the money in the middle ages

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1 IL DENARO NEL MEDIOEVO Ipse Trimalchione fundos habet, qua milvi volant, nummorum nummos. PETRONIUS ARBITRER, Petronii Arbitri Satyricon L’Impero romano consegna all’Europa medievale il sistema monetario organizzato da Costantino il Grande (306 337) e la tradizione giuridica, ottimamente esposta dal giurista Paolo (III secolo d.C.), che è a fondamento della teoria feudale della moneta. Dopo la riforma del 309, nell’Impero circolano monete d’oro, d’argento e di bronzo, ma il cardine del provvedimento è il solidus aureo. Questa moneta pesa 24 carati (4,55 g), cioè 1 / 72 del peso della libbra romana (327 g a seguito della riforma monetaria del 269 a.C.), e ha corso in tutto l’Impero, le cui province dell’Illiria e dell’Armenia forniscono l’oro necessario alla coniazione. Il solidus è la moneta per antonomasia del ceto senatoriale: la ricchezza media di un senatore si aggira intorno ai 100.000 solidi annui, mentre i membri più ricchi ne guadagnano 300.000 l’anno. Queste somme ingenti non solo permettono alle famiglie senatoriali l’acquisto di prodotti lussuosi e di schiavi, ma consentono anche ulteriori investimenti e il pagamento delle tasse. Quest’ultime si pagano in oro o in natura e servono per stipendiare i 600.000 soldati, per sostenere le spese di corte, per acquistare cibo da distribuire gratis alla plebe di Roma e Costantinopoli e per adempiere la manutenzione del sistema stradale. Segue il miliarensis, la moneta d’argento di riferimento, non più coniata nelle province orientali dalla fine del secolo IV. Di questa esistono due tagli: quello pesante corrisponde a 1 / 15 del solidus aureo, quello leggero a 1 / 18 . Il contenuto di metallo prezioso (fino) nelle monete d’oro e d’argento è vicino al 100% ed è garantito dallo stato che ha il monopolio della coniazione. Il sistema monetario è completato dal bronzo, il cui nominale di riferimento è il nummus che vale, dopo il decreto del 445 di Valentiniano III (425 455), 1 / 7200 di solidus aureo. Le monete più preziose hanno anche le frazioni: il mezzo solido (semissis) e il terzo di solido (triens o tremissis); la siliqua d’argento il cui peso è di 2,65 g. Il nummus ha invece un multiplo, il follis (17g), coniato a Roma nel 476 e ben presto divenuto il mezzo di pagamento prediletto negli scambi minuti quotidiani. Colpisce, in ogni modo, la scomoda mancanza di valori intermedi tra il follis e il triens, specialmente dopo la scomparsa della moneta d’argento. La grande finanza Solidus di Costantino il Grande Follis di Costantino il Grande

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1

IL DENARO NEL MEDIOEVO

Ipse Trimalchione fundos habet, qua

milvi volant, nummorum nummos.

PETRONIUS ARBITRER, Petronii Arbitri Satyricon

L’Impero romano consegna all’Europa medievale il sistema monetario organizzato da Costantino il

Grande (306 – 337) e la tradizione giuridica, ottimamente esposta dal giurista Paolo (III secolo d.C.), che è a

fondamento della teoria feudale della moneta. Dopo la riforma del 309, nell’Impero circolano monete d’oro,

d’argento e di bronzo, ma il cardine del provvedimento è il solidus aureo. Questa moneta pesa 24 carati (4,55

g), cioè 1/72 del peso della libbra romana (327 g a seguito della riforma monetaria del 269 a.C.), e ha corso in

tutto l’Impero, le cui province dell’Illiria e dell’Armenia forniscono l’oro necessario alla coniazione. Il

solidus è la moneta per antonomasia del ceto

senatoriale: la ricchezza media di un senatore si

aggira intorno ai 100.000 solidi annui, mentre i

membri più ricchi ne guadagnano 300.000 l’anno.

Queste somme ingenti non solo permettono alle

famiglie senatoriali l’acquisto di prodotti lussuosi e

di schiavi, ma consentono anche ulteriori

investimenti e il pagamento delle tasse. Quest’ultime si

pagano in oro o in natura e servono per stipendiare i 600.000 soldati, per sostenere le spese di corte, per

acquistare cibo da distribuire gratis alla plebe di Roma e Costantinopoli e per adempiere la manutenzione del

sistema stradale. Segue il miliarensis, la moneta d’argento di riferimento, non più coniata nelle province

orientali dalla fine del secolo IV. Di questa esistono due tagli: quello pesante corrisponde a 1/15 del solidus

aureo, quello leggero a 1/18. Il contenuto di metallo prezioso (fino) nelle monete d’oro e d’argento è vicino al

100% ed è garantito dallo stato che ha il monopolio della coniazione. Il sistema monetario è completato dal

bronzo, il cui nominale di riferimento è il nummus

che vale, dopo il decreto del 445 di Valentiniano

III (425 – 455), 1/7200 di solidus aureo. Le monete

più preziose hanno anche le frazioni: il mezzo

solido (semissis) e il terzo di solido (triens o

tremissis); la siliqua d’argento il cui peso è di 2,65

g. Il nummus ha invece un multiplo, il follis (17g),

coniato a Roma nel 476 e ben presto divenuto il mezzo di

pagamento prediletto negli scambi minuti quotidiani. Colpisce, in ogni modo, la scomoda mancanza di valori

intermedi tra il follis e il triens, specialmente dopo la scomparsa della moneta d’argento. La grande finanza

Solidus di Costantino il Grande

Follis di Costantino il Grande

2

beneficerà di questo provvedimento, ma a livello sociale le conseguenze saranno catastrofiche, poiché si

assisterà a un’inflazione galoppante delle monete minori. Un sistema monetario così complesso è segno di

un’economia sviluppata, che usa la moneta per scopi d’ogni genere, dall’acquisto di beni d’uso quotidiano

mediante la moneta di bronzo al pagamento delle tasse che sono riscosse in oro.

Per quel che riguarda la tradizione giuridica, il diritto romano intende la moneta come res principis e

sostiene che:

a) il diritto di coniare compete esclusivamente al sovrano;

b) i cives sono obbligati ad accettare in pagamento la moneta emessa;

c) sono puniti tutti coloro che falsificano il conio regio (crimine di lesa maestà).

Per quanto riguarda l’ultimo punto, il diritto imperiale romano ritiene fondamentale l’azione penale e

insufficiente quella civilistica, poiché non è il singolo privato a dover essere risarcito, ma l’intera comunità.

Il falsificatore, infatti, destabilizza la fiducia della popolazione nella quantità/qualità della moneta e invade

un campo che, come scritto nel punto a, appartiene al prìncipe.

Secondo il diritto romano, a fondamento del crimine di lesa maestà, vi è la concezione della moneta intesa

non come puro metallo o merce: sebbene fatta di metallo, non s’identifica con il materiale di cui è costituita;

inoltre, la moneta è il metallo di cui è fatta, ma il valore intrinseco (peso e fino) è oggetto di controllo statale.

Se il denaro fosse completamente identificato con il metallo di cui è costituito, verrebbe meno sia il

monopolio pubblico, in quanto qualsiasi privato potrebbe riservarsi il compito di battere moneta, sia il falso

nummario inteso come crimine di lesa maestà, il quale si ridurrebbe solo ad attentato alla fiducia del

pubblico. Se, invece, la moneta ‘eccede’ il metallo, significa che l’attività del prìncipe non deve limitarsi al

solo controllo del materiale della moneta (peso e fino), ma estendersi anche alla regolazione del mercato: la

moneta è qualcosa di più del semplice metallo e pertanto la fonte dell’eccedenza spetta esclusivamente al

sovrano. L’eco della tradizione giuridica romana si avverte nell’editto del 643 d.C. del re longobardo Rotari,

il quale prevede pene corporali per coloro i quali sono accusati di falsificazione o di libera coniazione

(emissione di moneta senza l’autorizzazione regia). Già nell’Alto Medioevo, dunque, il regime di coniazione

si articola in due diritti pubblici1:

ius cudendi nummos, ossia il monopolio pubblico di battere moneta;

ius imponendi valorem, cioè il privilegio del diritto pubblico di stabilire il valore estrinseco o

nominale della moneta.

Nei secoli V e VI gli Anglosassoni, i Franchi, i Longobardi e i Visigoti conservano l’uso della moneta

romana, anche se il sistema monetario inizia a semplificarsi. I sovrani barbari battono solamente la moneta

d’oro poiché sinonimo di prestigio2. La monetazione in bronzo e in argento è abbandonata nel corso del

secolo VI per queste cause: l’una non remunerativa e non più necessaria al sistema economico, l’altra a

1E. BARCELLONA, Ius monetarium. Diritto e moneta alle origini della modernità, Il Mulino (collana <<Percorsi>>), Bologna

2012, p. 98. 2 H. PIRENNE, Medieval Cities; trad. it. Le città del Medioevo a cura di E. Romeo, Laterza (collana <<Economica Laterza>>),

Roma – Bari 2007, p. 13.

3

seguito della scarsità del metallo stesso. Fatta eccezione per la Sicilia bizantina, dove con i denari di bronzo

si pagano le truppe, fino al secolo XV i governanti non conieranno più monete di questo metallo, pertanto

l’unica moneta sarà quella d’oro, posseduta in grande quantità dai re barbari. In che modo i sovrani

accrescono il loro tesoro se non si estrae più oro dalle miniere? Attraverso il commercio, i cui protagonisti

sono i Siri e gli Ebrei. Il raggio d’azione dei primi non si limita alle coste bagnate dal Mare Mediterraneo,

ma si estende anche a quelle lambite dal Mare del Nord; gli Ebrei, come i Siri, sono marinai e proprietari di

battelli, ma sono anche dediti alla medicina e al prestito a interesse. Per quest’ultima attività essi non sono

apprezzati dalla popolazione, mentre le autorità regie alternano momenti di tolleranza a episodi di

conversioni forzate: re Chilperico fa convertire alcuni di loro con la forza3, mentre altri fuggono a Marsiglia

al riparo da queste coercizioni4. Il commercio è fiorente e si vendono stoffe preziose, avori, armi di lusso,

spezie, papiro, di cui ci si serve come supporto per la scrittura, e olio, adoperato sia come alimento sia per

illuminare. Un’altra merce pregiata sono gli schiavi: le razzie nei paesi slavi alimentano la tratta. Le merci

elencate sostentano la circolazione dell’oro nelle città, dove si trovano scali frequentati dai commercianti e

dal resto della popolazione, cioè i porti, dai quali gli agenti regi prelevano i diritti doganali in denaro. Inoltre

i monarchi praticano il prestito a interesse, sebbene il concilio di Orléans del 528 lo proibisca5. Si chiarisce

così l’enorme quantità d’oro presente nei tesori

regi, arricchiti anche attraverso i sussidi

bizantini con cui gli imperatori comprano

l’alleanza dei sovrani barbari6.

Dalla fine del secolo VI, nella Gallia

merovingica e nella Spagna visigotica, l’oro

inizia a scarseggiare, poiché la bilancia

commerciale favorisce l’Oriente: i metalli

preziosi defluiscono verso i mercati orientali per pagare i beni di lusso, privando man mano la circolazione

interna del solidus. Il sistema di tassazione poi, di cui i sovrani barbari si sono serviti per accrescere il loro

tesoro, collassa proprio in questo secolo: d’altronde non c’è più un esercito da sostenere o un sistema di

comunicazione da tenere in buono stato. Al tempo del re longobardo Liutprando (712 – 744) le monete d’oro

sono scomparse dalla circolazione, fatta eccezione per il Ducato di Benevento e per i territori che rientrano

nell’orbita bizantina. Il secolo VII vede la fine della struttura economica e del sistema monetario della tarda

antichità: un nuovo nominale, il denarius, sarà d’ora in avanti l’unica moneta in uso. Questo nuovo denaro

(1,3 g), modellato sul vecchio triens, è completamente d’argento e non ha alcun rapporto ponderale con il

sistema monetario tardo – antico. Un secolo dopo l’Europa continentale assiste alla definitiva consacrazione

3 GREGORIUS TURONENSIS, Historiae Francorum, ed. Basilea 1568, VI, 17: <<Rex vero Chilpericus multos Iudaeorum eo

anno baptizare praecipit, ex quibus pluris excipit a sancto lavacro.>> 4 GREGORIUS TURONENSIS, Historiae Francorum, ed. Basilea 1568, V, 11: <<Fuerunt autem qui baptizati sunt amplius

quingenti. Hii vero qui baptismum noluerunt discedentes ab illa urbe, Massiliae redditi sunt.>> 5 R. MANSELLI, Il pensiero economico del Medioevo, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, a cura di L. FIRPO, II,

2, Il Medioevo, Unione Tipografico, Torino 1983, p. 825. 6 H. PIRENNE, Mahomet et Charlemagne; trad. it. Maometto e Carlomagno a cura di M. Vinciguerra, Laterza (collana

<<Economica Laterza>>), Roma – Bari 2007, p. 44.

Denarius di Carlomagno

4

del denarius grazie alle riforme di Pipino il Breve e di Carlomagno7. L’obiettivo dei capitolari carolingi è

risolvere il caos monetario provocato sia dalla modificazione del rapporto commerciale di valore tra oro e

argento sia dalla persistenza di un vecchio sistema normativo di ammende monetarie fondato sulla

corrispondenza di 1 solidus e 40 denarii, ormai indifendibile a causa della rarefazione dell’oro. Carlomagno,

al fine di risolvere l’uno e l’altro problema, tra il 781, anno del Capitolare di Mantova, e il 795, anno del

Concilio di Francoforte, mette a punto la riforma monetaria che sarà poi estesa ai regni di Mercia e di Kent

dai re Etelberto II e Offa. L’imperatore stabilisce la riappropriazione del conio da parte del potere pubblico e

interrompe la coniazione dell’oro inaugurando il periodo ultrasecolare di monometallismo argenteo: la

moneta d’oro non cessa di circolare, tuttavia si deve attendere il 1252, affinché l’Occidente torni a battere

una propria moneta d’oro. Le cause del ritardo sono: rallentamento del mercato interno che confina l’oro a

strumento di pagamento eccezionale; frazionamento degli Stati, i quali non garantiscono stabilità alla moneta;

dominio economico bizantino e islamico8. Il provvedimento imperiale, inoltre, ordina che dal peso di una

libbra, 409 g, siano coniati 240 denarii, ciascuno del peso di 1,76 g (il fino è di 1,6 g, cioè a 950/1.000 di lega).

Infine, si stabilisce una nuova equivalenza tra solidus, del quale rimane solo il ricordo come unità di conto, e

i denari d’argento: 240 denari = 20 soldi (12 x 20) = 1 lira (libbra). Da questo momento, ha inizio la storia

monetaria della lira di conto, definita dallo storico Carlo M. Cipolla <<fantasma dal piede d’argento>>9:

Una storia tanto avventurosa quanto strana. E la stranezza era già evidente dall’inizio. La lira moneta nacque come moneta

materialmente inesistente, come pura unità ideale di conto. La gente cominciò a parlare di lire, a trattare e vendere in lire, senza che

alcuno mai avesse visto o toccato una lira in forma di moneta. Il curioso è che rimane un fantasma per quasi mille anni. Questo strano

fantasma rappresentò comunque al suo nascere l’unità di misura dei valori per tutto o quasi l’Occidente cristiano del tempo. Dalle

rive britanniche della Manica, alla corte di Aquisgrana, alla pianura padana, alle colline toscane, la lira d’argento fu la comune unità

di misura dei valori e dovunque essa significava 240 denari.

Sebbene la lira di conto sia multiplo del denaro effettivo, il sistema monetario introdotto da Carlomagno

non può essere definito come sistema di moneta di conto, poiché lira e soldo sono soltanto sinonimi dei

denari e ci si serve di essi per semplificare le operazioni di calcolo10.

Carlomagno, però, fallisce nel tentativo di accentrare l’intera produzione monetaria ad Aquisgrana:

l’ambizioso progetto dell’imperatore, il cui modello è la zecca di Costantinopoli presso cui è accentrata

l’intera coniazione, cede il passo al sistema longobardo il quale prevede che le zecche siano aperte nei

maggiori centri del regno. Infatti, durante il governo di Carlomagno, si aprono le zecche di Colonia, Bonn,

Maastricht, Huy, Namur, Cambrai, Saint Trond, Trongres, Liège, Verdun, Treviri, Metz, Mainz, Strasburgo,

Duurstede, Melle, Barcellona, Ampurias, Lucca, Milano, Roma e Pavia 11 . Tutti i coniatori dell’Impero

carolingio sono inoltre inseriti in elenchi pubblici (ministeria) e sono alle dipendenze dei magistri12. La

moneta carolingia si diffonde in Sassonia, Baviera, Marca di Spagna e regno longobardo d’Italia, fatta

7 C. M. CIPOLLA, Le avventure della lira, Il Mulino (collana <<Intersezioni>>), Bologna 2012, p. 19. 8 M. BLOCH, Le problème de l’or au Moyen Age; trad. it. Il problema dell’oro nel Medioevo a cura di G. Procacci, in Lavoro e

tecnica nel Medioevo, Laterza (collana <<Economica Laterza>>), Roma – Bari 2009, pp. 124 – 145. 9 CIPOLLA, Le avventure della lira cit., pp. 22 - 23. 10 CIPOLLA, Le avventure della lira cit., pp. 21 – 22. 11 SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe, Cambridge University Press, Cambridge, 1988, pp. 40 – 41. 12 R. S. LOPEZ, An Aristocracy of Money in the Early Middle Ages, Medieval Academy of America, Cambridge (Massachusetts),

p. 9.

5

eccezione per i ducati di Spoleto e di Benevento, protettorati di Carlomagno, dove prevale la moneta d’oro

bizantina o araba. Il sistema monetario carolingio consiste di un solo pezzo monetale senza multipli e

sottomultipli, il che rappresenta un indubbio inconveniente. Ad esempio, se si volessero acquistare schiavi,

gioielli, terre o cavalli, il denarius non sarebbe vantaggioso, poiché occorrerebbero migliaia di pezzi per la

transazione; è oltremodo svantaggioso come strumento di scambi minuti quotidiani, poiché sarebbe

impossibile comprare un pane, in quanto 1 denarius corrisponde, nel 794, al prezzo di 12 pani di frumento.

L’inconveniente è però tollerato, poiché lo scambio dei beni avviene senza intervento della moneta e

l’economia dell’Europa carolingia ha un alto grado di autoconsumo. Infatti, Ludovico il Pio (814 – 840),

consapevole del valore sussidiario del denaro, dispone che le decime dovute alla Chiesa siano pagate in

natura o in denaro in mancanza della prima13. In questo secolo il denaro non è segno di potere: nella

Catalogna del secolo VIII un uomo ha in proprietà terre che gli dànno ricchezze, ma è nello stesso tempo

humil, perché è dipendente del re14. Si verifica anche il paradosso per cui più si è ricchi meno denaro si

possiede: il vescovo Raterio di Verona, nei suoi Praeoloquia del 936, elenca le ricchezze dei dives, le quali

sono costituite da terre, animali, amicizie, attrezzi e altro. A conclusione della lista, come fosse un’appendice,

egli menziona l’oro e l’argento15. Infine, nel linguaggio economico dell’Alto Medioevo, la parola latina

pecunia sta a indicare terre, edifici e animali; solo dal 1100, pecunia avrà un significato strettamente

monetario16.

Sebbene il ciclo economico non sia favorevole, l’economia carolingia non è però chiusa, come Pirenne

sostiene17, ma irregolare18. Arras, insediamento gallo – romano, e il porto di Gand, costruito nel secolo IX,

distrutto dai Normanni, ma ricostruito sino a diventare città commerciale, commerciano pellicce, panni di

Frisia, vino del bacino di Parigi, delle valli della Mosella e del medio Reno, armi, schiavi, sale e grano di

Franconia. Periodicamente interrotti a causa delle devastazioni magiare, sopravvivono gli scambi tra la Loira

e il Reno, dove le barche trasportano vino, olio, grano e panni fiamminghi. Traffici di merci e di schiavi si

registrano tra la valle del Rodano e l’emirato musulmano di Spagna. L’aria più vivace dell’Impero carolingio

è il già regnum Langobardorum. Nella valle del Po la rete di comunicazione fluviale permette scambi con i

territori bizantini. I mercanti di Comacchio risalgono il Po sino a Pavia per vendere olio, sale e spezie

provenienti dall’Oriente in cambio di grano per le regioni costiere. Nel secolo IX il commercio sul Po non

sarà più monopolio di Comacchio, poiché il fiume sarà solcato dalle navi dei cremonesi e dei veneziani che

stipuleranno patti con i Carolingi e, nel secolo X, acquisteranno basi costiere in Dalmazia.

Il sistema monetario carolingio diviene sistema di moneta di conto a causa di continui slittamenti, che non

permettono all’equivalenza imposta da Carlomagno (1 lira = 20 soldi = 240 denari) di mantenere il suo

originario significato ponderale. Si assiste, così, a una scissione tra la moneta come unità di conto e la

13 BARBERO, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Laterza (collana <<Economica Laterza>>); Roma – Bari 2006, cit., p. 319. 14 J. LE GOFF, Le Moyen Age et l’argent. Essai d’anthropologie historique; trad. it. Lo sterco del diavolo. Il denaro nel

Medioevo a cura di P. Galloni, Laterza (collana <<Economica Laterza>>), Roma – Bari 2010, p. 9. 15 A. MURRAY, Reason and Society in the Middle Ages; trad. it. Ragione e società nel Medioevo a cura di M. Lucioni, Editori

Riuniti (collana <<Biblioteca di storia>>), Roma 2002, p. 40. 16 MURRAY, Ragione e società nel Medioevo cit., p. 61. 17 PIRENNE, Maometto e Carlomagno cit., p. 227. 18 M. BLOCH, La société féodale ; trad. it. La società feudale a cura di B. M Cremonesi, Einaudi (collana <<Piccola biblioteca

Einaudi. Nuova serie>>), Torino 1999, p. 84.

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moneta come mezzo di pagamento: la popolazione continua a contare in lire e soldi, sebbene 1 lira non

corrisponda più a 240 denari. Il regime della moneta immaginaria o di conto nasce allora per

consuetudinem 19 e consente la scissione tra moneta come misura di valori e moneta come mezzo di

pagamento (oggigiorno una medesima banconota assolve a entrambe le funzioni): un panno costa 10 lire, ma

l’acquirente si libera dell’obbligazione versando al venditore non le lire, le quali non esistono perché mai

coniate, ma quel numero di denari che corrispondono in quel momento a 10 lire. Il prezzo può quindi essere

nominalmente costante (10 lire), ma il rapporto tra moneta come unità di conto e moneta come mezzo di

pagamento (denarius) muta a seconda delle circostanze e delle ordinanze pubbliche.

La separazione tra moneta di conto e moneta effettiva è dovuta, secondo l’economista Luigi Einaudi, alla

forma mentis e alla prepotente aspirazione degli uomini del Medioevo di separare il mezzo di scambio dalla

misura di valore, il contingente dal necessario e il temporale dall’immutabile20.

Nel regime giuridico della moneta immaginaria, vi sono due macroprincipi, l’uno gius – privatistico e

l’altro gius – pubblicistico21:

il macroprincipio gius – privatistico impone l’obbligo di pattuire i prezzi dei contratti di

compravendita in termine di moneta di conto. Un’applicazione di tale imperativo è quella del

divieto di clausola – oro: se le parti predeterminassero l’equivalente metallico dell’obbligazione

di pagamento, si avrebbe non un’obbligazione monetaria, ma solamente permuta;

il profilo gius – pubblicistico permette di articolare lo ius imponendi valorem in due sotto –

articolazioni: ius nominandi monetam cudendam, ossia attribuzione di un valore nominale esterno

al metallo portato in zecca per la monetazione (tariffa); ius nominandi monetam cussam, cioè

potere di aggiornare periodicamente il valore nominale delle monete già circolanti.

