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1 Pensieri sparsi Nr. 1 Pfarrer i.R. Dr. Orazio Bonassi Via Cavour 43 25054 Vello (Brescia) Tel. 030-987320 Cell. 0039-348 162 50 55 e-mail: [email protected] “Si tratta di notizie, nozioni e idee che non ho approfondito e che ho messo da parte per poterle poi rielaborare a tempo debito. “(Barone di Montesquieu) Mi sono imbattuto tempo fa in questa citazione del Barone di Montesquieu. Il pensiero di raccogliere tutto ciò che poteva interessarmi al lavoro pastorale non mi ha più lasciato. Ora che sono pensionato mi son riproposto di riprendere in mano tutto questo materiale per meditarlo, per “farlo mio”. Di questo lavoro vorrei rendere partecipi anche i miei amici. I miei interessi non sono sempre i vostri interessi, ma la forza delle idee, anche se vengono da mondi e pensieri o Weltanschauungen diverse possono sempre essere utili. Vorrei pertanto iniziare questo servizio, inviandovi regolarmente articoli, prediche, pensieri sparsi ed indicarvi anche fonti interessanti nel mondo di internet. E’ un servizio “amicale” ed ha solo tale pretesa. Toccherà a voi farne l’uso che credete. Se queste e-mail non ti fossero gradite: o me lo dici o le incestini. In questo primo numero ho pensato di proporre le prediche del periodo di Avvento e di Natale tratte da alcune riflessioni di Timothy Verdon sulla “Bellezza della Parola”. Sono abbellite da

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Pensieri sparsi

Nr. 1Pfarrer i.R. Dr. Orazio BonassiVia Cavour 4325054 Vello (Brescia)Tel. 030-987320Cell. 0039-348 162 50 55e-mail: [email protected]

“Si tratta di notizie, nozioni e idee che non ho approfondito e che ho messo da parte per poterle poi rielaborare a tempo debito.

“(Barone di Montesquieu)

Mi sono imbattuto tempo fa in questa citazione del Barone di Montesquieu. Il pensiero di raccogliere tutto ciò che poteva interessarmi al lavoro pastorale non mi ha più lasciato. Ora che sono pensionato mi son riproposto di riprendere in mano tutto questo materiale per meditarlo, per “farlo mio”. Di questo lavoro vorrei rendere partecipi anche i miei amici. I miei interessi non sono sempre i vostri interessi, ma la forza delle idee, anche se vengono da mondi e pensieri o Weltanschauungen diverse possono sempre essere utili.

Vorrei pertanto iniziare questo servizio, inviandovi regolarmente articoli, prediche, pensieri sparsi ed indicarvi anche fonti interessanti nel mondo di internet.

E’ un servizio “amicale” ed ha solo tale pretesa. Toccherà a voi farne l’uso che credete. Se queste e-mail non ti fossero gradite: o me lo dici o le incestini.

In questo primo numero ho pensato di proporre le prediche del periodo di Avvento e di Natale tratte da alcune riflessioni di Timothy Verdon sulla “Bellezza della Parola”. Sono abbellite da alcuni quadri di autori e sottoposte ad un approfondimento di meditazione. Personalmente le utilizzo per la meditazione e ne ricavo anche spunti per colloqui spirituali, omelie e catechesi.

Auguro a tutti un buon periodo di Avvento

Sac. Orazio Bonassi

L'atteso delle genti, Turone de Maxio, 1360-1380 circa. Verona, Biblioteca Capitolare, corale MLVI, fol. 4v.

TEMPO DI AVVENTO

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Con le quattro domeniche dell'Avvento, la Chiesa incomincia l'anno liturgico guardando verso la prima grande festa del suo calendario, Natale. Le letture invitano a immedesimarsi nell'attesa dell'antico popolo eletto, per celebrare con consapevolezza l'avvento del Messia nella storia ossia la nascita del Figlio di Dio a Betlemme. Ma i testi proclamati in queste domeniche obbligano anche a spostare lo sguardo all'altro «avvento» di cui parlano le Scritture, il ritorno di Cristo alla fine dei tempi come giudice della storia, e a rendersi conto che tra i due orizzonti - tra il passato remoto e il futuro ultimo - vi è anche il presente in cui il salvatore va sperato, riconosciuto ed accolto nelle circostanze della vita quotidiana.

È utile ricordare che l'Avvento, col suo percorso scritturale, prese forma solo intorno al VI secolo, più tardi dell'analogo tempo liturgico preparatorio, la Quaresima, da cui l'Avvento ha assunto vari elementi ascetici. Ma la vera ascesi di questo tempo non consiste in azioni penitenziali, bensì nella vigilanza di un'attesa interiore aperta alla conversione. Il clima autentico dell'Avvento è suggerito dall'immagine riprodotta a fronte, una splendida miniatura di Turone de Maxio, artista veronese del Trecento, in cui vediamo tre uomini che, con vari gradi di consapevolezza, aspettano Cristo che deve ancora incarnarsi e scendere. L'immagine anima l'iniziale dell'antifona d'ingresso cantata per la messa della seconda domenica d'Avvento, una P, la prima lettera di un testo del profeta Isaia: «Populus Sion - Popolo di Sion [...] anche se il Signore ti darà il pane d'afflizione e l'acqua della tribolazione, tuttavia non si terrà più nascosto il tuo maestro, i tuoi occhi vedranno il tuo maestro...» (Is 30,19-20).

Per i chierici che, cantando, vedevano l'iniziale di Turone, c'era probabilmente un senso più ampio del significato dell'antifona. Il Cristo sperato corrispondeva al prosieguo del testo d'Isaia, in cui è promesso che Dio, quando si rivelerà, «concederà la pioggia per il seme che avrai seminato nel terreno; il pane, prodotto della terra, sarà abbondante e sostanzioso; in quel giorno il tuo bestiame pascolerà su un vasto prato. I buoi e gli asini che lavorano la terra mangeranno biada saporita, ventilata con la pala e con il vaglio. Su ogni monte e su ogni colle elevato, scorreranno canali e torrenti nel giorno della grande strage, quando cadranno le torri. La luce della luna sarà come la luce del sole, e la luce del sole sarà sette volte di più, quando il Signore curerà la piaga del suo popolo e guarirà le lividure prodotte dalle sue percosse» (Is 30,23-26).

Queste stravaganti promesse - di benessere, prosperità, vendetta, illuminazione e guarigione - trovavano piena realizzazione nel brano evangelico che all'epoca si leggeva durante la stessa messa della seconda domenica d'Avvento (oggi invece nella terza domenica): quello in cui Giovanni Battista dal carcere invia alcuni discepoli a chiedere a Gesù: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo attenderne un altro?» (Mt 11,2-3). Cristo risponde alla domanda invitando i suoi interlocutori a riferire a Giovanni «ciò che voi udite e vedete: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella» (Mt 11,4-5). Il senso universale dell'attesa illustrata nella miniatura era quindi chiaro: «Colui che deve venire» - il bambino nato a Natale - è quanto di buono, bello, giusto e vitale l'essere umano può sognare. E

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mentre un filosofo veterotestamentario, Qoèlet, commentando la frustrazione che gli uomini provano nella loro ricerca di Dio, diceva con amarezza: «Egli ha messo la nozione dell'eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l'opera compiuta da Dio dal principio alla fine» (Qo 3,11), ecco che in Cristo tale vago anelito s'incarna e «colui che deve venire» nasce tenero bambino, per insegnare agli uomini - lui, l'Alfa e l'Omega -, «l'opera compiuta da Dio dal principio alla fine». Sant'Agostino dirà che sono «queste le promesse finali verso cui è volta tutta la nostra tensione spirituale; quando le avremo conseguite, nulla più cercheremo, niente più domanderemo» (Commento al Salmo 109,1-3, CCL 40, 1601-1603).

Atteso in questo modo, Natale diventa il punto di coagulo di speranze primordiali, e il bimbo che dorme in seno alla madre si rivela l'obiettivo «verso cui è volta tutta la nostra tensione spirituale», tutto l'umano desiderio di Dio. Basta ricordare le petizioni delle antifone cantate sin dal Medioevo nei giorni che precedono Natale (dal 17 al 23 dicembre) per cogliere poi l'urgenza di tale desiderio: «Veni ad docendum nos [...]; Veni ad redimendum nos [...]; Veni ad liberandum nos [...]; Veni et educ vinctum de domo carceris [...]; Veni et illumina [...]; Veni et salva [...]; Veni ad salvandum nos» (Vieni ad insegnarci, vieni a redimerci, vieni a liberarci, vieni a condurre il vinto dal carcere, vieni e illumina, vieni e salva, vieni per salvarci). La forza di questo desiderio, suggerita dal ripetitivo veni delle antifone, ha poi spessore storico, dal momento che ogni petizione invoca l'avvento del salvatore con un nome derivato dalla millenaria attesa d'Israele: Sapienza, Adonai, Radice di lesse, Chiave di Davide, Oriente, Re delle genti ed Emmanuel - titoli, questi, che mettono l'indefinita «nozione dell'eternità nel cuore degli uomini» in rapporto alla specifica speranza di un popolo storico, evocando il lento spiegamento del piano divino attraverso molte generazioni, molti secoli: la storia stessa come risposta di Dio alle attese dell'uomo.

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Diluvio universale, particolare,Paolo Uccello,1445-1447. Firenze,Santa Maria Novella,Chiostro Verde.

Prima domenicaIs 2,1-5; Sal 121 [1221; Rm 13,11-14; Mt 24,37-44

NELL'ORA CHE NON IMMAGINATE, IL FIGLIO DELL'UOMO VERRÀ

Le prime letture del nuovo anno liturgico ricollegano il tempo che si sta aprendo a quello appena chiusosi, orientando lo sguardo dei fedeli all'avvento ultimo del Signore, quando verrà come giudice della storia e del mondo. Già il vangelo della penultima domenica

dell'anno precedente, Lc 21,5-19, aveva preannunziato «fatti terrificanti e segni grandi nel cielo» prima della fine, e l'ultimo vangelo feriale del vecchio anno, quello del sabato che precede questa prima domenica d'Avvento, invitava a vegliare e pregare in ogni momento «perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell'uomo» (Lc 21,36).

