volontà di potenza come arte. il carattere fondamentale dell'ente nel \"nietzsche\"...

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INTRODUZIONE «La grandezza e la vitalità di un pensatore si misurano dalla vastità e dalla profondità della traccia ch'egli lascia nel tempo. Nietzsche ancora oggi è un pensatore presente e discusso, con intensa passione e spirito discorde, nella cultura del nostro tempo. 1 » A partire dagli anni 30 Heidegger rivolge la sua attenzione alla filosofia di Nietzsche fino a farne un vero e proprio punto di riferimento. Il rapporto che sussiste tra i due pensatori viene definito da Müller-Lauter come una reciproca appartenenza 2 , è un confronto che lo stesso Heidegger decide di avere, ripercorrendo il pensiero nietzschiano e definendo Nietzsche come l’ultimo metafisico dell’Occidente. «Se nel pensiero di Nietzsche la tradizione del pensiero occidentale fino ad oggi si raccoglie e si compie secondo una prospettiva decisiva, allora il confronto con Nietzsche diventa un confronto con il pensiero occidentale fino ad oggi 3 ». Per Heidegger, Nietzsche rimane in linea con quella che è la domanda-guida della filosofia che «cos’è l’ente?», ma nello stesso tempo ne rappresenta il compimento: se infatti, da un lato la filosofia, per Heidegger ha sempre pensato l’ente senza indagare l’essere stesso, dall’altra parte Nietzsche, in quanto ultimo metafisico, segnala il passaggio ad un altro inizio che considererà l’essere in quanto essere. Certamente Nietzsche è stata una figura eminente, non solo per l’influsso che ha avuto su Heidegger, ma perché si è sempre confrontato con la filosofia a lui precedente stravolgendo tutta la metafisica tradizionale, rovesciando il sistema platonico che riconosceva nel sopra-sensibile il vero mondo e rivalutando così il mondo sensibile. Se, quindi, in Nietzsche risulta chiaro il distacco con la tradizione che egli stesso intende oltrepassare, dall’altra parte ci si trova davanti ad un Heidegger che non vuole andare oltre ma piuttosto vuole rifondare la metafisica, indagando ciò che fino ad ora non è stato indagato ovvero l’essere in quanto essere. Per Heidegger Nietzsche fu una figura importante, tanto da diventare oggetto delle sue lezioni, parte delle quali saranno successivamente racchiuse e ordinate in un’opera dal titolo “Nietzsche”, pubblicato per la prima volta nel 1961. Il “Nietzsche” che a prima vista può apparire come una semplice interpretazione, sembra essere invece una vera e propria rilettura del pensiero nietzschiano, quasi fosse il tentativo di Heidegger di far emergere attraverso Nietzsche la propria filosofia. In ogni caso anche se così non fosse di certo quella di Heidegger non è un’interpretazione autentica sebbene, come sostiene Müller-Lauter «vista a partire da Nietzsche, l’interpretazione di Heidegger appartiene alla storia della fortuna della filosofia nietzschiana. 4 » 1 R. Cantoni, Presentazione, in F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Mursia, Milano 1965, p. 2 Cfr. Müller Lauter 1998, p. 17. 3 M. Heidegger, Nietzsche, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 23. 4 W. Müller-Lauter, Volontà di potenza e nichilismo, trad. it. di C. La Rocca, Parnaso, Trieste 1998, p. 17. 1

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INTRODUZIONE

«La grandezza e la vitalità di un pensatore si misurano dalla vastità e dalla profondità della traccia ch'egli lascia nel tempo.

Nietzsche ancora oggi è un pensatore presente e discusso, con intensa passione e spirito discorde, nella cultura del nostro tempo.1»

A partire dagli anni 30 Heidegger rivolge la sua attenzione alla filosofia di Nietzsche fino a farne un

vero e proprio punto di riferimento. Il rapporto che sussiste tra i due pensatori viene definito da

Müller-Lauter come una reciproca appartenenza2, è un confronto che lo stesso Heidegger decide di

avere, ripercorrendo il pensiero nietzschiano e definendo Nietzsche come l’ultimo metafisico

dell’Occidente. «Se nel pensiero di Nietzsche la tradizione del pensiero occidentale fino ad oggi si

raccoglie e si compie secondo una prospettiva decisiva, allora il confronto con Nietzsche diventa un

confronto con il pensiero occidentale fino ad oggi3». Per Heidegger, Nietzsche rimane in linea con

quella che è la domanda-guida della filosofia che «cos’è l’ente?», ma nello stesso tempo ne

rappresenta il compimento: se infatti, da un lato la filosofia, per Heidegger ha sempre pensato l’ente

senza indagare l’essere stesso, dall’altra parte Nietzsche, in quanto ultimo metafisico, segnala il

passaggio ad un altro inizio che considererà l’essere in quanto essere.

Certamente Nietzsche è stata una figura eminente, non solo per l’influsso che ha avuto su

Heidegger, ma perché si è sempre confrontato con la filosofia a lui precedente stravolgendo tutta la

metafisica tradizionale, rovesciando il sistema platonico che riconosceva nel sopra-sensibile il vero

mondo e rivalutando così il mondo sensibile. Se, quindi, in Nietzsche risulta chiaro il distacco con

la tradizione che egli stesso intende oltrepassare, dall’altra parte ci si trova davanti ad un Heidegger

che non vuole andare oltre ma piuttosto vuole rifondare la metafisica, indagando ciò che fino ad ora

non è stato indagato ovvero l’essere in quanto essere.

Per Heidegger Nietzsche fu una figura importante, tanto da diventare oggetto delle sue lezioni, parte

delle quali saranno successivamente racchiuse e ordinate in un’opera dal titolo “Nietzsche”,

pubblicato per la prima volta nel 1961. Il “Nietzsche” che a prima vista può apparire come una

semplice interpretazione, sembra essere invece una vera e propria rilettura del pensiero

nietzschiano, quasi fosse il tentativo di Heidegger di far emergere attraverso Nietzsche la propria

filosofia. In ogni caso anche se così non fosse di certo quella di Heidegger non è un’interpretazione

autentica sebbene, come sostiene Müller-Lauter «vista a partire da Nietzsche, l’interpretazione di

Heidegger appartiene alla storia della fortuna della filosofia nietzschiana.4»

1 R. Cantoni, Presentazione, in F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Mursia, Milano 1965, p.2 Cfr. Müller Lauter 1998, p. 17.3 M. Heidegger, Nietzsche, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 23.4 W. Müller-Lauter, Volontà di potenza e nichilismo, trad. it. di C. La Rocca, Parnaso, Trieste 1998, p. 17.

1

Se da un lato, è però vero che il “Nietzsche” di Heidegger ha la sua importanza, dall’altra

parte non è stata di certo la raccolta delle lezioni heideggeriane tenute all’Università di Friburgo a

fare la fortuna della filosofia di Nietzsche. L’utilizzo di aforismi e frammenti provvisori ma

soprattutto i centri gravitazionali della sua filosofia (volontà di potenza, nichilismo, eterno ritorno e

trasvalutazione) hanno fatto di Nietzsche una delle colonne portanti della filosofia moderna, la cui

influenza è stata così tanto eterogenea da toccare scrittori, romanzieri e i filosofi più illustri del XX

secolo quali Jünger e Heidegger. Anche Löwith, allievo di Heidegger e anch’egli interprete di

Nietzsche, vede in quest’ultimo il pensatore-chiave della modernità tanto che «le sue pagine

esaltano in Nietzsche un autore epocale, l’ultimo vero pensatore d’Europa.5»

Come anche lo stesso Heidegger sostiene, Nietzsche è stato lodato o ingiuriato, è stato riconosciuto

da una parte come un filosofo-poeta poco rigoroso e dall’altra parte come il filosofo della vita.

Di certo non si può parlare di un sistema nietzschiano alla stessa maniera di Hegel o di Kant: se da

un lato, infatti la sistematicità delle loro opere risulta evidente, Nietzsche appare lontano dall’idea

di un’opera così strutturata, celando il proprio pensiero dietro forme poetiche e aforismatiche. In

realtà, Nietzsche aveva in mente l’elaborazione di un testo che doveva fungere da “opera capitale” e

che pertanto aveva l’obiettivo di includere l’intera sua filosofia, ma di fatto in questo tentativo fallì

e non riuscì mai a portarla a termine. Il fallimento nietzschiano viene considerato da Heidegger un

vero e proprio “naufragio” che tuttavia di per sé non è qualcosa di negativo in quanto segna il

sorgere di un nuovo inizio e la possibilità di fondare la nuova filosofia occidentale.

1. “LA VOLONTÀ DI POTENZA” E L’INFLUENZA DI NIETZSCHE

Come accennato nell’Introduzione, Nietzsche aveva in programma la stesura di un’opera, per

l’appunto 'l’opera capitale', che racchiudesse l’intera sua filosofia, di cui lo “Zarathustra”

rappresentava un preambolo. Il progetto prende vita intorno al 18866, anni in cui Nietzsche nelle

lettere inviate alla sorella e al cognato Bernhard Förster annuncia l’elaborazione di un’opera in

quattro volumi dal titolo: “La volontà di potenza. Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori”,

testo che secondo l’intenzione nietzschiana doveva essere scritto in prosa e che, stando alle parole

della sorella, non avrebbe affrontato temi e pensieri diversi da quelli già trattati nello “Zarathustra”,

vista la sua manifestata intenzione di un’esposizione filosofica in prosa già nel 1883.7

5 E. Donaggio, L’ultimo filosofo europeo. Löwith e Nietzsche prima e dopo il 1933, in C. Gentili (a cura di) Metafisica e nichilismo. Löwith e Heidegger interpreti di Nietzsche, Bologna: Università di Bologna. Dipartimento di Filosofia 2005, pp. 13-14. 6 Cfr. Gentili 2001, p. 341.7Ivi p. 344.

2

Quella che nasceva con l’obiettivo di essere l’opera capitale di Nietzsche dal titolo “La

volontà di potenza”, di fatto non è altro che una raccolta di frammenti postumi ordinati dal Peter

Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche. Nonostante la sua inautenticità, l’opera ha però offerto materia

di riflessione ai maggiori filosofi, tanto è vero che il “Nietzsche” di Heidegger sarebbe

inconcepibile senza la “Volontà di potenza”. In un primo momento gli interpreti di Nietzsche

prendevano in considerazione soprattutto lo “Zarathustra” come opera di riferimento, ricercando in

questo testo che lo stesso Nietzsche definiva “per tutti e per nessuno”, la sua vera filosofia. Si deve

ad Alfred Baeumler la scoperta, per così dire, della “Volontà di potenza”, testo che secondo lui

svelava la metafisica di Nietzsche e rendeva quest’ultimo un filosofo al pari dei grandi pensatori

moderni. Con Baeumler, non solo Nietzsche cessa di essere il filosofo dei frammenti lirici per

diventare, al fianco degli altri, un pensatore sistematico ma, addirittura, “La volontà di potenza”

viene considerata opera autentica che conferisce unità a tutto il pensiero nietzschiano.

Per quanto riguarda Heidegger, nonostante anch’egli, come Baeumler, prenda in

considerazione “La volontà di potenza”, sarà molto critico nei confronti di quest’ultimo,

mostrandosi innanzitutto consapevole dell’inautenticità della cosiddetta opera capitale e

distaccandosi totalmente dalla teoria secondo cui le dottrine di eterno ritorno e volontà di potenza

siano tra loro in contraddizione. Come riporta Heidegger stesso nel “Nietzsche”, Baeumler non ha

fatto altro che negare la connessione, esistente, tra volontà di potenza ed eterno ritorno,

riconoscendo in quest’ultimo un pensiero privo di importanza, in quanto concependo la volontà di

potenza come divenire e il divenire come un andare sempre avanti, ha fatto l’errore di interpretare

l’eterno ritorno come stasi del divenire8. Heidegger, al contrario, riconosce che per Nietzsche l'ente

è volontà di potenza e che il suo modo di esistere è eterno ritorno. Viene inteso, quindi, Nietzsche

come una fusione delle posizioni di Eraclito e Parmenide: da un lato l'ente è qualcosa di stabile e

fissato e dall'altra parte un continuo divenire, in quanto è necessario il superamento di quella

stabilità. «Nietzsche pensa il pensiero più grave, pensa l’essere cioè la volontà di potenza, come

eterno ritorno. […] Significa l’eternità non come un’ora che resta fermo, ma come l’ora che si

ripercuote su se stesso.9»

L’influenza che ha avuto Nietzsche è stata di certo molto vasta e se da un lato vi è chi, come

Löwith, ha nutrito da subito un interesse verso Nietzsche, riconoscendolo come un filosofo epocale,

dall’altra parte Heidegger, solo sul finire degli anni venti ha preso in considerazione la filosofia

nietzschiana, ulteriormente influenzato solo successivamente dagli scritti di Ernst Jünger (anni 30)

che «lo hanno messo di fronte ad una comprensione essenziale della metafisica di Nietzsche.10»

8 Cfr. Heidegger 1994, p. 36.9 Heidegger, Nietzsche, cit. p. 35.10 W. Müller-Lauter, Volontà di potenza e nichilismo, cit. p. 21.