Il regime della moneta di conto consente al re di determinare periodicamente, attraverso l’ordinanza regia

o grida, il valore nominale di tutte le monete circolanti, prescindendo dal loro passaggio in zecca. Le

mutazioni sono, da un punto di vista tipologico, duplici: mutazione reale in zecca e quella nominale

attraverso la tariffa. La prima può portare a un indebolimento o rafforzamento del contenuto metallico a

parità di valore nominale. La seconda, invece, si verifica quando il re modifica il cambio ufficiale tra la

moneta effettiva e quella di conto: si può assistere a un innalzamento se la moneta effettiva ha un maggior

valore estrinseco (il denaro che, precedentemente tariffato 1 lira, ne vale ora 2) o a un abbassamento se alla

moneta effettiva si attribuisce minor valore nominale (1 denarius si tariffa ora a ½ di lira). Naturalmente,

alla mutazione reale dell’indebolimento corrisponde quella nominale dell’alzamento (a una minore quantità

di metallo corrisponde pari o maggior valore nominale), mentre alla mutazione reale del rafforzamento segue

quella nominale dell’abbassamento (a una maggiore quantità di metallo corrisponde pari o minor valore

nominale). Se ogni moneta effettiva soggiace alla relazione che ha con quella di conto, allora si giunge alla

conclusione secondo cui sulle monete circolanti è inutile imprimere il valore nominale. Contrariamente alle

19 BARCELLONA, Ius monetarium cit., p. 118. 20 BARCELLONA, Ius monetarium cit., p. 120. 21 BARCELLONA, Ius monetarium cit., p. 121.

7

odierne banconote, che recano il loro valore estrinseco, se sulle monete medievali fosse impresso il valore

nominale, il potere del prìncipe d’aggiornamento periodico tra unità di conto e di pagamento sarebbe

precluso: la moneta ‘denarius’ non dà alcuna indicazione numerica, salvo il nome del mezzo di pagamento,

perché il valore nominale è di volta in volta determinato arbitrariamente dal re. Il monopolio pubblico,

dunque, non consiste tanto nel diritto di battere moneta o di darne il valore in zecca quanto nel legare,

attraverso una relazione, la moneta di valore e quella effettiva.

Contrariamente all’area commerciale incentrata sul Mare del Nord e in via d’unificazione attraverso il

denarius, nell’Europa mediterranea la moneta principale è il solidus aureo (nomisma in greco). Quest’ultimo,

nel secolo VI e VII, è, assieme al nummus di bronzo, il pilastro sul quale poggia il sistema monetario

bizantino: 1 libbra d’oro corrisponde a 72 solidi, mentre il nummus vale 1/7200 del nomisma. La moneta d’oro

ha anche le sue frazioni: il mezzo solido (semissis) e il terzo di solido (triens o tremissis). Il nummus ha solo

multipli, come il follis (follaro) che vale 40 nummi. Impegnato in guerre contro gli Avari e i Persiani,

l’Impero bizantino si dota nel 615 di una nuova moneta d’argento: Eraclio I (610 – 641) fa coniare

l’hexagramma, pesante 6,8 g (5 o 6 volte più pesante del denarius carolingio). Esso reca la scritta <<Dio

aiuti i Romani>> ed è impiegato per pagare le truppe mercenarie bizantine in seguito alla diminuzione del

gettito fiscale dovuto alla perdita di diverse province22. Prima dell’introduzione dell’hexagramma l’Impero

d’Oriente ha comunque dato corso ai miliarenses, vale a dire le monete d’argento persiane e del Tardo

Impero. L’hexagramma ha vita breve, poiché l’espansione araba, privando l’Impero bizantino dell’argento

necessario, costringe l’imperatore Costante II (641 – 688) a farne cessare la produzione. Il provvedimento di

contenimento della spesa, promulgato da Eraclio I, è accompagnato anche dal riordino dell’amministrazione

provinciale: le province dell’Asia Minore, già raggruppate in diocesi, sono rimpiazzate da unità chiamate

themata (temi), ciascuna governata da uno stratêgos (generale) le cui competenze comprendono affari

militari e civili. Svolto il reclutamento su base locale, i soldati ricevono elargizioni di terre vincolate alla

prestazione di servizio militare su base ereditaria. Nel 720 Leone III l’Isaurico (717 – 741) emette una nuova

moneta d’argento, il miliaresion, più leggera dell’hexagramma. L’ultima unità di peso e di valore, di cui

l’Impero d’Oriente è dotato, è il keration, che vale 1/1728 della libbra romana, 1/144 dell’oncia romana (0,189 g)

e 1/24 del nomisma. Il keration è solo un’unità di conto e si utilizza per calcolare la quantità di moneta

presente nel tesoro bizantino, sebbene gli incassi e i pagamenti si effettuino in solidi, miliaresia o folles.

22 SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe cit., p. 37.

8

Tabella 1 – Schema riassuntivo del rapporto tra i conii menzionati.

1 solidus 2 semissis 3 tremissis 12 miliaresia 24 siliqua 180 folles 7.200 nummi

1 semissis 1 ½ tremissis 6 miliaresia 12 siliqua 90 folles 3600 nummi

1 tremissis 4 miliaresia 8 siliqua 60 folles 2400 nummi

1 miliaresion 2 siliqua 15 folles 600 nummi

1 siliqua 7 ½ folles 300 nummi

1 follis 40 nummi

1 nummus

Momento cruciale della storia monetaria bizantina è la riforma attuata dall’imperatore Niceforo II Foca

(963 – 969). Egli fa coniare una nuova moneta d’oro, il tetarteron, più leggera del nomisma, cui è dato

invece un nuovo nome, l’histamenon. Quest’ultimo ha

lo stesso peso e valore del vecchio nomisma, tant’è

che il termine histamenon significa proprio ‘ciò che è

stabile’. Il tetarteron (dal greco ‘quarto’) vale invece

3/4 dell’histamenon ed è introdotto per trarre maggiori

profitti attraverso la tassazione. In seguito, tra il 1025

e il 1092 (anno della riforma monetaria di Alessio I

Comneno), si assisterà a una graduale riduzione del

contenuto di metallo prezioso dell’histamenon e del tetarteron: essi diverranno più scuri, perché sempre più

bronzo sarà amalgamato con l’oro. Lo svilimento delle monete d’oro ha precisamente inizio durante il regno

di Michele IV il Paflagone (1034 – 1041) il quale fa coniare solidi a 23 o a 19 carati. Si osserva una

leggerissima adulterazione dell’oro negli ultimi anni del regno di Costantino IX (1042 – 1055) e

un’accresciuta circolazione di argento e bronzo,

segno di una maggiore attività economica e dello

sviluppo dell’economia urbana. Per i successivi

sedici anni il fino si attesta intorno a 18/17 carati,

ma nel 1071, a seguito della sconfitta di Mantzikert

(oggi Malazgirt), l’imperatore Michele VII (1071 –

1078) è costretto a operare un altro aggiustamento.

Nei primi anni del regno dell’imperatore Alessio I

Comneno (1092 – 1118) il contenuto d’oro

nell’histamenon è pressoché scomparso: le monete sono ora a 8 carati. Nel 1092 l’imperatore pone rimedio

alla svalutazione attuando una riforma monetaria: l’histamenon e il tetarteron sono messi fuori corso ed è

Histamenon di Niceforo II Foca

Hyperpyron di Alessio I Comneno

9

coniata una nuova moneta d’oro, l’hyperpyron (super – puro) di 4,5 g a 20 carati23; cessano d’essere coniati,

a causa della scarsità d’argento nelle miniere dell’Asia Centrale, anche i miliaresia che divengono solo unità

di conto del valore di 1/12 dell’hyperpyron. Quest’ultimo, moneta principale dei traffici internazionali,

sostituito successivamente dal fiorino d’oro, sarà battuto fino al regno di Giovanni III Vatatze, che governa,

in esilio da Costantinopoli, a Nicea dal 1222 al 1254.

23 P. GRIERSON, Catalogue of the Byzantine Coins in the Dumbarton Oaks Collection and in the Whittemore collection ,

Dumbarton Oaks, Washington, D.C. 1973, pp. 14 – 44.

10

Le tappe del processo di svilimento del nomisma sono sintetizzate nella tabella che segue.

Tabella 2 – Lo svilimento del nomisma (1025 – 1081).

Imperatore Moneta Carati

Costantino VIII (1025 – 1028) Histamenon

Tetarteron

22 ½ / 23 ½

22 ½ / 23

Romano III (1028 – 1034) Histamenon

Tetarteron

22 / 23

22

Michele IV (1034 – 1041) Histamenon 19 ½ 23 ½

Costantino IX (1042 – 1055) Histamenon, Classe I

Histamenon, Classe II

Histamenon, Classe III

Histamenon, Classe IV

Tetarteron, Classe I

Tetarteron, Classe II

20 / 23

20 / 22

20 ½

19 ½

20 ½

17 ½

Teodora (1055 – 1056) Histamenon

Tetarteron

17 ½ / 18 ½

17 ½

Michele VI Tetarteron 16 / 17 ½

Isacco I (1057 – 1059) Histamenon 18 ½

Costantino X (1059 – 1067) Histamenon, Classe I

Histamenon, Classe II

17 ½ / 19

18

Romano IV (1068 – 1071) Histamenon

Tetarteron

16 / 18

16

Michele VII (1071 – 1078) Histamenon, Classe I

Histamenon, Classe II

Tetateron, Classe I

Tetarteron, Classe II

Tetarteron, Classe III

16

12 ½ 14 ½

14 / 15

14 / 15

7 ½ 11 ½

Niceforo III (1078 – 1081) Histamenon, Classe I

Histamenon, Classe II

Histamenon, Classe III

8 ½ / 9

9

8 ½ 9 ½

FONTE: GRIERSON, Catalogue of Byzantine Coins, p. 40.

11

Tra il 630 e il 640 inizia l’espansione degli arabi i quali sottraggono l’Egitto e le restanti province

medio – orientali all’Impero bizantino (642). Con la perdita dei territori orientali e di quello egiziano,

quest’ultimo rappresentante circa un terzo di tutte le entrate statali bizantine, l’Impero d’Oriente vede

crollare il reddito generale, che si riduce a una piccola parte di quello che è stato nel secolo VI24. Nel 700 gli

Arabi conquistano tutte le province nordafricane e quelle del Mediterraneo occidentale, fatta eccezione per

un presidio bizantino nelle Baleari. Le già province bizantine realizzano, assieme all’India nord – occidentale

e alla Mesopotamia, una vasta area commerciale. Nel 711 l’esercito arabo sbarca nella penisola iberica e

sotto la guida di Tāriq sconfigge Rodrigo nella battaglia di Guadalete, aprendo così le porte all’occupazione

araba della Spagna. Qui i mercanti occidentali esportano una merce pregiata e costosa quale sono gli schiavi

razziati nell’Europa centrale, di cui l’Islam ha bisogno, in cambio di monete d’oro utilizzate per acquistare le

merci bizantine. Si crea dunque una circolazione triangolare dell’oro: il metallo giunge in Europa dalla

Spagna musulmana, si dirige a Costantinopoli che tratta solo in oro, e da qui ritorna nell’Impero islamico25.

Infine gli Arabi penetrano in Sicilia nell’827 e strappano Messina nell’831, Palermo nell’832, Enna nell’858

e Siracusa nell’878 all’Impero bizantino: nell’isola la prima moneta araba è coniata nell’835 dalla zecca di

Palermo26.

Il vastissimo dominio islamico si dota di un proprio sistema monetario durante gli anni del califfo ‘Abd

al-Malik (696 – 699). Egli fa coniare il dīnār d’oro di

4,25 g, il tarì d’oro di 1,05 g e il dirham d’argento di

2,97 g, quest’ultimo modellato sulla dracma persiana.

Queste monete, conosciute con il nome di manqûsh

(denari incisi), presentano iscrizioni arabo –

islamiche e saranno le concorrenti del soldo

bizantino. Gli Arabi fabbricano le monete,

avvalendosi della monetazione al martello, tecnica di

conio d’origine persiana in seguito esportata in Europa27: il tondello, freddo o riscaldato, è collocato tra due

conii metallici di durezza maggiore e quello superiore è colpito da un martello facendo sì che figure e

iscrizioni incise in negativo sui conii s’imprimano in positivo sulla moneta finita. La coniazione di monete

dall’alto valore intrinseco è possibile grazie alle fiorenti miniere di oro e argento dell’Armenia e delle regioni

transoxiane intorno a Kabul e Taskent. La prosperità della civiltà araba si deve all’agricoltura e al commercio.

In particolare, la prima si avvale di tecniche innovative con cui si sottraggono al deserto sempre più terre,

coltivate da una consistente manodopera, gran parte schiava, proveniente dall’Europa. Il commercio sfrutta

le vie d’acqua, più veloci di quelle terrestri: l’oceano Indiano, il Mare Mediterraneo, i fiumi e i canali. Agli

Arabi, però, manca il legname necessario per la costruzione delle navi, poiché gran parte delle zone boschive

nei dintorni dei centri cittadini sono state spogliate. Il legname è fornito, assieme ad altre merci di cui l’Islam

24 J. F. HALDON, Bisanzio: lo stato romano orientale, in Storia medievale, a cura di AA.VV., Donzelli (collana <<Manuali

Donzelli>>), Roma 1998, p. 147. 25 MURRAY, Ragione e società nel Medioevo cit., pp. 45 – 54. 26 C. M. CIPOLLA, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Il Mulino (collana <<Storica paperbacks>>), p. 249. 27 SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe cit., pp. 39 – 40.

Dīnār di ‘Abd al-Malik

12

ha bisogno, pelli di martora e di zibellino, dall’Europa del nord – est. Attraverso i fiumi russi, le monete

arabe transoxiane giungono nell’Europa orientale, lì chiamate kufic, creando circolazione monetaria sul posto,

fin a quel momento troppo ristretta. La circolazione monetaria favorisce la produzione locale di monete: dal

secolo IX la Boemia inizia a sfruttare i propri giacimenti d’argento. In seguito l’ondata monetaria araba

raggiungerà l’ovest, in particolare l’Inghilterra, la Germania e la Francia.

Il sistema monetario carolingio entra in crisi sul finire del secolo IX a causa della sua debolezza politica,

delle migrazioni e delle invasioni. Da sud si moltiplicano le incursioni dei pirati saraceni, che controllano le

coste delle Baleari, della Sardegna e della Corsica. Essi si stanziano in Campania presso le foci del fiume

Garigliano e in Puglia e fondano una vasta base sul rilievo del Frassineto (890). Da qui risalgono le valli

alpine fino all’alto Rodano e all’alto Reno e discendono nel Delfinato e in Piemonte: saccheggiano all’inizio

del secolo X la ricca abbazia della Novalesa, occupano la valle di Susa e sconvolgono i villaggi francesi e

piemontesi. Solo dal secolo XI, con l’arrivo dei Normanni nel meridione d’Italia e l’azione combinata delle

città marinare di Pisa, Genova e Amalfi, il Mediterraneo occidentale sarà liberato. Alla fine del secolo IX,

provenendo dai bacini del Volga e del Don, irrompe un popolo nomade, gli Úngari. Dopo aver attraversato i

Carpazi, essi si stanziano per sempre in Pannonia e da lì, per oltre mezzo secolo, devastano ogni anno molte

regioni della Germania. Nell’899 le loro orde saccheggiano la pianura del Po, la Baviera e la Svevia. Tra la

fine del secolo IX e la prima metà del secolo X devastano l’Alsazia, la Lorena, la Borgogna e la Linguadoca

e rendono tributarie una serie di signorie territoriali a contatto con la Pannonia occidentale. Nel 924 radono

al suolo Pavia e nel 926 incendiano Verdun. Essi risparmiano le popolazioni imponendo loro pesanti tributi:

la Baviera, la Sassonia e il Regno d’Italia del re Berengario II soggiacciono al giogo magiaro. Epidemie,

spedizioni di volta in volta meno proficue e trasformazioni in seno alla società ungara porranno termine alle

loro incursioni. Fra il secolo VIII e IX comincia l’età dei Vichinghi provenienti dalla Danimarca, dalla

Norvegia e dalla Svezia e diretti verso l’Europa insulare, gli estuari dei fiumi della Germania nord –

occidentale e della Gallia, le coste atlantiche dell’Asturia e della Galizia e i territori della Spagna musulmana.

I Normanni distruggono i porti carolingi di Quentovic e di Duurstede, imponendo alla popolazione frisóna un

tributo di 100 libbre d’argento. Nell’841 saccheggiano Rouen; tra l’844 e l’860 colpiscono le Baleari, Pisa e

il Basso Rodano; si stanziano nella Neustria e in quella regione che da loro prende il nome, la Normandia;

muovendo dalle rive fluviali, essi saccheggiano quasi tutta la Gallia e la Renania. La fine delle invasioni

vichinghe è dovuta alla seppur tardiva difesa dei prìncipi occidentali e al consolidamento delle sovranità

normanne che interdicono per sempre le imprese isolate28. Infine la crisi politica che attraversa l’Impero, il

quale perde il controllo sulle zecche di cui s’impadroniscono i prìncipi feudali. L’attività della zecca è ora

stimolata forzando la popolazione a consegnare la vecchia moneta in cambio di una nuova, il cui valore è

fissato arbitrariamente dall’autorità locale. Poiché è la volontà del prìncipe a determinare il ritmo di

coniazione, le zecche lavorano a singhiozzo (by fits and starts)29. I prìncipi inoltre introducono un nuovo

28 BLOCH, La società feudale cit., pp. 16 – 53. 29 LOPEZ, An Aristocracy of Money in the Early Middle Ages cit., p. 10.

13

peso monetario, il marco di 218 g30, e coniano monete di tipo immobilizzato (l’effigie reale e il nome di un

re non corrispondono a quelli del sovrano regnante)31: ad esempio, i conti di Auxerre battono monete senza

far incidere il nome del re, mentre i conti di Poitou coniano denari nel nome di Carlo il Calvo, morto

nell’899, fino al secolo XI32.

Nel secolo X, a seguito dell’apertura delle miniere dello Harz, Ottone I, divenuto imperatore nel 962,

conia una nuova moneta d’argento, lo pfennig. In Italia, dopo l’annessione del Regno italico all’Impero

romano – germanico (952), hanno corso anche gli ottolini (con riferimento ad Ottone III) e gli enriciani (con

riferimento ad Enrico III). I denari ottoniani sono coniati su un nuovo piede monetario: infatti, il peso dello

pfennig è di 1,4 g, il contenuto di metallo prezioso è di 1,2 g e la libbra equivale a 330 g. Si può comparare il

valore della libbra carolingia con quella ottoniana riferendole entrambe all’oro: la prima equivale a 30 g

d’oro, la seconda a 25 g33. Le tecniche di conio, che ora permettono la preparazione della moneta, sono

differenti da quelle praticate nell’Antichità e nel periodo carolingio: si preparano tondelli non sgrossati, da

cui si ricava, dopo numerose rifiniture, la moneta34.

Il denaro ottoniano, che circola dapprima nella Sassonia, si diffonde in Renania, consentendo così la

riapertura della zecca di Colonia, che diviene una delle più prolifiche, e di quelle d’epoca carolingia di Liège,

Maastricht, Huy e Visé, chiuse dopo il 908 ma riaperte nel 983. La generale rinascita del commercio del

secolo X diffonde lo pfennig in tutta l’Europa occidentale, fatta eccezione per la Francia, e in quella orientale.

La moneta imperiale raggiunge l’Italia del nord, la Baviera, la Boemia, l’Ungheria spingendosi fino alle

coste del Mar Nero. Una volta giunto in Polonia, esso si diffonde ben presto in Pomerania. Grazie al

commercio di pellicce che l’Inghilterra intrattiene con la Frisia, tornata a fiorire in concomitanza con il

rinnovato slancio monetario, lo pfennig, inizialmente concentrato solo nel sud – est dell’Inghilterra, si

diffonde nel nord – ovest e in Irlanda. Nell’isola britannica la circolazione di moneta straniera è vietata dalla

legge del 930 del re sassone Aethelstan, che dispone che essa sia tutta riconiata su un tipo nazionale sotto il

controllo regio. La circolazione del denaro di Ottone si attesta anche in Danimarca, Norvegia, Svezia, Russia

e nell’isola di Gotland. Nei paesi scandinavi la nascita di sistemi monetari indigeni, esperimenti destinati

peraltro a fallire fin da subito, e la conversione al cristianesimo dei sovrani collimano: Stefano I d’Ungheria,

convertitosi al cristianesimo nei primi mesi del 1001, batte una moneta nazionale immediatamente dopo il

battesimo; Miecislao I di Polonia, ricevuto il battesimo nel 966, dota poco dopo il suo regno di monete

nazionali; la coniazione di monete d’oro e d’argento prende piede anche in Russia in seguito alla conversione

di Vladimiro I di Kiev avvenuta nel 988. I modelli delle monete russe sono, più che lo pfennig, il nomisma e

il dirham. Per spiegare la concomitanza tra conversione al cristianesimo e coniazione di monete, bisogna

considerare il ruolo dei missionari, che, provenendo da società in cui la moneta è segno di sovranità, rivelano

ai loro nuovi re lo straordinario potere politico che il denaro avrebbe rivestito anche nei loro regni di recente

fondazione. In Norvegia la coniazione locale ha inizio con Olaf Tryggvason, sebbene fallisca poco prima

30H. PIRENNE, Le mouvement économique et social du Xe au XVe siècle ; trad. it. Storia economica e sociale del Medioevo a

cura di M. Grasso, Newton Compton (collana <<Grandi tascabili economici>>), Roma 2012, p. 127. 31 P. DELOGU, Introduzione alla storia medievale, Il Mulino (collana <<Itinerari>>), Bologna 2003, p. 186. 32 SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe cit., p. 56. 33 CIPOLLA, Le avventure della lira cit., p. 27. 34 LE GOFF, Lo sterco del diavolo cit., p. 10.

14

dell’anno Mille. In seguito Harald Hardråde impone in modo permanente la monetazione locale in Norvegia:

le sue monete contengono circa il 97% d’argento. Tuttavia, dal 1060, poco prima della morte di re Harald, la

moneta norvegese contiene più della metà di bronzo e zinco e solo il 45% d’argento. Nella Saga dei Faroesi,

che traccia la storia di questo popolo dal loro insediamento nelle isole Fær Øer fino all’annessione al Regno

di Norvegia, un aneddoto narra che i re norvegesi sono lieti di battere monete dal basso valore intrinseco, ma

sono sconsolati quando le ricevono attraverso la tassazione.

Negli stati, che sono più vicini alle miniere dello Harz e più dipendenti dall’area imperiale tedesca,

predomina lo pfennig: in Danimarca, dove la moneta locale si diffonde grazie a re Canuto I (1018 – 1035), e

in Norvegia circolano più pfennigs che dirhams; nell’isola di Gotland e in Russia passano di mano più

dirhams che pfennigs a causa dei più stabili rapporti commerciali intrattenuti con l’Impero bizantino e il

mondo arabo35. In ogni modo, lo slancio monetario favorisce l’apertura di nuove zecche in Germania tra il

752 e il 1125 e in Inghilterra, dove si coniano monete secondo i moduli del re, tra il 950 e il 1066. In Italia

prima del 1000 sono aperte solo quattro zecche, cioè quelle di Lucca, Milano, Pavia e Verona; in seguito si

apriranno le zecche di Ascoli, Parma e Susa (1037), di Genova (1138), di Asti e Piacenza (1140), di Pisa

(1151), di Cremona (1155), di Volterra (1159), di Ancora (1170), di Siena (1180), di Brescia (1184), di

Bologna (1191), di Arezzo (1196), di Ferrara e Mantova (prima della fine del secolo XII), di Firenze e Acqui

(agli inizi del secolo XIII), di Fermo (1220), di Reggio nell’Emilia (1233), di Bergamo e Modena (1242), di

Chambery (1263) e di Torino (1297)36. In Germania e in Italia, in relazione al trionfo del particolarismo

politico e amministrativo, si coniano monete secondo moduli differenti: in particolare, nella penisola italiana

compaiono tante libbre quanti sono i denari, cioè la libbra dei denari di Lucca, di Milano, di Pavia e di

Verona37. Parallelamente all’apertura di nuove zecche, sorgono anche le aree monetarie, che corrispondono

alle aree di sovranità politica. Nell’Italia centro – settentrionale si formano le aree monetarie della lira

veneziana, di quella milanese, fiorentina, genovese e sabauda. Medesimo discorso si fa per la Francia, dove

sorge l’area monetaria della lira parigina e tornese, e per il resto d’Europa, nella quale si forma l’area della

lira fiamminga, inglese e spagnola. Nel Medioevo, le monete effettive circolano di stato in stato senza essere

soggette ai controlli valutari38. Tuttavia, quando esse si trovano all’interno di un determinato stato, sono

soggette alle ordinanze del sovrano, che, attraverso la sua moneta di conto, tariffa tanto le monete locali, cioè

quelle coniate nel suo regno, quanto quelle straniere, ossia quelle provenienti da una zecca non appartenente

al regno. Così se ci si trovasse nell’area monetaria inglese, il valore nominale, non solo delle monete emesse

dalla zecca nazionale, ma anche di quelle straniere, sarebbe determinato dall’autorità pubblica: pertanto, ciò

che è veramente nazionale è solo la moneta di conto, quelle metalliche sono prive di cittadinanza.

