un libro...familiare

61
1 SANDRO SANTINI UN’ ESTATE FA Da Pocahontas a John Wayne

Upload: independent

Post on 26-Feb-2023

1 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

1

SANDRO

SANTINI

UN’ ESTATE FA Da Pocahontas a John Wayne

2

PREMESSA

Non è facile parlare della propria famiglia; si corre il rischio della non oggettività,

legata poi al sentimento, alla mutevole visione delle situazioni.

E' anche difficile parlare di se stessi, quando il tempo e l'esperienza di vita portano a

valutare le cose in modo diverso.

Il ricordo delle chiacchiere di mia nonna Gigia, o Maria, come voleva essere

chiamata da “vecchia”, anche se vecchia sino ai novant'anni non è stata.a.

Le osservazioni costanti di mia mamma Iris sulle avventure di mio papà, le

improvvise esternazioni di mia zia, sua sorella, sul passato della nostra famiglia, mi

hanno portato a cercare di raccontare ai miei figli chi erano i Santini di Agnetta, i

“Matio”e i loro amici, insomma la loro “storia”.

Da qui un percorso, forse non lineare, dall'America alle sabbie di El Alamein,

all'intersecarsi delle storie villafranchesi, universitarie, lavorative di chi scrive.

Potrebbe apparire estranea la presenza degli ultimi due racconti: Ulisse B. ed Ugo; in

realtà riflettono la “summa” di diverse storie e presenze legate alla mia vita e alla mia

famiglia.

L'immagine del mitico comandante “Pablo”, Giacomo di Crollallanza, spesso

ricordata da mia mamma, i racconti del compagno di tenda e di “avventure” di mio

papà, Alberto da Busto Arsizio, i ricordi di tanti amici giovani e meno, mi hanno

portato a condensare in due personaggi immaginari le storie di tanti personaggi veri.

Ai miei figli lascio una memoria che vorrei raccogliessero.

Sandro

3

….e Santini andò in guerra....

Mio padre Primo atterra a Tobruk, proveniente via aerea da Atene, il 2 agosto del

1942.

Metà della Folgore, radunatasi il 22 luglio a Lecce, era partita direttamente da lì;

l’altra metà era risalita in treno in Italia ed era giunta in Grecia, allora occupata, dopo

che Mussolini le aveva “spezzato le reni”.

Aveva ancora vent’anni: era nato infatti il 20 settembre del 1921 a Pochaontas, in

West Virginia (USA), dove si erano stabiliti i suoi genitori, Luigi e Maria Luigia

Galeotti, ambedue originari di Agnetta, nel comune di Bagnone (MS).

Mio nonno, nato il 3 ottobre 1886, era andato diverse volte a lavorare in America, si

dice ancora minorenne, falsificando la carta di identità, e come succedeva spesso, era

ritornato più volte per aiutare la famiglia, contadini a mezzadria e quindi con

problemi economici assai rilevanti.

Nella seconda metà del ‘700 i Santini erano a Pastina (Bagnone); indi, all’inizio

dell’800, si trasferirono ad Agnetta, sempre agricoltori, sempre col soprannome di

“Matio”.

Luigi era figlio, con la sorella Gina e Attilio, di primo letto di Eugenio Santini e di

Maria Albericci.

Eugenio poi si era risposato in seconde nozze con la Elisa ed erano nati Ferruccio,

Maria e Beppe.

Nel 1907 era sbarcato, proveniente da Le Havre, ancora negli States, a New York,

Ellis Island, e si era diretto in California, Lo accompagnavano un Rapalli ed un

Albericci, ambedue di Corlaga, che avevano indicato allo sbarco come referenza,

Giovanni Galeotti, il suo futuro suocero, che per breve tempo aveva tentato

l’avventura in “Merica”.

Il 9 dicembre 1918, Louis Santini, dopo avere vestito per sei mesi la divisa

dell’esercito USA a Camp Dodge nello Iowa, era stato naturalizzato cittadino

americano.

Ad Agnetta intanto, aveva frequentato Maria Galeotti, nata nel 1900, figlia del citato

Giovanni e di Maria Guidi, rampolla di un conte Guidi del castello di Bagnone. Da

questo matrimonio erano nate quattro femmine. La prima si era ammalata di tifo ed il

medico aveva mandato il padre a Pontremoli a prendere del ghiaccio per alleviarle la

febbre; al ritorno, fatto in bicicletta, il ghiaccio si era sciolto naturalmente tutto. In

seguito era deceduta.

Morta anche la moglie, Giovanni si risposò con Gina Santini, sorella di Luigi, ed

ebbe dopo Divina, Maria, Settima, Enrico, Ines, Fernanda e Romolo.

I miei nonni si sposarono nel 1920. Il 28 dicembre di quell’anno Maria Santini fu

iscritta nel passaporto del marito e con lui sbarcò in America il 23 aprile 1921: era già

4

incinta di mio padre.

Il nonno lavorava in miniera; la nonna faceva pensione ad altri italiani. Di notte

andavano a comprare del whisky e lo nascondevano in una buca, per poi rivenderlo.

Probabilmente non vivevano male.

Rientrarono in Italia nel gennaio 1927; il nonno, ormai benestante, si fece costruire

una casa a Corlaga, dove nacque nel 1928 la secondogenita Vilma. Si trasferirono poi

a Parma dove acquistarono un’ osteria in centro ed un piccolo podere a San Pancrazio

Parmense, gestito poi dalla cognata Settima e dal marito Sarti.

Mio padre Primo si diplomò ragioniere al Melloni di Parma il 31maggio 1940 e si

iscrisse ad Economia e Commercio nella locale Università. Mia zia Vilma frequentò

le magistrali e dopo Medicina e Chirurgia, dove si laureò brillantemente. Era una

famiglia felice dove si manifestava la forte personalità della nonna “Gigia”, peraltro

impegnata a contenere le scorribande del figlio.

A questi, il 18 luglio 1940, venne comunicato l’obbligo di frequentare il corso per

allievi ufficiali di complemento. Ma, evidentemente, la voglia di partecipare alla

guerra, che si riteneva di breve durata, era comune a molti giovani parmigiani che

non perdevano occasione per manifestare la loro adesione all’impresa.

Il 29 gennaio 1941, come conseguenza della volontaria domanda di rinuncia

all’AUC, venne destinato ad un reparto mobilitato. Alla notizia della prossima

partenza per il servizio militare, come volontario, a Gigia vennero i capelli bianchi e

mio nonno Gigin commentò che ”così, almeno, avrebbe smesso di agitare bandiere

sul monumento di Garibaldi” .

Fu destinato al II Reggimento Bersaglieri “Nulli Secundus” di stanza a Roma.

Arrivò alla caserma S. Francesco, a Ripa di Trastevere, il

29 gennaio 1941. Altri volontari parmigiani, Bacchioni, Faggionato, Taverna, Bonati

erano giunti il 24, dopo essere stati festeggiati al GUF dal Federale, “ vera tempra di

fascista” e da Giovannino Rabazzoni.

Lo accolse al Corpo Alberto Bizzarri di Ancona, poi valente medico; “Era in ritardo,

come al solito”. Il 13 febbraio venne ricoverato all’Ospedale Buon Pastore e dimesso

il 24.

Il 16 Aprile è nominato caporale ed il gruppo di volontari venne inquadrato in un

unico plotone.

Erano una sessantina “ provenivano in massima parte dall’Italia settentrionale. Il

gruppo più numeroso (otto) era di Parma. Questi ragazzi emanavano un tono di

gaiezza e di simpatia, con i loro caratteristici detti, e subito si facevano notare”.

Il 21 Aprile partirono dalla stazione Ostiense per Brindisi, dove furono imbarcati

sulla motonave Galilea il 22 Aprile. Fu detto loro di indossare i giubbotti salvagente e

di togliersi le scarpe, per il timore di siluramenti. Arrivarono a Valona alle 11 del

giorno dopo. Per oltre ventiquattr’ore digiunarono; non era ancora arrivata la

sussistenza ed avevano già mangiato le razioni di riserva.

Il 24 pomeriggio Primo e Tristano Grandi, saliti su di una camionetta degli Alpini,

andarono al porto di Valona. Qui furono invitati a cena dal Comandante di una nave,

evidentemente impietosito dal loro racconto.

Il 27, il 182° Battaglione di cui facevano parte, tolse le tende e lasciò Valona diretto

5

in Grecia. Giunsero alle montagne del Golico, poi ad Argirocastro e il 14 Maggio a

Gianina , con la Grecia ormai arresasi, dove sfilarono davanti al comandante della

Julia. Intanto il 182° battaglione era stato sciolto e Primo fu assegnato alla V

Compagnia del II Reggimento Bersaglieri, assieme a Grandi, Minaldi, Parini e

Valensise. Poi Missolungi, Corinto in nave, Patrasso e poi Pirgos e di nuovo Patrasso.

Tuttavia nessuno aveva ancora avuto il battesimo del fuoco.

I volontari chiesero quindi di partecipare ad un corso per sergenti e furono tutti e

cinquantaquattro inviati a Lutraki, cittadina di villeggiatura, dove alloggiarono per

due mesi al Palace Hotel, però purtroppo dismesso. Qui nacque, fra questi giovani

goliardi, il primo germe della Sirena di Lutaki, come scrisse Ercole Monti. “ La

Sirena di Lutaki ha incantato i Bersaglieri e le navi stanno ferme tutto il giorno ad

aspettere “. Il corso non fu approvato dal Ministero e tutti dovettero tornare ai loro

Corpi.

Uscì il bando per entrare nei Paracadutisti. Tredici di loro fecero domanda e furono

inviati in Italia per le visite mediche. Il 29 settembre partirono in camion per Corinto

dove si imbarcarono sulla nave Piemonte; “partono questa sera con il Grande

Mangini, l’artista Ghermandi, il mandrillo Primo Santini e altri ragazzi che la

sventura di questi lunghi mesi di vita militare ha reso cari”, racconta nel suo diario

Bruno Bacchioni. Il 2 Ottobre sbarcarono a Bari e da lì a Foggia in treno, diretti a

Roma. Vi arrivarono nelle prime ore del mattino non sapendo cosa fare: “ Primo

Santini propose: andiamo al casino. Più che una proposta sembrava una battuta…….

E sull’ argomento non si era mai sicuri se Primo scherzasse o parlasse seriamente”.

Data l’ora pensavano, come racconta Alberto Minaldi che li avrebbero scacciati. “

Primo era di parere diverso. Quando paghi tutti gli orari sono buoni.”

A Roma non andarono a dormire in caserma; senza soldi con Minaldi e Nando

Danelli, girarono per la città approfondendo un’ amicizia che sarebbe durata oltre El

Alamein. In nove : Minaldi, Santini, Danelli, Piva, Ghermandi, Picot, Bizzarri, R:

Bertoni e Tulli superarono i test il 3 Ottobre e il 6 Dicembre fecero il primo lancio

dal Caproni 133. Dalla scuola di Viterbo erano stati trasferiti infatti all’aeroporto di

Tarquinia. Qui al primo lancio Bizzarri si ruppe un malleolo e dovette rientrare al

Corpo. Nel frattempo Primo aveva accompagnato Minaldi e Danelli a conoscere due

ragazze parmigiane , amiche di Franco Buratti, che abitavano a Roma.

Nacque un idilio e Primo abbandonò il campo: “ non era solo un sensuale, era anche

sensitivo. Con apparente indifferenza, giustificò il distacco con poche frasi, un po’

rudi nei propri confronti. Belle ragazze, simpatiche, ma non facevano per lui. Troppo

serie. A distanza di tempo ebbi conferma di questo mio giudizio…….Capì che

rischiavamo di lasciare dietro di noi una scia di dolore. Forse un’amicizia non ha

storia…”, racconta Minaldi.

L’ 11 Dicembre furono brevettati.

A Natale Primo tornò a casa in licenza per rientrare il tre Gennaio, in ritardo di un

giorno, al Corpo, dopo una sosta a Roma con Minaldi e Danelli. Entrò in prigione

Caporale e ne uscì Caporalmaggiore. Fu nominato Sergente a far tempo dal 25 Aprile

1942.

6

La compagnia ciclisti, dove erano aggregati i paracadutisti ex bersaglieri, fu inviata in

una caserma nuova di S. Maria Capua a Vetere. Poi furono inviati a Rovezzano (FI),

dove continuarono l’addestramento, teso soprattutto ad esaltare le doti individuali e

fisiche del parà, cosa poi rivelatasi fondamentale nelle battaglia di El Alamein.

Arrivò l’ordine di partenza , da tutti atteso, per il fronte; partirono dalla stazione

Ostiense diretti a Lecce . Con Minaldi si fermò ad Ostuni, dove si trovavano i due

Battaglioni a cui erano destinati..

“ Io e Primo trovammo per la notte un piccolo appartamento con due stanze. Primo

uscì per comprare sigarette e ritornò con una ragazza poco più che ventenne,

disposta a trascorrere la notte con noi. Dividemmo cameratescamente la notte “.

Raggiunsero Lecce , dove il Generale Frattini, Comandante della Folgore, parlò ai

reparti schierati all’ aeroporto, annunciando la partenza per l’Africa..

Era il 22 Luglio 1942.

La Divisione paracadutisti Folgore giunge in Africa Settentrionale a partire dalla

seconda metà del Luglio 1942. A metà Agosto il trasferimento è completato. Sono in

linea, all’inizio però frazionati in vari punti, circa 5000\6000 paracadutisti (otto

battaglioni, tre gruppi di artiglieria 47\32, compagnie autonome di minatori- artieri,

collegamenti, mortai ecc…)

Il 30 Agosto, Primo, aggregato alla 25a Compagnia del IX Battaglione, 187°

Reggimento, comandato dal Ten. Colonnello Luigi Camosso e poi dal ten. Colonnello

Alberto Bechi Luserna, partecipa alla prima battaglia della Folgore ad Alam Haifa.

Il raggruppamento Camosso avanza lungo la depressione di El Qattara,

conquistando Naqb Rala e la importante altura di Qaret el Himenait.

Nella notte fra il 3 e 4 settembre a Deir Alinda si scontrano con ingenti forze

avversarie: 5a brigata neozelandese, 132a britannica e 46° e 50° Royal Tanks.

Gli Inglesi perdono, per loro stessa ammissione, 983 uomini e alcune decine di carri e

mezzi blindati. Fra i caduti della Folgore, 230 fra morti e feriti, vi è Nando Danelli,

piacentino, medaglia d’argento, che, ricorda mia zia Vilma, veniva spesso a Parma a

casa nostra. Il IX ed il X, decimati, vengono fusi nel IX battaglione.

Nella notte del 30 settembre la Folgore è attaccata dalla 131a brigata britannica e da

consistenti forze corazzate, appoggiate da reparti d’assalto. La 25a compagnia, tre

plotoni, comandata dal s.tenente Marcello Berloffa, è appostata in un campo

trincerato.

Il IX battaglione di cui fa parte la 25a ed il III gruppo artiglieria, adottando la tattica

del contrassalto preventivo, contrattaccano gli avversari, costringendoli alla fuga con

durissime perdite. Nella notte fra il 30 e il 1 Ottobre, Primo, durante un contrattacco

viene ferito gravemente alle gambe da un bomba inglese e trasportato all’ospedale da

campo num. 241. Il 7 ottobre viene trasferito all’ospedale num.240.

Il 15 ottobre torna in patria, da Tobruk, sulla nave ospedale Gradisca. Il 19 sbarca a

Napoli, dove è

ricoverato all’ospedale 23 Marzo. Poi col treno ospedale num.2, il 27 Ottobre giunge

all’ospedale di Montecatini. Gli esiti delle ferite lo condizioneranno per tutta la vita.

SS

7

Intanto la Folgore prosegue la sua impari , ma vittoriosa battaglia ad El Alamein,

contro le forze alleate; i suoi compagni, sfiniti, ma non vinti, sono presi prigionieri

con l’onore delle armi.

Il 28 Maggio 1943 viene di nuovo giudicato idoneo al servizio militare ed il 31

rientra al corpo paracadutisti a Tarquinia. Qui però è ritenuto inabile per la specialità.

Il 7 Agosto all’ospedale militare del Celio viene giudicato idoneo al corso ufficiali.

L’8 Settembre 1943 si sbanda, ma viene arruolato nel corpo ausiliario di P. S.

Sembra continuare nella sua vita avventurosa. E’ arrestato dai tedeschi che lo

vogliono deportare in Germania; forse faceva il mercato nero. Lo salva mia madre

con l’aiuto di un maggiore austriaco che suo padre aveva aiutato. Lo cercano anche i

partigiani. Per incolparli compie, con i compagni, incursioni travestito da partigiano

nelle fattorie della Bassa. Lo salva poi l’amnistia.

Il 5 Agosto 1944 si sposa con mia madre Iris, figlia di un piccolo industriale di San

Pancrazio, Giuseppe Calestani (Pepèn) figlio di Antonio e di Angela Pambianchi, e

della Savina Zoni.

Il 18 maggio 1946 nasce l’unico figlio: Sandro.

Primo non va d’accordo con il cognato Tonino; lascia la fabbrica del suocero e ci

trasferiamo a Villafranca Lunigiana nel 1954, dove apre una fabbrica di serramenti a

Filetto, e si costruisce una villetta in stile americano.

L’onorevole Negrari, suo ex compagno di scuola, ma soprattutto segretario del

Presidente della Repubblica Gronchi, gli propone di entrare in lista per la DC alle

elezioni provinciali. All’ultimo la proposta salta e Primo entra in lista come

indipendente con il PCI, sponsorizzato da Costantino Cirelli (Raffica), già

commissario politico partigiano e poi Presidente della Provincia.

Viene eletto consigliere provinciale a Massa e poi Assessore, ma i suoi affari ne

risentono, anche per il potere della DC locale, che gli offre molto denaro per lasciare

il seggio subito, onde arrivare a nuove elezioni. A contattarlo è un suo ex

commilitone della Folgore di Mulazzo.

Fallisce, vende casa e fabbrica e poi viene assunto come segretario avventizio presso

il nuovo Liceo Sc. di Villafranca L. Non può però partecipare al concorso in quanto

per cinque anni non gode dei diritti civili.

Nel 1963, come invalido di guerra, è assunto alla Ragioneria della Provincia di

Massa.

Nel 1965 ci trasferiamo a Massa. Diventa Ragioniere Capo all’Omni di Massa, non

solo per meriti personali, ma perché è uno dei due soli ragionieri di tutta la ragioneria

provinciale. Spesso racconta del giro di tangenti e ruberie che trova. Un esponente

politico socialista mi dice: “ora con tuo padre speriamo di fare piazza pulita” . Ci

prova, ma un giorno, dopo essersi messo contro la presidentessa nazionale, mi dice:

“se non vado in pensione, mi mandano in galera”.

Ha mille difetti, ma è ancora generoso, altruista, spesso sognatore. Si fa in quattro per

i supposti amici. Vive sempre però pericolosamente, onesto, sempre senza soldi,

8

sempre con debiti che la madre e la sorella, che gli vogliono bene, spesso tamponano.

Soprattutto ama le donne, come da giovane, e mia madre lo sa e spesso lo scopre.

A Villafranca Iris picchia la sua amante, attendendola alla sera sul ponte romano,

quando rientra dal lavoro.

A cinquantadue anni va in pensione e va ad abitare in una piccola casa a Teglia di

Mulazzo.

Nel dicembre 1975 è colto da una febbre persistente, asintomatica. La zia Vilma mi

telefona e mi dice che potrebbe essere cancro.

Lo confermano al Rasori di Parma; provano ad operarlo a Torino, ma rischia la vita.

Per un certo periodo migliora e va anche a caccia, nella diletta isola di Palmarola da

dove torna in anticipo, sfinito.

Muore all' ospedale il 14 giugno 1976, dopo una breve agonia.

La sua guerra è finita.

Dopo cinquantaquattro anni.

Ha fatto in tempo a conoscere due nipoti: Matteo ed Alberto.

E’ sepolto nel cimitero di Villafranca, a destra dopo l’entrata. Vicini ci sono molti

suoi amici di vita e di carte: Guido Meleo, Giuseppe Bazzali: “Mascagna”, Augusto

Bragoni: “Gustin al Farkett”.

Non è solo.

9

….ma la storia continua Dormi sepolto in un campo di grano,

non è la rosa, non è il tulipano, che ti fan ombra dal

bordo dei fossi, ma sono mille papaveri rossi.

La prima immagine, sbiadita, è di un giovane, che cingendo la moglie con il braccio

destro, alza il pugno sinistro nel saluto dei “Rossi”. Siamo nella camera all’ultimo

piano della casa di Fraore, lungo la via Emilia, dove sta transitando un corteo con le

bandiere rosse, sulla pista ciclabile. Mio padre saluta così gli amici, che

probabilmente erano in sfilata; vedo quelle bandiere e quei fazzoletti rossi, quel

colore così sgargiante e mi piace, anche se non capisco.

Ripenso , a distanza di anni, il perché di quel pugno chiuso; era stato interventista,

volontario nella Folgore, nella Repubblica Sociale!

Mi ha chiesto l’altra sera, mia figlia Elisa, di mio papà, ”Santè” come lo chiamavano

a San Pancrazio. Non lo conoscevo; è morto troppo presto, negli anni in cui i genitori

sono ancora impegnati a “vivere” ed i figli a crescere. Non c’è il tempo per parlare,

per conoscersi.

Nei tre mesi del 1976, in cui è stato ricoverato al Rasori di Parma, dove lo visitavo

giornalmente, venendo da Fornovo dov’ero veterinario, ho parlato a lungo con lui; ho

scoperto il suo carattere ligure, un po’ chiuso, ma non l’ho conosciuto; era difficile

parlare del passato quando si doveva tacere o comunque tergiversare sul futuro.