3

Sebbene “La volontà di potenza” sia stata ugualmente presa in considerazione, la sua inautenticità

risulta giustificata da più fatti: da un lato i frammenti che la compongono sono il frutto di una scelta

dei suoi compilatori, che hanno tentato di ordinarli secondo lo schema nietzschiano; dall’altra parte

vi è il problema della notevole differenza tra le due edizioni: quella del 1901 che conta 483 aforismi

e quella del 1906 che ne contiene 1067.11

Ma cos’è la volontà di potenza? Nonostante l’opera che reca tale titolo non sia altro che il

prodotto di una mistificazione, non si può di certo negare che il concetto di volontà di potenza abbia

un’importanza notevole nella filosofia nietzschiana, tanto è vero che sarà lo stesso Nietzsche a

definirla come “l’ultimo fatto”, definizione che, per Heidegger, farà della volontà di potenza il

carattere fondamentale di tutto ciò che è. Nietzsche, però, non fu di certo il primo ad utilizzare il

concetto di volontà, ma al contrario quest’ultima, intesa come essere dell’ente, è in linea con la

tradizione della filosofia tedesca; dall’altra parte è però vero che Nietzsche utilizzò il termine in

modo del tutto diverso rispetto ai pensatori a lui precedenti. Se si prende, per esempio, in

considerazione Schopenhauer, risulta già chiaro dal titolo della sua opera principale “Il mondo

come volontà e rappresentazione”, che il concetto di volontà sia centrale nel suo pensiero. Sebbene

Heidegger tenti, nel “Nietzsche”, di chiarire il netto distacco tra Nietzsche e Schopenhauer, di fatto

il debito nietzschiano nei confronti di quest’ultimo è chiaro ed è reso palese dalla definizione che

entrambi offrono del concetto di volontà, che nonostante le sfumature presenti mostra la vicinanza

dei due pensatori. In Schopenhauer «la volontà […] è inconscia e non è che un impulso cieco,

inarrestabile […], ciò che vuole è pur sempre la vita. […]L’individuo non ha per essa alcun valore

né può averlo, […] esso è servito solo alla conservazione della specie.12» Per Nietzsche l’errore di

Schopenhauer è proprio quello di considerare la volontà come un puro volere, un semplice 'tendere

a..', laddove invece per Nietzsche non esiste un volere in generale, ma è un volere inteso come

'essere signore di..' che si slancia al di la di se stesso.13 Nella volontà nietzschiana è accentuato il

carattere del comando, della fermezza; la potenza non è il fine della volontà ma è parte della sua

essenza. La volontà di potenza è la volontà che vuole se stessa, una volontà intesa come

superamento e sopraffazione; non si afferma come semplice desiderio di uno o più oggetti ma si

presenta piuttosto come un’infinita pulsione di rinnovamento. Alla luce di ciò appare evidente la

connessione con il concetto di trasvalutazione e quindi con la necessità di tramutare i vecchi valori

in nuovi, reazione necessaria al fenomeno del nichilismo. Tutto è collegato e come anche

Heidegger sostiene nel “Nietzsche” tale connessione è particolarmente visibile se si parte

11 Cfr. Gentili 2001, pp. 345-346.12 Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di G. C. Giani, Newton Compton Editori, Roma 2012, pp. 303-304.13 Cfr. Heidegger 1994, p. 54.

4

dall’analisi del concetto di nichilismo, ovvero svalutazione di tutti i valori che perdono forza

creativa, ma poiché «il nichilismo non è mai nemmeno soltanto dissoluzione e disvalore […] la

nuova posizione di valori è necessariamente una trasvalutazione di tutti i valori.14» La volontà di

potenza sarà, dunque il principio che fonda questa nuova posizione di valori, dal momento che

l’ente è concepito come volontà di potenza e quest’ultima viene, quindi intesa come “la vita stessa”:

la volontà di potenza finisce per essere il carattere fondamentale dell’ente in tutti i suoi ambiti.

Nel “Nietzsche”, Heidegger riprende il tema della volontà di potenza, disinteressandosi del

pensiero nietzschiano in sé e considerando piuttosto la “cosa” in questione, ovvero la volontà di

potenza come essere dell’ente: è proprio interpretando la volontà di potenza come carattere

fondamentale dell’ente che Heidegger colloca Nietzsche nell’ambito della domanda-guida della

filosofia “che cos’è l’ente?”. La volontà di potenza nietzschiana, che nella storia della filosofia

risulta essere uno dei concetti più affascinanti, ci trasporta al di là di noi stessi, un continuo andare

oltre di sé in cui, come dice Heidegger si rimane però padroni di se stessi. Ciò che Heidegger non si

dimentica, infatti, di ricordare alle sue lezioni è per l’appunto questo confine sottile che esiste tra

Wille e Un-Wille, volontà e non-volontà, laddove quest’ultima è un andare-al-di-là senza alcun

controllo, come se in questo andare fuori di noi non portassimo noi stessi ma di fatto ci perdessimo

e si tratterebbe, dunque, di volontà come non-volontà15. È questo, secondo Heidegger, il caso

dell’ira, un affetto, un attacco improvviso che sovraeccita, totalmente differente dall’odio che

invece nasce e viene da noi alimentato corrodendo il nostro essere: si tratta, infatti, in questo caso di

una passione che non rende ciechi e che nella sua persistenza e compattezza ci fa prendere potere

dell’ente. Se da un lato «affetto è l’attacco che acceca e la passione è lo slancio che rende lucidi16»,

il volere è alla fine definito come un sentimento in quanto come sostiene Heidegger « è il modo in

cui ci troviamo nel nostro riferirci all'ente e quindi, al tempo stesso, anche nel nostro riferirci a noi

stessi.17»

La volontà di potenza è stata fin qui definita dunque come affetto, passione, sentimento, come

un “essere padrone di… che va al di là di se stesso” , la volontà di potenza esiste come un continuo

voler essere di più, un avere sempre più potenza, un’incessante elevazione, un volere che non vuole

una singola realtà ma che riguarda piuttosto l’essere, l’essenza dell’ente. Ma che cos’è l’ente? Che

cos’è l’essere? Sono queste le domande guida della filosofia, le domande fondamentali che ne

hanno da sempre segnato il cammino, quelle domande che di fatto hanno contrassegnato anche la

filosofia di Heidegger fin dai tempi di “Essere e Tempo” e che ora, alla luce del pensiero

14 Heidegger, Nietzsche, cit. p. 41.15Cfr. Heidegger 1994, p. 57.16 Heidegger, Nietzsche, cit. p. 60.17 Ivi, p. 61.

5

nietzschiano, riprende in considerazione analizzando in particolar modo il terzo libro della “Volontà

di potenza”: “Principio di una nuova posizione di valori”, e riflettendo innanzitutto sull’ultimo

capitolo dal titolo “la volontà di potenza come arte”, in quanto quest’ultima rappresenta la migliore

manifestazione della volontà di potenza, o meglio la sua forma somma.

2. L’ARTE E LE 5 TESI NEL “NIETZSCHE” DI HEIDEGGER

«L’arte e nient’altro che l’arte! È quella che più rende possibile la vita, la grande seduttrice

della vita, il grande stimolante della vita…

L’arte come unica forza contraria e superiore a ogni volontà di negare la vita.18»

La questione dell’arte è stato da sempre un argomento che i maggiori filosofi della storia hanno

preso in considerazione, proponendone, certamente, teorie diverse e talvolta discordi a seconda

della corrente filosofica o del periodo in cui vivevano o più semplicemente a seconda di quello che

credevano. Da Platone in poi è stato un tema abbastanza ricorrente: c’era chi come per l’appunto lo

stesso Platone riconosceva nell’arte un’imitazione della natura che fornisce una conoscenza del

tutto ingannevole. Secondo Kant, questa non è imitazione ma attività creativa e il bello sarà

l’oggetto di un piacere libero da ogni interesse19; in Hegel l’arte è una rappresentazione

dell’assoluto, differente dalla filosofia e dalla religione solo perché maggiormente legata alla

sensibilità; in Schopenhauer diventa strumento di contemplazione attraverso il quale l’uomo può

tentare di liberarsi dalla volontà. All’interno di questo iter si colloca anche la teoria nietzschiana

dell’arte, espressa inizialmente in un testo dal titolo “La nascita della tragedia” pubblicato nel

1872. Il medesimo tema comparirà poi anche in altri testi nietzschiani in cui si prenderanno in

considerazione tutti quei temi fortemente connessi alla questione dell’arte (ebbrezza, grande stile,

rapporto arte-verità): nella stessa “Volontà di potenza”, raccolta postuma di frammenti la cui

composizione non è opera di Nietzsche stesso, compare al terzo capitolo “Principio di una nuova

posizione di valori” un insieme di frammenti che hanno come argomento la volontà di potenza

come arte. L’arte in Nietzsche non viene descritta come espressione della cultura, bensì come forma

della volontà di potenza proprio per dimostrare che cosa quest’ultima sia.

Proprio per questo motivo Heidegger crede nella necessità di una ricostruzione della storia

dell’estetica, a cui dedicherà una sezione del “Nietzsche”, per comprendere l’interpretazione

nietzschiana dell’essenza dell’arte. Sebbene non sia questo il luogo in cui indagare l’argomento si

18 F. Nietzsche, La volontà di potenza, cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 2011, fr. n. 853.2 p. 465. [VIII, III, 3 in Nietzsche, Opere, a c. di Colli-Montinari]19 Cfr. Kant 2011, pp. 140-143.

6

può brevemente ricordare che la necessità di un’estetica nasce, secondo quanto dice Heidegger,

presso i greci quando la grande arte si approssima alla fine: se da un lato, infatti la grande arte greca

era priva di una corrispondente riflessione, dall’altra parte sarà proprio con Platone e Aristotele che

verranno coniati quei concetti che andranno a definire ogni posizione dell’arte. Con Platone l’arte

viene condannata, una condanna che fonda le sue ragioni richiamandosi alla dimensione del vero:

l’arte finisce per essere imitazione del mondo sensibile il quale, a sua volta, è imitazione del mondo

delle idee, unica sede della verità. E’ interessante inoltre rilevare come, nell’antichità classica sia

difficile rintracciare quel nesso tra l’arte e la bellezza che attualmente sta alla base della stessa

definizione di arte. Platone non congiunge mai il bello in maniera specifica alle opere d’arte ma la

bellezza coincide piuttosto con la verità, è l’essere, in quanto idea incorruttibile collocata al di là del

mondo sensibile; al bello si ricollega il concetto dell’Eros che diventa uno strumento di conoscenza,

un percorso che porta l’individuo alla contemplazione del mondo delle idee e infatti come sostiene

Platone nel “Fedro” «solo la bellezza sortì questo privilegio di essere la più percepibile dai sensi e

la più amabile di tutte.20» Con l’età moderna, periodo in cui per l’appunto la grande arte si

avvicinerà alla decadenza, l’arte cessa di assolvere il compito di rendere manifesta la verità

dell’ente nell’opera e l’estetica raggiungerà la sua massima altezza con Hegel, secondo il quale

l’arte ha ormai perduto la sua capacità di rappresentare l’assoluto: pur rimanendo, infatti, una

categoria dello Spirito assoluto e come tale in stretta connessione con la verità, non riesce ad

esprimerlo in quanto l’infinità dell’Assoluto non può essere imprigionata in nessuna forma sensibile

tanto che anche la più immateriale delle arti, la poesia, risulta inadeguata, e lo Spirito, slegandosi

dal sensibile, trapassa nella religione prima e nella filosofia poi, unica forma capace di esprimere

nella maniera più elevata il vero21. Subito dopo il XIX secolo e il tentativo dell’ “opera d’arte

totale” ad opera di Richard Wagner, che realizzava il dominio dell’arte come musica e da cui

Nietzsche fu inizialmente incantato, si vide il passaggio del sapere dell’arte da sapere metafisico ad

analisi scientifica e che non è altro che il retroscena di quello che Nietzsche definirà nichilismo:

stando alle parole di Heidegger «mentre per Hegel l’arte, a differenza della religione, della morale e

della filosofia, cadde vittima del nichilismo divenendo qualcosa di passato e di non reale, Nietzsche

cerca nell’arte il contro movimento22». Perché l’arte è così importante da essere il contro

movimento al nichilismo? Perché è l’arte a fondare il principio della nuova posizione di valori?

Sarà proprio per rispondere a tali domande che Heidegger tenterà di mettere in risalto cinque tesi

sull’arte, ripercorrendo dei passi importanti della “Volontà di potenza.”

20 Platone, Fedro, trad. it. di P. Pucci, Laterza, Bari 2005, cit. p. 57.21 Cfr. Berti-Volpi 2007, p. 73.22 Heidegger, Nietzsche, cit. p. 99.

