un libro...familiare
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PREMESSA
Non è facile parlare della propria famiglia; si corre il rischio della non oggettività,
legata poi al sentimento, alla mutevole visione delle situazioni.
E' anche difficile parlare di se stessi, quando il tempo e l'esperienza di vita portano a
valutare le cose in modo diverso.
Il ricordo delle chiacchiere di mia nonna Gigia, o Maria, come voleva essere
chiamata da “vecchia”, anche se vecchia sino ai novant'anni non è stata.a.
Le osservazioni costanti di mia mamma Iris sulle avventure di mio papà, le
improvvise esternazioni di mia zia, sua sorella, sul passato della nostra famiglia, mi
hanno portato a cercare di raccontare ai miei figli chi erano i Santini di Agnetta, i
“Matio”e i loro amici, insomma la loro “storia”.
Da qui un percorso, forse non lineare, dall'America alle sabbie di El Alamein,
all'intersecarsi delle storie villafranchesi, universitarie, lavorative di chi scrive.
Potrebbe apparire estranea la presenza degli ultimi due racconti: Ulisse B. ed Ugo; in
realtà riflettono la “summa” di diverse storie e presenze legate alla mia vita e alla mia
famiglia.
L'immagine del mitico comandante “Pablo”, Giacomo di Crollallanza, spesso
ricordata da mia mamma, i racconti del compagno di tenda e di “avventure” di mio
papà, Alberto da Busto Arsizio, i ricordi di tanti amici giovani e meno, mi hanno
portato a condensare in due personaggi immaginari le storie di tanti personaggi veri.
Ai miei figli lascio una memoria che vorrei raccogliessero.
Sandro
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….e Santini andò in guerra....
Mio padre Primo atterra a Tobruk, proveniente via aerea da Atene, il 2 agosto del
1942.
Metà della Folgore, radunatasi il 22 luglio a Lecce, era partita direttamente da lì;
l’altra metà era risalita in treno in Italia ed era giunta in Grecia, allora occupata, dopo
che Mussolini le aveva “spezzato le reni”.
Aveva ancora vent’anni: era nato infatti il 20 settembre del 1921 a Pochaontas, in
West Virginia (USA), dove si erano stabiliti i suoi genitori, Luigi e Maria Luigia
Galeotti, ambedue originari di Agnetta, nel comune di Bagnone (MS).
Mio nonno, nato il 3 ottobre 1886, era andato diverse volte a lavorare in America, si
dice ancora minorenne, falsificando la carta di identità, e come succedeva spesso, era
ritornato più volte per aiutare la famiglia, contadini a mezzadria e quindi con
problemi economici assai rilevanti.
Nella seconda metà del ‘700 i Santini erano a Pastina (Bagnone); indi, all’inizio
dell’800, si trasferirono ad Agnetta, sempre agricoltori, sempre col soprannome di
“Matio”.
Luigi era figlio, con la sorella Gina e Attilio, di primo letto di Eugenio Santini e di
Maria Albericci.
Eugenio poi si era risposato in seconde nozze con la Elisa ed erano nati Ferruccio,
Maria e Beppe.
Nel 1907 era sbarcato, proveniente da Le Havre, ancora negli States, a New York,
Ellis Island, e si era diretto in California, Lo accompagnavano un Rapalli ed un
Albericci, ambedue di Corlaga, che avevano indicato allo sbarco come referenza,
Giovanni Galeotti, il suo futuro suocero, che per breve tempo aveva tentato
l’avventura in “Merica”.
Il 9 dicembre 1918, Louis Santini, dopo avere vestito per sei mesi la divisa
dell’esercito USA a Camp Dodge nello Iowa, era stato naturalizzato cittadino
americano.
Ad Agnetta intanto, aveva frequentato Maria Galeotti, nata nel 1900, figlia del citato
Giovanni e di Maria Guidi, rampolla di un conte Guidi del castello di Bagnone. Da
questo matrimonio erano nate quattro femmine. La prima si era ammalata di tifo ed il
medico aveva mandato il padre a Pontremoli a prendere del ghiaccio per alleviarle la
febbre; al ritorno, fatto in bicicletta, il ghiaccio si era sciolto naturalmente tutto. In
seguito era deceduta.
Morta anche la moglie, Giovanni si risposò con Gina Santini, sorella di Luigi, ed
ebbe dopo Divina, Maria, Settima, Enrico, Ines, Fernanda e Romolo.
I miei nonni si sposarono nel 1920. Il 28 dicembre di quell’anno Maria Santini fu
iscritta nel passaporto del marito e con lui sbarcò in America il 23 aprile 1921: era già
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incinta di mio padre.
Il nonno lavorava in miniera; la nonna faceva pensione ad altri italiani. Di notte
andavano a comprare del whisky e lo nascondevano in una buca, per poi rivenderlo.
Probabilmente non vivevano male.
Rientrarono in Italia nel gennaio 1927; il nonno, ormai benestante, si fece costruire
una casa a Corlaga, dove nacque nel 1928 la secondogenita Vilma. Si trasferirono poi
a Parma dove acquistarono un’ osteria in centro ed un piccolo podere a San Pancrazio
Parmense, gestito poi dalla cognata Settima e dal marito Sarti.
Mio padre Primo si diplomò ragioniere al Melloni di Parma il 31maggio 1940 e si
iscrisse ad Economia e Commercio nella locale Università. Mia zia Vilma frequentò
le magistrali e dopo Medicina e Chirurgia, dove si laureò brillantemente. Era una
famiglia felice dove si manifestava la forte personalità della nonna “Gigia”, peraltro
impegnata a contenere le scorribande del figlio.
A questi, il 18 luglio 1940, venne comunicato l’obbligo di frequentare il corso per
allievi ufficiali di complemento. Ma, evidentemente, la voglia di partecipare alla
guerra, che si riteneva di breve durata, era comune a molti giovani parmigiani che
non perdevano occasione per manifestare la loro adesione all’impresa.
Il 29 gennaio 1941, come conseguenza della volontaria domanda di rinuncia
all’AUC, venne destinato ad un reparto mobilitato. Alla notizia della prossima
partenza per il servizio militare, come volontario, a Gigia vennero i capelli bianchi e
mio nonno Gigin commentò che ”così, almeno, avrebbe smesso di agitare bandiere
sul monumento di Garibaldi” .
Fu destinato al II Reggimento Bersaglieri “Nulli Secundus” di stanza a Roma.
Arrivò alla caserma S. Francesco, a Ripa di Trastevere, il
29 gennaio 1941. Altri volontari parmigiani, Bacchioni, Faggionato, Taverna, Bonati
erano giunti il 24, dopo essere stati festeggiati al GUF dal Federale, “ vera tempra di
fascista” e da Giovannino Rabazzoni.
Lo accolse al Corpo Alberto Bizzarri di Ancona, poi valente medico; “Era in ritardo,
come al solito”. Il 13 febbraio venne ricoverato all’Ospedale Buon Pastore e dimesso
il 24.
Il 16 Aprile è nominato caporale ed il gruppo di volontari venne inquadrato in un
unico plotone.
Erano una sessantina “ provenivano in massima parte dall’Italia settentrionale. Il
gruppo più numeroso (otto) era di Parma. Questi ragazzi emanavano un tono di
gaiezza e di simpatia, con i loro caratteristici detti, e subito si facevano notare”.
Il 21 Aprile partirono dalla stazione Ostiense per Brindisi, dove furono imbarcati
sulla motonave Galilea il 22 Aprile. Fu detto loro di indossare i giubbotti salvagente e
di togliersi le scarpe, per il timore di siluramenti. Arrivarono a Valona alle 11 del
giorno dopo. Per oltre ventiquattr’ore digiunarono; non era ancora arrivata la
sussistenza ed avevano già mangiato le razioni di riserva.
Il 24 pomeriggio Primo e Tristano Grandi, saliti su di una camionetta degli Alpini,
andarono al porto di Valona. Qui furono invitati a cena dal Comandante di una nave,
evidentemente impietosito dal loro racconto.
Il 27, il 182° Battaglione di cui facevano parte, tolse le tende e lasciò Valona diretto
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in Grecia. Giunsero alle montagne del Golico, poi ad Argirocastro e il 14 Maggio a
Gianina , con la Grecia ormai arresasi, dove sfilarono davanti al comandante della
Julia. Intanto il 182° battaglione era stato sciolto e Primo fu assegnato alla V
Compagnia del II Reggimento Bersaglieri, assieme a Grandi, Minaldi, Parini e
Valensise. Poi Missolungi, Corinto in nave, Patrasso e poi Pirgos e di nuovo Patrasso.
Tuttavia nessuno aveva ancora avuto il battesimo del fuoco.
I volontari chiesero quindi di partecipare ad un corso per sergenti e furono tutti e
cinquantaquattro inviati a Lutraki, cittadina di villeggiatura, dove alloggiarono per
due mesi al Palace Hotel, però purtroppo dismesso. Qui nacque, fra questi giovani
goliardi, il primo germe della Sirena di Lutaki, come scrisse Ercole Monti. “ La
Sirena di Lutaki ha incantato i Bersaglieri e le navi stanno ferme tutto il giorno ad
aspettere “. Il corso non fu approvato dal Ministero e tutti dovettero tornare ai loro
Corpi.
Uscì il bando per entrare nei Paracadutisti. Tredici di loro fecero domanda e furono
inviati in Italia per le visite mediche. Il 29 settembre partirono in camion per Corinto
dove si imbarcarono sulla nave Piemonte; “partono questa sera con il Grande
Mangini, l’artista Ghermandi, il mandrillo Primo Santini e altri ragazzi che la
sventura di questi lunghi mesi di vita militare ha reso cari”, racconta nel suo diario
Bruno Bacchioni. Il 2 Ottobre sbarcarono a Bari e da lì a Foggia in treno, diretti a
Roma. Vi arrivarono nelle prime ore del mattino non sapendo cosa fare: “ Primo
Santini propose: andiamo al casino. Più che una proposta sembrava una battuta…….
E sull’ argomento non si era mai sicuri se Primo scherzasse o parlasse seriamente”.
Data l’ora pensavano, come racconta Alberto Minaldi che li avrebbero scacciati. “
Primo era di parere diverso. Quando paghi tutti gli orari sono buoni.”
A Roma non andarono a dormire in caserma; senza soldi con Minaldi e Nando
Danelli, girarono per la città approfondendo un’ amicizia che sarebbe durata oltre El
Alamein. In nove : Minaldi, Santini, Danelli, Piva, Ghermandi, Picot, Bizzarri, R:
Bertoni e Tulli superarono i test il 3 Ottobre e il 6 Dicembre fecero il primo lancio
dal Caproni 133. Dalla scuola di Viterbo erano stati trasferiti infatti all’aeroporto di
Tarquinia. Qui al primo lancio Bizzarri si ruppe un malleolo e dovette rientrare al
Corpo. Nel frattempo Primo aveva accompagnato Minaldi e Danelli a conoscere due
ragazze parmigiane , amiche di Franco Buratti, che abitavano a Roma.
Nacque un idilio e Primo abbandonò il campo: “ non era solo un sensuale, era anche
sensitivo. Con apparente indifferenza, giustificò il distacco con poche frasi, un po’
rudi nei propri confronti. Belle ragazze, simpatiche, ma non facevano per lui. Troppo
serie. A distanza di tempo ebbi conferma di questo mio giudizio…….Capì che
rischiavamo di lasciare dietro di noi una scia di dolore. Forse un’amicizia non ha
storia…”, racconta Minaldi.
L’ 11 Dicembre furono brevettati.
A Natale Primo tornò a casa in licenza per rientrare il tre Gennaio, in ritardo di un
giorno, al Corpo, dopo una sosta a Roma con Minaldi e Danelli. Entrò in prigione
Caporale e ne uscì Caporalmaggiore. Fu nominato Sergente a far tempo dal 25 Aprile
1942.
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La compagnia ciclisti, dove erano aggregati i paracadutisti ex bersaglieri, fu inviata in
una caserma nuova di S. Maria Capua a Vetere. Poi furono inviati a Rovezzano (FI),
dove continuarono l’addestramento, teso soprattutto ad esaltare le doti individuali e
fisiche del parà, cosa poi rivelatasi fondamentale nelle battaglia di El Alamein.
Arrivò l’ordine di partenza , da tutti atteso, per il fronte; partirono dalla stazione
Ostiense diretti a Lecce . Con Minaldi si fermò ad Ostuni, dove si trovavano i due
Battaglioni a cui erano destinati..
“ Io e Primo trovammo per la notte un piccolo appartamento con due stanze. Primo
uscì per comprare sigarette e ritornò con una ragazza poco più che ventenne,
disposta a trascorrere la notte con noi. Dividemmo cameratescamente la notte “.
Raggiunsero Lecce , dove il Generale Frattini, Comandante della Folgore, parlò ai
reparti schierati all’ aeroporto, annunciando la partenza per l’Africa..
Era il 22 Luglio 1942.
La Divisione paracadutisti Folgore giunge in Africa Settentrionale a partire dalla
seconda metà del Luglio 1942. A metà Agosto il trasferimento è completato. Sono in
linea, all’inizio però frazionati in vari punti, circa 5000\6000 paracadutisti (otto
battaglioni, tre gruppi di artiglieria 47\32, compagnie autonome di minatori- artieri,
collegamenti, mortai ecc…)
Il 30 Agosto, Primo, aggregato alla 25a Compagnia del IX Battaglione, 187°
Reggimento, comandato dal Ten. Colonnello Luigi Camosso e poi dal ten. Colonnello
Alberto Bechi Luserna, partecipa alla prima battaglia della Folgore ad Alam Haifa.
Il raggruppamento Camosso avanza lungo la depressione di El Qattara,
conquistando Naqb Rala e la importante altura di Qaret el Himenait.
Nella notte fra il 3 e 4 settembre a Deir Alinda si scontrano con ingenti forze
avversarie: 5a brigata neozelandese, 132a britannica e 46° e 50° Royal Tanks.
Gli Inglesi perdono, per loro stessa ammissione, 983 uomini e alcune decine di carri e
mezzi blindati. Fra i caduti della Folgore, 230 fra morti e feriti, vi è Nando Danelli,
piacentino, medaglia d’argento, che, ricorda mia zia Vilma, veniva spesso a Parma a
casa nostra. Il IX ed il X, decimati, vengono fusi nel IX battaglione.
Nella notte del 30 settembre la Folgore è attaccata dalla 131a brigata britannica e da
consistenti forze corazzate, appoggiate da reparti d’assalto. La 25a compagnia, tre
plotoni, comandata dal s.tenente Marcello Berloffa, è appostata in un campo
trincerato.
Il IX battaglione di cui fa parte la 25a ed il III gruppo artiglieria, adottando la tattica
del contrassalto preventivo, contrattaccano gli avversari, costringendoli alla fuga con
durissime perdite. Nella notte fra il 30 e il 1 Ottobre, Primo, durante un contrattacco
viene ferito gravemente alle gambe da un bomba inglese e trasportato all’ospedale da
campo num. 241. Il 7 ottobre viene trasferito all’ospedale num.240.
Il 15 ottobre torna in patria, da Tobruk, sulla nave ospedale Gradisca. Il 19 sbarca a
Napoli, dove è
ricoverato all’ospedale 23 Marzo. Poi col treno ospedale num.2, il 27 Ottobre giunge
all’ospedale di Montecatini. Gli esiti delle ferite lo condizioneranno per tutta la vita.
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Intanto la Folgore prosegue la sua impari , ma vittoriosa battaglia ad El Alamein,
contro le forze alleate; i suoi compagni, sfiniti, ma non vinti, sono presi prigionieri
con l’onore delle armi.
Il 28 Maggio 1943 viene di nuovo giudicato idoneo al servizio militare ed il 31
rientra al corpo paracadutisti a Tarquinia. Qui però è ritenuto inabile per la specialità.
Il 7 Agosto all’ospedale militare del Celio viene giudicato idoneo al corso ufficiali.
L’8 Settembre 1943 si sbanda, ma viene arruolato nel corpo ausiliario di P. S.
Sembra continuare nella sua vita avventurosa. E’ arrestato dai tedeschi che lo
vogliono deportare in Germania; forse faceva il mercato nero. Lo salva mia madre
con l’aiuto di un maggiore austriaco che suo padre aveva aiutato. Lo cercano anche i
partigiani. Per incolparli compie, con i compagni, incursioni travestito da partigiano
nelle fattorie della Bassa. Lo salva poi l’amnistia.
Il 5 Agosto 1944 si sposa con mia madre Iris, figlia di un piccolo industriale di San
Pancrazio, Giuseppe Calestani (Pepèn) figlio di Antonio e di Angela Pambianchi, e
della Savina Zoni.
Il 18 maggio 1946 nasce l’unico figlio: Sandro.
Primo non va d’accordo con il cognato Tonino; lascia la fabbrica del suocero e ci
trasferiamo a Villafranca Lunigiana nel 1954, dove apre una fabbrica di serramenti a
Filetto, e si costruisce una villetta in stile americano.
L’onorevole Negrari, suo ex compagno di scuola, ma soprattutto segretario del
Presidente della Repubblica Gronchi, gli propone di entrare in lista per la DC alle
elezioni provinciali. All’ultimo la proposta salta e Primo entra in lista come
indipendente con il PCI, sponsorizzato da Costantino Cirelli (Raffica), già
commissario politico partigiano e poi Presidente della Provincia.
Viene eletto consigliere provinciale a Massa e poi Assessore, ma i suoi affari ne
risentono, anche per il potere della DC locale, che gli offre molto denaro per lasciare
il seggio subito, onde arrivare a nuove elezioni. A contattarlo è un suo ex
commilitone della Folgore di Mulazzo.
Fallisce, vende casa e fabbrica e poi viene assunto come segretario avventizio presso
il nuovo Liceo Sc. di Villafranca L. Non può però partecipare al concorso in quanto
per cinque anni non gode dei diritti civili.
Nel 1963, come invalido di guerra, è assunto alla Ragioneria della Provincia di
Massa.
Nel 1965 ci trasferiamo a Massa. Diventa Ragioniere Capo all’Omni di Massa, non
solo per meriti personali, ma perché è uno dei due soli ragionieri di tutta la ragioneria
provinciale. Spesso racconta del giro di tangenti e ruberie che trova. Un esponente
politico socialista mi dice: “ora con tuo padre speriamo di fare piazza pulita” . Ci
prova, ma un giorno, dopo essersi messo contro la presidentessa nazionale, mi dice:
“se non vado in pensione, mi mandano in galera”.
Ha mille difetti, ma è ancora generoso, altruista, spesso sognatore. Si fa in quattro per
i supposti amici. Vive sempre però pericolosamente, onesto, sempre senza soldi,
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sempre con debiti che la madre e la sorella, che gli vogliono bene, spesso tamponano.
Soprattutto ama le donne, come da giovane, e mia madre lo sa e spesso lo scopre.
A Villafranca Iris picchia la sua amante, attendendola alla sera sul ponte romano,
quando rientra dal lavoro.
A cinquantadue anni va in pensione e va ad abitare in una piccola casa a Teglia di
Mulazzo.
Nel dicembre 1975 è colto da una febbre persistente, asintomatica. La zia Vilma mi
telefona e mi dice che potrebbe essere cancro.
Lo confermano al Rasori di Parma; provano ad operarlo a Torino, ma rischia la vita.
Per un certo periodo migliora e va anche a caccia, nella diletta isola di Palmarola da
dove torna in anticipo, sfinito.
Muore all' ospedale il 14 giugno 1976, dopo una breve agonia.
La sua guerra è finita.
Dopo cinquantaquattro anni.
Ha fatto in tempo a conoscere due nipoti: Matteo ed Alberto.
E’ sepolto nel cimitero di Villafranca, a destra dopo l’entrata. Vicini ci sono molti
suoi amici di vita e di carte: Guido Meleo, Giuseppe Bazzali: “Mascagna”, Augusto
Bragoni: “Gustin al Farkett”.
Non è solo.
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….ma la storia continua Dormi sepolto in un campo di grano,
non è la rosa, non è il tulipano, che ti fan ombra dal
bordo dei fossi, ma sono mille papaveri rossi.
La prima immagine, sbiadita, è di un giovane, che cingendo la moglie con il braccio
destro, alza il pugno sinistro nel saluto dei “Rossi”. Siamo nella camera all’ultimo
piano della casa di Fraore, lungo la via Emilia, dove sta transitando un corteo con le
bandiere rosse, sulla pista ciclabile. Mio padre saluta così gli amici, che
probabilmente erano in sfilata; vedo quelle bandiere e quei fazzoletti rossi, quel
colore così sgargiante e mi piace, anche se non capisco.
Ripenso , a distanza di anni, il perché di quel pugno chiuso; era stato interventista,
volontario nella Folgore, nella Repubblica Sociale!
Mi ha chiesto l’altra sera, mia figlia Elisa, di mio papà, ”Santè” come lo chiamavano
a San Pancrazio. Non lo conoscevo; è morto troppo presto, negli anni in cui i genitori
sono ancora impegnati a “vivere” ed i figli a crescere. Non c’è il tempo per parlare,
per conoscersi.
Nei tre mesi del 1976, in cui è stato ricoverato al Rasori di Parma, dove lo visitavo
giornalmente, venendo da Fornovo dov’ero veterinario, ho parlato a lungo con lui; ho
scoperto il suo carattere ligure, un po’ chiuso, ma non l’ho conosciuto; era difficile
parlare del passato quando si doveva tacere o comunque tergiversare sul futuro.
Quando avevo tre anni era arrivata la TBC polmonare. Nome brutto, allora; letale; “il
mal sottile” come lo chiamavano, con pudore. Il dottor Villa, il nostro medico di
famiglia, non capiva da dove venisse. Tutti a casa erano sani e lui diceva in
parmigiano “ qui c’e’ qualcuno che la porta in giro “, con la saggezza dei vecchi
medici, abituati più all’intuito che alla scienza.
