesi core, dove i rendimenti sono a scesi a sorpresa per i movimenti di flight to
quality e per le attese che il migliorato scenario economico possa ridurre le tensioni, e di conseguenza gli
spread, sui Paesi periferici dell'Eurozona. Lasciati alle spalle la riduzione del programma di acquisto di asset
da parte della Fed per 10 miliardi al mese, la decisione della Bce di mantenere la politica monetaria invariata
e una stagione delle trimestrali sostanzialmente positiva negli Usa, con il 76% delle società dello S&P500 che
ha battuto le attese di consensus, per i mercati internazionali si potrebbero ora intravvedere alcune settimane
di calma. A questo proposito va sottolineato come le dichiarazioni di Draghi dopo il meeting del Direttivo Bce
di giovedì 6 febbraio abbia fornito un solido supporto ai mercati. «Un tempo erano gli annunci sorprendenti da
parte delle banche centrali a suscitare la reazione dei mercati. Oggi, in totale contrasto con quanto accadeva
fino a pochi anni fa, sono quelle che confermano le linee di condotta a colpire gli operatori, come se questi
avessero bisogno di rassicurazioni. E oggi la Fed deve stare attenta a evitare troppo repentine deviazioni dal
suo programma di riduzione degli aiuti. Vorrebbe dire che la ripresa si sta inceppando, un segnale troppo
violento per i mercati, che non sono più drogati dal Qe», sottolinea Philippe Ithurbide, capo della ricerca e
dell'asset allocation del gestore di fondi francese Amundi. L'attenzione si dovrebbe concentrare ora sui dati
economici che saranno pubblicati nelle maggiori economie internazionali, con gli Usa, l'Eurozona e la Cina in
primo piano. Negli Usa sono attese conferme che l'attività economica possa continuare a espandersi a un
ritmo moderato, con il pil che dovrebbe crescere del 2,6% nel 2014, in rialzo rispetto all'1,6% del 2013. Il
punto di maggiore interesse sarà l'andamento dei consumi che, nonostante il buon andamento del mercato
dal lavoro, potrebbero risentire della crescita contenuta dei salari. La prossima settimana, quindi, l'attenzione
si concentrerà sull'andamento delle vendite al dettaglio in gennaio, previste invariate rispetto al mese
precedente a causa delle cattive condizioni meteo. Nell'area dell'euro i dati sulla produzione industriale di
dicembre, stimati in crescita in tutti i principali paesi della regione, dovrebbero rafforzare l'opinione che una
ripresa molto contenuta dovrebbe verificarsi nel corso del 2014. In Cina, infine, un rallentamento del ritmo di
crescita rispetto agli ultimi anni, in linea con i ribassi degli indici Pmi, dovrebbe essere confermato dai
prossimi dati, con la crescita del pil che si dovrebbe attestare al 7%. La maggiore fonte di incertezza
rimangono i Paesi emergenti, anche se l'azione delle banche centrali di questi Paesi per frenare la caduta
(continua a pag. 10) delle valute potrebbe avere posto un freno alle vendite degli investitori internazionali,
almeno fino a quando le aspettative sulle azioni della Fed non torneranno a farla da padrona sui mercati. In
questo scenario le prospettive restano favorevoli ai mercati azionari dei Paesi sviluppati, che dovrebbero
mantenersi all'interno di un trend positivo. Con le quotazioni che non hanno raggiunto livelli estremi di
sopravvalutazione, solo segnali di un forte rallentamento dell'economia o di una caduta in deflazione
dell'Eurozona dovrebbero interrompere questo trend. Un segnale di allarme, che consiglierebbe di prendere
profitto dopo il forte rally degli ultimi mesi, sarebbe una discesa sotto quota 294 dell'Eurostoxx (-4,8% dalle
attuali quotazioni) e a 1.720 dello S&P500 statunitense (-3%). I mercati azionari dei Paesi emergenti, invece,
pur rappresentando ora delle buone occasioni, secondo alcuni commentatori, potrebbero restare nell'occhio
del ciclone ancora per qualche mese, in attesa che sia chiarito lo scenario economico. Con riferimento al
mercato obbligazionario, i rendimenti dei Paesi europei, in particolare di quelli periferici, potrebbero
08/02/2014 8Pag. Milano Finanza - N.28 - 8 febbraio 2014(diffusione:100933, tiratura:169909)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 136
continuare a scendere anche nelle prossime settimane, complici le attese che la Bce possa rendere più
espansiva la politica monetaria, anche operando un taglio dei tassi di interesse, al fine di limitare i rischi di
una possibile spirale deflazionistica. «Negli uffici di Eurotower la deflazione è un argomento di cui si parla,
nonostante le dichiarazioni ufficiali (Draghi ha ribadito che non c'è pericolo di deflazione alla conferenza
stampa successiva al meeting del 6 febbraio, ndr ). Quindi non escludo qualche intervento sulla liquidità nel