35 SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe cit., pp. 74 – 105. 36 CIPOLLA, Storia economica dell’Europa pre-industriale cit., pp. 235 – 237. 37 CIPOLLA, Le avventure della lira cit., pp. 30 – 31. 38 BARCELLONA, Ius monetarium cit. p. 131.

15

FONTE: SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe, p. 137.

Figura 1 - Movimento dell'argento nel secolo XIII.

16

Le città del secolo X crescono per popolazione, per traffici e per attività artigianali e ciò è possibile grazie

all’incremento demografico e produttivo dovuto allo sviluppo delle campagne. Il sistema economico dell’età

carolingia, fondato sulle curtes, sull’autarchia e sul lavoro servile, entra in crisi ed è sostituito da quello

basato sulle città, sugli scambi e sul lavoro salariato. Secondo la ricostruzione di Pirenne, nelle città, accanto

al borgo fortificato (vetus burgus), sorge ora un sobborgo (suburbium o novus burgus), indicato con il

termine di portus, ossia luogo che serve da tappa o da deposito per le merci39. Tuttavia la teoria del portus,

come evidenzia Ovidio Capitani nell’introduzione a Le città del Medioevo di Pirenne, è vera solo per le città

del Belgio e della Francia settentrionale. Secondo Edith Ennen, il processo di urbanizzazione assume aspetti

più complessi e deve tenere conto:

a) del rapporto tra città medievale e quella antica;

b) della presenza simultanea di forze opposte al momento dell’origine della città;

c) della distinzione tra città grandi, medie e piccole.

Quanto ad a, si possono distinguere in Europa tre zone il cui urbanesimo è differente: 1) l’Italia, la

Spagna e la Francia meridionale dove le città romane, sebbene decadute, continuano a esistere nei secoli

dell’Alto Medioevo; 2) la fascia che racchiude la Francia settentrionale, il Reno e il Danubio, dove

l’influenza urbana romana è quasi del tutto scomparsa; 3) lo spazio germanico settentrionale, tra il Reno e la

Scandinavia, che non ha subìto l’influenza diretta della cultura romana.

Per il punto b, nelle città del nord – ovest dell’Europa si assiste alla formazione di un patriziato cittadino e

alla contrapposizione tra campagna, dove vige una struttura economico – sociale fondata sul possesso

terriero, e città, in cui è vigente l’organizzazione economico – sociale cittadina basata sulla circolazione

monetaria. Nel nord dell’Europa, inoltre, i mercanti diventano proprietari terrieri, contrariamente a quanto

accade nel sud del continente.

Per quel che riguarda c, le città presentano dimensioni differenti e ciò significa un diverso sviluppo

economico, politico e sociale.40

Tra città e campagna si stabiliscono d’ora in avanti duraturi scambi commerciali: la campagna

sovvenziona il vettovagliamento della città, mentre quest’ultime forniscono servizi e manufatti. Le città sono

anche interessate dal fenomeno dell’immigrazione contadina. Repulsione e attrazione (push and pull)

spingono gli uomini a dirigersi nei centri urbani: l’asfissiante sistema feudale rende inappagati coloro che

desiderano migliorare il proprio status sociale cosicché la città, fondatore di un ordine nuovo dove il servo si

libera divenendo homo aequalis, diviene luogo di nuove possibilità di riuscita economica41. Alle origini della

città Max Weber, nella sua Storia economica, sostiene che vi è una coniuratio fratrum e che il motto, che

unisce i ‘congiurati’ è quello dell’adagio tedesco Stadtluft macht frei42. L’ordine nuovo, di cui la città è

fondatore, si evince innanzitutto a partire dalla sua origine, che, non essendo più mitica, cioè istituita da un

dio il quale genera una stirpe legata a lui dal sangue – si pensi alla rappresentazione mitica dell’origine

39 PIRENNE, Le città del Medioevo cit., p. 97. 40 PIRENNE, Le città del Medioevo cit., pp. XXIV – XXVII. 41 BLOCH, La società feudale cit., pp. 288 – 293. 42 BARCELLONA, Ius monetarium cit., p. 53.

17

comune dei cittadini nel Libro III della Repubblica di Platone43, è il prodotto dei cives che convergono nello

stesso luogo e si danno medesime leggi. La città del Medioevo non è allora polis, città del dio che è padre di

tutti, ma civitas, ossia accordo di diverse persone sotto le stesse leggi al di là di ogni determinazione etica e

religiosa. Poiché la città del tardo Medioevo nasce dalla separazione di competenza tra religioso e secolare, il

diritto mercantile può svilupparsi secondo logiche laiche, ossia quelle dello scambio e del contratto. Lì dove

la servitù è stata abolita in nome del principio di libertà, gli uomini non possono che interagire

vicendevolmente scambiando e lo scambio non può che essere accordo. Difatti, le due istituzioni

fondamentali delle città tardo – medievali non sono altro che l’università o sede del diritto e il mercato, tant’è

che il teologo Alberto Magno immagina il Paradiso non più come chiostro monastico, ma come piazza

cittadina44.

Questo nuovo ordinamento cittadino ha come protagonista il cittadino – burgensis: il borghese è cittadino

e il cittadino è borghese. Tuttavia, non tutte le città hanno avuto cittadini – borghesi: ad esempio, i cives della

polis greca sono certamente eguali tra di loro, ma non sono burgenses. L’essenza del cittadino – burgensis

non sta nella rinuncia ai pericoli della vita cavalleresca, cioè nell’abbandono degli ideali di virtù e di

coraggio, ma sta nell’affermazione di se stesso essenzialmente come mercante, ponendosi come ideale al

vertice della piramide e sostituendosi al condottiero dell’esercito. Eppure il mercante non sembra essere

prerogativa del mondo medievale, perché, per le strade delle polis greche o delle città romane, ci sono stati

cittadini dediti all’attività mercantile; essi, però, non sono stati mercatores nell’accezione medievale. Il

mercante greco o romano è genericamente dedito al profitto, mentre quello medievale ha come scopo

certamente il profitto, ma mira a quest’ultimo con spirito razionale e speculativo: razionale perché ogni sua

decisione di acquisto o vendita è presa tenendo conto del calcolo numerico; speculativo poiché il mercante

conosce alcuni numeri (le spese sostenute), mentre altri sono soltanto immaginati (i ricavi dell’attività). Dei

due aspetti menzionati, la speculatio rappresenta l’essenza più propria del mercante borghese, poiché

dimostra come tutta la sua attività sia orientata al calcolo economico monetario.

Le istituzioni giuridico – economiche, che inaugurano la mentalità razionale – speculativa del mercante,

sono il capitale e il bilancio. Il primo è definito come ricchezza che assume la dimensione obbligatoria della

sua restituzione, poiché il mercante deve sempre mirare a ripristinare integralmente il suo patrimonio al

termine dell’attività mercantile. L’imperativo del pareggio di bilancio porta alla conseguenza dello

sdoppiamento dell’operatore economico, il quale diviene contemporaneamente creditore e debitore di se

stesso: da una parte, colui che pretende la restituzione del prestito e, dall’altra, colui che è obbligato a

restituire. Contrariamente alla ricchezza mercantile (ricchezza puramente passiva), che non può essere mai

consumata per il benessere del mercante, ma che deve essere immessa nel ciclo economico per essere

ricostituita, quella del signore feudale (ricchezza puramente attiva) può essere trasformata in felicità, poiché

il nobile non assume alcun obbligo nei confronti di se stesso.

Affinché il capitale di partenza possa essere ripristinato, è fondamentale l’utilizzo di documenti che

attestino il bilancio dell’impresa, cioè lo ‘stato patrimoniale’, il cui fine è far risultare identici passivi e attivi,

43 PLATO, Res publica, III, 414 D – 417 A. 44 LE GOFF, Lo sterco del diavolo cit., p 23.

18

e il ‘conto economico’, ossia la comparazione dinamica di ricavi e costi. Ovviamente, la ricostituzione del

capitale si misura attraverso il metro del denaro, il che fa del mercante homo monetarius, ed è fondata su un

corretto calcolo economico, con il quale l’operatore economico ha correttamente immaginato il futuro, cioè i

ricavi, i quali altro non sono che l’approvazione sociale da conseguire. Egli deve dunque intendere i desideri

degli altri, il che significa che il mercante non ha mai nulla che realmente gli appartenga, poiché vive

assoggettandosi sempre all’obbligo di una infinita convalida sociale. Il poeta inglese Geoffrey Chaucer, in

uno dei suoi racconti sui mercanti, chiarisce perfettamente la meditazione cui è dedito il mercante:

<<The thridde day, this marchant up aryseth,

And on his nedes sadly him avyseth,

And up in-to his countour-hous goth he,

To rekene with him-self, as wel may be,

Of thilke yeer, how that it with him stood,

And how that he encressed were or noon.

His bokes and his bagges many oon

He leith biforn him on his couting-bord;

Ful riche was his tresore and his hord,

For which ful faste his countour-dore he shette;

And eek he nolde that no man sholde him lette

Of his accountes, for the mene tyme;

And thus he sit til it was passed pryme.>>45

La logica mercantile conduce ad altri importanti cambiamenti46:

muta il concetto giuridico di ‘proprietà’: il diritto municipale concede la possibilità di destinare il

bene per testamento, di venderlo, di ipotecarlo e di affittarlo;

cambia il concetto di ‘contratto’: il diritto romano soddisfa le esigenze di conservazione della

ricchezza, mentre il nuovo principio della libertà valorizza la moltiplicazione della ricchezza

basata sulla compravendita incessante da parte del mercante;

si istituisce il principio di ‘tutela del terzo di buona fede’: contrariamente al diritto romano dove il

proprietario può sempre rivendicare la cosa propria nei confronti del terzo che l’abbia acquistata

da chi è solo apparentemente proprietario, il diritto mercantile salvaguardia l’interesse del terzo di

buona fede;

si istituisce il principio dell’autonomia patrimoniale: i beni, destinati all’impresa, non possono

essere sottratti dal mercante per fini privati;

45 G. CHAUCER, Shipmannes Tale, in Complete Works of Geoffrey Chaucer, IV, Clarendon Press, Oxford 2012, p. 169, vv.

1265 – 1278: <<Il terzo giorno questo mercante si alza/ E medita tristemente su quello che deve fare,/ E se ne va nel suo ufficio/ Per fare un bilancio, il più esatto possibile/ Di quell’anno, di come gli sono andate le cose/ Di come ha impiegato tutta la sua ricchezza,/

E se è riuscito ad accrescerla o no./ I suoi registri e le sue borse, tutto quanto, Dispone davanti a sé sulla sua scrivania,/ E il mucchio

dei suoi tesori è molto pingue,/ Per cui chiude in gran fretta la porta del suo ufficio;/ E poi ordina che nessuno lo distragga/ Dai suoi

conti, finché non ha finito;/ E così resta a lavorare fino a tarda notte.>>. 46 BARCELLONA, Ius monetarium cit., pp. 73 – 80.

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muta il diritto fallimentare dell’impresa in favore di uno nuovo, basato sulla parità di trattamento

tra creditori e sul principio del commissariamento (affidamento della liquidazione dell’attivo

fallimentare a un organo che opera sotto la vigilanza di un’autorità giuridica);

nasce il contratto di ‘commenda’, che anticipa la moderna società per azioni.

L’argento dello Harz, dopo aver raggiunto il picco di produzione nel 1025, inizia rapidamente a diminuire

dopo il 1040. Gli effetti si avvertono innanzitutto in Sassonia, dove scoppiano disordini che a livello politico

provocano la debolezza dei re Enrico III ed Enrico IV; in Baviera dove, per circa tre quarti di secolo, cessa la

coniazione di monete; nei paesi scandinavi dove la minore quantità d’argento provoca il deterioramento delle

monete locali; la Frisia, dopo aver beneficiato della diffusione del denaro ottoniano, entra in un periodo di

rapido declino, definitivamente sostituita dai mercanti dei nuovi centri delle Fiandre. Il collasso del

commercio frisone provoca contraccolpi in Inghilterra, nella quale la disponibilità di moneta diminuisce,

passando dai 20 milioni di pennies dell’anno Mille ai 10 milioni del 1158. Lo storico Peter Spufford sostiene

che i governanti europei, nel tentativo di contrastare l’inflazione, abbiano ridotto la massa monetaria in

circolazione. Tuttavia il commercio cittadino dei tessuti genera ancora profitti favorendo la circolazione del

denaro, la cui domanda è alta contrariamente all’offerta. Le soluzioni escogitate e adottate dai governanti

sono le seguenti:

a) sostituzione della moneta metallica con una d’altra natura, ad esempio il pepe o la cartamoneta;

b) invenzione di nuovi mezzi di finanziamento;

c) svilimento del valore intrinseco della moneta e aumento dei pezzi.

Quanto ad a, unicamente in Cina circola la cartamoneta, di cui parla entusiasticamente Marco Polo nel

Milione. Egli narra che il Gran Khan ricava dalla scorza del gelso la cartamoneta che ha il medesimo valore

delle monete metalliche: ci sono banconote che valgono quanto i tornesi leggeri, i parisis, i grossi veneziani

e gli iperperi bizantini. Inoltre tutte le banconote presentano il sigillo dell’imperatore e quando si usurano,

tornano dal sovrano che ne emette di nuove percependo una commissione del 3%. Infine, stando a quel che

dice Marco Polo, le banconote dispongono del vantaggio della maneggevolezza47.

Per quel che riguarda b, si sviluppano il prestito marittimo, il contratto di commenda (collegantia a

Venezia), la compagnia, i depositi e la lettera di cambio. Il contratto di commenda permette al finanziatore di

affidare una somma al mercante da impiegare nel commercio marittimo. Al termine dell’iniziativa

commerciale il mercante dà il rendiconto al finanziatore: se c’è stata perdita, allora sarà interamente a carico

del finanziatore; se c’è stato profitto, 3/4 spetteranno al finanziatore e 1/4 al mercante. Se anche il mercante ha

impiegato parte del suo reddito nell’impresa, allora il profitto sarà ripartito in base alle quote di

partecipazione. Per ogni viaggio d’affari il mercante può ottenere liquidità anche da altri finanziatori,

intrattenendo così rapporti analoghi a quelli avuti con il primo dei finanziatori. Nei secoli XI e XII i mercanti

sicuramente dispongono di mezzi economici propri per acquistare merci da vendere su mercati lontani,

tuttavia possono aumentare il volume degli affari solo attraverso somme concesse da terzi. Il contratto di

47 MARCO POLO, Il Milione a cura di V. B Pizzorusso, Adelphi, Milano 1975, pp. 81 – 82.

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commenda attiva il piccolo e il grande risparmio, fondamentale per un’epoca in cui il denaro tende ancora a

essere tesaurizzato, privando così gli affari di liquidità. Il contratto di commenda declina sul finire del secolo

XIII ed è sostituito nel Quattrocento dalla compagnia, costituita inizialmente da membri della stessa casata e

poi anche da operatori esterni, assumendo così funzioni bancarie, commerciali e industriali48. Il sistema di

moneta metallica è ulteriormente integrato dai depositi, moneta creata dall’attività bancaria. Quest’ultima,

definita nel Cinquecento moneta d’inchiostro, è creata dai banchieri sulla base del denaro che essi hanno a

deposito e che pensano di poter rischiare. Tizio deposita 100 iperperi nella banca x, che paga un interesse sul

deposito. Per guadagnare, essa presta 25 iperperi a Caio contando sul fatto che i depositi non si ritirano tutti

in una volta. Caio, ricevuti i 25 iperperi su cui paga un tasso d’interesse, retribuisce il suo fornitore

Sempronio con i denari presi in prestito. Sempronio depositerà i 25 iperperi nella banca y, che pagherà un

interesse per il deposito. A questo punto sul mercato ci sono 125 iperperi, ossia i 100 che sono nella banca x

e i 25 della banca y. I banchieri, trasferendo il denaro da un conto a un altro, hanno creato moneta. Può

capitare che il depositante richieda al banchiere la propria somma. Per queste evenienze la banca non ha

necessità di tenere a disposizione tanta moneta metallica quanto è il valore dei depositi; è sufficiente soltanto

tenerne una riserva, mentre il resto è dato in prestito lucrando sul tasso d’interesse. Infine i mercanti si

servono anche della lettera di cambio, convenzione in virtù della quale il prestatore fornisce una somma di

denaro al ricevitore, ricevendo in cambio un impegno pagabile a termine (operazione di credito), ma in un

altro luogo e in un’altra moneta (operazione di cambio). Essa risponde a quattro esigenze del mercante: un

sistema di pagamento di un’operazione commerciale; un metodo per trasferire fondi in diverse città; uno

strumento di credito; un mezzo per guadagnare speculando sulle variazioni del cambio nelle diverse città49.

Se sul piano nazionale, i rapporti commerciali tra i cives sono regolati attraverso la moneta di conto e le grida

regie, la lettera di cambio è la moneta o misura internazionale, che consente il dialogo commerciale tra le

diverse comunità politiche. Il mercante genovese, che vende i beni nella sua città natale, contratta

avvalendosi del sistema di conto della città ligure, il quale ‘conta’ tanto le monete metalliche nazionali

quanto quelle straniere. La moneta di conto genovese è però una monade monetaria50, in quanto ‘vede’ solo

le monete effettive, ma non quelle immaginarie delle altre città: esse non hanno alcuna rilevanza giuridica.

Poiché il mercante genovese vende i prodotti anche nelle piazze estere, egli contratta in unità di conto

appartenenti ad altri loci: ad esempio, ha un credito a un certo numero di lire veneziane, moneta immaginaria

che non esiste nell’ordinamento monetario genovese. Alla differentia locorum, cioè tra ordinamento sovrani

concorrenti, si associa la differentia numismatum, ossia la differenza tra unità di conto. Infine, vi è un terzo

problema rappresentato dalla differentia temporum51: in un sistema caratterizzato da trasporti rudimentali, tra

tempo di vendita e quello di pagamento non vi è coincidenza. La lettera di cambio, pertanto, permette di

gestire le tre differenze menzionate rimuovendo gli ostacoli al commercio internazionale. L’invenzione di

questo nuovo strumento giuridico è merito della città di Genova, la quale dà vita a un contratto

completamente ignoto al diritto romano. Prima della lettera di cambio, negli ultimi decenni del secolo XII

48 CIPOLLA, Storia economica dell’Europa pre-industriale cit., p. 232. 49 LE GOFF, Lo sterco del diavolo cit., p. 123. 50 BARCELLONA, Ius monetarium cit., p. 187. 51 BARCELLONA, Ius monetarium cit., pp. 188 – 190.

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sono stipulati altri patti commerciali, la cui denominazione è instrumentum ex causa cambii52: un mercante

lionese presente a Firenze, intuendo possibilità di guadagno nella propria piazza, ottiene in prestito moneta

locale fiorentina per avviare l’operazione commerciale pianificata, garantendo così di restituire al creditore

moneta di denominazione della vendita della merce. Tuttavia, la funzionalità di un simile contratto poggia

esclusivamente sulla fortunata coincidenza della simultanea presenza dei due mercanti nella piazza

d’apertura e di chiusura dell’operazione creditizia. Il passaggio alla più razionale53 lettera di cambio avviene

attraverso una serie di circostanze: il passaggio dal commercio itinerante, nel quale il mercante accompagna

le proprie merci, a quello sedentario, dove l’imprenditore dirige intellettualmente i propri beni attraverso

vettori specializzati; l’evoluzione dei trasporti caratterizzata da un nuovo utilizzo delle vecchie strade romane,

dalla creazione di nuove rotte e dalla nascita della rete postale. Quest’ultima, gestita e promossa dai mercanti,

è però posta sotto il controllo politico – militare del settore pubblico; l’astrazione del pagamento rispetto al

rapporto causale tra beneficiato e beneficiario, che consente di trasmettere istruzioni di pagamento su piazza

estera dal debitore a un suo messo, al quale il primo dà l’ordine di effettuare il pagamento a favore di un

secondo messo inviato dal creditore. Nella lettera di cambio vi sono, allora, due luoghi e quattro soggetti:

luogo A, dove il creditore passa la lettera al debitore; luogo B, nel quale si trovano il messo del primo e del

secondo; in ultimo, emancipazione dalla forma notarile.

La lettera di cambio può essere distinta in’cambio forzato per la mercanzia’ e ‘cambio per arte’. Il cambio

è forzato, quando il mercante entra in una relazione cambiaria, solo perché mosso da necessità: egli deve

convertire ricchezza irrilevante in ricchezza socialmente riconosciuta e riprendere il ciclo produttivo. Quando

il cambio è per arte, il soggetto entra nella relazione con lo scopo di trarre profitto operando una doppia

monetizzazione: trasforma il credito del venditore domestico verso la piazza estera in moneta; trasforma,

inoltre, la moneta di conto estera in quella determinata dall’unità locale. Il cambista ‘per arte’ è uno

specialista nella fornitura di credito ed è storicamente un vecchio mercante internazionale, che, non ritenendo

vantaggioso investire i suoi risparmi in una nuova attività commerciale progressivamente più competitiva e

con margini di profitto sempre più bassi, si dedica a quella cambiaria, allocando non più beni, come fa il

mercante, ma il credito bancario. Questa nuova professione è esercitata dai mercanti – banchieri italiani, una

casta54, i quali raggiungono questo status per le seguenti ragioni: sono i primi ad aver accumulato ingenti

capitali e ad aver utilizzato una efficiente infrastruttura postale; sono depositari di una lunga tradizione

giuridica; sono gli artefici della rivoluzione contabile (partita doppia e aritmetica a beneficio dei mercanti).

Occorre ora chiedersi come il mercante – banchiere tragga profitto se, una volta erogato il credito, non

dispone della pretesa creditizia o tasso d’interesse, tipica del banchiere moderno55:

Juan de Castro (A) è un mercator tout court (non mercante – banchiere) a vocazione internazionale: egli vende lana a Firenze,

dove, come si conviene ad ogni mercante intereuropeo, egli dispone di uno dei membri della sua complessa <<rete>>, Juan de Lago

(B). È costui a vendere lana spagnola sulla piazza fiorentina così determinando un saldo attivo a favore di A denominato nell’unità

di conto del Granducato di Toscana e,quindi, 750 lire fiorentine. A però ha il duplice bisogno della <<doppia monetizzazione>> di

52 BARCELLONA, Ius monetarium cit., p. 192. 53 BARCELLONA, Ius monetarium cit., p. 195. 54 LE GOFF, Lo sterco del diavolo cit., pp. 56 – 57. 55 BARCELLONA, Ius monetarium cit., 217 – 221.