Lo stesso orizzonte escatologico viene riproposto ora all'inizio dell'anno entrante, con la differenza che il vangelo di Matteo riporta l'inevitabile fine della storia indietro al suo principio, situando il giudizio ultimo nella prospettiva del primo «giudizio» operato dal Creatore, il diluvio universale: «Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo», dice Gesù ai suoi discepoli (Mt 24,37-44). Il nuovo anno apre cioè con l'invito a vedere tutta la storia del mondo come un'attesa di giudizio, e a collocare l'evento storico del Natale all'inizio dell'ultima fase di questa attesa. Come ammonisce san Paolo nella seconda lettura: «Fratelli, è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13,11-12).

L'immagine a fronte illustra questi temi. È un particolare dell'affresco del pittore Paolo Uccello raffigurante il Diluvio universale, eseguito nel secondo quarto del Quattrocento in un chiostro del convento domenicano di Santa Maria Novella a Firenze (detto «chiostro verde» per la tecnica a terra verde dei dipinti murali). Qui la figura di un uomo maturo che guarda intensamente nella lontananza sembra tradurre l'ammonimento ripetuto più volte in questa prima domenica dell'Avvento: «Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà state pronti, perché nell'ora che non immaginate, il Figlio dell'uomo verrà» (Mt 24,42.44). E come queste parole fanno parte della riflessione di Gesù su «i giorni di Noè», così l'uomo dipinto da Paolo Uccello è vicino all'arca fabbricata dal patriarca, in mezzo a personaggi che cercano disperatamente di salvarsi dalle acque.

L'arca è raffigurata ben due volte, dietro all'uomo e di nuovo davanti a lui. La versione alle sue spalle è oggetto dei disperati tentativi di alcuni d'imbarcarsi, e

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rappresenta perciò l'inizio del diluvio, quando le acque incominciarono a levarsi; l'arca davanti all'uomo ne rappresenta invece la fine: da essa, infatti, vediamo sporgersi Noè per raccogliere il ramoscello d'ulivo, simbolo di salvezza per un mondo riconciliato. L'uomo maturo in piedi è rivolto cioè all'arca in cui Dio ha salvato Noè con la sua famiglia: non guarda il passato colmo di peccato e disperazione, ma il futuro, forse intravedendo l'alleanza che Dio farà con Noè. Forse vede ancora più lontano, scorgendo sull'orizzonte la definitiva alleanza che verrà stabilita in Cristo!

Ecco il senso della vigilanza dell'uomo raffigurato da Paolo Uccello e dell'attesa a cui la Chiesa chiama tutti nell'Avvento: dobbiamo sì aspettare un giudizio, «poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore», come recita il brano veterotestamentario che oggi serve da prima lettura, Is 2,1-5 — ma possiamo sperare un giudizio di pace. Attendiamo un giudice, perché la stessa parola del Signore «sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli» (Is 2,4a), ma un giudice pacifico che demolirà il muro di divisione tra popolo e popolo, così che gli uomini «forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci» e «non si eserciteranno più nell'arte della guerra» (Is2,4b). Ecco perché il ritornello suggerito per il salmo responsoriale è: «Andiamo con gioia incontro al Signore», e il salmo scelto è il numero 121, che abbina le idee di «giudizio» e di «pace». In Avvento i cristiani s'incamminano verso colui che è già venuto incontro a noi: Cristo giudice della storia e principe della pace; «vegliano» e «stanno pronti», ma la loro vigilanza è gioiosa - una tensione positiva -, perché sanno che «la notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13,12); fanno penitenza, ma col cuore schietto di chi intende comportarsi «onestamente, come in pieno giorno», come dice san Paolo (Rm 13,13).

Questo testo paolino - la seconda lettura, Rm 13,11-14 - offre forse la chiave più sicura all'inizio dell'anno liturgico; dei tre brani scritturistici è infatti l'unico già assegnato alla prima domenica dell'Avvento nel Missale Romanum del 1570. Ciò significa che l'invito dell'apostolo a svegliarsi perché «il giorno è vicino», e l'esortazione ad indossare «le armi della luce», suonano da secoli nei giorni bui di fine novembre in cui si apre l'Avvento, fra l'altro spiegando il coraggio dell'uomo nell'affresco di Paolo Uccello che guarda intrepido verso una luce fuori campo. Ecco, l'anno cristiano apre con lo sguardo rivolto alla luce, perché a Natale viene Cristo salvatore.

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San Giovanni Battista,Giuliano Vangi, 1996. Firenze, piazza di Santa Maria sopr'Arno.Battesimo di Cristo,1343-1354. Venezia,San Marco, battistero.

Seconda domenicaIs 11,1-10; Sal 71 [721; Rm 15,4-9; Mt 3,1-12

CONVERTITEVI PERCHÉ IL REGNODEI CIELI È VICINO

Con la seconda domenica si passa dai «tempi di Noè» a quelli di Gesù, il cui «avvento» viene indicato da Giovanni Battista nel deserto della Giudea. L'evangelista Matteo inoltre insiste che Giovanni «è colui che fu annunziato dal profeta Isaia, quando disse: "Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri"» (Mt 3,3), e questa precisazione rientra nello spirito espresso dalla seconda lettura, secondo cui «tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per la nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza» (Rm 15,4). Scopo delle letture di questa seconda tappa che porta al Natale è perciò quello di rafforzare la speranza, garantendo la veridicità delle Scritture che annunciano l'arrivo del salvatore. Riconoscendo in Giovanni Battista il profeta annunziato da Isaia, i credenti, consolati, potranno perseverare nella fatica di preparare una via al Signore. Tutte le parole antiche infatti - «tutto ciò che è stato scritto prima di noi» - si riveleranno vere in colui che è egli stesso Parola incarnata del Padre.

L'inserimento del Battista nell'antica tradizione profetica è suggerito dall'opera riprodotta a fronte, una figura bronzea del Precursore, creata da Giuliano Vangi. Ispirandosi al vangelo, lo scultore contemporaneo presenta Giovanni in «un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle intorno ai fianchi», così macilento da sembrare uno che mangia solo «locuste e miele selvatico» (Mt 3,4) e con un'intensità psicologica e forza comunicativa corrispondenti a quanto immaginiamo negli antichi profeti. Notiamo che a Firenze, città a cui questa figura è stata destinata, simili personaggi abbondano: basti pensare ai profeti scolpiti da Donatello per il campanile del duomo; a Firenze poi il ruolo del Battista come predicatore di penitenza è da tutti conosciuto, essendo san Giovanni patrono della città. Così la bocca semiaperta, la destra innalzata e il movimento in avanti del profeta immaginato da Vangi sono segni riconoscibili dell'accusa rivolta ai farisei e sadducei che si presentavano al battesimo: «Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all'ira imminente?» (Mt 3,7).

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In questa seconda domenica dell'Avvento, come nella prima, la venuta del Messia implica infatti un giudizio, e non a caso il discorso di Giovanni conclude con una descrizione terrificante di colui che sta per venire: «Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile» (Mt 3,12); anche la prima lettura, tratta dal profeta Isaia, attribuisce grande severità al Redentore, affermando che «la sua parola sarà una verga che percuoterà il violento; con il soffio delle sue labbra ucciderà l'empio» (Is 11,4).

Simili espressioni appartengono al contesto ascetico in cui Cristo viene annunciato, il deserto, luogo che nella Bibbia evoca l'assenza di vegetazione e di vita. «Già la scure è posta alla radice degli alberi», dice Giovanni, «ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco» (Mt 3,10). Ma le letture di questa seconda domenica sottolineano anche immagini di crescita: «Un germoglio spunterà dal tronco di lesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» (Is 11,1); nella stagione morta dell'anno, cioè, viene promesso il miracolo di nuova vita. Nella stessa vena, Giovanni Battista invita i farisei e sadducei a fare «frutti degni di conversione» (Mt 3,8).

Ciò che spunta dal tronco invernale, il «frutto» di sincera conversione morale, non è poi una cosa ma una Persona: colui che germoglia a Natale, trasformando il deserto della storia in giardino. «Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna», assicura il salmo responsoriale (71,7), e Isaia lo caratterizza come un giudice diverso da altri: «Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i poveri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese» (Is 11,3-4). La sua giustizia - attenta, equilibrata, compassionevole - sarà dono di Dio, perché «su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d'intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore» (Is 11,2). A sua volta, poi, il giudice farà fiorire la sua stessa giustizia in coloro che l'accolgono: «Io vi battezzo con acqua per la conversione», dice Giovanni Battista, «ma colui che viene dopo di me [...] vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,11).

Una seconda immagine può riassumere queste idee: il mosaico trecentesco del Battesimo di Cristo nella basilica di San Marco a Venezia, dove un san Giovanni non dissimile da quello di Vangi assiste alla discesa dello Spirito Santo su Gesù, e dietro il Battista si vede la scure posta alla radice degli alberi. Ecco, la nascita e manifestazione del Figlio di Dio nel mondo costituiscono un giudizio su ciò che c'è stato e ciò che ci sarà; Natale cambia la storia perché cambia l'uomo, chiamato ormai in Cristo a ricevere lo Spirito Santo di Dio.

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I discepoli di Giovanni vanno da Cristo, formella della porta meridionale del battisterodi Firenze, Andrea Pisano, 1330 circa.

Terza domenicaIs 35,1-6.8.10; Sal 145 [146]; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11

SEI TU COLUI CHE DEVE VENIRE?

Alle attese nutrite durante le prime settimane dell'Avvento - di un giudice e della giustizia, di un salvatore e della salvezza -, le letture della terza domenica rispondono con l'invito ad avere coraggio perché Dio infatti arriva, e con lui «giunge la

vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi» (Is 35,4). Viene dato un volto al promesso salvatore quando Giovanni Battista - che al Giordano aveva già capito o quantomeno intuito che Gesù era il Messia - manda a chiedere una conferma: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo attenderne un altro?» (Mt 11,3), e riceve una risposta positiva da Cristo. Questa positiva risposta, questa esplicita identificazione della sperata salvezza con Gesù, dà un tono di festa alla terza domenica dell'Avvento, comunicato con la prima parola di questa liturgia, Gaudete, «Rallegratevi»: è l'esortazione di san Paolo ai Filippesi che nel Missale Romanum del 1570 costituiva la prima lettura della messa della terza domenica ed è tuttora conservata nel canto d'ingresso, «Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4,4-5). Questa infatti si chiama «domenica gaudete» e anticipa la gioia del Natale, come viene suggerito anche dal colore dei paramenti: non il violaceo penitenziale ma il rosa.