prossimo futuro» aggiunge Ithurbide, che favorisce nella sua attuale strategia i titoli corporate, azioni e bond,
delle economie avanzate. Per questo motivo, tra i governativi, quelli dell'area Euro continuano a essere quelli
da privilegiare per gli investitori europei. Per chi volesse diversificare al di fuori dell'Eurozona, un'opzione
interessante è puntare sull'obbligazionario del Regno Unito. I dati economici migliori delle attese stanno
favorendo la sterlina nei confronti dell'euro mentre un rialzo dei rendimenti non è probabile nel breve periodo
dato che la Bank of England dovrebbe mantenere i tassi invariati allo 0% ancora a lungo. (riproduzione
riservata) (segue da pag. 8) ETF OBBLIGAZIONARIO UK 2008 2009 2010 2011 2012 2013 EUROSTOXX E
MEDIA MOBILE A 10 MESI 2008 2009 2010 2011 2012 2013 Eurostoxx 10m media mobile
08/02/2014 8Pag. Milano Finanza - N.28 - 8 febbraio 2014(diffusione:100933, tiratura:169909)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 137
CAPITALI SE NON SI VUOLE ESSERE PERSEGUITATI DAL FISCO,REGOLARIZARE DIVENTA UNOBBLIGO.MA POI MOLTI CONTRIBUENTI CAMBIANO RESIDENZA E SPOSTANO I PATRIMONI VERSOIAZE PIU FAVOREVOLI.LONDRA IN PRIMIS I nuovi paradisi (legali) Edoardo Calcagno Class Cnbc Icittadini italiani che hanno ancora capitali depositati in Svizzera sono stretti tra due fuochi. Da una parte c'è
l'offensiva dell'Italia che con la procedura della voluntary disclosure offre un'ultima ciambella di salvataggio
prima di inasprire controlli e sanzioni. Dall'altra c'è la svolta della stessa Confederazione elvetica che non
accetta più capitali di dubbia provenienza. Come spiega a MF-Milano Finanza Paolo Bernasconi, avvocato e
consulente fiscale dello studio Bernasconi Martinelli Alippi & Partners di Lugano. Domanda. Avvocato, è vero
che le principali banche svizzere stanno scrivendo ai clienti invitandoli a regolarizzare le posizioni col fisco
nazionale? Risposta. È sicuramente vero che l'Autorità svizzera di vigilanza sulle banche raccomanda agli
istituti del Paese di organizzarsi per evitare di avere problemi con il fisco e con le autorità giudiziarie di un
altro Stato. Il tutto specialmente dopo la bastonata ancora in corso da parte del fisco americano. D. Allora chi
ha ingenti patrimoni preferisce spostarsi a Singapore o a Panama? R. Le regole valgono per tutti. Anzi, le
norme che il Parlamento svizzero ratificherà tra due o tre anni sulla punibilità del riciclaggio e sull'evasione
fiscale a Singapore sono già in vigore dal 1° luglio scorso. Fuggire diventa quindi molto più difficile,
specialmente fuggire da una banca svizzera. Lo spazio diventa quindi ristretto e l'evasore comincia a
escludere le banche Ue, la banche americane, le banche svizzere. Gli rimane poco. Restano le banche locali,
ma lì entra in gioco un altro problema, ossia quello della sicurezza del patrimonio e del deposito. D. I clienti
che vengono da lei che cosa le chiedono? Quali servizi vengono offerti in territorio svizzero? R. Naturalmente
la Svizzera è una delle principali piazze finanziarie del mondo e sta andando molto bene perché intorno alla
Svizzera il mondo bancario non va così bene. Quindi i servizi tipici bancari sono ancora molto richiesti.
Addirittura è cominciato un afflusso importante dalla Germania e dall'Italia di patrimoni dichiarati fiscalmente.
D. E quelli non dichiarati continuano ad arrivare? R. Oggi la regola, che viene seguita dalle principali banche
svizzere, è quella che si apre un nuovo conto se si hanno dichiarazioni di conformità fiscale. È finita la grande
corsa, tanto è vero che la grande corsa è o, meglio, è stata negli ultimi cinque anni verso Singapore,
Bahamas e Londra, che è il vero paradiso. D. Dove sono ammesse le scatole cinesi... R. Esatto. In più
Londra fa parte della Comunità europea ed è nella white list. Mi dicono, e l'ho constatato di persona, che a
Londra si possono fare molte cose. A livello fiscale si hanno pochi problemi, come negli Stati Uniti. Lo
straniero sceglie due o tre Stati americani noti per essere paradisi fiscali ed è risolto il problema. Con qualche
insicurezza. In più l'atteggiamento del fisco statunitense riguardo la collaborazione con altri Paesi, come con
l'Italia, è estremamente incerto e imprevedibile, quindi piuttosto pericoloso. D. Imprevedibile? Intende dire che
fornisce le informazioni che voi, Svizzera, non date? R. Diciamo che da alcuni anni e per i prossimi due o tre
molte banche svizzere sono sottoposte al rullo compressore del fisco americano con minacce pesantissime
alle quali è difficile resistere. D. L'Europa non ha questa forza? Non riesce a farsi rispettare dalla Svizzera? R.
