siamo tutti dei vigliacchi? problematiche storiche in “anni difficili” di luigi zampa
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SIAMO TUTTI DEI VIGLIACCHI?
PROBLEMATICHE IN “ANNI DIFFICILI” DI LUIGI ZAMPA
Il giorno 27 novembre 1948, nel corso della seduta CXVII del
Senato della Repubblica, l’allora Sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio con delega allo sport, spettacolo e
turismo, l’on. Giulio Andreotti, in risposta ad una virulenta
interrogazione parlamentare da parte dei senatori Magliano,
Cingolani e Persico che deplorava «la proiezione di films nei
quali produttori e registi di poco scrupolo, speculando sulle
miserie della patria, ne mettono ostentatamente in luce gli
aspetti più deprimenti e le brutture più dolorose […]
offendono altresì il senso morale e più ancora la dignità di
un popolo che così duramente lotta per risollevarsi dalle sue
sventure», attaccando in particolare il film di Zampa, Anni
difficili, rispondeva all’accusa fatta al film di screditare
l’immagine dell’Italia all’estero:
«Io vorrei che ci si fermasse un secondo a pensare che ogni
film non ha la pretesa di fare la storia di un periodo o di
essere un documentario; il film, anche quando parte da alcuni
fatti realmente avvenuti, e li inserisce in un determinato
ambiente e contesto storico, ha però tutti gli elementi della
fantasia, della genialità di invenzione, del contorno di
colore, che è una cosa profondamente diversa da quello che è
il puro documentario, che invece vuole essere una
rappresentazione di avvenimenti più o meno solenni, ma
comunque di risonanza pubblica ed inseriti nella storia e
nella cronaca di una collettività. Quindi non dobbiamo (come
nessuno si sognerebbe di dire che all’estero possano dare un
giudizio sulla situazione italiana o sull’orientamento
psicologico del nostro Paese partendo da un romanzo o
partendo da una composizione letteraria) non dobbiamo, di
fronte ad un film, sopravvalutarne l’importanza sotto un
simile punto di vista»1.
È curioso notare, a parte il paradosso (apparente, come
vedremo) per cui il sostenitore dell’inoffensiva irrilevanza
del film di Zampa nel 1948 si trasformerà nel “censore” dei
panni sporchi lavati in pubblico dal cinema di De Sica nel
19522, come Andreotti facesse propria, per volgerla ai propri
fini di una difesa “di retroguardia” dell’opera di Zampa
fondata sulla sua presunta innocuità, una diffidenza nei
confronti del valore “storico” del film di finzione che era
allora (e lo sarebbe stato ancora per lungo tempo, almeno in
Italia3) dominante e che si fondava ancora sulla vecchia
distinzione canudiana tra «film storico» e «film in costume»:
secondo Canudo, infatti, «gli unici film storici, nel senso
pieno e suggestivo della parola, sono quelli che al cinema si
chiamano attualità […] Gli altri sono soltanto film in
costume»4. Probabilmente Andreotti aveva in mente la storia di
paccottiglia propinata dal cinema fascista in film come
Scipione l’Africano (1937) di Giaccone o Condottieri (1937) di
Trenker o, ancor meglio, l’attualità fiabescamente edulcorata
del cinema dei telefoni bianchi. In realtà, già intorno agli
anni trenta, nelle riviste “Bianco e Nero” e “Cinema”, nasce
un intenso dibattito, ad opera di giovani critici e futuri
registi, sull’effettivo valore di questo cinema e si comincia
a manifestare una profonda volontà di “storicità” in senso
ben diverso da quello che motiva le puntigliose ricerche
sugli ornamenti di esotici pachidermi. Seguendo Yvette Biro,
potremmo così definirlo e spiegarlo: «mostrare le grandi
svolte storiche non solamente attraverso i conflitti storici
fra i grandi personaggi, come accade a teatro, ma con le
azioni quotidiane della gente semplice […] Il fatto e la
comprensione del fatto che la vita individuale è in rapporto
molto stretto con la storia, che la storia interviene
incessantemente nella vita degli individui, è l’esperienza
che gli uomini del nostro secolo sempre più vivono e fanno
propria. Gli orrori delle due guerre mondiali hanno fatto
comprendere agli uomini questa interdipendenza e allo stesso
tempo che le vicende della vita hanno un carattere storico.
Sembra che il cinema proprio per le sue caratteristiche
artistiche sia adatto a riflettere questo aspetto della vita.