7

Heidegger avvia questa indagine ricorrendo ad un frammento nietzschiano: «il fenomeno

dell’artista è ancora il più trasparente: partire da questo per guardare agli istinti fondamentali della

potenza, della natura ecc.!23» Il termine trasparente significa non solo che qualcosa sia chiaro ed

evidente ma che di fatto sia per noi comprensibile, accessibile nella sua essenza24. Secondo quanto

dice Heidegger nell’artista l’essere ci si presenta nel modo più chiaro e diretto in quanto di fatto

l’essere artista è un produrre, ovvero come sostiene Heidegger, rifacendosi chiaramente alla teoria

aristotelica di materia e forma, un « porre in essere qualcosa che ancora non è 25», in modo tale che

nel divenire dell’ente ne cogliamo la sua essenza. Inoltre, partendo dal presupposto che l’essere

artista è un modo di vivere e che proprio nel vivere l’essere si manifesta nella sua forma più

limpida, la cui essenza è concepita come volontà di potenza, Heidegger conclude che «essere artista

è il modo di vivere più trasparente. La vita è la forma di essere a noi più nota. L’intima essenza

dell’essere è volontà di potenza. Nell’essere artista incontreremo il modo più trasparente della

volontà di potenza.26» Proprio per questo motivo la riflessione sull’arte è fondamentale e basilare, in

quanto l’obiettivo è quello di chiarire l’essere dell’ente, che si mostra apertamente proprio nell’arte.

Ciò che Heidegger critica in Nietzsche, anche se in modo non troppo esplicito, è il fatto che

Nietzsche non parla di arte nel suo senso e significato più assoluto, limitando la trattazione al

“fenomeno dell’artista”, (sebbene in ogni caso ne venga data prova contraria già nella “Nascita

della tragedia” in cui Nietzsche riscontra in apollineo e dionisiaco le due forme artistiche proprie di

ogni produzione d’arte, che si ritrovano a convivere nella tragedia greca) ed escludendo dall’intera

realtà dell’arte quelle che sono le opere d’arte e coloro che recepiscono piuttosto che creare:

elementi che secondo Heidegger sono pur sempre rilevanti per definire l’essenza dell’arte.

Heidegger, infatti, pensa l’arte nella sua totalità, in cui artista e opera d’arte convivono, o meglio

non vivono l’uno senza l’altro, tanto da vedere l’origine di entrambi nell’arte stessa. Tale teoria, che

non viene apertamente spiegata nel “Nietzsche”, può essere riscontrata in un testo precedente,

pubblicato solo negli anni 50 dal titolo “L’origine dell’opera d’arte”, la cui prima versione risale

però al 193527. In tale testo Heidegger sostiene che «l’artista è l’origine dell’opera, l’opera è

l’origine dell’artista […] quanto certamente l’arte resta, l’origine al tempo stesso dell’artista e

dell’opera.28» Di fatto quello di cui parla Heidegger finisce però per essere compreso a prima vista

come un circolo vizioso in cui l’opera d’arte è in virtù dell’artista e dell’arte stessa ma allo stesso

tempo arte e artista vengono definiti solo a partire dalle opere d’arte; in realtà viene piuttosto 23 Nietzsche, La volontà di potenza, 2011, fr. n. 797 p. 430 [VIII, II, 130].24 Cfr. Heidegger 1994, p. 78.25 Heidegger, Nietzsche, 1994, p. 78.26 Heidegger, Nietzsche, cit. p.79.27 Cfr. G. Zaccaria, Premessa in M. Heidegger 2000, p. V. 28 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, trad. it. G. Zaccaria e I. De Gennaro, Marinotti Edizioni, Milano 2000, p. 3.

8

concepito da Heidegger stesso come un circolo virtuoso in cui bisogna, nel ricercare l’essenza

dell’opera, necessariamente incamminarsi e per comprendere l’essenza dell’arte concepire le opere

non come semplici res ( di cui Heidegger offrirà un’analisi dettagliata ripercorrendo le dottrine

intorno all’ente), ma come cose a cui inerisce dell’Altro.

Se da un lato, dopo questo breve rimando alla dottrina heideggeriana, risulta chiaro che per

Heidegger l’artista è solo uno degli elementi che costituiscono la realtà dell’arte, al contrario per

Nietzsche l’artista funge da intermediario fra conoscenza e vita e la sua figura è tanto importante da

non permettere nemmeno la distinzione artista-arte: l’arte ha l’obiettivo di piegare l’essere e l’artista

è colui che lotta per farlo.29Nietzsche concepisce, dunque, l’essenza dell’arte dalla prospettiva

dell’artista, ponendosi in contraddizione e completo disaccordo con chi considera l’arte dal punto di

vista di chi la recepisce e la vive: l’artista è colui che genera e le sue esperienze devono

necessariamente essere determinanti. È proprio a partire da questo principio che Nietzsche si schiera

a favore di un’estetica maschile finora non esistita dal momento che «la nostra estetica è stata

un’estetica femminile, […] in tutta la filosofia quale è stata finora non c’è un artista30.» Dal brano n.

797 preso prima in considerazione Heidegger trae le prime due tesi sull’arte secondo cui in primo

luogo l’arte risulta essere la forma più chiara della volontà di potenza, in quanto nell’essere artista si

riscontra il modo di vivere a noi più noto, mentre la seconda tesi enuncia il principio secondo cui

l’arte deve essere concepita dalla prospettiva dell’artista.

Proseguendo nella sua analisi, Heidegger prende in considerazione le parole di Nietzsche in

cui sostiene che «c’è l’opera d’arte che si presenta senza un artista, per esempio quella che appare

come un corpo, come un’organizzazione» e alla luce di tale frammento formula la terza tesi secondo

cui l’arte è l’accadere fondamentale di ogni ente in quanto l’ente è qualcosa di creato. Alla luce

dell’interpretazione heideggeriana fornita nel “Nietzsche” emerge come di fatto tutte le forme

dell’ente, che si possono manifestare sotto forma di natura, società, morale e filosofia non siano

altro che forme corrispondenti all’essere artista, prodotti non direttamente creati dall’artista ma che

nel loro modo di essere sono conformi a ciò che da lui è stato realizzato. Il punto di vista di

Heidegger sembra, in questo passo, in linea con il pensiero di Nietzsche, una coerenza, quella di

Heidegger, che si manifesta soprattutto nella definizione nietzschiana dell’artista come “stadio

preliminare”. L’artista risulta essere una fase preparatoria, il punto più chiaro da cui partire per

comprendere la volontà di potenza e cosi sebbene l’arte non cessi di essere illusione, diventa con

Nietzsche un’illusione voluta, funzionale alla vita per piegare l’essere e renderlo utilizzabile,

compito questo che Nietzsche affida per l’appunto all’artista31, inteso nella ristretta accezione di

29 Cfr. Moretti 2005 in Metafisica e nichilismo: Löwith e Heidegger interpreti di Nietzsche, p. 52.30 F. Nietzsche, La volontà di potenza, fr. n. 811 p. 441[VIII, XIV, 170].31 Cfr. Moretti 2005, p.52.

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“autore delle belle arti”. Tale terza tesi è particolarmente importante in quanto ci permette di capire

non solo che l’arte è il carattere fondamentale dell’ente ma concependo la volontà di potenza come

un creare e l’arte come «l’attività il cui creare emerge fino a diventare massimamente trasparente32»,

si deduce che non solo l’arte è forma della volontà di potenza ma che tra tutte sia quella regale, in

quanto è nella prospettiva dell’arte e come arte che la volontà di potenza diventa evidente.

Concependo l’arte come forma somma della volontà di potenza si compie un ulteriore

passaggio, quello che definisce l’arte come il contro movimento al nichilismo: del resto se era la

volontà di potenza a fungere come principio per la posizione di nuovi valori ed essendo l’arte, per

così dire, il suo profilo migliore, sembra deduttivamente valido il ragionamento operato da

Heidegger che conduce a concepire l’arte come il punto di partenza per la trasvalutazione dei valori

finora riconosciuti come validi. D’altra parte è lo stesso Nietzsche a sostenere che «la nostra

religione, la nostra morale e la nostra filosofia sono forme di décadence dell’uomo33» riconoscendo

proprio nell’arte il contro movimento. Il brano appena citato rispecchia perfettamente il Nietzsche

che l’opinione pubblica riconosce: il filosofo che critica fortemente quei valori propri della

tradizione, che si getta contro la morale cristiana e contro quei principi da sempre considerati valori

supremi, sebbene sarebbe giusto, dall’altra parte riconoscere il debito che Nietzsche ha con la

tradizione e soprattutto con quel mondo greco che rimarrà per lui sempre un intoccabile punto di

riferimento. D’altronde come contraddire tale pensiero: Nietzsche ha dedicato la vita alla critica dei

valori teorizzandone il superamento, ha elaborato una filosofia il cui centro nevralgico era il

concetto di trasvalutazione e la sua estrema necessità. Nietzsche è sceso in campo aperto e si è

scontrato con quell’enorme macigno che è il sistema platonico da cui di fatto ha preso vita l’intero

pensiero cristiano e a cui tutta la filosofia si è adattata, rovesciandone i presupposti che vedevano

nel mondo dei sensi una realtà illusoria e nel sopra-sensibile il vero mondo. La morale per

Nietzsche diventa un problema, un problema di cui nessuno finora si è fatto carico, semplicemente

perché non era riconosciuto coma tale e così Nietzsche dice : «anni di fede antica, quella fede

cristiana che era la fede di Platone per cui Dio è la verità e la verità è divina.[…] Ma come se Dio

stesso si rivela come la nostra menzogna più lunga?34» La morale, la religione, la fede in primis

nascono da un bisogno, dal desiderio di certezza, dal volere qualcosa di solido su cui contare ma in

realtà, per Nietzsche tutto ciò esiste laddove vi è una mancanza di volontà, laddove viene meno il

tratto distintivo dell’autodominio e ci si affida a qualcuno che comandi, che sia questo un Dio o un

dogma. Per Nietzsche quel mondo dominato dalla morale del “tu devi”, in cui non si fa altro che

negare il mondo e la vita, è il frutto di una menzogna, il sopra-sensibile è un errore e il mondo

32 M. Heidegger, Nietzsche, cit. p. 81.33 F. Nietzsche, La volontà di potenza, fr. n. 794 p. 430. 34 F. Nietzsche, La gaia scienza, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, 1977, cit. p. 255.

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sensibile è il vero mondo. In questo nuovo vero mondo teorizzato da Nietzsche l’arte ha un ruolo

determinante proprio perché l’elemento dell’arte è il sensibile, la parvenza dei sensi e diviene, così,

palese il rovesciamento della filosofia platonica: se per Platone l’arte era solo la brutta copia della

realtà, lontana dalla pura conoscenza delle idee, nel pensiero di Nietzsche l’arte acquista un ruolo di

primo piano non solo in quanto carattere fondamentale dell’ente ma in quanto «è il contro

movimento per eccellenza che si oppone al nichilismo.35»

Posta la quarta tesi sopra citata e identificata l’arte come attività metafisica in assoluto,

Heidegger prosegue poi nella sua analisi prendendo in considerazione il rapporto che sussiste tra

arte e verità, il nesso che sarà oggetto della quinta e ultima tesi. In fondo, come detto in precedenza,

è l’arte a definire l’accadere fondamentale di ogni ente ed è quindi da qui che ogni fare, compreso il

pensare della filosofia, deve essere determinato. Al filosofo moralista esistito fino a quel momento,

Nietzsche contrappone il filosofo-artista e di conseguenza, necessariamente, l’arte diventa «il dire si

al sensibile, alla parvenza, a quello che non è “il vero mondo” ossia che non è “la verità”.36» Nasce,

quindi, quella contrapposizione tra volontà di verità e volontà di parvenza che secondo Nietzsche

provoca sgomento e a cui si dedicò fin dai tempi della “Nascita della tragedia”. La volontà di verità

non è altro che la volontà di quel “mondo vero” teorizzato da Platone e che di fatto è la negazione di

questo mondo in cui l’arte regna: questo mondo sensibile che Nietzsche esalta è il mondo della

realtà, il mondo vero e proprio e così il sensibile assume, per Nietzsche, il primato sul sopra-

sensibile. Il sopra-sensibile distoglie dalla vita reale, le sottrae forza e la indebolisce e proprio per

evitare che la vita stessa sia spinta verso una generale decadenza esiste l’arte: il migliore stimolante

della vita che sprona e potenzia, che eleva al di la di sé e che per questo è volontà di potenza. Da

questo rapporto essenziale esistente tra arte e verità si ricava per l’appunto la quinta tesi secondo cui

l’arte vale più della verità. Quello tra arte e verità è un legame che impegnerà molto Nietzsche e che

di conseguenza Heidegger tenterà di spiegare nel migliore dei modi. Essendo l’argomento di

particolare rilievo verrà però trattato in seguito, in quanto seguendo lo stesso percorso fatto da

Heidegger, è bene chiarire prima come Nietzsche intenda l’arte toccando tutti quei temi che ne

costituiscono l’essenza.

2.1 Apollineo e Dionisiaco.« Avremo acquistato molto per la scienza estetica quando saremo giunti all’immediata sicurezza

dell’intuizione del fatto che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del

dionisiaco.37»

35 M. Heidegger, Nietzsche, cit. p. 82.36 Ivi, p. 83.37 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, 1977, cit. p. 21.