«Il Signore è vicino». Ma quale Signore? L'opera a fronte, uno dei rilievi delle prime porte bronzee del battistero di San Giovanni a Firenze - quelle eseguite negli anni 1330 su disegno di un collaboratore di Giotto, Andrea Pisano -, permette di cogliere il carattere del promesso salvatore e quindi il motivo della gioia al suo apparire. Il rilievo illustra un momento dell'episodio narrato nell'odierno vangelo, i discepoli inviati da Giovanni Battista a Cristo: sono i due personaggi a sinistra che guardano Gesù, a destra, mentre egli benedice la folla. L'artista fa vedere la risposta di Gesù alla domanda rivoltagli, «Sei tu colui che deve venire?», ponendo al centro della composizione proprio questa folla, in cui vediamo tra l'altro due handicappati. Gesù infatti dice ai discepoli del Battista: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,4-6).

Tale risposta, nel contempo più e meno di un semplice sì, invita a riconoscere in Cristo il Dio che, venendo all'umanità, porta con sé «vendetta» e «ricompensa». Nel brano d'Isaia che serve da prima lettura, immediatamente dopo le parole: «Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina: egli viene a salvarvi», sentiamo che «allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.

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Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto» (Is 35,5-6). È questo il motivo della gioia della «domenica gaudete»: il salvatore che viene è il Dio che ricompensa ogni innocente sofferenza, colui che si vendica sul male guarendolo. Egli stesso è la «strada appianata», la «via santa» promessa da Isaia, su cui «ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo», così che «felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35,8.10).

Non è però una gioia facile, quella incarnata in Gesù Cristo: non è data a chiunque. Giovanni Battista, a cui Cristo riserva altissimi elogi, pone la sua domanda dal carcere in cui è stato rinchiuso per aver testimoniato la verità, e la folla che ascolta Cristo nel rilievo di Andrea Pisano è condizionata da gravi necessità fisiche e psicologiche. Natale, possiamo dire, è una festa per i poveri e i sofferenti, e il Figlio di Dio nasce per chi sa di aver bisogno di lui.

Questa dimensione sofferta della gioia che l'Avvento prepara è suggerita dalla seconda lettura, tratta dalla Lettera di san Giacomo dove veniamo ammoniti ad essere «pazienti fino alla venuta del Signore» (Gc 5,7). Come nella seconda domenica, poi, viene sviluppata la metafora della terra che produce frutti: «Guardate l'agricoltore», continua san Giacomo, «egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d'autunno e le piogge di primavera». Queste figure neotestamentarie non fanno altro poi che focalizzare le promesse «ecologiche» della prima lettura, dove - nell'imminenza dell'arrivo di Dio - il deserto stesso è invitato a rallegrarsi: «Esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti di gioia e di giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron» (Is 35,1-2).

La pazienza del cristiano non viene esercitata però in vista di una fioritura materiale, e la sua ricompensa non consiste solo nella guarigione fisica. Ancora nella stagione fredda dell'anno, l'Avvento fa intravedere piuttosto una primavera spirituale per cui vale la pena prendere «a modello di sopportazione e di pazienza i profeti che parlano nel nome del Signore» (Gc 5,10); Gesù stesso proponeva il modello di Giovanni Battista, «profeta... e più di profeta», aggiungendo tuttavia che «il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,11). Ecco, a Natale fiorisce il deserto nel cuore degli umili, e il più piccolo discepolo di Cristo si scopre «profeta... e più di profeta», perché la nascita di Dio come uomo permette agli uomini di rinascere in Dio.

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Sogno di san Giuseppe, Georges de La Tour, 1640 circa. Nantes, Musée des Beaux-Arts.

Quarta domenicaIs 7,10-14; Sal 23 [24]; Rm 1,1-7; Mt 1,18-24

GIUSEPPE, FIGLIO DI DAVIDE,NON TEMERE

Mentre la Chiesa guarda da vicino le circostanze della nascita di Gesù, le letture dell'ultima domenica dell'Avvento riassumono i fatti e il clima dell'evento in preparazione. Con grande

concisione, il vangelo narra che la madre del nascituro salvatore, Maria, «essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18). Benché stupefacente, questa rivelazione non trova impreparati i fedeli presenti a questa messa, che hanno già sentito nella prima lettura di un «segno» dato da Dio ad Acaz, re di Giuda ai tempi d'Isaia: una profezia, secondo cui «la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà "Emmanuele": "Dio-con-noi"» (Is 7,14). In maniera analoga, san Paolo nella seconda lettura ha sottolineato le due origini di Gesù, «nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti» (Rm 1,3-4). Quasi anticipando le domande che simili affermazioni possono suscitare, lo stesso testo insiste che queste notizie - e tutto «il vangelo di Dio... riguardo al Figlio suo» - erano già promesse «per mezzo dei... profeti nelle sacre Scritture» (Rm 1,1-3), e che Paolo ha ricevuto l'apostolato allo scopo preciso di «ottenere l'obbedienza alla fede di tutte le genti» (Rm 1,5). Tra la profezia dell'Emmanuele nella prima lettura, cioè, e l'annuncio evangelico che Maria era incinta dello Spirito Santo, il brano paolino riafferma un tema centrale dell'Avvento: l'attendibilità delle antiche Scritture, e introduce un concetto importante, quello della «obbedienza alla fede».

Questo tema e questo concetto sono alla base del dipinto qui riprodotto, che illustra il prosieguo del vangelo del giorno, il dramma del dubbio di san Giuseppe, risolto quando egli dà credito all'annuncio di un angelo apparsogli in sogno. Il motivo del dubbio è facile da intuire, e san Matteo dice solo che, resosi conto della gravidanza di Maria, «Giuseppe suo sposo, che era uomo giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati"» (Mt 1,19-21).

L'autore del quadro, il francese Georges de La Tour, rappresenta Giuseppe come un vecchio addormentatosi mentre legge a lume di candela. L'età avanzata, che

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nell'iconografia del santo serve soprattutto a escludere l'effettiva paternità fisica di Gesù, qui ha un ulteriore scopo, mostrare Giuseppe come il rappresentante di un'antica tradizione, un «figlio di Davide» in cui tutta la storia del popolo eletto confluisce; anche il nome del santo, quello del figlio sognatore di Giacobbe, fa di questo vecchio l'esponente di una vetusta tradizione.

Alla luce della tradizione, poi, san Giuseppe non ha solo «pensato» al problema che la gravidanza di Maria costituiva, ma ha cercato spiegazioni nelle Scritture: il volume sui suoi ginocchi allude certamente al libro d'Isaia, come del resto suggerisce lo stesso vangelo del giorno, che commenta l'episodio con l'osservazione che «tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: "Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele"» (Mt 1,22-23). Giuseppe impersona cioè la convinzione veterotestamentaria dell'attendibilità delle Scritture, e non a caso sarà lui a dare il nome di «salvatore» - Gesù - al Verbo di Dio fattosi carne.

Eppure, non è solo in base alle Scritture che Giuseppe accetta la parola di Maria, ma anche grazie a un intervento divino: de La Tour infatti mostra il libro abbandonato davanti al santo, e la flebile luce della candela oscurata dal braccio destro dell'angelo teso verso il sognatore. Con un'astuzia pittorica tipica del periodo, l'artista ha poi spostato la fonte luminosa dalla candela al volto del messo divino illuminato di riflesso: la candela c'è e dà luce, come c'è il libro delle Scritture aperto davanti a Giuseppe, ma è l'apparizione angelica e l'assicurazione data in sogno a convincere quest'uomo giusto, col risultato che «destatosi dal sonno, Giuseppe fece come aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24), diventando contestualmente figura di quella «obbedienza alla fede» di cui parlerà l'apostolo Paolo.

«Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come aveva ordinato l'angelo del Signore». Ecco, queste parole conclusive del vangelo della quarta domenica dell'Avvento riportano al testo centrale della prima domenica, il brano usato da secoli all'inizio dell'anno liturgico in cui veniamo ammoniti che «è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13,1112). Il «giorno... vicino» è quello di Cristo, luce del mondo, e a Natale siamo chiamati a destarci dal sonno per obbedire alla fede in lui rivelata dall'alto.

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Croce smaltata di Pasquale I, 817-824.Città del Vaticano, Museo Sacro della Biblioteca Apostolica.

TEMPO DI NATALECome l'Avvento rammenta la millenaria attesa del popolo eletto per un salvatore, così Natale continua ad evocare la storia d'Israele ma in chiave di adempimento. Insistendo sull'identità divina oltre che umana di Cristo, le letture suggeriscono significativi parallelismi con l'Antico Testamento: Giuseppe il padre putativo di Gesù, come Giuseppe figlio di Giacobbe, è un «sognatore» che salva la famiglia portandola in Egitto; Erode, come il Faraone ai tempi di Mosè, fa uccidere i bambini maschi nel tentativo d'eliminare quello destinato a liberare il popolo; e come Balaam, il veggente forestiero che vide «spuntare una stella da Giacobbe», così

i magi, sapienti gentili, seguono una stella fino al luogo dove è nato Gesù.I testi relativi a Natale appartengono ad una fase redazionale tardiva,

aggiungendosi al vangelo cristiano solo dopo la formazione del più antico nucleo pasquale, a cui continuamente rimandano (come il tempo liturgico dell'Avvento rimanda alla Quaresima). Artisti e committenti avvertivano queste connessioni, e molte immagini del Natale, mentre narrano gli inizi della vita di Cristo, guardano anche alla sua fine: alla croce che diventa gloria non solo per lui ma per coloro che in lui credono. È il caso dello spettacolare oggetto riprodotto a fronte, la croce di papa Pasquale I conservata nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana: un capolavoro di smalto cloisonné su lamina d'oro realizzato forse da un maestro siriaco attivo a Costantinopoli nei primi decenni del IX secolo. Il programma iconografico, anche se tutto focalizzato sul mistero natalizio, ne organizza i sette episodi maggiori (corrispondenti all'articolazione del tempo di Natale, con le sue feste e relative letture) nelle braccia e al centro di una croce, così che l'annunciazione, la visitazione, la natività, l'adorazione dei magi, la presentazione al Tempio, la fuga in Egitto e il battesimo di Cristo vengono chiaramente messi in rapporto alla futura morte del salvatore] Inoltre, ciò che abbiamo chiamato croce è in verità una stauroteca - un contenitore per i frammenti della vera croce -, e così, in origine, l'impressione che si produceva non era solo intellettuale ma anche viscerale. Sapendo che l'oggetto conteneva il legno su cui Cristo era morto, chi guardava questa croce contemplava le scene della sua nascita con profonda commozione; non a caso il centro, corrispondente alla testa di Cristo in un crocifisso, è occupato dalla natività stessa, col bambino in una mangiatoia allusiva alla futura offerta del corpo di Gesù come alimento.