Quando avevo tre anni era arrivata la TBC polmonare. Nome brutto, allora; letale; “il

mal sottile” come lo chiamavano, con pudore. Il dottor Villa, il nostro medico di

famiglia, non capiva da dove venisse. Tutti a casa erano sani e lui diceva in

parmigiano “ qui c’e’ qualcuno che la porta in giro “, con la saggezza dei vecchi

medici, abituati più all’intuito che alla scienza.

Lo scopriremo poi.

Mia zia Vilma, studentessa in medicina, mi portò in treno a Milano da un luminare

per una visita.

Al ritorno, comprò due panini a Piacenza, alla fermata; allora li vendevano così, e

penso che il treno non partisse sino a quando tutti non fossero stati “visitati” dai

venditori che correvano lungo il marciapiede. Ne comprò uno anche per un ragazzo,

che li “sgolosava” e che evidentemente non aveva soldi.

Il risultato fu la partenza per il Sanatorio di Prasomaso in Valtellina.

E’ la seconda immagine che ho di mio padre; Santini con la mitica Topolino A, usata,

che aveva portato a benedire al Santuario di Fontanellato con tutta la famiglia, e che

ferma ad un passaggio a livello in salita, alla ripartenza era scivolata nel fosso.

Ci fermiamo a Milano a comprare un mucchio di giocattoli; chissà perchè, avrò forse

pensato. A quattro anni il Sanatorio è indecifrabile. C’era con noi la nonna Gigia;

dovette scendere al paese prima di Prasomaso e prendere la corriera, perché la strada

“tirava” tanto e la Topolino non ce la faceva.

Rividi il papà e la mamma alla mattina, quando le suore ci portarono a passeggio, due

per due. Erano fuori dal cancello, che sembrava tanto distante, e aspettavano di

10

vedermi un’ultima volta prima di partire.

Mi ribellai, senza parlare, cercando di raggiungerli, invano; erano troppo lontani per

me e non ebbi forse il pudore di chiamarli.

Da piccoli le distanze, gli spazi, sembrano enormi, i cento metri che separavano casa

nostra a Fraore dalla Cà Bianca, il bar, osteria, dove Ferrari veniva con i burattini; la

veranda, “enorme”, al primo piano del Sanatorio dove giocavo con i “sinalcoli”,

ovvero i tappi delle aranciate con dentro l’immagine dei ciclisti, che ci lanciavano

assieme ad una specie del gioco dell’Oca, quando passava il giro d’Italia.

Da noi passava, allora non c’era traffico, anche la Mille Miglia, con le rosse Ferrari e

il “mitico” Conte Giannino Marzotto, in Ferrari spider, che, riconosciuto dal numero,

veniva additato dalle donne presenti ( Vè! A' riva Marsotto !!.)

Passava anche la Milano- Taranto, riservata alle moto. Mio nonno Pepèn (nà sigòla e

‘n po’ d’mes vè), come si definiva lui, dormiva sulla panchina posta sotto l’immenso

noce che era nel cortile, e così seguiva anche il passaggio notturno.

C’era chi aspettava una moto come la sua e poi la rincorreva, forse per uno spirito di

emulazione, prendendosi il sarcasmo dei presenti: “mò vè che siòc!!!!”.

Santini aveva una macchina eccezionale: una 1100 spider, color argento con gli

interni in pelle rossa. La ricordo ancora, era bella, anche se un giorno, dopo che era

stata schiacciata da due camion e lui si era salvato gettandosi fuori, l’aveva fatta

dipingere color oro.

Credo fosse sua, anche se della ditta. Mio zio Tonino, fratello di mia madre che

lavorava con lui, non credo ne avesse, anche per il suo carattere mite, la disponibilità

reale.

Una mattina alle quattro doveva portare la moglie Maria e il figlio Marco alla

stazione per prendere il treno per Monterosso e l’auto non c’era! Li caricò sul vecchio

camioncino della ditta.

La 1100 era a Spezia con Santini e la Corale Verdi a prendere il caffè !!!

Restai in sanatorio quaranta giorni. Venne mia madre, ricordo che mi riportò dei

giochi e stette con me, sulla terrazza, già di sera, e appurato che l’unica cura di cui

ero oggetto era l’aria buona, disteso su di una branda e coperto sino al naso, decise di

portarmi a casa; da li partimmo, io e lei per la Costa di Folgaria dove, su una sedia a

sdraio costruita dai nostri falegnami, passavo le giornate in assoluto riposo,

guardando i bambini che giocavano nel prato antistante.

Ho rivisto il posto, passandoci davanti in motorino con Renzo Amadei (Ernestino di

Malgrate) dopo dieci anni.

Non ricordo in quegli anni la presenza di mio papà. Ogni tanto mi faceva vedere le

cicatrici delle sue gambe, a letto, ricordo della bomba inglese a Deir El Munassib, ed

una volta mi regalò una scheggia che gli era fuoriuscita.

Il regalo più bello lo portò un giorno a me ed a Marco : due scatole di soldatini

comprate da Castelli a Parma, con le quali giocai per giorni nell’ampio corridoio di

casa , ma perchè anche a mio cugino? Un giorno mio zio Tonino ci portò

all’aeroporto di Parma e fece con lui un giro su di un piccolo aereo, lasciandomi a

terra a guardare, da solo.

Tonino mi aveva, una volta, anche portato al Tardini, a vedere il Parma, con le maglie

11

blucrociate: il mitico Bicicli, poi Inter;“Biciclèta”, gli urlavano i tifosi e Vikpalec

“Vippale”, poi allenatore della Iuventus.

Con Primo non ricordo svaghi di questo tipo.

Un giorno mi regalò una bici da corsa, bellissima, una Stucchi, color oro, che non

potei mai usare perché ero malato.

Andavamo, io e Iris tutti gli anni in montagna. Una volta a Varena di Cavalese. Venne

anche la zia Vilma, con una compagna di Università, che però probabilmente odiavo,

perché la costringeva a studiare, a mio discapito. E poi la ricordo antipatica di

espressione!!

Fu l’unica volta che mia zia mi sculacciò; avevo visto per giorni una bambolina

abbandonata in un cortile ed ero deciso all’esproprio proletario. Aveva una

padroncina!!! Che sfigato!!!

Una sera tornammo a Parma, io ed Iris in corriera, da Cavalese. Naturalmente Santini

non c’era.

Mentre passavamo carichi di valigie sul ponte Bottego, si accostò un’ auto: “permette

un passaggio,signora?” Iris lo ringraziò ringhiando, senza voltarsi. Era mio padre, con

l’aria innocente e sorridente, con quell’espressione “fascinosa” per cui tutto gli si

perdonava. Andammo a dormire in un unico letto, in un grande albergo. Alfa Romeo

millenove, ma sempre pochi soldi.

Il suo fascino, la sua capacità di attrarre, che spesso mi vengono raccontate, le ricordo

anch’io bene.

Sapeva esercitare il fascino !

La nonna e Vilma, sì, proprio loro, un dì, sedute sul divano, mani in grembo, lo

guardavano estasiate, mentre passeggiando davanti a loro, parlava e gesticolava,

raccontando o forse imponendo i suoi guai. “Al mè Primo” come lo chiamava la

nonna Maria, alla quale ne aveva combinate sempre tante e tante. Eppure lo amava e

non mi ha mai detto una parola contro; quando morì, disse che neanche per la morte

di suo marito aveva sofferto tanto. “ Ahh! S’a ghaves dàt tùti i sodi chi ‘m’dmandeu!

Cosa ‘m’n' an fagh adèss”, mi disse più di una volta.

Quando Primo telefonava alla nonna perché iniziava il passaggio delle tortore

all’isola di Palmarola, chiedendole l’abituale obolo, alla rituale domanda lei

rispondeva che i soldi le servivano per la tomba; poi naturalmente glieli spediva. Non

so se la ringraziava.

C’ero anch’io quando morì il nonno Luigi all’ospedale di Parma. L’avevo visto una

settimana prima, a letto, in via della Salute; non stava male.

In camera erano entrati mio padre e mia zia. Capii che il nonno era morto dall’urlo

“papà” di Vilma. Pregai, non so perché.

Andai con lui a fare i manifesti mortuari e per il funerale. Ricordoche gli dissi,

vedendolo preoccupato, “ ti ci voleva anche questo!” Avevo otto anni.

Da quanto ho capito da mezze parole, qualcosa ha combinato anche per il funerale. Il

rapporto fra lui e sua sorella, sempre sbilanciato a favore del papà, non l’ho mai

approfondito; “le cose le sappiamo solo io e mia sorella “ -mi diceva lui-; “le cose le

sappiamo solo io e mio fratello” mi rispose un giorno mia zia!

12

Era un circolo privato; credo che nessuno, neanche la nonna e lo zio Ninetto,

potessero entrarvi.

Ho incontrato lo zio la prima volta in via della Salute; avevo circa otto anni. Era un

potenziale concorrente e per non vederlo mi nascosi nella baracca in fondo al “mio”

giardino, con degli alberi “altissimi”. Aveva in mano una scatola di soldatini! “Più

dell’onor potè il disio” Uscii ad abbracciarlo.

Nel 1956 entrò in politica; “vota colomba, vota Santini” recitavano i manifesti; lo

slogan era di Costantino Cirelli, il compagno “Raffica” che l’aveva candidato alle

provinciali. Dava l’Alfa a dei ragazzotti neopatentati perché gli portassero in giro i

volantini.

Una sera l’on. Democristiano Negrari di Bagnone, suo ex compagno di scuola, tenne

un comizio a Villafrnca in piazza. La DC mobilitò molti pulman dalle frazioni, solo

che tanta gente andò al concomitante comizio di Primo, a San Nicolò.

Parlò su di un palco davanti alla fontana; lesse un breve discorso, pacato, ragionato.

Accortosi della brevità, si scusò e riprese a braccio, sempre più accendendosi, tant’è

che Cirelli dovette richiamarlo”Primo!!”, tirandolo per la giacca, per calmarlo. Fu

eletto, divenne assessore e fu la sua fine.

Ad una cena di beneficenza organizzata dal prefetto di Massa, per evitarne la moglie

che all’entrata esigeva l’obolo, passò, vantandosene, in abito da sera, dalle cucine!!!

Ho vissuto a tredici anni la storia del suo fallimento, delle sue traversie finanziarie,

della chiusura della fabbrica, del trasloco a Villafranca in un appartamento al primo

piano sopra la farmacia di Binotti. Mai mi ha parlato dei suoi fatti. Solo una sera in

macchina mi raccontò alcune vicende della guerra in Africa, in particolare del rifiuto

di una medaglia e del rapporto pessimo col suo tenente, Berloffa.

Litigavano spesso lui e Iris. A tavola erano scenate, botte, volare di piatti e tovaglie. Il

mio pranzo era brevissimo; fuggivo al più presto. Non credo che la cosa li

preoccupasse più di tanto. Non si parlava ancora di psicologia.

Quando mia madre lo lasciò per recarsi con me in Svizzera a casa dello zio Tonino,

perché stanca delle sue avventure galanti, dopo poco venne a prendermi e mi riportò a

Filetto. Era ancora estate, ma lo vidi poco. Mangiavamo spesso scatolette.

Mi accompagnò a Parma dal professor Gunnella a fare il peumatorace; non l’aveva

mai visto. Mi teneva la mano sulle gambe quando mi forarono il polmone, in un gesto

di protezione; lo apprezzai, ma ero e mi sentivo, dopo due anni di trattamento, un

veterano. Non mi mossi.

Anche col passare degli anni lo vedevo poco. Mia madre alla mattina mi portava il

caffelatte e mi ragguagliava su quanto aveva detto su di me.

Solo una volta mi chiese dei miei studi in prima liceo.

Era segretario, ma dagli insegnanti ci mandava mia madre. Intervenne solo a Massa

con la preside, in quinta, perché essendo ripetente in caso di bocciatura sarei dovuto

partire militare. Lo seppi da altri.

Accettò il mio improvviso matrimonio ed i problemi che lo avevano preceduto.

13

C’era, ma non lo faceva pesare. Spesso usava il suo “fascino” per risolvere problemi

che erano difficili. Incantava le controparti con le parole, i gesti, sempre misurati, da

gran signore.

Organizzò la mia cena di laurea.” Questa è la mia rivincita” disse. Infatti aveva dato

diciotto esami ad Economia e Commercio, ma sembra che i soldi per laurearsi

avessero cambiato destinazione. L’avrei ucciso! Aveva sempre boicottato tutte le mie

richieste di andare a lavorare.

Mi mandò un assegno di 50.000 lire, nel 1973, quando andai a lavorare a Siena, alla

Sclavo. Non avevo una lira per arrivare al primo stipendio e per pagare la pensione.

So quanto gli deve essere costato.

Nel dicembre 1975 è colto da una febbre persistente, asintomatica. Mia zia mi

telefona: “secondo me è cancro”.

Lo porto al Rasori di Parma; fu la conferma. Provano ad operarlo a Torino. Rischia la

vita. Per un certo periodo migliora.

Allora incominciò a fidarsi di me, del figlio Dottore. Seduto al Rasori, in attesa del

secondo ricovero, dopo che ero andato a prenderlo a Teglia in auto mi disse: ”non

avrei mai pensato di avere bisogno di mio figlio”.

Gli raccontai che aveva un ascesso al polmone, poi sempre altre storie per non farlo

preoccupare. Forse si fidava o voleva fidarsi. Era pauroso e se avesse saputo la verità,

forse avrebbe vissuto peggio gli ultimi mesi. Mi perdonerà delle bugie. Ma è difficile

vedere il proprio padre morire e non potere fare nulla!!!!

Ci si può solo immedesimare nella propria figura di medico.

Andò a caccia a marzo a Palmarola. Rientrò in anticipo, sfinito.

Finsi di sgridarlo e intanto gli pagavo con i pochi soldi che avevo le sue cambialine in

scadenza, che Alma mi segnalava. “Perché hai pagato?” mi chiese. Gli risposi di non

preoccuparsi, che me li avrebbe ridati.

Il 13 Giugno, all’ospedale, tenendomi la mano, mi disse: ”Sai, mi dispiacerebbe

morire, ma in fondo, nella vita mi sono tolto tutte le soddisfazioni che ho voluto”.

Capiva che stava perdendo l’ultima battaglia. Lo spirito da bersagliere lo sosteneva

ancora e sperava di farcela.

Muore al Rasori il 14 giugno 1976, dopo una breve agonia.

Si spegne da seduto per respirare meglio, cosciente ed in grado di parlare. Al medico,

che negli ultimi minuti cerca di fargli fare esercizi respiratori, risponde con il suo

sguardo classico di “prendingiro” e con un gesto di dubbio, fatto con la mano.

Gli sono vicino sino alla fine. Mi stringe forte la mano all’ultimo istante, mentre lo

adagio sul letto ed ha un ultimo, dolce, tranquillo sorriso.

Piansi, da solo, fuori dall’ospedale. Mi mancava a trent’anni il bastone su cui

appoggiarmi. Sapevo che mi bastava fargli una breve telefonata, esporgli il problema

e sapere, senza avere risposta, che se avessi avuto bisogno, mi avrebbe capito.

Al funerale, a Villafranca c’erano in tanti!! Autorità, il gonfalone della Provincia di

Massa, una fila che non avrei pensato. C’era la zia Gina, vecchia, quasi cieca, in

14

attesa vicino al cimitero, con Wilma.

Era morto Primo, il Ragionier Santini, quello che giocava lunghe partite a briscola da

Luciana, assieme al Farkett, a Mascagna.…; quello che vestito da cacciatore con il

berretto col pon-pon poteva sembrare un eccentrico signore di campagna. Quello che

parlava sempre di soldi, che non aveva, ma come un signore, senza peso. Che poteva

un giorno girare con la Giulietta Sprint ( “che bella macchina che ha , ragioniere! Si

signora, ma Lei il c… qui sopra non ce lo metterà mai! “) e il giorno dopo col

motorino.

Quello che mi ha insegnato che anche negli Enti pubblici, nella sua posizione, si

poteva anche vivere senza rubare, girando con una vecchia Bianchina bicolore ( per

convincere mia madre a salirvi per il mio matrimonio dovetti lavargliela tutta, anche

dentro, dove alloggiavano i cani e gli uccelli da richiamo; lui si era rifiutato).

Al cimitero, dopo la sepoltura, Vilma voleva dare la mancia a Mazzini, l’operaio del

Comune; “vorrà scherzare…, per Primo?!!”, rispose rifiutando, quasi sdegnato.

Lo rimprovero speso al cimitero di Villafranca di avermi lasciato solo, così presto!

C’è sulla tomba una foto del ’74, al battesimo a Rosia , di Alberto. Sorride, in un

modo particolare, forse per le libagioni della festa. Aveva già, però, la pelle scura.

Ricordo che mi allungò un assegno di 100.000 lire.

Quando passo da Villafranca, lo vado a salutare.

Chiacchieriamo.

15

Cento giorni “Cento giorni.., cento ore..., cento minuti .....”

Il “giuke box”, si pronunciava così, del bar di Nello era posizionato all'esterno, vicino

al muro e di fronte al monumento ai Caduti, sui cui gradini spesso si radunavano i

giovani e gli sfaccendati, tanti, che non potevano permettersi di restare a lungo

all'interno del bar.

L'uditorio, quando si trovava qualcuno che avesse la possibilità di infilarvi cento lire

per le tre canzoni, era composto, soprattutto la sera, dai miei coscritti e dalle ragazze

universitarie di qualche anno più vecchie; le nostre coetanee ascoltavano la musica

lontano, sedute sulla panchina davanti alla farmacia di Binotti. La moralità e le madri,

impedivano loro di godere della musica da vicino.

Il perbenismo, ancora imperante in questo piccolo paese semidistrutto dalle bombe

alleate, dove uno degli sport preferiti era quello di tirarsi i “groti ”, si adeguava a

rituali consumati; la Messa, il Vespro, il Rosario a maggio, sotto il ferreo controllo,

non solo visivo di Don Alberto.

Andavamo al Veglione per Capodanno, dove le madri, sedute in platea, controllavano

a vista l'operato delle figlie; si sprecavano commenti e pettegolezzi.

Noi giovani eravamo troppo impegnati a nascondere la bottiglia di spumante nella

cintola dei pantaloni; l'avevamo acquistata da Drovandi, perchè al bar del cinema

sarebbe costata troppo!

La vita dei giovani villafranchesi, nel periodo delle vacanze, iniziava proprio da

Nello, figura massiccia, artificiosamente autoritaria verso i ragazzi, ma in realtà

comprensiva dei loro problemi e delle loro finanze.

C'era il bigliardo, regno di Ulisse, monocolo e privo anche di alcune dita per cause di

guerra; capace di battere nei giorni migliori a boccette anche i professionisti e capace

anche di perdere da costoro cifre importanti, incavolandosi e imprecando.

C'era il calciobalilla, dove si scontravano Barbetta, reduce, forse millantato, dai

campionati svizzeri, Zerbino, lo Zoff del bigliardino, Marcello, Giancarlino e tanti

più giovani che per ore si combattevano per accedere all'Olimpo.

Il massimo dell'avventura erano le sfide con i bagnonesi a cui però partecipavano per

diritto acquisito solo i più grandi, classe '40 o giù di lì.

Era comunque difficile il rapporto con i foresti; campanilismi e retaggio storico

rendevano difficile il capirsi.

L'andare, sopratutto d'estate, a Mulazzo o in qualche sperduta frazione a caccia, si fa

per dire, di villeggianti, portava a liti, taglio di gomme ai motorini o nel migliore dei

casi ad un invito, di certo non elegante, a partire di corsa!

Una sera, nel bar di Iera, paese noto per l'accoglienza amichevole che riservava agli

estranei, ci trovammo in quattro seduti al tavolino; ero il più giovane.

Un tale, di certo buon conoscitore di tutto il campionario vinicolo del locale, senza

motivo, se non quello di vederci foresti, cominciò ad insultarci; il resto della

compagnia presente all'interno, invece di calmarlo, decise a favore delle sue ragioni.

Saltammo dalla finestra, fortunatamente a piano terra, e corremmo senza discutere

16

alla macchina.

La giornata era lunga a Villafranca; le carte e gli altri passatempi non potevano

riempirla tutta, gli impianti sportivi erano un miraggio e allora, memori di felliniani

retaggi, sopravvivevamo, inventando.

Le carte erano comunque la fatica più in voga; costavano al massimo un caffè ai

perdenti e consentivano un impegno mentale e fisico duraturo nel tempo.

Si iniziava presto, verso le 10 del mattino sino alle 12; al suono delle campane, via

tutti a casa di corsa, per potere rientrare dopo mezz'ora ed iniziare per primi, con i

compagni più veloci.

Nello aspettava al varco i giovani avventori, e il caffè ci veniva consegnato, spesso

senza richiesta, in mano, ancora sulla porta!

Si giocava a briscola in cinque, a tressette, più o meno silenzioso, come da regola, ma

soprattutto a pitecchio.

Il momento culminante, il più atteso, era il regalo che si poteva fare di quel due di

spade, il pitecchio, in rifiuto; c'era chi lo calava all'avversario con finta noncuranza,

chi diceva: “ Oh! Cos' ghè chi?! ”, chi saliva in piedi sulla sedia e con un urlo, pari ad

un gol fatto al Brasile, lo picchiava davanti alla povera vittima.

Verso le 14,30, le 15, tutto finiva e iniziava il pellegrinaggio verso la stazione di

Villafranca.

Si formava un lungo, eterogeneo corteo, dove c'erano tutti: giovani e meno giovani,

operai in ferie, studenti, infanti, ma rigorosamente solo maschi.

La meta, faticosa, agognata, era appunto la stazione, ottocento metri sotto il sole,

passando dalla statale dove un Sindaco previdente ed ecologista, aveva fatto abbattere

i vecchi platani per sostituirli con delle pianticelle rachitiche, che - mi disse lui- erano

più belle!!