L'Europa non ha il dollaro e non ha la borsa americana. Per una banca, di qualsiasi Paese, essere fuori dalla
borsa americana, fuori dalla borsa delle commodities vuol dire smettere di lavorare. Se esclusa dalla borsa
europea, invece? Sarebbe molto fastidioso, però si può sopravvivere. L'esclusione dal mercato americano,
per una banca occidentale non è sostenibile. D. Parliamo dei patrimoni evasi già presenti in Svizzera. Cosa
consiglierebbe a un suo cliente? R. Io ho pubblicato un libro dal titolo Avvocato, dove vado?, questa è la
domanda che a me come a molti altri a Zurigo, a Ginevra viene fatta. Attenzione, non solo col patrimonio,
anche con la residenza. Molti hanno cambiato effettivamente la residenza. Si sono trasferiti in Svizzera o in
altri Paesi fiscalmente convenienti. Altri chiedono dove vado con la mia impresa. Chi ha un'impresa stabile sul
territorio non si può muovere. Invece molti con la new economy, con le nuove tecnologie, si spostano in
Ticino che sta vivendo un trasferimento aziendale molto importante. Certo che il libro, uscito solo l'anno
08/02/2014 23Pag. Milano Finanza - N.28 - 8 febbraio 2014(diffusione:100933, tiratura:169909)
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 138
scorso, oggi lo sto riscrivendo, molto è da cambiare. D. Ci dia un'anticipazione. Dove si va oggi? R. Noi
abbiamo avuto moltissimi clienti contribuenti statunitensi perseguiti e perseguitati dal fisco americano e una
gran parte li abbiamo convinti a regolarizzare. Mostrando la geografia, la mappa dei rischi fiscali, il
contribuente da solo viene condotto a quello che è l'atteggiamento più ragionevole per condurre un esistenza
normale. Per non relegarsi a un'esistenza da evaso. D. In Italia conviene veramente regolarizzarsi? R. Io
faccio questo mestiere da oltre 40 anni, durante i quali è cambiato il mondo. Io ho vissuto un fisco italiano,
decenni or sono, che dormiva. Oggi, attenzione, c'è l'anagrafe tributaria, una Guardia di Finanza
estremamente efficiente. In più si è aggiunto un sistema di scambio d'informazioni, non è ancora automatico,
però molto più efficiente di anni fa. E in ultimo c'è il nuovo atteggiamento della banca svizzera la quale, in
vista della decisione parlamentare di introdurre la punibilità del riciclaggio fiscale, evidentemente si prepara.
L'atteggiamento quindi nei confronti dell'evasore straniero è cambiato radicalmente. Il rischio è aumentato
enormemente. Il consulente lo deve spiegare, così che il contribuente capisca quali sono le strade. Si deve
regolarizzare. Poi le vie per regolarizzare sono parecchie. (riproduzione riservata)
Foto: Paolo Bernasconi
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/02/2014 139
SCENARIO PMI
7 articoli
Banche e imprese L'ECONOMIA Bankitalia: tagliare il cuneo fiscale Il governatore: riduzione della pressione sui fattori di produzione e spending review selettiva R.Boc. ROMA
La ripresa economica appare ancora debole e incerta e ogni sforzo, sul piano nazionale e su quello europeo
va indirizzato al sostegno della domanda, mentre è essenziale proseguire sulla strada delle riforme.
«Soprattutto nelle circostante attuali, segnate da profonde trasformazioni - avverte il governatore - la
riduzione del carico fiscale sui fattori della produzione, accompagnata da tagli selettivi di spesa che riducano
gli sprechi e da interventi volti a rendere più efficiente l'amministrazione pubblica, può essere determinante
per la capacità del sistema di affrontare i cambiamenti necessari». L'esortazione a ridurre il cuneo fiscale e
contenere la spesa pubblica arriva al termine di un'analisi non certo priva di preoccupazioni, nell'intervento
che Ignazio Visco ha svolto ieri al Forex.
Il governatore aveva esordito cogliendo gli aspetti di miglioramento del quadro congiunturale, spiegando che
nel quarto trimestre dell'anno la produzione industriale è aumentata dell'uno per cento, e che il Pil dovrebbe
essere cresciuto nell'ultimo scorcio del 2013 di qualche decimo di punto: tutti elementi che permettono alla
banca centrale italiana di confermare che per l'anno in corso il prodotto interno lordo dovrebbe crescere di
«tre quarti di punto percentuale» ovvero lo 0,7 per cento circa. Ma poi Visco ha chiarito che si tratta di una
ripresa trainata dalle esportazioni, disuguale sul territorio e fra i settori e ha ricordato che «ancora stenta,
invece la domanda interna». Per il responsabile di via Nazionale un aumento più deciso di accumulazione e
investimenti «richiede al tempo stesso la riduzione dell'incertezza delle prospettive di medio termine e il
superamento delle tensioni sull'offerta di credito». Quanto alla dinamica del cambio, il governatore
avverte:«Eventuali guadagni di competitività che derivassero da variazioni del cambio sarebbero comunque
transitori, in mancanza di un recupero di produttività».