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Nella “Volontà di potenza”, la sorella Elisabeth e l’amico Peter Gast inseriscono frammenti in

cui vengono ripresi tutti quei temi che Nietzsche aveva già affrontato nel suo primo testo

pubblicato, “La nascita della tragedia” tra cui ovviamente la tematica che riguarda la convivenza

nell’arte greca delle due forme artistiche di apollineo e dionisiaco. L’apollineo consiste, per

Nietzsche, nella visione della forma, della regolarità, dell’ordine e può trovare la sua

concretizzazione nell’arte plastica, nell’architettura; dall’altra parte nel dionisiaco si ritrovano gli

elementi della passione e dell’ebbrezza ( alla cui trattazione spetta un’analisi più dettagliata) e trova

la sua migliore espressione nella musica. Lo sviluppo dell’arte è dunque definibile come lotta tra

due principi che trovano la loro conciliazione nella tragedia greca: da un lato l’apollineo si mostra

come un atteggiamento contemplativo, che mira alla produzione di una forma caratterizzata da

armonia e proporzione, dall’altra parte il dionisiaco è espressione del caos che distrugge ogni

schema. La conciliazione di questi due principi, apparentemente incompatibili, è l’obiettivo del

testo nietzschiano in cui Nietzsche giunge a sostenere che la morte della tragedia, si deve non tanto

ad Euripide, ma è avvenuta piuttosto per mano di Socrate di cui Euripide non è altro che la

“maschera”. Socrate, infatti, è il filosofo che ha decretato il primato della ragione sull'istinto e la

passione ed è con lui che si impone l'uomo teoretico; “il socratico” è il principio della conoscenza

teoretica e morale e quindi, per Nietzsche, già per sua natura necessariamente non-greco38. Nei

frammenti che solo successivamente sono stati inclusi nella “Volontà di potenza” Nietzsche

riprende il tema in questione definendo apollineo e dionisiaco come «due stati in cui l’arte sorge

nell’uomo come una forza della natura39» accostandoli alle rispettive situazioni del sogno e

dell’ebbrezza, dove quest’ultimo verrà intravisto da Heidegger come lo stato estetico fondamentale

in quanto riconosciuto da Nietzsche come sentimento del potenziamento, della forza e della

pienezza.40 Ciò che, alla luce di Heidegger, manca nella filosofia di Nietzsche è una valida

riflessione sul bello, in quanto questa si presenta solo come rovesciamento di Schopenhauer, che tra

l’altro non aveva fatto altro che fraintendere la dottrina kantiana secondo cui il bello è ciò che piace

senza interesse, interpretandolo come sospensione della volontà e così in Nietzsche, il bello diventa

potenziamento della volontà e quindi ebbrezza41. Secondo Kant  attraverso l’uso del giudizio

estetico e quindi di conseguenza contemplando un oggetto senza scopo conoscitivo, il soggetto vive

un sentimento di corrispondenza con l’oggetto e il bello viene così ad assumere una funzione

rassicurante: l’uomo agisce all’interno di un mondo regolato da rigide leggi di causa – effetto, ma

dall’altra parte attribuisce alla realtà un’armonia e un finalismo tali da non sentirsi contrastato ed

38 Cfr. Gentili 2001, cit. p. 77-78.39 F. Nietzsche, La volontà di potenza, fr. n.798 p. 431. [VIII, XIV, 36]40 Cfr. Heidegger 1994, p. 108.41 Cfr. Heidegger 1994, pp. 114-120.

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proprio per questo motivo che l’esperienza estetica si risolve in una sorta di illusione42 anche se di

fatto sarà però Nietzsche il vero teorizzatore di una risoluzione della dimensione estetica in un

un’illusione che maschera i caratteri originari della realtà. Per Nietzsche, infatti, anche l’arte greca è

menzogna, è però una menzogna consapevole così che anche gli stessi dèi olimpici non sono altro

che invenzioni di belle forme create per rendere la vita sopportabile tanto che Nietzsche stesso

sostiene in un brano della “Nascita della tragedia” che persino il brutto e il disarmonico possono

provocare un piacere estetico. La tragedia greca, secondo Nietzsche, ha il compito di persuaderci

che «anche il brutto e il disarmonico sono un gioco artistico che la volontà gioca nell’eterna

pienezza del proprio godimento43». Con Nietzsche l’esperienza estetica diventa da un lato quasi il

luogo della crisi che vede certamente la crisi dei valori e dell’idea di verità, dall’altra parte è però

una via privilegiata di accesso ad una dimensione di pienezza. L’arte sembra essere un rifugio dalla

verità, un’illusione consapevole e voluta che deve rappresentare la potenza e l’energia propri

dell’artista così che mediante il bello l’uomo penetra in uno stato fondamentale di pienezza, stato

che per l’appunto coincide con l’ebbrezza. È però, giusto ricordare che in Nietzsche quando si parla

di bene o male, di bello o brutto, di vero o falso di certo non si fa riferimento alla loro idea astratta

in quanto il carattere dell’obbiettività viene fortemente attaccato. La questione del prospettivismo è

di rilevante importanza per Nietzsche, tanto è vero che comparirà in più testi, e sebbene in modo

non esplicito il concetto verrà già anticipato in “Su verità e menzogna” dove la verità, quasi in

modo paradossale, finisce per essere addirittura eguagliata alla menzogna. La verità viene definita

come un insieme di antropomorfismi e metonimie di cui l’uomo ha dimenticato che siano tali44 e

sembra dunque essere una specie di patto che l’uomo ha stretto con i suoi simili per permettere la

propria sopravvivenza. Per Nietzsche non esiste una verità assoluta e in questo mondo bisogna

avere la capacità di interpretare e così «la volontà di verità […] è sostanzialmente arte di

interpretare; la stessa specie d’uomo, divenuta più povera ancora di un grado, non più in possesso

della capacità di interpretare, costituisce il nichilista.45» In tutto ciò l’arte ha ovviamente un

notevole ruolo in quanto è proprio l’uomo dotato di creatività intuitiva che «con gusto creativo

mette sotto sopra le metafore […] e divenuto signore può levar via dal suo volto l’espressione della

miseria.46» L’uomo intuitivo si differenzia, per forza di cose, dall’uomo razionale in quanto

quest’ultimo affronta le necessità con regolarità mentre il primo con la massima serenità che gli è

propria fonda il dominio dell’arte sulla vita. L’arte è per Nietzsche una sorta di via di fuga, un modo

42 Cfr. Kant 2011, pp. 181-185.43 Nietzsche, La nascita della tragedia, cit. p. 159.44 Cfr. Nietzsche 2006, pp. 95-108.45 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1974, cit. p. 60.46 F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale in La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873 , a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 2006, cit. p. 235.

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per scappare da quella verità che opprime, tanto è vero che sarà Nietzsche stesso in un frammento

del 1888 a sostenere che «la verità è brutta. Noi abbiamo l’arte per non perire a causa della

verità.47» Tale affermazione si collega a quella che secondo Heidegger è la quinta tesi sull’arte,

secondo cui quest’ultima vale certamente più della verità in quanto il sensibile è sicuramente più

autentico del soprasensibile, laddove per verità si intende ovviamente quel “vero mondo” platonico.

La verità è per Nietzsche il nichilismo, una verità negativa che lui stesso definisce “brutta” e di cui

l’arte è il contro movimento, ciò che possiamo usare per contrastare una tale bruttezza, il

nichilismo, e che può dunque salvare l’uomo.

Detto ciò si può comprendere che Nietzsche sembri continuamente evocare due orizzonti: da

un lato ci si trova davanti alla figura dell’oltre-uomo, figura in formazione e dall’altra parte vi è

invece quella grecità che Nietzsche sembra non abbandoni mai. Vi è, in Nietzsche, un continuo

scambio tra quella grecità originaria e l’oltrepassamento dell’uomo e sebbene bisogna comprendere

i concetti di essere, arte e verità al di là dei termini tradizionali in cui venivano intesi, bisogna pur

sempre tenere presente che il modello greco rimane per Nietzsche uno stabile punto di riferimento48.

Anche per Heidegger i greci fungono da modello tanto da considerare Parmenide l’unico legittimato

a pronunciare la parola “essere” e riconoscendo dall’altra parte Platone come colui con cui è iniziata

l’incomprensione da cui ha avuto origine l’oblio dell’essere. Nonostante, quindi anche per

Heidegger, così come per Nietzsche la grecità ha una rilevante importanza, il loro contrasto si

manifesta nell’incarico che viene affidato all’arte: se infatti, per Nietzsche l’arte è potenziamento e

accrescimento e dunque l’artista nell’apprezzare maggiormente la parvenza, fa di quest’ultima la

riaffermazione della realtà nella sua correzione; dall’altra parte Heidegger si rifiuta di presentarsi

come “correttore” dell’essere evitando una caratterizzazione dell’arte in generale e limitandosi a

prendere in considerazione l’opera d’arte come localizzazione storica dell’essere.49 Nonostante il

divario che sussiste tra i due pensatori Heidegger intravede in Nietzsche colui che ha segnato il

destino della metafisica in quanto questa senza la volontà di potenza, di sicuro avrebbe avuto un

altro corso e quei valori che nella filosofia nietzschiana giungono alla trasvalutazione di certo

avrebbero continuato a fungere da fondamento. Questo con Nietzsche non è più possibile ma per

Heidegger, se un filosofo rappresenta il tramonto e il compimento non può contemporaneamente

essere anche espressione del superamento.

47 F. Nietzsche, La volontà di potenza, fr. n. 822 p. 447.[ VIII, XVI, 40].48 Cfr. Moretti 2005 in Metafisica e nichilismo. Löwith e Heidegger interpreti di Nietzsche p. 54.49 Cfr. Moretti 2005, ivi pp. 58-59.

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2.2 L’ebbrezza come stato estetico fondamentale.

«Perché vi sia arte, perché vi sia

un qualunque fare e agire estetico, a tal fine è indispensabile un presupposto fisiologico: l'ebbrezza.

L’ebbrezza deve prima aver accresciuto l’eccitabilità dell’intera macchina: altrimenti non si giunge

all’arte.50 »

L’obiettivo di Heidegger, che lo spinse ad avventurarsi nella difficile interpretazione di Nietzsche,

era quello di comprendere l’essenza della volontà di potenza e quindi, più in generale, mirava alla

conoscenza dell’ente nel suo insieme. Dall’analisi heideggeriana, che è stata qui seguita passo per

passo, è emerso finora che l’arte è la miglior forma della volontà di potenza e che quindi per

comprendere quest’ultima bisogna necessariamente capire come Nietzsche intendesse l’arte. Finora

descritta secondo le caratterizzazioni che le sono proprie di apollineo e dionisiaco, l’arte è risultata

essere il contro-movimento per eccellenza al nichilismo e quindi il punto di partenza per una

trasvalutazione dei valori. Ciò che risulta interessante comprendere e che qui tentiamo di spiegare,

è come di fatto secondo Heidegger possano convivere due modi di esistere dell’arte del tutto

divergenti, contrastanti e incompatibili tanto che a prima vista la posizione di Nietzsche

sembrerebbe insensata e come sostiene Heidegger addirittura nichilistica. Infatti se da un lato l’arte

deve essere concepita come contro-movimento e quindi, di conseguenza, come posizione dei nuovi

valori supremi, dall’altra parte questa deve essere compresa nei termini della fisiologia: due mondi

lontani e stranieri che si tenta di far coesistere, individuando nell’ebbrezza non solo un semplice

stato estetico ma addirittura quello fondamentale, senza il quale non si darebbe arte. Del resto se si

tentasse di comprendere l’arte solo nella sua condizione fisiologica, la sua intera essenza sarebbe

compresa come insieme di stati nervosi che si susseguono, sarebbe come «ridurla al livello del

funzionamento dei succhi gastrici.51»

L’estetica nietzschiana viene definita come fisiologia dell’arte che mira a mostrare quegli stati

dell’uomo in cui il fare e il contemplare artistici si compiono in maniera naturale. A questo

proposito Heidegger, per superare l’ostacolo dell’arte intesa unicamente come condizione

fisiologica, prenderà in considerazione non solo quegli pseudo-aforismi racchiusi nella “Volontà di

potenza” ma farà riferimento anche ad un altro testo nietzschiano dal titolo “Crepuscolo degli idoli”

da cui trarrà la tesi secondo cui è l’ebbrezza a fungere da stato estetico fondamentale. Il concetto di

ebbrezza che compare anche in “La nascita della tragedia” viene affiancato in più luoghi a quelle

forme artistiche, di cui sopra è stata fornita la descrizione, di apollineo e dionisiaco, sebbene in

ultima analisi sarà solo quest’ultimo a trovare corrispondenza nell’ebbrezza. Se infatti nel 50 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, a cura di G. Colli e M. Montinari , Mondadori, Milano 1975, cit. p. 92.51 M. Heidegger, Nietzsche, cit. p. 101.