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Ma c'è di più. Questa stauroteca con scene della nascita di Cristo a sua volta ha una custodia cruciforme in argento dorato, pure questa conservata al Museo Sacro Vaticano, con scene della medesima mano illustranti la risurrezione] L'«esegesi» dell'oggetto - la lettura dei suoi messaggi - partiva cioè dal mistero della risurrezione di Cristo (all'esterno), per poi dischiudere il senso della sua nascita (all'interno) nel segno della croce salvifica, presente come forma allusiva ma anche come verità storica (la reliquia). Gli studi biblici moderni insegnano che l'evoluzione testuale dei Vangeli segue il medesimo ordine, con un nucleo originale che proclama la risurrezione di Cristo dalla morte, a cui sono state aggiunte poi informazioni sul suo ministero ed insegnamento, e in ultimo i racconti relativi alla nascita ed infanzia letti nel tempo di Natale.

L'immagine complessiva di Cristo che la croce di Pasquale I offre, è in ogni caso fedele ai Vangeli, creando intorno alla nascita dell'Unto di Dio potenti segni della sua futura missione, nonché del dono con cui egli la colmerà, lo Spirito effuso su ogni uomo. Notiamo infatti che ciascuna delle scene rappresentate anticipa questo dono: l'annunciazione, in cui lo Spirito Santo scese su Maria (Lc1,35); la visitazione, in cui «Elisabetta fu piena dello Spirito Santo» (Lc 1,41); la natività, che vide l'apparizione di una moltitudine dell'esercito celeste (Lc2,13); la visita dei magi, guidati da una stella fermatasi nel luogo in cui era nato il bambino (Mt 2,9); la presentazione al Tempio, quando Simeone, «mosso dallo Spirito», accolse il bambino e lodò Dio (Lc 2,27-28); la fuga in Egitto, quando un angelo ammonì Giuseppe a portare il bambino e la madre in salvo (Mt 2,13); e il battesimo, quando Giovanni vide lo Spirito di Dio scendere su Cristo in forma di colomba (Mt 3,16; cfr. Mc 1,9-11; Lc 3,21-22; Gv 1,32-43). Dentro la sagoma della croce, cioè, l'artista suggerisce lo stupore e la gioia destati dallo Spirito Santo — emozioni, queste, inscindibili dalla sofferenza adombrata nei medesimi eventi: nelle parole di Simeone nel Tempio, secondo cui Cristo sarebbe diventato un «segno di contraddizione» mentre a Maria «una spada» avrebbe trafitto l'anima (Lc 2,34-35); e nell'espatrio reso necessario dalla persecuzione di Erode, che stava «cercando il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13).

Questa splendida croce figurata rispecchia perfettamente il carattere del tempo di Natale, le cui letture introducono i grandi temi sviluppati nei mesi successivi mediante apposite celebrazioni. Queste sono infatti preannunciate il giorno dell'Epifania (quando Natale già volge al termine) con la precisazione che il «centro dell'anno liturgico è il Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto che culmina nella domenica di Pasqua», la cui data esatta viene anticipata. Tale solenne annunzio della Pasqua imprime a tutto il tempo di Natale un significato analogo a quello che abbiamo visto nella croce di Pasquale I, situando la nascita di Cristo all'ombra luminosa della sua passione, morte e risurrezione.

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Albero genealogico di Cristo,Matteo da Gualdo, 1479 circa. Gualdo Tadino, Museo Civico.

Natale del Signore, messa vespertina nella vigiliaIs 62,1-5; Sai 88[89]; At 13,16-17.22-25; Mt 1,1-25

GENEALOGIA DI GESÙ CRISTOFIGLIO DI DAVIDE

La prima delle quattro messe previste dal lezionario a Natale, quella «prefestiva» celebrata la sera del 24 dicembre, riassume alcuni temi introdotti nelle domeniche dell'Avvento, indicandone ora l'imminente adempimento. Già col canto d'ingresso il clima di attesa tipico delle precedenti settimane si muta in tripudio per il perfezionarsi delle speranze - «Oggi sapete che il Signore viene a salvarci; domani

vedrete la sua gloria» -, e la colletta ripropone il doppio orizzonte più volte accennato nell'Avvento, chiedendo a Dio di concedere che la gioia suscitata dalla venuta di Cristo come bambino ci prepari a guardarlo «senza timore quando verrà come giudice» alla fine dei tempi. La prima lettura fa confluire queste prospettive, abbinando al tema della gloria quello di una «ricompensa», nella promessa dell'Altissimo di non darsi pace finché non sorga come stella la giustizia di Gerusalemme e non risplenda come lampada la salvezza di Sion (Is 62,1).

Vengono citate le profezie sulla discendenza del Messia da un re insediatosi a Gerusalemme mille anni prima, Davide, così che la nascita di Cristo si rivela la realizzazione di un antico progetto del Dio fedele alle proprie promesse. Il salmo responsoriale ricorda i termini dell'originale impegno - «Ho stretto un'alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide mio servo: stabilirò per sempre la tua discendenza, ti darò un trono che duri nei secoli» (Sal 88,45) -, e la seconda lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, attualizza il giuramento fatto a Davide, affermando che «dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio trasse per Israele un salvatore, Gesù» (At 13,23); questo brano inoltre situa l'avvento del discendente di Davide nella più ampia storia del popolo eletto, rammentando sia la liberazione dall'Egitto nel lontano passato sia il vicino annuncio di Giovanni Battista di uno che sarebbe venuto dopo di lui. Il vangelo infine allarga ancora l'orizzonte, identificando Gesù, sì, come «figlio di Davide», ma questi poi come «figlio di Abramo» (Mt 1,1), così che tutte le promesse fatto da Dio al suo popolo - non solo quelle dinastiche rivolte a Davide ma anche le promesse universali fatte al patriarca Abramo - confluiscono nel bambino che deve nascere. In lui tutte le speranze di tutti i popoli verranno realizzate.

Nell'arte, l'immagine che normalmente comunica questo radicamento del Messia nella vicenda d'Israele è il cosiddetto «albero di Tesse»: una costruzione genealogica che visualizza il lento spiegamento del piano divino attraverso le molte

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generazioni intercorse tra il padre di Davide, Tesse, e Gesù. Ma qualche volta gli artisti (come anche il vangelo di Matteo in questa liturgia) spingono indietro l'origine umana del salvatore, dilatandone il senso. Nell'opera riprodotta, ad esempio, il pittore Matteo da Gualdo riporta la genealogia di Cristo addirittura al primo essere umano, Adamo, dal cui ventre nasce l'albero in cima al quale vediamo la madre di Gesù, Maria, sotto una figura di Dio Padre. L'immagine allude cioè a Cristo, contemporaneamente Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, con un padre divino e una madre la cui vita è frutto di tutta la storia del genere umano.

L'albero dipinto da Matteo da Gualdo attinge sia alla versione della genealogia di Cristo elaborata da san Matteo, nel brano evangelico proposto stasera, sia alla genealogia offerta in Luca 3,23-38. Lucano è il doppio riferimento ad Adamo e a Dio: Luca infatti va a ritroso da san Giuseppe, padre putativo di Gesù, fino a «Adamo, figlio di Dio»; matteana invece è l'articolazione degli antenati in tre registri, ognuno con sette tralci contenenti due persone: corrisponde all'affermazione che «la somma di tutte le generazioni, da Abramo a Davide, è così di quattordici; da Davide fino alla deportazione in Babilonia è ancora di quattordici; dalla deportazione in Babilonia a Cristo è, infine, di quattordici» (Mt 1,17). L'artista deve pure al suo patrono, san Matteo, l'enfasi mariana dell'albero da lui dipinto, perché mentre Luca non menziona la madre di Cristo, il testo matteano conclude con Giuseppe, il quale viene però identificato come «lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo» (Mt 1,16). Subito dopo la genealogia, poi, Matteo racconta «come avvenne la nascita di Gesù Cristo», partendo dalla madre: è lo stesso brano usato nella quarta domenica dell'Avvento che viene ripetuto ora nella vigilia, con la differenza che mentre durante l'Avvento la pericope terminava parlando di san Giuseppe che «destatosi dal sonno... prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24), ora viene aggiunta anche la frase successiva: «la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù» (Mt 1,25).

In cima alla pianta da cui fiorirà Cristo, dunque, l'artista colloca una donna, Maria, come figura non solo della storia d'Israele ma della storia umana tout court, enfatizzando pure la storia personale della madre di Cristo con l'inclusione - nei grandi tralci a destra e sinistra - dei suoi genitori, i santi Gioacchino ed Anna. Così è chiaro che il nato da Maria sarà nel contempo figlio di Adamo, figlio d'Israele e figlio di una autentica ed articolata famiglia umana.

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Natività,Geertgen tot Sint Jans, 1480 circa. Londra, National Gallery.