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cui s’è detto: convertire il credito (denaro futuro) in moneta contante (denaro attuale (prima monetizzazione); ma, soprattutto,

convertire un’unità di conto sconosciuta in Spagna (le lire o i soldi fiorentine) in maravedìs (unità di conto iberica) (seconda

monetizzazione). La piazza di cambio più vicina a Toledo, nel regno di Spagna, è quella sita in Medina del Campo […]. Qui, egli si

rivolge, con deferente rispetto, al membro della casta dei <<mercanti – banchieri>>, Simón Ruiz (C). Costui opera quella

<<conversione di unità di conto>> che costituisce il privilegio monopolistico della casta: utilizzando una unità di conto

<<intermedia>> fra lire fiorentine e i maravedìs spagnoli – gli <<scudi d’oro in oro>>, moneta di cambio puramente contabile a

dispetto del nome metallico -, C converte, im primo luogo, le 750 lire fiorentine in 100 scudi […] e, in secondo luogo, i 100 scudi in

41.500 maravedìs […]. C può, quindi <<dare>> moneta contante […] contro una lettera, emessa da A, che <<incorpora>>

un’istruzione di pagamento di 100 scudi su Firenze a favore di Baltasar Suárez (D), esponente fiorentino di quella articolatissima

<<rete>> bancaria che costituisce uno dei pilastri essenziali del potere e del prestigio del mercante – banchiere di Medina del Campo,

Simón Ruiz. Per il mercante ordinario, A, l’operazione è sostanzialmente conclusa: […] egli ha trasformato efficacemente in suo

credito in lire fiorentine in monete metalliche denominate in maravedìs spagnoli. […] Per il mercante – banchiere, C, invece,

l’operazione è ancora assolutamente incompleta. […] Egli ha, per l’appunto, rimesso 100 scudi da Medina a Firenze. Ma, ancora, non

si è realizzato nessun arricchimento […]. […] il mercante – banchiere <<vive>> solo e soltanto se ad un flusso commerciale in un

senso, che gli <<facilita>>, ne segue (almeno) un altro in senso opposto, del quale egli ha assolutamente bisogno. […] allora non

dovrebbe essere difficile al mercante – banchiere C dare istruzioni al suo corrispondente D di trovare un mercator ordinario

fiorentino che, disponendo di un salto attivo in maravedìs in Spagna, abbia necessità di convertirlo in lire fiorentine riconosciute nel

Granducato di Toscana. In tal caso, basterebbe che D diventasse datore di <<denaro>> a favore di E, esportatore fiorentino di

vasellame, contro una <<lettera>> spiccata da E sul proprio corrispondente F ed a favore di C, perché il ciclo sia chiuso. Simón Ruiz

(C) riceverebbe, infine, il denaro da lui inizialmente anticipato a Juan de Castro (A) che gli verrebbe rimborsato, però, da qualcuno

che con Juan de Castro non ha niente in comune e cioè dal corrispondente (F) dell’esportatore fiorentino di vasellame (E). Qualora,

poi, il tasso di cambio dei 100 scudi […] fosse, in <<ritorno>>, più favorevole di quello dell’<<andata>>, non soltanto il mercante –

banchiere vedrebbe nuovamente convertito il suo <<credito>> in moneta, ma lo vedrebbe altresì accresciuto […].

Contrariamente al banchiere moderno, il quale guadagna se conosce le condizioni patrimoniali del suo

debitore (la sua solvibilità), quello medievale si arricchisce se è capace di far circolare la lettera di cambio, se

conosce le condizioni di larghezza e strettezza e gli andamenti dei tassi nelle piazze commerciali.

Il fenomeno della lettera di cambio, sotto un primo profilo, consente al commercio internazionale

indipendenza dalla quantità di moneta metallica: la circolazione delle lettere di cambio, indipendente da

qualsiasi rischio di scarsità di metallo (molto frequente nel Medioevo) e dalla conseguente deflazione,

aumenta o diminuisce in virtù della logica dei soli bisogno commerciali. Se, ipoteticamente, in condizioni di

equilibrio commerciale, alcuna piazza fosse in deficit (disavanzo commerciale), si verificherebbe

l’immobilità delle monete metalliche su scala internazionale e il loro utilizzo solo a livello locale e la

circolazione delle sole merci e della ‘fiducia’ creditizia. In secondo luogo, l’emancipazione della lettera di

cambio dal metallo è dovuta al ruolo svolto dai mercanti – banchieri: esclusivamente a loro appartiene il

monopolio di servirsi di unità di conto intermedia, con cui effettuare i cambi tra le diverse piazze locali. I

mercanti – banchieri, dunque, stanno alla valuta del commercio internazionale, come il re sta alla moneta di

conto del commercio interno: il sovrano, mediante la sua moneta immaginaria, tariffa tutte le effettive

monete locali; i mercanti – banchieri sono in grado di trasformare la moneta straniera in moneta localmente

riconosciuta. Tuttavia, vi sono delle differenze tra il ruolo svolto dal re e quello esercitato dai mercanti –

banchieri: la moneta del sovrano è pubblica, perché pubblico è il monopolio monetario, mentre la valuta dei

secondi è privata e il loro monopolio è il risultato di accordi politici e di concessioni, che possono essere

23

revocate in qualunque momento dal re; inoltre, se il re può attribuire arbitrariamente il valore nominale che

desidera alle monete effettive, la moneta internazionale deve sempre tenere conto dei tassi vigenti in

ciascuna piazza.

Per ovviare infine alla penuria argenti (c) si coniano monete di minore valore, i bruni e i brunetti, il cui

nome deriva dal peggioramento della lega che dà loro un aspetto più scuro. Ugualmente in Italia le zecche di

Lucca, Milano, Pavia e Verona rimediano all’insufficiente quantità d’argento elevando il livello d’emissione

a discapito del peso e della lega. Alla svalutazione monetaria Peter Spufford dedica un capitolo ‘The Scourge

of Debasement’ del suo libro Money and Its Use in Medieval Europe. Spufford considera un flagello (a

scourge) la svalutazione della moneta, ma non coglie in ogni modo che l’aumento della massa monetaria,

seppure d’infimo valore, permette il prosièguo dell’espansione economica, una specie di quantitative easing

(facilitazione quantitativa) del Medioevo, ponendo rimedio al credit crunch (calo dell’offerta di credito). È

fondamentale saper distinguere la svalutazione di tipo monetario da quella fiscale: la prima è necessaria,

quando si deve accrescere la massa di moneta circolante a fronte di un incremento della domanda di questa

(inflazione buona); la seconda è attuata per incrementare le entrate fiscali (inflazione cattiva). Dalla tabella

sottostante si evince che i governanti veronesi, lontani dalle teorie di Spufford, a causa della diminuzione

dell’argento nelle miniere, favoriscono l’inflazione, svilendo il valore delle monete.

Durante il secolo XII cambiamenti fondamentali rivoluzionano l’uso e la concezione del denaro:

a) le città diventano consumatrici di moneta;

b) si sviluppa il commercio a lungo raggio;

c) si legittima il profitto nella pratica mercantile e il prestito a interesse;

d) il potere pubblico disciplina la circolazione del denaro;

e) si promuove una nuova immagine del lavoro.

Riguardo ad a, lo sviluppo artigianale incoraggia l’acquisto di materie prime e la vendita di prodotti finiti

stimolando così il consumo di denaro. Un altro settore, che stimola il consumo di denaro, è quello tessile, la

cui produzione è in parte localizzata nelle campagne e nei castelli dei signori, le cui violenze sono narrate da

Chrétien de Troyes nell’Erec ed Enide e nell’Yvain. In quest’ultimo poema cavalleresco l'eroe liberatore

conosce la realtà dello sfruttamento delle operaie tessili della Champagne. Il poeta scrive:

Tabella 3 – Denaro veronese (1050 – 1150).

Monete Peso (grammi) Lega Fino (grammi)

A 0,6 510 0,3

B 0,6 260 0,16

C 0,6 260 0,16

D 0,45 229 0,1

Fonte: Cipolla, Le avventure della lira, p. 35.

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<< ma c'era tale miseria

che sciolte e discinte

per la miseria erano molte,

e ai seni e ai fianchi

erano lacere le loro vesti,

e le camice al collo sudice.

I colli magri e i visi pallidi

avevano di fame e stenti […]

Mai tanto potremo rendere col nostro lavoro,

che meglio ne abbiamo a mangiare […]

Ché mai dal lavoro delle nostre mani

non otterrà ciascuna per suo mantenimento

più di quattro danari di lira […]

s'arricchisce col frutto delle nostre fatiche

quegli per cui lavoriamo.

Delle notti gran parte vegliamo

e tutti i giorni per lavorare,

ché siam minacciate di mutilazione

delle membra quando riposiamo,

e perciò non osiamo riposare.>>

Anche il ramo edilizio, distintosi nella costruzione di cattedrali, chiese e castelli in pietra, e lo

sfruttamento delle cave contribuiscono al rilancio dell’economia monetaria. Il successo premia due regioni: il

nord – est dell’Europa, dalle Fiandre ai paesi baltici, le cui città protagoniste sono Amburgo, Arras, Bruges,

Gand, Lubecca, Stoccolma e Ypres; l’Italia settentrionale, Toscana compresa, i cui centri di maggiore

importanza sono Firenze, Milano, Pisa, Venezia e Genova, quest’ultima snodo di un grande mercato di

schiavi provenienti dalla Spagna. La circolazione di moneta è incoraggiata anche dalle spese cittadine

riguardanti la comunità, le persone e le istituzioni. Uno dei primi capitoli di costo è costituito dal restauro

delle fortificazioni. Allo stesso modo, la costruzione di cantine, forni, mercati coperti, mulini e sedi

amministrative richiedono l’intervento pubblico. Medesimo discorso si fa per i ponti: il Medioevo segna il

passaggio dal legno alla pietra come materiale per questa infrastruttura. Sebbene il legno sia più economico

nel breve periodo, poiché esso è più sensibile alle devastazioni delle piene, è man mano sostituito dalla pietra,

il cui alto costo rende indispensabile il finanziamento pubblico. Per far fronte a tutte queste spese, i centri

urbani si dotano di strumenti fiscali, autorizzati dal re o dal signore, e ricorrono sia a imposte dirette, che

colpiscono i redditi, sia a quelle indirette, che gravano sulle attività economica. La riscossione delle imposte,

naturalmente impopolari, è difficile, il che costringe le città a indebitarsi. La tenuta dei conti è affidata a un

tesoriere, spesso borghese, il quale in caso di deficit anticipa le somme attingendo al proprio capitale. Anche

le grandi monarchie si dotano di strumenti fiscali: il più precoce degli stati centralizzati è quello pontificio,

dove giungono le rendite delle terre e delle città sottoposte al dominio del Papa. Inoltre il pontefice riceve la

decima con cui garantisce la sussistenza del clero e l’assistenza ai poveri. Le entrate fiscali sono gestite sul

finire del secolo XI dal potente ordine di Cluny; in seguito toccherà alla Camera apostolica, riorganizzata nel

corso del secolo XIII e guidata dal camerarius (cardinale camerlengo), regolare i pagamenti della Santa Sede,

25

finché il Papa affiderà tale compito ai banchieri, i campsores camerae o mercatores camerae, delle famiglie

dei Mozzi, degli Spini e dei Chiarenti. Un altro stato, dotatosi ben presto di amministrazione fiscale, è

l’Inghilterra. Enrico Plantageneto (1154 – 1189), detto il re finanziario, organizza l’amministrazione, che

prende il nome di Scacchiere, dal grande tavolo a forma di scacchiera. Lo Scacchiere consta di due

dipartimenti, uno che riceve e versa somme e l’altro che verifica i conti. A capo dei due dipartimenti c’è un

tesoriere, per lo più un ecclesiastico, con cui collaborano quattro baroni. Diversamente dai due stati

menzionati, la Francia comincerà il riordino monetario e fiscale solo con il re Filippo Augusto (1180 – 1223).

Quanto a b, il commercio internazionale deve la sua fioritura al successo delle grandi fiere che

rimpiazzano i piccoli mercati locali. Le fiere consentono una centralizzazione razionalizzatrice e una

multilateralizzazione degli scambi56: il commercio non è più affidato ai casuali itinerari del mercante, che

cerca la piazza più adatta per poter vendere al più alto prezzo i beni, ma è organizzato in un luogo centrale,

dove tutte le merci confluiscono. Contrariamente al commercio itinerante, dove il mercante, vendute le merci

nella piazza estera, è costretto ad acquistare dallo stesso luogo beni anche non graditi, grazie alla fiera può

vendere le sue merci a un mercante di un certo luogo e impiegare quel denaro per acquistare articoli da

mercanti di diverse città. Indubbiamente, la fiera più importante del secolo è quella della Champagne, che si

tiene per tutto l’anno: a Lagny in gennaio – febbraio, a Bar-sur-Aube in marzo – aprile, a Provins in

maggio – giugno, a Troyes in estate, nuovamente a Provins in settembre – ottobre, e infine ancora a Troyes

in novembre – dicembre. La localizzazione nella Champagne è strategica per i flussi commerciali dell’asse

nord – sud (Fiandre e Mediterraneo), ma meno rilevante per quello est – ovest (Spagna e Germania). Durante

questa fiera, i fiamminghi portano tele e panni di Fiandra; i lucchesi importano le sete; i mercanti italiani

vendono spezie, cera, zucchero, pepe, aromi, essenze, sostante coloranti e cuoio; i mercanti francesi e

tedeschi recano pregiati tessuti di lino. Contemporanee a quella di Champagne, si svolgono le fiere

fiamminghe, le quali sono dislocate a Ypres, Bruges, Torhout, Lilla e Messines. Come la fiera di Champagne,

anche quelle di Fiandra sono articolate temporalmente: a Ypres a fine inverno e a primavera inoltrata; a

Bruges a inizio primavera; a Torhout a inizio estate; a Lilla verso la fine dell’estate; infine, a Messines

durante l’autunno. Tuttavia, le fiere di Fiandra sono organizzate diversamente da quella tenuta a Champagne:

i primi giorni sono destinati dai mercanti alle assemblee, durante le quali si stabiliscono le regole della

compravendita; i giorni seguenti sono dedicati all’esposizione e alla compravendita di merci; infine, nei

giorni conclusivi si procede ai pagamenti. Gli articoli destinati al commercio sono panni e tele, metalli (ferro,

oro, argento, piombo e rame), vini e tele di lino, spezie e beni esotici. Nel secolo XIV, l’asse commerciale si

sposta a Ginevra, sintomo di un progressivo incontro tra le aree economiche più industrializzate e connesse

alla trasformazione di beni (Italia, Inghilterra e Fiandre) con quelle meno progredite ma esportatrici di

materie prime (area tedesca ed est europeo). Anche le fiere di Ginevra sono scandite dal ritmo delle stagioni

e delle festività (Epifania, Pasqua, agosto e Ognissanti) e sono frequentate da mercanti francesi, italiani,

olandesi, spagnoli, boemi, polacchi e ungheresi. L’ultima fiera, degna di menzione, che progressivamente

sostituisce quelle di Ginevra, si tiene a Lione a partire dalla seconda metà del secolo XV. Nella città francese,

56 BARCELLONA, Ius monetarium cit., p. 261.

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si istituisce, per la prima volta, un regolamento centrale delle operazioni di cambio, ossia si determinano i

cambi tra le monete di conto appartenenti ad aree monetarie diverse. Affinché le fiere possano svolgersi

regolarmente, è necessario l’intervento dello stato, il quale assicura l’incolumità dei viaggiatori, l’ordine

pubblico nei luoghi, la sorveglianza delle transazioni e la partecipazione alla fiera di mercanti e notai

mediante iscrizione al registro fieristico. In cambio di questi servizi, i mercanti pagano le tasse sulle

abitazioni e sui banchi di vendita, i pedaggi d’entrata e uscita, le imposte su vendita e acquisti, i diritti su pesi

e misure e i contributi per gli atti giudiziari.

Per quel che riguarda c ed e, la debolezza della massa monetaria in circolazione contribuisce all’iniziale

fortuna degli ebrei. Il maggiore impiego del denaro in ambito urbano permette loro di svolgere un ruolo

importante nella veste di prestatori di denaro. Secondo l’interpretazione che è stata data dell’Antico

Testamento, è vietato il prestito a interesse tra cristiani da un lato ed ebrei dall’altro, tuttavia è concesso

quello tra cristiani ed ebrei. A questi, esclusi dall’agricoltura, non resta altro che incrementare i loro profitti

svolgendo professioni urbane: la medicina, per lungo tempo disdegnata dai cristiani, e la rendita del denaro.

Come ha notato lo storico Giacomo Todeschini, gli ebrei sono protagonisti dell’attività finanziaria

condannata dalla Chiesa, ossia <<usurai utili a far funzionare il potere cristiano lacerato da contraddizioni tra

fede e bisogni economici (caritas contro oeconomica)>>57 . Prima di prendere in esame la discussione

cristiana riguardante l’attività feneratizia, occorre, per chiarire il problema dell’usura ebraica, soffermarsi sul

concetto di proprietà e di merce in ambito giudaico. Nel corpus di discussioni talmudiche, proprietà di un

bene significa descrizione delle modalità del suo trasferimento. L’oggetto commerciale presenta una

caratteristica di estrema fruibilità e di assoluta scambiabilità ed è, dunque, privo di un criterio di

appartenenza: i frutti di un albero sparsi, la lana non trattata, il denaro non coniato, il pane di un forno

pubblico sono accomunati dal fatto di non presentare alcun segno di riconoscimento. Contrariamente,

affinché possa essere riconosciuta l’attribuzione di proprietà, sono necessari segni convenzionali: i frutti

degli alberi raggruppati in mucchi, la lana cardata, il denaro che è stato coniato e il pane privo della forma

standardizzata datagli dal forno pubblico. Contrariamente a questa tipologia di beni, la cui mobilità è anche

la ragione di un particolare statuto nella loro cessione (kinyan58), la terra, invece, è segnata dall’idea di

proprietà e la sua cessione avviene attraverso una pratica contrattuale precisa che esclude i beni mobili

presenti all’interno di questa ricchezza: l’acqua di un fiume, nella quale cercare oro o pesci, rappresenta il

bene mobile, distinto, dal punto di vista commerciale, dal letto del fiume, che è invece il bene immobile.

Appare allora chiaro che solamente il bene mobile si definisce merce e, tra le merci, figura anche il denaro,

le cui modalità d’uso hanno un nesso preciso con il tipo di contratto stipulato.

57 G. TODESCHINI, La ricchezza degli ebrei. Merci e denaro nella riflessione ebraica e nella definizione cristiana dell’usura

alla fine del Medioevo, Fondazione CISAM (collana <<Biblioteca di Studi medievali>>), Spoleto 1989, p. 30. 58 TODESCHINI, La ricchezza degli ebrei cit., p. 51.

27

Quattro sono le modalità di cessione del denaro59:

il deposito presso il guardiano benevolo (schomer hinam);

il deposito presso il guardiano retribuito (schomer sakhar);

il contratto di locazione, dove il depositario è affittuario (sokher);

il contratto di prestito o comodato, dove il comodatario (schoel) è depositario.

In caso di danneggiamento del bene mobile, il guardiano benevolo è responsabile di negligenza, ma non

in caso di furto, smarrimento o causa di forza maggiore. Il guardiano retribuito e l’affittuario sono

responsabili di negligenza, smarrimento e furto, ma non in caso di forza maggiore. Infine, il comodatario è

responsabile in tutti i casi sopra menzionati.

Il deposito di denaro segue due modalità:

chiuso e sigillato, quando la somma non è verificabile dal guardiano che, responsabile solo di

negligenza, ottiene un piccolo vantaggio economico;

aperto e sciolto e l’uso fattone determina la configurazione giuridica del detentore. In questo caso,

il vantaggio sulla somma è totale, perché il guardiano può usarla con profitto.

Se il deposito è aperto, discende che il prestito d’uso, in quanto godimento pieno del bene mobile, si

identifica con il trasferimento di proprietà (diritto d’uso = diritto di proprietà). La particolarità della

concezione ebraica porta, dunque, a tal esito: dalla mobilità dell’oggetto si deduce la sua trasferibilità, da

quest’ultima la fluidità d’uso, da questo diritto consegue, infine, quello sulla cosa trasferita e, quindi, la

responsabilità personale. Il diritto ebraico di cessione dell’uso si differenzia nettamente dal diritto romano –

cristiano: in questa sede, la causa di forza maggiore diventa motivo valido per non restituire il prestito,

poiché trasferimento d’uso non implica quello di proprietà.

Occorre ora esaminare la logica creditizia ebraica e il rapporto tra merce metallica e quella fruibile. Le

modalità d’acquisizione di un bene avvengono o mediante il baratto o attraverso l’atto di compravendita, che

si realizza secondo il rapporto di meschikhak60, per il quale il prendere possesso della merce sanziona il

contratto di compravendita. Il denaro, se dotato di valore convenzionale fornitogli dal conio, realizza una

compravendita; al contrario, il baratto, ossia scambio di valori d’uso, è consentito solo tra beni mobili, tra cui

anche il denaro non coniato. Il primato del valore d’uso della merce sta a significare l’incapacità della

moneta di rappresentare fedelmente il valore degli oggetti commerciali: il denaro coniato non può essere

definito aristotelicamente un artificio61, ma è solo merce che ha la propria ragion d’essere solo in presenza di

beni socialmente consumabili e che è incapace di rendere irrevocabile un contratto di compravendita. Se il

denaro coniato è merce imperfetta, quindi impossibile da barattare, si ritrova in questo limite il divieto

talmudico dell’usura, la cui ragione è completamente monetaria: un’acquirente può acquistare merce –

denaro dal cambiavalute in cambio di un’altra somma di denaro, soltanto se il compratore possiede realmente

la somma da restituire. In sostanza è proibito contrattare o commerciare valori astratti. L’usura, in quanto

59 TODESCHINI, La ricchezza degli ebrei cit., p. 52. 60 TODESCHINI, La ricchezza degli ebrei cit., p. 59. 61 ARIST., Pol., I, 9, 1257b 30 40.

28

contratto distorto d’affitto, si genera allorché avviene una dilazione tra il momento della vendita sul mercato

di merci e il loro pagamento, ossia quando la realizzazione del valore del bene è scissa dalla contrattazione di

questo sul mercato. A differenza della riflessione teologica cristiana, il trascorrere del tempo è scadenza di

un’obbligazione, pertanto consente il percepimento di un interesse. La possibilità di usare il denaro come

merce particolare e il divieto d’interesse inteso come veto a commercializzare la moneta pensata come ente

astratto, conduce la ricchezza ebraica sulla via del mutuo ipotecario o del pegno in previsione di una

riduzione a deposito/compravendita del prestito. Il pegno, differente dalla vendita all’asta dei beni del

debitore per ripagare il prestatore62, è l’oggetto obbligato che, in virtù dell’impegno, cambia di proprietario

senza che ne sia calcolato il valore al fine di restituire al debitore la differenza tra questo e la somma avuta in

prestito. La struttura economica ebraica ignora il concetto di denaro come valore astratto della merce e, nel

rifiuto di questo concetto, vi è l’accusa di carnalità – avarizia, mossa in età medievale, e la distinzione tra

l’ebreo usuraio e il banchiere cristiano.

La condanna canonica dell’usura, almeno dal IV al IX secolo, è inizialmente rivolta ai chierici, cui è

vietato chiedere un surplus di moneta o natura al momento della restituzione del prestito. In questi secoli,

l’usura è intesa come attività incompatibile con il carisma ecclesiale e con la nozione di gratuità che

accompagna la distribuzione della grazia da parte dei chierici. Fino al IX secolo, l’usura è dunque associata a

quanti, come gli eretici simoniaci, attribuiscono un prezzo alle cariche ecclesiastiche. L’eventuale

retribuzione di un favore è ammessa dai canonisti solo nella forma del contro – dono, che, dovuto alla

riconoscenza o all’affetto, non quantifica il valore della grazia ricevuta. Dal IX al XII secolo, cresce

progressivamente la condanna dell’usura esercitata dai laici, i quali devono ora riconoscersi nell’immagine

incontaminata del clero che si sta a mano a mano costruendo. Affinché i laici non pratichino l’attività

usuraria, ossia non cadano nello scandalon, devono seguire l’esempio degli ecclesiastici: il chierico concede

la grazia divina gratuitamente, ossia senza ricevere alcunché in cambio, mentre l’usuraio, cioè colui che

presta a interesse, è una persona svergognata e asociale, che non deve essere presa a modello nella logica

degli scambi. La rivoluzione commerciale dell’Occidente assegna alle monete la funzione di misurare il

valore di ogni cosa e ciò induce i canonisti, i teologi e i giuristi a precisare la condanna e l’immagine

dell’usuraio. Egli, indifferente alla propria appartenenza alla comunità cristiana, è ‘segnato a dito’, perché

trasforma il prestito, inizialmente inteso come un favore, in una compravendita d’utilità e poiché si appropria,

attraverso il pegno, di beni, appartenenti alla Chiesa, che devono sfuggire alla quantificazione monetaria.