Cosa fare alla stazione, poi, oltre bere alla fontanella e far “acqua” nell'angusto WC

pubblico? La trasferta era però piena di pettegolezzi, di racconti più o meno veri su

avventure galanti, su fantasiose conquiste, su di una vita immaginaria.

Le donne erano inevitabilmente l'argomento principe, anche se, invisibili,

sembravano nascoste in casa.

Solo durante il periodo scolastico riapparivano e allora si potevano notare i

cambiamenti fisici e caratteriali di molte ragazze.

Ognuno, nel lungo e penoso incedere, che spesso portava verso le rive della Magra,

zone ben conosciute dagli esperti “forcatori”, aveva da raccontare la propria storia di

incontri al buio, al cinema, nei portoni delle case, accompagnato sempre dalla paura

dell'arrivo di qualche familiare.

Il cinema, quello alla stazione, era però il luogo di incontro preferito, preceduto,

spesso, da lunghe trattative, portate avanti dagli amici e soprattutto dall'amica del

cuore.

Questa in genere era più brutta della predestinata e pur tuttavia occorreva trovarle un

accompagnatore adeguato, insomma un “candelo”, che si sacrificasse per il bene

dell'amico.

Una volta seduti nella poltrona, scomodissima, del “cine” , iniziava il lungo

17

approccio, continuamente interrotto dai rimproveri, neanche tanto convinti, della

ragazza di turno.

Già giungere con la mano al limite del nylon delle calze era un'impresa; l'andare oltre

provocava spesso un ordine perentorio!

Organizzavamo allora i “festini” a casa di qualcuno che aveva saputo in anticipo

dell'assenza domenicale dei genitori; uno portava il giradischi con i 45 giri e si

ballava generalmente in cucina, intorno al tavolo.

Le sale, allora piene di mobili scuri, imponenti, rococò, erano rigorosamente chiuse a

chiave, salvo in quelle tre o quattro occasioni, come il Natale, in cui si radunava tutta

la famiglia.

Comunque a questi festini, generalmente con un numero pari di uomini e donne non

accoppiati, inizialmente si ascoltavano, ballando, dischi diversi; quando poi

l'atmosfera si surriscaldava si ballava con un solo disco che veniva ripetutamente

“rimesso su” dal più vicino o dal più sfigato!

Il più gettonato era in genere il romanticissimo “Non arrossire” di Gaber , che però

durava meno dei canonici due minuti e provocava un notevole impegno al DJ!

Poiché la vita languiva e non esistevano quelle occasioni per movimentarla,

organizzate oggi dai vari enti e associazioni, occorreva ingegnarsi!

L'uomo della Provvidenza era un nobile, un marchese, discendente della stirpe dei

Malaspina: Beppe, detto appunto “àl Marchès”, persona intelligente, colta, dotata di

uno spiccato humor, epicureo quanto forse i suoi antenati, amante dell'iperbole,

buongustaio, però in toto uomo del popolo, che col popolo viveva.

Ebbi modo di conoscerlo nei primi due anni di università a Pisa; eravamo nello stesso

appartamento, in piazza dei Cavalieri, vicino alla Scuola Normale.

Con noi, Gianni, Marino, Carletto di Aulla e un tal Manetti di Sassetta, al quale

Marino, compagno di stanza, rimproverava il tremendo fetore dei piedi!

Alla sessione di giugno solo Carletto dette un esame complementare a legge e prese

18!

Noi affascinati dal passaggio dalla vita campagnola a quella della sonnacchiosa Pisa,

passavamo le giornate il piazza dei Miracoli ad osservare lo svolgersi della vita.

Venivo dal liceo scientifico di Villafranca, il “Bonaventura Pistofilo” e il solo

nominarlo mi faceva stare male, soprattutto quando andavamo a Massa, ai giochi

studenteschi; chi era costui? Nessuno, nemmeno il preside, valente storico ed

ispiratore del nome ce lo spiegò e così dovemmo sorbirci per anni gli sfottò dei

colleghi di altri istituti per quel nome così “strano”.

Ora l'hanno chiamato “Leonardo da Vinci”, nome anonimo, comune a tanti e

lontanissimo dalla storia della Lunigiana.

Il Marchese era iscritto al V° anno di ingegneria; un giorno, mentre lavava la fluente

capigliatura rossiccia, che poi rovesciava a mo' di riporto, mi disse- “Però, se ci pensi

bene, ho la media del 29 e mezzo”- Gli feci notare che aveva dato cinque esami, uno

all'anno!!! Non ne fu minimamente scosso; era una sua dote quella di minimizzare i

lati negativi.

18

Episodio famoso, fu quando affrontò quello di Fisica col vecchio e tremendo De

Donatis; “ Complimenti Malaspina, 30 e lode..., e poi ci sarebbe l'abbraccio

accademico..!” - disse il professore- “Non si potrebbe con la segretaria?” -rispose

Beppe-, aggiungendo poi, mentre lo raccontava “Ier tùt sbavazént! ”

A Villafranca era lui l'organizzatore principe; feste, mangiate, spedizioni in auto a

cercare improbabili ragazze, alla sera, nei paesi. Si cantava e si rideva ed il ritorno

terminava con la famosa frase “ ….E anche stasera abbiamo preso la vacca per i

balotti!”.

Organizzava anche la festa della matricola; ricordo girai in mutande per il paese,

offrendo ai passanti Nutella e birra mescolate in un vaso da notte in plastica!

Era stata naturalmente una sua iniziativa come quella che l'anno dopo ci portò a cena

alla Taverna Iori ad Aulla.

Esaltato dalle abbondanti libagioni e dalla presenza di numerose matricole femminili,

Beppe organizzò una loro, non mediabile sfilata a piedi nudi sui tavoli ancora

imbanditi; quando la malcapitata giungeva alla sua altezza le ordinava di fermarsi e

scandiva una perentoria frase: “Si raduni la commissione!”

Tale, in realtà, eravamo noi maschietti, che approfittavamo per dare un' attenta

occhiata dal basso; era il 1968!

I costumi sessuali altra cosa da oggi e la donna era “oggetto” puramente

immaginario; si salvavano pochi che avevano un po' di soldi o la macchina a

disposizione. Per la maggioranza valeva la celeberrima frase del Marchese: “Tutti ne

parlano e nessuno l'ha mai vista!! ”

Lo disse un giorno all'amico, aspirante biologo che si vantava delle proprie conquiste;

“Tu l'hai vista solo nei libri di Anatomia!”

Leggemmo per diversi giorni sui giornali la notizia che sarebbe uscito un settimanale

con in copertina una donna nuda; fu uno scandalo enorme e il solo parlarne costituiva

un'offesa al comune senso del pudore, in un Paese dove le gambe delle Kessler erano

state fasciate in televisione, da lunghissimi calzettoni neri!

Tale aspetto della società non ci apparteneva e aspettammo impazienti il giorno

fatidico.

Già dalle prime ore del mattino ci trovammo tutte e sei davanti all'edicola di piazza

dei Cavalieri a Pisa, ad attendere l'arrivo del camioncino che portava il giornale; la

donna nuda c'era, coperta nei punti critici dalle braccia, ma c'era, e a colori!, Di colpo

il mondo cambiò, però, senza crollare!

Ai tempi del liceo eravamo, con un audace attacco, riusciti a farci dare la palestra del

Liceo per alcuni pomeriggi al mese; lì riuscivamo a giocare a pallavolo, sport

localmente secondo solo al calcio, ma pericoloso in una palestra provvista

lateralmente di vetrate non protette da reti.

Il calcio era lo sport principe; si giocava al campo sportivo, però distante dal paese o

nella piazza sterrata di fianco alla chiesa di San Giovanni e quando si era in pochi

addirittura nel tunnel che univa le due piazze del paese.

Il nemico era Tozzi la guardia, che fedele alla consegna, cercava in ogni modo di

19

prevenire danni, sequestrando con una ramanzina ogni pallone che gli capitava a tiro.

Noi ci rifacevamo alla domenica andando a vedere giocare la squadra del

Villafranca, squadra che era stata in serie C dopo la guerra, dove militavano Renzo,

che aveva fatto un provino per l'Inter e ne conservava la maglia e suo figlio Claudio,

primadonna della squadra, sempre appoggiato dal papà; “ E sì vò al dès, dègh al dès!”

Poi Marcello, stopper roccioso ed in seguito centravanti, Giancarlino, ala, e Zerbino,

centrocampista, detto “mez chilo” per la non eccelsa statura; questi un giorno fu

minacciato da un avversario più grande e Marcello corse a difenderlo: “ Dim'l' a

mè.....!”

Quando c'erano problemi di tifo, qualcuno di nascosto, ma non ignoto, tagliava le

gomme a qualche tifoso avversario che al ritorno, si sarebbe vendicato!

Nella ricerca di nuove emozioni, ogni tanto rispuntava la classica “scapoli-

ammogliati”. La prima che vidi aveva come commentatore in diretta ai bordi del

campo, un brillante personaggio villafranchese: Nino Ghinetti; negli sposati giocava

tale Diomede, un piccolo uomo, meridionale, con due baffettini ben curati ed una

capigliatura impomatata con la brillantina, come usava allora.

Quando entrò in campo, agghindato con un paio di pantaloni corti a metà coscia,

larghi e color cammello, con la “pipa”, e che scoprivano due gambette magre e storte,

con un paio di scarpe di vernice nera, lucide a festa, accompagnate da due calzini

cortissimi, grigi, Ghinetti urlò al microfono:” Ed ecco a voi il sud brasiliano

Diomede!”; la folla applaudì il nuovo idolo, non sud americano, ma chissà perchè,

“sud brasiliano”.

Qualche anno dopo riuscimmo a fare giocare negli scapoli il mitico Ulisse che fu

schierato centravanti; il portiere avversario era l'altrettanto famoso Tresanini, che per

combattere la sete si era portato un fiasco di vino, posizionato vicino al palo.

Durante la partita Ulisse stazionava, incurante del fuorigioco, vicino all'amico, con

cui divideva costantemente il nettare; all'improvviso l'arbitro fischiò un rigore per gli

scapoli. Tutto il pubblico, d'istinto, urlò il nome di Ulisse; questi non si rifiutò e

appoggiato il pallone sul dischetto prese la rincorsa, sostenuto dall'urlo della folla.

Nel calciare, la sua scarpa destra volò sopra la traversa, cosicchè Ulisse, fra l'ilarità

degli spettatori, mancò clamorosamente il pallone e cadde per terra, battendo il

posteriore!

Il secondo sport nell'Alta Lunigiana, per tradizione e popolarità, era la pallavolo; si

giocava un seguitissimo torneo alle medie a cui partecipavano diverse scuole del

territorio. Seguitissima era quella di Soliera, allenata da un frate che spesso entrava in

campo in tonaca, per contestare, saltellando, le decisioni arbitrali.

A Villafranca i tempi d'oro furono quelli di Carletto e di Lorenzo, quest'ultimo con un

fisico alla Bud Spencer e per di più campione provinciale di getto del peso; erano

ambedue ottimi schiacciatori e Carletto stese con una schiacciata un avversario che

aveva osato sfotterlo.

Con Beppe ed altri iniziammo la costruzione del circolo giovanile, ovvero di un

“qualcosa” che permettesse ai giovani villafranchesi di esprimere la loro voglia di

vivere.

Non era facile in un paese in cui l'immobilismo era ormai congenito, nell'attesa di

20

qualche salvatore che potesse cambiare le cose e molti giovani, studenti o no,

sognavano di restare o tornare al paesello, accontentandosi di ciò che offriva lo scarso

mercato.

Organizzammo una caccia al tesoro a Villafranca e subito si pose un problema

contingente; se tutti organizzavano chi avrebbe fatto il concorrente?

Il marchese, uomo pratico, rimandò l'obiezione al mittente dichiarando che il

problema non esisteva proprio; ci sarebbe stata la ressa all'iscrizione!

Fiduciosi nelle sue previsioni preparammo minuziosamente il programma dove

l'indizio più difficile era quello di trovare la targa di un’ automobile; ovviamente

quella della sua famosa cinquecento marroncina.

Purtroppo la ressa non ci fu e sparirono anche gli organizzatori, impegnati a

controllare da dietro le finestre l'arrivo di eventuali concorrenti; mancava pure la

targa in questione.

Beppe, forse attirato dalla bella giornata, era andato a fare visita alla futura consorte

in quel di Monti!

Questo paese, in comune di Licciana, distava 12 chilometri da Villafranca; la strada

era sterrata e quasi nessuno di noi aveva la macchina; era stato visitato in primis da

Nicolao e da Renzo, “l' Ernestino”, che dopo poche sere furono raggiunti da una

moltitudine di allegri soci; si andava in motorino, moto, Apecar, auto a noleggio,

fornite quest'ultime da Mafalda.

In cinque noleggiavamo la seicento, auto mitica, e al ritorno affrontavamo il percorso

in notturna, a marcia indietro; guidavamo con la testa fuori dal finestrino, accecati

dalla polvere, sino dopo al San Rocco di Virgoletta e lì giravamo l'auto.

Il contachilometri che a Monti segnava 12 km, era sceso per effetto del ritorno a 2-3

km, cosicché potevamo pagare senza difficoltà; si stupiva Martinelli, il custode: “ me

'n capìs; l'è piena 'd pòra e l'ha fàt sol tre kilometri!!”

Una sera dovevamo andare in quarantaquattro; dovevamo, perché Oreste, che

trasportava sul sellino posteriore del DEMM tre marce, Pierluigi Ruffini, raddrizzò la

curva del ponte del Merizzo e fini nella macchia di “raze” sovrastante il torrente.

Lasciò poi il motorino abbandonato in strada per diversi giorni e qualcuno pensò bene

di portarselo a casa.

Comunque lì, alcuni, trovarono la compagna della loro vita, come il Marchese,

Alfredo; altri, fugaci avventure, poi dimenticate.

A Villafranca c'era una tradizione teatrale, il cui massimo esponente era Augusto

Bragoni, detto “Gustin al Farkètt”, che in gioventù si era cimentato in quest'arte.

Dette prova della sua capacità quando arrivò in paese una compagnia teatrale

itinerante; questa si esibì in numerosi spettacoli, ricordo di stampo ottocentesco e

pensò bene di fare recitare ad un certo punto, il Nostro che, non conoscendo i testi,

improvvisava sempre, mettendo in crisi i compagni.

Riscossero però un grande successo.

In un mondo, che come detto, offriva pochi ritagli di svago, riprese quindi vita a

Villafranca, la Filodrammatica.

21

Già dieci anni prima si erano tenute alcune rappresentazioni di una commedia di

Livio Galanti “Sposarsi è una cosa seria”, interpretata con successo dal Farkètt, da

Germano, Miriam, Adele, Ninetto, Pietrino, e dal mitico Dux di Villafranca.

La commedia da rappresentare era una classica piece allegra ed il regista e

suggeritore era proprio lui, ribattezzato per l'occasione Augustus Fàrkett.

Iniziarono le audizioni degli aspiranti attori, per la verità in generale molto scarsi ed

alla fine si scelsero forse i meno peggio: Graziano, Gianfranco, le due Rosalbe,

Giampietri e Simonelli, Graziellina, Nadia, il sottoscritto ed altri.

Immancabilmente, nell’ ampia veste di organizzatore, trovarobe e factotum, c'era il

Marchese, la cui attività facilitò enormemente i momenti di confusione propri di ogni

nuova iniziativa.

Provammo per mesi e personalmente non riuscivo a capire come tale commedia

potesse trasformarsi sotto la guida del nostro maestro, in un feullietton ottocentesco;

tuttavia arrivammo alla “prima” emozionatissimi, ma convinti di aver fatto un buon

lavoro.

Quella sera al cinema di Villafranca c'erano tutti, donne, giovani ed anziani, ivi

compresa una claque, ispirata da Adriano “Pompilio” Ballestracci e da me ignorata,

pronta a sostenermi in eventuali distrazioni ”antiromantiche” !!!

A parte alcuni momenti di naturale imbarazzo legati a scambi di entrate, di battute, di

effetti musicali, andò tutto bene e alla fine il pubblico che aveva invaso con le sedie

anche gli spazi di transito, si aprì in un grande applauso.

Fu chiamato alla ribalta anche il regista, che però era seduto nella buca del

suggeritore; Gustin, persona già notoriamente distratta, si trovò quindi a dover

scendere al buio da un' impalcatura traballante, fatta di tavolini e sedie da bar,

studiata dal Marchese; cadde rovinosamente a terra, lanciando un' imprecazione.

Corse mio padre dalla prima fila, cercando di illuminare in basso la scena, con un

accendino; “T'set fàt màl, Gustin?”.

Augusto non si era fatto male e ricevette il meritato applauso.

Replicammo una sola volta e poi la compagnia si sciolse, non ricordo il perchè;

tuttavia l'avventura continuò e nacque l'Associazione Culturale Villafranchese, poi

Manfredo Giuliani.

Era figlia del circolo giovanile, i cui componenti erano appunto praticamente tutti

quelli della filodrammatica.

A parte Germano, molti di noi non avevano ben chiaro lo scopo del nuovo sodalizio;

solo l'innata curiosità giovanile ci spingeva a sperimentare il nuovo e capivano

certamente poco di storia ed etnografia.

Inizialmente andavamo in giro a visitare luoghi abbandonati, a raccogliere reperti per

il futuro museo etnografico, a fare domande agli abitanti del luogo, accompagnati

spesso dal Farkètt, che per i suoi studi e la sua cultura era considerato l'intellettuale

della compagnia.

Un giorno arrivò Germano al bar, un po' agitato, dicendo:”A ghè un' chi m'ha dìt ch' a

Fornal' a ghè 'na strada romana”.

Il termine “romano” scatenò subito la nostra curiosità e non fece fatica a portarci a

Fornoli dove ci attendeva l'informatore.

22

Questi ci accompagnò lungo un sentiero sperso nella campagna, stretto, pieno di

“raze”; della strada romana aveva poco - ci dicevamo - chiedendoci come avrebbero

potuto passare di lì.

Improvvisamente il sentiero si aprì in un viottolo lastricato di sassi e largo un paio di

metri; tornammo indietro a ripulire il sentiero e questo mostrò la sua origine

medievale, oscurata dal tempo.

Avevamo ritrovato la vecchia via che da Fornoli andava a Virgoletta ed a Filetto;

l'uomo ci disse di avere visto anche i resti di un ponte, ma non riuscì a localizzarli.

Un giorno, poi, la squadra, accompagnata da Romolo Formentini, andò a Canossa

alla ricerca di tombe liguri e ritovò una statua stele che spuntava dal bordo di una

strada scavata per il metanodotto; fu una grande ed inattesa scoperta.

Io ero a Massa per un esame, ma ebbi il piacere di andare a fotografare il luogo con

Germano, dopo pochi giorni.

Le grosse difficoltà ci furono quando fu programmato il primo numero della rivista

dell'Associazione “Studi Lunigianesi” “Villafranca nel Ducato di Parma”.

Poiché ero studente di Medicina Veterinaria, Germano mi chiese di indagare sulla

situazione igienico sanitaria del paese. Non ne sapevo nulla e nulla conoscevo della

dominazione parmense in Lunigiana.

Senza un ' idea mi recai a Massa all'Archivio di Stato, dove un giovane impiegato,

forse colpito dalla mia totale ignoranza della materia, mi portò gli atti dell'epidemia

di colera che si ebbe nel 1954 in Lunigiana ed in particolare a Villafranca.

All' Archivio non c'era allora la fotocopiatrice, ma di fronte alla mia manifestata

indisponibilità a copiare il tutto a mano, mi autorizzarono ad andare, accompagnato

da un usciere in divisa nera, in un ufficio in centro dove mi fecero delle fotocopie su

carta spessa e grigiastra; con quelle tornai a Villa, dove Germano rimase colpito

dall'inaspettato ritrovamento che gli mostrai nel nostro “ufficio”, il bar di Nello.

La presentazione del primo volume di “Studi Lunigianesi” si tenne nel palazzo

comunale di Villafranca, alla presenza del Sindaco Cirelli e di Mario Nicolò Conti,

uno dei massimi cultori di storia lunigianese.

Era una giornata di pioggia e mi avviai per tempo, accompagnato da mia moglie, alla

sede comunale; all'entrata caddi disteso in una pozzanghera traditrice e mi inzuppai il

vestito chiaro che usai poi per discutere la tesi di laurea.

Mi soccorse la famiglia di Germano; a casa mi asciugarono il vestito con il phon e

così potei presentarmi, rimesso a nuovo, davanti all'uditorio.

Riuscii a leggere, emozionatissimo, la mia relazione, assistito dall'incoraggiamento di

Germano che ogni tanto, memore dei trascorsi di attore giovane, mi

sussurrava:“Voce!!!”

Ho rivisto dopo anni la foto del mio intervento; Conti è ritratto attento e pensieroso

con lo sguardo rivolto in basso, mentre Germano appare tirato, sicuramente per

l'emozione.

Andò comunque tutto bene; sono passati quarant'anni da quel giorno.

Ho ripensato spesso a quella “sede comunale”.

Fu inaugurata quando facevo le elementari, cosicché ci portarono tutti, alunni e

23

maestri, accompagnati dalla banda e dalle autorità del villaggio, ad assistere al taglio

del nastro tricolore; era mattina presto e ci ritrovammo un centinaio di alunni, con il

grembiulino nero ed il fiocco bianco davanti all'edificio da poco ultimato.

Ci avevano dato tante bandierine tricolori che avremmo dovuto agitare all'arrivo della

massima autorità, ovvero il ministro, donna, della Marina Mercantile.