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“Crepuscolo degli idoli” sia apollineo sia dionisiaco hanno il carattere dell’ebbrezza, dall’analisi

della “Volontà della potenza” l’apollineo verrà piuttosto affiancato alla situazione del sogno mentre

il dionisiaco troverà corrispondenza nell’ebbrezza in riferimento poi al concetto di sessualità in

quanto l’originaria forma di ebbrezza è per l’appunto quella propria della sfera sessuale. Non a

caso il tema della sessualità è molto presente in questa sezione del testo in cui viene analizzata l’arte

come volontà di potenza, in quanto parlando in termini fisiologici «l’istinto creatore dell’artista è il

diffondersi del semen nel sangue…L’aspirazione all’arte e alla bellezza è un’aspirazione indiretta ai

rapimenti dell’impulso sessuale.52» L’ebbrezza ha una forza sublime, trasformatrice e di questo,

secondo Nietzsche, se ne può avere la prova proprio nell’amore, nella sessualità in quanto in

quest’ambito l’ebbrezza si esprime nel modo più chiaro. Tale stato fisiologico, certamente presente

in tutti gli uomini, è però nella figura dell’artista del tutto amplificato e sviluppato: l’ebbrezza è la

sensazione della potenza e in quanto, tale condizione nell’artista risulta essere particolarmente

accresciuta, ne segue necessariamente che «ogni arte aumenta la forza, accende il piacere, eccita

tutti i più sottili ricordi dell’ebbrezza.53»

Riguardo a tutto ciò, Heidegger non solo tenta di comprendere quale sia l’essenza stessa

dell’ebbrezza ma di fatto ciò che a lui interessa maggiormente è capire in che modo e perché

l’ebbrezza sembra essere lo stato estetico fondamentale e inevitabile perché vi sia arte. L’ebbrezza,

definita prima come una condizione fisiologica, diventa ora un sentimento, ovvero il modo in cui

noi in un dato momento ci sentiamo, il modo in cui ci troviamo presso noi stessi e verso gli enti, il

modo in cui molto semplicemente siamo un corpo: «ogni sentimento è un essere corpo in carne e

ossa in una certa disposizione d’animo, è una disposizione d’animo in un certo corpo carne e

ossa.54» Da ciò risulta, quindi, che l’ebbrezza deve essere concepita come un sentimento, ma del

resto se ciò che viene ricercato è la sua essenza, ciò non basta per definirla ma bisogna tener conto

di due aspetti essenziali che la descrivono ovvero, innanzi tutto il carattere del potenziamento e

della forza e in secondo luogo il sentimento della pienezza, laddove questi devono essere intesi non

tanto come un’oggettiva crescita ma piuttosto come una disposizione d’animo. Lo stato di ebbrezza,

opposto a quello di sobrietà e stanchezza, risulta essere quindi quel sentimento di potenza che ci

permette di andare al di là di sé e di rapportarci con l’ente; non è uno stato passeggero e

momentaneo che rapidamente svanisce e non è dunque un affetto; è una disposizione d’animo che

«apre l’esserci facendo sì che salga e si espanda sino alla pienezza delle sue facoltà.55» L’ebbrezza

si manifesta dunque proprio in questa elevazione al di là di noi, e risulta chiaro così il nesso con la

52 F. Nietzsche, La volontà di potenza, fr. n. 805 pp. 435-436. [VIII, VIII, 1].53 Ivi, fr. n. 809 pp. 438-439. [VIII, XIV, 119]54 M. Heidegger, Nietzsche, cit. p. 108.55 Ivi, cit. p. 113.

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questione del bello: il bello è infatti ciò che determina il nostro comportamento nel momento in cui

elevandoci al di là di noi richiediamo alla nostra essenza il massimo, così che dal momento che ciò

accade nello stato di ebbrezza, sarà proprio in questa che il bello si dischiude56 e sarà questo ad

indirizzarci e trasportarci in quello stato così fondamentale per l’arte. L’ambito in cui tale stato si

esprime è quello del fare e del contemplare estetico, da un lato dunque nel recepire le opere d’arte e

dall’altra parte nella loro creazione ad opera dell’artista, che nello stato di ebbrezza produce il bello.

In Nietzsche, ciò che risulta interessante è il fatto che l’interesse per il prodotto dell’arte, per l’opera

risulta in un certo senso secondario, cosa che risulta invece essenziale per Heidegger in quanto è

proprio in questa che si riscontra in modo palese lo stanziarsi dell’essere. Ciò su cui si sofferma

l’analisi nietzschiana è piuttosto la descrizione, per così dire, di quel momento in cui l’artista,

condizionato dall’ebbrezza, viene trasportato al di là di sé e produce. Così se da un lato il creare

viene definito come un semplice atto vitale che agisce su tutti i muscoli del nostro corpo, dall’altra

parte è necessario che l’artista stesso sia in un certo senso “malato”, o meglio che sia dotato di una

specie di ebbrezza abituale nella vita che gli permette di vedere la realtà in un modo più intenso.

Nel “Crepuscolo degli idoli” questo vedere in modo particolarmente energico viene riassunto nel

termine idealizzare che, nell’accezione heideggeriana, perde il suo senso più comune e più noto

secondo cui significa immaginare qualcosa secondo un modello più bello e più nobile della realtà e

viene più semplicemente inteso come un estrapolare i tratti capitali. Se da un lato il creare è proprio

questo dedurre anticipatamente le caratteristiche fondamentali, domando la legge suprema e

distruggendo con l’arte quella “ragnatela” di concetti, dall’altra parte vi è un secondo ambito in cui

l’ebbrezza prende il sopravvento, che è quello di chi contempla e recepisce, uno stato che vive però

solo in funzione del produrre artistico. In effetti se riportiamo alla memoria la seconda tesi sull’arte,

ci rendiamo conto che per Nietzsche l’arte deve essere considerata dalla prospettiva dell’artista e

che di fatto sia l’opera d’arte sia i suoi contemplatori non sono altro che elementi secondari nella

realtà totale dell’arte e che l’estetica nietzschiana si riassume nell’estetica di colui che crea.

«Tutte le cose distinte, tutte le sfumature, in quanto ricordano gli aumenti estremi di energia

generati dall’ebbrezza, risvegliano questa sensazione di ebbrezza: l’effetto delle opere d’arte è

quello di stimolare la condizione che crea l’opera d’arte, cioè l’ebbrezza.57»

Come interpreta bene Heidegger, in Nietzsche l’effetto dell’opera d’arte si esaurisce nel risvegliare

lo stato dell’artista che crea e recepire non significa altro che rivivere quella stessa produzione.

56 Cfr. Heidegger 1994, p. 120. 57 F. Nietzsche, La volontà di potenza, fr. n. 821 p. 446. [VIII, XIV, 47].

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Nonostante sia già stato precedentemente accennato è bene a questo punto chiarire che

l’ebbrezza non è un sentimento fugace che colpisce e se va, non è un’emozione cieca e non è un

semplice sentirsi bene ma si riferisce a tratti capitali, ad una struttura che la anima. Ma che cosa nel

suo essere disposto predispone tale disposizione d’animo? Che cosa permette all’ebbrezza di

manifestarsi? Tale domanda trova risposta, secondo Heidegger nel concetto di forma, la μορφή

greca che fa dell’ente ciò che esso è, quello per cui l’ente si mostra e si espone. La forma delinea

l’ambito in cui l’ebbrezza diventa possibile, l’ambito in cui forza e pienezza si esprimono al

massimo grado: l’ebbrezza non è caos e delirio ma è la chiara vittoria della forma. L’ebbrezza non è

uno stato che dal nulla nasce e in modo disordinato rende possibile quel potenziamento della vita

ma questa vive nell’ambito della forma in un reciproco riferimento con la bellezza, l’una intesa

come disposizione fondamentale e l’altra come ciò che predispone . Nell’avere sensibilità per la

bellezza il soggetto è andato al di la di sé allontanandosi dalla sfera della soggettività, d’altra parte

anche la bellezza non è un semplice oggetto che ci si presenta lì davanti e così, secondo quanto dice

Heidegger, in Nietzsche questa separazione tra soggetto e oggetto viene meno e i due risultano in

una coappartenenza essenziale, determinando insieme l’intero stato estetico.

Al termine di tale capitolo si può dunque concludere che fin dall’età giovanile, Nietzsche si è

sempre occupato di arte, di cui in “La nascita della tragedia” aveva spiegato l’origine e il carattere

con l’uso delle categorie di apollineo e dionisiaco, accostate rispettivamente agli stati del sogno e

dell’ebbrezza dove quest’ultima rappresentava la potenza priva di limiti degli istinti mentre il primo

la moderazione. Se da un lato per Nietzsche dall’unificazione di tali impulsi nasce l’arte tragica,

dall’altra parte è però vero che senza ebbrezza l’arte non risulta affatto possibile. L’ebbrezza di fatto

non è un carattere propriamente artistico ma può tranquillamente riguardare anche altre attività e

circostanze umane, sebbene in ogni caso questa rappresenti il fondamento dell’arte nonostante non

sia essa stessa arte. Sarà del resto Nietzsche stesso ad ammettere l’eterogeneità del carattere

dell’ebbrezza, riportando in un brano del “Crepuscolo degli idoli”58 tutte le situazioni in cui

l’ebbrezza può avere luogo, a partire dall’eccitazione sessuale, che ne è la forma più antica per

giungere all’ebbrezza di una gara, di una festa o di una piena volontà. L’ebbrezza è una forma di

potenziamento e di superamento dei propri limiti più abituali che caratterizzano il nostro essere e

che nel riferimento specifico all’arte non avviene in modo caotico e disordinato ma secondo una

evoluzione. Se lo stato estetico si riducesse all’elemento fisiologico dell’ebbrezza, non si potrebbe

concepire l’arte come contro-movimento ed è proprio per questo motivo che l’ebbrezza finisce per

essere uno stato creatore di forme, l’avvio di un processo che, secondo Heidegger, trova il naturale

compimento nel grande stile.

58 F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, cit. p. 92.18

Ma che cos’è il grande stile?

3. LA QUESTIONE DEL GRANDE STILE

«Dunque tre buone cose fanno parte dell’arte:

eleganza, logica, bellezza; e la cosa ancora migliore:

il grande stile59.»

Come sopra accennato, se da un lato il sentimento dell’ebbrezza sembra ridursi in Nietzsche ad un

oggetto della fisiologia definito come stato estetico fondamentale perché vi sia arte, dall’altra parte

per Heidegger in questo modo l’arte risulterebbe essere non tanto il contro-movimento ma piuttosto

«il movimento capitale ed estremo del nichilismo.60» Proprio per questo motivo per Heidegger

l’ebbrezza deve riferirsi ad una struttura ben definita, ad una forma: l’ebbrezza diventa uno stato

creatore di forme, il cui compimento viene individuato da Heidegger nel grande stile. Quest’ultimo

concetto in Heidegger assume un ruolo superiore persino rispetto allo stesso pensiero nietzschiano,

in quanto vi individua quell’elemento che rende possibile la conciliazione di volontà di potenza ed

eterno ritorno, senza di fatto preoccuparsi che per Nietzsche la definizione di grande stile è in sé il

frutto di un rapporto tra passione ed espressione: il singolo tramite la misura e la semplicità ottiene

il dominio sulle sue passioni.61 Ciò che di fatto Heidegger riesce a cogliere è l’equivalenza che per

Nietzsche esiste tra “grande stile” e “stile classico”: quest’ultimo è definito in base ad una estrema

tranquillità e semplicità62 ed è facile comprendere come per Nietzsche sia proprio lo stile classico e

quindi il grande stile a fare dell’arte la vera arte prendendo già in considerazione un aforisma che in

“Umano troppo umano” compare nell’appendice successivamente aggiunta “Opinioni e sentenze

diverse” in cui viene trattato lo stile barocco. Alla luce di Nietzsche risulta che lo stile barocco,

caratterizzato dall’eccesso delle passioni, nasce per l’appunto con lo sfiorire della grande arte

classica, in cui la combinazione di semplicità, nobiltà e dominio delle passioni sfocia in quella pura

perfezione che è stata conosciuta con l’arte greca. Di fatto è importante comprendere che in

Nietzsche il grande stile non si limita all’ambito artistico ma che si tratta piuttosto di un concetto

che invade l’intero campo antropologico e che di conseguenza avere grande stile significherà

possedere quella calma che favorisce nel singolo individuo il dominio sui propri istinti. Proprio

59 Heidegger, Nietzsche, cit. p. 130.60 Heidegger, Nietzsche, cit. p. 101.61 Cfr. Gentili 2001, p. 104.62 Cfr. Gentili 2009, p. 265.

19

«delle nature forti e dominatrici», il grande stile si avvicina, in questo modo al concetto

nietzschiano di volontà di potenza, tanto che sarà lo stesso Nietzsche a sostenere in un passo del

“Crepuscolo degli idoli” che «il senso supremo della potenza e della sicurezza prende espressione in

tutto ciò che ha grande stile.63» La stessa teoria verrà espressa da Nietzsche in un altro frammento

inserito nella “Volontà di potenza” dal titolo “La musica e il grande stile”, la cui notorietà è dovuta

all’importanza attribuitogli da Heidegger. In questo frammento, Nietzsche si chiede perché di fatto

la musica, a differenza delle altre arti non ha raggiunto il grande stile giungendo alla conclusione

che la musica risulta già per sua natura arte della decadenza, il cui apice è riscontrabile nel

Romanticismo, tanto che sarà proprio Wagner ad essere considerato l’ultimo grande romantico,

lontano da quel gusto severo proprio della classicità.64 Risulta chiaro, dunque, che in Nietzsche il

grande stile ha il compito di far rivivere l’ideale greco, senza limitarsi però alla sola sfera artistica

ma piuttosto esprimendosi come dominio sulla pienezza della vita così da poterne godere nel

migliore dei modi.

In Heidegger tale frammento nietzschiano risulta particolarmente importante perché individua

in quella contrapposizione tra classico e romantico, tra “attivo” e “reattivo” ( « […] romanticismo-

ancora una volta un movimento di reazione contro la classicità») teorizzata da Nietzsche, la

contrapposizione tra essere e divenire, la cui combinazione e coappartenenza sfocia nel grande stile.