Lo scopriremo poi.
Mia zia Vilma, studentessa in medicina, mi portò in treno a Milano da un luminare
per una visita.
Al ritorno, comprò due panini a Piacenza, alla fermata; allora li vendevano così, e
penso che il treno non partisse sino a quando tutti non fossero stati “visitati” dai
venditori che correvano lungo il marciapiede. Ne comprò uno anche per un ragazzo,
che li “sgolosava” e che evidentemente non aveva soldi.
Il risultato fu la partenza per il Sanatorio di Prasomaso in Valtellina.
E’ la seconda immagine che ho di mio padre; Santini con la mitica Topolino A, usata,
che aveva portato a benedire al Santuario di Fontanellato con tutta la famiglia, e che
ferma ad un passaggio a livello in salita, alla ripartenza era scivolata nel fosso.
Ci fermiamo a Milano a comprare un mucchio di giocattoli; chissà perchè, avrò forse
pensato. A quattro anni il Sanatorio è indecifrabile. C’era con noi la nonna Gigia;
dovette scendere al paese prima di Prasomaso e prendere la corriera, perché la strada
“tirava” tanto e la Topolino non ce la faceva.
Rividi il papà e la mamma alla mattina, quando le suore ci portarono a passeggio, due
per due. Erano fuori dal cancello, che sembrava tanto distante, e aspettavano di
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vedermi un’ultima volta prima di partire.
Mi ribellai, senza parlare, cercando di raggiungerli, invano; erano troppo lontani per
me e non ebbi forse il pudore di chiamarli.
Da piccoli le distanze, gli spazi, sembrano enormi, i cento metri che separavano casa
nostra a Fraore dalla Cà Bianca, il bar, osteria, dove Ferrari veniva con i burattini; la
veranda, “enorme”, al primo piano del Sanatorio dove giocavo con i “sinalcoli”,
ovvero i tappi delle aranciate con dentro l’immagine dei ciclisti, che ci lanciavano
assieme ad una specie del gioco dell’Oca, quando passava il giro d’Italia.
Da noi passava, allora non c’era traffico, anche la Mille Miglia, con le rosse Ferrari e
il “mitico” Conte Giannino Marzotto, in Ferrari spider, che, riconosciuto dal numero,
veniva additato dalle donne presenti ( Vè! A' riva Marsotto !!.)
Passava anche la Milano- Taranto, riservata alle moto. Mio nonno Pepèn (nà sigòla e
‘n po’ d’mes vè), come si definiva lui, dormiva sulla panchina posta sotto l’immenso
noce che era nel cortile, e così seguiva anche il passaggio notturno.
C’era chi aspettava una moto come la sua e poi la rincorreva, forse per uno spirito di
emulazione, prendendosi il sarcasmo dei presenti: “mò vè che siòc!!!!”.
Santini aveva una macchina eccezionale: una 1100 spider, color argento con gli
interni in pelle rossa. La ricordo ancora, era bella, anche se un giorno, dopo che era
stata schiacciata da due camion e lui si era salvato gettandosi fuori, l’aveva fatta
dipingere color oro.
Credo fosse sua, anche se della ditta. Mio zio Tonino, fratello di mia madre che
lavorava con lui, non credo ne avesse, anche per il suo carattere mite, la disponibilità
reale.
Una mattina alle quattro doveva portare la moglie Maria e il figlio Marco alla
stazione per prendere il treno per Monterosso e l’auto non c’era! Li caricò sul vecchio
camioncino della ditta.
La 1100 era a Spezia con Santini e la Corale Verdi a prendere il caffè !!!
Restai in sanatorio quaranta giorni. Venne mia madre, ricordo che mi riportò dei
giochi e stette con me, sulla terrazza, già di sera, e appurato che l’unica cura di cui
ero oggetto era l’aria buona, disteso su di una branda e coperto sino al naso, decise di
portarmi a casa; da li partimmo, io e lei per la Costa di Folgaria dove, su una sedia a
sdraio costruita dai nostri falegnami, passavo le giornate in assoluto riposo,
guardando i bambini che giocavano nel prato antistante.
Ho rivisto il posto, passandoci davanti in motorino con Renzo Amadei (Ernestino di
Malgrate) dopo dieci anni.
Non ricordo in quegli anni la presenza di mio papà. Ogni tanto mi faceva vedere le
cicatrici delle sue gambe, a letto, ricordo della bomba inglese a Deir El Munassib, ed
una volta mi regalò una scheggia che gli era fuoriuscita.
Il regalo più bello lo portò un giorno a me ed a Marco : due scatole di soldatini
comprate da Castelli a Parma, con le quali giocai per giorni nell’ampio corridoio di
casa , ma perchè anche a mio cugino? Un giorno mio zio Tonino ci portò
all’aeroporto di Parma e fece con lui un giro su di un piccolo aereo, lasciandomi a
terra a guardare, da solo.
Tonino mi aveva, una volta, anche portato al Tardini, a vedere il Parma, con le maglie
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blucrociate: il mitico Bicicli, poi Inter;“Biciclèta”, gli urlavano i tifosi e Vikpalec
“Vippale”, poi allenatore della Iuventus.
Con Primo non ricordo svaghi di questo tipo.
Un giorno mi regalò una bici da corsa, bellissima, una Stucchi, color oro, che non
potei mai usare perché ero malato.
Andavamo, io e Iris tutti gli anni in montagna. Una volta a Varena di Cavalese. Venne
anche la zia Vilma, con una compagna di Università, che però probabilmente odiavo,
perché la costringeva a studiare, a mio discapito. E poi la ricordo antipatica di
espressione!!
Fu l’unica volta che mia zia mi sculacciò; avevo visto per giorni una bambolina
abbandonata in un cortile ed ero deciso all’esproprio proletario. Aveva una
padroncina!!! Che sfigato!!!
Una sera tornammo a Parma, io ed Iris in corriera, da Cavalese. Naturalmente Santini
non c’era.
Mentre passavamo carichi di valigie sul ponte Bottego, si accostò un’ auto: “permette
un passaggio,signora?” Iris lo ringraziò ringhiando, senza voltarsi. Era mio padre, con
l’aria innocente e sorridente, con quell’espressione “fascinosa” per cui tutto gli si
perdonava. Andammo a dormire in un unico letto, in un grande albergo. Alfa Romeo
millenove, ma sempre pochi soldi.
Il suo fascino, la sua capacità di attrarre, che spesso mi vengono raccontate, le ricordo
anch’io bene.
Sapeva esercitare il fascino !
La nonna e Vilma, sì, proprio loro, un dì, sedute sul divano, mani in grembo, lo
guardavano estasiate, mentre passeggiando davanti a loro, parlava e gesticolava,
raccontando o forse imponendo i suoi guai. “Al mè Primo” come lo chiamava la
nonna Maria, alla quale ne aveva combinate sempre tante e tante. Eppure lo amava e
non mi ha mai detto una parola contro; quando morì, disse che neanche per la morte
di suo marito aveva sofferto tanto. “ Ahh! S’a ghaves dàt tùti i sodi chi ‘m’dmandeu!
Cosa ‘m’n' an fagh adèss”, mi disse più di una volta.
Quando Primo telefonava alla nonna perché iniziava il passaggio delle tortore
all’isola di Palmarola, chiedendole l’abituale obolo, alla rituale domanda lei
rispondeva che i soldi le servivano per la tomba; poi naturalmente glieli spediva. Non
so se la ringraziava.
C’ero anch’io quando morì il nonno Luigi all’ospedale di Parma. L’avevo visto una
settimana prima, a letto, in via della Salute; non stava male.
In camera erano entrati mio padre e mia zia. Capii che il nonno era morto dall’urlo
“papà” di Vilma. Pregai, non so perché.
Andai con lui a fare i manifesti mortuari e per il funerale. Ricordoche gli dissi,
vedendolo preoccupato, “ ti ci voleva anche questo!” Avevo otto anni.
Da quanto ho capito da mezze parole, qualcosa ha combinato anche per il funerale. Il
rapporto fra lui e sua sorella, sempre sbilanciato a favore del papà, non l’ho mai
approfondito; “le cose le sappiamo solo io e mia sorella “ -mi diceva lui-; “le cose le
sappiamo solo io e mio fratello” mi rispose un giorno mia zia!
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Era un circolo privato; credo che nessuno, neanche la nonna e lo zio Ninetto,
potessero entrarvi.
Ho incontrato lo zio la prima volta in via della Salute; avevo circa otto anni. Era un
potenziale concorrente e per non vederlo mi nascosi nella baracca in fondo al “mio”
giardino, con degli alberi “altissimi”. Aveva in mano una scatola di soldatini! “Più
dell’onor potè il disio” Uscii ad abbracciarlo.
Nel 1956 entrò in politica; “vota colomba, vota Santini” recitavano i manifesti; lo
slogan era di Costantino Cirelli, il compagno “Raffica” che l’aveva candidato alle
provinciali. Dava l’Alfa a dei ragazzotti neopatentati perché gli portassero in giro i
volantini.
Una sera l’on. Democristiano Negrari di Bagnone, suo ex compagno di scuola, tenne
un comizio a Villafrnca in piazza. La DC mobilitò molti pulman dalle frazioni, solo
che tanta gente andò al concomitante comizio di Primo, a San Nicolò.
Parlò su di un palco davanti alla fontana; lesse un breve discorso, pacato, ragionato.
Accortosi della brevità, si scusò e riprese a braccio, sempre più accendendosi, tant’è
che Cirelli dovette richiamarlo”Primo!!”, tirandolo per la giacca, per calmarlo. Fu
eletto, divenne assessore e fu la sua fine.
Ad una cena di beneficenza organizzata dal prefetto di Massa, per evitarne la moglie
che all’entrata esigeva l’obolo, passò, vantandosene, in abito da sera, dalle cucine!!!
Ho vissuto a tredici anni la storia del suo fallimento, delle sue traversie finanziarie,
della chiusura della fabbrica, del trasloco a Villafranca in un appartamento al primo
piano sopra la farmacia di Binotti. Mai mi ha parlato dei suoi fatti. Solo una sera in
macchina mi raccontò alcune vicende della guerra in Africa, in particolare del rifiuto
di una medaglia e del rapporto pessimo col suo tenente, Berloffa.
Litigavano spesso lui e Iris. A tavola erano scenate, botte, volare di piatti e tovaglie. Il
mio pranzo era brevissimo; fuggivo al più presto. Non credo che la cosa li
preoccupasse più di tanto. Non si parlava ancora di psicologia.
Quando mia madre lo lasciò per recarsi con me in Svizzera a casa dello zio Tonino,
perché stanca delle sue avventure galanti, dopo poco venne a prendermi e mi riportò a
Filetto. Era ancora estate, ma lo vidi poco. Mangiavamo spesso scatolette.
Mi accompagnò a Parma dal professor Gunnella a fare il peumatorace; non l’aveva
mai visto. Mi teneva la mano sulle gambe quando mi forarono il polmone, in un gesto
di protezione; lo apprezzai, ma ero e mi sentivo, dopo due anni di trattamento, un
veterano. Non mi mossi.
Anche col passare degli anni lo vedevo poco. Mia madre alla mattina mi portava il
caffelatte e mi ragguagliava su quanto aveva detto su di me.
Solo una volta mi chiese dei miei studi in prima liceo.
Era segretario, ma dagli insegnanti ci mandava mia madre. Intervenne solo a Massa
con la preside, in quinta, perché essendo ripetente in caso di bocciatura sarei dovuto
partire militare. Lo seppi da altri.
Accettò il mio improvviso matrimonio ed i problemi che lo avevano preceduto.
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C’era, ma non lo faceva pesare. Spesso usava il suo “fascino” per risolvere problemi
che erano difficili. Incantava le controparti con le parole, i gesti, sempre misurati, da
gran signore.
Organizzò la mia cena di laurea.” Questa è la mia rivincita” disse. Infatti aveva dato
diciotto esami ad Economia e Commercio, ma sembra che i soldi per laurearsi
avessero cambiato destinazione. L’avrei ucciso! Aveva sempre boicottato tutte le mie
richieste di andare a lavorare.
Mi mandò un assegno di 50.000 lire, nel 1973, quando andai a lavorare a Siena, alla
Sclavo. Non avevo una lira per arrivare al primo stipendio e per pagare la pensione.
So quanto gli deve essere costato.
Nel dicembre 1975 è colto da una febbre persistente, asintomatica. Mia zia mi
telefona: “secondo me è cancro”.
Lo porto al Rasori di Parma; fu la conferma. Provano ad operarlo a Torino. Rischia la
vita. Per un certo periodo migliora.
Allora incominciò a fidarsi di me, del figlio Dottore. Seduto al Rasori, in attesa del
secondo ricovero, dopo che ero andato a prenderlo a Teglia in auto mi disse: ”non
avrei mai pensato di avere bisogno di mio figlio”.
Gli raccontai che aveva un ascesso al polmone, poi sempre altre storie per non farlo
preoccupare. Forse si fidava o voleva fidarsi. Era pauroso e se avesse saputo la verità,
forse avrebbe vissuto peggio gli ultimi mesi. Mi perdonerà delle bugie. Ma è difficile
vedere il proprio padre morire e non potere fare nulla!!!!
Ci si può solo immedesimare nella propria figura di medico.
Andò a caccia a marzo a Palmarola. Rientrò in anticipo, sfinito.
Finsi di sgridarlo e intanto gli pagavo con i pochi soldi che avevo le sue cambialine in
scadenza, che Alma mi segnalava. “Perché hai pagato?” mi chiese. Gli risposi di non
preoccuparsi, che me li avrebbe ridati.
Il 13 Giugno, all’ospedale, tenendomi la mano, mi disse: ”Sai, mi dispiacerebbe
morire, ma in fondo, nella vita mi sono tolto tutte le soddisfazioni che ho voluto”.
Capiva che stava perdendo l’ultima battaglia. Lo spirito da bersagliere lo sosteneva
ancora e sperava di farcela.
Muore al Rasori il 14 giugno 1976, dopo una breve agonia.
Si spegne da seduto per respirare meglio, cosciente ed in grado di parlare. Al medico,
che negli ultimi minuti cerca di fargli fare esercizi respiratori, risponde con il suo
sguardo classico di “prendingiro” e con un gesto di dubbio, fatto con la mano.
Gli sono vicino sino alla fine. Mi stringe forte la mano all’ultimo istante, mentre lo
adagio sul letto ed ha un ultimo, dolce, tranquillo sorriso.
Piansi, da solo, fuori dall’ospedale. Mi mancava a trent’anni il bastone su cui
appoggiarmi. Sapevo che mi bastava fargli una breve telefonata, esporgli il problema
e sapere, senza avere risposta, che se avessi avuto bisogno, mi avrebbe capito.
Al funerale, a Villafranca c’erano in tanti!! Autorità, il gonfalone della Provincia di
Massa, una fila che non avrei pensato. C’era la zia Gina, vecchia, quasi cieca, in
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attesa vicino al cimitero, con Wilma.
Era morto Primo, il Ragionier Santini, quello che giocava lunghe partite a briscola da
Luciana, assieme al Farkett, a Mascagna.…; quello che vestito da cacciatore con il
berretto col pon-pon poteva sembrare un eccentrico signore di campagna. Quello che
parlava sempre di soldi, che non aveva, ma come un signore, senza peso. Che poteva
un giorno girare con la Giulietta Sprint ( “che bella macchina che ha , ragioniere! Si
signora, ma Lei il c… qui sopra non ce lo metterà mai! “) e il giorno dopo col
motorino.
Quello che mi ha insegnato che anche negli Enti pubblici, nella sua posizione, si
poteva anche vivere senza rubare, girando con una vecchia Bianchina bicolore ( per
convincere mia madre a salirvi per il mio matrimonio dovetti lavargliela tutta, anche
dentro, dove alloggiavano i cani e gli uccelli da richiamo; lui si era rifiutato).
Al cimitero, dopo la sepoltura, Vilma voleva dare la mancia a Mazzini, l’operaio del
Comune; “vorrà scherzare…, per Primo?!!”, rispose rifiutando, quasi sdegnato.
Lo rimprovero speso al cimitero di Villafranca di avermi lasciato solo, così presto!
C’è sulla tomba una foto del ’74, al battesimo a Rosia , di Alberto. Sorride, in un
modo particolare, forse per le libagioni della festa. Aveva già, però, la pelle scura.
Ricordo che mi allungò un assegno di 100.000 lire.
Quando passo da Villafranca, lo vado a salutare.
Chiacchieriamo.
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Cento giorni “Cento giorni.., cento ore..., cento minuti .....”
Il “giuke box”, si pronunciava così, del bar di Nello era posizionato all'esterno, vicino
al muro e di fronte al monumento ai Caduti, sui cui gradini spesso si radunavano i
giovani e gli sfaccendati, tanti, che non potevano permettersi di restare a lungo
all'interno del bar.
L'uditorio, quando si trovava qualcuno che avesse la possibilità di infilarvi cento lire
per le tre canzoni, era composto, soprattutto la sera, dai miei coscritti e dalle ragazze
universitarie di qualche anno più vecchie; le nostre coetanee ascoltavano la musica
lontano, sedute sulla panchina davanti alla farmacia di Binotti. La moralità e le madri,
impedivano loro di godere della musica da vicino.
Il perbenismo, ancora imperante in questo piccolo paese semidistrutto dalle bombe
alleate, dove uno degli sport preferiti era quello di tirarsi i “groti ”, si adeguava a
rituali consumati; la Messa, il Vespro, il Rosario a maggio, sotto il ferreo controllo,
non solo visivo di Don Alberto.
Andavamo al Veglione per Capodanno, dove le madri, sedute in platea, controllavano
a vista l'operato delle figlie; si sprecavano commenti e pettegolezzi.
Noi giovani eravamo troppo impegnati a nascondere la bottiglia di spumante nella
cintola dei pantaloni; l'avevamo acquistata da Drovandi, perchè al bar del cinema
sarebbe costata troppo!
La vita dei giovani villafranchesi, nel periodo delle vacanze, iniziava proprio da
Nello, figura massiccia, artificiosamente autoritaria verso i ragazzi, ma in realtà
comprensiva dei loro problemi e delle loro finanze.
C'era il bigliardo, regno di Ulisse, monocolo e privo anche di alcune dita per cause di
guerra; capace di battere nei giorni migliori a boccette anche i professionisti e capace
anche di perdere da costoro cifre importanti, incavolandosi e imprecando.
C'era il calciobalilla, dove si scontravano Barbetta, reduce, forse millantato, dai
campionati svizzeri, Zerbino, lo Zoff del bigliardino, Marcello, Giancarlino e tanti
più giovani che per ore si combattevano per accedere all'Olimpo.
Il massimo dell'avventura erano le sfide con i bagnonesi a cui però partecipavano per
diritto acquisito solo i più grandi, classe '40 o giù di lì.
Era comunque difficile il rapporto con i foresti; campanilismi e retaggio storico
rendevano difficile il capirsi.
L'andare, sopratutto d'estate, a Mulazzo o in qualche sperduta frazione a caccia, si fa
per dire, di villeggianti, portava a liti, taglio di gomme ai motorini o nel migliore dei
casi ad un invito, di certo non elegante, a partire di corsa!
Una sera, nel bar di Iera, paese noto per l'accoglienza amichevole che riservava agli
estranei, ci trovammo in quattro seduti al tavolino; ero il più giovane.
Un tale, di certo buon conoscitore di tutto il campionario vinicolo del locale, senza
motivo, se non quello di vederci foresti, cominciò ad insultarci; il resto della
compagnia presente all'interno, invece di calmarlo, decise a favore delle sue ragioni.
Saltammo dalla finestra, fortunatamente a piano terra, e corremmo senza discutere
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alla macchina.
La giornata era lunga a Villafranca; le carte e gli altri passatempi non potevano
riempirla tutta, gli impianti sportivi erano un miraggio e allora, memori di felliniani
retaggi, sopravvivevamo, inventando.
Le carte erano comunque la fatica più in voga; costavano al massimo un caffè ai
perdenti e consentivano un impegno mentale e fisico duraturo nel tempo.
Si iniziava presto, verso le 10 del mattino sino alle 12; al suono delle campane, via
tutti a casa di corsa, per potere rientrare dopo mezz'ora ed iniziare per primi, con i
compagni più veloci.
Nello aspettava al varco i giovani avventori, e il caffè ci veniva consegnato, spesso
senza richiesta, in mano, ancora sulla porta!
Si giocava a briscola in cinque, a tressette, più o meno silenzioso, come da regola, ma
soprattutto a pitecchio.
Il momento culminante, il più atteso, era il regalo che si poteva fare di quel due di
spade, il pitecchio, in rifiuto; c'era chi lo calava all'avversario con finta noncuranza,
chi diceva: “ Oh! Cos' ghè chi?! ”, chi saliva in piedi sulla sedia e con un urlo, pari ad
un gol fatto al Brasile, lo picchiava davanti alla povera vittima.
Verso le 14,30, le 15, tutto finiva e iniziava il pellegrinaggio verso la stazione di
Villafranca.
Si formava un lungo, eterogeneo corteo, dove c'erano tutti: giovani e meno giovani,
operai in ferie, studenti, infanti, ma rigorosamente solo maschi.
La meta, faticosa, agognata, era appunto la stazione, ottocento metri sotto il sole,
passando dalla statale dove un Sindaco previdente ed ecologista, aveva fatto abbattere
i vecchi platani per sostituirli con delle pianticelle rachitiche, che - mi disse lui- erano
più belle!!