Questa, impegnatissima, come tutte le persone importanti, non si decideva ad arrivare

e giunto mezzogiorno cominciarono a distribuirci biscotti, sino a quando le mamme,

ribelli all'ordine costituito, cominciarono a portare a casa i figli; molti si erano gìà

liberati dei grembiuli e delle bandierine e quando, al tramonto, la Ministra arrivò,

trovò solo un manipolo di alunni ad attenderla!

Nessuno si scusò!

Quello di salutare le autorità era un obbligo degli scolari. Quando passò il neo

Presidente Gronchi, il cui treno faceva sosta a tutte le stazioni, ci spedirono ad

attenderlo con la solita divisa; arrivò in orario, allora succedeva, sul terzo binario,

dove potevano sostare solo le Autorità.

C'era però anche mio nonno Pepèn, che un vecchio notabile democristiano presentò

al Presidente, il quale, dal finestrino, si degnò di stringergli la mano; Pepèn non imitò

il De Amicis di “Cuore” e non mi dette una carezza!

Il mezzo di locomozione di noi giovani era la bicicletta, anche se ben diversa da

quelle odierne, tutte accessoriate e cromate, con ammortizzatori e cambio.

Spesso le nostre erano frutto di assemblaggi vari, multicolorate, spesso col sellino

spelacchiato e non necessariamente legate al sesso del propietario.

Solo Roberto Doretti aveva una bici diversa; nera, pesante, credo ispirata a quelle

classiche inglesi della City, propria del suo modo di vestire, propriamente filo

britannico.

Era svantaggiato però nelle corse che facevamo: il giro di Pontremoli con gran

premio della montagna sulla Polveriera, che costringeva i più a fermarsi a prendere

fiato; le volate che facevamo alla mattina nel viale che portava alla media e al liceo e

che immancabilmente ci restituivano alla scuola completamente sudati o magari

inzaccherati per qualche caduta.

Questo sino ai fatidici quattordici anni, età nella quale molti riuscivano a procurarsi il

nuovo, agognato mezzo di locomozione, il motorino.

E da quel momento non solo, anche se tanto, di donne si parlava; i motorini, cioè quei

cinquantini a forma di moto con tre marce sul manubrio e la messa in moto coi

pedali, raramente con la pedivella, diventavano l'altro argomento principe.

Li truccavamo in un modo artigianale togliendo il silenziatore della marmitta,

spianando la testa su di una lastra di marmo, modificando il carburatore e persino

togliendo il cavalletto per alleggerirne il peso; uno, originale, mise un bel paio di

baffi di stoppa sotto il fanale

Il re era Fredino, del bar della stazione, che era riuscito a creare un mostro da 80

chilometri all'ora e dava così la polvere a tutti.

Così un giorno, al bar, si sparse la notizia che il Teddy aveva comprato il motorino in

24

questione.

Occorre aprire una dovuta parentesi parlando di Sauro, al secolo Teddy, persona mite,

gentile, simpaticissima, dipendente Enel, amico di tutti e da tutti conosciuto e

stimato; famose erano le sue battute a spiegazione del proprio vivere: “Dicono che ci

sono sette donne per ogni uomo; se trovo chi ha preso le mie sette...!”, “Quando

verranno di moda quelli che vanno in bicicletta, non saluterò più nessuno!”

Tale condizione, legata al fatto che non lo si era nanche mai visto in bici, provocò

l'esodo immediato dal bar e tutti, con i più svariati mezzi, corsero alla stazione; Sauro

era già in sella al motorino ed innestata la prima marcia si avviò verso il Ponte

Magra, seguito da una torma incoraggiante.

Arrivò, sempre in prima, sino al ponte di Groppoli; lì girò il mezzo e dopo poche

decine di metri, nell'affrontare una curva a gomito in discesa, iniziò ad urlare: “A'n'

poss..:!” e mollò letteralmente il manubrio, infilandosi in una macchia. Tornò a

Villafranca a piedi.

Il Teddy era anche l'amico del cuore di Giorgio, suo coetaneo e spesso suo

“carnefice”. Si racconta che, rimasto senza benzina a Groppoli con la cinquecento, lo

costringesse a spingerlo in salita, sotto la pioggia, per diverse centinaia di metri, sino

alla discesa del Ponte!

Intanto, piano piano, eravamo passati dai motorini alle macchine dei genitori, in

genere Cinquecento o Seicento, delle quali si aveva a volte la disponibilità serale e

festiva. Il problema era però che la benzina andava pagata e nessuno aveva, in genere

la disponibilità per farlo! La Cinquecento poi, aveva solo la spia della riserva ed

ognuno di noi, sulla base dei chilometri in programma era in grado di stabilire se si

poteva partire.

In casi disperati si apriva il cofano, si svitava il tappo del serbatoio e si agitava

disperatamente l'auto; dal rumore della benzina si poteva indovinarne la quantità

rimasta; in questo lo specialista era il citato Giorgio!

Anche le 500 andavano truccate per inseguire il sogno di tutti: “l'Abarth” , ovvero il

cinquino da competizione, con il logo dello scorpione, le ruote ribassate, il cofano

posteriore aperto, il blocca cofano anteriore in gomma nera, la leva del cambio corta

e soprattutto la marmitta “casinosa”.

Chi aveva la disponibilità continua di un auto era Nicolao, la cui madre, come

ricordato, aveva un autonoleggio; il problema era che andare a spasso con lui

significava rischiare ogni volta la pelle; gli piaceva correre e spesso noi

l'assecondavamo.

La sua passione erano le corse a cronometro e con la Seicento partiva da Treschietto

ed affrontava a tutto gas i tornanti sino a Vico, in discesa quindi, cercando ogni volta

di migliorare il suo record; noi ci limitavamo a bloccare le rare auto che salivano da

Vico, sino al suo arrivo, perennemente insoddisfatto del suo crono!

Un' auto abbisognava spesso del meccanico e soprattutto del carrozziere; in questo si

ricorreva all'opera estemporanea di un allievo di Ferdani: Sergio, il mitico Lanza da

Villafranca, animo poetico, contemplativo, però amante della buona cucina e del

vino, costretto a svolgere l'ingrato lavoro di ripara guai altrui!

25

Fuori della sua tana, nel Piano di Bagnone, c'era un cartello ammonitore: “ Prezzi

modici e lavori accurati” ; non so chi glielo avesse suggerito, forse la sua anima

poetica, ma certamente nascondeva in se drammi tragicomici!

Gli portai di nascosto, il cinquino di mio papà; me lo aveva dato per un giro in

Germania con Renzo e con un'intelligenza propria dell'età avevamo disegnato tutte le

tappe del percorso con del nastro isolante verde. Questo spiccava bene sul bianco

dell'auto e poteva costituire un vanto verso quei nostri amici pecoroni che erano

rimasti al paesello; finita la sfilata, però, lo scotch non ne voleva sapere di togliersi e

così fui obbligato ad andare da Lanza.

“ ' R'vèn fra 'na s't'mana” mi disse Lanza, impegnatissimo nel lavoro; obbedii e dopo

alcuni giorni mi presentai alla sua officina con il denaro regalatomi al solito da mia

zia Fausta. Lanza non c'era, ma non c'era neppure la 500! Mi guardai intorno

smarrito, pensando le cose più tremende, quando all'interno di una specie di caverna

vidi un'auto con una targa familiare: MS 37400; era la mia! La targa nera, spiccava

sul cofano motore bianco, ma la parte superiore era di un viola tendente al blu; non

mi capacitavo.

Intanto era giunto il “Mitico” che alle mie insistenti domande rispose con flemma: “

A'n ghev pù 'd color bianc! ”; rischiò il linciaggio e fu costretto a comprare il colore

mancante.

Non ricordo di averlo pagato; peraltro mai me ne ha fatto cenno.

Era comunque una nostra risorsa, anche se ogni volta riusciva a combinare disastri;

magari lasciava l'impronta del suo scarpone sulla vernice fresca o credeva nell'utilità

del carteggiare un pezzo, dopo avere appena verniciato quello adiacente.

D'altronde molti che si occupavano dei nostri mezzi di locomozione erano autodidatti

e non era difficile vedere “avanzare” un qualche pezzo di cambio o di motore: “Tant'

quest' in serva a nienti!”

Le auto, in genere le Cinquecento, servivano poi, ai pochi fortunati, da alcova; i sedili

ribaltabili ancora non erano stati inventati e qualcuno, come il Marchese se li era fatti

assemblare, naturalmente su suo progetto, dal fabbro. Li prestava qualche volta agli

amici, anche se non mi è ben chiaro chi li potesse poi realmente usare, senza

millantare credito!

All'interno dell'abitacolo poi, un altro ostacolo, sempre in agguato: la leva del

cambio! Troppo lunga, ostacolava i goffi tentativi di avvicinarsi alla povera ragazza, e

spesso ci si ritrovava pieni di lividi; meglio quindi usare il plaid, scozzese, di cui ogni

auto “seria” era fornita e che, nel bel tempo, permetteva toccate e fughe in

“Camporella”.

Gli anni '60 e seguenti, in un piccolo paese come Villafranca, erano densi di

esperienze e di voglia di vivere, di ricerca del nuovo e del “più” meglio ; erano una

palestra di vita per chi non si accontentava di ciò che il placido clima sociale del

paese proponeva e possiamo ora rivendicare una fortuna: quella di averli vissuti!

Figli della guerra, siamo passati indenni da una civiltà contadina, ritualistica,

immobile, bigotta, ad un nuovo secolo, in un continuo divenire.

26

Seicento anni fa Gio Antonio da Faie fu mandato a dieci anni a governare i buoi al

pascolo; ancora ai primi del '900 in Veneto i bambini venivano affittati dai genitori

per lo stesso lavoro.

Nella mia giovinezza, ad Agnetta, seguivo le mie cugine che accompagnavano le

mucche!

Abbiamo visto e talvolta vissuto il dopoguerra, il boom, il '68, i movimenti di

liberazione della donna, dei costumi, il terrorismo, l'informatica, la globalizzazione,

pagati con la scomparsa di un modo di vivere millenario.

Abbiamo visto l'uomo al centro del cambiamento della società, con lo sguardo

proiettato da un minuscolo paese posto lungo la francigena di Sigeric, col giuke box,

con Gion Vaine, Gari Cooper e i cov bois; ...così si chiamavano!

27

Quando il Veterinario era “al siòr dotòr” Ricordo di una campagna che non c'è più

“Dotòr”, mi mormorò con dolcezza Severina al telefono, “a' ghè da mètar sota 'na

mansa a...”.

Non era una segnalazione, un invito, ma l'orgogliosa, seppur soffice, affermazione del

proprio ruolo di “segretaria” del Veterinario comunale di Varano Melegari.

Lei, piccola ed anziana signora, residente in un paesino, Vianino, posto allo sbocco

della Val Ceno, era la custode della vita professionale di un’ Autorità: il Veterinario

del Comune, “al Dotòr”!

Quel “mètar sòta”, fecondare, una manza, costituiva però un problema.

Mi avevano telefonato la sera prima a casa, che il titolare, il dr. Allodi aveva avuto

una colica ed aveva fatto il mio nome per la sostituzione interinale.

Ero partito alla mattina presto per Varano e dopo avere parlato con Severina, mi ero

insatallato in casa di uno zio di mia moglie.

Ero laureato da poco ed era il primo lavoro indipendente che svolgevo; avevo fatto un

po' di pratica con un veterinario più anziano, che ogni tanto mi permetteva di toccare

la mucca che stava curando.

Il problema che si presentava era difficile; non sapevo fare una fecondazione

artificiale.

Oltretutto si stava passando all'uso del seme congelato ed al corso universitario,

obbligatorio, per esercitare e di cui avevo l'esame al pomeriggio, mai ci avevano fatto

fare o vedere una fecondazione artificiale.

Quando un giovane veterinario entrava per la prima volta nella stalla, specialmente in

montagna dove il tempo aveva meno valore, inevitabilmente il propietario lo

squadrava e sembrava domandarsi, sotto un saluto appena accennato, “ Ma po', saràl

bo'?”

Bene, io non ero buono ed avevo solo una pallida idea di come si facesse.

Mi soccorse Severina: “Dotòr, ghè a ca' al dotòr Ferreri in convalesensa; sàl, ha

avuto un incidente d'auto”.

Dio, a volte, aiuta e Severina mi parve la cosa più simile alla Provvidenza che avessi,

nei miei primi ventisei anni, conosciuto; mi disse dove abitava il collega, che era

stato per anni il titolare dell'incarico a Varano e corsi a casa sua.

Ferrari, forse vicino ai sessanta, c'era; mi guardò, ascoltò il problema e sparò una

sentenza tagliente come una rasoiata!

Non aveva mai usato il seme congelato e quindi non sapeva bene come fare, ma poi

aggiunse con l'aria di chi ne aveva viste ben di peggiori, che conosceva bene il

padrone e che sicuramente in qualche maniera avremmo concluso la fecondazione.

Era tranquillo, forte di un'autorità conquistata sul campo che gli permetteva di

dominare e di non fare pensare alcun male di lui, al villico.

Questi lo accolse con un misto di rispetto e di riconoscenza; l'assenza di Allodi era

già stata segnalata e, naturalmente.. “ubi maior....”! La mia presenza diventava perciò

superflua; qualunque cosa Ferrari avesse fatto, sarebbe stata, per lui, quella giusta!

28

Discutemmo dottamente, a lungo, sulla temperatura di scongelamento del seme,

mentre il padrone, ammirato, teneva ferma la manza; il che è un eufemismo, poiché

queste giovani bestie, abituate al pascolo e proprio perchè in pieno momento di

copertura estrogenica, generalmente non concordano su questa esigenza.

Riuscimmo, fra calci, sussurrate imprecazioni e maledicendo chi aveva abolito i tori

dalle stalle, questo con la piena comprensione del contadino, a compiere il nostro

dovere ; ci pagò, feci la bolletta col nome del toro, futuro padre, ed uscimmo.

Ero diventato un Veterinario, forse un “Dotòr” e presto, al mercato, la voce si

sarebbe sparsa!

La sera dopo mi accorsi, mio malgrado, della facilità di propalazione delle notizie; fui

chiamato per il parto di una vacca.

Occorre subito chiarire che nessun veterinario veniva chiamato a fare partorire una

vacca che non presentasse problemi; chi associa tale pratica a quella umana ed al

ricovero ospedaliero, beh, si sbaglia di grosso.

Il contadino ha una immensa e secolare tradizione di parti, nascite, svezzamenti,

fecondazioni; è , nell'insieme ostetrico, pediatra, alimenterista, etologo, ma spesso ha

anche una immensa considerazione delle proprie capacità..

“Sàl, Dotòr” mi disse una volta a Casa Selvatica di Berceto, uno, “anch'io sono

quasi veterinario; ho letto un libro....”; dimenticò di dirmi come aveva fatto a

scavezzare in parto, la spalla di un vitello!

Quindi, quando si veniva chiamati per fare nascere un vitello, c'era la certezza che

aveva provato per lungo tempo a fare tutto lui, con i suggerimenti dei familiari ed

amici, chiamati per l'occasione a “tirare” le corde che si legavano ai piedi del

nascituro.

Altrettanta certezza vi era sul fatto, che non riuscitoci, aveva richiesto l'aiuto gratuito

del “medgon” del paese, che dall'alto della sua pluriennale esperienza, non poteva

non risolvere il problema.

Non pensavo a queste cose mentre mi dirigevo a Casa Tanzi, a Ponteceno; pensavo

che era il mio primo parto in solitario e non sapevo come avrei trovato posizionato il

vitello.

Le distocie, ovvero le presentazioni anomale del vitello, ovvero i parti non normali, si

studiano per l'esame di Ostetricia; il Professor Salerno, bolognese dal vocione

cavernoso, un giorno ci fece vedere alcune figure dal libro ed in un'ora ci spiegò

come dovevamo arrangiarci!

Naturalmente nessuno degli studenti capì nulla e nessuno, poi, ci ragguagliò

sull'argomento; in compenso ci preparammo a discutere con la professoressa di

Botanica di gigli ed orchidee!!

Però ero giovane e mi avviai alla stalla pieno di coraggio ed entrai.

Non c'era la luce elettrica e la stalla, posta vicino al Ceno, dove alloggiavano una

decina di bovine, impagliate recentemente, era illuminata da una grossa candela; in

un angolo scuro, un gruppo di persone, silenziose, vestite con abiti da lavoro, che

29

pareva mi guardassero con fare minaccioso.

Il padrone mi venne incontro e mi spiegò che il vitello era a pancia in su.

“Bene”, dissi, “ mi cambio e cominciamo”; mi fece accomodare in una stanza della

casa ed iniziai a mettermi il camice impermeabile e gli stivali.

Mi vestivo lentamente, cercando di ricordare cosa c'era scritto in quel libro su quel

tipo di presentazione; invano mi sforzavo, mentre maledicevo il Salerno.

Era una distocia semplice, che anni dopo avrei ridotto in cinque minuti, applicando

inconsciamente la dinamica dei fluidi, ma allora la mente impaurita non mi

permetteva di ragionare; che avrebbero detto coloro che mi aspettavano al varco?

Arrivò il padrone eccitato e mi comunicò, con fare speranzoso, che il vitello si era

girato da solo; il che equivaleva al fatto che potevo, se volevo, rivestirmi e tornare a

casa.

“Così faremo prima!” osservai e mi diressi alla stalla.

Orbene, c'è una differenza fra un parto fatto da un veterinario e da un praticone; il

Veterinario spiega a tutti come devono comportarsi nel tirare, per evitare che il vitello

rimanga incastrato nel canale di parto e che la madre si laceri.

Spiega come fare alzare la vacca dopo il parto e come tenere il vitello; insomma fa

pesare la propria cultura e fa vedere di sapere, senza spiegare troppo, cose che loro

ignorano.

Insomma può essere considerarato una riedizione del manzoniano

“azzeccagarbugli”

Questo colpiva i presenti e creava un'autorevolezza, in realtà un po' millantata , che

però costruiva il “personaggio” ; “..mamma mia, quante cose sapeva questo giovane

e come spiegava bene!!!”

Introdussi il braccio nell'utero materno e mi accorsi che il vitello sarebbe uscito da

solo! Legai velocemente le zampe e misi in posizione la squadra, che assecondava

ogni mio comando.

Sorressi il piccolo mentre usciva, per non farlo cadere a terra e raccolsi, nel buio, lo

sguardo compiaciuto del padrone.

Era giovane e non apparteneva a quella categoria che voleva fare nascere il vitello a

tutti i costi.

Era, questa, la più pericolosa, incosciente, autodistruttiva.

Il vitello non passava, era messo male e non si riusciva a farlo nascere? Niente paura;

vi era un rimedio ormai collaudato! Lo si legava per i piedi, si applicavano le taglie e

si tirava con gran forza; spesso usciva, morto, ma insieme a lui usciva anche l'utero,

con qualche pezzo di intestino e la vacca veniva mandata al macello d'urgenza!!

Tant'è, volete mettere la soddisfazione di averla avuta vinta! E poi non aveva mica

attaccato il trattore, come faceva qualche sconsiderato!

Lo sperimentai, un giorno, a seguito del mio “maestro”.

L'avevano chiamato per un parto in una stalletta della Valtaro; eravamo arrivati dopo

un paio d'ore e la prima immagine che mi si presentò fu quella di una carriola. Si, una

30

di quelle da muratore, che condotta dal villico trasportava il corpo del vitello,

naturalmente morto!

“Ha visto che ce l'ho fatta!” disse sorridendo l'uomo, rivolgendosi all'anziano collega;

peccato che poi dovette chiamare il camion del macellaio, poiché non si riusciva a

distinguere la disposizione anatomica degli organi interni.

Aveva avuto fretta, paura e presunzione; un vitello vive nella pancia materna anche

ventiquattr'ore dall' inizio del parto, al contrario del puledro che dopo poche ore

muore.

Il secondo parto lo feci poco lontano ; era una vacca che spingeva e non si dilatava.

Perchè, direte voi; perchè, mi domandavo io!

Anche qui molta gente, tutti in attesa del risultato della partita.

La visitai e mi accorsi che aveva una cervice doppia, cioè un cordone che chiude al

centro il canale cervicale; avevo letto che bisognava tagliarlo con una forbice, che

però andava introdotta in vagina.

E se avesse avuto un'emorragia? I libri dicevano di no, ma chi scrive, spesso scrive

per sentito dire e non mi fidavo.

Cominciai ad allargare la cervice con la mano, a massaggiarla ed alla fine cominciò a

dilatarsi; dopo un'ora estrassi il vitello ed una donna esclamò. “Sàl c'l'è brèv,

dotòr!!”; non ero bravo, ma avevo avuto fortuna, quella che Arrigo Sacchi chiama

con un altro e ben conosciuto nome.

Comunque in pochi giorni avevo fatto passi da gigante, di esperienza e di autostima!

Assolsi nei giorni seguenti al lavoro di routine: fecondazioni, visite, certificazioni,

correndo per strade di montagna, sterrate, infangate, ancora coperte di neve.

I contadini erano gentili; alla naturale gentilezza di molti si univa quella capacità,

tutta parmigiana, di accogliere il visitatore, fosse esso un professionista od il postino.

Pochi erano gli uomini presenti in stalla; molti, in collina, ormai lavoravano a Parma

e lasciavano il governo delle bestie alle donne di casa.

Nessuna famiglia però mancava di ringraziare, di offrirti un bicchiere o di chiedere

notizie sulla provenienza e sulla famiglia; era facile, se lo si voleva, stabilire un

rapporto cordiale.

Una mattina entrai alle 7, in una grossa stalla di Sala Baganza per fare la

vaccinazione antiafta; stavano ancora mungendo, seduti su di uno sgabellino.

Non mi sembra usassero la mungitrice individuale; eravamo nel 1973; le bestie erano

ancora legate alla mangiatoia e venivano tutte chiamate per nome ed invitate a non

muoversi, talvolta con qualche imprecazione, spesso con affetto, come si fa con un

figlio discolo!