Quest’ultimo, in quanto consiste nel pensare in un’unica unità essere e divenire, pone l’identità di

volontà di potenza ed eterno ritorno.65 Il concetto di grande stile assume dunque un valore primario

in Heidegger proprio perché rappresenta la conciliazione di quelle due dottrine nietzschiane, nella

cui dimostrazione appaiono evidenti alcuni elementi di chiara matrice jüngeriana. Di fatto, come già

accennato precedentemente, l’influenza che Jünger ha avuto su Heidegger è stata per quest’ultimo

determinante per la comprensione della metafisica nietzschiana tanto da rappresentare addirittura il

tentativo di attualizzare Nietzsche.66 In realtà se si prende in considerazione il frammento

nietzschiano dal titolo “Musica e grande stile” in cui il grande stile viene definito come un

“diventare padroni del caos che si è”, la vicinanza con il concetto di regola di Jünger diventa

abbastanza palese, in quanto il grande stile sembra proprio essere la medesima cosa della

Herrschaft jüngeriana. Al di là di ciò, Jünger ha più volte parlato di stile, individuandolo nello

scritto “Oltre la linea” come «lo strumento in grado di avviare il superamento del nichilismo67»: in

Jünger lo stile finisce per essere un elemento che oppone resistenza facendo leva proprio su

63 Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, af. 11 p. 9464 Cfr. Gentili 2001, cit. pp. 107-108.65 Ibidem.66 Cfr. Gentili 2009 in Martin Heidegger trent’anni dopo, cit. p. 267.67 C. Gentili, Heidegger tra Nietzsche e Jünger: la questione del “grande stile” in Carlo Gentili (a cura di), Martin Heidegger trent’anni dopo, Il melangolo 2009, cit. p. 269.

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quell’elemento interno al nichilismo stesso che è per l’appunto lo stile del nichilismo, caratterizzato

dall’omologazione e dalla mancanza del meraviglioso. Il nichilismo finisce per diventare esso

stesso uno stile, che si può superare solo percorrendo la via ad esso interna. 68 Alla luce di quanto

detto, considerando l’importanza che Jünger ha avuto per Heidegger si può comprendere

l’interpretazione che quest’ultimo offre del concetto di grande stile: «la via sulla quale Heidegger

cercherà la via d’uscita al nichilismo attraverso la definizione della sua essenza.69»

Ritornando, infatti, al “Nietzsche” di Heidegger risulta chiaro come di fatto quest’ultimo non

faccia altro che usare quella contrapposizione che Nietzsche sembra sostenere tra classico e

romantico e attivo e reattivo. In uno pseudo-aforisma della “Volontà di potenza” Nietzsche scrive: «

dietro al dissidio fra classico e romantico non si cela forse il dissidio fra l’attivo e il reattivo? 70»,

dando ad Heidegger lo spunto per interpretare questa contrapposizione alla luce di un’altra, alla

prima intersecata, che è quella di essere e divenire. Secondo Heidegger, infatti, l’esigenza del

divenire e quindi del cambiamento può scaturire non solo come espressione della forza (dionisiaco)

ma nascere anche dal sentimento dell’insoddisfazione; così allo stesso modo anche l’esigenza

dell’essere può derivare sia dal sentimento di pienezza e gratitudine per ciò che si possiede, sia

come aspirazione alla libertà della sofferenza (romanticismo). Così secondo Heidegger lo stile

classico non può essere considerato né come semplicemente attivo, al pari del puro dionisiaco, né

come semplice desiderio di essere, proprio del pessimismo romantico wagneriano, ma si deve per

forza rinviare al concetto di grande stile che anche attraverso le parole stesse di Nietzsche sembra

coincidere con l’arte classica. Di fatto nell’interpretazione heideggeriana “grande stile” e “stile

classico” sembrano essere la stessa cosa solo in un primo momento, in quanto successivamente

verranno descritti in un rapporto di sola affinità: se lo stile classico è per lo più definito in base al

concetto di sussistenza e stabilità, secondo Heidegger il grande stile è invece «la volontà attiva di

essere, e precisamente in modo da superare e conservare in sé il divenire. 71» In Heidegger, dunque,

il grande stile sembra essere il sentimento sommo della potenza e solo dove l’eccedenza, la

pienezza e il dispiegarsi dell’essere si sottopongono volontariamente alla legge della semplicità,

solo dove vi è quella calma che mantiene e conserva in un’unica unità gli opposti (essere e

divenire), solo in questi casi vi è volontà di potenza e nel grande stile così l’essenza dell’arte

diviene reale.

68 Cfr. Gentili 2009, cit. p. 270.69 Ivi, cit. p. 276.70 Nietzsche, Volontà di potenza, fr. 847 p. 459. [VIII, XI, 112]71 Heidegger, Nietzsche, cit. p. 140.

21

Giunti a questo punto del cammino intrapreso da Heidegger, risulta decisamente più facile

comprendere la tesi che quest’ultimo ha sostenuto, interpretando le parole di Nietzsche, secondo

cui l’arte sembra essere la forma somma della volontà di potenza, e quindi il carattere fondamentale

dell’ente; sebbene non sia ancora stato trattato un argomento di massima rilevanza che ha

decisamente impegnato Heidegger che è quello del rapporto che sussiste tra arte e verità. Se, in

effetti, consideriamo la prima tesi, secondo cui l’arte è la forma più nota della volontà di potenza, la

sua fondazione risulta più chiara alla luce del concetto di ebbrezza: l’arte, infatti, è innanzi tutto uno

stato umano che ci è così noto non solo perché è il frutto della nostra stessa produzione ma

soprattutto perché trae realtà dall’ebbrezza, uno stato fisiologico del corpo. Il fondamento dell’arte

risulta proprio questo stato di ebbrezza, concepito da Heidegger come stato estetico fondamentale

che consiste nel fare e nel recepire ciò che noi stessi compiamo e che è proprio quella «dimensione

trasparente attraverso la quale costantemente vediamo, in modo che tutto diventa per noi

perscrutabile. L’arte è la forma più trasparente della volontà di potenza.72»

La dimostrazione del fatto che poi in Nietzsche si parli piuttosto di un’estetica maschile e quindi di

un’arte che deve essere compresa dalla prospettiva dell’artista si ottiene nel momento in cui si

definisce la volontà di potenza come autoaffermazione e quindi come un costante e continuo creare:

di certo, dunque, prendendo in considerazione l’attività produttrice sarà più facile accedere alla

conoscenza della volontà di potenza. I problemi nascono nel momento in cui si definisce l’arte

come l’accadere fondamentale di ogni ente, tesi che risulta al momento del tutto infondata. In

effetti, l’arte sembra che detenga tale primato solo in base a ciò che viene sostenuto con la quinta

tesi in cui si afferma che l’arte vale più della verità. Con verità si intende, ovviamente il vero ente,

ciò che l’ente è in sé e se in Platone con “vero ente” si identificava il soprasensibile, con Nietzsche

quest’ultimo cede il posto al sensibile ed essendo l’arte qualcosa di sensibile di certo avrà più valore

e sarà quindi definito come l’accadere fondamentale. La quinta tesi, che si occupa del rapporto tra

arte e verità, sembra essere il presupposto non solo della terza tesi ma anche della quarta in cui

l’arte è definita come contro-movimento al nichilismo, al «platonismo che pone il soprasensibile

come vero ente.73»

Ma, dunque, che cos’è la verità?

4. TRA ARTE E VERITÀ.

72 Heidegger, Nietzsche, cit. p. 144.73Ivi, cit. p. 147.

22

Per comprendere il rapporto che esiste tra arte e verità è necessario, certamente sapere quale sia

l’essenza della verità, in che modo Nietzsche intendesse la verità e perché di fatto considerasse tale

relazione come “una discrepanza che suscita sgomento”. Alla luce di queste parole, Heidegger

riprende l’argomento, che già anche lui stesso aveva affrontato in “L’origine dell’opera d’arte”,

partendo dal presupposto che le parole possono avere innanzi tutto significati diversi e bisogna

dunque considerare il fattore della polisemia; in secondo luogo si devono comprendere quei termini

fondamentali (verità, arte, conoscenza) come storici. Il concetto della storicità delle parole si lega

necessariamente a quell’ambito decisionale a cui Heidegger si interessò: la scelta del significato

non può mai essere lasciata al semplice arbitrio ma al contrario quella parola scelta per indicare una

data essenza nominata rientrerà nell’ambito del sapere, ed è proprio in questo senso che Heidegger

parla di decisione storica. Detto ciò, tornando al concetto di verità emerge il fatto che si possa

parlare ugualmente di verità intesa nel significato che non ammette plurali e quindi come essenza

del vero, oppure non come essenza del vero bensì come tante verità, dall’altra parte bisogna però

ammettere che «l’essenza, in questo caso l’essenza del vero che rende tale ogni cosa vera, è ciò che

è valido per i molti e in universale.74» A questo punto risulta chiaro che ciò che distingue l’essenza è

proprio il carattere di universalità che gli è proprio e che di fatto tutte le singole cose e proposizioni

vere non fanno altro che cadere sotto il carattere universale dell’essenza. In Nietzsche sembra

mancare una vera e propria riflessione sull’essenza della verità e nonostante riconoscesse in questa

una vera e propria menzogna e un orrore e ridimensionasse il concetto di verità assoluta

riconducendolo, invece a quello di prospettivismo, bisogna ammettere che tentò in ogni caso di

definirla: alla luce di Heidegger, Nietzsche riconosce come essenza della verità il vero

identificandolo come il vero ente, ciò che è reale e che può essere conosciuto come tale.

Abbiamo visto che Nietzsche si allontana da quella tradizionale concezione platonica che

identificava nel vero ente le idee: nel platonismo ciò che vi è di più reale è il mondo sopra-sensibile,

di cui ogni cosa è la rappresentazione e quindi conoscere non significa altro che commisurarsi,

rappresentandolo, al sopra-sensibile. Di fatto in Nietzsche viene meno il primato del mondo sopra-

sensibile e di conseguenza la conoscenza del vero ente rimane legata a quella sensibilità in cui l’arte

regna sovrana. Ci si trova, in entrambi i casi davanti a due mondi apparentemente distanti: l’uno è

quello dell’arte, concepita da Nietzsche come un creare e un produrre riferito alla bellezza, l’altro,

quello della conoscenza scientifica, il cui oggetto è per l’appunto la verità. Ma in che misura questi

due ambiti entrano in rapporto? Perché la relazione tra arte e verità è per Nietzsche una

discrepanza?

74 Heidegger, Nietzsche, cit. p. 151.23

Come ricorda Heidegger fu Nietzsche stesso ad anticipare la sua successiva posizione

filosofica considerando la sua filosofia come platonismo rovesciato75 già in un frammento degli

anni 70, riuscendo bene, nonostante la sua giovane età a definire il centro della sua filosofia:

secondo il platonismo, il mondo sensibile è apparenza, è il luogo della menzogna, dei sensi che ci

ingannano e che finisce necessariamente per non essere il luogo della verità. Mentre nel platonismo,

l’arte risulta collocata a due gradini dalla verità in quanto imitazione del mondo sensibile, a distanza

di circa duemila anni sarà proprio Nietzsche a compiere quel gesto rivoluzionario rivalutando il

mondo sensibile e definendolo il vero mondo. Riguardo la questione dell’estetica è chiaro vedere

anche come per Heidegger, che sembra molto più vicino a Nietzsche piuttosto che alla filosofia

platonica, il fine dell’arte non è quello di imitare la realtà ma è piuttosto quello di disvelarne

l’essenza. Se prendiamo, per esempio, in considerazione un passo del saggio “L’origine dell’opera

d’arte” in cui Heidegger per sintetizzare la sua teoria estetica analizza un disegno di Van Gogh in

cui è rappresentato un paio di scarpe, si comprende che l’arte è certamente una res ma

differentemente dalle semplici cose non è un mezzo e non ha dunque una funzione pratica ma funge

piuttosto da intermediario tra le cose-mezzo (il mondo) e l’essere (la terra). La cosa che nel mondo

viene riconosciuta per il suo valore d’uso, nell’opera d’arte disvela il mondo a cui appartiene, il suo

essere-cosa. Nel più diretto riferimento all’opera di Van Gogh sopra citata è, per Heidegger, come

se le scarpe venissero per così dire estratte dal loro mondo, nel quale hanno unicamente un valore

d’uso e riportate nell’opera d’arte come testimoni, divenendo disvelatrici di quel mondo contadino

che rappresentano, portatrici di quell’essenza e di quella verità.76

Ritornando alla filosofia nietzschiana si può ben vedere come quel rovesciamento del

platonismo attuato da Nietzsche assume la forma di un rovesciamento gerarchico in cui non è più il

sensibile ad essere commisurato al sopra-sensibile ma è al contrario quest’ultimo che si pone al

servizio del primo che viene concepito, dunque, come il vero ente, come la verità. Tale teoria

sembra a prima vista affine alla dottrina positivistica in cui il parametro di conoscenza era per

l’appunto ciò che ci veniva dato tramite sensazioni e dunque tramite il sensibile; nonostante ciò è

proprio Heidegger a negare che il pensiero nietzschiano possa essere considerato positivista

considerando questa un’interpretazione affrettata ed ingenua. In effetti se si considera Nietzsche e si

analizzano i motivi che lo hanno portato ad un confronto, anche del tutto necessario, con il

platonismo teorizzandone poi il suo rovesciamento si comprende che «l’esperienza fondamentale di