Natale del Signore, messa della notte Is 9,1-3.5-6; Sal 95 [96]; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

APPARSA LA GRAZIA DI DIO

Gesù Cristo, luce del mondo, è nato di notte. Ce lo dice san Luca nel brano evangelico di questa che è la più solenne delle messe natalizie, ricordando che ad «alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la

guardia al loro gregge» un angelo apparve per annunciare la nascita del salvatore, e all'istante «la gloria del Signore li avvolse di luce» (Lc 2,8-9). Questo infatti è il tema visivo sia delle letture che delle orazioni della messa della notte: la luce che risplende nel buio. La colletta invoca: «Dio, che hai illuminato questa santa notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo...», e il magnifico brano isaiano apre con le parole: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce» (Is 9,1). Il vangelo, come già detto, ci mostra i pastori avvolti dalla luce celeste, e il prefazio traduce l'immagine fisica della luce in termini di conoscenza spirituale, lodando Dio perché «nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore» - frase, questa, che chiosa la più ellittica affermazione della seconda lettura, secondo cui «è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tt 2,11). La luce quindi come grazia, la luce come conoscenza, la luce come bambino nato in una stalla: Gesù Cristo.

L'immagine a fronte s'ispira a simili figure letterarie. È una deliziosa tavola del maestro olandese Geertgen tot Sint Jans, databile agli anni 1480, in cui cogliamo l'intimismo e la tenerezza della «moderna devozione» dell'epoca. L'artista ha immaginato una scena notturna la cui fonte luminosa principale è lo stesso bambino Gesù nella mangiatoia in primo piano! Emana luce, e dall'intensa sua luce attingono poi, in quasi uguale misura, la madre adorante e un manipolo di angeli, mentre il bue e l'asino, anche se vicini (come san Giuseppe che invece rimane discretamente a distanza), vengono appena sfiorati dai raggi. In alto,' direttamente sopra il bambino ma nella lontananza, vediamo un altro angelo splendente nell'atto di dare l'annuncio ai pastori, e pure questi insieme ai loro greggi vengono toccati da un bagliore celeste, il cui misterioso fulgore supera quello del fuoco visibile in alto a sinistra, acceso contro il freddo dicembrino.

Questo piccolo dipinto, come le letture della messa della notte, riassume e completa il dramma dell'attesa delle settimane prima di Natale. L'invito paolino dell'inizio di Avvento a svegliarci «perché la notte è avanzata, il giorno è vicino»

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(Rm 13,12), nonché l'ammonimento matteano di stare «pronti, perché nell'ora che non immaginate» il Figlio dell'uomo verrà come un ladro nella notte (Mt 24,43-44) vi echeggiano chiaramente, come anche - nell'umiltà della stalla e nell'annuncio ai pastori - le promesse che ai poveri sarà predicata la buona novella (Mt 11,5) e il deserto e la steppa «vedranno la gloria del Signore» (Is 35,1-2). È adempiuta qui la profezia ricordata da san Matteo: «Una vergine concepirà e partorirà un figlio» (Mt 1,23; Is 7,14), e qui si realizza la buona notizia annunciata da Paolo riguardo al Figlio di Dio «nato dalla stirpe di Davide secondo la carne» (Rm 1,3).

Altri temi dell'Avvento riappaiono nelle letture di questa messa. Alla nascita del bambino come luce nella notte viene ancora associata l'idea della giustizia divina che rettifica le tante ingiustizie della storia. I campi e gli alberi sono invitati ad esultare «davanti al Signore che viene, che viene a giudicare la terra» (Sal 95,12-13), il cui giudizio a favore del suo popolo infatti spezza «il giogo di chi l'opprimeva, la sbarra sulle sue spalle e il bastone dell'aguzzino» (Is 9,3-4). Questa notte è segnata da una sorta dì santa violenza, e la gioia di «coloro che abitavano in terra tenebrosa», ma su cui ora una luce rifulge, viene paragonata all'esultanza dei vincitori in battaglia, al feroce tripudio di «quando si divide la preda» (Is 9,2). Infatti questo neonato «viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia» il regno di Davide: uno straordinario progetto di potere esprimente «lo zelo del Signore» (Is 9,6), ma che ha inizio con un bambino!

La stessa paradossale giustapposizione di potere e debolezza, grandezza e piccolezza segna l'inizio del vangelo, dove in poche righe san Luca passa da riferimenti all'imperatore Cesare Augusto, attraverso la figura di san Giuseppe (pure lui di stirpe reale - «della casa e della famiglia di Davide», Lc 2,4), a una giovane donna che, compiuti «i giorni del parto, diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2,6-7). Invertendo così la gerarchia dei valori umani, questa nascita in una stalla piuttosto che in un palazzo «insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,12-13). E infatti l'annuncio e la manifestazione della gloria divina sono accordati non all'imperatore ma ad «alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge» (Lc 2,8): ai poveri cioè e agli umili, gli unici in grado di accogliere il dono del Natale, Cristo che è luce, gioia e pace.

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Adorazione dei pastori, particolare, Giorgione, 1505 circa. Washington, National Gallery of Art,Kress Collection.

Natale del Signore, messa dell'aurora Is 62,11-12; Sal 96 [97]; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

TROVARONO MARIA E GIUSEPPEE IL BAMBINO

La più intima delle messe di Natale è questa, celebrata alle prime luci del giorno. La lettura veterotestamentaria conserva, è vero, gli accenti

socio-morali dell'Avvento, descrivendo l'arrivo di un salvatore nel contempo giudice e vendicatore - «Ecco, ha con sé la sua mercede, la sua ricompensa è davanti a lui» (Is 62,11) -, e nello stesso spirito il salmo dice del giorno appena incominciato: «Una luce s'è levata per il giusto, gioia per i retti di cuore» (Sal 96,11). Ma la bellissima seconda lettura, tratta ancora dalla Lettera paolina a Tito, ammorbidisce questo linguaggio, caratterizzando il Natale come la manifestazione della «bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini» (Tt 3,4); questa frase è particolarmente eloquente nel latino della Vulgata, dove al posto di «bontà» e «amore per gli uomini» si legge «benignitas et humanitas salvatoris nostri Dei». Così formulato, l'asserto diventa quello di una «umanità di Dio» resa visibile a Natale: concetto paradossale e al contempo fondamentale della nostra fede.

Il clima d'intimità di questa messa è frutto soprattutto della lettura evangelica, che continua il brano lucano proclamato nella messa della notte. Apre con la decisione presa dai pastori dopo che gli angeli si furono allontanati - «Andiamo a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» -, e racconta come essi «andarono dunque senz'indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia» (Lc 2,15-16). L'opera riprodotta a fronte visualizza la scena: è una Adorazione dei pastori eseguita per un collezionista intorno al 1505 - un'immagine per la meditazione personale. Attribuita al maestro veneziano Giorgione (Giorgio da Castelfranco), l'incantevole tavola ambienta l'evento nella prima luce del giorno, davanti ad una grotta situata su un lieve rialzo nel terreno, d'a cui si vede la pianura con case e torri e, nella lontananza, le montagne da cui sono arrivati i pastori. Questi poi sono appena due di numero, e così la loro decisione di affrontare «senz'indugio» il lungo viaggio ha il carattere di un pellegrinaggio personale; giunti alla meta, s'inginocchiano in atteggiamenti di preghiera simili a quelli di Maria e Giuseppe davanti al bambino che giace, non in una mangiatoia ma per terra, su un panno sovrapposto al lembo del manto della madre.

In quest'opera, come in altri dipinti veneziani dell'epoca, paesaggio e figure insieme esprimono un'armonia quasi musicale. L'interiorità meditativa dei personaggi

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che, silenziosi, contemplano il neonato Gesù viene sottolineata dalla loro sistemazione intorno al bambino in un cerchio davanti all'arco semicircolare della grotta: il cerchio è una forma chiusa che torna su se stessa. Qui Giorgio-ne equilibra l'arco della grotta, sul piano, con il gruppo di persone sistemato in profondità, per dare precise coordinate di una lettura formale - piano e profondità - che egli poi sviluppa nel paesaggio, giustapponendo elementi naturali che conducono l'occhio verso le montagne, con altri, architettonici, che ristabiliscono il piano pittorico.

Il risultato è un'immagine che, nonostante le piccole dimensioni, s'impone con forza grazie all'armonica sinergia tra cosmo ed evento storico. Mentre spesso nell'arte rinascimentale il paesaggio ha una vita propria, a cui l'uomo può sentirsi unito pur rimanendo distinto da esso, qui scompare ogni separazione: l'armonia della natura sembra infatti dipendere dal gruppo umano, che a sua volta ha raccolto ed interiorizzato l'ordine dell'universo in una profonda comunione raddolcita dalla luce mattutina. La semplificazione delle forme corporee, l'unificazione tonale dei colori primari e l'intensa ma serena interiorità dei personaggi comunicano mirabilmente la pace che - insieme alla luce - entra nel mondo con Cristo.

Di particolare interesse è la figura di Maria posta al centro dell'ingresso alla grotta, che adora il bambino nato sulla terra. In un senso poetico, la maternità di Maria è associata alla terra, e sant'Agostino non esitava ad affiancare al cruciale passo del Nuovo Testamento in cui viene affermato che «il Verbo si fece carne» (Gv 1,14), un versetto tratto dall'Antico: «La verità germoglierà dalla terra, e la giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 84,12), per poi affermare: «La verità è germogliata dalla terra, perché il Verbo si fece carne..., la verità è germogliata dalla terra: la carne di Maria» (Discorso 185, PL 38, 997-999).

In Maria, «terra vergine» da cui Cristo prende la nostra natura umana, la Natura stessa viene riportata alla sua condizione originale - un po' come nell'idilliaco paesaggio di Giorgione. Lodando Maria, sant'Anselmo dirà che «cielo, stelle, terra, fiumi, giorno, notte e tutte le creature Li si rallegrano, o Signora, di essere stati per mezzo tuo in certo modo risuscitati allo splendore che avevano perduto [...]. Hanno esultato [le creature] come di una nuova ed inesprimibile grazia, sentendo che Dio stesso, lo stesso loro Creatore, non solo invisibilmente le regge dall'alto, ma anche, presente visibilmente tra loro, le santifica servendosi di esse. Questi beni così grandi sono venuti dal frutto benedetto del grembo benedetto di Maria benedetta» (Discorso 52, PL 158, 955-956).

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Madonna con bambino e san Giovannino (Tondo Pini), Michelangelo, 1505. Firenze,Museo Nazionale del Bargello.