“Al fàt' c'lasiò, Dòtor?”, mi chiese il propietario, senza smettere di mungere; risposi

di no, non avevo avuto il tempo, in realtà. !”Alòra quand' è'ma f'nì …..” e così mi

ritrovai, dopo poco, seduto con loro in cucina, davanti ad una tazza di caffèlatte

fumante, ripiena di pane fatto in casa!

Si stabilì un buon rapporto, anche se probabilmente pensai che non li avrei rivisti.

Erano diversi da quelli che trovavo nelle mie frequenti puntate a Varese Ligure in Val

31

di Vara.

Mi aveva contattato il farmacista locale, il dottor Alinovi; veniva da Monchio e con

l'intraprandenza propria delle genti parmigiane di montagna, aveva capito che la

presenza, anche saltuaria di un veterinario, avrebbe giovato ai suoi affari ed alla sua

reputazione personale.

Arrivavo là nel pomeriggio, prendevo l'elenco delle visite e correvo sino a sera per

zone sconosciute.

Accoglievano con poche parole, senza invitarti in casa; osservavano mentre visitavo,

pagavano senza difficoltà e ringraziavano. Insomma non davano confidenza, anche se

si vedeva che erano riconoscenti di avere avuto un qualche aiuto; erano liguri e per di

più di montagna!!

L'ostetricia e la ginecologia erano naturalmente il pane quotidiano del Veterinario.

Il parto più duro fu a Borgotaro: Era una sera d'agosto e me ne stavo seduto sulla

terrazza dell' albergo Roma; mi chiamò il titolare, che mia moglie mi cercava al

telefono; non esistevano i cellulari e la segretaria, ovvero la moglie, andava per

tentativi, a volte infruttuosi. “C'è un parto da Gasparini alla Valdena” disse “e non

trovano nessuno”. Quel nessuno erano i due veterinari anziani di Borgotaro, che

evidentemente erano via.

Mi diressi alla macchina ed incrociai un amico biologo, che saputa la cosa, si offerse

di accompagnarmi, stimolato dalla nuova esperienza.

Arrivai in pochi minuti e trovai il padrone in preda ad un'agitazione: “Dottore, il

vitello è senza testa!”

Mi cambiai, in una stalla caldissima, ripiena di persone e, curioso, entrai col braccio

nel canale di parto; la testa non c'era! C'era però il collo, ripiegato all'indietro e quindi

poi doveva esserci la testa.

Ora per fare avanzare il tutto c'erano delle metodiche, però segrete; se scappava una

parola, poi se ne sarebbero impadroniti ed allora addio!

Legai le zampe anteriori, per recuperarle poi senza fatica e riuscii, con l'aiuto di

quegli odiati studi di Fisica, ad incanalare la testa nel parto; non appena cercavo di

tirare, però quella tornava nella posizione originaria. I libri dicevano di mettere due

uncini ai lati degli occhi del vitello, legarli con una corda e tenere così la testa in

tensione; come al solito l'avevo letto e non mi piaceva fare del male al neonato!

Chiesi alla padrona se aveva un tovagliolo, uno di lino, bello ruvido; me lo portò e

con questo afferrai il ganascino del vitello. Lui non sembrava d'accordo e forse

scambiandolo per il capezzolo materno, mi diede una morsicata alla mano; era vivo!

Intanto la vacca mi guardava con due occhi umani; soffriva e sembrava dirmi di fare

presto; ne fui impressionato. Istruì la truppa e cominciammo a tirare lentamente; la

vacca cadde a terra e dovetti sdraiarmi assieme a lei per fare sì che non si lacerasse.

Però il “tiro” perse lo slancio ed il vitello restò incastrato; metà fuori e metà dentro.

Così non poteva respirare ed allora puntando i piedi sulla natica della vacca e

stringendolo forte, detti un colpo e si sentì il rumore dello stappo di una bottiglia; era

32

uscito, ma non respirava più.

Mi issai su di una balla di paglia, tenendolo per i piedi, mentre uno cercava di fargli

una tragica ginnastica respiratoria con gli anteriori; nel frattempo urlavo di fare alzare

la vacca.

Andò tutto bene e dissi al padrone di dare alla puerpera una bottiglia di vino; non

battè ciglio, sapendo il perchè e corse in cantina. L'amico biologo, grande

appassionato di alcolici, non capiva e giudicava tale operazione uno spreco!

Gli spiegai che era un vecchio rimedio empirico, che serviva a ripristinare la

ruminazione, grazie al contributo di acido acetico fornito dal vino.

Il rischio era da sempre quello del fifty-fifty, cioè che il villico facesse un po' a te ed

un po' a me!

L'avevo constatato di persona più di una volta.

Il vino era uno dei tanti rimedi empirici che si imparavano dai contadini e anche

all'Università; un collega, alla richiesta di compilare una ricetta per i pidocchi scrisse:

petroleum, qb, ovvero petrolio, quanto basta!!

In realtà il petrolio era un rimedio conosciutissimo, pari allo zolfo per la rogna, che

veniva irrorato con quei serbatoi a stantuffo o “machina par dàr l'aqua” che si

usavano anche per dare il verderame alle viti e per imbiancare le pareti.

Per le forme di meteorismo acuto, ovvero quando la bestia si “gonfiava” si usava

l'olio d'oliva, facilmente rintracciabile nelle case contadine.

Il difficile era somministrarlo, anche perchè c'era il rischio, nei casi più urgenti, che la

bestia scoppiasse, nel vero senso della parola; si ricorreva allora alla canna dell'acqua.

La si infilava nella gola e nello stomaco del malcapitato e si introduceva l'olio a

volontà, mescolato con dell'aceto, che così come il vino, favoriva il riprendere della

digestione.

Se però con un vitello era una manovra semplice, con una vacca e soprattutto con un

toro libero in un box da ingrasso, il problema era diverso!

Una notte, durante un giro di ispezione a dei tori malati, mi accorsi che uno si stava

gonfiando; entrai nel box con in mano una siringa di tranquillante ed attesi che tutti i

capi presenti iniziassero a girarmi intorno. Sapevo che non mi avrebbero attaccato, se

non li avessi stuzzicati.

Quando il tipo fu a tiro, gli piantai rapidamente la siringa nel collo e corsi fuori dal

box; una volta sedato, lo tirai con una corda ai bordi e provvidi ad “incannularlo”, dal

momento che non avevo a disposizione il “trequarti”, una specie di pugnale, col quale

si forava la parete del rumine e che lasciava “in situ” il fodero, aperto in punta, che

permetteva al gas di uscire.

Un contadino , a Solignano, usò però un sistema nuovo! Mi chiamo perchè la vacca

aveva un febbrone e mi spiegò che essendosi gonfiata di colpo, l'aveva “bucata”;

chiesi con cosa e con fare circospetto si avvicinò al davanzale della finestra, la cui

ultima pulizia risaliva probabilmente ai tempi di Noè, e mi fece vedere un piccolo

apriscatole completamente arrugginito! Dopo pochi giorni dovette macellarla.

33

La stalla, nei vecchi diventava poi di fatto un’ appendice generale della casa; una

volta entrando, trovai il padrone intento a sistemare con la forca, le proprie “digesta”

nella paglia, come quelle dei suoi bovini: “ Ch'al scusa, dotòr! A ghèva 'n bsògn!”.

L'intervento più difficile era il prolasso uterino post partum, ovvero “la smadratura”,

la perdita della “madre”, come si diceva.

L'avevo sentito dire, ma una notte in una stalla del senese ne ebbi conoscenza diretta.

Mi avevano chiamato alle due per un parto difficile; alle quattro il vitello ebbe la

compiacenza di mostrarsi al mondo ed io, a pezzi, ma contento, trascurai la madre.

Che dovevo fare, si dirà; solo farla alzare e permettere così all'utero di tornare al suo

posto!

Questo se qualcuno me lo avesse raccontato; era però tradizione che i vecchi, per non

andare mai in pensione, si tenessero stretti i loro segreti!

All'improvviso, con dei forti fremiti, simili di un'eruzione vulcanica, la vacca buttò

fuori il suo utero, che se aveva contenuto sino a pochi attimi prima un vitello di 70

kg, non poteva certo essere piccolo; insomma era come un sacco pieno di legna!

Il rimetterlo all'interno era, come al solito, un problema mai visto, ma neanche mai

spiegato a lezione; il mettere un corpo grande, all'interno di un piccolo canale,

contrastava poi con le leggi della fisica.

C'è anche da considerare che la vacca non aveva nessuna intenzione di farselo

sistemare; ciò le provocava dolore, fastidio e, d'altronde, se lo aveva espulso, un

motivo doveva esserci.

“Oh...! Hhe si fa?” chiese il buon contadino, conscio che mi trovavo in difficoltà e

speranzoso di non perdere il suo capitale.

Avevo letto sul “bugiardino” di un anestetico che bisognava iniettare tale preparato

fra due vertebre della coda, per evitare che la vacca “spingesse” e contrastasse così la

messa “in situ”.

Però, c'era pure scritto che si andava nella vertebra vicina, la bestia si sarebbe

paralizzata!

Niente di più semplice; occorreva solo contare, ma anche sapere quale fosse la

vertebra del primo caso; per individuare il punto intervertebrale, alzai ed abbassai la

coda a mò di “sambòt ”, infilai la siringa e per effetto del vuoto del canale vertebrale,

questa si svuotò da sola in un attimo.

La vacca non si paralizzò; nel 50 e 50, ci avevo azzeccato! Sostenendo l'utero da terra

con una tavola in legno e lavandolo di continuo con acqua fredda per farlo

rimpicciolire, con l'aiuto del padrone riuscii, nel giro di due ore a rimetterlo a posto;

sistemai il tutto con dei ganci appositi ed andai a dormire.

Ritrovai il problema in una stalletta sulle rive del Baganza, dove mi avevano

chiamato per una fecondazione.

Arrivato sul posto vidi i due anziani padroni che si affannavano intorno ad una

giovane bestia che dopo il parto aveva prolassato.

“Co' fèmia, dotòr”, cioè cosa dovevo fare io, intendevano; mi avvicinai alla bestia,

che, non appena ebbi iniziato la manovra che ormai conoscevo, decise di andarsene

per i fatti suoi.

34

Insomma si liberò dalla “stretta” dei padroni e corse via, dimenticandosi che l'utero le

ballonzonava fuori!

Le corsi dietro sorreggendo con le mani “ la madre” per evitare che si rompesse o

lacerasse; non ricordo chi si stancò prima, ma certamente fu un'esperienza

fantozziana.

La corsa si ripetè con un torello limousine di 250 kg, nell'allevamento che seguivo in

Toscana; sceso dal camion, alle due di notte, decise di cercare la libertà, e forse,

perché veniva dalla Francia, non capì la botta in testa che gli diedi con una spranga di

ferro per fermarlo.

Corse, in una notte settembrina di luna piena, negli immensi terreni della tenuta

Piaggio, inseguito dal custode e dal ragioniere della ditta, dal Veterinario comunale e

dal sottoscritto.

Improvvisamente cadde in un pozzo nero dove, per le esalazioni, stava soffocando; lo

sollevammo a fatica, con un trattorino, passandogli però, un cappio al collo, che

sembrava averlo strangolato.

Sembrava morto, ma non appena liberato della corda riprese la sua galoppata sopra

una montagna di silomais, inseguito ormai solo dal custode e da un”lazo”.

La luna sembrava osservare dall'alto queste due figure buie, che si stagliavano in

controluce, correndo a perdifiato, in nome di una pirandelliana libertà!

Si infilò in un torrente melmoso e fu la sua fine; tre cappi gli volarono al collo e,

lottando, fu trascinato nel box.

Erano le quattro del mattino; eravamo sporchi, stanchi e decidemmo di assaggiare la

coppa che avevo portato da casa!

Uno dei compiti del ginecologo era quello poi, di “secondare” la puerpera, ovvero

togliere la placenta che, qualche volta, non vuole separarsi dall'utero.

Direte, dov'è il problema; basta tirare ed esce! Madre Natura ha deciso diversamente

perché la placenta bovina ha circa 100 cotiledoni con villi, da staccare, e soprattutto

occorre infilare il braccio

sino in fondo ad un utero, a volte enorme e per di più ripiegato nella parte terminale

verso il basso. Poiché il braccio non è elastico, spesso si deve salire su di una balla di

paglia o fare alzare la pancia della bestia con un asse di legno. Poi ci si diverte a

staccare tutti i cotiledoni col pollice e l'indice, a guisa di stappare una bottiglietta

d'aranciata!

Solo che se non si staccano è perché sono infiammati, edematosi, ed alla fine del

lavoro, il dito è fuori uso!

Inizialmente lo facevo senza guanti; mi venne una pustola al braccio e capii che non

ero superiore alle leggi della medicina!

Non c'erano solo i bovini, nella vita di un veterinario; chiamò un mezzadro di Fosio,

perché la pecora non riusciva a partorire.

Era una novità per me, ma tuttavia era, come la mucca, un ruminante, solo di taglia

35

più piccola; arrivai sul posto in compagnia di un amico, maestro, ma di professione

metalmeccanico, ben disposto ad aiutarmi.

La pecora, nera, era sdraiata in affanno sul pavimento della stalletta; il cuore era

debole e si poteva solo tentare di salvare l'agnello.

C'era evidentemente una torsione uterina e potevo solo tentare un parto cesareo.

Anche questa metodica era sconosciuta agli studenti universitari, tuttavia avevo visto

eseguirlo su di una vacca dal veterinario che mi aveva “svezzato”.

Mi misi in ginocchio sul pavimento, stesi i ferri su di un panno ed incisi, senza

anestesia, perché

non l'avevo e d'altronde la pecora non si mosse; trovai l'utero e tagliai dove sentivo vi

era l'agnello.

Lo estrassi, vivo, e lo affidai al contadino, che riuscì a farlo soffocare; tuttavia c'era

un fratello!

Incisi ancora, perché il taglio precedente era chissà come, sparito, lo estrassi, mi

raccomandai di tenerlo a testa in giù e cominciai a suturare; alla fine cercai di

ricordarmi come si dava l'ultimo punto di chiusura.

Buio completo, anche se l'avevo provato più volte, da solo, legando la maniglia di

una porta; mi dovetti arrangiare, cioè non finii la sutura. Tanto la sua vita sarebbe

stata breve ugualmente!

L'agnello superstite stava bene ed il villico mi promise, poiché mi doveva pagare il

padrone, che dopo qualche mese, l'avremmo mangiato insieme; aspetto ancora di

assaggiare i suoi nipoti!!

Fu un caso perché di solito pagavano, anche quando la diagnosi era infausta o le cure

che l'animale aveva avuto non erano servite e avrebbero dovuto macellarlo d'urgenza,

con notevole perdita economica; faceva parte del gioco, dei rischi di un mestiere

povero, ieri più che oggi, quando la tecnologia e la medicina ancora non sopperivano

a molte fatiche e calamità.

C'erano la Tbc, la brucellosi, l'afta, i parassiti, la grandine, che provvedevano a

rendere ancor più faticosa ed incerta la vita del contadino.

Il trovare una vacca positiva alla tubercolina significava abbattere tutti i capi in stalla,

distruggere anni di selezione, di fatiche, ottenendo in cambio dallo stato un esiguo

rimborso e ancor più una patente negativa, per anni, di cui però si aveva subito

notizia nel mercato; insomma oltre al danno rimaneva un marchio non invidiato.

Soprattutto, per gli allevatori più preparati, significava rinunciare ad anni di

selezione, di scelta oculata e spesso costosa di fecondazioni con tori miglioratori.

Insomma si passava dalla Ferrari alla cinquecento, senza avere la certezza di potervi

un giorno risalire!

A Varano fui incaricato di fare la tubercolina a tutto il bestiame vaccino adulto; era un

procedimento semplice, si tosava una piccola parte della spalla, si iniettava con una

siringa una dose di tubercolina e dopo tre giorni si tornava a controllare. A seconda

del gonfiore provocato si vedeva se l'animale era infetto e doveva essere abbattuto.

Sembra tutto semplice, a parole, ma se non si aveva l'aiuto di qualcuno e lo si pagava,

il tenere ferme le bestie con l'aiuto di qualche donnetta presente sul posto diventava

problematico.

36

Ingaggiai pertanto il mitico “Giuspèn”, mezzadro di mio suocero; uno che quando

entrava il veterinario nella sua stalla per le profilassi, lanciava fulmini dagli occhi.

Filò tutto bene, anche se capì che di gente che la pensava come lui il mondo era pieno

e lo stare dall'altra parte della barricata gli fece apprezzare che in fondo fare il proprio

dovere, per il veterinario, era dura!

Tutto bene sino a casa di un omone grosso e alto, che squadrandomi mi disse

pacatamente:” Ch'al fàga pur, ma se la vaca l'abortìsa......le rompo una spranga di

ferro sulla testa!”

Ora, non è che la tubercolina faccia abortire, ma in tre giorni è stato creato metà

mondo e, con l'influenza in giro, la vacca poteva anche abortire per i fatti suoi; che

però potevano diventare i miei.

Al ritorno mi fermai dai carabinieri locali, dove esponendo la mia qualifica di

pubblico ufficiale, raccontai il tutto al maresciallo, un tipo piccolotto, grassottello,

naturalmente meridionale, dall'aria simpatica e sdrammatizzante, che si raccomandò

di passarlo a prendere prima di tornare dal “bruto”.

Tornai dopo i tre giorni canonici e salì sulla mia 500.

Quando il villico lo vide, gli si avvicinò cordialmente e gli chiese: “ Co' fàl chì,

maresièl..? Al sàl, che se la vaca l'abortiva, gli rompevo una spranga di ferro sulla

testa!”

Il graduato non si scompose, sorrise, e si informò della salute dei suoi familiari;

risalimmo sull'auto, ripartimmo e cento metri prima della caserma bucai e scese,

salutandomi!

Non tutti erano come l'omone!

C'era, a Pietrarada, una stalla di una decina di capi posta al termine di una lunga e

ripida salita, per di più rettilinea; l'affrontai a manetta, ma a metà fui costretto a fare

scendere Giuspen, e, ripartendo con difficoltà, vidi che la frizione stava cedendo.

Giunto sul posto, entrai in stalla e mi accolse il padrone, un ometto piccolino, in

giacca e cravatta, sugli ottanta; feci la tubercolina senza difficoltà, valutando che data

l'impervietà del posto, ben difficilmente il microbo avrebbe potuto avere la forza di

salire sin lassù.

Mi preoccupava però, il tornarci; non avevo voglia di ribruciare la frizione, ma non

potevo non tornare.

Ebbi però un'idea e rivolgendomi a lui, quasi come ad un collega, gli chiesi: “Ma Lei

ha visto la tubercolina?”

Era il modo con cui ci si poteva intendere; in realtà voleva dire se aveva mai visto la

reazione di gonfiore all'inoculazione.

“In guerra (la prima, naturalmente) sono stato infermiere e la conosco bene!” rispose

orgogliosamente, forse grato della considerazione che gli dimostravo.

“Allora fra tre giorni precisi io passo nella strada in fondo e Lei cortesemente mi fa

sapere come è andata” dissi.

Mi era sembrato tanto fiero del suo “sapere” e probabilmente non era a conoscenza

delle eventuali conseguenze di una positività, che volli fidarmi; dopodichè, presi gli

ultimi accordi, lo salutai e corsi dal meccanico a Varano.

37

Dopo 72 ore ripassai dalla stessa strada; in verità me ne ero quasi dimenticato, ma un

ragazzotto appollaiato su di un muretto di sassi, quasi alla stregua di un manzoniano

“bravo”, si parò davanti all'auto: “ Ha detto il.......che non si sono gonfiate!”

Il microbo si era tenuto lontano da quel posto! Salutai la piccola vedetta e ripartii

grato per avere salvato il mio portafoglio, e la frizione!

Il piccolo allevatore era un paziente difficile e bisognava spesso titargli fuori la verità

con le pinze.

Tendeva a pensare che gli potessero imputare tutte le malattie delle sue bovine; per i

vitelli era diversa ed il fatto che non morissero di diarrea o di influenza, era

considerato una fortuna.

A volte si trattava di un vero e proprio interrogatorio su che malattie avesse avuto la

mucca, da quanto era in stalla; il problema, vero, era la domanda: “la vacca mangia?

Il che poteva essere considerato, non un sintomo del male, ma una mancanza del

contadino, che pensava di poteva essere sospettato di non nutrirla bene; quindi

occorreva interpretare la risposta, fra mezze ammissioni, mugugni, “forse un po'; a

volte; prima però ruminava”. Quel ruminare voleva dire che aveva mangiato e

quindi doveva stare bene! Era poi la verità?

In campagna non vigeva la regola che l'erba del vicino fosse la più verde! In genere,

come i figli per le mamme, le bestie che ognuno aveva in stalla, erano le più belle.

I soci di una grande stalla sociale del parmense iscrissero coscientemente a bilancio

per il loro bestiame gli stessi valori unitari di una confinante ed invidiata cooperativa

con lo stesso numero di capi; solo che quest'ultima aveva una produzione media di

latte quasi doppia ed un tasso di fertlità superiore!

Mi ero reso complice della decisione!

Ero andato all'assemblea di bilancio e sulla base del preventivo dovevo convincerli a

finanziare la cooperativa; questa aveva seri problemi di liquidità e rischiava il

fallimento.

Si presentò un giovane ragioniere, alle prime armi, che mi fece vedere un bilancio

preventivo in perdita di decine di milioni; con quei dati avrebbero sicuramente deciso

di chiudere.

Lo insultai e preparai il contrattacco.