Nietzsche è la crescente cognizione del fatto fondamentale della nostra storia. Esso è per lui il

nichilismo.77»

75 Cfr. Heidegger 1994, cit. p. 157.76 Cfr. Heidegger 2000, pp. 55-71.77 Heidegger, Nietzsche, cit p. 159.

24

Del resto se si analizza la filosofia nietzschiana si può facilmente comprendere come questa

ruotasse interamente intorno alla necessità di una trasvalutazione dei valori supremi: il nichilismo è

un evento storico che segna la svalutazione dei valori, che si concretizza, poi, nella sentenza

nietzschiana “Dio è morto”, è quell’esperienza fondamentale che rende comprensibile la filosofia

nietzschiana come platonismo rovesciato. Il collegamento tra nichilismo e platonismo sembra

essere abbastanza palese ed è proprio alla luce di questa nuova interpretazione del platonismo che si

comprende la filosofia di Nietzsche come rovesciamento: la dottrina delle idee fondava il primato

del sopra-sensibile, interpretato come il vero ente e stando a ciò che Heidegger riporta nel

“Nietzsche” nel platonismo viene riconosciuto «il fondamento iniziale e determinante della

possibilità dell’avvento del nichilismo, del dire no alla vita.78» In questo modo il rovesciamento del

platonismo non è una semplice sostituzione di prospettiva ma consiste in primo luogo

nell’eliminazione di quel primato che il sopra-sensibile ha detenuto per secoli ed è proprio nel

tentativo di questo smantellamento che Nietzsche si chiede nuovamente “che cos’è l’ente?”

individuando la risposta non più nel sopra-sensibile, ovvero in ciò che l’ente deve essere ma

piuttosto in ciò che l’ente stesso è, ovvero il sensibile. Stando a tale ragionamento e stabilito il

sensibile come vero ente, è chiaro che l’essenza della verità che si stava ricercando deve essere

compresa a partire dal superamento del nichilismo, il cui contro-movimento era già stato

individuato nell’arte: verità e arte sembrano essere indirizzati verso la stessa prospettiva in quanto

creare e conoscere mirano entrambi «a salvare e a dare forma al sensibile79» ed è proprio alla luce di

ciò, che per Nietzsche il loro rapporto risulta essere una “discrepanza che suscita sgomento”.

4.1 Platone e Nietzsche alla luce di Heidegger.

In base a quanto detto finora, la riflessione sull’arte risulta essere particolarmente differente in

Platone e in Nietzsche dal momento che in quest’ultimo essa viene definita come affermazione del

sensibile mentre nel pensiero platonico viene più volte messo in evidenza il primato del mondo

sopra-sensibile in cui per l’arte non vi è posto. Dalle parole di Platone si può in effetti trarre la

conclusione che verità e arte appartengono a due mondi diversi che necessariamente vivono in un

rapporto di reciproca esclusione, cosa che invece in Nietzsche non dovrebbe presentarsi dal

momento che i due elementi si dovrebbero completare per far fronte all’obiettivo comune di “dare

forma al sensibile”. Eppure è proprio Nietzsche a parlare di discrepanza, sebbene questa sia

maggiormente possibile nella filosofia platonica, vista la lontananza tra i due ambiti. Dal dialogo

78 Ivi, cit. p. 162.79 Ivi, cit. p. 164.

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“La Repubblica” emerge, come anche Heidegger ricorda, la visione politica dell’arte, sebbene una

più completa riflessione sulla questione del bello si ritrovi nel “Simposio” e nel “Fedro”. Di fatto

Platone non fa altro che inserire la questione dell’arte nel dialogo sullo Stato solo ed esclusivamente

per descrivere non tanto una formazione statuale già esistente ma piuttosto per fondare i principi

che andranno a caratterizzare una retta partecipazione alla comunità. Ne consegue che anche in

questo dialogo, che sembrerebbe essere del tutto estraneo alla riflessione sul bello e sull’arte,

quest’ultima non tanto risulta essere inoperosa ma rientra comunque nell’ambito della mimesi, da un

lato recando pur sempre con sé il pericolo della menzogna e dall’altra parte essendo priva di un

riferimento determinante al vero ente.80Anche in Platone l’essenza dell’arte viene definita in base al

suo rapporto con il vero ente e quindi con la verità, ma a differenza di Nietzsche in questo caso

l’arte non è altro che il frutto di un’imitazione, cosa su cui Platone si sofferma ulteriormente anche

al termine della “Repubblica” in cui espone il famoso mito della caverna per sostenere, ancora una

volta, il carattere del tutto illusorio non solo della realtà sensibile ma ancor di più della sua

riproduzione. Del resto sembra strano che proprio questa degradazione dell’arte trovi riscontro nella

filosofia di Platone in quanto, come sostiene Heidegger furono proprio i Greci che «affermarono e

fondarono l’arte come quasi nessun altro popolo occidentale81», tesi che tra l’altro anche lo stesso

Nietzsche sosteneva, riscontrando proprio nella grande arte greca l’unione di apollineo e dionisiaco

e individuandone quel carattere di calma e semplicità che andava a concretizzare il grande stile. Del

resto, è però vero che bisogna considerare il motivo e il contesto che hanno portato Platone ad

affermare una tale scissione tra arte e verità soprattutto per comprendere in quale misura anche per

Nietzsche esistesse una così forte divergenza tra i due ambiti nonostante alla luce di Heidegger

questa non risultasse nemmeno possibile, visto lo scopo comune che accumunava arte e

conoscenza. D’altronde non bisogna nemmeno dimenticare l’eco schopenhaueriano dal momento

che il debito di Nietzsche nei confronti di quest’ultimo c’è ed è anche abbastanza rilevante,

nonostante in Heidegger sia palese il tentativo di allontanare e differenziare i due pensieri. Se si

prende, per esempio, in considerazione un passo del “Mondo come volontà e rappresentazione” in

cui Schopenhauer scrive: «l’arte è la specie di conoscenza in cui è contemplata la vera essenza del

mondo nel suo sussistere all’infuori e indipendentemente da ogni relazione […], una conoscenza in

cui sono contemplate le idee, che sono l’oggettività immediata e adeguata della cosa in sé, della

volontà82», la vicinanza con il pensiero nietzschiano risulta abbastanza chiara. Infatti sebbene le

svariate sfumature presenti, come per esempio il riferimento alla contemplazione delle idee, di cui

80 Cfr. Vegetti 2011 in Umberto Eco (a cura di) La grande storia: l’antichità, vol. 5, cit. pp. 310-320.81 Heidegger, Nietzsche, cit. p. 165.82 Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit. p. 211-213.

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Nietzsche non parlava affatto, anche in Schopenhauer l’arte permette di giungere alla conoscenza

dell’essenza del mondo, di quella volontà che in Nietzsche diventa volontà di potenza.

Detto ciò, è bene tornare all’analisi della filosofia platonica per comprendere il motivo che

spinse Nietzsche a definire la sua filosofia come platonismo rovesciato e soprattutto per

comprendere perché la relazione tra arte e verità sia una discrepanza. Tornando al dialogo “La

Repubblica” risulta chiaro che quel rapporto tra arte e verità, in Platone non sia tanto una

discrepanza ma si tratti piuttosto di una distanza in quanto Platone non fa altro che porre l’accento

sulla subordinazione dell’arte alla verità. Di fatto nella filosofia platonica ogni forma di

riproduzione, compresa quella dell’artigiano che fabbrica, è una forma di imitazione: nel produrre

non si fa altro che guardare ad un modello da imitare, ad un’idea e di conseguenza «ciò che viene

fabbricato è, poiché l’idea lo fa essere e solo in questo senso ciò che viene fabbricato può essere

detto ente.83» In questa gerarchia teorizzata da Platone, già la realtà sensibile ha una posizione di

subordinazione rispetto a quel mondo puro delle idee, già il falegname che costruisce non è altro

che un imitatore e quindi di conseguenza è facile dedurre, partendo da questo assunto, che all’arte

spetta di certo un posto di ancora minor rilievo, in quanto questa non produce in modo svelato il suo

oggetto. Il modo di produrre dell’artista risulta così molto lontano dall’idea, dall’essere dell’ente,

ancor più di quanto lo sia la produzione di un artigiano: ciò che produce il pittore, per esempio, non

è altro che una visione. Nella filosofia platonica si riscontra l’opposto di quel che poi sosterrà

Nietzsche; se per quest’ultimo era l’arte a valere decisamente più della verità, per Platone l’arte vive

in un rapporto di netta distanza e subordinazione rispetto alla verità. Secondo quanto dice

Heidegger, non si può parlare però di discrepanza in quanto tra i due elementi non vi è disaccordo,

non vi è alcun tipo di divergenza o contrasto, ma vi è piuttosto lontananza.

Se per Heidegger a prima vista tale discrepanza in Platone non si presenta affatto, attraverso

un’analisi più accurata, riconosce che in realtà questa possa celarsi dietro la tesi secondo cui la

verità vale più dell’arte. D’alta parte si deve necessariamente parlare di una discrepanza

“rovesciata” rispetto a quella a cui fa riferimento Nietzsche e quindi di conseguenza deve essere una

discrepanza la cui origine si possa rintracciare proprio nella co-appartenenza in quanto in questo

caso «l'essere l'uno contro l'altro è scaturito dal divergere di ciò che converge.84» D’altra parte è

però vero, che se da un lato il concetto di discrepanza può sembrare ambiguo, in quanto questa

traendo origine da una divisione può sfociare sia in una consonanza sia nella più completa

lacerazione, dall’altra parte sembra Heidegger a rintracciare in Platone una discrepanza esistente tra

arte e verità per comprendere poi la filosofia nietzschiana, piuttosto che lo stesso Platone. Infatti

come dice lo stesso Heidegger, perché vi sia discrepanza, arte e verità dovrebbero essere equiparate 83 Heidegger, Nietzsche, cit. p. 17584Ivi, cit. p. 185.

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e di conseguenza l’arte dovrebbe essere elevata allo stesso rango della verità, una possibilità questa,

che nella filosofia di Platone viene negata dal momento che l’arte vive con la verità in un rapporto

di subordinazione e lontananza. Sembra come se Heidegger in questo tentativo accantonasse, per

così dire, ciò che è emerso dalla “Repubblica” solo per giustificare quella discrepanza che tanto

impauriva Nietzsche, e andasse a ricercare nel “Fedro” platonico il modo di rintracciare quella

discrepanza di cui in realtà Platone non parlava esplicitamente. In effetti, è vero che Platone in

questo dialogo affronta il tema della bellezza definendola come la seconda via (la prima è la

filosofia) che ci permette di tornare a quello stato primordiale in cui l’anima umana aveva raggiunto

l’iperuranio. Questa teoria, che viene esposta con il mito della biga alata viene ripresa da Heidegger,

che da un lato comprende che nella filosofia platonica l’essere può essere colto solo in modo

confuso e impreciso attribuendo, però, alla bellezza uno status privilegiato, ma dall’altra parte non

accenna affatto all’essenzialità dell’Eros di cui parlava Platone. Secondo quest’ultimo infatti la

ricerca della conoscenza si unisce alla pulsione amorosa: Eros, che è desiderio di bellezza diventa

nella più alta accezione una forza che guida la mente razionale alla conoscenza della filosofia, alla

conoscenza della verità. In Heidegger il rimando alla questione di Eros scompare ed interpreta il

bello come ciò che più affascina l’uomo, che lo rapisce e lo trasporta alla vista dell’essere: «quanto

più la sembianza viene percepita splendente, lucente, tanto più vi appare lucente ciò di cui essa è

sembianza: l’essere.85» Da ciò consegue che il bello rende possibile conservare la vista dell’essere

partendo proprio dalla sensibilità, dall’immediata sembianza: poiché poi la vista dell’essere altro

non è che «l’apertura del velato nello svelato, il rapporto fondamentale con il vero 86», bellezza e

verità sembrano essere riferite alla medesima cosa che è l’essere, vivendo tra loro in un rapporto di

reciproca appartenenza con l’obiettivo comune di rendere manifesto l’essere.

Nonostante tale co-appartenenza, verità ed arte rimangono pur sempre due cose distinte in quanto

quest’ultima mantiene in ogni caso il suo legame con la sensibilità ma la divisione che permane,

questa discrepanza di cui fin qui si è argomentato, per Platone non suscita sgomento ma piuttosto

rende felici in quanto nella loro divisione prevale l’accordo. Si spiega così, secondo Heidegger, il

motivo che ha condotto Nietzsche a definire la sua filosofia un platonismo rovesciato: se infatti in

Platone si parla di discrepanza che rende felici, nella filosofia nietzschiana necessariamente la

medesima discrepanza deve suscitare sgomento.