Sul versante del lavoro, se è vero che negli ultimi mesi sono emersi i primi segnali di stabilizzazione e di
aumento delle ore lavorate, Visco ha ricordato anche che il tasso di disoccupazione ha raggiunto un livello
prossimo al 13 per cento, il più elevato dagli anni Cinquanta. E il calo dei posti di lavoro ha pesato soprattutto
fra i giovani: il tasso di occupazione nella fascia 15-24 anni è ora al 43% contro il 61% del 2007. Ogni sforzo,
sul piano nazionale e su quello europeo, dice il governatore, va indirizzato a sollevare la domanda, favorendo
«la creazione di nuove opportunità di lavoro, l'accumulazione di capitale, un'innovazione volta a ottenere
guadagni di produttività da trasferire sui redditi».
Su un aspetto, comunque, Visco è stato molto chiaro:«La fiducia faticosamente riguadagnata non deve
essere indebolita dal riaccendersi di timori sulla risolutezza dell'Italia e di tutti i paesi dell'euro a proseguire
sulla strada delle riforme e della responsabilità». Si tratta insomma di agire, continuando però a seguire quel
«sentiero stretto» che passa per la necessaria riduzione del rapporto fra debito e Pil.
© RIPRODUZIONE RISERVATA LA PAROLA CHIAVE Cuneofiscale 7Èla differenza tra quanto pagato
datore di lavoro e quanto incassato dal lavoratore, essendo restante importo versato al fisco agli enti di
previdenza e pensionistici.Secondo l'Ocse l'Italia è sesta nella graduatoria della pressione fiscale sul lavoro
47,6% perun single senza figli), una classifica guidata dal Belgio, davanti a Francia (50,2%) Germania
(49,7%). Rispetto a unacoppia monoreddito con due figli, l'Italia sale invece al 4°posto / LE ATTESE DI
INFLAZIONE Datioperatoriprofessionali.Var.%periodoprecedente IL MERCATO DEL LAVORO Dati
trimestrali destagionalizzati. Val. in% Voci 2013 2014 2015 Pil (1) -1,8 0,7 1,0 Consumi delle famiglie -2,4 0,2
0,7 Consumi collettivi -0,7 -0,5 -0,1 Investimenti fissi lordi -5,2 2,2 1,4 Esportazioni totali 0,0 3,0 4,4
Importazioni totali -2,7 2,7 3,9 Var. delle scorte (2) -0,1 0,1 0,0 Ipca (3) 1,3 1,1 1,4 Ipca al netto dei beni
alimentari ed energetici 1,3 1,3 1,6 Occupazione (4) -1,8 -0,2 0,7 Tasso di disoccupazione (5) 12,2 12,8 12,9
09/02/2014 5Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/02/2014 141
Competitività all'export (6) -2,2 -1,1 -0,1 Saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti (7) 0,7 1,1 1,4
Il quadro e le previsioni 50,0 52,5 55,0 0 2,5 5,0 7,5 10,0 12,5 15,0 57,5 60,0 65,0 62,5 '93 '98 '03 '08 '13
Tasso di attività (scala sinitra) Tasso di occupazione (scala sinitra) Tasso di disoccupazione (scala destra) (1)
Per il Pil e le sue componenti: quantità a prezzi concatenati; variazioni stimate sulla base di dati trimestrali
destagionalizzatie corretti per ilnumerodi giornate lavorative (2) Include gli oggetti di valore. Contributi alla
crescita del Pil; valori percentuali (3) Indice armonizzato dei prezzi alconsumo(4) Unità di lavoro (5)Medie
annue; valori percentuali (6) Calcolata confrontando il prezzo dei manufatti estericon il deflatore delle
esportazioni italiane di beni (esclusi quelli energetici e agricoli); valori positivi indicano guadagni di
competitività (7) In percentuale del Pil Fonte: elaborazioni su datiBanca d'Italia e Istat LO SCENARIO
MACROECONOMICO IN ITALIA Var.%sull'anno precedente, salvo diversa indicazione Nota: Il dato 2014 è
legato alla rilevazione mensile di dicembre di Consensus Economics; gli altri a quella semestrale di ottobre
Fonte: Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro 2014 2015 2016 2017 2018 0,8 1,0 1,2 1,4 1,6 1,8 2,0 2,2
SPECIALE FOREX 2014 Timidi segnali positivi
Nel suo intervento di ieri al Forex, il governatore Ignazio Visco ha evidenziato come nell'area dell'euro
l'attività economica sia tornata a crescere, ma a ritmi contenuti e in misura diseguale tra i paesi. In Italia
segnali positivi sono comunque arrivati dalla produzione industriale che ha ripreso a crescere
+1%
La produzione industriale
È l'incremento per l'ultimo trimestre del 2013 sulla base delle stime formulate da Bankitalia
La correzione di rotta
Nel suo ultimo Bollettino economico, la Banca d'Italia aveva segnalato la ripresa dell'attività industriale ed
evidenziato come il principale sostegno all'attività manifatturiera fosse venuto dai comparti dei beni
strumentali intermedi e dell'energia a fronte di una flessione in quello dei beni di consumo