Natale del Signore, messa del giornoIs 52,7-10; Sal 97 [98]; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

E IL VERBO SI FECE CARNE

Dopo le liturgie dell'Avvento, vissute nell'attesa, e dopo le precedenti messe natalizie celebrate con sensi di adempimento,

gioioso stupore e crescente tripudio, questa messa del giorno rappresenta un punto d'arrivo singolare. Dopo settimane di splendide letture cariche di magnifiche promesse, i testi ora affermano che «Dio che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Dopo tante parole, alla fine «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi e noi vedemmo la sua gloria» (Gv 1,14), così che ormai coloro che parlano lo fanno solo per annunciare la sua presenza. Le «sentinelle alzano la voce, insieme gridano di gioia, poiché vedono con i loro occhi il ritorno del Signore in Sion» (Is 52,8), un ritorno trionfale a beneficio non solo del popolo eletto ma dell'intero genere umano: «Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutti i popoli; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio» (Is 52,10).

Tale dimensione universale è suggerita dalla forma «cosmica» dell'opera qui illustrata, un tondo marmoreo scolpito da Michelangelo nel primo lustro del Cinquecento. Rappresenta Maria, seduta su un blocco di marmo mentre mostra un libro aperto al bambino Gesù, il quale vi appoggia il braccio destro. Alle spalle di Maria, un altro bambino guarda verso Cristo: è san Giovannino Battista, sovente raffigurato nell'arte di Firenze in quanto patrono cittadino; le relative posizioni di san Giovannino e del piccolo Cristo riflettono la testimonianza del Battista ricordata dal brano evangelico: «Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me» (Gv 1,15). Ma è soprattutto il braccio di Gesù poggiante sul libro a collegare questo rilievo alle letture della messa del giorno, comunicando con efficacia l'idea di un'anticl cultura letteraria ora «incarnata» nel Verbo fattosi bambino. Ecco la «conquista» annunciata nei brani veterotestamentari: «Il Signore ha snudato il suo santo braccio» (Is 52,10), «gli ha dato vittoria la sua destra, il suo braccio santo» (Sal 97,1), quando alla parola si è sovrapposta la carne umana.

Ha particolare interesse il blocco su cui siede Maria. Perfettamente squadrato e levigato, allude a una delle promesse messianiche riportate da Isaia: «Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso»

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(Is 28,16). Il Nuovo Testamento, ricordando questa pietra simboleggiante Cristo, ricorda anche che essa fu «rigettata dai costruttori» (1Pt 2,4): un rifiuto esplicitato dal vangelo di questa messa, che informa che l'umanato Verbo «venne fra la sua gente ma i suoi non l'hanno accolto» (Gv 1,11). L'allineamento del blocco con la sovrastante figura di san Giovannino, futuro profeta della morte sacrificale di Cristo, suggerisce la misura in cui «i suoi non l'hanno accolto».

Questo blocco ha anche un significato positivo. Rappresenta Cristo, dicevamo, e la prima Lettera di san Pietro assicura i cristiani che «stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (lPt 2,4-5). Con la nascita del salvatore, cioè, Dio risarcisce i suoi fedeli per la distruzione dell'antico tempio e della città santa, inserendoli nel nuovo tempio che ha Cristo per fondamento; ecco il senso dell'esortazione di Isaia nella prima lettura: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (Is 52,9). In verità, Dio ha fatto più che «consolare»: ha mandato un Figlio che «a quanti l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,12-13).

«A quanti l'hanno accolto». La prima persona ad accogliere il Verbo - a stringersi a lui, pietra d'angolo - è infatti Maria, figura privilegiata dell' «edificio spirituale» le cui pietre vive sono coloro che credono nel nome di Cristo. Ecco perché Michelangelo la rappresenta assorta, meditabonda, con in testa un serto adorno d'un cherubino: Maria qui «sta» per la Chiesa - o, meglio, per l'umanità intera chiamata in Cristo alla figliolanza divina. Medita perché riassume in sé la ricerca spirituale di tutti gli uomini di tutti i tempi, di senso, di verità e di bellezza. Stava cercando nel suo libro aperto, ma, al posto delle parole, Dio le ha dato il suo Verbo come Figlio. Se il volto della giovane donna non è poi solo pensoso ma sottilmente velato di tristezza, è perché con la carne viene la mortalità, e Maria - seduta sulla pietra destinata ad essere rigettata, e appena davanti a Giovanni Battista — intuisce che un giorno suo Figlio morirà. Lo aveva profetato Simeone, promettendole una spada nell'anima (Lc 2,35).

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Fuga in Egitto,Giotto,1303-1305. Padova, cappella degli Scrovegni.

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

Sir 3,2-6.12-14; Sal 127 [128]; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23

GIUSEPPE, DESTATOSI, PRESE CON SÉIL BAMBINO E SUA MADRE

Questa festa celebrata nella domenica fra l'ottava di Natale (o il 30 dicembre) si sofferma sull'immagine evocata nella messa natalizia dell'aurora: la scena contemplata dai pastori che - arrivando al luogo indicato dall'angelo -, «trovarono Maria e Giuseppe e il bambino». Sposta l'orologio in avanti, guardando la santa famiglia qualche tempo dopo la nascita di Gesù, e illumina il contesto familiare che Dio ha voluto per l'incarnazione del suo Verbo con letture ebraiche e cristiane che situano le relazioni fra persone imparentate tra loro nella prospettiva del rapporto del singolo con Dio. «Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera», ricorda la prima lettura, aggiungendo che «chi obbedisce al Signore dà consolazione alla madre» (Sir 3,5-6). La lettura paolina ammonisce tutti i componenti della famiglia a sopportarsi e perdonarsi a vicenda «come il Signore vi ha perdonati» (Col 3,13), ricordando che l'unità familiare costituisce un unico corpo chiamato ad avere la pace di Cristo nel proprio cuore. Ma il testo allude anche ai tipici attriti tra membri di una famiglia, offrendo preziosi consigli: «Voi mogli, state sottomesse ai mariti, come si conviene nel Signore. Voi mariti, amate le vostri mogli e non inaspritevi con esse. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. Voi padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino» (Col 3,18-21).

Il vangelo invece, raccontando la fuga della santa famiglia in Egitto, mette in evidenza la realtà di possibili minacce esterne alla vita e coesione della famiglia. Sentiamo del re Erode che, interpellato dai magi per indicare loro il luogo dove era nato il Messia, rimase turbato, temendo per la stabilità del proprio trono (Mt 2,1-8). Così, dopo la partenza dei magi, in sogno un angelo avvertì il padre putativo di Gesù, san Giuseppe, che Erode stava «cercando il bambino per ucciderlo», e «Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto» (Mt 2,13-14). È quanto vediamo normalmente nell'arte, che ha sempre prediletto questo tema carico di pathos: san Giuseppe che conduce la sua giovane famiglia in esilio; abbiamo già accennato alla presenza del soggetto tra le scene natalizie della croce di Pasquale I (cfr. p. 44).

L'interesse umano della fuga notturna del bambino perseguitato in braccio alla madre ha poi suggerito dettagli fantastici, che non di rado colorano

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l'interpretazione data dagli artisti all'evento. La qui riprodotta Fuga in Egitto di Giotto nella cappella Scrovegni, a Padova, ad esempio, attinge ad un testo apocrifo in circolazione sin dal IV secolo, il cosiddetto vangelo dello pseudo-Matteo, dove viene specificato che l'angelo apparso a Giuseppe in sogno non solo comandò di portare Gesù e Maria in Egitto, ma indicò anche l'itinerario: «la via del deserto». Giotto, infatti, enfatizza la drammaticità dell'evento ambientandolo in un paesaggio ostile, quasi privo di vegetazione. In compenso, però, la sua santa famiglia non è sola: l'angelo rimane come guida in via, e sia Giuseppe che la Madonna hanno i compagni menzionati dallo pseudo-Matteo. Il testo apocrifo dice che «con Giuseppe c'erano tre ragazzi e con Maria una ragazza che faceva la stessa strada»; Giotto li ha un po' ridistribuiti, spostando due dei ragazzi compagni di Giuseppe dietro l'asino, dove sembrano stare volentieri, tanto sono attenti alla ragazza che accompagna Maria, mentre il bambino Gesù li osserva affascinato!

Come la maggior parte degli artisti, Giotto ha evitato d'illustrare gli elementi rocamboleschi del racconto dello pseudo-Matteo quali i leoni e i leopardi che, agitando la coda in segno di gioia, avrebbero mostrato la strada al bambino Gesù, o i «molti draghi» che, usciti improvvisamente da una grotta per sbarrare la strada, avrebbero poi adorato il piccolo salvatore. Ma l'artista investe la figura di Maria, al centro della composizione, di un'importanza che fa pensare che abbia intuito la fonte delle fantasie dello pseudo-Matteo, il libro dell'Apocalisse, dove si parla di una donna incinta minacciata da «un enorme drago rosso [che...] si pose davanti alla donna che stava per partorire, per divorare il bambino appena nato» (Ap 12,1-4). Anche nell'Apocalisse, sia bambino che madre vengono messi in salvo: lui «rapito verso Dio e verso il suo trono», mentre la donna, figura della Chiesa, «fuggì nel deserto dove Dio le aveva preparato un rifugio» (Ap 12,5-6). La nobile gravitas di Maria nell'affresco di Giotto sembra alludere a queste cose e - come l'inclusione della Fuga in Egitto tra le scene della stauroteca di Pasquale I - sottolinea il rapporto del tema con l'ostilità del mondo verso Cristo e quindi con la croce.

In un'era come la nostra, in cui famiglie di molti paesi sono costrette ad affrontare la fuga e l'esilio, nutrendo normalmente la speranza di Maria e Giuseppe di tornare in patria ed educare i loro figli nelle proprie tradizioni, la pagina matteana proclamata in questa messa è particolarmente attuale. Ammirevole soprattutto è la figura di san Giuseppe, chiamato continuamente ad «alzarsi» e «destarsi» per proteggere Gesù e Maria.

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Circoncisione di Cristo, particolare, Giovanni Bellini, 1500 circa. Londra, National Gallery.