Cosa fare alla stazione, poi, oltre bere alla fontanella e far “acqua” nell'angusto WC
pubblico? La trasferta era però piena di pettegolezzi, di racconti più o meno veri su
avventure galanti, su fantasiose conquiste, su di una vita immaginaria.
Le donne erano inevitabilmente l'argomento principe, anche se, invisibili,
sembravano nascoste in casa.
Solo durante il periodo scolastico riapparivano e allora si potevano notare i
cambiamenti fisici e caratteriali di molte ragazze.
Ognuno, nel lungo e penoso incedere, che spesso portava verso le rive della Magra,
zone ben conosciute dagli esperti “forcatori”, aveva da raccontare la propria storia di
incontri al buio, al cinema, nei portoni delle case, accompagnato sempre dalla paura
dell'arrivo di qualche familiare.
Il cinema, quello alla stazione, era però il luogo di incontro preferito, preceduto,
spesso, da lunghe trattative, portate avanti dagli amici e soprattutto dall'amica del
cuore.
Questa in genere era più brutta della predestinata e pur tuttavia occorreva trovarle un
accompagnatore adeguato, insomma un “candelo”, che si sacrificasse per il bene
dell'amico.
Una volta seduti nella poltrona, scomodissima, del “cine” , iniziava il lungo
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approccio, continuamente interrotto dai rimproveri, neanche tanto convinti, della
ragazza di turno.
Già giungere con la mano al limite del nylon delle calze era un'impresa; l'andare oltre
provocava spesso un ordine perentorio!
Organizzavamo allora i “festini” a casa di qualcuno che aveva saputo in anticipo
dell'assenza domenicale dei genitori; uno portava il giradischi con i 45 giri e si
ballava generalmente in cucina, intorno al tavolo.
Le sale, allora piene di mobili scuri, imponenti, rococò, erano rigorosamente chiuse a
chiave, salvo in quelle tre o quattro occasioni, come il Natale, in cui si radunava tutta
la famiglia.
Comunque a questi festini, generalmente con un numero pari di uomini e donne non
accoppiati, inizialmente si ascoltavano, ballando, dischi diversi; quando poi
l'atmosfera si surriscaldava si ballava con un solo disco che veniva ripetutamente
“rimesso su” dal più vicino o dal più sfigato!
Il più gettonato era in genere il romanticissimo “Non arrossire” di Gaber , che però
durava meno dei canonici due minuti e provocava un notevole impegno al DJ!
Poiché la vita languiva e non esistevano quelle occasioni per movimentarla,
organizzate oggi dai vari enti e associazioni, occorreva ingegnarsi!
L'uomo della Provvidenza era un nobile, un marchese, discendente della stirpe dei
Malaspina: Beppe, detto appunto “àl Marchès”, persona intelligente, colta, dotata di
uno spiccato humor, epicureo quanto forse i suoi antenati, amante dell'iperbole,
buongustaio, però in toto uomo del popolo, che col popolo viveva.
Ebbi modo di conoscerlo nei primi due anni di università a Pisa; eravamo nello stesso
appartamento, in piazza dei Cavalieri, vicino alla Scuola Normale.
Con noi, Gianni, Marino, Carletto di Aulla e un tal Manetti di Sassetta, al quale
Marino, compagno di stanza, rimproverava il tremendo fetore dei piedi!
Alla sessione di giugno solo Carletto dette un esame complementare a legge e prese
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Noi affascinati dal passaggio dalla vita campagnola a quella della sonnacchiosa Pisa,
passavamo le giornate il piazza dei Miracoli ad osservare lo svolgersi della vita.
Venivo dal liceo scientifico di Villafranca, il “Bonaventura Pistofilo” e il solo
nominarlo mi faceva stare male, soprattutto quando andavamo a Massa, ai giochi
studenteschi; chi era costui? Nessuno, nemmeno il preside, valente storico ed
ispiratore del nome ce lo spiegò e così dovemmo sorbirci per anni gli sfottò dei
colleghi di altri istituti per quel nome così “strano”.
Ora l'hanno chiamato “Leonardo da Vinci”, nome anonimo, comune a tanti e
lontanissimo dalla storia della Lunigiana.
Il Marchese era iscritto al V° anno di ingegneria; un giorno, mentre lavava la fluente
capigliatura rossiccia, che poi rovesciava a mo' di riporto, mi disse- “Però, se ci pensi
bene, ho la media del 29 e mezzo”- Gli feci notare che aveva dato cinque esami, uno
all'anno!!! Non ne fu minimamente scosso; era una sua dote quella di minimizzare i
lati negativi.
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Episodio famoso, fu quando affrontò quello di Fisica col vecchio e tremendo De
Donatis; “ Complimenti Malaspina, 30 e lode..., e poi ci sarebbe l'abbraccio
accademico..!” - disse il professore- “Non si potrebbe con la segretaria?” -rispose
Beppe-, aggiungendo poi, mentre lo raccontava “Ier tùt sbavazént! ”
A Villafranca era lui l'organizzatore principe; feste, mangiate, spedizioni in auto a
cercare improbabili ragazze, alla sera, nei paesi. Si cantava e si rideva ed il ritorno
terminava con la famosa frase “ ….E anche stasera abbiamo preso la vacca per i
balotti!”.
Organizzava anche la festa della matricola; ricordo girai in mutande per il paese,
offrendo ai passanti Nutella e birra mescolate in un vaso da notte in plastica!
Era stata naturalmente una sua iniziativa come quella che l'anno dopo ci portò a cena
alla Taverna Iori ad Aulla.
Esaltato dalle abbondanti libagioni e dalla presenza di numerose matricole femminili,
Beppe organizzò una loro, non mediabile sfilata a piedi nudi sui tavoli ancora
imbanditi; quando la malcapitata giungeva alla sua altezza le ordinava di fermarsi e
scandiva una perentoria frase: “Si raduni la commissione!”
Tale, in realtà, eravamo noi maschietti, che approfittavamo per dare un' attenta
occhiata dal basso; era il 1968!
I costumi sessuali altra cosa da oggi e la donna era “oggetto” puramente
immaginario; si salvavano pochi che avevano un po' di soldi o la macchina a
disposizione. Per la maggioranza valeva la celeberrima frase del Marchese: “Tutti ne
parlano e nessuno l'ha mai vista!! ”
Lo disse un giorno all'amico, aspirante biologo che si vantava delle proprie conquiste;
“Tu l'hai vista solo nei libri di Anatomia!”
Leggemmo per diversi giorni sui giornali la notizia che sarebbe uscito un settimanale
con in copertina una donna nuda; fu uno scandalo enorme e il solo parlarne costituiva
un'offesa al comune senso del pudore, in un Paese dove le gambe delle Kessler erano
state fasciate in televisione, da lunghissimi calzettoni neri!
Tale aspetto della società non ci apparteneva e aspettammo impazienti il giorno
fatidico.
Già dalle prime ore del mattino ci trovammo tutte e sei davanti all'edicola di piazza
dei Cavalieri a Pisa, ad attendere l'arrivo del camioncino che portava il giornale; la
donna nuda c'era, coperta nei punti critici dalle braccia, ma c'era, e a colori!, Di colpo
il mondo cambiò, però, senza crollare!
Ai tempi del liceo eravamo, con un audace attacco, riusciti a farci dare la palestra del
Liceo per alcuni pomeriggi al mese; lì riuscivamo a giocare a pallavolo, sport
localmente secondo solo al calcio, ma pericoloso in una palestra provvista
lateralmente di vetrate non protette da reti.
Il calcio era lo sport principe; si giocava al campo sportivo, però distante dal paese o
nella piazza sterrata di fianco alla chiesa di San Giovanni e quando si era in pochi
addirittura nel tunnel che univa le due piazze del paese.
Il nemico era Tozzi la guardia, che fedele alla consegna, cercava in ogni modo di
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prevenire danni, sequestrando con una ramanzina ogni pallone che gli capitava a tiro.
Noi ci rifacevamo alla domenica andando a vedere giocare la squadra del
Villafranca, squadra che era stata in serie C dopo la guerra, dove militavano Renzo,
che aveva fatto un provino per l'Inter e ne conservava la maglia e suo figlio Claudio,
primadonna della squadra, sempre appoggiato dal papà; “ E sì vò al dès, dègh al dès!”
Poi Marcello, stopper roccioso ed in seguito centravanti, Giancarlino, ala, e Zerbino,
centrocampista, detto “mez chilo” per la non eccelsa statura; questi un giorno fu
minacciato da un avversario più grande e Marcello corse a difenderlo: “ Dim'l' a
mè.....!”
Quando c'erano problemi di tifo, qualcuno di nascosto, ma non ignoto, tagliava le
gomme a qualche tifoso avversario che al ritorno, si sarebbe vendicato!
Nella ricerca di nuove emozioni, ogni tanto rispuntava la classica “scapoli-
ammogliati”. La prima che vidi aveva come commentatore in diretta ai bordi del
campo, un brillante personaggio villafranchese: Nino Ghinetti; negli sposati giocava
tale Diomede, un piccolo uomo, meridionale, con due baffettini ben curati ed una
capigliatura impomatata con la brillantina, come usava allora.
Quando entrò in campo, agghindato con un paio di pantaloni corti a metà coscia,
larghi e color cammello, con la “pipa”, e che scoprivano due gambette magre e storte,
con un paio di scarpe di vernice nera, lucide a festa, accompagnate da due calzini
cortissimi, grigi, Ghinetti urlò al microfono:” Ed ecco a voi il sud brasiliano
Diomede!”; la folla applaudì il nuovo idolo, non sud americano, ma chissà perchè,
“sud brasiliano”.
Qualche anno dopo riuscimmo a fare giocare negli scapoli il mitico Ulisse che fu
schierato centravanti; il portiere avversario era l'altrettanto famoso Tresanini, che per
combattere la sete si era portato un fiasco di vino, posizionato vicino al palo.
Durante la partita Ulisse stazionava, incurante del fuorigioco, vicino all'amico, con
cui divideva costantemente il nettare; all'improvviso l'arbitro fischiò un rigore per gli
scapoli. Tutto il pubblico, d'istinto, urlò il nome di Ulisse; questi non si rifiutò e
appoggiato il pallone sul dischetto prese la rincorsa, sostenuto dall'urlo della folla.
Nel calciare, la sua scarpa destra volò sopra la traversa, cosicchè Ulisse, fra l'ilarità
degli spettatori, mancò clamorosamente il pallone e cadde per terra, battendo il
posteriore!
Il secondo sport nell'Alta Lunigiana, per tradizione e popolarità, era la pallavolo; si
giocava un seguitissimo torneo alle medie a cui partecipavano diverse scuole del
territorio. Seguitissima era quella di Soliera, allenata da un frate che spesso entrava in
campo in tonaca, per contestare, saltellando, le decisioni arbitrali.
A Villafranca i tempi d'oro furono quelli di Carletto e di Lorenzo, quest'ultimo con un
fisico alla Bud Spencer e per di più campione provinciale di getto del peso; erano
ambedue ottimi schiacciatori e Carletto stese con una schiacciata un avversario che
aveva osato sfotterlo.
Con Beppe ed altri iniziammo la costruzione del circolo giovanile, ovvero di un
“qualcosa” che permettesse ai giovani villafranchesi di esprimere la loro voglia di
vivere.
Non era facile in un paese in cui l'immobilismo era ormai congenito, nell'attesa di
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qualche salvatore che potesse cambiare le cose e molti giovani, studenti o no,
sognavano di restare o tornare al paesello, accontentandosi di ciò che offriva lo scarso
mercato.
Organizzammo una caccia al tesoro a Villafranca e subito si pose un problema
contingente; se tutti organizzavano chi avrebbe fatto il concorrente?
Il marchese, uomo pratico, rimandò l'obiezione al mittente dichiarando che il
problema non esisteva proprio; ci sarebbe stata la ressa all'iscrizione!
Fiduciosi nelle sue previsioni preparammo minuziosamente il programma dove
l'indizio più difficile era quello di trovare la targa di un’ automobile; ovviamente
quella della sua famosa cinquecento marroncina.
Purtroppo la ressa non ci fu e sparirono anche gli organizzatori, impegnati a
controllare da dietro le finestre l'arrivo di eventuali concorrenti; mancava pure la
targa in questione.
Beppe, forse attirato dalla bella giornata, era andato a fare visita alla futura consorte
in quel di Monti!
Questo paese, in comune di Licciana, distava 12 chilometri da Villafranca; la strada
era sterrata e quasi nessuno di noi aveva la macchina; era stato visitato in primis da
Nicolao e da Renzo, “l' Ernestino”, che dopo poche sere furono raggiunti da una
moltitudine di allegri soci; si andava in motorino, moto, Apecar, auto a noleggio,
fornite quest'ultime da Mafalda.
In cinque noleggiavamo la seicento, auto mitica, e al ritorno affrontavamo il percorso
in notturna, a marcia indietro; guidavamo con la testa fuori dal finestrino, accecati
dalla polvere, sino dopo al San Rocco di Virgoletta e lì giravamo l'auto.
Il contachilometri che a Monti segnava 12 km, era sceso per effetto del ritorno a 2-3
km, cosicché potevamo pagare senza difficoltà; si stupiva Martinelli, il custode: “ me
'n capìs; l'è piena 'd pòra e l'ha fàt sol tre kilometri!!”
Una sera dovevamo andare in quarantaquattro; dovevamo, perché Oreste, che
trasportava sul sellino posteriore del DEMM tre marce, Pierluigi Ruffini, raddrizzò la
curva del ponte del Merizzo e fini nella macchia di “raze” sovrastante il torrente.
Lasciò poi il motorino abbandonato in strada per diversi giorni e qualcuno pensò bene
di portarselo a casa.
Comunque lì, alcuni, trovarono la compagna della loro vita, come il Marchese,
Alfredo; altri, fugaci avventure, poi dimenticate.
A Villafranca c'era una tradizione teatrale, il cui massimo esponente era Augusto
Bragoni, detto “Gustin al Farkètt”, che in gioventù si era cimentato in quest'arte.
Dette prova della sua capacità quando arrivò in paese una compagnia teatrale
itinerante; questa si esibì in numerosi spettacoli, ricordo di stampo ottocentesco e
pensò bene di fare recitare ad un certo punto, il Nostro che, non conoscendo i testi,
improvvisava sempre, mettendo in crisi i compagni.
Riscossero però un grande successo.
In un mondo, che come detto, offriva pochi ritagli di svago, riprese quindi vita a
Villafranca, la Filodrammatica.
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Già dieci anni prima si erano tenute alcune rappresentazioni di una commedia di
Livio Galanti “Sposarsi è una cosa seria”, interpretata con successo dal Farkètt, da
Germano, Miriam, Adele, Ninetto, Pietrino, e dal mitico Dux di Villafranca.
La commedia da rappresentare era una classica piece allegra ed il regista e
suggeritore era proprio lui, ribattezzato per l'occasione Augustus Fàrkett.
Iniziarono le audizioni degli aspiranti attori, per la verità in generale molto scarsi ed
alla fine si scelsero forse i meno peggio: Graziano, Gianfranco, le due Rosalbe,
Giampietri e Simonelli, Graziellina, Nadia, il sottoscritto ed altri.
Immancabilmente, nell’ ampia veste di organizzatore, trovarobe e factotum, c'era il
Marchese, la cui attività facilitò enormemente i momenti di confusione propri di ogni
nuova iniziativa.
Provammo per mesi e personalmente non riuscivo a capire come tale commedia
potesse trasformarsi sotto la guida del nostro maestro, in un feullietton ottocentesco;
tuttavia arrivammo alla “prima” emozionatissimi, ma convinti di aver fatto un buon
lavoro.
Quella sera al cinema di Villafranca c'erano tutti, donne, giovani ed anziani, ivi
compresa una claque, ispirata da Adriano “Pompilio” Ballestracci e da me ignorata,
pronta a sostenermi in eventuali distrazioni ”antiromantiche” !!!
A parte alcuni momenti di naturale imbarazzo legati a scambi di entrate, di battute, di
effetti musicali, andò tutto bene e alla fine il pubblico che aveva invaso con le sedie
anche gli spazi di transito, si aprì in un grande applauso.
Fu chiamato alla ribalta anche il regista, che però era seduto nella buca del
suggeritore; Gustin, persona già notoriamente distratta, si trovò quindi a dover
scendere al buio da un' impalcatura traballante, fatta di tavolini e sedie da bar,
studiata dal Marchese; cadde rovinosamente a terra, lanciando un' imprecazione.
Corse mio padre dalla prima fila, cercando di illuminare in basso la scena, con un
accendino; “T'set fàt màl, Gustin?”.
Augusto non si era fatto male e ricevette il meritato applauso.
Replicammo una sola volta e poi la compagnia si sciolse, non ricordo il perchè;
tuttavia l'avventura continuò e nacque l'Associazione Culturale Villafranchese, poi
Manfredo Giuliani.
Era figlia del circolo giovanile, i cui componenti erano appunto praticamente tutti
quelli della filodrammatica.
A parte Germano, molti di noi non avevano ben chiaro lo scopo del nuovo sodalizio;
solo l'innata curiosità giovanile ci spingeva a sperimentare il nuovo e capivano
certamente poco di storia ed etnografia.
Inizialmente andavamo in giro a visitare luoghi abbandonati, a raccogliere reperti per
il futuro museo etnografico, a fare domande agli abitanti del luogo, accompagnati
spesso dal Farkètt, che per i suoi studi e la sua cultura era considerato l'intellettuale
della compagnia.
Un giorno arrivò Germano al bar, un po' agitato, dicendo:”A ghè un' chi m'ha dìt ch' a
Fornal' a ghè 'na strada romana”.
Il termine “romano” scatenò subito la nostra curiosità e non fece fatica a portarci a
Fornoli dove ci attendeva l'informatore.
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Questi ci accompagnò lungo un sentiero sperso nella campagna, stretto, pieno di
“raze”; della strada romana aveva poco - ci dicevamo - chiedendoci come avrebbero
potuto passare di lì.
Improvvisamente il sentiero si aprì in un viottolo lastricato di sassi e largo un paio di
metri; tornammo indietro a ripulire il sentiero e questo mostrò la sua origine
medievale, oscurata dal tempo.
Avevamo ritrovato la vecchia via che da Fornoli andava a Virgoletta ed a Filetto;
l'uomo ci disse di avere visto anche i resti di un ponte, ma non riuscì a localizzarli.
Un giorno, poi, la squadra, accompagnata da Romolo Formentini, andò a Canossa
alla ricerca di tombe liguri e ritovò una statua stele che spuntava dal bordo di una
strada scavata per il metanodotto; fu una grande ed inattesa scoperta.
Io ero a Massa per un esame, ma ebbi il piacere di andare a fotografare il luogo con
Germano, dopo pochi giorni.
Le grosse difficoltà ci furono quando fu programmato il primo numero della rivista
dell'Associazione “Studi Lunigianesi” “Villafranca nel Ducato di Parma”.
Poiché ero studente di Medicina Veterinaria, Germano mi chiese di indagare sulla
situazione igienico sanitaria del paese. Non ne sapevo nulla e nulla conoscevo della
dominazione parmense in Lunigiana.
Senza un ' idea mi recai a Massa all'Archivio di Stato, dove un giovane impiegato,
forse colpito dalla mia totale ignoranza della materia, mi portò gli atti dell'epidemia
di colera che si ebbe nel 1954 in Lunigiana ed in particolare a Villafranca.
All' Archivio non c'era allora la fotocopiatrice, ma di fronte alla mia manifestata
indisponibilità a copiare il tutto a mano, mi autorizzarono ad andare, accompagnato
da un usciere in divisa nera, in un ufficio in centro dove mi fecero delle fotocopie su
carta spessa e grigiastra; con quelle tornai a Villa, dove Germano rimase colpito
dall'inaspettato ritrovamento che gli mostrai nel nostro “ufficio”, il bar di Nello.
La presentazione del primo volume di “Studi Lunigianesi” si tenne nel palazzo
comunale di Villafranca, alla presenza del Sindaco Cirelli e di Mario Nicolò Conti,
uno dei massimi cultori di storia lunigianese.
Era una giornata di pioggia e mi avviai per tempo, accompagnato da mia moglie, alla
sede comunale; all'entrata caddi disteso in una pozzanghera traditrice e mi inzuppai il
vestito chiaro che usai poi per discutere la tesi di laurea.
Mi soccorse la famiglia di Germano; a casa mi asciugarono il vestito con il phon e
così potei presentarmi, rimesso a nuovo, davanti all'uditorio.
Riuscii a leggere, emozionatissimo, la mia relazione, assistito dall'incoraggiamento di
Germano che ogni tanto, memore dei trascorsi di attore giovane, mi
sussurrava:“Voce!!!”
Ho rivisto dopo anni la foto del mio intervento; Conti è ritratto attento e pensieroso
con lo sguardo rivolto in basso, mentre Germano appare tirato, sicuramente per
l'emozione.
Andò comunque tutto bene; sono passati quarant'anni da quel giorno.
Ho ripensato spesso a quella “sede comunale”.
Fu inaugurata quando facevo le elementari, cosicché ci portarono tutti, alunni e
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maestri, accompagnati dalla banda e dalle autorità del villaggio, ad assistere al taglio
del nastro tricolore; era mattina presto e ci ritrovammo un centinaio di alunni, con il
grembiulino nero ed il fiocco bianco davanti all'edificio da poco ultimato.
Ci avevano dato tante bandierine tricolori che avremmo dovuto agitare all'arrivo della
massima autorità, ovvero il ministro, donna, della Marina Mercantile.
Questa, impegnatissima, come tutte le persone importanti, non si decideva ad arrivare
e giunto mezzogiorno cominciarono a distribuirci biscotti, sino a quando le mamme,
ribelli all'ordine costituito, cominciarono a portare a casa i figli; molti si erano gìà
liberati dei grembiuli e delle bandierine e quando, al tramonto, la Ministra arrivò,
trovò solo un manipolo di alunni ad attenderla!