Un'assemblea di venti contadini, non è un'assemblea, ma è una simpatica riunione

nella quale fra di loro discutono di tutto, dal tempo, ai soldi, ai fatti del giorno; se si

vuole guadagnare tempo, basta non pilotarla e lasciarli fare.

Li lasciai discutere, mentre sotto gli occhi spaventati del giovane contabile,

aumentavo i valori a bilancio del bestiame, per raggiungere il pareggio.

Ero preoccupato perchè il vice presidente era docente di Economia Agraria

all'Università e mi avrebbe sicuramente incastrato.

Al mio fatale richiamo, si alzò il presidente, propietario anche di un caseificio, che

38

pubblicamente mi disse: “ Guerda bè, ch'al valor d'il vàchi al decìd mì!”

“Benissimo” risposi “io ho dato lo stesso valore della stalla di....” , che era appunto

quella confinante.

Iniziai quindi ad elencare i prezzi delle varie tipologie di bovini, ottenendo commenti

di assenso ad ogni voce; si, insomma, avevano del buon bestiame e non erano certo

inferiori ai loro vicini!

Cacciarono così i soldi, che avevano e che tenevano in banca.

Era anche facile colpire la mente del contadino con gli atteggiamenti esteriori.

Venne a trovarmi un collega, agronomo, poi laureato assieme a me e già informatore

farmaceutico, di diversi anni più anziano. Si presentò vestito con un completo grigio

con gilè e cravatta rossa, camice e stivali immacolati; la capigliatura, ormai

brizzolata, non aveva un capello fuori posto.

Mi accompagnò in una piccola stalla, sulla collina di Solignano, per vedere come

facevo a fecondare una manza, visto che ormai avevo imparato e che potevo a mia

volta insegnare.

In stalla c'era solo la nonna della famiglia ed in due ci accingemmo all'operazione; gli

lasciai la siringa con il seme in mano, mentre cercavo di guidarlo, cercando nel

contempo di aiutare la donna a tenere ferma la bestia.

Mi disse, sottovoce, “Non riesco ad entrare in utero con la pipetta” ; “ Fa niente,”

risposi “ metti il seme in vagina e vedremo”.

Fatto tutto, sotto l'occhio falsamente indifferente della donna, che non vedeva l'ora di

finire, quasi fosse lei a subire l'operazione, ce ne andammo salutando, non senza

avere tenuto la colonna vertebrale della manza schiacciata verso il basso, cosicchè lo

sperma potesse defluire verso l'utero.

Ripassai dopo tre mesi per le vaccinazioni e chiesi alla padrona se la vacca si era

ingravidata; “l'ha misa sòt un profesor, co' volel, ch' la 'n stèna miga?”rispose

piccata, come se avessi potuto dubitare delle capacità di un più esperto “professore”!

Capii allora l'importanza dell'apparire, più che dell'essere, come mi spiegò un collega

della Bassa che aveva dovuto vendere la Fiat 126 perchè era troppo modesta ed aveva

notato un calo nelle chiamate; comprò un'auto più grande!

Più di una volta mentre mi lavavo fuori dalla stalla, o in casa, scrivevo una ricetta e

rispiegavo alla famiglia i problemi che aveva la paziente, sorgeva, quasi dal nulla,

una domanda spontanea: “Cò dìsel, lù, dotòr?....” e partiva il racconto di problemi di

salute, di affari, di rapporti interpersonali e spesso di compravendite e mediazioni

sbagliate.

Avevo fatto, a Pisa col Paltrinieri, l'esame di medicina legale, dove si studiavano

soprattutto gli “usi e costumi” codificati dalla Camera di Commercio e quindi me la

cavavo bene, nelle risposte; soprattutto cercavo di usare il buon senso, anche se mi

rendevo conto che bastava loro esporre il problema e constatare che qualcuno aveva

la pazienza di ascoltarli.

Non esistevano ancora le varie associazioni sindacali che aiutavano la gente nelle

pratiche ed il contadino, specie quello che viveva in montagna, si rivolgeva all'unica

39

persona, al medico, che si interessava materialmente dei suoi problemi.

Esisteva anche il mercato settimanale, che si svolgeva nel paese, ma allora era

frequentato quasi solamente dai contadini stessi ed i pochi rappresentanti di attrezzi

agricoli, macellai e sensali presenti, non erano forse ritenuti affidabili; in loro si

vedeva quello che cercava di fare l'affare!!

In effetti, quello di fregare il contadino, sembrava un sistema collaudato; non si

contavano gli esempi di piccoli e grandi raggiri.

Quel famoso proverbio sulle scarpe grosse, sembrava valido solo per la prima parte;

spesso si sapeva di presidenti di caseifici che venivano pagati con assegni a vuoto,

cioè in cambio di forme di Parmigiano ricevevano, sulla fiducia , un pezzo di carta!

Molti millantavano esperienza ed autorevolezza negli affari; in realtà di fronte a bei

discorsi, a belle auto, a vestiti eleganti e pacche sulle spalle, ad affermazioni del tipo

“Ma non vorrà che proprio con lei, io.....!”, si lasciavano abbindolare.

Mancavano, in realtà, di un minimo di preparazione e di modestia.

In realtà, in Borsa Merci, al sabato a Parma andavano i presidenti, imprenditori, “self

made men”; a Reggio Emilia, terra bracciantile, andavano i segretari, cioè dei

professionisti.

Chiesi ad un presidente di stalla sociale che faceva il taxista, di prepararmi il totale

del latte prodotto nel 1980; sono due pesate al giorno, cioè 730 somme.

Aveva in azienda una nuovissima calcolatrice, che mi assicurò avere già visto usare e

mi dette appuntamento alla settimana dopo.

Qui mi presentò il totale, scritto in un immenso foglio, con 760 somme fatte a mano!

Pensai con dolore al computer per gli autoalimentatori che avevamo già pronto da

installare!

In compenso, l'essere un dottore, o meglio il “Dotòr”, delle vacche, come si diceva

fuori dall'ambiente in senso quasi dispregiativo, costituiva un titolo accademico di

importanza sociale imprevista; nei piccoli paesi assieme al maresciallo, al sindaco, al

prete, al medico, al farmacista, il veterinario condotto era, nell'immaginario pubblico,

un' “Autorità” , uno che “sapeva”!

Sopprattutto entrava a fare parte di una “casta” culturale, ancor oggi importante,

quella medica; me lo ricordò, prima della laurea, il dottor Alderici.

Alceo Alderici era da sempre stato in gioventù il mio medico e lo ricordo come una

persona di grandissima umanità, disponibilità e competenza; il giorno in cui lessi in

Comune a Villafranca il racconto dell'epidemia di colera del 1855 e raccontai che il

medico condotto si era chiuso in casa per la paura, mi avvicinò e mi disse sottovoce,

con gentilezza: “Ricordati che un giorno entrerai anche tu nel Ministero della

Sanità!”

Costituiva anche un titolo accademico reale, non millantato, che apriva molte porte.

Arrivò in banca un nuovo capo: il dottor …..., dei conti degli Erri di Montecuccoli,

nome prestigioso, pari alla sua immensa autoconsiderazione.

Ero responsabile del settore zootecnico della mia Organizzazione e si degnò di

40

ricevermi.

Mi sentivo come Fantozzi davanti alla poltrona di pelle umana ed evidentemente la

mia tenuta, jeans e maglietta, non gli fece grande impressione; così mi trattò come

probabilmente i suoi antenati trattavano i servi della gleba; si degnò però, di farsi

invitare a visitare una nostra bella azienda.

Il giorno stabilito lo aspettai vicino al palazzo comunale; l'auto era stata per

l'occasione lavata e lui si accomodò con sussiego, davanti e dietro salirono due

assistenti che conoscevo bene.

Parlammo del più e del meno.

Arrivati in azienda, dove mancava solo la banda musicale per ricevere l'augusto

ospite, mi sollecitò con un perentorio “Andiamo!”

“Un attimo” risposi; aprii il baule, dove faceva bella mostra di sé un bel camice

stirato ed immacolato. Ancor prima di infilarlo mi chiese:” Ma lei è...?”; “Sono

Medico Veterinario” dissi, e nacque una rispettosa amicizia.

Mi accorsi in Irpinia che il “Dottore” era pari ad un titolo insospettato, direi

“megagalattico”.

Ci chiamò in Provincia, Mario Tommasini, solo “Mario” a Parma o al più “Tomasè”.

Grande, enorme figura sociale, comunista anarchico, sui generis; collaboratore di

Basaglia, premio Shweitzer per la pace, sempre in lotta per i diritti dei più deboli.

Parma, dopo il terremoto in Irpinia, si era gemellata con Senerchia ed il

coordinamento era stato affidato a lui.

“ A' ghè d'andèr a Senerchia” disse subito; “Quando?” chiedemmo io e Valerio, mio

collega dell'Amministrazione. “Subìt” rispose , come se fosse dietro l'uscio. Valerio

partì dopo un'ora con l'auto della Provincia, che sapevo per esperienza guidata a 200

all'ora, con un braccio solo, da un autista “ pazzoide” ed io lasciai Parma dopo pochi

giorni, accompagnato da un contadino di Albareto, cinquantenne, che ogni giorno si

lamentava della durezza della vita e della propria miseria.

La miseria la vedemmo lì !! Una terra povera, dove l'erba in collina cresceva un dito,

dove circolavano cavalli e vacche simili a quelli che si vedevano nei filmati

sull'Africa, dove la gente, col terremoto sembrava avere perduto anche quella voglia

di vivere che la distingueva.

Fummo ospitati, non so perché, dagli Evangelici svizzeri, che pieni di soldi, stavano

facendo un mucchio di adepti (sic!), in concorrenza con la Caritas.

Dormivamo in una baracca e giornalmente visitavamo i luoghi del disastro,

impressionati dall'abbandono e dall’ arroganza delle autorità, dagli episodi di

malcostume, di corruzione, chiedendo, ricevendo consigli e richieste, ma spesso

sentendoci dire. “ Salutateci Mario!”

Aveva sfidato subito la mafia locale, gestendo in proprio gli aiuti parmigiani con

l'aiuto di un comitato popolare autogestito; erano arrivati i “comunisti”, dicevano, ma

la gente lo apprezzava e come al solito lo amava; Mario era la “gente”.

Fui avvisato che il presidente di una cooperativa agricola che Tommasini aveva

costituito, si era dimesso, ma rifiutava di consegnare i libri sociali a chicchessia.

41

Ci recammo a casa sua , una sera; abitava nel garage di una casa crollata e sul

pavimento era acceso un fuoco, dove bolliva una pentola con la minestra. Era

un'abitudine generalizzata in zona, che però aveva provocato l'incendio di diverse

roulottes.

Mi presentai con un po' di timore, e tendendogli la mano dissi: “ Buonasera, sono il

Dottor Santini, funzionario della Lega cooperative”.

Una scossa avrebbe avuto meno effetto; mi strinse forte la mano ed esclamò . “ Ah,

finalmente un'Autorità; aspettavo proprio lei per consegnare i libri!”

La gita in Irpinia finì con la visita ad una famiglia di terremotati, con dei figli

bellissimi, selvaggi, sempre nudi, ma epilettici; commosso, il mio accompagnatore

regalò loro 100.000 lire, ed io lo imitai. Da quel giorno non si lamentò più della sua

situazione.

Il viaggio aveva però lasciato anche in me dei segni profondi; la visione di un mondo

diverso, povero, dove spesso anche la dignità veniva calpestata e dove la gente per

arrangiarsi era disposta anche a convertirsi.

Vidi una anziana coppia che tirava l'erpice a spalla, al posto dei buoi che non aveva;

due anni dopo uscì sulla Gazzetta di Parma una foto simile scattata in Russia, con un

commento legato al “ paradiso” dei lavoratori! Non c'era bisogno di correre

sino lì!

Vidi un giovane che piangeva vicino ad una casa nuova, antisismica, crollata, dove

avevano perso la vita la moglie ed i figli; aveva scritto a Pertini. Arrivò subito una

commissione d'inchiesta, ma il giorno prima furono sgombrate le macerie!

Entrato in Municipio, con l'architetto di Campo Parma, dove attendevano decine di

persone, domandai se c'era il sindaco; immediatamente si fecero da parte e ci

costrinsero gentilmente ad entrare per primi. Eravamo delle autorità, straniere, ma

avevamo, inconsciamente, il potere del denaro e dell'organizzazione. Il sindaco ci

accolse con un grugnito; facevamo poi sempre parte di quella cricca di “comunisti”

che avevano sabotato la tranquilla vita del paese, aiutati in quello dalle volontarie

parmigiane, che facevano a gara con le svizzere ad abbassare il livello morale del

villaggio!

Ho parlato prima di ricette; erano il motivo di una profonda guerra sotterranea, mai

dichiarata, fra il veterinario e l'allevatore; lo capii molto avanti.

Lo scriverla, significava dare a costui una parte della propria conoscenza e lui se ne

sarebbe appropriato in modo spesso sbagliato.

Un anziano collega mi spiegò che aveva visto delle sue ricette con scritto su, non la

diagnosi, ma il sintomo; ad esempio: “tosse, febbre”, come se quella medicina fosse

una panacea, adatta a tutte le tossi e febbri.

Mi disse anche di portare via i flaconi vuoti delle medicine usate, perché l'allevatore

se ne sarebbe appropiato subito, come un trofeo!

Era una battaglia continua, che spesso mi vide soccombente; non conoscevo le

astuzie del “cervello fino”!

42

Per tradizione, quando si fecondava una vacca, veniva pagato il primo intervento ed

in caso di ritorno in calore, si doveva rifecondarla altre due volte, gratis!

Era una strana forma di garanzia che, quando si doveva salire a piedi su di un monte,

sembrava più una forma di taglieggiamento incomprensibile; già perché poi, non

riuscivo, come tanti, a capire perché la fortunata non si ingravidasse al primo colpo!

Eppure era riuscito tutto bene: la visita ginecologica positiva, lo scongelamento del

seme a 37 gradi,

l'introduzione in utero senza problemi; insomma mancava solo che la mucca mi

baciasse per la gioia!

Eppure dopo 30 giorni, la fatale telefonata: “Dòtor, l'è gnuda in calor!”

Arrivava, allora, come una sottile vendetta nei riguardi della modernità, la

rivalutazione del toro, straordinario maschio, il cui destino era ormai legato per

moltissimi esemplari alla via del macello e per pochi fortunati, di alta genealogia, alla

monta di un manichino di vacca, con relativa eiaculazione in una vagina artificiale

riscaldata con acqua calda; era, insomma, la fine di un mito giovanile!!

Si, lo rivalutai, forse in un desiderio inconscio di favorire il recupero di questo bruto

animale;

così, un giorno dissi alla padrona di una vacca enigmatica, che non voleva saperne di

ingravidarsi: “ Signora, le faccia queste punture di vitamine e poi porti la vacca al

toro! Vedrà che si tiene!”

Le vitamine, in realtà servivano solo come placebo e scena e, non so perchè, “si

tenne”; ebbe poi un bebè, ed io, in nome del ritorno alla natura, acquistai un cliente

affezionato.

Un dì, però, fui chiamato da un contadino della Cisa per “fare” una coppia di buoi.

Semplicemente dovevo castrare due torelli; era però, come al solito una novità, anche

perché ormai non si usava più, ma tant'è, dovetti farlo.

Mi recai da un più anziano collega, il dottor Domenico Molinari, naturalmente

espertissmo, che mi prestò una grossa tenaglia con la quale dovevo schiacciare il

funicolo spermatico dei malcapitati.

Mi recai sul posto, dove i due, legati alla mangiatoia, stavano tranquillamente

mangiando del fieno; mi avvicinai da dietro, senza pericolo, poiché il bovino scalcia

lateralmente, ed iniziai.

Ebbero solo un attimo di distrazione dal pasto, forse più per sorpresa che dolore; il

villico controllò con fare esperto i segni della schiacciatura, mentre loro riprendevano

a mangiare.

Non più potenziali riproduttori, ma futuri lavoratori della terra.

Nei compiti di un veterinario c'è anche quello di insegnare; mi chiesero se volevo

tenere un corso di aggiornamento, a Soliera, per periti agrari, finanziato dalla

Comunità Montana della Lunigiana.

Mi trovai così, una mattina, dopo avere presentato le credenziali all'Ente, in una

stanza anonima del paese lunigianese.

43

Di fronte a me, circondato dal responsabile, perchè un responsabile c'è sempre, c’era

una dozzina di freschi Periti Agrari, che, scoprì subito, non sapevano quasi nulla di

zootecnia.

Non c'era da stupirsi e nemmeno da preoccuparsi; la scuola di tutti gli ordini spiegava

tutto sugli Orazi e Curiazi, ma riteneva superfluo insegnare agli alunni come

guadagnarsi il pane.

Cominciai a fare domande, ma avevo solo silenzi imbarazzati; si sa, che “di un bel

tacer....”!!

Non mi persi d'animo ed iniziai a spiegare tutto ciò che sapevo, vedendo ogni giorno

aumentare l'autocoscienza degli allievi.

Quasi tutti apprendevano in fretta; solo uno, Lorenzo, nome d'arte, non imparava un’

acca; gli parlai, ma sembrava venuto lì per caso e non essere per nulla interessato alla

cosa.

Quando arrivammo all'esame, alla presenza di un’ austera commissione, peraltro più

interessata al pranzo finale che alle vacche, mi domandavo cosa avrebbe detto costui;

poteva far fare brutta figura a tutti.

Gli proposi di valutare morfologicamente una bella vacca e considerando che i

presenti avrebbero fatto fatica a distinguere un cavallo da un mulo, qualunque cosa

avesse bofonchiato, sarebbe andata bene.

Invece ci stupì tutti, spiegando come un libro stampato, tutto quanto non aveva voluto

dirmi al corso; i tortelli mi sembrarono, poi, più buoni!

Era sorto però un problema negli ultimi giorni di scuola; avevo un’ allieva, bionda,

sempre elegante, che stonava con l'immagine che in genere si poteva avere della

donna di campagna, ma si applicava, e tanto bastava.

Decisi di insegnare loro la diagnosi di gravidanza della bovina; direte voi che

problema potesse essere, in fin dei conti per le donne si fa con un test dell'urina.

Nelle vacche no, si infila il braccio su per il retto e si palpa con la mano l'utero che è

sotto, così da avvertire dopo il quarto mese, la eventuale presenza del vitello;

sempreché se ne sia capaci, e credetemi, non è facile!

Fui chiamato a Varano a fecondare una vacca che doveva essere già incinta di quattro

mesi; in realtà, in biologia non c'è niente di assoluto e quindi poteva essere un falso

calore. Volli quindi visitarla, ma l'utero, alla palpazione, sembrava vuoto; fecondai,

entrando nel canale uterino e dopo pochi giorni abortì! Mi ero, per la troppa

sicurezza, sbagliato e avrei dovuto depositare il seme in vagina!

I vecchi veterinari comunque, facevano la diagnosi a braccio nudo, tirandosi su la

manica della giacca (?!); io usavo dei lunghi guanti e mettevo il camice, perché il

retto andava prima svuotato, qualora la vacca, emozionata, non avesse deciso prima

di evacuare da sola, spargendo purtroppo intorno, con la coda, i resti del suo pasto.

Comunque tutti mi guardarono e dissero in coro, pallidi: “Lei no,... è una donna!”,

quasi a significare che tale gesto avrebbe violato l'intimità della giovane; sorridendo,

fui irremovibile.

La ragazza si mise il guanto e con un po' di timore affrontò la prova; riuscì a sentirlo

e smentì le pessimistiche previsioni dei compagni, manifestate con risolini ed

44

ammiccamenti.

Mi proposero anche di indagare sul perchè i bovini che avevano nel centro

sperimentale di Soliera non ingrassassero e di organizzare dei conseguenti

esperimenti di alimentazione; accettai di buon grado, anche perché avrei potuto fare

lavorare sul campo gli studenti.

Quei vitelloni, ospitati nei box di una stalla che aveva bisogno di più di un lavoro, mi

ricordavano quelle tristi vacche che avevo conosciuto poco tempo prima in Irpinia.

Venivo, e lo sapevo, da una realtà zootecnica, quella emiliana, all'avanguardia e mi

riusciva difficile capire che non fosse scontato sapere che se i bovini non mangiano,

non producono. Quelli mangiavano solo fieno e silomais e credevo che

fose risaputo che è il mangime a farli ingrassare.

Avevo diretto in Toscana un centro ingrasso di 6.000 tori e conosevo bene il

problema.

Si sparse la notizia dell'esperimento: che davamo il mangime ai tori, che

ingrassavano pure, ed arrivò così la televisione di Pontremoli, messa sull'avviso da

non so chi.

Mi intervistò una gentile signora, elegante, che seppi poi essere insegnante di lettere;

mi mise davanti ai vitelli e mi chiese cosa pensassi delle possibilità di sviluppo

zootecnico della Lunigiana.

Esposi velocemente le mie valutazioni, mentendo clamorosamente su di alcune

considerazioni che avevo già ponderato; raccontai quindi che conoscevo bene la

Lunigiana, dove ero cresciuto, delle sue enormi potenzialità e la Signora, forse

affascinata dalla mia competenza e dall'eloquio, non intendeva obbedire ai segnali

disperati del regista, preoccupato perché l'intervista durava un po' troppo!

Trent'anni fa le televisioni locali erano ancora un fatto estemporaneo e comparire in

un loro programma era un avvenimento “eccezionale”.

Mi vide a Villafranca, al bar di Nello, Norino, un vechio amico di mio papà e subito

riaffermò pubblicamente e poi a me, il ricordo di quell’ amicizia, e mi vide a Corlaga

mio zio, che uscì fuori: ”a' ghè me n'vòd an television!” ; ero diventato un'autorità,

seppur mediatica, anche a Villafranca!!!