Dunque, usuraio è colui che assegna un valore monetario a ciò che non può averne. Tra i secoli XII e XIII, la

concorrenza dei cristiani, i quali sostituiscono gli ebrei nella funzione legata alla necessità di apporto di

denaro liquido, provoca l’estromissione di quest’ultimi da alcune importanti regioni dell’Europa. Nel 1179, il

III Concilio lateranense afferma che troppi uomini abbandonano la loro attività per diventare usurai e dà

voce al sentimento di timore della proliferazione della pratica feneratizia. Un secolo dopo, Innocenzo IV e il

canonista Enrico di Segusio, l’Ostiense, temono che i contadini, attirati dai guadagni dell’usura, abbandonino

le campagne, provocando così, con il calo dell’occupazione delle terre, la carestia. L’immagine

62 TODESCHINI, La ricchezza degli ebrei cit., p. 167.

29

dell’usurarius manifestus, cioè notorio, il quale non nasconde la propria sfacciataggine, tiene banco in piazza

e ostenta la propria attività, è descritto, nella Summa de virtutibus et vitiis, da Guglielmo Peraldo. L’autore

ritiene l’usuraio una persona infima, capace di farsi accogliere negli ambienti di potere, e pertanto distruttore

della società. Tale spudoratezza è resa possibile, nei secoli XII e XIII, dalla trasformazione monetaria

dell’economia medievale che ha reso ‘normale’ il fenomeno dell’indebitamento: accanto all’usura manifesta

concretizzata dal commercio di monete garantito dal pegno mobile o immobile, vi è una miriade di

transazioni creditizie che animano ambiguamente le città e le campagne italiane, francesi, fiamminghe e

tedesche.63. Fino al secolo XIII, la Chiesa vieta il prestito a interesse tra cristiani e invoca a supporto del

divieto i seguenti passaggi delle Scritture:

<<Se presti denaro a qualcuno del mio popolo, al povero che vive con te, non devi fare l’usuraio:

non puoi imporgli interesse>> (Esodo, 22, 24).

<<Quando uno dei vostri connazionali, caduto in miseria, non potrà tener fede ai suoi impegni nei

vostri riguardi, voi dovete venirgli in aiuto, perché possa continuare a vivere al vostro fianco.

Agirete così anche verso uno straniero che abita nella vostra terra. Non gli chiederete interessi di

nessun genere. Dimostrate con la vostra condotta che mi rispettate, e permettetegli così di vivere

al vostro fianco. Se gli prestate del denaro, non esigete interessi; se gli date del cibo, non

chiedetegli di restituirvelo con un supplemento.>> (Levitico, 25, 35 – 37).

<<Quando fate un prestito a un vostro connazionale – in denaro, cibo o qualsiasi altra cosa – non

esigerete da lui interessi. Potrete esigere interessi da uno straniero, ma non da un connazionale.

Se osserverete questa legge nella terra che state per possedere, il Signore, vostro Dio, benedirà

tutto quel che intraprenderete.>> (Deuteronomio, 23, 20 - 21). L’usura è legittima nei confronti

degli stranieri, ossia infedeli, immorali e criminali.

<<Un uomo giusto […] non ruba né maltratta nessuno. Restituisce il pegno lasciatogli dal suo

debitore, dà cibo a chi è affamato, veste chi è nudo. Non presta i suoi soldi per ricavarne interessi

o profitti. Non si rende complice dell’ingiustizia, ma pronunzia giudizi imparziali sulle dispute.

Egli ubbidisce ai miei ordini, rispetta le mie leggi e agisce con lealtà.>> (Ezechiele, 18, 5 – 9).

<<E se voi prestate denaro soltanto a quelli dai quali sperate di riaverne, Dio come potrà essere

contento di voi? Anche quelli che non pensano a Dio concedono prestiti ai loro amici per

riceverne altrettanto! Voi invece amate anche i vostri nemici, fate del bene e prestate senza

sperare di ricevere in cambio (mutuum date, nihil inde sperantes): allora la vostra ricompensa

sarà grande: sarete veramente figli di Dio che è buono anche verso gli ingrati e i cattivi.>> (Luca,

6, 34 – 35). Mutuum sta a indicare il denaro presto a prestito che deve essere restituito senza

interesse; sperare indica la prospettiva interessata di cose future, ossia un’attesa ricompensata da

un interesse.

63 G. TODESCHINI, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Il

Mulino (collana <<Saggi>>), Bologna 2007, pp. 105 – 112.

30

Prescindendo dalla lettura testamentaria, il secolo XII eredita una concezione negativa del denaro,

secondo la quale esso è pensato estraneo al contesto delle leggi divine. La moneta, invenzione dell’uomo,

non appartiene alla divinità e al mondo delle cose create da quella: essa è ambigua e pericolosa a causa della

sua sterilità, perché appartiene al mondo dei numeri e non a quello delle realtà naturali. Lo spazio economico,

essendo il luogo della non – naturalità, è perciò al di fuori degli ambiti di studio specifici (canonistici e

penitenziali). Tuttavia, dal Decretum Gratiani fino alle decretali del secolo XIII, si aprono nuove vie per le

analisi monetarie da parte dei giuristi. Il Decreto di Graziano, redatto nel secolo XII e contenente una

definizione abbastanza generica di usura, sostiene che quicquid supra datum exigitur, usura est64. Essa si

configura come un aspetto del peccato di cupidigia, ma è anche peccato contro la giustizia, come sostiene san

Tommaso d’Aquino nella Summa theologiae:

<<Ad secundum dicendum quod non quicumque carius vendit aliquid quam emerit, negotiatur, sed solum qui ad hoc emit ut

carius vendat. Si autem emit rem non ut vendat, sed ut teneat, et postmodum propter aliquam causam eam vendere velit, non est

negotiatio, quamvis carius vendat. Potest enim hoc licite facere, vel quia in aliquo rem melioravit; vel quia pretium rei est mutatum,

secundum diversitatem loci vel temporis; vel propter periculum cui se exponit transferendo rem de loco ad locum, vel eam ferri

faciendo. Et secundum hoc, nec emptio nec venditio est iniusta.>> 65

Le decretali del secolo XIII, mutuando da Aristotele, grande riscoperta intellettuale di questa epoca, l’idea

secondo cui nummus non parit nummos, cioè <<il denaro non genera denari>>, negano a questo ogni

riproduttività: la pecunia, a differenza del pecus, non partorisce. Chi vuole fare generare denaro dal denaro,

commette peccato contro natura. Il divieto d’usura è in stretta dipendenza con il sospetto che grava sulla

transazione economica: il mutuum, poiché definito come passaggio dal ‘mio’ al ‘tuo’, implica un

trasferimento totale di proprietà che rende impossibile l’interesse. Tra il momento del ‘mio’ e quello del ‘tuo’

non deve esserci alcun istante moralmente ambiguo che riguardi il possesso dell’oggetto: il solo tempo

accordato è quello relativo al passaggio di proprietà. Il denaro, conio più che metallo, data la sua sterilità,

non può produrre ricchezza, poiché questa deriverebbe dal commercio del tempo, divino per definizione.

L’usura si configura allora, secondo frate Remigio de Girolami e il teologo Tommaso di Chobham, come

furto di proprietà. La possibilità di investire del denaro, senza correre rischi, e ricavare profitto consistente in

altro denaro, grazie al solo trascorrere del tempo, appare alla Scolastica impossibile economicamente e

illegale moralmente: lo sviluppo economico, fondato sulla cessione del denaro e sull’immobilità

dell’operatore economico e della merce, è quindi negato. Prendendo un bene altrui contro la volontà del

proprietario, cioè di Dio, l’usuraio è condannato all’Inferno, a meno che non decida di restituire tutti gli

interessi ricevuti. Numerosi sono i trattati, intitolati De restitutionibus, con i quali gli ecclesiastici

incoraggiano a restituire gli interessi e a illustrare le procedure di restituzione. Ed ecco l’immagine degli

usurai evocata nell’Inferno di Dante:

<<Ecco la fiera con la coda aguzza,

che passa i monti e rompe i muri e l'armi!

64 GRATIANUS, Decretum Gratiani, c. II, C. XIV, q. 3, ed. E. Frieberg, Leipzig 1879, 1 (<<Corpus Iuris Canonici>>). 65 THOMAS DE AQUINO, Summa theologiae, IIa – II, qu. LXXVII, art. 4, ad 2, ed. T. De Vio, cura et stadium fratrum

praedicatorum, Roma, ex Typographia poliglotta 1895 (<<Sancti Thomae Aquinatis Opera Omnia>>).

31

Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!".

Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;

e accennolle che venisse a proda,

vicino al fin d'i passeggiati marmi.

E quella sozza imagine di froda

sen venne, e arrivò la testa e 'l busto,

ma 'n su la riva non trasse la coda.

La faccia sua era faccia d'uom giusto,

tanto benigna avea di fuor la pelle,

e d'un serpente tutto l'altro fusto;

due branche avea pilose insin l'ascelle;

lo dosso e 'l petto e ambedue le coste

dipinti avea di nodi e di rotelle.

Con più color, sommesse e sovraposte

non fer mai drappi Tartari né Turchi,

né fuor tai tele per Aragne imposte.

Come tal volta stanno a riva i burchi,

che parte sono in acqua e parte in terra,

e come là tra li Tedeschi lurchi

lo bivero s'assetta a far sua guerra,

così la fiera pessima si stava

su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra.

Nel vano tutta sua coda guizzava,

torcendo in sù la venenosa forca

ch'a guisa di scorpion la punta armava.

Lo duca disse: "Or convien che si torca

la nostra via un poco insino a quella

bestia malvagia che colà si corca".

Però scendemmo a la destra mammella,

e diece passi femmo in su lo stremo,

per ben cessar la rena e la fiammella.

E quando noi a lei venuti semo,

poco più oltre veggio in su la rena

gente seder propinqua al loco scemo.

Quivi 'l maestro "Acciò che tutta piena

esperïenza d'esto giron porti",

mi disse, "va, e vedi la lor mena.

Li tuoi ragionamenti sian là corti;

mentre che torni, parlerò con questa,

che ne conceda i suoi omeri forti".

Così ancor su per la strema testa

di quel settimo cerchio tutto solo

andai, dove sedea la gente mesta.

Per li occhi fora scoppiava lor duolo;

di qua, di là soccorrien con le mani

quando a' vapori, e quando al caldo suolo:

32

non altrimenti fan di state i cani

or col ceffo or col piè, quando son morsi

o da pulci o da mosche o da tafani.

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,

ne' quali 'l doloroso foco casca,

non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi

che dal collo a ciascun pendea una tasca

ch'avea certo colore e certo segno,

e quindi par che 'l loro occhio si pasca.

E com'io riguardando tra lor vegno,

in una borsa gialla vidi azzurro

che d'un leone avea faccia e contegno.

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,

vidine un'altra come sangue rossa,

mostrando un'oca bianca più che burro.

E un che d'una scrofa azzurra e grossa

segnato avea lo suo sacchetto bianco,

mi disse: "Che fai tu in questa fossa?

Or te ne va; e perché se' vivo anco,

sappi che 'l mio vicin Vitalïano

sederà qui dal mio sinistro fianco.

Con questi Fiorentin son padoano:

spesse fïate mi 'ntronan li orecchi

gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano,

che recherà la tasca con tre becchi!"".

Qui distorse la bocca e di fuor trasse

la lingua, come bue che 'l naso lecchi.

E io, temendo no 'l più star crucciasse

lui che di poco star m'avea 'mmonito,

torna'mi in dietro da l'anime lasse.>>66

Tuttavia usura e interesse non sono sinonimi, poiché l’usura ha luogo, laddove non c’è produzione di beni

concreti: si può sperare di ricavare un interesse, quando si dà in affitto la propria casa o il proprio campo,

poiché l’uso rende sterile il campo o deteriora la casa. Il denaro invece ha uno statuto differente: esso non

subisce deterioramento ed è sterile.

Per rappresentare il male di cui l’usuraio è detentore, egli è spesso raffigurato come un leone che divora la

preda, come una malvagia volpe o come una lupa, animale che nella Comedìa di Dante rappresenta per

l’appunto la cupidigia. Giacomo di Vitry, invece, paragona l’usuraio a un ragno e la sua tela al denaro, che

lascerà in eredità ai suoi figli “pronti a fare nuovamente guerra a Dio”67.

Eppure, nei secoli XIII, XIV e XV, il prestito a interesse è riabilitato parzialmente. A fronte dei

mutamenti storici, tra i quali la diffusione del denaro, la Chiesa introduce dei correttivi necessari per la

66 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Inferno a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze 2002, pp. 271 – 278,

vv. 1 – 78. 67 J. LE GOFF, La bourse et la vie. Economie et religion au Moyen Age ; trad. it. La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere a

cura di S. Addamiano, Laterza (collana <<Economica Laterza>>), p. 47.

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società, non più spietata e manichea come quella dell’Alto Medioevo68. Secondo l’opinione di Jacques Le

Goff espressa nel libro Lo sterco del diavolo, il principale strumento per evitare che l’usuraio sia votato alla

dannazione eterna è il Purgatorio, nuovo regno dell’oltretomba concepito all’interno di una visione più

rinnovata dell’aldilà. La seconda giustificazione del prestito a interesse è la ricompensa per il lavoro

(stipendium laboris), a differenza dell’Alto Medioevo che l’ha disprezzato come conseguenza del peccato

originale: la regola di san Benedetto, infatti, ha previsto l’obbligatorietà del lavoro, ma in ottica penitenziale.

Dal secolo XII la diffusione del culto mariano consente di rivalutare il lavoro: l’uomo è ora aiutante di Dio

nella costruzione del mondo. La terza giustificazione risiede nella distinzione tra proprietà di un bene

economico e uso del medesimo, presente nel diritto romano – cristiano e assente in quello talmudico, dove il

segno d’appartenenza è stabilito dall’uso della cosa. La separazione consente di scindere l’oggetto dal

proprio valore e, partendo sempre dall’idea di sterilità della moneta, la cristianità concepisce un denaro –

valore puro, in grado di quantificare l’astratto. Il meccanismo di questa evoluzione etica – economica si

rintraccia all’interno di quella nuova coscienza religiosa ed economica rappresentata dagli Ordini Mendicanti,

in particolar modo i Francescani, che sperimentano un ‘modo di possedere’ innovativo. Lo storico

Todeschini rivela che <<[…] la povertà come scelta di vita non appare semplice recupero e attualizzazione di

forme di esistenza evangelica, ma piuttosto ipotesi politico – religiosa rinviante a un modo di concepire la

ricchezza nel contesto urbano basso medievale.>>69. Due aspetti essenziali del mondo francescano devono

essere considerati: la ricerca di una definizione giuridica di vita povera e l’analisi sistematica della vita

economica dell’epoca. Per quel che riguarda la vita povera, la realizzazione della pratica di vita dei Minori è

possibile solo scindendo nelle cose l’uso giuridico dalla proprietà: la voluntaria paupertas corrisponde a usus

pauper, cioè fruizione delle cose e non proprietà d’esse. A partire dal generalato di Bonaventura, numerosi

scritti consolidano questa loro particolare visione del mondo economico. Spogliarsi della proprietà della cosa

conduce sia al millenarismo sia alla percezione di nuovi nessi che passano tra le merci e il loro valore. Il

principio dell’usus pauper è concomitante con la fase d’accumulazione mercantile, che caratterizza le città

italiane, francesi, inglesi e tedesche del secolo XIII, ed è in netto contrasto con quel mondo economico

altomedievale che ha inteso principalmente la ricchezza come fondiaria: i Francescani dichiarano la necessità

di una valutazione astratta dei beni affinché siano chiare le possibilità d’uso. Inoltre, rinunciare alla proprietà

in ambiente urbano, nel quale le merci sono fluttuanti e il denaro si svaluta continuamente, significa

riconoscere, sia eticamente sia religiosamente, un sistema mercantile di valori basato sulla possibilità di

guadagno in assenza della merce. Accanto alla questione della vita povera, i Francescani avviano un’analisi

della vita economica della loro epoca. In numerosi testi penitenziali, dalla Summa poenitentiae di Monaldo di

Capodistria al Supplementum Summae Pisanae di Niccolò da Osimo, si rivela una specifica attenzione

economica diretta a definire i corretti atteggiamenti dei mercanti all’interno di una città. Oltre ai testi

penitenziali, vi sono quelli che assumono la forma del tractatus, della quaestio e del quodlibet, nei quali si

distingue ciò che è moralmente e socialmente utile da ciò che è illecito tanto eticamente quanto

economicamente. Preannunciata da scritti come le questioni de superfluo o da quelle sulla compravendita di

68 LE GOFF, La borsa e la vita cit., p. 62. 69 TODESCHINI, La ricchezza degli ebrei cit., p. 129.

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Matteo di Acquasparta, la teoria economica francescana ha uno dei suoi risultati migliori nel trattato De

emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus di Pietro di Giovanni Olivi. Da questi scritti, inizia

una progressiva distinzione tra usura e credito fondata sul riconoscimento della contrattabilità del valore,

inteso come elemento scisso dalla cosa. Se, fino al secolo XII, l’usura è stata definita cessione illecita del

tempo e del denaro, basata sulla non vendibilità del primo e sulla sterilità del secondo, i Francescani

distinguono ora l’uso del denaro dal denaro stesso e il tempo contrattuale dal tempo della storia. Il denaro,

più che come oggetto monetato, è equivalente di valore puro; esso, determinando il valore delle cose e,

dunque, anche di se stesso, può essere ceduto a tempo determinato. Su questa base è ammesso il credito,

inteso come operazione finanziaria d’investimento o vendita di ricchezza astratta potenzialmente implicita

nella merce, mentre l’usura resta proibita, perché determina guadagno sterile e depauperante per il mondo

dell’economia cristiana: l’avaritia ebraica è rappresentata dalla volontà di possedere le cose e non il loro

valore. L’atteggiamento francescano si delinea con chiarezza a proposito della contrattazione del pegno: esso

cessa di essere oggetto acquistato, secondo la volontà giudaica, e diviene equivalente mercificato del denaro.

Inoltre, per evitare l’appropriazione ebraica del bene, si affida la vendita di questo al controllo locale: gli

ufficiali comunali intervengono nell’asta pubblica e ipotizzano la somma da restituire al debitore, ponendo

così un ostacolo all’arricchimento delle Comunità ebraiche. L’asta pubblica è intesa come rimedio alle

situazioni di bisogno, così come sostenuto da Bernardino da Siena, secondo il quale credito e debito si

riequilibrerebbero sul mercato, grazie alla circolazione della ricchezza e alla scomparsa dell’usura. Tuttavia,

colui che chiede prestiti agli Ebrei diviene colpevole, perché non solo non immette ricchezza nella città, ma

gode di un credito, fondato su pegno, immaginario dal punto di vista finanziario. L’eliminazione del credito

ebraico, cioè della conversione in merci di capitali non più controllabili dal sistema economico cristiano,

diviene l’obiettivo politico dei Francescani e dei legislatori, imbevuti di cultura minoritica. Strettamente

connessa con la predicazione francescana, è il fenomeno del prestito pubblico e la fondazione dei Monti di

Pietà, sezioni deputate al soccorso dei meno abbienti. Gli ambienti francescani intervengono a favore sia del

prestito pubblico sia della compravendita di titoli obbligazionari che garantiscono la riscossione di un

interesse pubblico. Il prestito è fruttuoso se, con esso, un Comune o un privato, come la società marittima,

finanzia un’impresa commerciale. Come spiega Todeschini, <<l’accumulazione di ricchezza ebraica non

poteva che risultare incompatibile ad una visione teorizzante e sistematica del mercato cristiano: all’ottica

francescana che prospettava una città organizzata su basi di equità e razionalità mercantili – finanziarie,

l’economia ebraica si rivela come patente difformità, negazione cioè della capacità ormai riconosciuta al

denaro di omogeneizzare e moltiplicare il valore delle cose.>>70.

70 TODESCHINI, La ricchezza degli ebrei cit., p. 170.

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Le potenzialità lucrative del denaro, inoltre, sono rese valide dalle seguenti formule:

la constatazione di un rischio, resicum, termine che entra nella riflessione teologica per merito di

Raimondo di Peñafort, che se ne serve a proposito del prestito marittimo (foenus nauticum);

l’idea di giustizia che si concretizza nella concessione di un prestito a interesse che può

raggiungere il 20%; oltre questo limite l’autorità interviene. Nel Medioevo un tasso d’interesse al

20% era considerato ‘ragionevole’; paragonato ai valori attuali, che si aggirano tra il 2,5% e il 3%,

è fin troppo elevato;

il damnun emergens, ossia un danno inatteso dovuto a un ritardo nel pagamento;

il lucrum cessans, cioè l’impedimento di un profitto maggiore;

il periculum sortis, cioè il rischio finanziario di perdere il capitale prestato;

la ratio incertitudinis, vale a dire la messa in conto dell’incertezza nel calcolo economico. I

concetti di certezza e incertezza avranno un ruolo fondamentale nello sviluppo del capitalismo.

Tuttavia, la differenza tra interesse lecito e illegalità dell’usura può essere spiegata facendo riferimento

anche alla differenza di ruolo sociale degli operatori economici che stipulano contratti. L’illegalità della

compravendita da parte dell’usuraio, più che dall’astratta riflessione sulla natura del denaro, dipende

dall’infamia della professione che si propone come estranea agli interessi cittadini o ecclesiali, ossia

indifferente al bene comune: mentre il mutuo consistente nella vendita dei redditi agricoli prodotti da una

chiesa determina vantaggi sia per la chiesa sia per coloro che sono legati all’istituzione, la vendita del denaro

operata dall’usuraio non ha alcun significato pubblico o istituzionale. Inoltre, se il pagamento ritardato di un

prestito colpisce la collettività (mercanti, contadini, signori territoriali ed ecclesiastici) e dunque prevede che

il prestatore sia una persona nota e soggetto utile alle comunità, lo stesso non può dirsi per l’usuraio

manifesto: il tempo delle istituzioni ecclesiastiche, dei mercanti e dei proprietari terrieri è allora ‘diverso’ da

quello dell’usuraio. Ad esempio, un monastero cede il proprio reddito per un certo periodo o per sempre; nel

momento in cui vende quel reddito a un prezzo inferiore alla somma che avrebbe percepito da quei redditi

negli anni avvenire, può attribuire al tempo di percepimento un valore che può essere commerciato. Si tratta

quindi di pagamento di redditi futuri. In questo caso la relazione tra il monastero e il compratore delle sue

rendite ha un significato socialmente legittimo, poiché l’istituzione ‘monastero’ è uno spazio utile e

produttivo, sia economicamente sia moralmente, per l’intero mondo della collettività. Il soggetto civico, che

gestisce i beni, essendo riconosciuto come onorevole e affidabile, può assegnare al tempo un valore

calcolabile. Se, invece, il significato civico dell’apertura di credito non è identificabile, allora al tempo

contrattato non può essere attribuito alcun prezzo: l’usuraio non ha esistenza pubblica. Tra i secoli XI e XIII,

si fa più stretto il legame tra identità civica accertabile, ossia i soggetti che determinano vantaggi per l’intera

società, e legalità dell’appropriazione del tempo, al quale, sebbene sia oggetto divino, può essere attribuito

un valore, ossia far rendere fruttuoso un investimento: coloro che vogliono ricavare profitti dalla vendita del

tempo, devono essere autorizzati affinché possano sperimentare, in forma pubblica e controllabile, la logica

dello scambio creditizio. Alla ricchezza delle grandi compagnie mercantili, che è progressivamente

riconosciuta dall’autorità ecclesiastica, in ragione dell’ottima reputazione dei mercatores, come essenziale

36

per il benessere collettivo, si contrappone la silva degli usurai, che commettono abuso, in virtù della loro non

riconoscibilità, quando pretendono di assegnare un valore al tempo. Tuttavia, esistono anche, tra la fama

internazione del grande finanziere e l’infamia dell’usuraio, situazioni intermedie, come quelle dei prestatori

lombardi (il Ser Ciappelletto del Decameron di Giovanni Boccaccio), la cui credibilità è incerta. Solo la

restituzione, da parte di quest’ultimi, delle usure, solitamente una donazione prestigiosa fatta a chiese o città,

consente loro il recupero della credibilità pubblica71. In tale modo l’usuraio riesce ad avere salva la vita, cioè

ottenere “la borsa e la vita”72, come dice Le Goff.

La crescente diffusione del denaro per rispondere alle esigenze del commercio è resa possibile

dall’apertura di nuove miniere d’argento e di piombo argentifero in Boemia, in Calabria, in Carinzia, in

Inghilterra, nei Pirenei, in Sassonia, in Sardegna, nel Tirolo, nella Toscana meridionale e in Ungheria. La

regione mineraria di Freiberg, che vanta venticinque zecche nel 1198, ne conta quaranta nel 1250. Medesimo

dinamismo si registra in Toscana e, grazie all’iniziativa dei vescovi di Maguellone, nelle regioni francesi

dell’Artois e della Linguadoca. Nuove tecniche di estrazione del metallo, diffuse dai minatori tedeschi, sono

applicate alle miniere di Carlisle in Inghilterra, a quelle della Sardegna, di Freiberg, di Friesach in Tirolo, di

Jihlava in Moravia e di Volterra e Montieri presso Siena, migliorandone così lo sfruttamento73. I sovrani e i

signori mettono sotto il proprio controllo le zecche poste all’interno della loro giurisdizione: a Venezia, a

Firenze e in Francia, la direzione delle zecche è affidata a funzionari pubblici, che stipulano con i proprietari

di queste contratti d’affitto, definendo la quantità di moneta da coniare, i ricavi spettanti al re e al

proprietario, le tecniche e il costo di coniazione.