Nessuno si scusò!
Quello di salutare le autorità era un obbligo degli scolari. Quando passò il neo
Presidente Gronchi, il cui treno faceva sosta a tutte le stazioni, ci spedirono ad
attenderlo con la solita divisa; arrivò in orario, allora succedeva, sul terzo binario,
dove potevano sostare solo le Autorità.
C'era però anche mio nonno Pepèn, che un vecchio notabile democristiano presentò
al Presidente, il quale, dal finestrino, si degnò di stringergli la mano; Pepèn non imitò
il De Amicis di “Cuore” e non mi dette una carezza!
Il mezzo di locomozione di noi giovani era la bicicletta, anche se ben diversa da
quelle odierne, tutte accessoriate e cromate, con ammortizzatori e cambio.
Spesso le nostre erano frutto di assemblaggi vari, multicolorate, spesso col sellino
spelacchiato e non necessariamente legate al sesso del propietario.
Solo Roberto Doretti aveva una bici diversa; nera, pesante, credo ispirata a quelle
classiche inglesi della City, propria del suo modo di vestire, propriamente filo
britannico.
Era svantaggiato però nelle corse che facevamo: il giro di Pontremoli con gran
premio della montagna sulla Polveriera, che costringeva i più a fermarsi a prendere
fiato; le volate che facevamo alla mattina nel viale che portava alla media e al liceo e
che immancabilmente ci restituivano alla scuola completamente sudati o magari
inzaccherati per qualche caduta.
Questo sino ai fatidici quattordici anni, età nella quale molti riuscivano a procurarsi il
nuovo, agognato mezzo di locomozione, il motorino.
E da quel momento non solo, anche se tanto, di donne si parlava; i motorini, cioè quei
cinquantini a forma di moto con tre marce sul manubrio e la messa in moto coi
pedali, raramente con la pedivella, diventavano l'altro argomento principe.
Li truccavamo in un modo artigianale togliendo il silenziatore della marmitta,
spianando la testa su di una lastra di marmo, modificando il carburatore e persino
togliendo il cavalletto per alleggerirne il peso; uno, originale, mise un bel paio di
baffi di stoppa sotto il fanale
Il re era Fredino, del bar della stazione, che era riuscito a creare un mostro da 80
chilometri all'ora e dava così la polvere a tutti.
Così un giorno, al bar, si sparse la notizia che il Teddy aveva comprato il motorino in
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questione.
Occorre aprire una dovuta parentesi parlando di Sauro, al secolo Teddy, persona mite,
gentile, simpaticissima, dipendente Enel, amico di tutti e da tutti conosciuto e
stimato; famose erano le sue battute a spiegazione del proprio vivere: “Dicono che ci
sono sette donne per ogni uomo; se trovo chi ha preso le mie sette...!”, “Quando
verranno di moda quelli che vanno in bicicletta, non saluterò più nessuno!”
Tale condizione, legata al fatto che non lo si era nanche mai visto in bici, provocò
l'esodo immediato dal bar e tutti, con i più svariati mezzi, corsero alla stazione; Sauro
era già in sella al motorino ed innestata la prima marcia si avviò verso il Ponte
Magra, seguito da una torma incoraggiante.
Arrivò, sempre in prima, sino al ponte di Groppoli; lì girò il mezzo e dopo poche
decine di metri, nell'affrontare una curva a gomito in discesa, iniziò ad urlare: “A'n'
poss..:!” e mollò letteralmente il manubrio, infilandosi in una macchia. Tornò a
Villafranca a piedi.
Il Teddy era anche l'amico del cuore di Giorgio, suo coetaneo e spesso suo
“carnefice”. Si racconta che, rimasto senza benzina a Groppoli con la cinquecento, lo
costringesse a spingerlo in salita, sotto la pioggia, per diverse centinaia di metri, sino
alla discesa del Ponte!
Intanto, piano piano, eravamo passati dai motorini alle macchine dei genitori, in
genere Cinquecento o Seicento, delle quali si aveva a volte la disponibilità serale e
festiva. Il problema era però che la benzina andava pagata e nessuno aveva, in genere
la disponibilità per farlo! La Cinquecento poi, aveva solo la spia della riserva ed
ognuno di noi, sulla base dei chilometri in programma era in grado di stabilire se si
poteva partire.
In casi disperati si apriva il cofano, si svitava il tappo del serbatoio e si agitava
disperatamente l'auto; dal rumore della benzina si poteva indovinarne la quantità
rimasta; in questo lo specialista era il citato Giorgio!
Anche le 500 andavano truccate per inseguire il sogno di tutti: “l'Abarth” , ovvero il
cinquino da competizione, con il logo dello scorpione, le ruote ribassate, il cofano
posteriore aperto, il blocca cofano anteriore in gomma nera, la leva del cambio corta
e soprattutto la marmitta “casinosa”.
Chi aveva la disponibilità continua di un auto era Nicolao, la cui madre, come
ricordato, aveva un autonoleggio; il problema era che andare a spasso con lui
significava rischiare ogni volta la pelle; gli piaceva correre e spesso noi
l'assecondavamo.
La sua passione erano le corse a cronometro e con la Seicento partiva da Treschietto
ed affrontava a tutto gas i tornanti sino a Vico, in discesa quindi, cercando ogni volta
di migliorare il suo record; noi ci limitavamo a bloccare le rare auto che salivano da
Vico, sino al suo arrivo, perennemente insoddisfatto del suo crono!
Un' auto abbisognava spesso del meccanico e soprattutto del carrozziere; in questo si
ricorreva all'opera estemporanea di un allievo di Ferdani: Sergio, il mitico Lanza da
Villafranca, animo poetico, contemplativo, però amante della buona cucina e del
vino, costretto a svolgere l'ingrato lavoro di ripara guai altrui!
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Fuori della sua tana, nel Piano di Bagnone, c'era un cartello ammonitore: “ Prezzi
modici e lavori accurati” ; non so chi glielo avesse suggerito, forse la sua anima
poetica, ma certamente nascondeva in se drammi tragicomici!
Gli portai di nascosto, il cinquino di mio papà; me lo aveva dato per un giro in
Germania con Renzo e con un'intelligenza propria dell'età avevamo disegnato tutte le
tappe del percorso con del nastro isolante verde. Questo spiccava bene sul bianco
dell'auto e poteva costituire un vanto verso quei nostri amici pecoroni che erano
rimasti al paesello; finita la sfilata, però, lo scotch non ne voleva sapere di togliersi e
così fui obbligato ad andare da Lanza.
“ ' R'vèn fra 'na s't'mana” mi disse Lanza, impegnatissimo nel lavoro; obbedii e dopo
alcuni giorni mi presentai alla sua officina con il denaro regalatomi al solito da mia
zia Fausta. Lanza non c'era, ma non c'era neppure la 500! Mi guardai intorno
smarrito, pensando le cose più tremende, quando all'interno di una specie di caverna
vidi un'auto con una targa familiare: MS 37400; era la mia! La targa nera, spiccava
sul cofano motore bianco, ma la parte superiore era di un viola tendente al blu; non
mi capacitavo.
Intanto era giunto il “Mitico” che alle mie insistenti domande rispose con flemma: “
A'n ghev pù 'd color bianc! ”; rischiò il linciaggio e fu costretto a comprare il colore
mancante.
Non ricordo di averlo pagato; peraltro mai me ne ha fatto cenno.
Era comunque una nostra risorsa, anche se ogni volta riusciva a combinare disastri;
magari lasciava l'impronta del suo scarpone sulla vernice fresca o credeva nell'utilità
del carteggiare un pezzo, dopo avere appena verniciato quello adiacente.
D'altronde molti che si occupavano dei nostri mezzi di locomozione erano autodidatti
e non era difficile vedere “avanzare” un qualche pezzo di cambio o di motore: “Tant'
quest' in serva a nienti!”
Le auto, in genere le Cinquecento, servivano poi, ai pochi fortunati, da alcova; i sedili
ribaltabili ancora non erano stati inventati e qualcuno, come il Marchese se li era fatti
assemblare, naturalmente su suo progetto, dal fabbro. Li prestava qualche volta agli
amici, anche se non mi è ben chiaro chi li potesse poi realmente usare, senza
millantare credito!
All'interno dell'abitacolo poi, un altro ostacolo, sempre in agguato: la leva del
cambio! Troppo lunga, ostacolava i goffi tentativi di avvicinarsi alla povera ragazza, e
spesso ci si ritrovava pieni di lividi; meglio quindi usare il plaid, scozzese, di cui ogni
auto “seria” era fornita e che, nel bel tempo, permetteva toccate e fughe in
“Camporella”.
Gli anni '60 e seguenti, in un piccolo paese come Villafranca, erano densi di
esperienze e di voglia di vivere, di ricerca del nuovo e del “più” meglio ; erano una
palestra di vita per chi non si accontentava di ciò che il placido clima sociale del
paese proponeva e possiamo ora rivendicare una fortuna: quella di averli vissuti!
Figli della guerra, siamo passati indenni da una civiltà contadina, ritualistica,
immobile, bigotta, ad un nuovo secolo, in un continuo divenire.
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Seicento anni fa Gio Antonio da Faie fu mandato a dieci anni a governare i buoi al
pascolo; ancora ai primi del '900 in Veneto i bambini venivano affittati dai genitori
per lo stesso lavoro.
Nella mia giovinezza, ad Agnetta, seguivo le mie cugine che accompagnavano le
mucche!
Abbiamo visto e talvolta vissuto il dopoguerra, il boom, il '68, i movimenti di
liberazione della donna, dei costumi, il terrorismo, l'informatica, la globalizzazione,
pagati con la scomparsa di un modo di vivere millenario.
Abbiamo visto l'uomo al centro del cambiamento della società, con lo sguardo
proiettato da un minuscolo paese posto lungo la francigena di Sigeric, col giuke box,
con Gion Vaine, Gari Cooper e i cov bois; ...così si chiamavano!
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Quando il Veterinario era “al siòr dotòr” Ricordo di una campagna che non c'è più
“Dotòr”, mi mormorò con dolcezza Severina al telefono, “a' ghè da mètar sota 'na
mansa a...”.
Non era una segnalazione, un invito, ma l'orgogliosa, seppur soffice, affermazione del
proprio ruolo di “segretaria” del Veterinario comunale di Varano Melegari.
Lei, piccola ed anziana signora, residente in un paesino, Vianino, posto allo sbocco
della Val Ceno, era la custode della vita professionale di un’ Autorità: il Veterinario
del Comune, “al Dotòr”!
Quel “mètar sòta”, fecondare, una manza, costituiva però un problema.
Mi avevano telefonato la sera prima a casa, che il titolare, il dr. Allodi aveva avuto
una colica ed aveva fatto il mio nome per la sostituzione interinale.
Ero partito alla mattina presto per Varano e dopo avere parlato con Severina, mi ero
insatallato in casa di uno zio di mia moglie.
Ero laureato da poco ed era il primo lavoro indipendente che svolgevo; avevo fatto un
po' di pratica con un veterinario più anziano, che ogni tanto mi permetteva di toccare
la mucca che stava curando.
Il problema che si presentava era difficile; non sapevo fare una fecondazione
artificiale.
Oltretutto si stava passando all'uso del seme congelato ed al corso universitario,
obbligatorio, per esercitare e di cui avevo l'esame al pomeriggio, mai ci avevano fatto
fare o vedere una fecondazione artificiale.
Quando un giovane veterinario entrava per la prima volta nella stalla, specialmente in
montagna dove il tempo aveva meno valore, inevitabilmente il propietario lo
squadrava e sembrava domandarsi, sotto un saluto appena accennato, “ Ma po', saràl
bo'?”
Bene, io non ero buono ed avevo solo una pallida idea di come si facesse.
Mi soccorse Severina: “Dotòr, ghè a ca' al dotòr Ferreri in convalesensa; sàl, ha
avuto un incidente d'auto”.
Dio, a volte, aiuta e Severina mi parve la cosa più simile alla Provvidenza che avessi,
nei miei primi ventisei anni, conosciuto; mi disse dove abitava il collega, che era
stato per anni il titolare dell'incarico a Varano e corsi a casa sua.
Ferrari, forse vicino ai sessanta, c'era; mi guardò, ascoltò il problema e sparò una
sentenza tagliente come una rasoiata!
Non aveva mai usato il seme congelato e quindi non sapeva bene come fare, ma poi
aggiunse con l'aria di chi ne aveva viste ben di peggiori, che conosceva bene il
padrone e che sicuramente in qualche maniera avremmo concluso la fecondazione.
Era tranquillo, forte di un'autorità conquistata sul campo che gli permetteva di
dominare e di non fare pensare alcun male di lui, al villico.
Questi lo accolse con un misto di rispetto e di riconoscenza; l'assenza di Allodi era
già stata segnalata e, naturalmente.. “ubi maior....”! La mia presenza diventava perciò
superflua; qualunque cosa Ferrari avesse fatto, sarebbe stata, per lui, quella giusta!
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Discutemmo dottamente, a lungo, sulla temperatura di scongelamento del seme,
mentre il padrone, ammirato, teneva ferma la manza; il che è un eufemismo, poiché
queste giovani bestie, abituate al pascolo e proprio perchè in pieno momento di
copertura estrogenica, generalmente non concordano su questa esigenza.
Riuscimmo, fra calci, sussurrate imprecazioni e maledicendo chi aveva abolito i tori
dalle stalle, questo con la piena comprensione del contadino, a compiere il nostro
dovere ; ci pagò, feci la bolletta col nome del toro, futuro padre, ed uscimmo.
Ero diventato un Veterinario, forse un “Dotòr” e presto, al mercato, la voce si
sarebbe sparsa!
La sera dopo mi accorsi, mio malgrado, della facilità di propalazione delle notizie; fui
chiamato per il parto di una vacca.
Occorre subito chiarire che nessun veterinario veniva chiamato a fare partorire una
vacca che non presentasse problemi; chi associa tale pratica a quella umana ed al
ricovero ospedaliero, beh, si sbaglia di grosso.
Il contadino ha una immensa e secolare tradizione di parti, nascite, svezzamenti,
fecondazioni; è , nell'insieme ostetrico, pediatra, alimenterista, etologo, ma spesso ha
anche una immensa considerazione delle proprie capacità..
“Sàl, Dotòr” mi disse una volta a Casa Selvatica di Berceto, uno, “anch'io sono
quasi veterinario; ho letto un libro....”; dimenticò di dirmi come aveva fatto a
scavezzare in parto, la spalla di un vitello!
Quindi, quando si veniva chiamati per fare nascere un vitello, c'era la certezza che
aveva provato per lungo tempo a fare tutto lui, con i suggerimenti dei familiari ed
amici, chiamati per l'occasione a “tirare” le corde che si legavano ai piedi del
nascituro.
Altrettanta certezza vi era sul fatto, che non riuscitoci, aveva richiesto l'aiuto gratuito
del “medgon” del paese, che dall'alto della sua pluriennale esperienza, non poteva
non risolvere il problema.
Non pensavo a queste cose mentre mi dirigevo a Casa Tanzi, a Ponteceno; pensavo
che era il mio primo parto in solitario e non sapevo come avrei trovato posizionato il
vitello.
Le distocie, ovvero le presentazioni anomale del vitello, ovvero i parti non normali, si
studiano per l'esame di Ostetricia; il Professor Salerno, bolognese dal vocione
cavernoso, un giorno ci fece vedere alcune figure dal libro ed in un'ora ci spiegò
come dovevamo arrangiarci!
Naturalmente nessuno degli studenti capì nulla e nessuno, poi, ci ragguagliò
sull'argomento; in compenso ci preparammo a discutere con la professoressa di
Botanica di gigli ed orchidee!!
Però ero giovane e mi avviai alla stalla pieno di coraggio ed entrai.
Non c'era la luce elettrica e la stalla, posta vicino al Ceno, dove alloggiavano una
decina di bovine, impagliate recentemente, era illuminata da una grossa candela; in
un angolo scuro, un gruppo di persone, silenziose, vestite con abiti da lavoro, che
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pareva mi guardassero con fare minaccioso.
Il padrone mi venne incontro e mi spiegò che il vitello era a pancia in su.
“Bene”, dissi, “ mi cambio e cominciamo”; mi fece accomodare in una stanza della
casa ed iniziai a mettermi il camice impermeabile e gli stivali.
Mi vestivo lentamente, cercando di ricordare cosa c'era scritto in quel libro su quel
tipo di presentazione; invano mi sforzavo, mentre maledicevo il Salerno.
Era una distocia semplice, che anni dopo avrei ridotto in cinque minuti, applicando
inconsciamente la dinamica dei fluidi, ma allora la mente impaurita non mi
permetteva di ragionare; che avrebbero detto coloro che mi aspettavano al varco?
Arrivò il padrone eccitato e mi comunicò, con fare speranzoso, che il vitello si era
girato da solo; il che equivaleva al fatto che potevo, se volevo, rivestirmi e tornare a
casa.
“Così faremo prima!” osservai e mi diressi alla stalla.
Orbene, c'è una differenza fra un parto fatto da un veterinario e da un praticone; il
Veterinario spiega a tutti come devono comportarsi nel tirare, per evitare che il vitello
rimanga incastrato nel canale di parto e che la madre si laceri.
Spiega come fare alzare la vacca dopo il parto e come tenere il vitello; insomma fa
pesare la propria cultura e fa vedere di sapere, senza spiegare troppo, cose che loro
ignorano.
Insomma può essere considerarato una riedizione del manzoniano
“azzeccagarbugli”
Questo colpiva i presenti e creava un'autorevolezza, in realtà un po' millantata , che
però costruiva il “personaggio” ; “..mamma mia, quante cose sapeva questo giovane
e come spiegava bene!!!”
Introdussi il braccio nell'utero materno e mi accorsi che il vitello sarebbe uscito da
solo! Legai velocemente le zampe e misi in posizione la squadra, che assecondava
ogni mio comando.
Sorressi il piccolo mentre usciva, per non farlo cadere a terra e raccolsi, nel buio, lo
sguardo compiaciuto del padrone.
Era giovane e non apparteneva a quella categoria che voleva fare nascere il vitello a
tutti i costi.
Era, questa, la più pericolosa, incosciente, autodistruttiva.
Il vitello non passava, era messo male e non si riusciva a farlo nascere? Niente paura;
vi era un rimedio ormai collaudato! Lo si legava per i piedi, si applicavano le taglie e
si tirava con gran forza; spesso usciva, morto, ma insieme a lui usciva anche l'utero,
con qualche pezzo di intestino e la vacca veniva mandata al macello d'urgenza!!
Tant'è, volete mettere la soddisfazione di averla avuta vinta! E poi non aveva mica
attaccato il trattore, come faceva qualche sconsiderato!
Lo sperimentai, un giorno, a seguito del mio “maestro”.
L'avevano chiamato per un parto in una stalletta della Valtaro; eravamo arrivati dopo
un paio d'ore e la prima immagine che mi si presentò fu quella di una carriola. Si, una
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di quelle da muratore, che condotta dal villico trasportava il corpo del vitello,
naturalmente morto!
“Ha visto che ce l'ho fatta!” disse sorridendo l'uomo, rivolgendosi all'anziano collega;
peccato che poi dovette chiamare il camion del macellaio, poiché non si riusciva a
distinguere la disposizione anatomica degli organi interni.
Aveva avuto fretta, paura e presunzione; un vitello vive nella pancia materna anche
ventiquattr'ore dall' inizio del parto, al contrario del puledro che dopo poche ore
muore.
Il secondo parto lo feci poco lontano ; era una vacca che spingeva e non si dilatava.
Perchè, direte voi; perchè, mi domandavo io!
Anche qui molta gente, tutti in attesa del risultato della partita.
La visitai e mi accorsi che aveva una cervice doppia, cioè un cordone che chiude al
centro il canale cervicale; avevo letto che bisognava tagliarlo con una forbice, che
però andava introdotta in vagina.
E se avesse avuto un'emorragia? I libri dicevano di no, ma chi scrive, spesso scrive
per sentito dire e non mi fidavo.
Cominciai ad allargare la cervice con la mano, a massaggiarla ed alla fine cominciò a
dilatarsi; dopo un'ora estrassi il vitello ed una donna esclamò. “Sàl c'l'è brèv,
dotòr!!”; non ero bravo, ma avevo avuto fortuna, quella che Arrigo Sacchi chiama
con un altro e ben conosciuto nome.
Comunque in pochi giorni avevo fatto passi da gigante, di esperienza e di autostima!
Assolsi nei giorni seguenti al lavoro di routine: fecondazioni, visite, certificazioni,
correndo per strade di montagna, sterrate, infangate, ancora coperte di neve.
I contadini erano gentili; alla naturale gentilezza di molti si univa quella capacità,
tutta parmigiana, di accogliere il visitatore, fosse esso un professionista od il postino.
Pochi erano gli uomini presenti in stalla; molti, in collina, ormai lavoravano a Parma
e lasciavano il governo delle bestie alle donne di casa.
Nessuna famiglia però mancava di ringraziare, di offrirti un bicchiere o di chiedere
notizie sulla provenienza e sulla famiglia; era facile, se lo si voleva, stabilire un
rapporto cordiale.
Una mattina entrai alle 7, in una grossa stalla di Sala Baganza per fare la
vaccinazione antiafta; stavano ancora mungendo, seduti su di uno sgabellino.
Non mi sembra usassero la mungitrice individuale; eravamo nel 1973; le bestie erano
ancora legate alla mangiatoia e venivano tutte chiamate per nome ed invitate a non
muoversi, talvolta con qualche imprecazione, spesso con affetto, come si fa con un
figlio discolo!