Non sempre si poteva raggiungere il luogo della visita in auto; avevo sì la 500, mitica

auto che arrivava dappertutto, ma soprattutto d'inverno e col fango era d'obbligo

andare a piedi, naturalmente su sentieri himalaiani!

Avevo avuto anche la R4 di mio papà; una volta però, il camion del Comune mi

trascinò lungo una strada in forte salita, perché non ce la faceva. Era certo più bella

della 500, ma troppo leggera!

Mi chiamò una donna della Cisa, la cui vacca aveva partorito nei monti sopra

Gravagna e si era tutta rotta; occorreva soccorrerla.

Probabilmente era successo diverso tempo prima, non essendoci ancora i cellulari, ed

occorreva fare presto. Mi accompagnò la figlia, belloccia, un po' più vecchia di me.

45

Lasciata l'auto, salimmo per quasi un'ora per sentieri che si snodavano lungo prati

bellissimi; non ero in vena di poesia ed arrivai alla meta col fiatone.

La vacca era sdraiata sul fianco, lungo un pendio ed era totalmente lacerata; mi

inginocchiai ed iniziai a ricucirla. Purtroppo i tessuti si rompevano di nuovo, come

fossero di carta; non sapevo cosa fare.

Intanto il mio sguardo giovanile, anche se sposato, era sempre di più inconsciamente

attratto dalla figura della padrona, che aveva ritenuto necessario accovacciarsi di

fianco alla bestia, come per darle un sostegno morale; solo si era dimenticata, forse

inconsciamente, di serrare le gambe!

Donne giovani ce n'erano poche per la verità, ma di vicende boccaccesche, vere o

false, ne giravano molte, al bar ed al mercato.

Un pomeriggio arrivai di passaggio vicino ad una casa solitaria su di un monte; mi

fermai e chiesi alla donna che era uscita fuori, delle indicazioni; vidi arrivare dal

bosco un guardiacaccia che la salutò.

Mi ricordai che si parlava allora, di una tresca fra di un guardiacaccia ed una donna;

erano loro!!!

Con spietata, sadica soddisfazione, scesi dalla macchina e per una mezz'ora li

intrattenni sulle più svariate cose; fremevano, lo vedevo, e non appena ripartii,

guardando nello specchietto, non li vidi più. Erano entrati di corsa in casa!!!

Ho già parlato dell'ospitalità che trovavo nelle case dei contadini; non mancavano

mai di chiedere se si voleva qualche uovo per i figli, di offrire una bottiglia di vino;

questa era la cosa più facile in quanto era sufficente dire che si era bevuto dell'ottimo

vino a casa di un loro vicino.

Scattava così lo spirito di emulazione ed era facile sentirsi dire: “ Si, ma non ha

ancora assaggiato il mio!”

Facevo fatica a bere il vino a stomaco vuoto e speravo sempre nel companatico; non

potevo però rifiutare, si sarebbero offesi.

Ricordavo con piacere quando in Maremma andavo a comprare vacche chianine per

la mia azienda; si arrivava di buon' ora e dopo averle viste, la trattativa continuava a

tavola.

Dovete sapere che nel senese, alle 9 di mattina si usava fare colazione e ciò

evidentemente non mi dispiaceva! Il padrone tirava fuori prosciutto salato, pane

azimo e vino, il tutto di sua produzione e si iniziava a mangiare ed anche a discutere

di prezzi e cose varie.

Il prosciutto era tagliato a mano, alto di spessore; il pezzo veniva steso su di una fetta

di pane, ed il boccone, tagliato davanti alla bocca con un coltellino che era spuntato

fuori dalla tasca, veniva ingoiato.

A pranzo era poi difficile replicare; il carico calorico accompagnato dalle libagioni

rallentava i riflessi.

Una vecchia vacca maremamna, legata alla mangiatoia, decise, quando le forai la

giugulare per prendere il sangue, di darmi una cornata in testa; svenni e mi portatono

46

all'ospedale!

La campagna riservava, comunque, molte gioie di questo genere; ricordo gli

“anolini” della signora Jones a Casa Selvatica, fatti in casa con lo stracotto, alla

parmigiana.

Ricordo quegli gnocchi che serviva la signora Donnini alla Sesta del Bosco

cornigliese; le telefonavo che avrei cenato lì e mi diceva:” Còs'i vò mangiar, dotòr?”;

”I gnocchi”, rispondevo, “E po'?”, “Solo i gnocchi”. Naturalmente dopo tre o quattro

porzioni, non ci stava più nulla!

Anche quei “tordei” di Soliera, che immancabilmente ordinavo ogni giorno dopo la

lezione ed alcune torte d'erbe a Vico, dove probabilmente, Gesù, nel suo viaggio

verso Eboli, si era voluto fermare, attratto dal profumo che si spandeva nell”aere”!

E a Senerchia, proprio vicino ad Eboli, Gesù c'era però arrivato ed aveva gustato tutti

quei prodotti che l'agricoltura di fondovalle produceva. Mangiammo di tutto, dalle

paste ai formaggi e ai dolci ed il mio giro vita ebbe un incremento poderoso!

Mi sono accorto che parlare della vita di campagna di quarant'anni fa, è sembrato di

parlare di preistoria; le stallette sono ormai sparite, resistono solo grandi allevamenti

e le vacche hanno cambiato colore.

Prima rosse, poi marroni, poi bianconere; prima piccole con poco latte e grandi

zoccoli per titare la “traza”, dopo, poderose, con grandi mammelle ed enormi

stomaci.

Adatte al lavoro, al latte ed al vitello prima; solo al latte, tanto, ma un po' meno

buono, poi.

E' però cambiata anche la gente che vi lavora; indiani, pachistani, gente dell'est, tutti

con tradizioni e modi di vivere diversi.

E' cambiata anche l'ospitalità; quando entravo in un caseificio era un punto d'onore

del casaro farti assaggiare il formaggio, il tosone, la ricotta, e farti vedere con fierezza

le belle forme messe a stagionare, mentre si discuteva di prezzi, mercati e maiali.

Due anni fa ho visitato per lavoro 40 caseifici nella montagna parmense e di tutto ciò

nulla; del formaggio ho solo sentito l'odore, ma mi sembrava, però, meno buono;

diverso!

Sì, un'altra agricoltura; magari più moderna, ricca, efficiente, ma certamente un poco,

pochino, più triste!

47

Ugo

Ugo era stanco della guerra; di quella inutile, che non stava combattendo.

Lui ed altri studenti universitari, forse da pochi esami ma da molta goliardia,

l’avevano vissuta, all’inizio, un po’ come un momento di festa.

Gli annunci del duce sullo spazio vitale, sulle potenze demoplutocratiche

corrotte ed inette, sulla brevità del conflitto dall’esito immancabilmente

favorevole, li avevano galvanizzati. Si trovavano lui, Ermes, nome che solo a

Parma e nella Bassa trova comprensione, Bruno, Alberto ed altri, quasi tutti i

giorni a manifestare in piazza Garibaldi (a Parma).

E’ vero che proprio a Parma i fascisti le avevano buscate sode dagli Arditi di

Picelli; la nuova generazione, legata a valori culturali diversi, non discutibili,

assoluti, non poteva non riconoscersi in quel grido:”vincere!!!”.

Potevano, in fondo, essere solo manifestazioni, con canti, bandiere, di assoluta

estemporaneità. Ma spesso la gioventù inganna; lo vedremo poi nel ’68, nel

‘77.

E allora perché perder tempo e non rifugiarsi nel comodo, elitario mondo degli

AUC, aspiranti ufficiali di complemento, al quale tutti gli universitari avevano

diritto; perché non mostrare a quegli inetti soldati alleati quanto forte fosse il

valore, l’impegno, dei discendenti di Roma!.

Così, in piena allegria, tutti ad arruolarsi volontari; in fondo, aveva detto il

duce, pochi mesi e poche migliaia di morti,….. perbacco, e loro, frutto della

più pura razza italica, potevano ignorare e non partecipare a questo banchetto

che li avrebbe consegnati alla storia?

Forse le famiglie, le madri in particolare, non erano d’accordo. Avevano già

donato l’oro alla patria, qualcuna il marito nella Grande Guerra; non

apprezzavano quello slancio patriottico non richiesto, quel fervore

incomprensibile.

La macchina bellica si era ormai avviata; furono festeggiati al GUF dal

Federale, vezzeggiati dalle studentesse, che a Parma si sa, anche allora, non

erano solo le più belle.

Tante feste che li avrebbero accompagnati nei Balcani, in Russia, in Africa.

Tante illusioni che si sarebbero spezzate nel cozzo della morte.

Partirono per Roma; erano bersaglieri! Forse l’accoglienza della burocrazia

militare, con i riti della caserma di Trastevere, smorzò un po’ gli entusiasmi.

Gli imboscati, etnia sempre presente, irrinunciabile, immodificabile,

congiurava contro di loro; non riconosceva il giusto valore del loro sacrificio.

Anzi, come disse loro un dì un alto ufficiale,” nessuno li aveva cercati; se la

Patria avesse avuto bisogno li avrebbe chiamati.”

48

I letti della caserma erano sporchi, le latrine pure. Il tutto aggravato

dall’oscuramento; il buio non consente agli uomini una mira precisa!

Partirono, accompagnati da ali di folla, incoscientemente festante, per recarsi in

un porto del Sud: destinazione Albania e poi la Grecia, che non riconoscendo le

buone ragioni dell’Italia fascista, ci stava bastonando.

Certo, aveva avuto tutto il tempo per prepararsi alla guerra; i tentennamenti di

Mussolini, i reiterati proclami bellicosi, simili più all’abbaiare dei cagnetti che

al concetto della tedesca “guerra lampo”, avevano convinto i greci che prima o

poi l’Italia li avrebbe attaccati. L’impreparazione delle truppe, della sussistenza

e dei comandi aveva fatto il resto. Le alture del Golico erano diventate l’inutile

cimitero di tanta gioventù.

Ugo non lo sapeva; i bollettini di guerra parlavano di ripiegamenti tattici, di

controffensive imminenti e inneggiavano all’ imminente vittoria; avremmo di

sicuro spezzato le reni alla Grecia!. Era Aprile. Il viaggio sulla motonave che li

avrebbe sbarcati a Valona fu tranquillo.

Dissero loro di togliere le scarpe; potevano essere silurati, ma non successe

nulla. Sbarcarono e si avviarono, utilizzando l’unico mezzo di trasporto che

conoscevano e a cui li avevano allenati, le gambe, verso la Grecia.

La guerra però, non li aveva aspettati; l’intervento delle truppe tedesche che

avevano occupato prima la Iugoslavia e poi erano scese in Ellade, aveva

costretto quest’ultima a chiedere l’armistizio. Future truppe combattenti, i

bersaglieri divennero truppe occupanti.

Non è facile diventare poliziotti, quando si è addestrati a combattere. La

popolazione, stremata dalla guerra e da un’atavica povertà, non nascondeva il

disprezzo per quegli uomini che non li avevano vinti.

L’esercito greco aveva ripetuto sulle montagne greco albanesi il miracolo delle

Termopili; solo la macchina da guerra tedesca li aveva piegati. Non mancavano

i manifesti denigratori per il duce e per i bersaglieri, ma la popolazione spesso

per necessità, forniva viveri quali uva, pesci, alle truppe italiane; qualche volta

fu l’esercito ad inviare viveri nelle loro zone più povere.

Il tempo passava ed Ugo sentiva il richiamo della guerra. Con lui, molti suoi

compagni, che però dall’incontro con civiltà diverse, non solo quella greca che

ricordavano dallo studio dei classici, trovavano motivo di discussione.

L’esercito, si sa, è un crogiuolo di razze; anche il nostro non faceva eccezione.

Era difficile capirsi, nell’inattività totale, fra contadini meridionali analfabeti,

spesso superstiziosi e giovani studenti parmigiani, educati nell’atmosfera post

illuministica della città granducale; era più facile capire ed ammirare i tedeschi

con il loro perfetto ed organizzato modo di vivere e combattere.

Certo, loro erano un popolo diverso! Ugo si rendeva conto che mai saremmo

stati come loro, ma non ne soffriva; in fondo senza la civiltà romana sarebbero

vissuti ancora nelle capanne. Sentirsi “superiori” culturalmente fa passare altre

49

sensazioni in second’ordine.

E poi c’erano le donne, la cosa più importante. Ugo era uno tosto: bello,

elegante, fascinoso, senza essere gagà, viveva anche di quei valori; gli

piacevano le conquiste. Spesso, come capita in guerra, alcune o molte giovani

vanno ad esercitare il più antico mestiere; la fame, non certo il piacere,

costringono a cedimenti non solo morali. Ad Ugo, tutto ciò non interessava; era

per la conquista, per l’esaltazione del suo fascino. Lo chiamavano il mandrillo.

Intanto l’avventura guerresca stagnava! Le giornate passavano nell’attesa di un

fatto d’arme, di un’azione degna di essere raccontata ai figli.

Spes ultima dea, dicevano i romani; e la speranza giunse una mattina quando

un piccolo capitano, dall’aspetto poco militaresco, annunciò che erano aperte le

domande per entrare nei paracadutisti. Molti si offrirono; la prospettiva di un

possibile impiego in azione risvegliò l’eccitazione di Ugo e dei suoi compagni.

Paracadutisti, già se ne parlava dopo il primo lancio su Creta e per la ventilata

presa di Malta. Era un sogno che tornava, la possibilità di essere finalmente

soldati.

Certo la nascita della divisione paracadutisti era stata travagliata. Gli alti

comandi, che non diversamente dai loro colleghi francesi ed inglesi,

preferivano frequentare i salotti, anziché le manovre militari dei tedeschi e dei

giapponesi, non approvavano questo tipo di guerra.

Colpire alle spalle anziché affrontare di petto il nemico?! Non era cavalleria,

non si esaltava il coraggio del soldato. Eppure la lezione degli assalti frontali

della prima guerra, delle immense carneficine sui reticolati del Carso, doveva

essere ben viva. E allora meglio le eroiche cariche di cavalleria, al grido

“Savoia” in Russia, emule di quelle della cavalleria polacca contro i tanks

tedeschi; forse… “mal comune…”

Non era facile diventare paracadutisti; si era sottoposti ad una serie di test ed

esercizi, di visite mediche che scoraggiavano ed anche eliminavano molti

aspiranti.

Gettarsi da un aereo, dipendendo da un ombrello di seta, che si sapeva, qualche

volta non voleva aprirsi, era considerato dai più un atto di pazzia. I

paracadutisti sono di due specie: appunto i pazzoidi, i temerari, gli

scavezzacolli, potremmo chiamarli, ed i romantici, quelli che sognano

l’avventura, il bel gesto eroico. E cosa c’è di più eroico che assalire il nemico

scendendo dal cielo, novelli Icaro!

Ugo, Ermes, Alberto ed altri cinque commilitoni, furono ammessi al corso per

essere brevettati.

Per chi era cresciuto in campagna il gettarsi dalla torre, superare gli ostacoli e

soprattutto correre non era un problema. Allora non si faceva sport ma si

50

cresceva diversamente. Ugo restava sempre un bersagliere; quel cappello

piumato, quel fez rosso in testa nella libera uscita li facevano distinguere da

tutti.

Un alto ufficiale, incontrandoli assieme a delle ragazze esclamò:”bravi

bersaglieri, sempre con le più belle”. E poi non sempre la divisa doveva essere

quella di ordinanza; è vero avevano gli stivali e non le fasce, ma magari i

pantaloni a sbuffo della cavalleria erano più eleganti e consentivano un

approccio migliore.

Dopo pochi mesi fecero il primo lancio. Fu l’emozione di un attimo; poi lo

schiaffo del vento nella prima caduta, il colpo del paracadute che si apriva, il

corpo pronto ad eseguire il salto mortale per l’atterraggio, riportarono ad Ugo

la realtà di una conquista tanto attesa, ma alla fine, di una normalità insperata.

Era paracadutista; entrava senza saperlo nella leggenda dell’esercito. Dopo

diversi lanci, con armamento completo, i vari reparti furono avviati verso il

raduno di Lecce.

La Folgore, come fu poi da tutti chiamata, era stata addestrata per partecipare

all’invasione di Malta. L’avversione di molti alti comandi ne aveva ritardato la

preparazione; era stato difficile anche trovare un comandante.

Quasi tutti gli ufficiali interpellati non avevano mai volato e nessuno era

disposto a gettarsi col paracadute. Si offerse il generale Frattini, cinquantenne,

che seppe poi valorizzare al meglio lo spirito guerresco della neonata divisione.

Tutti, al raduno, pensavano che la meta fosse Malta. Rommel, però, aveva

chiesto il massimo sforzo all’Asse per arrivare in breve tempo ad Alessandria

d’Egitto e tutte le risorse furono dirottate verso il fronte africano. Ugo si stupì,

perché gli ritirarono le mostrine; non erano più paracadutisti ma Cacciatori

d’Africa.

Pronto a salire assieme al suo reparto sull’aereo, fu dirottato su di una vecchia

tradotta che partì per il nord, Con lui almeno metà della Folgore.

Risalirono la penisola e scesero attraverso i Balcani in Grecia; infine vi era

ritornato. Rivide di sfuggita alcuni luoghi che aveva conosciuto l’anno prima,

sino ad Atene.

Avevano rischiato per dieci giorni di essere assaliti dai partigiani, bombardati

dalla caccia nemica per poi, ad Atene, salire su di un aereo ed essere inviati in

Africa. Ugo pensò che forse non era un caso; che quanto si diceva sull’ostilità

dei Comandi verso la Folgore non era fantasia.

Lasciarono i paracadute e l’equipaggiamento da lancio in un magazzino a

Derna. Gli fu detto che lo avrebbero riavuto più tardi, al momento di entrare in

azione. I paracadute furono ritrovati poi in parte sabotati!

Come tutti i sottoufficiali disponeva di un armamento superiore ai suoi pari

grado degli altri corpi; aveva il mitra e la rivoltella, una Beretta, che col

moschetto 91 costituiva anche l’armamento della truppa. Era l’unica cosa di

cui potessero vantarsi; per il resto erano un’armata già votata alla distruzione.

Non riusciva a capire perché mancassero anche della minima dotazione di

51

servizi; è vero che il loro era un impiego mordi e fuggi, un lavoro diverso che

non richiedeva quella organizzazione di sussistenza dei reparti che

combattevano a terra, ma trovarsi ad essere trasportati su camion di altri corpi

provocava mal celati dubbi.

A fine Agosto 1942, la divisione, ritornata al vecchio nome Folgore, era

schierata sul fianco destro della linea di El Alamein, a lato della depressione di

El Qattara. Già dalle prime scaramucce, nella zona di nessuno, aveva

dimostrato con colpi di mano, incursioni, di essere padrona del territorio.

Nei primi veri scontri aveva causato al nemico danni notevoli in mezzi ed

uomini.

Ugo aveva visto morire i primi compagni, mai sulla difensiva, ma sempre

pronti a ripartire all’assalto dei più forti avversari. Il vero problema, ed Ugo se

ne rendeva conto, era che erano poveri: niente automezzi, ambulanze, trasporti

acqua, artiglieria pesante che poi fu prestata da altri corpi, carri armati.

Insomma 5000/6000 uomini contro 50/60000 alleati ben addestrati, riforniti,

con 400 tanks, centinaia di cannoni e automezzi di sussistenza. I carri armati

non erano un problema; Ugo, e con lui i compagni , pensava che dentro c’erano

sempre degli uomini, che una bomba, una fiammata li avrebbe spaventati. Non

potevano costituire un pericolo. I problemi nascevano dalla mancanza d’acqua,

di cibo, dalla dissenteria che falcidiava i reparti.

Per giorni gli alleati preceduti da fuoco di artiglieria, appoggiati da centinaia di

carri, cercarono di sfondare nella zona della Folgore.

Alcuni centri di fuoco furono persi ma poi ripresi; ogni volta i paracadutisti, se

è giusto chiamarli ancora così, partivano al contrassalto, colpendo carri,

catturando prigionieri. Ugo vide un generale inglese, appena vinto, che

guardava ammirato quegli uomini, le sentinelle che con fare marziale,

scrutavano l’orizzonte.

Lo udì chiedere al generale Frattini di che Corpo fossero; “ la Folgore”

rispose. L’ufficiale annuì, quasi avesse avuto una conferma. Ad Ugo vennero i

lucciconi; era già con i suoi compagni, nella storia. Lo sapranno dopo vent’anni

quando i tre battaglioni saranno decorati con medaglia d’oro; il Corpo più

decorato d’Italia per un singolo fatto d’arme.

Dopo giorni di assalti gli inglesi cessarono gli attacchi. Quella sparuta

pattuglia, al battesimo del fuoco, aveva fermato, sconfitto, un’armata dieci

volte superiore. I paracadutisti non si fermarono; cominciarono a riattare,

rinforzare le difese; da relitti di mezzi inglesi colpiti, avevano assemblato un’

ambulanza, una decina di camion ed un’ auto per il comandante.

Privi di comunicazioni non sapevano che il nemico aveva attaccato e sfondato

al centro: erano isolati.

Era contento Ugo, la sua personalità si era rafforzata; nella lotta aspra, nel

dolore della perdita di tanti amici aveva compreso valori diversi.

52

La vita non era un gioco, ma una battaglia nella quale la fortuna serve, ma

spesso gioca sporco; arrivò, con 24 ore di ritardo, l’ordine di ripiegamento.

Erano 25 km a piedi, diventati poi 80, in pieno deserto, trascinando gli

anticarro 47/32 e le munizioni.

Lasciarono alcuni uomini di retroguardia, per ingannare gli inglesi, che per un

giorno non si avvidero della scomparsa del nemico. Ugo comandava ormai un

plotone ridotto, incitava gli uomini, ma la penuria d’acqua, la stanchezza,

assottigliavano le file. Gli inglesi, automontati, con i carri armati erano partiti

all’inseguimento.