Così come lo storico Fernand Braudel ha parlato di <<un lungo secolo XVI>>, l’inglese Spufford scrive

di <<un lungo secolo XIII>> che va dal 1160 al 133074. Ed è proprio in questo periodo che l’Occidente

conosce uno sviluppo fiorente degli scambi commerciali interni ed esterni, accompagnati da transazioni

sempre più importanti, tali da non far ritenere più vantaggioso l’uso del denarius. Quest’ultimo, ridottosi

ormai al peso di 0,08 g, tanto leggero da galleggiare sull’acqua e talmente fragile da spezzarsi, è

progressivamente sostituito dai lingotti, più robusti e pertanto pretesi dai papi, insediatisi ad Avignone, dalle

chiese degli Stati europei, in Francia dal re Luigi IX per finanziare le crociate e in Italia per il pagamento dei

tributi cittadini. Per quel che riguarda l’Italia, nel 1202 il Comune toscano di Montepulciano si allea con

Firenze cui versa 10 marche d’argento annue; il Comune di Città di Castello eroga alla città di Firenze 30

marche d’argento; nel 1288 Pisa, sconfitta da Genova nella battaglia di Meloria (1284), è costretta a pagare

20.000 marche d’argento. L’accresciuta circolazione dei lingotti, alla fine del Duecento, induce i governi a

regolamentare e tassare la loro diffusione: Venezia e i Paesi Bassi, rispettivamente nel 1273 e nel 1299,

imprimono su di essi emblemi civici di garanzia. È questo il presupposto che permette la reintroduzione della

moneta d’oro e il superamento del denarius, moneta del sistema carolingio. La fine del monometallismo

carolingio avviene gradualmente: il primo passo è la produzione di monete dello stesso tipo, ossia i

tradizionali denari; il secondo atto è la coniazione di monete differenti e più pesanti. Il cambiamento ha

71 TODESCHINI, Visibilmente crudeli, pp. 122 – 130. 72 LE GOFF, La borsa e la vita cit., p. 59. 73 LE GOFF, Lo sterco del diavolo cit., p. 49. 74 SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe cit., p. 240.

37

inizio nei primi anni del secolo XIII e si sviluppa fino al secolo XIV in ragione del differente grado di

sviluppo economico degli stati europei. La produzione di nuove monete non può che essere avviata

nell’Italia del nord, regione più commercialmente avanzata d’Europa, dove giunge una grande quantità

d’argento e dove, infine, i tradizionali denari sono i più leggeri d’Europa. Infatti, la riforma di Carlomagno

aveva portato il peso della moneta a 1,7 g, ma di anno in anno essa si era svalutata: i denari di Pisa e Venezia,

nel 1170, pesano rispettivamente 0,2 g e 0,1 g a differenza del penny inglese, che negli stessi anni contiene

1,3 g d’argento. Una prima soluzione al problema è semplicemente rimpiazzare il denaro vecchio con uno

nuovo. Il tentativo dell’imperatore Federico I, realizzato tra il 1155 e il 1161, va proprio in questa direzione:

i denari dell’imperatore sostituiscono immediatamente la vecchia moneta svalutata, ma il suo contributo non

fornisce ancora la soluzione draconiana del problema. Bisogna attendere probabilmente la fine del secolo XII

o l’inizio del secolo XIII, quando Venezia conia grosse monete d’argento, i grossi. Il grosso pesa 2,18 g, con

un titolo di 965/1000 di lega, cioè quasi puro, ed è la moneta più considerevole che sia mai stata coniata

nell’Europa occidentale dall’antichità. I vecchi denari carolingi sono ora definiti ‘piccoli’, poiché

contengono ¼ d’argento e ¾ di lega: anche nei contratti si ha la distinzione tra moneta ‘piccola’ e quella

‘grossa’. Nella città veneta il grosso è chiamato dal popolo matapan, nome che deriva o dal toponimo ‘capo

Matapan’, la penisola centrale delle tre che

delimitano a sud il Peloponneso, uno dei luoghi

della quarta crociata, o, secondo Spufford, dalla

parola araba mantapan, che significa ‘il re

seduto’. La nuova moneta veneziana somiglia

molto ad alcune monete bizantine emesse dagli

imperatori Giovanni II Comneno, Manuele

Comneno e Andronico I Comneno, delle quali

imita lo stile (figure austere, immobilità, semplicità e profonda religiosità) e i soggetti. Il dritto della moneta

presenta San Marco che porge il vessillo al doge, al rovescio si ha il Cristo Redentore seduto sul trono. La

data di coniazione del grosso si colloca tra il 1194 e il 1201: il cronista francese Martino da Canal, nella sua

Chronique des Veniciens (1270), indica il 120175; il doge trecentesco Andrea Dandolo, nella sua Chronicon

Venetum, asserisce che il grosso sia stato coniato dal suo antenato Enrico Dandolo nel 1194; infine, il

cronista Mario Sanudo, vissuto nel secolo XVI, ne colloca l’emissione nel 1194 in seguito alla firma di un

trattato tra Venezia e Verona, relativo alla libera navigazione dell’Adige. Dandolo e Sanudo, dunque,

propendono per l’anno 1194, sebbene, secondo Spufford, l’occasione per coniare questa nuova moneta sia

stata fornita solo in occasione della quarta crociata indetta da Innocenzo III. Infatti, nel 1201, i crociati

consegnano ai veneziani 85.000 marche imperiali d’argento, garantendosi così il trasporto per la fine di

giugno del 1202. Venezia avrebbe potuto servirsi di quella cifra per coniare circa 320 milioni di vecchi

75 MARTINO DA CANALE, La cronaca dei veneziani, in Archivio storico italiano, vol. 8 (1845), Tipografia Galileiana, Firenze,

p. 321: <<Messere Errico Dandolo, il nobile Doge di Venezia, mandò venissero li carpentieri e fece rettamente apparecchiare e fare

palandre e navi e galee a gran numero, e fece prestamente fare medaglie d’argento per dare il soldo ai maestri ed ai lavoratori, ché le

picciole ch’elli aveano non venian loro così opportune. E del tempo di Monsignore Errico Dandolo in qua fu cominciato in Vinegia a ferire le nobili medaglie d’argento, che l’uomo dice Ducato, le quali corrono per mezzo il mondo per la bontà loro.>>.

Grosso o matapan veneziano

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denari, tuttavia la fragilità di quelle monete induce il doge Enrico Dandolo a ordinare la coniazione del

grosso, diffusosi ben presto in Europa. Il rapporto di cambio tra la moneta ‘grossa’ e la ‘piccola’ non sarà

però mai stabile a causa dell’inflazione cui sono soggetti i piccoli: il grosso veneziano, al momento della sua

emissione, vale 24 denari, ma, come afferma il cronista Marino Sanudo nelle sue Vitae Ducum Venetorum,

durante la prima metà del secolo XIII, raggiunge il valore di 26 denari. Nel 1265 il grosso si scambia per 27

piccoli, nel 1269 sale al valore di 28 piccoli e nel 1282 si ferma a 32 monete ‘piccole’.76

Lentamente, nuove zecche iniziano a far circolare i propri denari, facendo così concorrenza a quelli

veneziani: Genova, nella prima decade del secolo

XIII, batte i propri grossi, seguita nel 1218 da

Marsiglia. Tra il 1220 e il 1230, Verona, Milano

con il proprio ambrosino, Parma, Bologna,

Ferrara e Reggio nell’Emilia si dotano della

nuova moneta d’argento, anticipando le città

toscane di Siena (1231), Pisa e Firenze (1237),

che coniano grossi d’argento, allineando il peso,

1,4 g o 1,5 g, a quello delle città di Genova, Bologna e Ferrara. Il Regno di Sicilia fa circolare nel 1221 i

nuovi denari federiciani emessi dalle zecche di Messina e di Brindisi. I denari di Messina sono distribuiti in

Sicilia e in Calabria, mentre quelli di Brindisi sono erogati nelle restanti provincie del Regno e imposti a un

cambio di 16 denari contro 1 tarì. Federico II, nel tentativo di raccogliere quanto più oro possibile, istituisce

un rapporto di cambio fittizio tra oro e argento di 1:5,8, mentre per contenuto di fino esso si sarebbe dovuto

attestare a 1:8: la corona dà 3,52 g di argento contro 0,61 g d’oro fino77. Anche Roma, nel 1253, si dota di un

proprio grosso che, su iniziativa del console Brancaleone d’Andolo, è chiamato romanino. Infine, Carlo

d’Angiò, divenuto re di Sicilia nel 1266, dopo aver sconfitto il re svevo Manfredi nella battaglia di

Benevento, fa coniare nel 1278 i carlini.

Quanto alle monete d’oro, la ripresa del conio aureo avviene inizialmente nella penisola iberica, dove

giunge una grande quantità di questo metallo prezioso, proveniente dall’Africa occidentale e settentrionale.

Nel 981 si attesta per la prima volta l’utilizzo della moneta d’oro tra i cittadini di Barcellona; nell’ultima

decade del secolo, più della metà (57%) dei catalani si serve della moneta d’oro; dalla seconda decade del

secolo XI la grande maggioranza (87%) delle transazioni è in oro, il quale si trova nelle mani di persone

mediamente ricche, di fabbri, di preti e di proprietari di piccoli allodi. L’uso regolare dell’oro non si diffonde

dall’altra parte dei Pirenei: si attesta, infatti, un solo pagamento in oro a Narbona tra il 990 e il 1050. Solo

dalla fine del secolo XI, grazie ai costanti rifornimenti di lingotti d’oro provenienti da Ceuta, la contessa di

Barcellona può intraprendere la coniazione di monete d’oro nella zecca cittadina. In concomitanza con

quanto fatto dalla contessa di Barcellona, i prìncipi longobardi di Salerno coniano i rubā’i, che valgono ¼

76 SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe cit., pp. 225 – 239. 77 L. TRAVAINI, Romesinas, provesini, turonenses...: monete straniere in Italia meridionale e in Sicilia (XI-XV secolo), in

Moneta locale, moneta straniera: Italia ed Europa XI-XV secolo. The Second Cambridge Numismatic Symposium: Local Coins,

Foreign Coins: Italy and Europe 11th-15th Centuries, a cura di L. TRAVAINI, Società Numismatica Italiana, Collana di Numismatica e Scienze Affini, 2, Milano 1999, pp. 113-133.

Grosso genovino

39

del dīnār, la cui produzione prosegue anche durante il regno del condottiero normanno, Roberto il Guiscardo.

Nel 1170 Mohamed ben Saad, l’ultimo degli Almoravidi, decide la chiusura della zecca di Murcia e la

cessazione della coniazione dei dīnārs; re Alfonso VIII, due anni dopo, per soddisfare la domanda di moneta

d’oro, conia a Toledo i morabetinos o maravedis. León e il Portogallo seguono l’esempio di Alfonso VIII

circa quindici anni dopo. Nel 1240 i denari spagnoli, fino ad allora coniati su modello di quelli degli

Almoravidi, saranno sostituiti dalla dobla, che sarà la moneta d’oro della Castiglia per tutto il tredicesimo

secolo. Una decade prima, l’imperatore Federico II, come re di Sicilia, aveva coniato per motivi politici un

doppio dīnār. Quest’ultimo, conosciuto come augustale e pesante 5,3 g, presenta un ritratto idealistico di

Federico II: l’imperatore è ritratto come un sovrano romano ed è chiamato Cesare Augusto. Le monete

menzionate non ottengono il successo sperato nei mercati internazionali, limitandosi a circolare solo in

ambito locale. La diffusione internazionale della monetazione aurea si deve a Genova e a Firenze, che,

intrattenendo scambi commerciali con i porti africani di Bougie e Ceuta, quest’ultimo sostituito da Tunisi dal

1220, ricevono oro in lingotti o in polvere. I mercanti italiani acquistano l’oro fornendo agli arabi l’argento,

dato il favorevole rapporto di cambio tra i due metalli che si attesta intorno a 6,5:1. Dal 1252 c’è abbastanza

oro a Genova e a Firenze, approvvigionata dai mercanti pisani, da permettere loro di coniare il genovino e il

fiorino d’oro. A differenza delle monete spagnole e federiciane, il fiorino e il genovino non hanno il loro

modello nelle monete arabe: il valore del fiorino è pari a quello di 1 lira o a quello di 20 solidi, mentre 1

genovino vale 8 solidi. Entrambe le monete hanno

approssimativamente lo stesso peso: 3,53 g il

genovino; 3,54 g il fiorino. Sebbene l’anno, il peso e

il valore possano far pensare a un accordo monetario

tra le due città, non ci sono documenti storici che lo

provino. Inizialmente coniate per uso interno in

Liguria e in Toscana, le due monete d’oro saranno

ben presto utilizzate a livello internazionale,

circolando specialmente nel Levante e nel Maghreb e sostituendo l’hyperpyron bizantino.

La Nuova Cronica di Giovanni Villani, scritta settanta anni dopo l’introduzione del fiorino, fornisce la

più chiara descrizione riguardo all’introduzione della moneta. Il cronista italiano scrive:

<<Come di prima si feciono in Firenze i fiorini dell'oro.

Tornata e riposata l'oste de' Fiorentini colle vittorie dette dinanzi, la cittade montò molto inn-istato e in ricchezze e signoria, e in

gran tranquillo: per la qual cosa i mercatanti di Firenze, per onore del Comune, ordinaro col popolo e comune che·ssi battesse moneta

d'oro in Firenze; e eglino promisono di fornire la moneta d'oro, che in prima battea moneta d'ariento da danari XII l'uno. E allora si

cominciò la buona moneta d'oro fine di XXIIII carati, che si chiamano fiorini d'oro, e contavasi l'uno soldi XX; e ciò fu al tempo del

detto messere Filippo degli Ugoni di Brescia, del mese di novembre gli anni di Cristo MCCLII. I quali fiorini, gli otto pesavano una

oncia, e dall'uno lato era la 'mpronta del giglio, e dall'altro il san Giovanni. Per cagione della detta nuova moneta del fiorino d'oro,

sì·cci acadde una bella novelletta, e da dovere notare. Cominciati i detti nuovi fiorini a spargersi per lo mondo, ne furono portati a

Tunisi in Barberia; e recati dinanzi al re di Tunisi, ch'era valente e savio signore, sì gli piacque molto, e fecene fare saggio, e trovata

di fine oro, molto la commendò, e fatta interpetrare a' suoi interpetri la 'mpronta e scritta del fiorino, trovò dicea: “Santo Giovanni

Batista”; e dal lato del giglio: “Fiorenzia”. Veggendo era moneta di Cristiani, mandò per gli mercatanti pisani che allora erano franchi

Augustale di Federico II

40

e molto innanzi al re (e eziandio i Fiorentini si spacciavano in Tunisi per Pisani), e domandogli che città era tra' Cristiani quella

Florenza che faceva i detti fiorini. Rispuosono i Pisani dispettosamente e per invidia, dicendo: “Sono nostri Arabifra terra”, che tanto

viene a dire come nostri montanari. Rispuose saviamente il re: “Non mi pare moneta d'Arabi; o voi Pisani, quale moneta d'oro è la

vostra?”. Allora furono confusi e non seppono rispondere. Domandò se tra·lloro era alcuno di Florenza; trovovisi uno mercatante

d'Oltrarno ch'avea nome Pera Balducci, discreto e savio. Lo re lo domandò dello stato e essere di Firenze, cui i Pisani faceano loro

Arabi; lo quale saviamente rispuose, mostrando la potenzia e la magnificenzia di Fiorenza, e come Pisa a comparazione non era di

podere né di gente la metà di Firenze, e che non aveano moneta d'oro, e che il fiorino era guadagnato per gli Fiorentini sopra loro per

molte vittorie. Per la qual cagione i detti Pisani furono vergognati, e lo re per cagione del fiorino, e per le parole del nostro savio

cittadino, fece franchi i Fiorentini, e che avessono per loro fondaco d'abitazione e chiesa in Tunisi, e privilegiogli come i Pisani. E

questo sapemo di vero dal detto Pera, uomo degno di fede, che·cci trovammo co·llui in compagnia all'uficio del priorato.>>78

Venezia, contrariamente a Firenze e Genova, tarda a coniare la sua moneta d’oro, perché non lega

inizialmente il suo commercio ai porti dell’Africa del nord. Solo nel 1284 la città veneta si doterà dei suoi

ducati d’oro, allineati al peso e al valore delle monete di Genova e Firenze: il loro valore è pari a 18 grossi o

39 denari. Tuttavia la moneta veneziana si distingue da quelle delle altre due città italiane, perché coniata

con lo scopo di essere utilizzata esclusivamente dai grandi mercanti. Il ducato, che sostituirà il fiorino e il

genovino, sarà in ogni modo la moneta più utilizzata negli scambi tra l’Occidente e l’Oriente, tant’è che, dal

1425, i Mamelucchi conieranno gli ashrafi

imitando esattamente il ducato79. È importante

ora soffermarsi sulla situazione della Francia: la

quantità di metallo prezioso contenuto nei

denari muta freneticamente assecondando i

capricci finanziari dei vassalli80, i quali, inoltre,

fanno un uso irresponsabile delle zecche, non

imprimendo sulle monete né il sigillo reale né

quello del coniatore. Nel secolo X, data la scarsa circolazione dello pfennig, nella Francia occidentale si

battono i tornesi leggeri (1 g), coniati dall’abate di San Martino di Tours; i parisis, prodotti dalle zecche

regie, si diffondono nell’Île de France, mentre nei territori orientali francesi si impongono i provinois dei

conti di Champagne. Durante il regno di Filippo Augusto (1180 – 1223) il caos monetario è ricondotto

all’ordine: il denaro parisis ha corso nella parte orientale del Regno e la moneta tornese in quella occidentale.

In seguito re Luigi IX (1226 – 1270) riorganizzerà la produzione e la circolazione della moneta attraverso

quattro ordinanze. La prima del 1262 stabilisce che la moneta del re ha corso in tutto il regno, mentre quella

dei signori può circolare solo all’interno dei loro domini. La seconda del 1263 stabilisce che i tornesi leggeri

e i parisis debbano circolare nel Regno e che siano accettati nei versamenti di somme al re. La terza del 1265

fissa il rapporto di 2 tornesi leggeri per 1 parisis, vieta la circolazione ai denari di Poitou, di Provenza e di

Tolosa, poiché imitano le monete regie, e dà corso momentaneo, per sopperire all’insufficienza di tornesi

leggeri e di parisis, ai nantois, angevis, mansois e alle sterline inglesi. Infine, l’ordinanza del 1266 impone la

coniazione del grosso tornese (argent-le-roi), pesante 4,2 g, equivalente a 12 tornesi leggeri, e della moneta

78 GIOVANNI VILLANI, Nuova Cronica a cura di G. Porta, Fondazione Pietro Bembo/Guanda, Parma 1991, pp. 279 – 281. 79 SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe cit., pp. 163 – 186. 80 LOPEZ, An Aristocracy of Money in the Early Middle Ages, p. 12.

Ducato veneziano

41

d’oro, lo scudo, pesante 4,2 g, che ha

però scarsa circolazione81. In seguito,

nel 1290, Filippo il Bello batterà il

reale (3,5 g) ottenendo lo stesso

risultato della moneta d’oro di re Luigi,

ma il successo arriderà solo all’agnello,

coniato tra il 1311 e il 1326.

Bisogna attendere i primi decenni del secolo XIV, perché l’Inghilterra emetta le sue monete d’oro: il

leopardo e il nobile. La coniazione di queste permette al re Edoardo III di comprare l’alleanza dei prìncipi

fiamminghi e tedeschi in vista della guerra dei Cent’Anni contro la Francia. Tra il 1300 e il 1346, i Paesi

Bassi, l’Ungheria, la Boemia e la Spagna battono la propria moneta d’oro ‘nazionale’, mentre la Polonia si

dota di una sua moneta d’oro solo nel 1528.

Le monete sin qui citate possono essere divise in due gruppi: il denarius e i biglioni (monete di bronzo); i

grossi e le monete d’oro. La prima moneta d’oro, che si consolida su scala internazionale, è il fiorino. Le

monarchie europee imitano ben presto la moneta fiorentina: il fiorino ungherese, quello tedesco, l’écu

francese, coniato per la prima volta nel 1385, e il

nobile inglese riproducono nel peso e nel fino il

denaro di Firenze. Tuttavia, dalla metà del secolo

XIV, il ducato diviene il mezzo di pagamento

preferito: il predominio della moneta veneziana è

riconosciuto da Firenze nel maggio del 1422,

quando la città toscana conia il fiorino a

imitazione del ducato. Il valore dei pezzi aurei è

talmente elevato che i soli a maneggiarli sono i

nobili, i grandi mercanti e gli ufficiali di governo. Infatti, Georges Chastellain, cronista e poeta burgundo,

narra che il Duca di Borgogna, Filippo il Buono, smarritosi nella foresta durante una battuta di caccia, chiede

ospitalità a un taglialegna al quale promette 4 patard. Tuttavia il duca, non avendo con sé spiccioli, chiede al

boscaiolo di cambiargli una moneta d’oro, oggetto mai visto dall’uomo. Chastellain termina il racconto

informando il lettore che il taglialegna accompagnerà il duca alla strada principale, intascando il fiorino

d’oro82. Tuttavia, per la gran parte della popolazione, la moneta più adatta è quella d’argento, di cui ci si

serve per eseguire i versamenti ordinari come salari, canoni e imposte. A un livello più basso circolano i

biglioni, usati da quegli abitanti che vivono ai limiti della povertà. Essi sono impiegati per gli acquisti

quotidiani, per piccole quantità di pane e carne, birra o vino, per remunerare i servizi delle prostitute e per

ricevere le elemosine. Essi contengono 1/10 d’argento e 9/10 di bronzo e sono perciò chiamati pièces noires,

monete nere. Tali monete, molto spesso non coniate per mancanza di profitto, circolano solo nelle grandi

81 LE GOFF, Lo sterco del diavolo cit., pp. 67 – 68. 82 GEORGES CHASTELLAIN, Oeuvres, ed. F. Heussner, Libraire – Éditeur, Bruxelles 1864.

Nobile inglese di Edoardo III

Leopardo inglese di Edoardo III

42

capitali come Parigi e Londra, nell’Italia settentrionale, dove è concentrata gran parte della popolazione

europea del Medioevo, e nei Paesi Bassi 83 . In seguito, nella prima metà del secolo XVI, il costante

svilimento del denarius indurrà i governanti ad abbandonarne il conio a favore di nuove monete: pezzi da

mezzi denari (oboli), da 3 denari (terlini), da 4 (quattrini), da 5 (cinquini), da 6 (sesini), da 8 (ottini) e da 12

(soldini).84 Il regime gius – pubblicistico della moneta immaginaria rende possibile lo sdoppiamento tra

moneta grossa e piccola, le quali appartengono a due spazi monetari diversi. La moneta minuta circola

all’interno della comunità grazie all’autorità del sovrano, il quale le attribuisce valore estrinseco

prescindendo dal suo contenuto metallico. Anche se il contenuto metallico dovesse progressivamente

erodersi o essere praticamente pari allo zero, la sua funzione sociale sarebbe politicamente garantita. Nella

moneta piccola, l’aspetto più rilevante, il vettore, non è il metallo che essa trasporta, bensì la fides che

assicura ai cives di una comunità di poter acquistare beni di prima necessità o ricevere il salario. Dunque, è

una moneta esclusivamente fiduciaria. La moneta grossa, invece, capovolge il vettore menzionato, poiché ciò

che conta non è il suo valore nominale, ma il contenuto metallico. Poiché per il grande mercante tale moneta

ha valore solo per la quantità di metallo prezioso contenutovi, essa sembra ridursi a merce perdendo la

funzione di valore di scambio e riduce lo scambio internazionale a mero baratto. Si può allora dedurre che la

moneta minuta apprezza ma non è apprezzata in quanto lontana dalla merce di cui è fatta, mentre quella

grossa è apprezzata a causa dell’alto valore intrinseco, ma non apprezza, poiché tende a essere posseduta per

ciò che è. Grazie al sistema di moneta di conto, il prìncipe può adottare politiche monetarie differenziate:

privilegiare gli obiettivi sociali attraverso il controllo del numero di pezzi monetali all’interno della sua

comunità e del valore nominale della moneta; preservare la quantità di metallo prezioso nelle monete grosse,

che è ciò cui guarda il mercante. L’equilibrio interno, ossia la tendenziale immutabilità del valore nominale

della moneta bassa, pare ispirato al principio della giustizia distributiva (rapporto tra reddito e beni

disponibili di prima necessità), mentre quello esterno, vale a dire la tendenziale immutabilità dell’intrinseco

della moneta alta, è ispirato al principio della giustizia commutativa (equivalenza tra beni scambiati)85. Lo

storico Cipolla rileva a proposito86:

Le forze inflazionistiche che continuarono ad operare si concentrarono sulla <<moneta piccola>> che rimaneva come si è detto –

la moneta predominante nella circolazione interna e che costituiva l’unità di base del sistema dei prezzi interni. Bisogna anzi

aggiungere che nella nuova situazione la pressione inflazionistica fu sollecitata ed accentuata tra l’altro anche dal carattere

esclusivamente <<interno>> assunto dalla <<moneta piccola>> e dal nuovo meccanismo del sistema e del mercato monetario.