“Al fàt' c'lasiò, Dòtor?”, mi chiese il propietario, senza smettere di mungere; risposi
di no, non avevo avuto il tempo, in realtà. !”Alòra quand' è'ma f'nì …..” e così mi
ritrovai, dopo poco, seduto con loro in cucina, davanti ad una tazza di caffèlatte
fumante, ripiena di pane fatto in casa!
Si stabilì un buon rapporto, anche se probabilmente pensai che non li avrei rivisti.
Erano diversi da quelli che trovavo nelle mie frequenti puntate a Varese Ligure in Val
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di Vara.
Mi aveva contattato il farmacista locale, il dottor Alinovi; veniva da Monchio e con
l'intraprandenza propria delle genti parmigiane di montagna, aveva capito che la
presenza, anche saltuaria di un veterinario, avrebbe giovato ai suoi affari ed alla sua
reputazione personale.
Arrivavo là nel pomeriggio, prendevo l'elenco delle visite e correvo sino a sera per
zone sconosciute.
Accoglievano con poche parole, senza invitarti in casa; osservavano mentre visitavo,
pagavano senza difficoltà e ringraziavano. Insomma non davano confidenza, anche se
si vedeva che erano riconoscenti di avere avuto un qualche aiuto; erano liguri e per di
più di montagna!!
L'ostetricia e la ginecologia erano naturalmente il pane quotidiano del Veterinario.
Il parto più duro fu a Borgotaro: Era una sera d'agosto e me ne stavo seduto sulla
terrazza dell' albergo Roma; mi chiamò il titolare, che mia moglie mi cercava al
telefono; non esistevano i cellulari e la segretaria, ovvero la moglie, andava per
tentativi, a volte infruttuosi. “C'è un parto da Gasparini alla Valdena” disse “e non
trovano nessuno”. Quel nessuno erano i due veterinari anziani di Borgotaro, che
evidentemente erano via.
Mi diressi alla macchina ed incrociai un amico biologo, che saputa la cosa, si offerse
di accompagnarmi, stimolato dalla nuova esperienza.
Arrivai in pochi minuti e trovai il padrone in preda ad un'agitazione: “Dottore, il
vitello è senza testa!”
Mi cambiai, in una stalla caldissima, ripiena di persone e, curioso, entrai col braccio
nel canale di parto; la testa non c'era! C'era però il collo, ripiegato all'indietro e quindi
poi doveva esserci la testa.
Ora per fare avanzare il tutto c'erano delle metodiche, però segrete; se scappava una
parola, poi se ne sarebbero impadroniti ed allora addio!
Legai le zampe anteriori, per recuperarle poi senza fatica e riuscii, con l'aiuto di
quegli odiati studi di Fisica, ad incanalare la testa nel parto; non appena cercavo di
tirare, però quella tornava nella posizione originaria. I libri dicevano di mettere due
uncini ai lati degli occhi del vitello, legarli con una corda e tenere così la testa in
tensione; come al solito l'avevo letto e non mi piaceva fare del male al neonato!
Chiesi alla padrona se aveva un tovagliolo, uno di lino, bello ruvido; me lo portò e
con questo afferrai il ganascino del vitello. Lui non sembrava d'accordo e forse
scambiandolo per il capezzolo materno, mi diede una morsicata alla mano; era vivo!
Intanto la vacca mi guardava con due occhi umani; soffriva e sembrava dirmi di fare
presto; ne fui impressionato. Istruì la truppa e cominciammo a tirare lentamente; la
vacca cadde a terra e dovetti sdraiarmi assieme a lei per fare sì che non si lacerasse.
Però il “tiro” perse lo slancio ed il vitello restò incastrato; metà fuori e metà dentro.
Così non poteva respirare ed allora puntando i piedi sulla natica della vacca e
stringendolo forte, detti un colpo e si sentì il rumore dello stappo di una bottiglia; era
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uscito, ma non respirava più.
Mi issai su di una balla di paglia, tenendolo per i piedi, mentre uno cercava di fargli
una tragica ginnastica respiratoria con gli anteriori; nel frattempo urlavo di fare alzare
la vacca.
Andò tutto bene e dissi al padrone di dare alla puerpera una bottiglia di vino; non
battè ciglio, sapendo il perchè e corse in cantina. L'amico biologo, grande
appassionato di alcolici, non capiva e giudicava tale operazione uno spreco!
Gli spiegai che era un vecchio rimedio empirico, che serviva a ripristinare la
ruminazione, grazie al contributo di acido acetico fornito dal vino.
Il rischio era da sempre quello del fifty-fifty, cioè che il villico facesse un po' a te ed
un po' a me!
L'avevo constatato di persona più di una volta.
Il vino era uno dei tanti rimedi empirici che si imparavano dai contadini e anche
all'Università; un collega, alla richiesta di compilare una ricetta per i pidocchi scrisse:
petroleum, qb, ovvero petrolio, quanto basta!!
In realtà il petrolio era un rimedio conosciutissimo, pari allo zolfo per la rogna, che
veniva irrorato con quei serbatoi a stantuffo o “machina par dàr l'aqua” che si
usavano anche per dare il verderame alle viti e per imbiancare le pareti.
Per le forme di meteorismo acuto, ovvero quando la bestia si “gonfiava” si usava
l'olio d'oliva, facilmente rintracciabile nelle case contadine.
Il difficile era somministrarlo, anche perchè c'era il rischio, nei casi più urgenti, che la
bestia scoppiasse, nel vero senso della parola; si ricorreva allora alla canna dell'acqua.
La si infilava nella gola e nello stomaco del malcapitato e si introduceva l'olio a
volontà, mescolato con dell'aceto, che così come il vino, favoriva il riprendere della
digestione.
Se però con un vitello era una manovra semplice, con una vacca e soprattutto con un
toro libero in un box da ingrasso, il problema era diverso!
Una notte, durante un giro di ispezione a dei tori malati, mi accorsi che uno si stava
gonfiando; entrai nel box con in mano una siringa di tranquillante ed attesi che tutti i
capi presenti iniziassero a girarmi intorno. Sapevo che non mi avrebbero attaccato, se
non li avessi stuzzicati.
Quando il tipo fu a tiro, gli piantai rapidamente la siringa nel collo e corsi fuori dal
box; una volta sedato, lo tirai con una corda ai bordi e provvidi ad “incannularlo”, dal
momento che non avevo a disposizione il “trequarti”, una specie di pugnale, col quale
si forava la parete del rumine e che lasciava “in situ” il fodero, aperto in punta, che
permetteva al gas di uscire.
Un contadino , a Solignano, usò però un sistema nuovo! Mi chiamo perchè la vacca
aveva un febbrone e mi spiegò che essendosi gonfiata di colpo, l'aveva “bucata”;
chiesi con cosa e con fare circospetto si avvicinò al davanzale della finestra, la cui
ultima pulizia risaliva probabilmente ai tempi di Noè, e mi fece vedere un piccolo
apriscatole completamente arrugginito! Dopo pochi giorni dovette macellarla.
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La stalla, nei vecchi diventava poi di fatto un’ appendice generale della casa; una
volta entrando, trovai il padrone intento a sistemare con la forca, le proprie “digesta”
nella paglia, come quelle dei suoi bovini: “ Ch'al scusa, dotòr! A ghèva 'n bsògn!”.
L'intervento più difficile era il prolasso uterino post partum, ovvero “la smadratura”,
la perdita della “madre”, come si diceva.
L'avevo sentito dire, ma una notte in una stalla del senese ne ebbi conoscenza diretta.
Mi avevano chiamato alle due per un parto difficile; alle quattro il vitello ebbe la
compiacenza di mostrarsi al mondo ed io, a pezzi, ma contento, trascurai la madre.
Che dovevo fare, si dirà; solo farla alzare e permettere così all'utero di tornare al suo
posto!
Questo se qualcuno me lo avesse raccontato; era però tradizione che i vecchi, per non
andare mai in pensione, si tenessero stretti i loro segreti!
All'improvviso, con dei forti fremiti, simili di un'eruzione vulcanica, la vacca buttò
fuori il suo utero, che se aveva contenuto sino a pochi attimi prima un vitello di 70
kg, non poteva certo essere piccolo; insomma era come un sacco pieno di legna!
Il rimetterlo all'interno era, come al solito, un problema mai visto, ma neanche mai
spiegato a lezione; il mettere un corpo grande, all'interno di un piccolo canale,
contrastava poi con le leggi della fisica.
C'è anche da considerare che la vacca non aveva nessuna intenzione di farselo
sistemare; ciò le provocava dolore, fastidio e, d'altronde, se lo aveva espulso, un
motivo doveva esserci.
“Oh...! Hhe si fa?” chiese il buon contadino, conscio che mi trovavo in difficoltà e
speranzoso di non perdere il suo capitale.
Avevo letto sul “bugiardino” di un anestetico che bisognava iniettare tale preparato
fra due vertebre della coda, per evitare che la vacca “spingesse” e contrastasse così la
messa “in situ”.
Però, c'era pure scritto che si andava nella vertebra vicina, la bestia si sarebbe
paralizzata!
Niente di più semplice; occorreva solo contare, ma anche sapere quale fosse la
vertebra del primo caso; per individuare il punto intervertebrale, alzai ed abbassai la
coda a mò di “sambòt ”, infilai la siringa e per effetto del vuoto del canale vertebrale,
questa si svuotò da sola in un attimo.
La vacca non si paralizzò; nel 50 e 50, ci avevo azzeccato! Sostenendo l'utero da terra
con una tavola in legno e lavandolo di continuo con acqua fredda per farlo
rimpicciolire, con l'aiuto del padrone riuscii, nel giro di due ore a rimetterlo a posto;
sistemai il tutto con dei ganci appositi ed andai a dormire.
Ritrovai il problema in una stalletta sulle rive del Baganza, dove mi avevano
chiamato per una fecondazione.
Arrivato sul posto vidi i due anziani padroni che si affannavano intorno ad una
giovane bestia che dopo il parto aveva prolassato.
“Co' fèmia, dotòr”, cioè cosa dovevo fare io, intendevano; mi avvicinai alla bestia,
che, non appena ebbi iniziato la manovra che ormai conoscevo, decise di andarsene
per i fatti suoi.
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Insomma si liberò dalla “stretta” dei padroni e corse via, dimenticandosi che l'utero le
ballonzonava fuori!
Le corsi dietro sorreggendo con le mani “ la madre” per evitare che si rompesse o
lacerasse; non ricordo chi si stancò prima, ma certamente fu un'esperienza
fantozziana.
La corsa si ripetè con un torello limousine di 250 kg, nell'allevamento che seguivo in
Toscana; sceso dal camion, alle due di notte, decise di cercare la libertà, e forse,
perché veniva dalla Francia, non capì la botta in testa che gli diedi con una spranga di
ferro per fermarlo.
Corse, in una notte settembrina di luna piena, negli immensi terreni della tenuta
Piaggio, inseguito dal custode e dal ragioniere della ditta, dal Veterinario comunale e
dal sottoscritto.
Improvvisamente cadde in un pozzo nero dove, per le esalazioni, stava soffocando; lo
sollevammo a fatica, con un trattorino, passandogli però, un cappio al collo, che
sembrava averlo strangolato.
Sembrava morto, ma non appena liberato della corda riprese la sua galoppata sopra
una montagna di silomais, inseguito ormai solo dal custode e da un”lazo”.
La luna sembrava osservare dall'alto queste due figure buie, che si stagliavano in
controluce, correndo a perdifiato, in nome di una pirandelliana libertà!
Si infilò in un torrente melmoso e fu la sua fine; tre cappi gli volarono al collo e,
lottando, fu trascinato nel box.
Erano le quattro del mattino; eravamo sporchi, stanchi e decidemmo di assaggiare la
coppa che avevo portato da casa!
Uno dei compiti del ginecologo era quello poi, di “secondare” la puerpera, ovvero
togliere la placenta che, qualche volta, non vuole separarsi dall'utero.
Direte, dov'è il problema; basta tirare ed esce! Madre Natura ha deciso diversamente
perché la placenta bovina ha circa 100 cotiledoni con villi, da staccare, e soprattutto
occorre infilare il braccio
sino in fondo ad un utero, a volte enorme e per di più ripiegato nella parte terminale
verso il basso. Poiché il braccio non è elastico, spesso si deve salire su di una balla di
paglia o fare alzare la pancia della bestia con un asse di legno. Poi ci si diverte a
staccare tutti i cotiledoni col pollice e l'indice, a guisa di stappare una bottiglietta
d'aranciata!
Solo che se non si staccano è perché sono infiammati, edematosi, ed alla fine del
lavoro, il dito è fuori uso!
Inizialmente lo facevo senza guanti; mi venne una pustola al braccio e capii che non
ero superiore alle leggi della medicina!
Non c'erano solo i bovini, nella vita di un veterinario; chiamò un mezzadro di Fosio,
perché la pecora non riusciva a partorire.
Era una novità per me, ma tuttavia era, come la mucca, un ruminante, solo di taglia
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più piccola; arrivai sul posto in compagnia di un amico, maestro, ma di professione
metalmeccanico, ben disposto ad aiutarmi.
La pecora, nera, era sdraiata in affanno sul pavimento della stalletta; il cuore era
debole e si poteva solo tentare di salvare l'agnello.
C'era evidentemente una torsione uterina e potevo solo tentare un parto cesareo.
Anche questa metodica era sconosciuta agli studenti universitari, tuttavia avevo visto
eseguirlo su di una vacca dal veterinario che mi aveva “svezzato”.
Mi misi in ginocchio sul pavimento, stesi i ferri su di un panno ed incisi, senza
anestesia, perché
non l'avevo e d'altronde la pecora non si mosse; trovai l'utero e tagliai dove sentivo vi
era l'agnello.
Lo estrassi, vivo, e lo affidai al contadino, che riuscì a farlo soffocare; tuttavia c'era
un fratello!
Incisi ancora, perché il taglio precedente era chissà come, sparito, lo estrassi, mi
raccomandai di tenerlo a testa in giù e cominciai a suturare; alla fine cercai di
ricordarmi come si dava l'ultimo punto di chiusura.
Buio completo, anche se l'avevo provato più volte, da solo, legando la maniglia di
una porta; mi dovetti arrangiare, cioè non finii la sutura. Tanto la sua vita sarebbe
stata breve ugualmente!
L'agnello superstite stava bene ed il villico mi promise, poiché mi doveva pagare il
padrone, che dopo qualche mese, l'avremmo mangiato insieme; aspetto ancora di
assaggiare i suoi nipoti!!
Fu un caso perché di solito pagavano, anche quando la diagnosi era infausta o le cure
che l'animale aveva avuto non erano servite e avrebbero dovuto macellarlo d'urgenza,
con notevole perdita economica; faceva parte del gioco, dei rischi di un mestiere
povero, ieri più che oggi, quando la tecnologia e la medicina ancora non sopperivano
a molte fatiche e calamità.
C'erano la Tbc, la brucellosi, l'afta, i parassiti, la grandine, che provvedevano a
rendere ancor più faticosa ed incerta la vita del contadino.
Il trovare una vacca positiva alla tubercolina significava abbattere tutti i capi in stalla,
distruggere anni di selezione, di fatiche, ottenendo in cambio dallo stato un esiguo
rimborso e ancor più una patente negativa, per anni, di cui però si aveva subito
notizia nel mercato; insomma oltre al danno rimaneva un marchio non invidiato.
Soprattutto, per gli allevatori più preparati, significava rinunciare ad anni di
selezione, di scelta oculata e spesso costosa di fecondazioni con tori miglioratori.
Insomma si passava dalla Ferrari alla cinquecento, senza avere la certezza di potervi
un giorno risalire!
A Varano fui incaricato di fare la tubercolina a tutto il bestiame vaccino adulto; era un
procedimento semplice, si tosava una piccola parte della spalla, si iniettava con una
siringa una dose di tubercolina e dopo tre giorni si tornava a controllare. A seconda
del gonfiore provocato si vedeva se l'animale era infetto e doveva essere abbattuto.
Sembra tutto semplice, a parole, ma se non si aveva l'aiuto di qualcuno e lo si pagava,
il tenere ferme le bestie con l'aiuto di qualche donnetta presente sul posto diventava
problematico.
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Ingaggiai pertanto il mitico “Giuspèn”, mezzadro di mio suocero; uno che quando
entrava il veterinario nella sua stalla per le profilassi, lanciava fulmini dagli occhi.
Filò tutto bene, anche se capì che di gente che la pensava come lui il mondo era pieno
e lo stare dall'altra parte della barricata gli fece apprezzare che in fondo fare il proprio
dovere, per il veterinario, era dura!
Tutto bene sino a casa di un omone grosso e alto, che squadrandomi mi disse
pacatamente:” Ch'al fàga pur, ma se la vaca l'abortìsa......le rompo una spranga di
ferro sulla testa!”
Ora, non è che la tubercolina faccia abortire, ma in tre giorni è stato creato metà
mondo e, con l'influenza in giro, la vacca poteva anche abortire per i fatti suoi; che
però potevano diventare i miei.
Al ritorno mi fermai dai carabinieri locali, dove esponendo la mia qualifica di
pubblico ufficiale, raccontai il tutto al maresciallo, un tipo piccolotto, grassottello,
naturalmente meridionale, dall'aria simpatica e sdrammatizzante, che si raccomandò
di passarlo a prendere prima di tornare dal “bruto”.
Tornai dopo i tre giorni canonici e salì sulla mia 500.
Quando il villico lo vide, gli si avvicinò cordialmente e gli chiese: “ Co' fàl chì,
maresièl..? Al sàl, che se la vaca l'abortiva, gli rompevo una spranga di ferro sulla
testa!”
Il graduato non si scompose, sorrise, e si informò della salute dei suoi familiari;
risalimmo sull'auto, ripartimmo e cento metri prima della caserma bucai e scese,
salutandomi!
Non tutti erano come l'omone!
C'era, a Pietrarada, una stalla di una decina di capi posta al termine di una lunga e
ripida salita, per di più rettilinea; l'affrontai a manetta, ma a metà fui costretto a fare
scendere Giuspen, e, ripartendo con difficoltà, vidi che la frizione stava cedendo.
Giunto sul posto, entrai in stalla e mi accolse il padrone, un ometto piccolino, in
giacca e cravatta, sugli ottanta; feci la tubercolina senza difficoltà, valutando che data
l'impervietà del posto, ben difficilmente il microbo avrebbe potuto avere la forza di
salire sin lassù.
Mi preoccupava però, il tornarci; non avevo voglia di ribruciare la frizione, ma non
potevo non tornare.
Ebbi però un'idea e rivolgendomi a lui, quasi come ad un collega, gli chiesi: “Ma Lei
ha visto la tubercolina?”
Era il modo con cui ci si poteva intendere; in realtà voleva dire se aveva mai visto la
reazione di gonfiore all'inoculazione.
“In guerra (la prima, naturalmente) sono stato infermiere e la conosco bene!” rispose
orgogliosamente, forse grato della considerazione che gli dimostravo.
“Allora fra tre giorni precisi io passo nella strada in fondo e Lei cortesemente mi fa
sapere come è andata” dissi.
Mi era sembrato tanto fiero del suo “sapere” e probabilmente non era a conoscenza
delle eventuali conseguenze di una positività, che volli fidarmi; dopodichè, presi gli
ultimi accordi, lo salutai e corsi dal meccanico a Varano.
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Dopo 72 ore ripassai dalla stessa strada; in verità me ne ero quasi dimenticato, ma un
ragazzotto appollaiato su di un muretto di sassi, quasi alla stregua di un manzoniano
“bravo”, si parò davanti all'auto: “ Ha detto il.......che non si sono gonfiate!”
Il microbo si era tenuto lontano da quel posto! Salutai la piccola vedetta e ripartii
grato per avere salvato il mio portafoglio, e la frizione!
Il piccolo allevatore era un paziente difficile e bisognava spesso titargli fuori la verità
con le pinze.
Tendeva a pensare che gli potessero imputare tutte le malattie delle sue bovine; per i
vitelli era diversa ed il fatto che non morissero di diarrea o di influenza, era
considerato una fortuna.
A volte si trattava di un vero e proprio interrogatorio su che malattie avesse avuto la
mucca, da quanto era in stalla; il problema, vero, era la domanda: “la vacca mangia?
”
Il che poteva essere considerato, non un sintomo del male, ma una mancanza del
contadino, che pensava di poteva essere sospettato di non nutrirla bene; quindi
occorreva interpretare la risposta, fra mezze ammissioni, mugugni, “forse un po'; a
volte; prima però ruminava”. Quel ruminare voleva dire che aveva mangiato e
quindi doveva stare bene! Era poi la verità?
In campagna non vigeva la regola che l'erba del vicino fosse la più verde! In genere,
come i figli per le mamme, le bestie che ognuno aveva in stalla, erano le più belle.
I soci di una grande stalla sociale del parmense iscrissero coscientemente a bilancio
per il loro bestiame gli stessi valori unitari di una confinante ed invidiata cooperativa
con lo stesso numero di capi; solo che quest'ultima aveva una produzione media di
latte quasi doppia ed un tasso di fertlità superiore!
Mi ero reso complice della decisione!
Ero andato all'assemblea di bilancio e sulla base del preventivo dovevo convincerli a
finanziare la cooperativa; questa aveva seri problemi di liquidità e rischiava il
fallimento.
Si presentò un giovane ragioniere, alle prime armi, che mi fece vedere un bilancio
preventivo in perdita di decine di milioni; con quei dati avrebbero sicuramente deciso
di chiudere.
Lo insultai e preparai il contrattacco.
Un'assemblea di venti contadini, non è un'assemblea, ma è una simpatica riunione
nella quale fra di loro discutono di tutto, dal tempo, ai soldi, ai fatti del giorno; se si
vuole guadagnare tempo, basta non pilotarla e lasciarli fare.