-1,2%
Gli investimenti
È il calo degli investimenti delle imprese in beni strumentali nel terzo trimestre del 2013
I livelli ancora deboli
La contrazione degli investimenti in beni strumentali, segnala sempre Via Nazionale, ha annullato quasi per
intero il recupero registrato in primavera. Al calo degli acquisti in macchinari e attrezzature si è aggiunto
quello più intenso della componente dei mezzi di trasporto
+0,7%
Le esportazioni
Nel 3° trimestre 2013 avanza l'export che traina la ripresa nelle vendite delle imprese industriali
Il traino costante
Le esportazioni sono cresciute anche nel terzo trimestre dello scorso anno. A livello settoriale, al rialzo
hanno contribuito soprattutto la meccanica e, in misura minore, la chimica e gli altri prodotti manifatturieri. Si è
invece ridotta la vendita della maggior parte di quelli del "made in Italy"
09/02/2014 5Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/02/2014 142
IL CREDITO Arriva dalla Bei una dote di 500 milioni Bussi u pagina 5 Chiara Bussi
Un nuovo arsenale della Bei, la Banca europea per gli investimenti, per sferrare l'attacco alla disoccupazione
giovanile. Con linee di credito in tandem con le banche nazionali - riservate a imprese o start up guidate da
under 30 o che si impegnano ad assumere in breve tempo un giovane - dove l'Italia vanta già un posto in
prima fila. I pionieri sono stati Intesa Sanpaolo e Ubi Banca tra fine gennaio e inizio febbraio, ma sono sulla
rampa di lancio nuovi accordi con Unicredit e altri istituti. Tanto che su un totale di circa 520 milioni già messi
a disposizione in Europa ben 440 andranno a beneficio delle aziende italiane. «L'iniziativa - spiega Romualdo
Massa Bernucci, direttore finanziamenti Italia e Balcani e responsabile delle Pmi Europa per la Bei - ha
suscitato molto interesse e contiamo di siglare nuovi accordi nei prossimi mesi».
A dare impulso al "piano giovani" - che ufficialmente si chiama «Jobs for Youth» - della Banca con sede in
Lussemburgo è stato il vertice Ue del giugno 2013 quando i leader europei, su iniziativa del premier Enrico
Letta, hanno inserito la Bei tra gli attori principali nella lotta alla disoccupazione giovanile. Un'investitura
confermata nel corso delle due Conferenze sul lavoro a Berlino (a luglio) e a Parigi (a novembre).
«La nostra strategia - sottolinea Massa Bernucci - è un piano d'azione in tre mosse». La prima, già conclusa,
è stata una terapia d'urto che prevedeva di convogliare almeno 3 miliardi a Pmi e Mid-cap nelle regioni con
un tasso di disoccupazione giovanile oltre il 25 per cento. L'obiettivo è stato centrato e superato: da agosto a
dicembre la Bei ha allocato complessivamente 4,6 miliardi. Quasi la metà (2,2 miliardi) è andata a imprese
spagnole, mentre l'Italia si è classificata al secondo posto con 3.500 finanziamenti attivati e 1,2 miliardi di
risorse messe a disposizione delle aziende del Mezzogiorno attraverso le banche. Seguono Polonia (300
milioni), Grecia (200 milioni), Croazia e Portogallo. «Complessivamente - dice Massa Bernucci - 50mila posti
di lavoro sono stati creati o confermati».
La "fase 2" è partita a fine 2013 ed è ancora in corso. L'Italia è al primo posto per il valore degli accordi
siglati, seguita da Polonia (50 milioni), Spagna (16 milioni) e Grecia (12,5 milioni). «Questi finanziamenti -
aggiunge Massa Bernucci - presentano condizioni vantaggiose di pricing che dovranno essere trasferite alle
imprese. I fondi dovranno poi funzionare come una piattaforma per attivare ulteriori risorse». Non solo. «Per
semplificare l'accesso - dice il direttore della Bei - abbiamo cercato di ritagliare le varie misure sulla
legislazione nazionale». In Italia, ad esempio, sono ammesse ai finanziamenti le aziende che rientrano nella
legge Giovannini sulla promozione dell'occupazione giovanile (99/2013). Intesa Sanpaolo ha attivato una
linea di credito da 120 milioni, mentre le banche del gruppo Ubi veicoleranno risorse per 50 milioni. In
entrambi i casi possono beneficiarne Pmi (fino a 250 dipendenti) che hanno assunto almeno un lavoratore tra
15 e 29 anni o Mid-cap (tra 250 e 3mila occupati) che hanno impiegato almeno 3 lavoratori nei sei mesi
precedenti o successivi alla domande di prestito. Ma anche start up o aziende in cui la maggioranza del
capitale ha meno di 30 anni. O imprese che offrono programmi di formazione o stage per i giovani.