«La verità non è più il criterio supremo del valore, e ancor meno la potenza più alta. Qui la volontà di apparenza, di illusione, di inganno, del divenire e del variare è considerata come più profonda,

85 Ivi, p. 194.86 Ivi, p. 197.

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più originaria, più metafisica della volontà di verità, di realtà, di essere – quest’ultima, anzi, è semplicemente una forma della volontà di illusione.87»

Alla luce di quanto detto finora si può, dunque sostenere che verità e bellezza, sebbene in modo

diverso, sono entrambe riferite all’essere in quanto la prima senza farsi coinvolgere nel sensibile, è

il modo più diretto dello svelamento dell’essere; la seconda partendo dal sensibile in cui è inserita

trasporta fino all’essere. Secondo quanto dice Heidegger, perché il rovesciamento del platonismo

potesse essere attuato non bastava semplicemente che Nietzsche invertisse, per così dire, la

gerarchia che poneva al livello più alto il sopra-sensibile assegnando il primato alla realtà sensibile,

ma era necessario che quel mondo ideale considerato “vero mondo” venisse eliminato causando

così anche la caduta del mondo apparente. Del resto però bisogna ammettere che se si pensa alla

filosofia platonica e quindi alla tanto ribadita questione dei due mondi, uno vero e uno illusorio e

apparente, sembra che Heidegger così come Nietzsche, non abbia tenuto conto della figura del

filosofo come intermediario teorizzata da Platone. Infatti, se in un primo momento la teoria delle

idee sembrava dar luogo a due mondi articolati al loro interno ma rigorosamente separati e non

comunicabili, successivamente con il famoso mito della caverna Platone affida al filosofo il

compito di permettere la comunicazione tra queste due distinte realtà.88In Platone sembra così

scomparire la presenza di due mondi distinti, in favore di un’unica realtà in cui il filosofo funge da

intermediario tra due diversi gradi di conoscenza: un’interpretazione della filosofia platonica su cui

lo stesso Vegetti, che ne ha parlato nel suo testo “Quindici lezioni su Platone” pone un punto

interrogativo.

Tornando invece all’oggetto della nostra questione, Heidegger sostiene che ciò di cui

Nietzsche parlava non era tanto una vera e propria abolizione del mondo sensibile quanto piuttosto

la sua affermazione: infatti se si eliminassero sopra-sensibile e sensibile ci si troverebbe dinnanzi al

puro nulla in quanto la loro unione costituisce di fatto l’ente nel suo insieme. Dunque ciò che

Nietzsche intende fare è certamente l’eliminazione di quella gerarchia teorizzata da Platone, è

certamente l’abolizione di quel “mondo vero”, ma si tratta più chiaramente di una trasformazione

che respinge il platonismo in favore di una nuova interpretazione della sensibilità.

Il problema della verità, che trova i suoi momenti essenziali nel platonismo e nel cristianesimo in

Nietzsche trova soluzione con il concetto di prospettivismo: secondo quanto Nietzsche dice è infatti

proprio il carattere prospettico ad essere condizione fondamentale di ogni vita.89 Attenendosi

all’interpretazione heideggeriana fornita nel “Nietzsche”, si comprende che il sensibile cessa ora di

essere mera apparenza e diventa, al contrario, verità, unica realtà, di cui certamente fa però parte 87 Nietzsche, La volontà di potenza, fr. n. 853.3 pp. 465-466. 88 Cfr. Vegetti 2003, pp. 169-172.89 Cfr Heidegger 1994, cit. p. 208-209.

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anche la parvenza. In realtà, Nietzsche in più testi ha tentato di chiarire come di fatto quella che

viene concepita come una verità stabile e fissata non è altro che parvenza, in quanto è l’essere

vivente stesso che considera ciò che appare nel suo orizzonte prospettico come vero ente. Il vero

finisce, dunque per non essere altro che sembianza, un’illusorietà che d’altronde è parte della realtà

come fosse una condizione necessaria dell’affermazione della vita in quanto la verità finisce per

essere considerata da Nietzsche come un errore, una menzogna senza la quale l’uomo non potrebbe

vivere affatto. Quasi paradossalmente la parvenza, intesa in termini nietzschiani, finisce per

diventare l’unica realtà, in quanto l’essere reale è in sé prospettico, è come dice Heidegger « un

portare alla luce, un far apparire». Giungiamo proprio ora a comprendere in che modo l’arte si

inserisce all’interno di questo percorso e in che modo soprattutto essa valga più della verità: lo

scopo dell’arte è quello di portare alla luce la realtà e di rappresentarla; è la più autentica volontà di

parvenza che porta al potere la vita, permettendole di elevarsi e svilupparsi, la verità al contrario è

una sembianza che di volta in volta viene fissata trattenendo la vita su una determinata prospettiva.

Da ciò risulta necessariamente che «l’arte come trasfigurazione potenzia la vita più di quanto non

faccia la verità come fissazione di una sembianza.90» A questo punto Heidegger sembra

comprendere il motivo per il quale il rapporto tra arte e verità provoca in Nietzsche sgomento: in

realtà da quanto è emerso finora, arte e verità sembrano essere modi dell’apparire prospettico quindi

se da un lato il vivente per essere reale deve restare nella sua stabilità e dunque nella parvenza della

verità, dall’altra parte deve allo stesso modo elevarsi, andare al di là di sé in quanto il carattere

fondamentale di tutto ciò che è, è per l’appunto volontà di potenza. Arte e verità sembrano entrambe

necessarie per la realtà e sta proprio in questo l’aspetto problematico del loro rapporto: se da un

lato, infatti l’arte è la forma suprema della volontà di potenza, dall’altra parte quest’ultima in quanto

carattere fondamentale dell’ente deve da un lato essere qualcosa di stabile ma dall’altra parte reca

con sé anche il carattere del divenire e del continuo cambiamento. È proprio alla luce di questo

pensiero che Heidegger continuò a sostenere l’inscindibilità di volontà di potenza ed eterno ritorno,

facendo soprattutto riferimento ad un frammento che viene riportato anche in “La volontà di

potenza” in cui Nietzsche sostiene che la “suprema volontà di potenza” consista “nell’imprimere al

divenire il carattere dell’essere” come se di fatto, con il concetto di volontà di potenza, Nietzsche

pensasse l’unità dell’antica antitesi di essere e divenire.

In realtà l’interpretazione heideggeriana che vede il senso complessivo della filosofia di Nietzsche

proprio nell’unione di essere e divenire è un’eccezione dal momento che alla luce di ciò che

Nietzsche ha scritto a riguardo, le due teorie sembrano inconciliabili. Da un lato la volontà di

potenza con il suo spirito di affermazione che si basa sulla necessità di un continuo superamento si

90 Ivi, cit p. 211.30

pone in netto contrasto con la situazione di un eterno ritorno, dall’altra parte se si considera

quest’ultima come la teoria fondamentale di Nietzsche, di certo non si può ammettere l’idea di

cambiamento che sta a fondamento della dottrina della volontà di potenza. Il fatto che la filosofia

nietzschiana dovesse assumere la forma di un sistema era per Heidegger una necessità in quel

compimento della metafisica che di fatto rappresenta, e dal momento che Nietzsche è “naufragato”

nel portare a conclusione questo compito dimostra per Heidegger che tale compimento è stato

condotto al suo estremo e che è ora possibile pensare un nuovo inizio.91

CONCLUSIONE

Come già sostenuto la figura nietzschiana viene più volte annullata dai tentativi di Heidegger di

dimostrare la sua tesi e in effetti come sostiene Müller-Lauter se considerassimo l’interpretazione

heideggeriana dal punto di vista nietzschiano, questa risulterebbe del tutto inaccettabile.92D’altronde

è però vero che Heidegger aveva più volte affermato di non interessarsi tanto all’autentico pensiero

di Nietzsche ma di considerare piuttosto “la cosa in questione in Nietzsche”, per identificare in

quest’ultimo il filosofo del compimento della metafisica, il filosofo che l’ha condotta al suo

estremo. Così facendo, consegue quasi necessariamente che il pensiero heideggeriano trapassi

inavvertitamente in quello di Nietzsche, tanto che si possono ritrovare in Nietzsche, i pensieri di

Heidegger così come allo stesso modo si potrebbe considerare Heidegger un seguace di Nietzsche.

Confrontarsi con quello che Heidegger definisce l’ultimo pensatore della metafisica equivale a

confrontarsi con “il pensiero occidentale fino ad oggi” per tentare di decostruirne la totalità: la

svolta heideggeriana consiste nel passaggio dalla rifondazione della metafisica alla decostruzione e

oltrepassamento della metafisica stessa. Come mostra il “Nietzsche” di Heidegger, tale

decostruzione si avvia proprio a partire dall’estetica in quanto interpretando l’arte in termini

fisiologici Nietzsche porta la metafisica al suo esaurimento in quanto “platonismo rovesciato”.

Seguendo ciò che finora è stato trattato, si può concludere che di fatto sembra essere Heidegger

stesso a compiere un passo ulteriore facendo entrare in scena l’arte e la conoscenza quali

articolazioni fondamentali della volontà di potenza. Arte e verità, in breve, non sono altro che le due

forme in cui la volontà di potenza si esprime: da un lato le condizioni di accrescimento della vita,

che si risolvono nel continuo divenire riguardano l’arte; le condizioni di conservazione della vita,

ovvero l’essere, riguardano al contrario la verità. Per Heidegger non risulta difficile comprendere il

rapporto tra arte e verità, che suscitava invece sgomento in Nietzsche, in quanto la complessità

91 Cfr. Gentili 2005, p. 359- 360.92 Cfr. Müller-Lauter 1998, cit. p. 99.

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risiede nel fatto che se da un lato Nietzsche esprime la sua preferenza per l’arte, quasi condannando

la verità, dall’altra parte ne sottolinea però la necessità. È un dissidio questo, che Heidegger tenta di

risolvere giustificando da un lato la supremazia dell’arte, in quanto espressione del potenziamento

della vita rispetto alla verità, che è invece quel valore che in qualche maniera si è ormai consolidato

arrestando lo stesso processo vitale. D’altro canto, però, arte e verità sono ugualmente necessarie,

essendo entrambe valori prospettici e in quanto prodotti dal vivente stesso sono imprescindibili.

Nietzsche viene pensato da Heidegger come colui che ha unito essere e divenire, pensati nell’intima

unità, cancellando così la possibilità che si distinguano e che mantengano una traccia di differenza

ontologica. Con l’aggiunta dell’eterno ritorno dell’uguale il quadro che Heidegger vuole presentare

si chiude: volontà di potenza ed eterno ritorno nella loro unione costituiscono la risposta alla

domanda-guida ( a cui precedentemente avevamo accennato) che compie la metafisica.

Proprio ponendo come presupposto l’unione di divenire ed essere e quindi di volontà di potenza ed

eterno ritorno, Heidegger al termine delle sue lezioni che avevano come argomento l’eterno ritorno

dell’uguale conclude:

«In che misura il pensiero di Nietzsche è ora la fine? […] L’essenza dell’ente è il divenire, ma il divenire è soltanto nella trasfigurazione creatrice. L’ente e il diveniente sono fusi insieme nel pensiero fondamentale che il diveniente è, in quanto nel creare diviene essendo e divenendo è. Questo “divenire essendo” diventa ente diveniente nel costante divenire per cui ciò che è diventato fisso diventa ciò che è stato reso fisso come trasfigurazione liberatrice.”93

BIBLIOGRAFIA DI LAVORO

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di G. Colli e M. Montinari , Mondadori, Milano 1975.

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F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano

1974.

F. Nietzsche, La gaia scienza, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi 1977.

F. Nietzsche, La nascita della tragedia, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi 1977.

F. Nietzsche, La volontà di potenza, cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 2011.

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Greci e Scritti dal 1870 al 1873, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi 2006.

1.2 Commenti

C. Gentili, Introduzione in C. Gentili (a cura di), Metafisica e nichilismo. Löwith e Heidegger interpreti

di Nietzsche, Bologna: Università di Bologna. Dip.di Filosofia 2005

G. Zaccaria, Premessa in M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, Marinotti Edizioni, Milano 2000.

R. Cantoni, Presentazione, in F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Mursia, Milano 1965.

1.3 Altre fonti consultate.

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Compton Editori, Roma 2012.

I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, ed. it. a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi,

Torino 2011.

Platone, Fedro, trad. it. di P. Pucci, Laterza, Bari 2005.

2. STUDI

2.1 Monografie su Nietzsche.

GENTILI 2001 C. Gentili, Nietzsche, Il mulino, Bologna 2001.

2.2 Su Nietzsche e Heidegger.

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e Heidegger interpreti di Nietzsche, Bologna: Università di Bologna. Dip. di Filosofia 2005, pp. 61-73.

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MÜLLER-LAUTER 1998 W. Müller-Lauter, Volontà di potenza e nichilismo, trad. it. di C. Larocca, Parnaso, Trieste 1998.

3.3 Platone.

VEGETTI 2003 M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003.

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3. STRUMENTARIO

3.1 Manuali

BERTI/ VOLPI 2007 E. Berti/ F. Volpi, Storia della filosofia dall’antichità a oggi, volume

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DONINI / FERRARI 2005 P. Donini / F. Ferrari, L'esercizio della ragione nel mondo classico: Profilo della filosofia antica, Einaudi, Torino 2005.

3.2 Strumentario

PITTANO 1988 G. Pittano, Sinonimi e contrari. Dizionario fraseologico delle parole

equivalenti, analoghe e contrari, edizione minore, Bologna: Zanichelli,

1988.

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