Li lasciai discutere, mentre sotto gli occhi spaventati del giovane contabile,
aumentavo i valori a bilancio del bestiame, per raggiungere il pareggio.
Ero preoccupato perchè il vice presidente era docente di Economia Agraria
all'Università e mi avrebbe sicuramente incastrato.
Al mio fatale richiamo, si alzò il presidente, propietario anche di un caseificio, che
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pubblicamente mi disse: “ Guerda bè, ch'al valor d'il vàchi al decìd mì!”
“Benissimo” risposi “io ho dato lo stesso valore della stalla di....” , che era appunto
quella confinante.
Iniziai quindi ad elencare i prezzi delle varie tipologie di bovini, ottenendo commenti
di assenso ad ogni voce; si, insomma, avevano del buon bestiame e non erano certo
inferiori ai loro vicini!
Cacciarono così i soldi, che avevano e che tenevano in banca.
Era anche facile colpire la mente del contadino con gli atteggiamenti esteriori.
Venne a trovarmi un collega, agronomo, poi laureato assieme a me e già informatore
farmaceutico, di diversi anni più anziano. Si presentò vestito con un completo grigio
con gilè e cravatta rossa, camice e stivali immacolati; la capigliatura, ormai
brizzolata, non aveva un capello fuori posto.
Mi accompagnò in una piccola stalla, sulla collina di Solignano, per vedere come
facevo a fecondare una manza, visto che ormai avevo imparato e che potevo a mia
volta insegnare.
In stalla c'era solo la nonna della famiglia ed in due ci accingemmo all'operazione; gli
lasciai la siringa con il seme in mano, mentre cercavo di guidarlo, cercando nel
contempo di aiutare la donna a tenere ferma la bestia.
Mi disse, sottovoce, “Non riesco ad entrare in utero con la pipetta” ; “ Fa niente,”
risposi “ metti il seme in vagina e vedremo”.
Fatto tutto, sotto l'occhio falsamente indifferente della donna, che non vedeva l'ora di
finire, quasi fosse lei a subire l'operazione, ce ne andammo salutando, non senza
avere tenuto la colonna vertebrale della manza schiacciata verso il basso, cosicchè lo
sperma potesse defluire verso l'utero.
Ripassai dopo tre mesi per le vaccinazioni e chiesi alla padrona se la vacca si era
ingravidata; “l'ha misa sòt un profesor, co' volel, ch' la 'n stèna miga?”rispose
piccata, come se avessi potuto dubitare delle capacità di un più esperto “professore”!
Capii allora l'importanza dell'apparire, più che dell'essere, come mi spiegò un collega
della Bassa che aveva dovuto vendere la Fiat 126 perchè era troppo modesta ed aveva
notato un calo nelle chiamate; comprò un'auto più grande!
Più di una volta mentre mi lavavo fuori dalla stalla, o in casa, scrivevo una ricetta e
rispiegavo alla famiglia i problemi che aveva la paziente, sorgeva, quasi dal nulla,
una domanda spontanea: “Cò dìsel, lù, dotòr?....” e partiva il racconto di problemi di
salute, di affari, di rapporti interpersonali e spesso di compravendite e mediazioni
sbagliate.
Avevo fatto, a Pisa col Paltrinieri, l'esame di medicina legale, dove si studiavano
soprattutto gli “usi e costumi” codificati dalla Camera di Commercio e quindi me la
cavavo bene, nelle risposte; soprattutto cercavo di usare il buon senso, anche se mi
rendevo conto che bastava loro esporre il problema e constatare che qualcuno aveva
la pazienza di ascoltarli.
Non esistevano ancora le varie associazioni sindacali che aiutavano la gente nelle
pratiche ed il contadino, specie quello che viveva in montagna, si rivolgeva all'unica
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persona, al medico, che si interessava materialmente dei suoi problemi.
Esisteva anche il mercato settimanale, che si svolgeva nel paese, ma allora era
frequentato quasi solamente dai contadini stessi ed i pochi rappresentanti di attrezzi
agricoli, macellai e sensali presenti, non erano forse ritenuti affidabili; in loro si
vedeva quello che cercava di fare l'affare!!
In effetti, quello di fregare il contadino, sembrava un sistema collaudato; non si
contavano gli esempi di piccoli e grandi raggiri.
Quel famoso proverbio sulle scarpe grosse, sembrava valido solo per la prima parte;
spesso si sapeva di presidenti di caseifici che venivano pagati con assegni a vuoto,
cioè in cambio di forme di Parmigiano ricevevano, sulla fiducia , un pezzo di carta!
Molti millantavano esperienza ed autorevolezza negli affari; in realtà di fronte a bei
discorsi, a belle auto, a vestiti eleganti e pacche sulle spalle, ad affermazioni del tipo
“Ma non vorrà che proprio con lei, io.....!”, si lasciavano abbindolare.
Mancavano, in realtà, di un minimo di preparazione e di modestia.
In realtà, in Borsa Merci, al sabato a Parma andavano i presidenti, imprenditori, “self
made men”; a Reggio Emilia, terra bracciantile, andavano i segretari, cioè dei
professionisti.
Chiesi ad un presidente di stalla sociale che faceva il taxista, di prepararmi il totale
del latte prodotto nel 1980; sono due pesate al giorno, cioè 730 somme.
Aveva in azienda una nuovissima calcolatrice, che mi assicurò avere già visto usare e
mi dette appuntamento alla settimana dopo.
Qui mi presentò il totale, scritto in un immenso foglio, con 760 somme fatte a mano!
Pensai con dolore al computer per gli autoalimentatori che avevamo già pronto da
installare!
In compenso, l'essere un dottore, o meglio il “Dotòr”, delle vacche, come si diceva
fuori dall'ambiente in senso quasi dispregiativo, costituiva un titolo accademico di
importanza sociale imprevista; nei piccoli paesi assieme al maresciallo, al sindaco, al
prete, al medico, al farmacista, il veterinario condotto era, nell'immaginario pubblico,
un' “Autorità” , uno che “sapeva”!
Sopprattutto entrava a fare parte di una “casta” culturale, ancor oggi importante,
quella medica; me lo ricordò, prima della laurea, il dottor Alderici.
Alceo Alderici era da sempre stato in gioventù il mio medico e lo ricordo come una
persona di grandissima umanità, disponibilità e competenza; il giorno in cui lessi in
Comune a Villafranca il racconto dell'epidemia di colera del 1855 e raccontai che il
medico condotto si era chiuso in casa per la paura, mi avvicinò e mi disse sottovoce,
con gentilezza: “Ricordati che un giorno entrerai anche tu nel Ministero della
Sanità!”
Costituiva anche un titolo accademico reale, non millantato, che apriva molte porte.
Arrivò in banca un nuovo capo: il dottor …..., dei conti degli Erri di Montecuccoli,
nome prestigioso, pari alla sua immensa autoconsiderazione.
Ero responsabile del settore zootecnico della mia Organizzazione e si degnò di
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ricevermi.
Mi sentivo come Fantozzi davanti alla poltrona di pelle umana ed evidentemente la
mia tenuta, jeans e maglietta, non gli fece grande impressione; così mi trattò come
probabilmente i suoi antenati trattavano i servi della gleba; si degnò però, di farsi
invitare a visitare una nostra bella azienda.
Il giorno stabilito lo aspettai vicino al palazzo comunale; l'auto era stata per
l'occasione lavata e lui si accomodò con sussiego, davanti e dietro salirono due
assistenti che conoscevo bene.
Parlammo del più e del meno.
Arrivati in azienda, dove mancava solo la banda musicale per ricevere l'augusto
ospite, mi sollecitò con un perentorio “Andiamo!”
“Un attimo” risposi; aprii il baule, dove faceva bella mostra di sé un bel camice
stirato ed immacolato. Ancor prima di infilarlo mi chiese:” Ma lei è...?”; “Sono
Medico Veterinario” dissi, e nacque una rispettosa amicizia.
Mi accorsi in Irpinia che il “Dottore” era pari ad un titolo insospettato, direi
“megagalattico”.
Ci chiamò in Provincia, Mario Tommasini, solo “Mario” a Parma o al più “Tomasè”.
Grande, enorme figura sociale, comunista anarchico, sui generis; collaboratore di
Basaglia, premio Shweitzer per la pace, sempre in lotta per i diritti dei più deboli.
Parma, dopo il terremoto in Irpinia, si era gemellata con Senerchia ed il
coordinamento era stato affidato a lui.
“ A' ghè d'andèr a Senerchia” disse subito; “Quando?” chiedemmo io e Valerio, mio
collega dell'Amministrazione. “Subìt” rispose , come se fosse dietro l'uscio. Valerio
partì dopo un'ora con l'auto della Provincia, che sapevo per esperienza guidata a 200
all'ora, con un braccio solo, da un autista “ pazzoide” ed io lasciai Parma dopo pochi
giorni, accompagnato da un contadino di Albareto, cinquantenne, che ogni giorno si
lamentava della durezza della vita e della propria miseria.
La miseria la vedemmo lì !! Una terra povera, dove l'erba in collina cresceva un dito,
dove circolavano cavalli e vacche simili a quelli che si vedevano nei filmati
sull'Africa, dove la gente, col terremoto sembrava avere perduto anche quella voglia
di vivere che la distingueva.
Fummo ospitati, non so perché, dagli Evangelici svizzeri, che pieni di soldi, stavano
facendo un mucchio di adepti (sic!), in concorrenza con la Caritas.
Dormivamo in una baracca e giornalmente visitavamo i luoghi del disastro,
impressionati dall'abbandono e dall’ arroganza delle autorità, dagli episodi di
malcostume, di corruzione, chiedendo, ricevendo consigli e richieste, ma spesso
sentendoci dire. “ Salutateci Mario!”
Aveva sfidato subito la mafia locale, gestendo in proprio gli aiuti parmigiani con
l'aiuto di un comitato popolare autogestito; erano arrivati i “comunisti”, dicevano, ma
la gente lo apprezzava e come al solito lo amava; Mario era la “gente”.
Fui avvisato che il presidente di una cooperativa agricola che Tommasini aveva
costituito, si era dimesso, ma rifiutava di consegnare i libri sociali a chicchessia.
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Ci recammo a casa sua , una sera; abitava nel garage di una casa crollata e sul
pavimento era acceso un fuoco, dove bolliva una pentola con la minestra. Era
un'abitudine generalizzata in zona, che però aveva provocato l'incendio di diverse
roulottes.
Mi presentai con un po' di timore, e tendendogli la mano dissi: “ Buonasera, sono il
Dottor Santini, funzionario della Lega cooperative”.
Una scossa avrebbe avuto meno effetto; mi strinse forte la mano ed esclamò . “ Ah,
finalmente un'Autorità; aspettavo proprio lei per consegnare i libri!”
La gita in Irpinia finì con la visita ad una famiglia di terremotati, con dei figli
bellissimi, selvaggi, sempre nudi, ma epilettici; commosso, il mio accompagnatore
regalò loro 100.000 lire, ed io lo imitai. Da quel giorno non si lamentò più della sua
situazione.
Il viaggio aveva però lasciato anche in me dei segni profondi; la visione di un mondo
diverso, povero, dove spesso anche la dignità veniva calpestata e dove la gente per
arrangiarsi era disposta anche a convertirsi.
Vidi una anziana coppia che tirava l'erpice a spalla, al posto dei buoi che non aveva;
due anni dopo uscì sulla Gazzetta di Parma una foto simile scattata in Russia, con un
commento legato al “ paradiso” dei lavoratori! Non c'era bisogno di correre
sino lì!
Vidi un giovane che piangeva vicino ad una casa nuova, antisismica, crollata, dove
avevano perso la vita la moglie ed i figli; aveva scritto a Pertini. Arrivò subito una
commissione d'inchiesta, ma il giorno prima furono sgombrate le macerie!
Entrato in Municipio, con l'architetto di Campo Parma, dove attendevano decine di
persone, domandai se c'era il sindaco; immediatamente si fecero da parte e ci
costrinsero gentilmente ad entrare per primi. Eravamo delle autorità, straniere, ma
avevamo, inconsciamente, il potere del denaro e dell'organizzazione. Il sindaco ci
accolse con un grugnito; facevamo poi sempre parte di quella cricca di “comunisti”
che avevano sabotato la tranquilla vita del paese, aiutati in quello dalle volontarie
parmigiane, che facevano a gara con le svizzere ad abbassare il livello morale del
villaggio!
Ho parlato prima di ricette; erano il motivo di una profonda guerra sotterranea, mai
dichiarata, fra il veterinario e l'allevatore; lo capii molto avanti.
Lo scriverla, significava dare a costui una parte della propria conoscenza e lui se ne
sarebbe appropriato in modo spesso sbagliato.
Un anziano collega mi spiegò che aveva visto delle sue ricette con scritto su, non la
diagnosi, ma il sintomo; ad esempio: “tosse, febbre”, come se quella medicina fosse
una panacea, adatta a tutte le tossi e febbri.
Mi disse anche di portare via i flaconi vuoti delle medicine usate, perché l'allevatore
se ne sarebbe appropiato subito, come un trofeo!
Era una battaglia continua, che spesso mi vide soccombente; non conoscevo le
astuzie del “cervello fino”!
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Per tradizione, quando si fecondava una vacca, veniva pagato il primo intervento ed
in caso di ritorno in calore, si doveva rifecondarla altre due volte, gratis!
Era una strana forma di garanzia che, quando si doveva salire a piedi su di un monte,
sembrava più una forma di taglieggiamento incomprensibile; già perché poi, non
riuscivo, come tanti, a capire perché la fortunata non si ingravidasse al primo colpo!
Eppure era riuscito tutto bene: la visita ginecologica positiva, lo scongelamento del
seme a 37 gradi,
l'introduzione in utero senza problemi; insomma mancava solo che la mucca mi
baciasse per la gioia!
Eppure dopo 30 giorni, la fatale telefonata: “Dòtor, l'è gnuda in calor!”
Arrivava, allora, come una sottile vendetta nei riguardi della modernità, la
rivalutazione del toro, straordinario maschio, il cui destino era ormai legato per
moltissimi esemplari alla via del macello e per pochi fortunati, di alta genealogia, alla
monta di un manichino di vacca, con relativa eiaculazione in una vagina artificiale
riscaldata con acqua calda; era, insomma, la fine di un mito giovanile!!
Si, lo rivalutai, forse in un desiderio inconscio di favorire il recupero di questo bruto
animale;
così, un giorno dissi alla padrona di una vacca enigmatica, che non voleva saperne di
ingravidarsi: “ Signora, le faccia queste punture di vitamine e poi porti la vacca al
toro! Vedrà che si tiene!”
Le vitamine, in realtà servivano solo come placebo e scena e, non so perchè, “si
tenne”; ebbe poi un bebè, ed io, in nome del ritorno alla natura, acquistai un cliente
affezionato.
Un dì, però, fui chiamato da un contadino della Cisa per “fare” una coppia di buoi.
Semplicemente dovevo castrare due torelli; era però, come al solito una novità, anche
perché ormai non si usava più, ma tant'è, dovetti farlo.
Mi recai da un più anziano collega, il dottor Domenico Molinari, naturalmente
espertissmo, che mi prestò una grossa tenaglia con la quale dovevo schiacciare il
funicolo spermatico dei malcapitati.
Mi recai sul posto, dove i due, legati alla mangiatoia, stavano tranquillamente
mangiando del fieno; mi avvicinai da dietro, senza pericolo, poiché il bovino scalcia
lateralmente, ed iniziai.
Ebbero solo un attimo di distrazione dal pasto, forse più per sorpresa che dolore; il
villico controllò con fare esperto i segni della schiacciatura, mentre loro riprendevano
a mangiare.
Non più potenziali riproduttori, ma futuri lavoratori della terra.
Nei compiti di un veterinario c'è anche quello di insegnare; mi chiesero se volevo
tenere un corso di aggiornamento, a Soliera, per periti agrari, finanziato dalla
Comunità Montana della Lunigiana.
Mi trovai così, una mattina, dopo avere presentato le credenziali all'Ente, in una
stanza anonima del paese lunigianese.
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Di fronte a me, circondato dal responsabile, perchè un responsabile c'è sempre, c’era
una dozzina di freschi Periti Agrari, che, scoprì subito, non sapevano quasi nulla di
zootecnia.
Non c'era da stupirsi e nemmeno da preoccuparsi; la scuola di tutti gli ordini spiegava
tutto sugli Orazi e Curiazi, ma riteneva superfluo insegnare agli alunni come
guadagnarsi il pane.
Cominciai a fare domande, ma avevo solo silenzi imbarazzati; si sa, che “di un bel
tacer....”!!
Non mi persi d'animo ed iniziai a spiegare tutto ciò che sapevo, vedendo ogni giorno
aumentare l'autocoscienza degli allievi.
Quasi tutti apprendevano in fretta; solo uno, Lorenzo, nome d'arte, non imparava un’
acca; gli parlai, ma sembrava venuto lì per caso e non essere per nulla interessato alla
cosa.
Quando arrivammo all'esame, alla presenza di un’ austera commissione, peraltro più
interessata al pranzo finale che alle vacche, mi domandavo cosa avrebbe detto costui;
poteva far fare brutta figura a tutti.
Gli proposi di valutare morfologicamente una bella vacca e considerando che i
presenti avrebbero fatto fatica a distinguere un cavallo da un mulo, qualunque cosa
avesse bofonchiato, sarebbe andata bene.
Invece ci stupì tutti, spiegando come un libro stampato, tutto quanto non aveva voluto
dirmi al corso; i tortelli mi sembrarono, poi, più buoni!
Era sorto però un problema negli ultimi giorni di scuola; avevo un’ allieva, bionda,
sempre elegante, che stonava con l'immagine che in genere si poteva avere della
donna di campagna, ma si applicava, e tanto bastava.
Decisi di insegnare loro la diagnosi di gravidanza della bovina; direte voi che
problema potesse essere, in fin dei conti per le donne si fa con un test dell'urina.
Nelle vacche no, si infila il braccio su per il retto e si palpa con la mano l'utero che è
sotto, così da avvertire dopo il quarto mese, la eventuale presenza del vitello;
sempreché se ne sia capaci, e credetemi, non è facile!
Fui chiamato a Varano a fecondare una vacca che doveva essere già incinta di quattro
mesi; in realtà, in biologia non c'è niente di assoluto e quindi poteva essere un falso
calore. Volli quindi visitarla, ma l'utero, alla palpazione, sembrava vuoto; fecondai,
entrando nel canale uterino e dopo pochi giorni abortì! Mi ero, per la troppa
sicurezza, sbagliato e avrei dovuto depositare il seme in vagina!
I vecchi veterinari comunque, facevano la diagnosi a braccio nudo, tirandosi su la
manica della giacca (?!); io usavo dei lunghi guanti e mettevo il camice, perché il
retto andava prima svuotato, qualora la vacca, emozionata, non avesse deciso prima
di evacuare da sola, spargendo purtroppo intorno, con la coda, i resti del suo pasto.
Comunque tutti mi guardarono e dissero in coro, pallidi: “Lei no,... è una donna!”,
quasi a significare che tale gesto avrebbe violato l'intimità della giovane; sorridendo,
fui irremovibile.
La ragazza si mise il guanto e con un po' di timore affrontò la prova; riuscì a sentirlo
e smentì le pessimistiche previsioni dei compagni, manifestate con risolini ed
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ammiccamenti.
Mi proposero anche di indagare sul perchè i bovini che avevano nel centro
sperimentale di Soliera non ingrassassero e di organizzare dei conseguenti
esperimenti di alimentazione; accettai di buon grado, anche perché avrei potuto fare
lavorare sul campo gli studenti.
Quei vitelloni, ospitati nei box di una stalla che aveva bisogno di più di un lavoro, mi
ricordavano quelle tristi vacche che avevo conosciuto poco tempo prima in Irpinia.
Venivo, e lo sapevo, da una realtà zootecnica, quella emiliana, all'avanguardia e mi
riusciva difficile capire che non fosse scontato sapere che se i bovini non mangiano,
non producono. Quelli mangiavano solo fieno e silomais e credevo che
fose risaputo che è il mangime a farli ingrassare.
Avevo diretto in Toscana un centro ingrasso di 6.000 tori e conosevo bene il
problema.
Si sparse la notizia dell'esperimento: che davamo il mangime ai tori, che
ingrassavano pure, ed arrivò così la televisione di Pontremoli, messa sull'avviso da
non so chi.
Mi intervistò una gentile signora, elegante, che seppi poi essere insegnante di lettere;
mi mise davanti ai vitelli e mi chiese cosa pensassi delle possibilità di sviluppo
zootecnico della Lunigiana.
Esposi velocemente le mie valutazioni, mentendo clamorosamente su di alcune
considerazioni che avevo già ponderato; raccontai quindi che conoscevo bene la
Lunigiana, dove ero cresciuto, delle sue enormi potenzialità e la Signora, forse
affascinata dalla mia competenza e dall'eloquio, non intendeva obbedire ai segnali
disperati del regista, preoccupato perché l'intervista durava un po' troppo!
Trent'anni fa le televisioni locali erano ancora un fatto estemporaneo e comparire in
un loro programma era un avvenimento “eccezionale”.
Mi vide a Villafranca, al bar di Nello, Norino, un vechio amico di mio papà e subito
riaffermò pubblicamente e poi a me, il ricordo di quell’ amicizia, e mi vide a Corlaga
mio zio, che uscì fuori: ”a' ghè me n'vòd an television!” ; ero diventato un'autorità,
seppur mediatica, anche a Villafranca!!!
Non sempre si poteva raggiungere il luogo della visita in auto; avevo sì la 500, mitica
auto che arrivava dappertutto, ma soprattutto d'inverno e col fango era d'obbligo
andare a piedi, naturalmente su sentieri himalaiani!