Mentre la <<moneta piccola>> veniva travolta da convergenti forze inflazionistiche, la <<moneta grossa>> - si è detto – si ritirava

nella rarefatta atmosfera delle transazioni internazionali e dell’alta finanza dove motivi economici e ragioni di prestigio

concordemente la sostenevano in una privilegiata posizione di stabilità intrinseca.

83 SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe cit., pp. 319 – 338. 84 CIPOLLA, Le avventure della lira cit., p. 58. 85 BARCELLONA, Ius monetarium cit., pp. 128 – 141. 86 CIPOLLA, Le avventure della lira cit., p. 55.

43

Il regime della moneta grossa e piccola induce i governanti a:

vietare l’esportazione di oro e di monete auree così da assicurare il pareggio nella bilancia dei

pagamenti;

vietare il cambio tra moneta piccola e grossa (divieto di arbitraggio). Tale divieto, dal quale sono

esenti i cambiavalute, evita che il possessore di molte monete piccole, dal contenuto intrinseco

nullo, possa convertirle in grosse, dall’alto valore intrinseco;

vietare l’importazione di monete piccole straniere, che impediscono al re di controllare lo stock

interno di denaro.

I principi e gli ambiti di circolazione possono essere ricondotti alla seguente tabella:

Tabella 4 – Principi e ambiti di circolazione dei due tipi di moneta

Mercato di tipo A (circolazione nazionale) Mercato di tipo B (circolazione internazionale)

Pubblico e regolamentato Privato e libero

Scambio al minuto di beni di prima necessità Scambio all’ingrosso di beni superflui o di lusso

Fra produttori e consumatori per lo scambio diretto

di risorsi fra città e campagna

Fra intermediari specializzati che operano

speculando

Politica monetaria = immutabilità dell’estrinseco Politica monetaria = immutabilità dell’intrinseco

Mezzo di scambio: moneta minuta (rame, bronzo) Mezzo di scambio: moneta grossa (oro e argento)

Giustizia distributiva (equilibrio tra lavoro e beni) Giustizia commutativa (equivalenza tra merci

scambiate)

FONTE: BARCELLONA, Ius monetarium, p. 167.

44

Figura 2 - Principali monete nell'Europa del Tardo Medioevo.

FONTE: SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe, p. 294.

45

Durante i secoli XIII e XIV le monete sono soggette a continue variazioni, sovente indebolimenti. Lo

slittamento del valore intrinseco dei denari è dovuto alle seguenti cause:

a) aumento della domanda di moneta favorito dall’incremento della popolazione;

b) aumento della spesa degli Stati e correzione della bilancia dei pagamenti;

c) pressione di gruppi sociali;

d) tecniche di emissione delle zecche che operano sulla base del profitto, cioè più pezzi coniano più

guadagnano;

e) usura e tosatura del denaro;

f) vittoria dell’oro.

Per quel che riguarda il punto a, le autorità affrontano la carestia monetae, fenomeno già verificatosi nel

secolo XI, aumentando il numero di pezzi monetali a discapito del loro valore intrinseco.

Quanto a b, i re, che hanno bisogno di monete, agiscono manipolandole, cioè abbassano il contenuto

metallico lasciando invariato il valore nominale. Gli effetti della manipolazione si avvertono

drammaticamente in Francia, dove i sovrani, da Filippo il Bello a Filippo VI, guastano il valore delle monete

per ridurre l’indebitamento, per ovviare al rialzo dei prezzi dei metalli e per far fronte alla guerra dei

Cent’Anni. Filippo il Bello (1285 – 1314) opera un primo aggiustamento nel 1290, ma deve ricorrere ad altri

nel 1295, nel 1303, nel 1306, nel 1311 e nel 1313 (gli aggiustamenti gli valgono il soprannome di falsario).

Una ferma condanna a queste spregiudicate operazioni finanziarie giunge anche da Dante.

<<Lì si vedrà il duol che sovra Senna

induce, falseggiando la moneta,

quel che morrà di colpo di cotenna.>>87

Durante i regni di Filippo VI di Valois (1328 – 1350) e di Giovanni il Buono (1350 – 1364), i mutamenti

monetari sono sempre più frenetici: il valore del grosso tornese, che nel 1336 si attesta a 1/12 del marco

d’argento, sale nel 1353 a 1/64 dello stesso; la parità della libbra tornese, che nel 1266 è di 80 g d’argento

fino, scende sino a 20 g; tra il 1351 e il 1360, la stessa libbra subisce altre 71 mutazioni. Quest’ultimi

mutamenti, diretti sia a svalutare sia a rivalutare la moneta (una specie di stop and go dell’età medievale),

hanno sicuramente un impatto dannoso sull’economia francese. La situazione volge alla normalità dopo il

1360 per merito del re Carlo V, il quale, servendosi della bolla del 1309 di papa Clemente V che prevede la

scomunica per i falsari, argina le contraffazioni e le speculazioni. Durante il regno di Carlo V, la questione

monetaria è oggetto anche di un trattato scritto da Nicole Oresme e intitolato Tractatus de origine, natura,

jure, et mutationibus monetarum. Nell’opera l’autore formula i primi rudimenti di un’amministrazione

monetaria, mostra le controindicazioni delle oscillazioni delle monete, la cui stabilità deve essere garantita

dai sovrani e insiste sul concetto di moneta come bene del popolo. Un secolo più tardi, Gabriel Biel, teologo

tedesco dell’Università di Tubinga, scrive il Tractatus de potestate et utilitate monetarum, nel quale recupera

le tesi espresse da Nicole Oresme.

87 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Paradiso, pp. 542 – 543, vv. 118 – 120.

46

Diversamente dal Regno di Francia, l’Inghilterra si distingue per la stabilità della sua moneta. La libbra

inglese pesa 330 g nell’800 ed è ancora a 324 g nel secolo XIII. Agli inizi del 1500 il peso si attesta a 170 g,

finché la politica monetaria di Enrico VIII collassa la libbra.

Per quel che riguarda c, il continuo slittamento della moneta piccola, cui segue un rapido aumento dei

prezzi dei beni di prima necessità e un lento rialzo dei salari, serve a tenere basso il costo del lavoro e a non

intaccare i profitti imprenditoriali. Tuttavia, un tentativo di arrestare il tendenziale svilimento si ha nel 1378,

quando a Firenze si verifica una rivolta popolare, il Tumulto dei Ciompi. Non appena il cardatore di lana,

Michele di Lando, si insedia al governo della città, inizia il dibattito sul problema della moneta minuta e del

suo continuo svilimento. La misura monetaria del 24 ottobre 1380 avrebbe imposto un programma di

riduzione della quantità di questa moneta; tuttavia, un esponente dell’alta borghesia fiorentina, Benedetto

degli Alberti, inserisce un emendamento in base al quale si sarebbe ridotto lo stock solo in caso di successiva

inflazione e, dunque, nessuna inflazione, nessuna deflazione. Nel 1381, l’alta finanza torna al potere e

abolisce l’emendamento del 1380, avviando nuovamente una politica di svalutazione della piccola moneta.

A proposito di d, le zecche battono moneta secondo i moduli imposti dal re, dal consiglio cittadino o dal

signore locale. Tuttavia il volume di emissione monetale dipende sempre dall’ammontare del metallo che i

cittadini consegnano alla zecca, detenuto in gran parte da banchieri, cambiavalute e mercanti88. Si può

calcolare la quantità di moneta coniata avvalendosi della seguente formula:

M = P + (C + S)

M = intero ammontare di moneta coniata col metallo portato in zecca

P = ammontare di moneta consegnata a chi porta il metallo

C = costo di produzione della moneta

S = Differenza tra il valore nominale del metallo coniato restituito ai privati e il valore nominale del metallo

coniato mantenuto dal re e non restituito (signoraggio).

È evidente che P è funzione del prezzo di mercato del metallo. Facendo riferimento alla problematica

francese relativa all’indebitamento, a un primo esame sembrerebbe sufficiente aumentare S per soddisfare il

gettito fiscale; tuttavia incrementare solo S, lasciando inalterati C e M, provoca sia la riduzione di P sia

quella di S. Pertanto, l’unica soluzione valida per incrementare le entrate fiscali, cioè S, è aumentare P.

Essendo C un parametro incomprimibile, aumentando S senza ridurre P si provoca l’aumento di M il che

significa una maggiore quantità di moneta, ossia svalutazione.

Per il punto e, si parla spesso di svalutazione involontaria, causata dal maneggio della moneta metallica.

Si è calcolato che l’usura, cui la moneta è soggetta, vari dallo 0,1 all’1% l’anno. Per porre rimedio a questo

inconveniente, le autorità ricorrono a due espedienti: 1) ritirare la moneta vecchia e batterne una nuova; 2)

adeguare le nuove emissioni al denaro usurato. La seconda soluzione è quella più semplice da attuare, poiché

la prima si rivela un’operazione complessa proceduralmente e costosa. Inoltre, adeguare il peso e la lega

della nuova moneta a quella vecchia impedisce che si verifichi la progressiva scomparsa del conio buono.

88 LOPEZ, An Aristocracy of Money in the Early Middle Ages cit., pp. 20 -21.

47

Tale fenomeno è enunciato dalla legge di Sir Thomas Gresham (1519 – 1579), agente di commercio a

servizio della monarchia britannica:

<<Among the most certain laws known to economic science is the one that, when two money of unequal value are

placed in circulation at the same time side by side as currency of the realm, the poorer or cheaper will drive the better or

dearer from circulation.>>89

Del fenomeno enunciato, ne parla, nella commedia Le rane, il poeta comico e drammaturgo Aristofane

(450 a.C. circa – 385 a.C. circa):

<<Agio avemmo spesse volte d'osservare come Atene /

a quel modo coi più onesti cittadini si contiene /

ch'usa pur con le monete vecchie e il nuovo princisbecche. /

Tutti sanno che fra quante mai n'usciron dalle zecche, /

vuoi d'Ellèni, vuoi di barbari, dappertutto, quelle sono, /

e non altre, le più belle: quelle che rendono buon suono, /

quelle che hanno buona impronta e sono prive di mondiglia. /

Pure, Atene non le adopera, e ai bronzini oggi s'appiglia, /

dalla zecca usciti appena ieri, perfidi nel conio.>>

E infine il punto f: la stabilità monetaria, raggiunta nel secolo XIII, è nuovamente turbata da quella che

Spufford definisce ‘la vittoria dell’oro’. Per lo storico, l’oro, assumendo la preminenza sull’argento, altera il

rapporto di cambio tra i due metalli. Nel 1320 è aperto e ampiamente sfruttato il giacimento aureo di

Kremnica, in Slovacchia, il cui contributo però non è paragonabile a quello dell’oro proveniente dall’Africa

occidentale. In ogni caso, la disponibilità di questo prezioso metallo, sia ungherese sia extraeuropeo, è

considerevolmente aumentata. Il centro, presso cui giunge l’oro ungherese e quello africano, è Venezia la

quale rifornisce numerose zecche: una delle più importanti è quella di Firenze, dove, secondo il cronista

Giovanni Villani, si producono, attorno al 1340, dai

350.000 ai 400.000 fiorini l’anno. In Francia la

circolazione dell’oro, dopo aver interessato Parigi,

si diffonde nel resto del regno, in concomitanza con

le spese accumulate da Filippo VI in vista della

guerra dei Cent’Anni. L’oro raggiunge anche la

valle del Rodano, alimentando i notevoli costi

sostenuti dai papi ad Avignone. Fin da Clemente V

(1305 – 1314), primo Papa avignonese, le spese della Santa Sede salgono in modo brusco: il numero dei

servitori si attesta tra le 400 e le 500 unità, 100 in più di quelle dell’ultimo Papa romano Bonifacio VIII.

Clemente V spende, nel suo quarto anno di pontificato, 120.000 fiorini, di cui 20.000 per la gestione

domestica. Le spese non domestiche includono i compensi di notai e cappellani e l’acquisto di pergamena,

carta e doni da elargire ai re in cambio della loro protezione. Le entrate provengono innanzitutto dai diritti

89 T. W. BALCH, The Law Of Oresme, Copernicus, And Gresham; A Paper Read Before The American Philosophical Society,

April 23, 1908, Read Books, Milano 2008, p. 1.

Fiorino pontificio

48

sovrani della Santa Sede, come i censi dovuti dal re di Napoli o l’obolo di San Pietro versato dai regni

scandinavi; si aggiungono, inoltre, le decime arretrate e i pagamenti effettuati da vescovi e abati al momento

della loro nomina. Tuttavia, le necessità finanziarie avignonesi, aggravate dall’edificazione del Palazzo dei

Papi ad Avignone e dalle guerre condotte in Italia, necessitano di ulteriore denaro. Un primo modo per

aumentare il gettito fiscale è l’appropriazione dei benefici, conseguita con due iniziative: nomina diretta da

parte del Papa dei titolari dei benefici in cambio di una parte delle rendite; confisca delle rendite di benefici

vacanti. Altro metodo escogitato sono le procure: poiché gli ecclesiastici di alto rango devono visitare le

chiese poste sotto la loro giurisdizione, ottengono dei rimborsi per coprire le spese di trasferta. Le procure,

abolite da Innocenzo IV e sostituite con l’obbligo dell’ospitalità gratuita, sono quindi ripristinate dai

pontefici avignonesi i quali stabiliscono che la metà di esse vada alla Santa Sede. Infine, il bisogno di

liquidità è soddisfatto dalla vendita delle indulgenze, pratica resa possibile dal riconoscimento dell’esistenza

del Purgatorio come dogma avvenuto dopo il II Concilio di Lione del 127490. Le ingenti somme di denaro

mosse dalla Chiesa sono oggetto di satira nel Vangelo secondo il Marco d’oro di autore sconosciuto. La

satira, affermatasi come genere letterario a se stante prima e dopo il 1100, ha i suoi modelli nei poeti francesi

Ildeberto di Lavardin, vescovo di Tours, e Marbodo, vescovo di Rennes. La satira del secolo XII è diretta

specialmente contro l’alto clero, identificato con la città di Roma sede di Simon Mago.

Un acrostico di questo secolo recita:91

Radix

Omnium

Malorum

Avaritia

I modelli dei poeti satirici medievali sono gli autori d’età romana imperiale Orazio, Giovenale, Persio e

Seneca: <<Scilicet uxorem cum dote fidemque et amicos et genus et formam regina Pecunia donat […]>>,

cioè <<Si sa quanto doni il Danaro, una moglie con dote, buon nome, amici, rango, bellezza: è davvero un

grande sovrano.>>92; <<cum me hotaretur, parce frugaliter atque vivere muti contentus eo quod mi ipse

parasset[…]>>, ossia <<Quando mi esortava a vivere con parsimonia e frugalità, contento di quel che lui

stesso mi avesse procurato […]>>93; <<Neminem pecunia divitem fecit, immo contra nulli non maiorem sui

cupidinem incussit>>, vale a dire <<Il danaro non ha mai reso ricco nessuno, anzi ha sempre suscitato una

maggiore brama di sé.>>.94 La poesia medievale pertanto guarda ai mutamenti economici nello stesso modo

di quella latina. Anche Dante, sebbene non abbia gli stessi intenti parodistici, considera negativo il

miglioramento della qualità della vita dei cittadini fiorentini e denuncia questa condizione per bocca del suo

avo Cacciaguida (Canto XV del Paradiso):

90 LE GOFF, Lo sterco del diavolo cit., pp. 136 – 141. 91 MURRAY, Ragione e società nel Medioevo cit., pp. 78 – 82. 92 QUINTUS HORATIUS FLACCUS, Epistularum libri ; trad. it. Epistole a cura di U. Dotti, Feltrinelli (collana <<I classici>>),

Milano 2008, p. 15, vv. 36 – 37. 93 QUINTUS HORATIUS FLACCUS, Sermonum libri II ; trad. it. Satire a cura di M. Labate, Biblioteca Univ. Rizzoli (collana

<<Classici greci e latini>>), p. 129, vv. 107 – 108. 94 LUCIUS ANNAEUS SENECA, Ad Lucilium epistularum moralium; trad. it Lettere a Lucilio, II, a cura di G. Monti, BUR

Biblioteca Univ. Rizzoli (collana <<Classici greci e latini>>), p. 1015, 119, 9.

49

<< Fiorenza dentro da la cerchia antica,

ond'ella toglie ancora e terza e nona,

si stava in pace, sobria e pudica.

Non avea catenella, non corona,

non gonne contigiate, non cintura

che fosse a veder più che la persona.

Non faceva, nascendo, ancor paura

la figlia al padre, che 'l tempo e la dote

non fuggien quinci e quindi la misura.

Non avea case di famiglia vòte;

non v'era giunto ancor Sardanapalo

a mostrar ciò che 'n camera si puote.

Non era vinto ancora Montemalo

dal vostro Uccellatoio, che, com'è vinto

nel montar sù, così sarà nel calo.

Bellincion Berti vid'io andar cinto

di cuoio e d'osso, e venir da lo specchio

la donna sua sanza 'l viso dipinto;

e vidi quel d'i Nerli e quel del Vecchio

esser contenti a la pelle scoperta,

e le sue donne al fuso e al pennecchio.>>95

Anche re Edoardo III d’Inghilterra, in vista della guerra contro la Francia, si serve dell’oro per comprare

le sue alleanze: con 360.000 fiorini il re si assicura l’amicizia del duca di Brabante; con lingotti d’oro compra

l’alleanza di Giovanni di Lussemburgo, re di Boemia, e del conte di Fiandra. L’oro inglese stimola poi la

produzione locale di monete auree: gli arcivescovi di Colonia, Magonza e Treviri, il vescovo di Bamberga e i

signori laici fanno circolare i propri denari d’oro. Nell’Europa centro – orientale la produzione di monete

d’oro si concentra nei soli regni di Boemia e Ungheria, che nel 1327 dànno vita a un’inedita alleanza

monetaria: il patto prevede la nascita di un identico sistema monetario per i due Paesi, basato sul fiorino

d’oro ungherese e sul grosso d’argento boemo96.

Tuttavia, l’élite umanistica del secolo XIV, vicina all’ostilità al denaro dei Francescani più radicali, non

riconosce alcun valore reale alla ricchezza monetaria, sebbene il denaro abbia assunto ormai un ruolo

fondamentale nelle relazioni economiche dell’Occidente. Petrarca, nel De remediis utriusque fortunae,

scritto tra il 1355 e il 1365, esprime questa posizione, affermando che il possesso del denaro rende l’anima

infelice. Il secolo XV vede un cambiamento dell’atteggiamento dei cristiani verso il denaro e l’espressione di

questa nuova posizione concettuale si rivela, in particolar modo, ancora a livello di quella cerchia culturale e

sociale che sono gli umanisti. La prima rivendicazione della ricchezza monetaria si trova nel De re uxoria,

trattato sul matrimonio del nobile Francesco Barbato. Leonardo Bruni, nella prefazione alla traduzione latina

degli Economici dello pseudo – Aristotele, loda la ricchezza. Infine, nel De avaritia di Poggio Bracciolini,

scritto nel 1429, e nei Libri della famiglia, scritti dall’architetto Leon Battista Alberti tra il 1437 e il 1441,

95 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Paradiso a cura di A. M. C. Leonardi, Mondadori, Milano 1994, pp. 429 – 433, vv.

97 – 117. 96 SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe cit., pp. 267 – 288.

50

emerge questa rinnovata mentalità. Certamente i pareri degli autori menzionati urtano contro quelli diffusi in

ambienti ecclesiastici: ad esempio, il domenicano Giordano da Pisa distingue due specie di ricchezza, l’una

naturale e l’altra artificiale. Coloro che possiedono la ricchezza naturale sono i ricchi migliori, mentre chi

ricava denaro dalla vendita dei prodotti o dall’usura è considerato un uomo corrotto.

La grande espansione dell’impiego del denaro ha come conseguenza la crescita dell’indebitamento delle

città: nei centri urbani di Bruxelles, Lilla, Leida, Malines e Namur s’innesca la spirale del debito. Anche le

città tedesche, come Amburgo o Basilea, sono coinvolte in questo vortice: nel 1362 il loro indebitamento si

attesa all’1%, raggiungendo il 50% nel secolo XV. Medesimo discorso si fa per le città della penisola iberica

e di quella italiana: il debito di Barcellona, che viaggia intorno al 37,9%, raggiunge il 61% nel 1403; il debito

di Valencia assorbe il 37,5% delle entrate nel 1365 e il 76% nel 1485. L’indebitamento accresce

l’antagonismo sociale, crea sfiducia nel sistema urbano e genera la crisi del patriottismo. L’enorme debito

pubblico, cui vanno incontro le città del Medioevo, è responsabile della loro progressiva sottomissione

all’autorità dei prìncipi e dei re i quali dispongono di quei mezzi, negati alle città, per procurarsi costante

liquidità97.

Il secolo XV vede anche il declino dei grossi, i quali, divenuti miseri dischetti di metallo, ricordano i

denari d’inizio Duecento. Tuttavia, la scoperta di

nuovi depositi d’argento nel Tirolo (Schwaz) e in

Sassonia (Schneeberg) fornisce metallo per la

coniazione di nuove specie monetali. Inoltre

importanti innovazioni tecniche, come la

raffinazione dell’argento e l’utilizzo della pompa

di drenaggio, permettono di riaprire le vecchie

miniere di Kutná Hora in Boemia, di Freiberg in

Sassonia e di Goslar nello Harz. Nel 1470 le miniere a Schneeberg producono circa 30.000 kg d’argento,

raggiungendo tra il 1476 e il 1485 una produzione annua di 45.000 kg. Dalle miniere di Schwaz, nel 1470, si

estraggono 25.000 kg d’argento e, nella decade successiva, si raggiungono i 45.000 kg. Gran parte

dell’argento estratto affluisce a Venezia e a Milano, dati i rapporti commerciali, particolarmente intensi, di

queste due città con la Germania meridionale. Nel 1472 il Doge di Venezia, Niccolò Tron, ordina di coniare

una nuova moneta d’argento, del peso di 6,52 g, chiamata mocenigo, dal nome del Doge Pietro Mocenigo,

che dal 1474 inizia a coniarla ininterrottamente. Nello stesso anno il Duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza,

conia monete d’argento del peso di 9,79 g, i testoni, che presentano le seguenti particolarità: innanzitutto i

ritratti ivi impressi sono realistici e di chiara impronta rinascimentale; inoltre non sono più sottili dischi di

metallo. Il testone è rapidamente imitato dai sovrani di Ferrara, Mantova e Savoia, dalla città di Genova e dai

Cantoni svizzeri e, sebbene inizialmente limitato alle Alpi e agli Appennini, si diffonde successivamente

anche nel resto dell’Europa. In Austria, nel 1486, l’arciduca Sigismondo conia il Guldiner, pesante 31,9 g;

nel 1487, Filippo d’Asburgo, re di Castiglia e León batte il réal d’argento del peso di 7 g; nel 1504 testoni

97 LE GOFF, Lo sterco del diavolo cit., pp. 131 – 180.

Testone milanese

51

del peso di 7 g sono fatti circolare da Enrico VII in Inghilterra; in Francia, nel 1514, Luigi XII fa coniare

testoni del peso di 9,5 g; in Boemia, nel 1519, re

Stefano conia testoni pesanti 27 g; infine,

Francesco I (1515 – 1547), re di Francia, batte

testoni per pagare le truppe mercenarie svizzere

nella guerra contro Carlo V.