Il dado è tratto e il board della Bei ha già l'ok a nuovi accordi per 70 milioni di prestiti con altri istituti e una
linea di credito congiunta da 200 milioni con Unicredit è in corso di approvazione in questi giorni. Se la
liquidità è una boccata di ossigeno preziosa uno dei nodi più spinosi sul fronte del credito resta quello delle
garanzie. Da qui prende le mosse la terza fase del programma con l'istituzione di gruppi di lavoro che
coinvolgono la Banca del Lussemburgo e le capitali. «L'obiettivo - conclude Massa Bernucci - è elaborare con
gli Stati membri una struttura per utilizzare le risorse europee o quelle nazionali».
© RIPRODUZIONE RISERVATA Lelinee di credito dedicate all'occupazione giovanile attivate dalla Bei dalla
fine del 2013 Fonte: Bei QUOTEROSA Dall'elaborazione su dati Eurostat emergeche le donne imprenditrici di
«se stesse» sono il44%del totale 518,5 milioni Valore degli accordi siglati o sulla rampa di lancio in Europa
12,5 milioni Linee di credito siglate in Grecia 50 milioni Linee di credito siglate in Polonia 16 milioni Linee di
10/02/2014 1Pag. Il Sole 24 Ore(diffusione:334076, tiratura:405061)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/02/2014 143
credito siglate con le banche spagnole GLI ACCORDI IN ITALIA 50 milioni Linea di credito Ubi-Bei Accordo
siglato il 3 febbraio UBI 120 milioni Linea di credito congiunta Intesa Sanpaolo-Bei Accordo siglato il 30
gennaio INTESA SANPAOLO 200 milioni Linea di credito Bei-Unicredit in corso di approvazione UNICREDIT
70 milioni Linee di credito congiunte con altre banche già approvate
440 milioni Quota per l'Italia dei fondi Bei per l'occupazione giovanileLa dotazione Le linee di credito dedicate
all'occupazione giovanile attivate dalla Bei dalla fine del 2013 - Fonte: Bei
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/02/2014 144
Da Fei e Credem 80 mln per le pmi innovative Il Fondo europeo per gli investimenti (Fei), Credito emiliano e Credemleasing, assistiti da Finanziaria
internazionale, hanno fi rmato un accordo di garanzia a supporto delle pmi, nell'ambito di un'iniziativa fi
nanziata dalla Commissione europea. Esso consente a Credem di mettere a disposizione delle imprese
innovative un plafond di 80 mln di fi nanziamenti, erogabili entro fi ne 2015, garantiti al 50% dal Fei. Si tratta
del sesto accordo di Rsi siglato in Italia e del ventisettesimo in Europa e porta l'ammontare dei fondi a
disposizione delle imprese innovative in paesi Ue a 2,5 mld.
08/02/2014 30Pag. ItaliaOggi(diffusione:88538, tiratura:156000)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/02/2014 145
[ IL CASO ] Contratto dirigenti e quadri, i soldi nel 2015 (c. bar.) Più manager nelle Pmi per superare la crisi. È con questo obiettivo che Confapi e Federmanager hanno
sottoscritto l'accordo per il rinnovo del CCNL di dirigenti e quadri superiori delle piccole e medie aziende
produttrici di beni e servizi. Il contratto, di durata triennale (2014-2016), non prevede, almeno per quest'anno,
interventi di adeguamento del minimo contrattuale (che scatterà nel 2015) mentre si punta a valorizzare la
parte variabile della retribuzione legata alla produttività. Per favorire la diffusione di competenze manageriali
nelle Pmi sono stati previsti percorsi in grado di agevolare la nomina o l'assunzione di nuovi manager,
strumenti per migliorare la formazione e l'aggiornamento professionale, e la creazione di un bilancio delle
competenze. Infine, le parti hanno puntato sulla valorizzare della figura del Quadro Superiore, a metà strada
tra il dirigente e il quadro. Un ruolo costruito su misura per le piccole imprese che non hanno una dimensione
economico-patrimoniale tale da potersi permettere di sostenere il costo di un dirigente.
10/02/2014 24Pag. La Repubblica - Affari Finanza - N.5 - 10 febbraio 2014(diffusione:581000)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/02/2014 146
Quel fascino discreto dei minibond PRESTITI OBBLIGAZIONARI PREFERITI ALLA BORSA PER FINANZIARE LE IMPRESE. L'ULTIMO CASORIGUARDA JSH GROUP CHE VUOLE PORTARE A 30 GLI ALBERGHI GESTITI E A 50 MILIONI ILFATTURATO (m.fr.) Milano Poco rappresentato a Piazza Affari, il settore italiano del turismo sta sperimentando canali alternativi
alla Borsa per raccogliere finanziamenti. Ad oggi lo strumento "minibond" sembra essere quello più utilizzato.