Avevo avuto anche la R4 di mio papà; una volta però, il camion del Comune mi
trascinò lungo una strada in forte salita, perché non ce la faceva. Era certo più bella
della 500, ma troppo leggera!
Mi chiamò una donna della Cisa, la cui vacca aveva partorito nei monti sopra
Gravagna e si era tutta rotta; occorreva soccorrerla.
Probabilmente era successo diverso tempo prima, non essendoci ancora i cellulari, ed
occorreva fare presto. Mi accompagnò la figlia, belloccia, un po' più vecchia di me.
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Lasciata l'auto, salimmo per quasi un'ora per sentieri che si snodavano lungo prati
bellissimi; non ero in vena di poesia ed arrivai alla meta col fiatone.
La vacca era sdraiata sul fianco, lungo un pendio ed era totalmente lacerata; mi
inginocchiai ed iniziai a ricucirla. Purtroppo i tessuti si rompevano di nuovo, come
fossero di carta; non sapevo cosa fare.
Intanto il mio sguardo giovanile, anche se sposato, era sempre di più inconsciamente
attratto dalla figura della padrona, che aveva ritenuto necessario accovacciarsi di
fianco alla bestia, come per darle un sostegno morale; solo si era dimenticata, forse
inconsciamente, di serrare le gambe!
Donne giovani ce n'erano poche per la verità, ma di vicende boccaccesche, vere o
false, ne giravano molte, al bar ed al mercato.
Un pomeriggio arrivai di passaggio vicino ad una casa solitaria su di un monte; mi
fermai e chiesi alla donna che era uscita fuori, delle indicazioni; vidi arrivare dal
bosco un guardiacaccia che la salutò.
Mi ricordai che si parlava allora, di una tresca fra di un guardiacaccia ed una donna;
erano loro!!!
Con spietata, sadica soddisfazione, scesi dalla macchina e per una mezz'ora li
intrattenni sulle più svariate cose; fremevano, lo vedevo, e non appena ripartii,
guardando nello specchietto, non li vidi più. Erano entrati di corsa in casa!!!
Ho già parlato dell'ospitalità che trovavo nelle case dei contadini; non mancavano
mai di chiedere se si voleva qualche uovo per i figli, di offrire una bottiglia di vino;
questa era la cosa più facile in quanto era sufficente dire che si era bevuto dell'ottimo
vino a casa di un loro vicino.
Scattava così lo spirito di emulazione ed era facile sentirsi dire: “ Si, ma non ha
ancora assaggiato il mio!”
Facevo fatica a bere il vino a stomaco vuoto e speravo sempre nel companatico; non
potevo però rifiutare, si sarebbero offesi.
Ricordavo con piacere quando in Maremma andavo a comprare vacche chianine per
la mia azienda; si arrivava di buon' ora e dopo averle viste, la trattativa continuava a
tavola.
Dovete sapere che nel senese, alle 9 di mattina si usava fare colazione e ciò
evidentemente non mi dispiaceva! Il padrone tirava fuori prosciutto salato, pane
azimo e vino, il tutto di sua produzione e si iniziava a mangiare ed anche a discutere
di prezzi e cose varie.
Il prosciutto era tagliato a mano, alto di spessore; il pezzo veniva steso su di una fetta
di pane, ed il boccone, tagliato davanti alla bocca con un coltellino che era spuntato
fuori dalla tasca, veniva ingoiato.
A pranzo era poi difficile replicare; il carico calorico accompagnato dalle libagioni
rallentava i riflessi.
Una vecchia vacca maremamna, legata alla mangiatoia, decise, quando le forai la
giugulare per prendere il sangue, di darmi una cornata in testa; svenni e mi portatono
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all'ospedale!
La campagna riservava, comunque, molte gioie di questo genere; ricordo gli
“anolini” della signora Jones a Casa Selvatica, fatti in casa con lo stracotto, alla
parmigiana.
Ricordo quegli gnocchi che serviva la signora Donnini alla Sesta del Bosco
cornigliese; le telefonavo che avrei cenato lì e mi diceva:” Còs'i vò mangiar, dotòr?”;
”I gnocchi”, rispondevo, “E po'?”, “Solo i gnocchi”. Naturalmente dopo tre o quattro
porzioni, non ci stava più nulla!
Anche quei “tordei” di Soliera, che immancabilmente ordinavo ogni giorno dopo la
lezione ed alcune torte d'erbe a Vico, dove probabilmente, Gesù, nel suo viaggio
verso Eboli, si era voluto fermare, attratto dal profumo che si spandeva nell”aere”!
E a Senerchia, proprio vicino ad Eboli, Gesù c'era però arrivato ed aveva gustato tutti
quei prodotti che l'agricoltura di fondovalle produceva. Mangiammo di tutto, dalle
paste ai formaggi e ai dolci ed il mio giro vita ebbe un incremento poderoso!
Mi sono accorto che parlare della vita di campagna di quarant'anni fa, è sembrato di
parlare di preistoria; le stallette sono ormai sparite, resistono solo grandi allevamenti
e le vacche hanno cambiato colore.
Prima rosse, poi marroni, poi bianconere; prima piccole con poco latte e grandi
zoccoli per titare la “traza”, dopo, poderose, con grandi mammelle ed enormi
stomaci.
Adatte al lavoro, al latte ed al vitello prima; solo al latte, tanto, ma un po' meno
buono, poi.
E' però cambiata anche la gente che vi lavora; indiani, pachistani, gente dell'est, tutti
con tradizioni e modi di vivere diversi.
E' cambiata anche l'ospitalità; quando entravo in un caseificio era un punto d'onore
del casaro farti assaggiare il formaggio, il tosone, la ricotta, e farti vedere con fierezza
le belle forme messe a stagionare, mentre si discuteva di prezzi, mercati e maiali.
Due anni fa ho visitato per lavoro 40 caseifici nella montagna parmense e di tutto ciò
nulla; del formaggio ho solo sentito l'odore, ma mi sembrava, però, meno buono;
diverso!
Sì, un'altra agricoltura; magari più moderna, ricca, efficiente, ma certamente un poco,
pochino, più triste!
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Ugo
Ugo era stanco della guerra; di quella inutile, che non stava combattendo.
Lui ed altri studenti universitari, forse da pochi esami ma da molta goliardia,
l’avevano vissuta, all’inizio, un po’ come un momento di festa.
Gli annunci del duce sullo spazio vitale, sulle potenze demoplutocratiche
corrotte ed inette, sulla brevità del conflitto dall’esito immancabilmente
favorevole, li avevano galvanizzati. Si trovavano lui, Ermes, nome che solo a
Parma e nella Bassa trova comprensione, Bruno, Alberto ed altri, quasi tutti i
giorni a manifestare in piazza Garibaldi (a Parma).
E’ vero che proprio a Parma i fascisti le avevano buscate sode dagli Arditi di
Picelli; la nuova generazione, legata a valori culturali diversi, non discutibili,
assoluti, non poteva non riconoscersi in quel grido:”vincere!!!”.
Potevano, in fondo, essere solo manifestazioni, con canti, bandiere, di assoluta
estemporaneità. Ma spesso la gioventù inganna; lo vedremo poi nel ’68, nel
‘77.
E allora perché perder tempo e non rifugiarsi nel comodo, elitario mondo degli
AUC, aspiranti ufficiali di complemento, al quale tutti gli universitari avevano
diritto; perché non mostrare a quegli inetti soldati alleati quanto forte fosse il
valore, l’impegno, dei discendenti di Roma!.
Così, in piena allegria, tutti ad arruolarsi volontari; in fondo, aveva detto il
duce, pochi mesi e poche migliaia di morti,….. perbacco, e loro, frutto della
più pura razza italica, potevano ignorare e non partecipare a questo banchetto
che li avrebbe consegnati alla storia?
Forse le famiglie, le madri in particolare, non erano d’accordo. Avevano già
donato l’oro alla patria, qualcuna il marito nella Grande Guerra; non
apprezzavano quello slancio patriottico non richiesto, quel fervore
incomprensibile.
La macchina bellica si era ormai avviata; furono festeggiati al GUF dal
Federale, vezzeggiati dalle studentesse, che a Parma si sa, anche allora, non
erano solo le più belle.
Tante feste che li avrebbero accompagnati nei Balcani, in Russia, in Africa.
Tante illusioni che si sarebbero spezzate nel cozzo della morte.
Partirono per Roma; erano bersaglieri! Forse l’accoglienza della burocrazia
militare, con i riti della caserma di Trastevere, smorzò un po’ gli entusiasmi.
Gli imboscati, etnia sempre presente, irrinunciabile, immodificabile,
congiurava contro di loro; non riconosceva il giusto valore del loro sacrificio.
Anzi, come disse loro un dì un alto ufficiale,” nessuno li aveva cercati; se la
Patria avesse avuto bisogno li avrebbe chiamati.”
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I letti della caserma erano sporchi, le latrine pure. Il tutto aggravato
dall’oscuramento; il buio non consente agli uomini una mira precisa!
Partirono, accompagnati da ali di folla, incoscientemente festante, per recarsi in
un porto del Sud: destinazione Albania e poi la Grecia, che non riconoscendo le
buone ragioni dell’Italia fascista, ci stava bastonando.
Certo, aveva avuto tutto il tempo per prepararsi alla guerra; i tentennamenti di
Mussolini, i reiterati proclami bellicosi, simili più all’abbaiare dei cagnetti che
al concetto della tedesca “guerra lampo”, avevano convinto i greci che prima o
poi l’Italia li avrebbe attaccati. L’impreparazione delle truppe, della sussistenza
e dei comandi aveva fatto il resto. Le alture del Golico erano diventate l’inutile
cimitero di tanta gioventù.
Ugo non lo sapeva; i bollettini di guerra parlavano di ripiegamenti tattici, di
controffensive imminenti e inneggiavano all’ imminente vittoria; avremmo di
sicuro spezzato le reni alla Grecia!. Era Aprile. Il viaggio sulla motonave che li
avrebbe sbarcati a Valona fu tranquillo.
Dissero loro di togliere le scarpe; potevano essere silurati, ma non successe
nulla. Sbarcarono e si avviarono, utilizzando l’unico mezzo di trasporto che
conoscevano e a cui li avevano allenati, le gambe, verso la Grecia.
La guerra però, non li aveva aspettati; l’intervento delle truppe tedesche che
avevano occupato prima la Iugoslavia e poi erano scese in Ellade, aveva
costretto quest’ultima a chiedere l’armistizio. Future truppe combattenti, i
bersaglieri divennero truppe occupanti.
Non è facile diventare poliziotti, quando si è addestrati a combattere. La
popolazione, stremata dalla guerra e da un’atavica povertà, non nascondeva il
disprezzo per quegli uomini che non li avevano vinti.
L’esercito greco aveva ripetuto sulle montagne greco albanesi il miracolo delle
Termopili; solo la macchina da guerra tedesca li aveva piegati. Non mancavano
i manifesti denigratori per il duce e per i bersaglieri, ma la popolazione spesso
per necessità, forniva viveri quali uva, pesci, alle truppe italiane; qualche volta
fu l’esercito ad inviare viveri nelle loro zone più povere.
Il tempo passava ed Ugo sentiva il richiamo della guerra. Con lui, molti suoi
compagni, che però dall’incontro con civiltà diverse, non solo quella greca che
ricordavano dallo studio dei classici, trovavano motivo di discussione.
L’esercito, si sa, è un crogiuolo di razze; anche il nostro non faceva eccezione.
Era difficile capirsi, nell’inattività totale, fra contadini meridionali analfabeti,
spesso superstiziosi e giovani studenti parmigiani, educati nell’atmosfera post
illuministica della città granducale; era più facile capire ed ammirare i tedeschi
con il loro perfetto ed organizzato modo di vivere e combattere.
Certo, loro erano un popolo diverso! Ugo si rendeva conto che mai saremmo
stati come loro, ma non ne soffriva; in fondo senza la civiltà romana sarebbero
vissuti ancora nelle capanne. Sentirsi “superiori” culturalmente fa passare altre
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sensazioni in second’ordine.
E poi c’erano le donne, la cosa più importante. Ugo era uno tosto: bello,
elegante, fascinoso, senza essere gagà, viveva anche di quei valori; gli
piacevano le conquiste. Spesso, come capita in guerra, alcune o molte giovani
vanno ad esercitare il più antico mestiere; la fame, non certo il piacere,
costringono a cedimenti non solo morali. Ad Ugo, tutto ciò non interessava; era
per la conquista, per l’esaltazione del suo fascino. Lo chiamavano il mandrillo.
Intanto l’avventura guerresca stagnava! Le giornate passavano nell’attesa di un
fatto d’arme, di un’azione degna di essere raccontata ai figli.
Spes ultima dea, dicevano i romani; e la speranza giunse una mattina quando
un piccolo capitano, dall’aspetto poco militaresco, annunciò che erano aperte le
domande per entrare nei paracadutisti. Molti si offrirono; la prospettiva di un
possibile impiego in azione risvegliò l’eccitazione di Ugo e dei suoi compagni.
Paracadutisti, già se ne parlava dopo il primo lancio su Creta e per la ventilata
presa di Malta. Era un sogno che tornava, la possibilità di essere finalmente
soldati.
Certo la nascita della divisione paracadutisti era stata travagliata. Gli alti
comandi, che non diversamente dai loro colleghi francesi ed inglesi,
preferivano frequentare i salotti, anziché le manovre militari dei tedeschi e dei
giapponesi, non approvavano questo tipo di guerra.
Colpire alle spalle anziché affrontare di petto il nemico?! Non era cavalleria,
non si esaltava il coraggio del soldato. Eppure la lezione degli assalti frontali
della prima guerra, delle immense carneficine sui reticolati del Carso, doveva
essere ben viva. E allora meglio le eroiche cariche di cavalleria, al grido
“Savoia” in Russia, emule di quelle della cavalleria polacca contro i tanks
tedeschi; forse… “mal comune…”
Non era facile diventare paracadutisti; si era sottoposti ad una serie di test ed
esercizi, di visite mediche che scoraggiavano ed anche eliminavano molti
aspiranti.
Gettarsi da un aereo, dipendendo da un ombrello di seta, che si sapeva, qualche
volta non voleva aprirsi, era considerato dai più un atto di pazzia. I
paracadutisti sono di due specie: appunto i pazzoidi, i temerari, gli
scavezzacolli, potremmo chiamarli, ed i romantici, quelli che sognano
l’avventura, il bel gesto eroico. E cosa c’è di più eroico che assalire il nemico
scendendo dal cielo, novelli Icaro!
Ugo, Ermes, Alberto ed altri cinque commilitoni, furono ammessi al corso per
essere brevettati.
Per chi era cresciuto in campagna il gettarsi dalla torre, superare gli ostacoli e
soprattutto correre non era un problema. Allora non si faceva sport ma si
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cresceva diversamente. Ugo restava sempre un bersagliere; quel cappello
piumato, quel fez rosso in testa nella libera uscita li facevano distinguere da
tutti.
Un alto ufficiale, incontrandoli assieme a delle ragazze esclamò:”bravi
bersaglieri, sempre con le più belle”. E poi non sempre la divisa doveva essere
quella di ordinanza; è vero avevano gli stivali e non le fasce, ma magari i
pantaloni a sbuffo della cavalleria erano più eleganti e consentivano un
approccio migliore.
Dopo pochi mesi fecero il primo lancio. Fu l’emozione di un attimo; poi lo
schiaffo del vento nella prima caduta, il colpo del paracadute che si apriva, il
corpo pronto ad eseguire il salto mortale per l’atterraggio, riportarono ad Ugo
la realtà di una conquista tanto attesa, ma alla fine, di una normalità insperata.
Era paracadutista; entrava senza saperlo nella leggenda dell’esercito. Dopo
diversi lanci, con armamento completo, i vari reparti furono avviati verso il
raduno di Lecce.
La Folgore, come fu poi da tutti chiamata, era stata addestrata per partecipare
all’invasione di Malta. L’avversione di molti alti comandi ne aveva ritardato la
preparazione; era stato difficile anche trovare un comandante.
Quasi tutti gli ufficiali interpellati non avevano mai volato e nessuno era
disposto a gettarsi col paracadute. Si offerse il generale Frattini, cinquantenne,
che seppe poi valorizzare al meglio lo spirito guerresco della neonata divisione.
Tutti, al raduno, pensavano che la meta fosse Malta. Rommel, però, aveva
chiesto il massimo sforzo all’Asse per arrivare in breve tempo ad Alessandria
d’Egitto e tutte le risorse furono dirottate verso il fronte africano. Ugo si stupì,
perché gli ritirarono le mostrine; non erano più paracadutisti ma Cacciatori
d’Africa.
Pronto a salire assieme al suo reparto sull’aereo, fu dirottato su di una vecchia
tradotta che partì per il nord, Con lui almeno metà della Folgore.
Risalirono la penisola e scesero attraverso i Balcani in Grecia; infine vi era
ritornato. Rivide di sfuggita alcuni luoghi che aveva conosciuto l’anno prima,
sino ad Atene.
Avevano rischiato per dieci giorni di essere assaliti dai partigiani, bombardati
dalla caccia nemica per poi, ad Atene, salire su di un aereo ed essere inviati in
Africa. Ugo pensò che forse non era un caso; che quanto si diceva sull’ostilità
dei Comandi verso la Folgore non era fantasia.
Lasciarono i paracadute e l’equipaggiamento da lancio in un magazzino a
Derna. Gli fu detto che lo avrebbero riavuto più tardi, al momento di entrare in
azione. I paracadute furono ritrovati poi in parte sabotati!
Come tutti i sottoufficiali disponeva di un armamento superiore ai suoi pari
grado degli altri corpi; aveva il mitra e la rivoltella, una Beretta, che col
moschetto 91 costituiva anche l’armamento della truppa. Era l’unica cosa di
cui potessero vantarsi; per il resto erano un’armata già votata alla distruzione.
Non riusciva a capire perché mancassero anche della minima dotazione di
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servizi; è vero che il loro era un impiego mordi e fuggi, un lavoro diverso che
non richiedeva quella organizzazione di sussistenza dei reparti che
combattevano a terra, ma trovarsi ad essere trasportati su camion di altri corpi
provocava mal celati dubbi.
A fine Agosto 1942, la divisione, ritornata al vecchio nome Folgore, era
schierata sul fianco destro della linea di El Alamein, a lato della depressione di
El Qattara. Già dalle prime scaramucce, nella zona di nessuno, aveva
dimostrato con colpi di mano, incursioni, di essere padrona del territorio.
Nei primi veri scontri aveva causato al nemico danni notevoli in mezzi ed
uomini.
Ugo aveva visto morire i primi compagni, mai sulla difensiva, ma sempre
pronti a ripartire all’assalto dei più forti avversari. Il vero problema, ed Ugo se
ne rendeva conto, era che erano poveri: niente automezzi, ambulanze, trasporti
acqua, artiglieria pesante che poi fu prestata da altri corpi, carri armati.
Insomma 5000/6000 uomini contro 50/60000 alleati ben addestrati, riforniti,
con 400 tanks, centinaia di cannoni e automezzi di sussistenza. I carri armati
non erano un problema; Ugo, e con lui i compagni , pensava che dentro c’erano
sempre degli uomini, che una bomba, una fiammata li avrebbe spaventati. Non
potevano costituire un pericolo. I problemi nascevano dalla mancanza d’acqua,
di cibo, dalla dissenteria che falcidiava i reparti.
Per giorni gli alleati preceduti da fuoco di artiglieria, appoggiati da centinaia di
carri, cercarono di sfondare nella zona della Folgore.
Alcuni centri di fuoco furono persi ma poi ripresi; ogni volta i paracadutisti, se
è giusto chiamarli ancora così, partivano al contrassalto, colpendo carri,
catturando prigionieri. Ugo vide un generale inglese, appena vinto, che
guardava ammirato quegli uomini, le sentinelle che con fare marziale,
scrutavano l’orizzonte.
Lo udì chiedere al generale Frattini di che Corpo fossero; “ la Folgore”
rispose. L’ufficiale annuì, quasi avesse avuto una conferma. Ad Ugo vennero i
lucciconi; era già con i suoi compagni, nella storia. Lo sapranno dopo vent’anni
quando i tre battaglioni saranno decorati con medaglia d’oro; il Corpo più
decorato d’Italia per un singolo fatto d’arme.
Dopo giorni di assalti gli inglesi cessarono gli attacchi. Quella sparuta
pattuglia, al battesimo del fuoco, aveva fermato, sconfitto, un’armata dieci
volte superiore. I paracadutisti non si fermarono; cominciarono a riattare,
rinforzare le difese; da relitti di mezzi inglesi colpiti, avevano assemblato un’
ambulanza, una decina di camion ed un’ auto per il comandante.
Privi di comunicazioni non sapevano che il nemico aveva attaccato e sfondato
al centro: erano isolati.
Era contento Ugo, la sua personalità si era rafforzata; nella lotta aspra, nel
dolore della perdita di tanti amici aveva compreso valori diversi.
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La vita non era un gioco, ma una battaglia nella quale la fortuna serve, ma
spesso gioca sporco; arrivò, con 24 ore di ritardo, l’ordine di ripiegamento.
Erano 25 km a piedi, diventati poi 80, in pieno deserto, trascinando gli
anticarro 47/32 e le munizioni.
Lasciarono alcuni uomini di retroguardia, per ingannare gli inglesi, che per un
giorno non si avvidero della scomparsa del nemico. Ugo comandava ormai un
plotone ridotto, incitava gli uomini, ma la penuria d’acqua, la stanchezza,
assottigliavano le file. Gli inglesi, automontati, con i carri armati erano partiti
all’inseguimento.