Nel secolo XV ha inizio inoltre l’era delle

grandi esplorazioni geografiche di Spagnoli e

Portoghesi, i quali aprono la rotta per l’India grazie

a Vasco da Gama che doppia il Capo di Buona Speranza.

I Lusitani avviano per primi la colonizzazione delle coste occidentali dell’Africa che sono ricche d’oro: essi

esportano nella madre patria grandi quantità d’oro sudanese, estratto dai fiumi Senegal, Niger e Volta. Si è

calcolato che i Portoghesi abbiano tesaurizzato, tra il 1450 e il 1500, 17.000 kg d’oro, il che ha consentito

loro di coniare il cruzado aureo nel 1457. Secondo Spufford, il Sudan, essendo manchevole di sale, lo

acquista pagandolo con oro e schiavi. I Portoghesi forniscono agli abitanti sudanesi anche l’argento: il

rapporto di cambio tra argento e oro, attestato intorno a 3:1, è estremamente vantaggioso per i Lusitani,

poiché nel Mediterraneo la rarità dell’oro lo attesta a 9:1. La stabilità del rapporto di cambio sudanese rimane

invariato per le seguenti ragioni: 1) la grande disponibilità dell’oro sudanese; 2) la domanda d’argento da

parte dell’Africa sostenuta dall’incessante estrazione del metallo stesso in Europa.

Nel Quattrocento si segnala anche il ritorno della monetazione bronzea, abbandonata nel secolo VI. Nel

1463 Venezia vanta il primato della coniazione di pezzi di puro bronzo, i quali non contengono più, come le

monete nere, percentuali dell’1% o del 2% d’argento: il Consiglio dei Dieci prende tale decisione ut

pauperes persone et alii, qui minutim lucrantur, vitam ducere possint. La deliberazione appare rivoluzionaria,

perché la coniazione di queste monete avviene in un momento storico in cui non c’è penuria d’argento. Il

valore di questi nuovi denari, chiamati a Venezia bagattini, è dato dalla quantità di bronzo ivi contenuta, da

cui si sottraggono le spese di coniazione. La città veneta è seguita da Napoli che nel 1472 conia i cavalli.

Dall’altra parte delle Alpi, la diffusione di queste nuove monete è lenta: nei Paesi Bassi sono coniate nel

1502; in Francia circolano dal 1578, ma diventano parte essenziale del sistema monetario solo dal 1613,

anno in cui sono introdotte anche in l’Inghilterra. La moneta bronzea, introdotta per soddisfare i bisogni della

popolazione povera, non è però quantitativamente sufficiente a tale scopo98.

Il Cinquecento ha inizio con quel fenomeno che gli storici chiamano ‘rivoluzione dei prezzi’,

contrapposto al lungo periodo di prezzi costanti o addirittura cadenti del Basso Medioevo. Coloro che vivono

agli inizi del secolo XVI non percepiscono la spinta ascendente dei prezzi che è del 2% o del 3% l’anno;

tuttavia, a partire dalla metà del Cinquecento, il rincaro si manifesta drammaticamente. In Inghilterra i prezzi

sono cinque volte superiori a quelli degli ultimi decenni del Quattrocento; in Francia e in Spagna aumentano

sette volte di più. L’inflazione, sul principio, è imputata alla malvagità di alcuni operatori quali:

98 SPUFFORD, Money and its use in medieval Europe cit., pp. 363 – 377.

Guldiner di Sigismondo

52

i monopolisti contro cui si scagliano i teologi;

i Fugger e le grandi compagnie commerciali accusati dalle diete tedesche;

l’imperatore biasimato dai cavalieri per aver rinunciato al costume di rapire i mercanti e di

tagliare loro le mani se non pagano un riscatto;

i proprietari terrieri inglesi oggetto di linciaggio, poiché impongono canoni d’affitto esorbitanti;

i mercanti di cereali avversati specialmente durante le sommosse per il pane.

Indubbiamente, la popolazione è nel vero, quando ritiene colpevoli costoro del rincaro: i monopolisti e i

mercanti di cereali, infatti, rifornendo le città con il grano proveniente dai confini dell’Europa, speculano sul

prezzo di vendita; i possidenti terrieri, d’altra parte, aumentando il canone, fanno lievitare i costi della

produzione agricola, la cui conseguenza è il rialzo dei prezzi. I governi, però, timorosi di perdere i prestiti

finanziari, tollerano le infrazioni di questi soggetti sociali.

Una spiegazione più sottile del rincaro dei prezzi è data dai teologi dell’Università di Salamanca e di

Siviglia. Martin Azpilcueta Navarra, giurista e teologo dell’Università di Salamanca, in un trattato scritto nel

1556, lega l’aumento dei prezzi alle importazioni di oro e di argento provenienti dall’America. Quest’ipotesi

coincide con la spiegazione monetarista fondata sull’equazione di Cambridge, nella formulazione che ne dà

Irving Fisher (1867-1974) secondo la quale il prezzo è dato dal prodotto tra la massa monetaria in

circolazione e la velocità di diffusione della moneta fratto la quantità dei beni prodotti (In formula P =

MV/Q). Il gesuita Luis de Molina spiega l’aumento dei prezzi delle merci attraverso un parallelismo: così

come l’abbondanza delle merci ne fa abbassare i prezzi, se rimane eguale la quantità di moneta e il numero

dei mercanti, l’abbondanza del denaro produce il rialzo dei prezzi, se restano uguali la quantità delle merci e

il numero dei mercanti. In Francia re Carlo IX, preoccupato dal rincaro dei prezzi, nel 1563 promuove

un’inchiesta e affida al suo consigliere Jean Cherruyt de Malestroit la ricerca delle cause. Nello scritto

intitolato Les paradoxes du seigneur de Malestroict sur le faict des monnoyes e pubblicato nel 1566, il

consigliere considera causa del rincaro dei prezzi la riduzione della quantità di metallo prezioso nella moneta:

i prezzi aumentano solo nominalmente, perché la moneta è stata svilita. Nel 1568 il grande giurista Jean

Bodin, non soddisfatto della conclusione di de Malestroit, scrive un testo divenuto famosissimo e intitolato

La Response de M. Jean Bodin aux paradoxes de Monsieur de Malestroit touchant l’enchérissment de toutes

choses et le moyen d’y remedier. Jean Bodin sostiene che il rincaro dei prezzi dipende da quattro cause:

l’abbondanza di oro e argento nel Regno di Francia e nel resto dell’Europa dovuta alla domanda

sempre più crescente, da parte della Spagna, di beni e servizi. L’ambasciatore veneziano a Madrid,

Vendramin, scrive nel 1595 che l’oro, il quale arriva in Spagna dalle Indie occidentali, fa sugli

spagnoli lo stesso effetto che fa la pioggia sopra i tetti delle case, cioè cade sopra, ma subito

scende verso terra senza che quelli, che per primi la ricevono, ne traggano alcun beneficio;

i monopoli;

le carestie;

i piaceri del re e dei signori che accrescono il prezzo delle cose che amano.

53

I governi europei hanno certamente svilito il loro conio, ma lo svilimento non è stato un male se ciò ha

permesso il proseguimento dello sviluppo

economico, eventualmente strozzato da un

eccesso di deflazione. L’opinione di de

Malestroit non tiene conto del fatto che tra il

1464 e il 1542 le monete europee hanno

beneficiato di relativa stabilità: il valore

intrinseco della moneta inglese non cambia sino

al 1543, allorché Enrico VIII (1509 – 1547)

riduce da 100 a 40 grani l’argento contenuto nello scellino; la Francia, protagonista di drammatici

ribassamenti nel secolo XIV, gode di stabilità monetaria fino al 1541, quando riduce il valore della moneta

dell’11%; i denari d’argento e d’oro spagnoli attraversano indenni l’era della rivoluzione dei prezzi, venendo

rivalutati nel 1537 del 5%. L’ipotesi di de Malestroit è dunque errata: se le monete hanno avuto stabilità in

quegli anni, non è da imputare loro il rincaro dei prezzi. Tale avvenimento è innanzitutto causato dalla

considerevole quantità d’argento estratto, dal 1450, nelle miniere della Sassonia (Schneeberg, Annaberg e

Marienberg), della Turingia (Eisleben e Hettstedt), del Tirolo (Schwaz), della Boemia (Joachimsthal, Kutna

Hora e Kasperska Hora) e dell’Ungheria (Nagybanya e Körmocbanya). Tra il 1471 e il 1480 l’argento

estratto può essere stimato intorno ai 17.447 kg; per la decade 1490 – 1500 la produzione d’argento

raggiunge i 25.450 kg; tra il 1501 e il 1510 si raggiungono i 32.624 kg; negli anni 1511 – 1520 i 34.818 kg;

negli anni 1521 – 1530 i 42.371 kg; il picco di 52.525 kg è raggiunto tra il 1531 – 1540. Inoltre, il progresso

scientifico – tecnologico abbassa il prezzo di mercato dell’argento: assieme alle innovazioni di carattere

meccanico, come pompe di drenaggio o gallerie diversamente progettate, il metodo più innovativo è il

Saigerhüttenprozess, un procedimento chimico che utilizza il piombo per separare l’argento dal bronzo.

Perché la rivoluzione dei prezzi si verifica successivamente e non è immediatamente generata

dall’argento europeo?

Il motivo principale è il commercio che l’Europa intrattiene con il Levante attraverso la città di Venezia.

La città veneta riceve l’argento dalle miniere dell’Europa centrale, la maggior parte delle quali sono

controllate dai Fugger, e se ne serve per acquistare il cotone siriano e le spezie, principalmente zenzero e

pepe, da Alessandria d’Egitto e Beirut. Nel 1490 l’importazione di pepe duplica, dai 360.000 kg ai 675.000

kg, e quella di zenzero triplica, passando dai 78.750 kg ai 225.000 kg. Medesimo discorso si fa per il cotone

della Siria, adoperato poi nelle industrie tessili della Germania meridionale (Ulma, Augusta, Norimberga,

Ravensburg, Ratisbona, Costanza e Basilea), duplicato nel valore, dai 40.000 ducati ai 100.000 ducati. Negli

anni del suo massimo splendore economico, Venezia acquista beni dall’Asia per un valore di 1 milione di

ducati 99.

È però l’arrivo dell’argento e dell’oro americano a provocare il rincaro dei prezzi nel Vecchio Continente.

L’argento spagnolo è estratto principalmente a Zacatecas e a Guanajaco (Vicereame del Messico) e a Potosì

99 J. MUNRO, The Monetary Origins of the ‘Price Revolution’: South German Silver Mining, Merchant Banking, and Venetian

Commerce, 1470-1540’, Department of Economics, University of Toronto 1999, pp. 1 – 58.

Real de a ocho

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(Vicereame del Perù) attraverso un nuovo procedimento tecnico scoperto dal veneziano Vanoccio

Biringuccio: il metodo dell’amalgama permette di separare il metallo dal minerale, utilizzando il mercurio,

estratto dal 1563 nella miniera di Huancavelica a sud di Callao, nell’attuale Perù. Tra il 1531 e il 1660 al

porto di Siviglia giungono 16.886 tonnellate d’argento e 181 tonnellate d’oro. La grande disponibilità di

metallo prezioso consente alla Spagna di coniare il Real de a ocho, pezzo d’argento dal peso di 29 g, che

diviene la moneta dominante durante i secoli XVI e XVII. La grande quantità di argento spagnolo ha un’altra

conseguenza: l’argento si deprezza progressivamente e il rapporto di cambio con l’oro, fluttuante per tutto il

Medioevo tra 1:9 e 1:13, raggiunge quota 1:15100.

L’interpretazione monetaria è comune anche alla maggior parte degli storici dell’economia del periodo

che va dal 1930 al 1960. L’elaborazione della teoria monetaria si fonda principalmente sugli studi

dell’economista François Simiand e dello storico Earl Hamilton, sui quali non manca l’influenza

dell’economista britannico John Maynard Keynes e del suo A treatise on Money. Secondo la ricostruzione

monetaria dei due studiosi, l’arrivo dei metalli preziosi avrebbe provocato una perdita di valore della moneta

metallica rispetto ai prodotti presenti sul mercato, non corrisposto né da un adeguato incremento dei salari né

da quello delle rendite di case e terreni. Mercanti e imprenditori possono vendere a prezzi crescenti i prodotti

agricoli o manufatti, mentre i loro costi per il pagamento di salari e rendite diminuiscono. Aumentano così i

profitti, il risparmio e il tasso d’investimento. La spiegazione dei teologi spagnoli, di Jean Bodin e

l’interpretazione degli studiosi monetaristi non sono però esaustive: la gran parte dell’argento americano, che

giunge a Siviglia, è immediatamente esportata per pagare le importazioni, l’approvvigionamento delle truppe

all’estero e per rimborsare i Fugger e i banchieri genovesi dei prestiti concessi. La Spagna del Cinquecento

sembrerebbe dunque soffrire non d’inflazione monetaria, bensì di quella creditizia; le teorie monetarie

sopravvalutano il ruolo della moneta, poiché è ancora rilevante il baratto.

La rivoluzione dei prezzi ha altre cause:

a) l’aumento della popolazione e i bisogni alimentari, la cui domanda non è soddisfatta da una

conseguente estensione di terre coltivabili. Suoli da coltivare esistono, tuttavia occorrono grandi

capitali affinché possano fruttare. Per soddisfare la crescente domanda di beni di prima necessità,

si sarebbe potuto ricorrere anche a migliorie nelle tecniche di coltivazione; tuttavia la grande

parte dei contadini europei è analfabeta e anche se fosse in grado di leggere, non avrebbe i

capitali necessari per introdurre le innovazioni. In ogni modo l’investimento, poiché è un capitolo

di spesa, induce il proprietario terriero ad alzare i prezzi dei beni da lui prodotti per rientrare dal

debito;

b) il dinamismo monetario dell’Europa occidentale che è sul punto di creare un’economia mondiale:

essa importa argento, oro e prodotti esotici dall’America in cambio di schiavi africani e manufatti;

dall’Asia e dall’Europa orientale acquista spezie, tessuti, legname e pellicce esportando monete

d’argento;

100 CIPOLLA, Le avventure della lira cit., p. 73.

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c) la domanda dei beni siderurgici che è cresciuta in concomitanza con l’espansione degli eserciti di

massa;

d) la politica degli stati assoluti che potenzia il settore dell’edilizia pubblica, costruendo

infrastrutture necessarie al commercio, come nel caso della costruzione di reti stradali, o palazzi

pubblici e capitali burocratiche, come Madrid.

Prima del 1530, il disordine sociale non è attribuibile al malcontento salariale, che diviene causa di

ribellioni soltanto dopo questa data, quando il divario tra retribuzione e costo della vita è ormai insostenibile:

i prezzi sono lievitati di quattro o cinque volte rispetto al loro livello originario e la paga di un manovale

inglese, pur salendo da 4 a 8 pence, non consente una qualità di vita dignitosa. Nel 1534 gli anabattisti

fondano a Münster il regno di Sion, nel 1549 la ribellione si diffonde a Kett nel Norfolk, disordini

iconoclastici scoppiano nei Paesi Bassi in seguito all’inverno di fame del 1565 – 1566 e si impone, infine, il

regime dittatoriale popolare della Lega santa a Parigi nel 1589 – 1590.101

101 H. G. KOENIGSBERGER - G L. MOSSE - G. Q. BOWLER, Europe in the Sixteenth Century; trad. it. L’Europa del

Cinquecento a cura di M. T. Grendi, Laterza, Roma – Bari, 1990, pp. 17 – 67.

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APPENDICE

Monete imperiali

Hexagramma Moneta d’argento coniata dall’imperatore Eraclio I nel 615 fino

al regno di Costante II. Peso: 6,8 g.

Histamenon Nomisma coniato dall’imperatore Niceforo II Foca nel 963.

Si deteriora nel secolo XI.

Hyperpyron o iperpero Nomisma restaurato dall’imperatore Alessio I nel 1092. Fino:

20 carati.

o perpero Si deteriora nel secolo XIII ed è coniato in piccole quantità

dopo il regno di Andronico II.

Miliaresion Moneta d’argento coniata dall’imperatore Leone III l’Isaurico

nel 720. Più leggerà dell’hexagramma.

Miliarensis Moneta d’argento coniata dall’imperatore Costantino nel 309.

Due tagli: 1/15 e 1/18 del solidus. Frazione: siliqua (2,65 g).

Solidus o solidus aureus (in latino) Moneta cardine coniata dall’imperatore Costantino nel 309.

o nomisma (in greco) Peso: 4,5 g. Fino: 24 carati. Zecca principale: Costantinopoli.

Frazioni: semissis e triens (1,5 g).

Tetarteron Nomisma di peso leggero coniato dall’imperatore Niceforo II

Foca nel 963.

Oro barbaro

Visigoti

Solidus e triens Coniato dal re Alarico II (484 – 507) fino al re Leovigildo

(568 – 586) nel nome degli imperatori Anastasio, Giustino e

Giustiniano.

Triens Coniato da re Leovigildo (dal 580) fino ad Agila II (710 – 714).

Svilito dalla metà del secolo VII.

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Merovingi

Solidus e triens Coniati, nel nord della Gallia, fino al regno di Teodeberto I

d’Austrasia (534 – 548) nel nome degli imperatori Anastasio,

Giustino e Giustiniano. In Provenza, coniati nel nome

dell’imperatore Eraclio (610 – 641). Due tagli: solidus a 24 e a

21 carati e triens a 1,5 g e a 1,3 g.

Longobardi

Triens Coniato da re Cuniperto (680 – 700) fino all’imperatore

Carlomagno (fino al 781).

Anglo – Sassoni

Triens o thrymsa Coniato nell’ultima decade del secolo VII. Zecche: Canterbury

e Londra. Peso: 1,25 g – 1,35 g.

Monete islamiche

Dīnār Moneta d’oro coniata dal califfo ‘Abd al-Malik. Peso: 4,25 g.

Copia di Dīnār Dīnār di Offa di Mercia. Peso: 4,28 g.

Dīnār o mancuso Coniato dal califfo Abd al-Rahman III. Peso: 3,43 g – 4,71 g.

Copia di mancuso Coniato da Berengario Raimondo I e da Raimondo Berengario I,

conti di Barcellona (1018 – 1076).

Morabetinos o maravedis Coniato dagli Almoravidi nell’Africa settentrionale e in Spagna

(1085 – 1170). Peso: 3,88 g.

Copia di morabetinos Coniato dal re di Castiglia Alfonso VIII, di León e Portogallo

(1172 – 1221).

Dirham Moneta d’argento coniata da califfo ‘Abd al-Malik in Asia e

Spagna. Peso: 2,97 g.

Dobla Doppio dīnār coniato dagli Almohadi nell’Africa settentrionale

e in Spagna, dal 1129 fino alla caduta di Granada (1492). Peso:

4,60 g.

Copia di dobla Coniato dal re Ferdinando III (1217 – 1252).

Millares Nel secolo XIII, nome cristiano per il dirham.

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Rubā’i 1/4 di dīnār coniato dagli Omayyadi in Spagna, Africa

settentrionale e Sicilia musulmana.

Copia di rubā’i Salerno (1050 – 1194), Amalfi (1050 – 1220), Sicilia cristiana

(1072 – 1278).

Tarì Moneta d’oro coniata dal califfo ‘Abd al-Malik. Peso: 1,05 g.

Penny o denarius

italiano: 240 denari = 20 soldi = 1 libbra

francese: 240 denier = 20 sol (pl. sous) = 1 livre

catalano: 240 diners = 20 sous = 1 lliura

latino: 240 denarii = 20 solidi = 1 libra

tedesco: 240 pfennig = 20 schilling = 1 pfund

inglese: 240 penny (pl. pence)= 20 shilling = 1 pound

Denar ungherese Coniato dal re Stefano I (1008 – 1038).

Denier o denarius merovingio Coniato dal re Childerico II d’Austrasia. Peso: 1,2 – 1,3 g.

Denier carolingio Coniato dall’imperatore Carlomagno nel 794. Peso: 1,76 g.

Denarius imperiale Coniato dall’imperatore Federico I. Peso: 1g.

Denarius italiano Coniato dall’imperatore Carlomagno. Peso: 1,7 g. Zecche

principali: Pavia e Lucca.

Denier parisis francese Coniato dal re di Francia Luigi VII. Peso: 0,85 g – 1,28 g.

Denier provinois francese Coniato, nel 1265, a Provins dai conti di Champagne.

Denier tournois francese Coniato dall’abate di San Martino di Tours. Peso: 1,2 g – 0,95 g.

Dinero d’Aragona Coniato da Sancho Ramirez (1063 – 1094). Peso: 1,08 g.

Dinero di Castiglia Coniato da re Fernando I ( 1035 – 1065).

59

Dinero di Barcellona Coniato dal secolo XI dai conti di Barcellona. Peso: 1,14 g.

Penning e penny inglese Coniato dal secolo VII al secolo VIII.

Penny (sterlina dal secolo XI) inglese Peso: 1 g – 1,8 g.

Pfennig Coniato dall’imperatore Ottone I nel 962. Peso: 1,4 g.

Grosso

Groat inglese Moneta d’argento coniata nel 1279 da Edoardo I. Peso: 5,77 g.

Groot olandese Moneta d’argento del peso di 3,6 g.

Grosso fiorentino o fiorino Moneta d’argento coniata nel 1237. Peso: 1,7 g.

Grosso genovino Moneta d’argento del peso di 1,4 g.

Grosso napoletano o carlino Moneta d’argento coniata nel 1278 da Carlo I d’Angiò. Peso:

3,34 g.

Grosso pisano Moneta d’argento del peso di 1,7 g.

Grosso romano o romanino Moneta d’argento coniata nel 1253 da Brancaleone d’Andolo.

Peso: 3,5 g.

Grosso senese Moneta d’argento coniata nel 1231. Peso: 1,7 g

Grosso tornese francese Moneta d’argento coniata dal re Luigi IX. Peso: 4,22 g.

Grosso veneziano o matapan Moneta d’argento coniata dal doge Enrico Dandolo tra il 1194 e

il 1201. Peso: 2,18 g.

Grosso veronese o aquilino Moneta d’argento del peso di 1,7 g.

Monete d’oro

Agnello francese Coniato tra il 1311 e il 1326.

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Augustale siciliano Coniato dall’imperatore Federico II nel 1230. Peso: 5,3 g.

Cruzado portoghese Coniato nel 1457. Peso: 3,78 g.

Dobla castigliana Coniata da Fernando II (1217 – 1252). Peso: 4,6 g.

Ducato veneziano Coniato nel 1284. Peso: 3,56 g.

Écu francese o scudo Coniato dal re Luigi IX nel 1266. Peso: 4,2 g.

Fiorino di Lubecca Coniato nel 1340 fino al 1801. Peso: 3,59 g.

Fiorino fiorentino Coniato nel 1252. Peso: 3,54 g.

Fiorino papale Coniato ad Avignone nel 1322.

Fiorino ungherese Coniato nel 1308. Peso: 3,54 g.

Genovino Coniato nel 1252. Peso: 3,53 g.

Leopardo inglese Coniato dal re Edoardo III nel 1344. Peso: 5,18 g.

Nobile inglese Coniato dal re Edoardo III nel 1344. Peso: 8,97 g.

Reale Coniato dal re Filippo il Bello nel 1290.

Testoni

Guldiner austriaco Moneta d’argento coniata dall’arciduca Sigismondo nel 1486.

Peso: 31,9 g.

Mocenigo veneziano Moneta d’argento Coniata dal doge Niccolò Tron nel 1472.

Peso: 6,52 g.

Réal Moneta d’argento coniata dal re di Castiglia Filippo Asburgo.

Peso: 7g.

61

Real de a ocho Moneta d’argento dell’Impero spagnolo coniata nel 1497. Peso:

29 g.

Testone boemo Moneta d’argento coniata dal re Stefano nel 1519. Peso: 27 g.

Testone francese Moneta d’argento coniata dal re Luigi XII nel 1514. Peso: 9,5 g.

Testone inglese Moneta d’argento coniata dal re Enrico VII nel 1504. Peso: 7 g.

Testone milanese Moneta d’argento coniata dal duca Galeazzo Maria Sforza nel

1472. Peso: 9,79 g.