Questa particolare tipologia di obbligazioni, pensata per le piccole e medie imprese, è stata introdotta dal
governo Monti e, seppur fra qualche difficoltà sta prendendo fra le società non quotate, come prevede la
normativa. L'ultima società a farne uso è stata la Jsh Group, che gestisce strutture turistico-alberghiere e
vanta ricavi consolidati per 28 milioni di euro (esercizio 2013). Il prestito obbligazionario è stato ammesso alle
negoziazioni sul mercato ExtraMot Pro gestito da Borsa Italiana per un importo di complessivi nominali 1,8
milioni di Euro ed è stato sottoscritto da investitori professionali, tra cui Zenit Sgr, e da diversi partner
consolidati di Jsh. Il prestito ha una durata di 5 anni, con rimborso del capitale a partire dal secondo anno, e
prevede il pagamento di una cedola annuale lorda pari al 7,50%. Jsh intende, inoltre, collocare un'ulteriore
tranche durante un secondo periodo di offerta del prestito obbligazionario, che si è aperto il 3 febbraio per
concludersi il 31 marzo, allo scopo di completare la raccolta dei mezzi finanziari utili allo sviluppo del gruppo.
Con i capitali raccolti Jsh intende finanziare il piano industriale che prevede di raggiungere un numero di 25-
30 hotel in gestione (dagli attuali 20) e un fatturato consolidato di 50 milioni di Euro entro il 2018. «In un
periodo in cui l'accesso al credito per le Pmi è fortemente limitato - ha spiegato Andrea Cigarini, presidente di
Jsh - abbiamo compreso che era giunto il momento di rendere maggiormente efficiente la struttura finanziaria
di Jsh attraverso il ricorso a forme innovative di finanziamento, quali i minibond. Tale operazione rappresenta
per Jsh il primo passo verso il mercato finanziario, infatti stiamo valutando l'ipotesi di proseguire nel processo
di consolidamento patrimoniale attraverso la quotazione all'Aim Italia entro il 2015».
Foto: Il prestito obbligazionario a Jsh è per un importo di complessivi nominali 1,8 milioni di euro
10/02/2014 37Pag. La Repubblica - Affari Finanza - N.10 - febbraio 2014(diffusione:581000)
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/02/2014 147
Trend Da Bnp Paribas ad Anthilia: i piani dei gestori che vogliono investire nei prestiti delle Pmi. Ma per ora... Minibond, i fondi aprono la caccia Soglie di fatturato e settori specialistici. Con obiettivi di rendimento tra il 5 e l'8% PATRIZIA PULIAFITO Sono stati la novità del 2013, ma arriveranno a maturazione quest'anno. Sono i mini-bond, le micro
obbligazioni (da 1 a 20 milioni) emesse dalle piccole e medi imprese in base al Decreto Sviluppo 2012, per
superare le difficoltà di accesso al credito. Ma, sono già anche un' opportunità d'investimento. Al momento, in
Borsa Italiana, le emissioni quotate sono una dozzina. Ma, secondo il Cerved Group, sono circa 35 mila le
imprese con un giro d'affari superiore a 5 milioni di euro, sane e solvibili, con le carte in regola per lanciare
micro emissioni. Un mercato che, secondo stime prudenziali, potrebbe valere da 1 a 1,5 miliardi. Così, si
moltiplicano i fondi già a caccia dell'innovativa asset class. «Perché - spiega Marco Barbaro, amministratore
delegato di Bnp Paribas im, il cui fondo Bnp Paribas Bond Italia Pmi ha iniziato la raccolta a ottobre 2013, - i
minibond possono offrire un extra rendimento, stimabile intorno al 2%, rispetto alle obbligazioni societarie di
pari qualità e consentono una migliore diversificazione di portafoglio, con rischio comparabile a quello di una
qualsiasi obbligazione societaria di pari rating che, per il nostro fondo, non potrà essere inferiore alla doppia
B».
La qualità creditizia della società, del management e i potenziali tassi di crescita, sono i requisiti essenziali
nella scelta da parte dei fondi che, però, si distinguono per diverse filosofie d'investimento. Il prodotto di Bnp
Paribas, per i settori non ha preclusioni, ma punterà prevalentemente su società con un rilevante giro d'affari
nell'export. Nessuna preclusione di settori, anche per Wise sgr (scesa in campo con il fondo Wise Private
Debt) che punterà sulle pmi con un margine operativo lordo tra i 3 e i 15 milioni. «Ovvero - spiega Valentina
Franceschini, partner di Wise sgr - quelle che oggi fanno più fatica di altre ad accedere al credito, ma che
hanno una buona strategia di crescita. Noi privilegeremo quelle con obiettivo di internazionalizzazione».
Finint Investment Sgr, (la pioniera, avendo lanciato il fondo Minibond Pmi Italia, nel maggio 2013, in
collaborazione con Mps Capital Services Banca per le imprese e Prometeia) si focalizzerà su industria
meccanica e manifatturiera di qualità, infrastrutture e trasporti, alimentare e bevande, escludendo immobiliare
e servizi finanziari. «Per quanto riguarda le società, - aggiunge Mauro Sbroggiò, ad della sgr - punteremo su
quelle con un fatturato inferiore a 250 milioni di euro». Finint crede nei minibond a tal punto da emetterne
uno, come capogruppo, pur non essendo una pmi. Un prestito di 12 milioni per finanziarsi. E' quotato e
promette un rendimento del 5% annuo.