Li raggiunsero presto, ma si tenevano a rispettosa distanza; troppo fresco era il
ricordo dei colpi che gli uomini della Folgore avevano loro inferto.
Lentamente, col terminare delle munizioni i pezzi venivano abbandonati,
rendendoli inutilizzabili. Gli inglesi non ne avrebbero avuto lo stesso bisogno.
Rimase solo un anticarro, che di retroguardia, minacciava invano le
avanguardie nemiche, vogliose più di vedere l’esito della ritirata che di
combattere.
Ugo era rimasto indietro; colpito dalla dissenteria, disidratato, stremato, si era
allontanato piano piano dal gruppo; prima con altri e poi sempre più solo. Lo
raccolse, ormai senza forze, uno dei pochi automezzi italiani non requisiti dal
valoroso alleato; fu un caso. La fortuna l’aveva ancora una volta aiutato.
Il cerchio si chiuse sui superstiti. Erano circondati dagli inglesi, intorno i tanks
con i cannoni abbassati, e senza munizioni, acqua e viveri. Il comandante,
Tenente Colonnello Camosso propose la resa; gli uomini rifiutarono.
Piangendo risposero che avevano ancora le bombe a mano.
I comandanti schierarono la truppa su due file e la presentarono al Colonnello.
Ebbero l’onore delle armi.
Il Generale Frattini, accompagnato col suo vice in auto, dal comandante inglese
si vide porgere la mano: rifiutò la stretta.
Intanto Ugo, ricoverato in vari ospedali delle retrovie, ritrovava lentamente le
forze. Seguì la marea di uomini che cercava di sfuggire all’avanzata alleata. Si
trovò a Tunisi, ultimo baluardo difensivo dell’Asse.
Fu costituito anche un battaglione di 250 paracadutisti, provenienti per lo più
dagli ospedali, per tentare l’estrema resistenza; fra loro Ugo.
Lo spirito sempre alto, ma nella consapevolezza che il dovere non era bastato,
che troppi avevano congiurato contro quella che fu definita la più bella
divisione del mondo. Non solo il nemico, che le aveva reso onore, anche in
Parlamento, ma soprattutto chi, invece, doveva sostenerla.
Si trovò, con altri compagni, in una buca; sapeva a memoria come comportarsi,
cosa dire agli altri. Arrivarono gli inglesi, in massa, come al solito. La fantasia
non era il loro pane; erano coraggiosi, preparati, ma avanzavano sempre come
nella prima guerra mondiale.
Ugo sparò le restanti cartucce; con l'ultima colpì un inglese che correva,
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baionetta in canna, verso di lui.
Non aveva più i mezzi per combattere; uscì dalla buca, senza fucile, ma senza
alzare le mani; non era stato vinto. Una pallottola lo sfiorò e fu subito preso
prigioniero.
L’intransigente, assolutistico spirito di Corpo, quello che animava Frattini, i
suoi compagni nel deserto, tutta la Folgore al momento di una resa che era però
una vittoria, l’aveva risparmiato. Fu avviato, come tanti, al campo di
concentramento.
Gli restò, in quegli anni, il ricordo del proprio dovere, di una lotta impari, delle
dichiarazioni di Churchill, della BBC; il ricordo di molti compagni dimenticati
dalla politica, ma non da loro; per un giorno soldati di fanteria, ma sempre
paracadutisti della Folgore.
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Ulisse B.
“ Por las gradas sube Ignacio con toda su muerte a cuestas...”.
Da diversi minuti quella frase gli rieccheggiava con insistenza; ricordava gliel'avesse
detta un giovane poeta spagnolo che aveva conosciuto in Spagna, ai tempi del
Battaglione Internazionale “Dimitrov” .
“ Sui gradini salì Ignazio con tutta la sua morte addosso,..... cercava l'alba ma alba
non era..”, si tradusse; il sole, ormai vicino alla sommità dei monti, lo feriva negli
occhi ed era costretto a tenere le palpebre socchiuse.
Una goccia di sudore gli attraversava la guancia e mille mosche sembravano accanirsi
sul sangue che gli usciva dalle labbra; le mani, legate saldamente dietro alla schiena,
erano come un'inutile gruccia.
Davanti a lui, da diversi minuti, alcuni bersaglieri della Divisione Italia ciondolavano
appoggiati al moschetto modello '91, in attesa di imbracciarlo e sparare; qualcuno
fumava, altri chiacchieravano, sbirciando di sottecchi il condannato, in piedi, vicino
ad un muro sbrecciato dalle pallottole.
L'ufficiale, un giovane tenente con una divisa troppo larga, forse recuperata dai
magazzini della sussistenza, discuteva rispettosamente, una decina di metri più in là,
con un compito ufficiale delle SS.
Il concetto di “dovere” è diverso fra un latino ed un teutonico; “cum grano salis”
recita una massima latina e si sa che solo Cesare riuscì a fare loro capire qualcosa
della lingua.
Il giovane, che parlava in un corretto italiano con accento milanese, cercava di fare
capire al tedesco dell'inutilità di quella fucilazione; certo era un partigiano, ma era
giovane ed ormai la guerra era persa ed un atto di clemenza avrebbe restituito alla sua
patria un ragazzo che più di altri poteva capire l'importanza del dialogo e della
comprensione.
Evidentemente aveva avuto buone scuole e si capiva che la sua presenza nell'esercito
repubblichino non era frutto di una scelta volontaria, ma obbligata, forse dalla
provenienza, forse da minacce alla famiglia, forse dalla paura.
Il tedesco scuoteva la testa ed ogni tanto alzava la voce con quel tono secco e duro,
che immediatamente fa dire: “E' un crucco!”
Ulisse immerso in un sudore sempre più copioso, osservava con tranquillità la scena e
capiva che tutto sarebbe stato inutile e che fra poco, anche lui avrebbe salito quei
gradini.
L'avevano catturato due giorni prima, all'alba mentre usciva dalla casa dei suoi vecchi
che erano sfollati a Corvarola, dove era giunto alla sera con due compagni della
brigata Borrini.
Da due mesi non vedeva la madre, donna forte e pratica che spesso lo aveva
mandato a chiamare; problemi ne aveva tanti e quell'unico figlio, giovane, era il solo
aiuto che potesse avere, visto che il marito era rientrato dall'Africa, privo di un
braccio.
Si era addormentato profondamente, dopo una cena da troppo desiderata; nessuno lo
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aveva voluto svegliare, neanche i compagni, che all'alba se ne erano andati.
Del resto pensavano, essendo a casa sua, in luoghi che conosceva, non avrebbe corso
pericoli.
Quando vide il sole già alto, si vestì rapidamente, salutò la madre ed uscì di corsa
dirigendosi verso l'amico bosco.
Inutilmente lei lo pregò di lasciare a casa la rivoltella, oltretutto una Luger, bottino di
guerra; sorrise alle preoccupazioni materne, pensando che in fondo le mamme sono
tutte simili.
Tre militi dell' Italia lo aspettavano dentro la macchia; si arrese all'altolà, alzando le
braccia al cielo, senza tentare nessuna reazione.
Al comando tedesco si accorse che era già segnalato come un pericoloso “bandito”;
gli venne così il sospetto che potesse esservi un legame fra il suo arresto e la taglia
che vide stampata sull'avviso.
Lo interrogò a lungo un ufficiale delle SS, non risparmiandogli botte, assistito da un
piccolo e largo individuo in completa divisa fascista, nera, comico nella sua eleganza
da parata e nel suo abbaiare da cagnetto senza autorità alcuna.
“ Fucilatelo domani mattina” disse il tedesco all'uomo in nero, “il plotone lo
comanderà il tenente Aldrighetti, che rientra stasera dalla licenza”.
Lo misero in una cella, ricavata dalla cantina della casa in cui era stato installato il
comando del gruppo.
Gli portarono verso sera un po' di pane e minestra; non aveva fame, ma mangiò
ugualmente.
Aveva riflettuto, lungo quelle ore passate su di un tavolaccio, sulla sua sorte; sarebbe
morto dopo poche ore senza potere comunicare con alcuno, senza potere lasciare una
traccia dei propri pensieri, senza potere dire che moriva, senza rimpianti, per una
causa che aveva abbracciato anni prima.
No, non aveva nessun rimpianto e la sua fede nella riscossa dell'Italia,
nell'antifascismo, era incrollabile.
Non riusciva a capire la scelta di molti giovani che continuavano ad arruolarsi
nell'esercito repubblichino; ignorava i metodi di reclutamento e le deportazioni in
Germania degli operai coatti.
Non tutti avevano il coraggio di buttarsi alla macchia, ma non tutti erano però, agli
occhi dei tedeschi e dei fascisti, soldati fidati; quando, nel gennaio 1945, un
Mussolini ormai stanco, finito, venne a Mocrone a visitare la linea gotica e le truppe
italiane lì attendate, queste furono disarmate dalle SS!
Era partito nel '36 dall'Italia con un gruppo di antifascisti fra cui Leone Borrini, morto
nella battaglia di Morata de Tajuna, durante uno dei tanti tentativi di Franco per
occupare Madrid.
Avevano combattuto contro forze preponderanti, armate dalle potenze nazifasciste e
soprattutto accompagnate dall'aviazione italiana e tedesca.
Era stato il primo scontro fratricida fra italiani che si sarebbe ripetuto nella guerra di
Liberazione.
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Dopo la guerra non era rientrato in Italia; lo spirito indipendente che era in lui, sin
dall'infanzia, non gli consentiva di adeguarsi agli immancabili riti della propaganda
fascista e così si fermò in Francia a fare il muratore dove conobbe i Rosselli e tanti
fuoriusciti, una palestra di vita e di idee.
Era però segnalato come sovversivo e spesso casa sua veniva visitata dall'OVRA o
dai Reali Carabinieri, dove la madre, donna battagliera ed antifascista per tradizione,
provvedeva a regalare loro dileggi nemmeno tanto mascherati, frutto delle sue vantate
origini livornesi.
L'8 settembre lo colse vicino a Marsiglia e di botto, come sempre era stato nei suoi
primi venticinque anni, seguì l'istinto e si imbarcò per La Spezia e di lì in due giorni,
a piedi lungo sentieri di montagna che ben conosceva, giunse a casa sua, a
Villafranca.
Ulisse aveva freddo; la vita in montagna era difficile, ancor di più se si doveva vivere
alla macchia, braccati dai nemici, sempre attenti ad ogni rumore, ad ogni
cambiamento.
Si poteva vivere, nei momenti di tranquillità, ogni piccolo cambiamento
dell'ambiente, l'evolversi del tempo e della natura, il lento ritmo che da secoli
accompagna il vivere del montanaro.
La vita del partigiano riservava momenti di grande paura, frustrazione ed attimi di
pace, di serenità. Il rapporto con le genti del posto era vario, aiutavano, davano da
mangiare, anche un letto, ma sempre con la paura, comprensibile, di essere scoperti,
di essere additati come “banditen”.
Dormiva spesso in una cascina vicino a Compione dove il luogo gli avrebbe
assicurato la possibilità di una rapida fuga verso l'Arpa, poiché difficilmente
eventuali nemici avrebbero risalito dal versante opposto quei ripidi sentieri.
Era entrato nella Borrini, in cui militavano diversi suoi amici e già dalle prime azioni
si era guadagnato la loro fiducia, sorretto dall'esperienza spagnola.
Non tutti i suoi compagni, però, avevano la sua preparazione ed il suo intuito
militare; prepararono in tre un assalto ad una colonna tedesca, armati di moschetto e
mitra.
Attesero i camion ad una curva e all'apparire aprirono il fuoco, colpendo il primo
autista, il cui automezzo si rovesciò.
Gli altri tedeschi risposero al fuoco, individuando subito gli assalitori, che non ebbero
l'accortezza di muoversi; non sapevano più cosa fare.
I tedeschi avvisarono, via radio il loro comando ed una mitragliatrice antiaerea,
piazzata al di là della Magra iniziò a sparare ad alzo zero e furono colpiti tutti, senza
avere avuto il tempo di accorgersene e di fuggire.
L'immaginario gioca, a volte, degli scherzi e anche stavolta l'impreparazione, il
dilettantismo avevano prevalso; chi avrebbe pensato che li avrebbero potuti colpire
sparando dal là del fiume e poi con un'arma antiaerea!
Ricordava ciò che era successo in un paese vicino quando vi fu il primo
bombardamento; la gente abbandonò, all'allarme, le case e si radunò nei boschi
circostanti, a poche centinaia di metri dal centro del paese, per assistere al
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bombardamento.
Le bombe non scelgono dove cadere e solo l'immaginario e l'inesperienza possono
fare pensare che vadano dove si pensa dovrebbero colpire, tant'è che molti così ne
furono uccisi, mentre pensavano di assistere ad un tranquillo spettacolo pirotecnico.
L'inesperienza e la fiducia spesso giocano sporco.
Arrivò un giorno un ragazzo del nord, fuggito dal reparto deciso ad arruolarsi nei
partigiani; era giovane, calmo, con occhi ancora indecisi sul futuro.
Il comandante disse con un ordine perentorio che bisognava andare al Merizzo a
ritirare delle provviste a casa di un contadino che le aveva raccolte dopo un lancio
alleato e si offersero due disertori tedeschi, pratici della zona; se li avessero fermati
quelli della Monte Rosa, dissero, avrebbero detto di essere in licenza.
Il ragazzo del nord li volle accompagnare, nonostante Ulisse lo sconsigliasse; non era
pronto ad un eventuale scontro e non si sapeva come avrebbero reagito i due crucchi.
Quei due non gli piacevano, non capiva la loro presenza, accettata però dal
commissario politico, e non si fidava; tuttavia partirono, accompagnati dagli
incoraggiamenti dei compagni.
Il ragazzo marciava in testa, con fare sicuro. perbacco, di che aveva paura Ulisse, era
abituato a cavarsela e non era più un bambino.
E' vero, non aveva ancora combattuto, ma un po' d'esperienza l'aveva ed i due
tedeschi, sorridenti, gentili, gli ispiravano fiducia; era poi cresciuto nel mito della
supremazia ariana e questi non potevano essere di certo cattivi.
Vide in lontananza la casa del contadino, in fondo ad un campo dove l'erba alta
doveva essere ancora tagliata, ed accelerò il passo.
Un colpo di moschetto lo raggiunse alla schiena.
Sentì un urto violento, ma non capì di essere stato colpito; stupito, poi, cercò di
girarsi quasi a cercare la sorgente del rumore, ma le gambe si piegarono e si accasciò,
senza un pensiero.
Il tedesco più vecchio, con il fucile in mano, fece cenno al collega di muoversi e si
affrettarono verso la casa, dove sulla porta comparve il contadino che scrutò la scena
con un'espressione assente.
Aveva avuto fiducia, quella che nella giovinezza non manca mai e che nell'uomo
trova il tempo per temprarsi; la guerra, invece, non lascia il tempo di crescere!
L'arte di arrangiarsi è naturale nel popolo e spesso anche in guerra vi si ricorre.
Un dì, in Spagna, fu comandato di recarsi dal comando di battaglione, ma doveva per
questo attraversare un grande ponte presidiato dalle truppe franchiste; era in
borghese, ma di certo lo avrebbero controllato e poi fermato.
Vide una giovane donna che si avvicinava con una carrozzina da cui spuntava una
manina di neonato.
Affiancò la ragazza, togliendole la carrozzina, gentilmente, e cominciò a spingerla,
mentre sorridendo, le chiedeva di aiutarlo; questa, dai lunghi capelli mori, il seno
prosperoso, ricambiò il sorriso e prendendolo sottobraccio cominciò a cantare
sottovoce.
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Un fischio di ammirazione segnò il loro passaggio davanti alle guardie; franchisti sì,
ma sempre latini!
Alcuni anni dopo si trovò a dover passare il ponte sulla Magra, accompagnato da un
partigiano giovanissimo.
C'erano di guardia alcuni mongoli, montati su motocarrozzette; il traffico era intenso,
fra operai che tornavano dal lavoro, sfollati e soldati di varie armi.
Videro alcune carriole abbandonate, cariche di cemento; se ne impadronirono ed
iniziarono ad attraversare il ponte.
Il sudore abbondava sul loro viso, non solo per il caldo pomeridiano ma tuttavia
proseguirono con indifferenza, avvicinandosi sempre più al posto di blocco.
Un soldato mongolo li aveva da tempo inquadrati con i suoi occhietti indecifrabili;
cercarono di non guardarlo.
Si sentì un sibilo crescente, fortissimo ed apparve da sopra la cresta dei monti un
aereo americano, pronto a sganciare.
Ci fu un naturale fuggi fuggi; lasciarono le carriole e attraversato il ponte, ormai
senza fiato, imboccarono il sentiero per Canossa.
La guerra è piena di spie, tali a volte per necessità, a volte per passione politica,
spesso per convenienza.
Il comando unificato del CNL si era spostato vicino al crinale tosco emiliano, a
Bosco, dove fu attaccato e distrutto dai nazifascisti, preavvertiti.
Ulisse, che era stato mandato là, arrivò dopo la strage e capì che non potevano essersi
fatti sorprendere così facilmente, che qualcuno doveva avere tradito; il comandante
Pablo, figura mitica, non era un novellino.
Prese informazioni in paese sulla presenza di eventuali sospetti; c'era una faccia
sconosciuta, un partigiano, nuovo però per quelle zone.
Difficilmente in un piccolo paese di montagna si passa inosservati; l'arte del
pettegolezzo alimentato dalle donne del paese sulle porte e dagli uomini all'osteria,
mette a nudo i corpi e le anime e non lascia scampo agli occasionali presenti.
Il Nuovo venne descritto, spogliato; si ricordarono della familiarità con cui trattava
alcuni ufficiali, ma non era però fra i caduti!
Non fu difficile rintracciarlo in un paese vicino dove, forte di una protezione
promessa, si aggirava con tranquillità nei bar e fra la gente e lo consegnarono,
tremante, ai partigiani della zona; seppe poi che era stato giustiziato.
Alcuni suoi amici erano stati catturati durante un rastrellamento e rischiavano di
finire in Germania, come lavoratori coatti.
Erano richiusi, al buio, nella cantina di una casa di Filetto che dava su di un cortile e
che conosceva per avervi incontrato spesso la figlia del proprietario; raggiunse la casa
a sera e da una finestrella che dava sul piano, salutò gli amici.
Il tempo passava, senza che se ne accorgesse e lo riportò alla realtà il rumore di un
otturatore che veniva armato.
Alzò la testa e vide la canna di un moschetto a pochi metri; era un alpino della Monte
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Rosa, che di guardia, aveva visto la brace della sigaretta, accesa imprudentemente.
Furono attimi di tensione, nel silenzio; l'alpino fece un cenno di lato con la testa ed
Ulisse corse via, senza girarsi o pronunciare un grazie.
Spesso vi era un tacito accordo di non belligeranza fra i soldati repubblichini ed i
partigiani; erano coetanei e provenivano dagli stessi reparti. Quando non c'era da
combattere, spesso si ignoravano!
Diversi, come detto, i loro percorsi di vita, spesso non legati a scelte proprie.
C'erano, anche, da ambedue le parti, i fanatici, gli irriducibili, il cui vivere era una
battaglia personale, che spesso sfociava in atti di crudeltà che poi venivano, in
genere, restituiti.
Catturarono un giovanissimo, della X Mas che continuava come in un ritornello a
lanciare proclami, a riaffermare la certezza della vittoria, ad inneggiare al Duce.
Conosceva solo questo, ma l'ambiente in cui esprimeva le sue idee non era certo il più
favorevole.
Cercò più volte di convincerlo a tacere, a pensare al proprio futuro, ma inutilmente;
aveva imparato una poesia, come a Natale, e doveva dirla.
Una mattina non lo vide più; si informò e seppe che lo avevano trasferito e non ebbe
il coraggio di fare domande.
Nel gennaio del '45 vi fu un grosso rastrellamento che costrinse diverse formazioni a
sganciarsi; non tutti i comandanti avevano l'abilità di effettuare operazioni così
complesse. Qualcuno tardò a muoversi, qualcuno prese una direzione sbagliata e
molti morirono. Ulisse, con i suoi compagni illesi, riparò nella zona del Lago Santo.
Ad aprile, i tedeschi iniziarono poi a ritirarsi per la strada della Cisa e lunghe file di
carriaggi, automezzi e cavalli arrivavano a Filetto e lì sostavano e poi ripartivano,
lasciando il posto ad altri.
C'era mobilitazione fra i partigiani; erano pochi per fermare questa massa di disperati,
ma tuttavia le formazioni ribelli si stavano organizzando ed iniziarono a scendere al
piano.
Decise, allora, prima dell'azione, di andare a salutare la madre.
La discussione fra il tenente Andrighetti e l'ufficiale tedesco stava continuando con
toni sempre più accesi; i soldati sembravano ormai stufi di aspettare al sole e
mostravano apertamente la loro insofferenza.
Anche Ulisse era stanco, fisicamente; la sua mente era ormai pronta e quella attesa lo
provava.
Dietro di lui, in cima al muro, dei colpi di Sten ed un comando, quasi urlato, in
dialetto: “Zétat zù!!”; cadde l'ufficiale tedesco ed i soldati si dettero alla fuga.
Apparve Nello col mitra in mano e lo liberò dai lacci, mentre i suoi uomini
catturavano il tenente, rimasto immobile, quasi sollevato.
Ulisse si avvicinò e disse di liberarlo; gli consigliò di cambiare la divisa con abiti
civili e di tornarsene a casa.
Andrighetti ringraziò e si allontanò velocemente, con un saluto quasi militare.
Nello gli chiese, mentre si massaggiava le mani indolenzite, se era pronto per
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affrontare i tedeschi in ritirata; lo scrutò sorridendo, prese il mitra del tedesco e lo
mise a tracolla.