Maria Santissima Madre di DioNm 6,22-27; Sal 66 [67]; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21

DIO MANDÒ IL SUO FIGLIO,NATO DA DONNA

La liturgia dell'ottava di Natale - ricorrenza che cade il primo di gennaio in coincidenza con l'inizio dell'anno civile - amplifica alcuni temi natalizi anche in rapporto al clima augurale della giornata. La prima lettura riporta la formula di benedizione pronunciata dai sacerdoti d'Israele sul popolo, in cui viene auspicato che «il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio... rivolga su di te il suo volto e ti conceda la pace» - cose, queste, effettivamente avvenute con la nascita di Cristo, irradiazione della gloria del Padre (cfr. Eb 1,3), colui che cioè rivela il Dio che «nessuno ha mai visto» (Gv 1,18). Come sempre, l'ottava rappresenta la pienezza di una riflessione sul senso dell'evento festeggiato, e con l'augurio che l'Altissimo ci sia «propizio» comprendiamo, in effetti, che con la natività di Gesù «si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini» (Tt 3,4); quanto all'augurio di pace, ricordiamo che il bambino nato una settimana fa è anche «principe della pace» (Is 9,5).

Il punto di fuoco specifico dell'odierna celebrazione ha subito una lieve alterazione nella riforma liturgica del Concilio Vaticano II, spostandosi dalla circoncisione del neonato - avvenuta «quando furono passati gli otto giorni prescritti» (Lc 2,21) -, alla madre, Maria, contemplata oggi appunto nel mistero della sua maternità. Del resto la lettura evangelica della messa ammette l'una e l'altra enfasi, aprendo con i pastori che riferiscono ciò che era stato detto del bambino mentre «Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19), e chiudendo con il racconto della circoncisione.Il dipinto qui riprodotto, un'opera del veneziano Giovanni Bellini o della sua bottega, databile intorno al 1500, suggerisce il legame tra i due temi. Rappresenta sì la circoncisione, ma a tenere il bambino durante il rito è la madre, Maria, che - con gli occhi abbassati e lo sguardo assorto - sembra proprio «meditare» le cose che ha già compreso del Figlio che Dio le ha dato. In quest'occasione al bambino viene assegnato il nome Gesù, che significa «salvatore», e - come suggerisce il vangelo - deve essere stata Maria a volere che fosse chiamato in quel modo, secondo quanto indicato dall'angelo: «gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall'angelo

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prima d'essere concepito nel grembo della madre» (Lc 2,21). Così il dipinto mostra la madre, che - mentre medita le cose raccontate del Figlio - lo espone al coltello e gli dà il nome «salvatore»; sarà infatti mediante lo spargimento del sangue che, anni dopo, Cristo ci salverà offrendosi in sacrificio a Dio. Qui notiamo la docilità del bambino col suo visino innalzato, come se rivolgesse al Padre le parole attribuitegli quando entrava nel mondo: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... ecco io vengo... per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,5-7; cfr. Sal 40,7-9).

Il duplice significato dell'odierna celebrazione - comprendente sia la maternità di Maria che la circoncisione di suo Figlio - è contenuto in una frase usata da san Paolo nel brano della Lettera ai Galati che serve da seconda lettura. L'apostolo afferma che «quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli» (Gal 4,4-5). Si tratta del primo cenno biografico a Gesù nelle Scritture cristiane, da datare verso l'anno 57; lapidaria, la frase omette sia il nome della «donna», sia ogni riferimento al futuro turbolento rapporto di Gesù con gli interpreti della «legge» del suo popolo: i sacerdoti, gli scribi e i farisei; enfatizza invece la missione affidatagli dal Padre divino, di «riscattare coloro che erano sotto la legge» ed elevarli alla propria condizione filiale mediante «l'adozione». In pratica, la prima menzione biografica del salvatore si riduce ad appena due fatti propriamente storici: Cristo è «nato da donna, nato sotto la legge».

E bastano. Nascendo da Maria, Cristo diventa vero uomo; nascendo sotto la legge, diventa un uomo che appartiene alla storia, è inserito in un contesto, eredita le tradizioni della sua gente. Dio che è la libertà stessa, diventando uomo si vincola, cioè, accettando i limiti della natura umana e della legge del popolo eletto, per poi, mediante un'obbedienza crocifiggente (all'umanità avuta dalla madre come alla legge che chiedeva sangue), superare i limiti, dare a noi la sua libertà, regnare e risorgere dalla croce. Egli che è Figlio di Dio, diventando figlio di Maria (con tutto ciò che tale condizione comportava, inclusa l'obbedienza alla legge) ha potuto riscattare coloro con cui si è fatto solidale, permettendo ai fratelli adottivi di diventare a loro volta figli dell'unico Padre. Alla nascita di Cristo nella carne è legata infatti la nostra nascita nello Spirito, e come abbiamo ormai Dio per Padre, così con Cristo abbiamo Maria per madre: Maria che «serba» e «medita» le cose di tutti i suoi figli, noi inclusi.

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Maestà, Cimabue,1280 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Seconda domenica dopo Natale

Sir 24,1-4.8-12; Sal 146 [147]; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18

IN PRINCIPIO ERA IL VERBO

Laddove alla seconda domenica dopo Natale non viene spostata l'Epifania, le letture previste invitano a meditare nuovamente il mistero dell'incarnazione, ora dal punto di vista di Dio. Come vangelo viene riproposto il prologo giovanneo già ascoltato nella messa natalizia del giorno, ma oggi il canto d'ingresso suggerisce una diversa chiave di lettura: «Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa», recita, «mentre la notte giungeva a metà del suo corso, il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale». Nel contesto scritturistico originale

di questo passo, il diciottesimo capitolo del libro della Sapienza, il «Verbo» in questione era l'ordine per il quale morirono i primogeniti d'Egitto: il testo che descrive il Verbo (o la Parola) infatti continua: «guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile» (Sap 18,15). Nello spirito delle letture che promettono vendetta contro i nemici d'Israele, cioè, questa messa invita a vedere Cristo come liberatore, e la venuta del divino Verbo in cui «era la vita» (Gv 1,4) come giudizio mortale sul peccato.

La prima lettura fornisce alcune delle fonti del prologo giovanneo, identificando questo terribile Verbo, precipitatosi contro i peccati, con la Sapienza divina. «Io sono uscita dalla bocca dell'Altissimo e ho ricoperto come nube la terra», dice la Sapienza, precisando di essere stata creata da Dio «prima dei secoli, fin dal principio» (Sir 24,3.9). San Giovanni chiarirà subito che «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1) - non una sapienza creata cioè, ma Dio. L'importanza di questi fatti per noi viene chiarita dalla seconda lettura, da cui apprendiamo che nel Verbo che è con lui sin dal principio - e che è Dio -, il Padre «ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo secondo il beneplacito della sua volontà» (Ef 1,4-6).

Un'immagine evocativa di questi temi è la Maestà di Cimabue. L'opera colossale - alta più di tre metri e mezzo - fu dipinta intorno al 1280 per una chiesa dedicata alla Vergine, Santa Maria Novella a Firenze, e non come mero oggetto di devozione mariana: in quella chiesa dell'Ordine domenicano, l'opera aveva piuttosto un carattere sapienziale vicino al senso delle letture di questa messa. Rappresenta Maria che, seduta su un alto trono, diventa essa stessa «sedia» per colui che è la

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Sapienza incarnata di Dio, Cristo: la tipologia pittorica è infatti quella della cosiddetta Sedes sapientiae. Cristo a sua volta è presentato come il Verbo di Dio: ha un rotolo nella manina sinistra, che corrisponde ai rotoli in mano ai quattro personaggi veterotestamentari sotto la piattaforma del trono. Dico «corrisponde», ma in verità gli scritti tenuti dai vegliardi sono aperti, mentre il rotolo tra le dita del bambino è chiuso, perché «Dio che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Il bambino stesso è il nuovo «libro»: Verbo incarnato del Padre, riassume e completa tutti gli altri scritti.

Questi personaggi rappresentanti l'antico popolo eletto sono tuttavia presenti perché - come ricorda la prima lettura - alla Sapienza, uscita dalla sua bocca, Dio diede un ordine: «Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele» (Sir 24,8). La stessa Sapienza ci assicura poi della sua obbedienza all'ordine: «Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore, sua eredità» (Sir 24,12), e ciò spiega il posizionamento del bambino davanti al grembo della madre. In Maria, «vergine figlia di Sion» (figura cioè del suo popolo), il Figlio di Dio ha «posto le radici». Laddove la Sapienza veterotestamentaria dice: «Mi sono stabilita in Sion, nella amata città mi ha fatto abitare» (Sir 24,10-11), i cristiani pensano a Cristo nel grembo di Maria; è a lei che la liturgia delle ore associa le parole del salmo 45: «Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio, la santa dimora dell'Altissimo. Dio sta in essa, non potrà vacillare; la soccorrerà Dio prima del mattino».

In mezzo agli angeli, intelligenze celesti, Maria indica l'incarnata Sapienza, Cristo suo Figlio, con la mano destra - gesto, questo, che la caratterizza come Odigitria, «Colei che indica la Via». Se questa Maria ci parlasse, sarebbe forse con le parole conclusive della seconda lettura: «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi» (Ef 1,17-18). La speranza, il tesoro, l'eredità sono poi esplicitati nei prefazi del tempo di Natale, tutti elaborati in base al vangelo natalizio per eccellenza, il prologo giovanneo. Il terzo prefazio, ad esempio, ringrazia Dio perché in Cristo «oggi risplende in piena luce il misterioso scambio che ci ha redenti: la nostra debolezza è assunta dal Verbo, l'uomo mortale è innalzato a dignità perenne e noi, uniti a te in comunione mirabile, condividiamo la tua vita immortale». Sono questi infatti i regali che il Padre ci fa in Cristo a Natale.

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Adorazione dei magi, Beato Angelico, M40 circa. Firenze, convento di San Marco.