Li raggiunsero presto, ma si tenevano a rispettosa distanza; troppo fresco era il

ricordo dei colpi che gli uomini della Folgore avevano loro inferto.

Lentamente, col terminare delle munizioni i pezzi venivano abbandonati,

rendendoli inutilizzabili. Gli inglesi non ne avrebbero avuto lo stesso bisogno.

Rimase solo un anticarro, che di retroguardia, minacciava invano le

avanguardie nemiche, vogliose più di vedere l’esito della ritirata che di

combattere.

Ugo era rimasto indietro; colpito dalla dissenteria, disidratato, stremato, si era

allontanato piano piano dal gruppo; prima con altri e poi sempre più solo. Lo

raccolse, ormai senza forze, uno dei pochi automezzi italiani non requisiti dal

valoroso alleato; fu un caso. La fortuna l’aveva ancora una volta aiutato.

Il cerchio si chiuse sui superstiti. Erano circondati dagli inglesi, intorno i tanks

con i cannoni abbassati, e senza munizioni, acqua e viveri. Il comandante,

Tenente Colonnello Camosso propose la resa; gli uomini rifiutarono.

Piangendo risposero che avevano ancora le bombe a mano.

I comandanti schierarono la truppa su due file e la presentarono al Colonnello.

Ebbero l’onore delle armi.

Il Generale Frattini, accompagnato col suo vice in auto, dal comandante inglese

si vide porgere la mano: rifiutò la stretta.

Intanto Ugo, ricoverato in vari ospedali delle retrovie, ritrovava lentamente le

forze. Seguì la marea di uomini che cercava di sfuggire all’avanzata alleata. Si

trovò a Tunisi, ultimo baluardo difensivo dell’Asse.

Fu costituito anche un battaglione di 250 paracadutisti, provenienti per lo più

dagli ospedali, per tentare l’estrema resistenza; fra loro Ugo.

Lo spirito sempre alto, ma nella consapevolezza che il dovere non era bastato,

che troppi avevano congiurato contro quella che fu definita la più bella

divisione del mondo. Non solo il nemico, che le aveva reso onore, anche in

Parlamento, ma soprattutto chi, invece, doveva sostenerla.

Si trovò, con altri compagni, in una buca; sapeva a memoria come comportarsi,

cosa dire agli altri. Arrivarono gli inglesi, in massa, come al solito. La fantasia

non era il loro pane; erano coraggiosi, preparati, ma avanzavano sempre come

nella prima guerra mondiale.

Ugo sparò le restanti cartucce; con l'ultima colpì un inglese che correva,

53

baionetta in canna, verso di lui.

Non aveva più i mezzi per combattere; uscì dalla buca, senza fucile, ma senza

alzare le mani; non era stato vinto. Una pallottola lo sfiorò e fu subito preso

prigioniero.

L’intransigente, assolutistico spirito di Corpo, quello che animava Frattini, i

suoi compagni nel deserto, tutta la Folgore al momento di una resa che era però

una vittoria, l’aveva risparmiato. Fu avviato, come tanti, al campo di

concentramento.

Gli restò, in quegli anni, il ricordo del proprio dovere, di una lotta impari, delle

dichiarazioni di Churchill, della BBC; il ricordo di molti compagni dimenticati

dalla politica, ma non da loro; per un giorno soldati di fanteria, ma sempre

paracadutisti della Folgore.

54

Ulisse B.

“ Por las gradas sube Ignacio con toda su muerte a cuestas...”.

Da diversi minuti quella frase gli rieccheggiava con insistenza; ricordava gliel'avesse

detta un giovane poeta spagnolo che aveva conosciuto in Spagna, ai tempi del

Battaglione Internazionale “Dimitrov” .

“ Sui gradini salì Ignazio con tutta la sua morte addosso,..... cercava l'alba ma alba

non era..”, si tradusse; il sole, ormai vicino alla sommità dei monti, lo feriva negli

occhi ed era costretto a tenere le palpebre socchiuse.

Una goccia di sudore gli attraversava la guancia e mille mosche sembravano accanirsi

sul sangue che gli usciva dalle labbra; le mani, legate saldamente dietro alla schiena,

erano come un'inutile gruccia.

Davanti a lui, da diversi minuti, alcuni bersaglieri della Divisione Italia ciondolavano

appoggiati al moschetto modello '91, in attesa di imbracciarlo e sparare; qualcuno

fumava, altri chiacchieravano, sbirciando di sottecchi il condannato, in piedi, vicino

ad un muro sbrecciato dalle pallottole.

L'ufficiale, un giovane tenente con una divisa troppo larga, forse recuperata dai

magazzini della sussistenza, discuteva rispettosamente, una decina di metri più in là,

con un compito ufficiale delle SS.

Il concetto di “dovere” è diverso fra un latino ed un teutonico; “cum grano salis”

recita una massima latina e si sa che solo Cesare riuscì a fare loro capire qualcosa

della lingua.

Il giovane, che parlava in un corretto italiano con accento milanese, cercava di fare

capire al tedesco dell'inutilità di quella fucilazione; certo era un partigiano, ma era

giovane ed ormai la guerra era persa ed un atto di clemenza avrebbe restituito alla sua

patria un ragazzo che più di altri poteva capire l'importanza del dialogo e della

comprensione.

Evidentemente aveva avuto buone scuole e si capiva che la sua presenza nell'esercito

repubblichino non era frutto di una scelta volontaria, ma obbligata, forse dalla

provenienza, forse da minacce alla famiglia, forse dalla paura.

Il tedesco scuoteva la testa ed ogni tanto alzava la voce con quel tono secco e duro,

che immediatamente fa dire: “E' un crucco!”

Ulisse immerso in un sudore sempre più copioso, osservava con tranquillità la scena e

capiva che tutto sarebbe stato inutile e che fra poco, anche lui avrebbe salito quei

gradini.

L'avevano catturato due giorni prima, all'alba mentre usciva dalla casa dei suoi vecchi

che erano sfollati a Corvarola, dove era giunto alla sera con due compagni della

brigata Borrini.

Da due mesi non vedeva la madre, donna forte e pratica che spesso lo aveva

mandato a chiamare; problemi ne aveva tanti e quell'unico figlio, giovane, era il solo

aiuto che potesse avere, visto che il marito era rientrato dall'Africa, privo di un

braccio.

Si era addormentato profondamente, dopo una cena da troppo desiderata; nessuno lo

55

aveva voluto svegliare, neanche i compagni, che all'alba se ne erano andati.

Del resto pensavano, essendo a casa sua, in luoghi che conosceva, non avrebbe corso

pericoli.

Quando vide il sole già alto, si vestì rapidamente, salutò la madre ed uscì di corsa

dirigendosi verso l'amico bosco.

Inutilmente lei lo pregò di lasciare a casa la rivoltella, oltretutto una Luger, bottino di

guerra; sorrise alle preoccupazioni materne, pensando che in fondo le mamme sono

tutte simili.

Tre militi dell' Italia lo aspettavano dentro la macchia; si arrese all'altolà, alzando le

braccia al cielo, senza tentare nessuna reazione.

Al comando tedesco si accorse che era già segnalato come un pericoloso “bandito”;

gli venne così il sospetto che potesse esservi un legame fra il suo arresto e la taglia

che vide stampata sull'avviso.

Lo interrogò a lungo un ufficiale delle SS, non risparmiandogli botte, assistito da un

piccolo e largo individuo in completa divisa fascista, nera, comico nella sua eleganza

da parata e nel suo abbaiare da cagnetto senza autorità alcuna.

“ Fucilatelo domani mattina” disse il tedesco all'uomo in nero, “il plotone lo

comanderà il tenente Aldrighetti, che rientra stasera dalla licenza”.

Lo misero in una cella, ricavata dalla cantina della casa in cui era stato installato il

comando del gruppo.

Gli portarono verso sera un po' di pane e minestra; non aveva fame, ma mangiò

ugualmente.

Aveva riflettuto, lungo quelle ore passate su di un tavolaccio, sulla sua sorte; sarebbe

morto dopo poche ore senza potere comunicare con alcuno, senza potere lasciare una

traccia dei propri pensieri, senza potere dire che moriva, senza rimpianti, per una

causa che aveva abbracciato anni prima.

No, non aveva nessun rimpianto e la sua fede nella riscossa dell'Italia,

nell'antifascismo, era incrollabile.

Non riusciva a capire la scelta di molti giovani che continuavano ad arruolarsi

nell'esercito repubblichino; ignorava i metodi di reclutamento e le deportazioni in

Germania degli operai coatti.

Non tutti avevano il coraggio di buttarsi alla macchia, ma non tutti erano però, agli

occhi dei tedeschi e dei fascisti, soldati fidati; quando, nel gennaio 1945, un

Mussolini ormai stanco, finito, venne a Mocrone a visitare la linea gotica e le truppe

italiane lì attendate, queste furono disarmate dalle SS!

Era partito nel '36 dall'Italia con un gruppo di antifascisti fra cui Leone Borrini, morto

nella battaglia di Morata de Tajuna, durante uno dei tanti tentativi di Franco per

occupare Madrid.

Avevano combattuto contro forze preponderanti, armate dalle potenze nazifasciste e

soprattutto accompagnate dall'aviazione italiana e tedesca.

Era stato il primo scontro fratricida fra italiani che si sarebbe ripetuto nella guerra di

Liberazione.

56

Dopo la guerra non era rientrato in Italia; lo spirito indipendente che era in lui, sin

dall'infanzia, non gli consentiva di adeguarsi agli immancabili riti della propaganda

fascista e così si fermò in Francia a fare il muratore dove conobbe i Rosselli e tanti

fuoriusciti, una palestra di vita e di idee.

Era però segnalato come sovversivo e spesso casa sua veniva visitata dall'OVRA o

dai Reali Carabinieri, dove la madre, donna battagliera ed antifascista per tradizione,

provvedeva a regalare loro dileggi nemmeno tanto mascherati, frutto delle sue vantate

origini livornesi.

L'8 settembre lo colse vicino a Marsiglia e di botto, come sempre era stato nei suoi

primi venticinque anni, seguì l'istinto e si imbarcò per La Spezia e di lì in due giorni,

a piedi lungo sentieri di montagna che ben conosceva, giunse a casa sua, a

Villafranca.

Ulisse aveva freddo; la vita in montagna era difficile, ancor di più se si doveva vivere

alla macchia, braccati dai nemici, sempre attenti ad ogni rumore, ad ogni

cambiamento.

Si poteva vivere, nei momenti di tranquillità, ogni piccolo cambiamento

dell'ambiente, l'evolversi del tempo e della natura, il lento ritmo che da secoli

accompagna il vivere del montanaro.

La vita del partigiano riservava momenti di grande paura, frustrazione ed attimi di

pace, di serenità. Il rapporto con le genti del posto era vario, aiutavano, davano da

mangiare, anche un letto, ma sempre con la paura, comprensibile, di essere scoperti,

di essere additati come “banditen”.

Dormiva spesso in una cascina vicino a Compione dove il luogo gli avrebbe

assicurato la possibilità di una rapida fuga verso l'Arpa, poiché difficilmente

eventuali nemici avrebbero risalito dal versante opposto quei ripidi sentieri.

Era entrato nella Borrini, in cui militavano diversi suoi amici e già dalle prime azioni

si era guadagnato la loro fiducia, sorretto dall'esperienza spagnola.

Non tutti i suoi compagni, però, avevano la sua preparazione ed il suo intuito

militare; prepararono in tre un assalto ad una colonna tedesca, armati di moschetto e

mitra.

Attesero i camion ad una curva e all'apparire aprirono il fuoco, colpendo il primo

autista, il cui automezzo si rovesciò.

Gli altri tedeschi risposero al fuoco, individuando subito gli assalitori, che non ebbero

l'accortezza di muoversi; non sapevano più cosa fare.

I tedeschi avvisarono, via radio il loro comando ed una mitragliatrice antiaerea,

piazzata al di là della Magra iniziò a sparare ad alzo zero e furono colpiti tutti, senza

avere avuto il tempo di accorgersene e di fuggire.

L'immaginario gioca, a volte, degli scherzi e anche stavolta l'impreparazione, il

dilettantismo avevano prevalso; chi avrebbe pensato che li avrebbero potuti colpire

sparando dal là del fiume e poi con un'arma antiaerea!

Ricordava ciò che era successo in un paese vicino quando vi fu il primo

bombardamento; la gente abbandonò, all'allarme, le case e si radunò nei boschi

circostanti, a poche centinaia di metri dal centro del paese, per assistere al

57

bombardamento.

Le bombe non scelgono dove cadere e solo l'immaginario e l'inesperienza possono

fare pensare che vadano dove si pensa dovrebbero colpire, tant'è che molti così ne

furono uccisi, mentre pensavano di assistere ad un tranquillo spettacolo pirotecnico.

L'inesperienza e la fiducia spesso giocano sporco.

Arrivò un giorno un ragazzo del nord, fuggito dal reparto deciso ad arruolarsi nei

partigiani; era giovane, calmo, con occhi ancora indecisi sul futuro.

Il comandante disse con un ordine perentorio che bisognava andare al Merizzo a

ritirare delle provviste a casa di un contadino che le aveva raccolte dopo un lancio

alleato e si offersero due disertori tedeschi, pratici della zona; se li avessero fermati

quelli della Monte Rosa, dissero, avrebbero detto di essere in licenza.

Il ragazzo del nord li volle accompagnare, nonostante Ulisse lo sconsigliasse; non era

pronto ad un eventuale scontro e non si sapeva come avrebbero reagito i due crucchi.

Quei due non gli piacevano, non capiva la loro presenza, accettata però dal

commissario politico, e non si fidava; tuttavia partirono, accompagnati dagli

incoraggiamenti dei compagni.

Il ragazzo marciava in testa, con fare sicuro. perbacco, di che aveva paura Ulisse, era

abituato a cavarsela e non era più un bambino.

E' vero, non aveva ancora combattuto, ma un po' d'esperienza l'aveva ed i due

tedeschi, sorridenti, gentili, gli ispiravano fiducia; era poi cresciuto nel mito della

supremazia ariana e questi non potevano essere di certo cattivi.

Vide in lontananza la casa del contadino, in fondo ad un campo dove l'erba alta

doveva essere ancora tagliata, ed accelerò il passo.

Un colpo di moschetto lo raggiunse alla schiena.

Sentì un urto violento, ma non capì di essere stato colpito; stupito, poi, cercò di

girarsi quasi a cercare la sorgente del rumore, ma le gambe si piegarono e si accasciò,

senza un pensiero.

Il tedesco più vecchio, con il fucile in mano, fece cenno al collega di muoversi e si

affrettarono verso la casa, dove sulla porta comparve il contadino che scrutò la scena

con un'espressione assente.

Aveva avuto fiducia, quella che nella giovinezza non manca mai e che nell'uomo

trova il tempo per temprarsi; la guerra, invece, non lascia il tempo di crescere!

L'arte di arrangiarsi è naturale nel popolo e spesso anche in guerra vi si ricorre.

Un dì, in Spagna, fu comandato di recarsi dal comando di battaglione, ma doveva per

questo attraversare un grande ponte presidiato dalle truppe franchiste; era in

borghese, ma di certo lo avrebbero controllato e poi fermato.

Vide una giovane donna che si avvicinava con una carrozzina da cui spuntava una

manina di neonato.

Affiancò la ragazza, togliendole la carrozzina, gentilmente, e cominciò a spingerla,

mentre sorridendo, le chiedeva di aiutarlo; questa, dai lunghi capelli mori, il seno

prosperoso, ricambiò il sorriso e prendendolo sottobraccio cominciò a cantare

sottovoce.

58

Un fischio di ammirazione segnò il loro passaggio davanti alle guardie; franchisti sì,

ma sempre latini!

Alcuni anni dopo si trovò a dover passare il ponte sulla Magra, accompagnato da un

partigiano giovanissimo.

C'erano di guardia alcuni mongoli, montati su motocarrozzette; il traffico era intenso,

fra operai che tornavano dal lavoro, sfollati e soldati di varie armi.

Videro alcune carriole abbandonate, cariche di cemento; se ne impadronirono ed

iniziarono ad attraversare il ponte.

Il sudore abbondava sul loro viso, non solo per il caldo pomeridiano ma tuttavia

proseguirono con indifferenza, avvicinandosi sempre più al posto di blocco.

Un soldato mongolo li aveva da tempo inquadrati con i suoi occhietti indecifrabili;

cercarono di non guardarlo.

Si sentì un sibilo crescente, fortissimo ed apparve da sopra la cresta dei monti un

aereo americano, pronto a sganciare.

Ci fu un naturale fuggi fuggi; lasciarono le carriole e attraversato il ponte, ormai

senza fiato, imboccarono il sentiero per Canossa.

La guerra è piena di spie, tali a volte per necessità, a volte per passione politica,

spesso per convenienza.

Il comando unificato del CNL si era spostato vicino al crinale tosco emiliano, a

Bosco, dove fu attaccato e distrutto dai nazifascisti, preavvertiti.

Ulisse, che era stato mandato là, arrivò dopo la strage e capì che non potevano essersi

fatti sorprendere così facilmente, che qualcuno doveva avere tradito; il comandante

Pablo, figura mitica, non era un novellino.

Prese informazioni in paese sulla presenza di eventuali sospetti; c'era una faccia

sconosciuta, un partigiano, nuovo però per quelle zone.

Difficilmente in un piccolo paese di montagna si passa inosservati; l'arte del

pettegolezzo alimentato dalle donne del paese sulle porte e dagli uomini all'osteria,

mette a nudo i corpi e le anime e non lascia scampo agli occasionali presenti.

Il Nuovo venne descritto, spogliato; si ricordarono della familiarità con cui trattava

alcuni ufficiali, ma non era però fra i caduti!

Non fu difficile rintracciarlo in un paese vicino dove, forte di una protezione

promessa, si aggirava con tranquillità nei bar e fra la gente e lo consegnarono,

tremante, ai partigiani della zona; seppe poi che era stato giustiziato.

Alcuni suoi amici erano stati catturati durante un rastrellamento e rischiavano di

finire in Germania, come lavoratori coatti.

Erano richiusi, al buio, nella cantina di una casa di Filetto che dava su di un cortile e

che conosceva per avervi incontrato spesso la figlia del proprietario; raggiunse la casa

a sera e da una finestrella che dava sul piano, salutò gli amici.

Il tempo passava, senza che se ne accorgesse e lo riportò alla realtà il rumore di un

otturatore che veniva armato.

Alzò la testa e vide la canna di un moschetto a pochi metri; era un alpino della Monte

59

Rosa, che di guardia, aveva visto la brace della sigaretta, accesa imprudentemente.

Furono attimi di tensione, nel silenzio; l'alpino fece un cenno di lato con la testa ed

Ulisse corse via, senza girarsi o pronunciare un grazie.

Spesso vi era un tacito accordo di non belligeranza fra i soldati repubblichini ed i

partigiani; erano coetanei e provenivano dagli stessi reparti. Quando non c'era da

combattere, spesso si ignoravano!

Diversi, come detto, i loro percorsi di vita, spesso non legati a scelte proprie.

C'erano, anche, da ambedue le parti, i fanatici, gli irriducibili, il cui vivere era una

battaglia personale, che spesso sfociava in atti di crudeltà che poi venivano, in

genere, restituiti.

Catturarono un giovanissimo, della X Mas che continuava come in un ritornello a

lanciare proclami, a riaffermare la certezza della vittoria, ad inneggiare al Duce.

Conosceva solo questo, ma l'ambiente in cui esprimeva le sue idee non era certo il più

favorevole.

Cercò più volte di convincerlo a tacere, a pensare al proprio futuro, ma inutilmente;

aveva imparato una poesia, come a Natale, e doveva dirla.

Una mattina non lo vide più; si informò e seppe che lo avevano trasferito e non ebbe

il coraggio di fare domande.

Nel gennaio del '45 vi fu un grosso rastrellamento che costrinse diverse formazioni a

sganciarsi; non tutti i comandanti avevano l'abilità di effettuare operazioni così

complesse. Qualcuno tardò a muoversi, qualcuno prese una direzione sbagliata e

molti morirono. Ulisse, con i suoi compagni illesi, riparò nella zona del Lago Santo.

Ad aprile, i tedeschi iniziarono poi a ritirarsi per la strada della Cisa e lunghe file di

carriaggi, automezzi e cavalli arrivavano a Filetto e lì sostavano e poi ripartivano,

lasciando il posto ad altri.

C'era mobilitazione fra i partigiani; erano pochi per fermare questa massa di disperati,

ma tuttavia le formazioni ribelli si stavano organizzando ed iniziarono a scendere al

piano.

Decise, allora, prima dell'azione, di andare a salutare la madre.

La discussione fra il tenente Andrighetti e l'ufficiale tedesco stava continuando con

toni sempre più accesi; i soldati sembravano ormai stufi di aspettare al sole e

mostravano apertamente la loro insofferenza.

Anche Ulisse era stanco, fisicamente; la sua mente era ormai pronta e quella attesa lo

provava.

Dietro di lui, in cima al muro, dei colpi di Sten ed un comando, quasi urlato, in

dialetto: “Zétat zù!!”; cadde l'ufficiale tedesco ed i soldati si dettero alla fuga.

Apparve Nello col mitra in mano e lo liberò dai lacci, mentre i suoi uomini

catturavano il tenente, rimasto immobile, quasi sollevato.

Ulisse si avvicinò e disse di liberarlo; gli consigliò di cambiare la divisa con abiti

civili e di tornarsene a casa.

Andrighetti ringraziò e si allontanò velocemente, con un saluto quasi militare.

Nello gli chiese, mentre si massaggiava le mani indolenzite, se era pronto per

60

affrontare i tedeschi in ritirata; lo scrutò sorridendo, prese il mitra del tedesco e lo

mise a tracolla.

61