Anthilia Capital Partners e Banca Akros, i primi a centrare la soglia di raccolta a 100 milioni (le altre
prevedono di raggiungere il proprio obiettivo nel primo trimestre 2014) sono pronti a investire nei progetti
delle Pmi clienti delle banche che partecipano al fondo. «Perché - precisa Giovanni Landi, senior partner di
Anthilia - l'obiettivo del nostro Anthilia Bit è permetter alle piccole imprese di fare operazioni più sostanziose,
rispetto a quelle che il loro patrimonio consentirebbe. Per contenere il rischio puntiamo ad un'ampia
diversificazione geografica e settoriale».
Anche la grande finanza internazionale è scesa in campo con un fondo del gruppo di private equity
statunitense Muzinich e la sgr di fondi alternativi, Hedge Invest. Sono tutti fondi chiusi, con durata di 5/10
anni, destinati a investitori istituzionali o, con portafogli sostanziosi, perché le soglie minime di sottoscrizione
vanno da 50 mila a un milione di euro. I rendimenti attesi oscillano dal 5% all'8%. Tendenzialmente,
prevedono anche il pagamento di una cedola periodica.
Anche Mediolanum Flessibile Sviluppo Italia, lanciato in novembre da Banca Mediolanum. puta sulle pmi più
promettenti, ma è aperto a tutti, con una bassa soglia d'ingresso. In poco più di un mese dal collocamento, ha
già raccolto 40 milioni di euro.
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10/02/2014 24Pag. Corriere Economia - N.5 - 10 febbraio 2014
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/02/2014 148
Foto: Italy Photopress
Foto: Borsa Italiana Raffaele Jerusalmi
Foto: Anthilia Giovanni Landi
10/02/2014 24Pag. Corriere Economia - N.5 - 10 febbraio 2014
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/02/2014 149
DOLCI & AMARI I big cartolarizzano il credito, che non viene dato ai piccoli Sarebbe opportuno seguire la Spagna creando una bad bank. Cura dolorosa, ma... Pompeo Locatelli* Negli ultimi dodici mesi le sofferenze del sistema bancario sono cresciute del 23 per cento, arrivando a
sfiorare il tetto dei 150 miliardi, qualcosa come il 9 per cento del prodotto interno lordo. Gli affidati in
sofferenza sono 1.215.000, per un importo medio di 125 mila euro ciascuno. Se si analizzano i dati con la
lente di ingrandimento, emerge poi che, come sempre, i più danneggiati sono le piccole e medie imprese:
artigiani, commercianti, pmi. Il picco massimo tocca il settore costruzioni, esposto per il 200% del valore
aggiunto, il che sta ad indicare che i cantieri dovrebbero lavorare due anni di fila solo per ripagare il debito
esistente. Non finisce qui la cura da cavallo per i conti bancari, alla vigilia dell'esame europeo: non passa
giorno, ormai, senza che qualche banca annunci un'operazione di cartolarizzazione (vedi l'accordo tra
Unicredit e l'hedge fund Usa Mariner) piuttosto che la cessione di pacchetti di non performing loans a qualche
gruppo internazionale per importi largamente inferiori al valore nominale (pare che corrano cifre pari a meno
di un decimo dell'importo iniziale). Non è difficile immaginare le prossime mosse di questi "compratori di
debito" e, soprattutto, le conseguenze: nuovi seri problemi per i clienti più "deboli". Nel frattempo il credito
viene concesso con il contagocce anche alle imprese giudicate più "sane" e, spesso, vengono richiesti rientri
mascherati. In sostanza, si è deciso di scaricare l'onere del riequilibrio del sistema sulle spalle della clientela,
con il risultato di inasprire la crisi del sistema imprenditoriale. Di fronte questa gravissima situazione viene da
chiedersi se non sia stata più saggia la scelta spagnola: un'operazione, basata sulla creazione della bad bank
in cui far confluire debiti ed assets in sofferenza. Oggi la Spagna sta procedendo a tappe forzate alla
liquidazione del patrimonio immobiliare incagliato, grazie ad un marketing aggressivo (non escluso il compra
tre, paghi due...), l'offerta di immobili "puliti" di pegni ed ipoteche varie. Certo, è stata un'operazione dolorosa
per azionisti ed obbligazionisti, come nel caso di Bankia, ed una mutilazione di potere per alcuni poteri forti (le
Caixas hanno dovuto vendere pacchetti strategici, come il controllo di Iberia). Ma le banche spagnole hanno
ripreso da mesi a dare ossigeno alle imprese che non hanno, per giunta, crediti pregressi verso le
amministrazioni pubbliche. A Madrid, insomma, si è scelta la strada "chirurgica", con beneficio per le imprese
non finanziarie. In Italia, al solito, si è privilegiata la "stabilità" (a partire dai cda e dai poteri delle Popolari) a
danno dei clienti. *www.pompeolocatelli.com
07/02/2014 6Pag. Bluerating - N.2 - febbraio 2014
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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 10/02/2014 150