Epifania del SignoreIs 60,1-6; Sal 71 [72]; Ef 3,2-3.5-6; Mt 2,1-12

ABBIAMO VISTO SORGERE LA SUA STELLA,E SIAMO VENUTI PER ADORARLO

Pienezza del Natale è questa solennità della «Manifestazione» ossia Epifania del salvatore, la cui prima tappa consiste nella rivelazione ad alcuni sapienti orientali del bambino insieme a Maria sua madre: è l'episodio narrato dal vangelo della messa, il cui senso teologico viene suggerito dalle altre letture. I sapienti o magi non sono ebrei, e la manifestazione del Messia a loro conferma che Cristo è venuto per tutti gli uomini: un'universalità profetizzata da Isaia quando, parlando a Gerusalemme, disse: «Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere» (Is 60,3); la stessa idea viene ribadita dal salmo con l'affermazione che al Messia ebraico «tutti i re si prostreranno, lo serviranno tutte le nazioni» (Sal 71,11). La lettura paolina della messa caratterizza poi tale allargamento del piano di salvezza come «il mistero della grazia di Dio», spiegando che «i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo» (Ef 3,2.6). In una parola: Cristo è nato per tutti.

È nato per tutti ed è morto per tutti. Ecco il significato dell'Adorazione dei magi eseguita in una delle celle del convento di San Marco a Firenze, su disegno del Beato Angelico. L'affresco rappresenta l'arrivo dei magi (raffigurati con abiti regali e con corone in testa) davanti al bambino e a Maria, presente anche san Giuseppe, che apre uno degli scrigni menzionati nel vangelo; i magi o «re» infatti «offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Mt 2,11), e Giuseppe sembra voler verificare l'effettivo valore dei doni. Al seguito dei sapienti poi vi è una numerosa scorta con acconciature e copricapi esotici; e nel bel mezzo della scena, in una nicchia nel muro su cui l'Adorazione è stata affrescata, l'Angelico ha messo una mezza figura del Cristo adulto morto ma ritto nel sepolcro, con - nella strombatura della nicchia a destra e a sinistra - la colonna della flagellazione e la verga per la spugna inzuppata d'aceto.

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Il significato di questa seconda immagine - l'Uomo dei dolori che invade la scena dell'arrivo dei magi - va cercato nel senso simbolico dei doni recati in quell'occasione, che la tradizione considera segni della divinità, regalità e mortalità del bambino. Parlando dei magi san Pietro Crisologo dice: «Con l'incenso lo riconoscono Dio, con l'oro lo accolgono quale re, con la mirra esprimono la fede in colui che sarebbe dovuto morire», essendo questa un unguento usato per l'imbalsamazione (Discorso 160, PL 52,620-622). Ciò che viene rivelato a questi sapienti, cioè, non è solo la tenera meraviglia del Dio che s'incarna in un bambino, ma anche - almeno implicitamente - il duro mistero della passione, quando, innalzato sulla croce, l'uomo Gesù Cristo attirerà tutti a sé.

Tale estensione ai Gentili della conoscenza del misterioso piano di salvezza costituisce una forma di illuminazione spirituale, e il tema della luce, presente nelle letture dell'Avvento e in quelle natalizie, oggi s'impone con particolare forza. Nel vangelo, ad esempio - parlando del neonato re dei Giudei -, i magi spiegano a Erode: «Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti per adorarlo» (Mt 2,2). La «stella» vista da questi stranieri è poi un riflesso dell'intensa illuminazione che, secondo Isaia, Israele doveva ricevere per primo allo scopo di condividerla con altri: «Viene la tua luce», dice il profeta, «la gloria del Signore brilla sopra dite. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni: ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere» (Is 60, 1-3).

L'illuminazione preparata da Israele e rivelata in Gesù Cristo non è però solo un fatto intellettuale. Coinvolge anche la giustizia nei concreti rapporti tra persone - altro tema enfatizzato nell'Avvento e a Natale - nonché il più bel frutto della giustizia, la pace. Così il salmo responsoriale, prima di affermare che tutti i re e tutte le nazioni serviranno il Messia ebraico, spiega perché lo faranno: «Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace», dice, «Egli libererà il povero che grida e il misero che non trova aiuto; avrà pietà del debole e del povero e salverà la vita dei suoi miseri. Li riscatterà dalla violenza e dal sopruso, sarà prezioso ai suoi occhi il loro sangue» (Sal 71,7.12-14). Nell'affresco dell'Angelico sentiamo in ogni caso che la «grandissima gioia» attribuita dal vangelo ai sapienti pagani, quando videro la stella fermarsi sopra il luogo dove si trovava il bambino (Mt 2,9-10), deriva dall'intuizione di una salvezza veramente universale perché legata all'uomo, all'umanità comune che affratella gli uomini, all'inalienabile dignità di ogni essere umano. Il corpo martoriato nella nicchia fa capire poi fino a che punto il Messia d'Israele ha avuto pietà dei poveri del mondo intero, in che modo ha salvato i miseri di ogni popolo, che prezzo ha pagato per riscattare tutto il genere umano.

Il corpo nella nicchia ci può anche ricordare il solenne annunzio, dopo la proclamazione del vangelo di questa messa, del vero «centro di tutto l'anno liturgico... il triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto», con le date della Pasqua e delle feste che da essa scaturiscono.

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Battesimo di Cristo,Piero della Francesca, 1450 circa. Londra, National Gallery.

Domenica dopo l'Epifania, Battesimo del Signore

Is 42,1-4.6-7; Sal 28 [29]; At 10,34-38; Mt 3,13-17

QUESTI E IL FIGLIO MIO PREDILETTO,NEL QUALE MI SONO COMPIACIUTO

Il momento culminante della Manifestazione o Epifania del salvatore è quello di cui oggi si fa memoria, il battesimo del Cristoadulto per mano di san Giovanni nel fiume Giordano. Questa festa è anche l'ultima del tempo di Natale, come suggeriva già nel IX secolo la magnifica stauroteca di papa Pasquale I, collocandone la raffigurazione al piede della croce (cfr. p. 44). Ed è appunto verso la futura croce, che Gesù chiama un «altro battesimo», che questo evento conclusivo della prima fase della vita del salvatore orienta il nostro sguardo. Nello scambio narrato nel vangelo - quando Cristo voleva farsi battezzare da Giovanni ma questi cercò d'impedirglielo, obiettando che semmai era lui che doveva essere battezzato da Cristo -, la risposta di Gesù già prospetta il misterioso svuotamento - kenosis - che la croce renderà esplicito: «Lascia fare per ora», dice il Signore, «poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia» (Mt 3,13-15).

Che oggi si tratti di una «manifestazione» - e precisamente di una manifestazione della giustizia divina nei confronti dei poveri - è chiaro sin dall'inizio della liturgia della parola. «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio», dice Dio (Is 42,1), e questa frase d'apertura della prima lettura prepara l'analoga frase a chiusura del vangelo: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17). Nel passaggio concettuale da «servo» a «figlio» è tutta la distanza tra l'Antico e il Nuovo Testamento, se vogliamo, ma il vero punto è un altro: con il battesimo, Cristo, Figlio unigenito del Padre, si è fatto servo e anche servo sofferente, perché noi che siamo nati servi possiamo diventare figli. Le parole

Page 31: donorazio.b-cdn.net€¦ · Web viewTale risposta, nel contempo più e meno di un semplice sì, invita a riconoscere in Cristo il Dio che, venendo all'umanità, porta con sé «vendetta»

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di Dio riguardo al servo - «Ho posto il mio spirito su di lui» (Is 42,1) -, come quelle rivoltegli direttamente: «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia» (Is 42,6), valgono soprattutto per il Figlio Cristo, in cui l'Altissimo manifesta finalmente il suo piano di salvezza: l'uomo per la cui opera Dio intende far «uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,7). Come conferma la seconda lettura, quest'uomo è Gesù di Nazareth, il quale, «dopo il battesimo predicato da Giovanni..., passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,37-38).

Il dipinto di Piero della Francesca suggerisce questi temi. Un capolavoro del primo Rinascimento, fa vedere Cristo nel momento in cui, battezzato da Giovanni sotto lo Spirito, si sente riconoscere dalla voce del Padre: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17). Così portiamo a termine l'attesa di un salvatore e la nascita di un bambino con la figura di questo giovane classicamente bello; poi è chiaro che in questo Gesù vero uomo, nato da Maria e cresciuto a età adulta, è presente tutta la pienezza della divinità. La bellezza che l'artista gli attribuisce, infatti, esprime l'impareggiabile dignità dell'uomo, la cui natura è stata assunta da Dio. Dal momento poi che la bellezza qui attribuita è quella derivante dall'antichità e da una civiltà non cristiana, l'immagine esprime anche un rapporto con il passato e con un diverso sistema di credenze. Nell'umanità di Cristo, sembra dire Piero, è realizzata anche la sensibilità greco romana: è valorizzato tutto ciò che, nel culto degli dei antichi, adombrava e preparava la verità evangelica.

Ma c'è di più. Questa tavola, che oggi si trova in un museo, era in origine una pala d'altare nella chiesa monastica di San Giovanni Evangelista alle porte di Borgo San Sepolcro. Ciò significa che l'immagine del corpo umano assunto da Dio doveva essere visto sopra l'altare su cui pane e vino diventavano corpo e sangue dello stesso Figlio di Dio. Significa che il rapporto con un passato lontano implicito nell'evocazione della statuaria antica s'imponeva nel contesto liturgico della messa, in cui il tempo è superato e l'evento salvifico dell'offerta di sé compiuto da Cristo viene, non «rappresentato», ma ripresentato, reso realmente presente. Significa che, davanti a quest'abbagliante visione della natura intorno al Cristo, degli elementi naturali - pane e vino fatti dalla terra - diventavano presenza reale della nostra umanità divinizzata in Cristo. In lui, perciò, l'immagine dell'uomo era situata in rapporto non solo alla storia passata e a culture lontane ma addirittura all'immensità del cosmo.

Nel dipinto di Piero come in altre opere del periodo, poi, l'uomo rappresentato è situato in rapporto ad altri uomini, in rapporto a se stesso, in rapporto a Dio. Questo Cristo che accetta il battesimo - che comprende pienamente le implicazioni del suo atto e ne accetta le conseguenze; che sente ed accoglie le parole pronunciate dal Padre - così diventa un'icona di libertà, di impegno consapevole, di relazione familiare nell'amore. Accanto all'albero allusivo alla futura croce, questo Cristo spinge verso l'altro tempo forte dell'anno: la Quaresima che conduce alla Pasqua.