Il cinema ama scegliere eroi semplici per fare capire,
attraverso i loro destini, i rivolgimenti storici, in un modo
familiare, naturale, semplice e nello stesso tempo complesso,
proprio come la gente è abituata a viverli[…] Riconducendo la
storia al livello della vita quotidiana e dando alla vita
quotidiana delle prospettive storiche, il cinema, con la sua
nuova drammaturgia, esprime una nuova ed interessante
tendenza, quella di unire, nel modo più naturale,
l’evoluzione storica e i drammi individuali»5. A parte il
riferimento al teatro, credo sia possibile dire che proprio
l’affermazione nella cultura cinematografica italiana di
questo concetto di storicità, che ha ovviamente alle spalle
le grandi tradizioni del romanzo storico di Scott, Balzac,
Manzoni, coniugato alla furibonda sete di realtà cresciuta
contro quello che Visconti chiamò «un cinema di cadaveri»
costituisca uno dei più potenti detonatori del neorealismo
cinematografico,non solo in film come Ossessione (1943) dello
stesso Visconti, ma anche in opere come Un pilota ritorna (1942)
di Rossellini, «film disperatamente “contemporanei”, che
proprio mentre sembrano anelare a bruciare le loro stesse
immagini in una polemica affermazione dello hic et nunc si
rivelano naturalmente, automaticamente “storici”»6. Se è
difficile inserire un film come Anni difficili nel filone
neorealista, è certo che esso fa suo, pur con tutte le sue
ambiguità ideologiche, il doppio aspetto di questa concezione
di storicità, complicandolo però ulteriormente poiché si
tratta di un film al tempo stesso “contemporaneo” e
“storico”, visto che il periodo temporale cui esso fa
riferimento si estende dal 1934 fino allo sbarco americano
del 1943. Se dunque per i contemporanei, al di là del
velleitario tentativo di neutralizzazione di Andreotti, quel
film rappresentò una bruciante radiografia di un passato che
confinava con il presente fino quasi a coincidere con esso,
per noi esso costituisce forse il primo esempio di un’opera
cinematografica italiana intesa a una ricostruzione
complessiva del fascismo. Ai fini di una “lettura storica”
del film è necessario dunque chiarire, seguendo le parole di
Giampiero Brunetta7, che consideriamo Anni difficili come
appartenente a quel genere di «film storico, poniamo
sull’antichità classica o sul medioevo, o sul fascismo» –
appunto – che «non può essere considerato una fonte
documentaria[…] Ciò non toglie che questa ricostruzione può
essere analizzata dallo storico, sia della società
contemporanea, sia delle società del passato, alla stregua di
qualsiasi altra fonte, una volta chiariti gli ambiti della
ricerca e l’utilizzazione che se ne può fare»; in particolare
per quel che concerne «lo studio della società contemporanea
attraverso la rilettura del passato» bisogna tenere conto che
«come ogni altro film spettacolare, a soggetto, anche il film
storico stabilisce con la realtà un rapporto indiretto,
mediato, chiaramente affabulato […] Sennonché, trattandosi di
fatti, ambienti e personaggi “storici” il rapporto è più
complesso, concerne l’interpretazione che si vuol dare del
passato e quindi l’ideologia che sottende tanto la scelta
dell’argomento quanto i modi della sua rappresentazione
cinematografica[…] Perché all’origine di ogni film c’è sempre
un intento, più o meno dichiarato; ed anche la rilettura del
passato per farne oggetto di spettacolo nasce da motivazioni
determinate. Si tratta di individuarle, in modo da utilizzare
un film sul passato come un documento sul presente». Per noi
dunque “leggere storicamente un film” significa storicizzare
non solo i condizionamenti ideologico-sociali che hanno
presieduto alla sua produzione e realizzazione, ma anche i
suoi procedimenti formali, il modo in cui essi configurano la
sua precipua maniera di guardare, senza trascurare i processi di
ricezione che insieme alle altre due dimensioni
costituiscono, secondo complesse e a volte contradditorie
stratificazioni, il film come oggetto storico. Per cogliere tali
stratificazioni di sensi e di nessi che dal testo rimandano
al contesto storico e alle «attrezzature mentali» dei suoi
autori e dei suoi ricettori, per preservare la possibilità di
coglierli anche nelle loro contraddizioni, ci faremo guidare
dal concetto di «visibile» elaborato da Pierre Sorlin:
«ognuno sa che noi non vediamo il mondo esterno “come è”; noi
percepiamo persone e cose attraverso le nostre abitudini, le
nostre attese, la nostra mentalità, vale a dire attraverso le
maniere, proprie del nostro ambiente, di strutturare
l’essenziale (ciò che per noi è essenziale) rispetto
all’accessorio. Il “visibile” di un’epoca è ciò che i
fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo,
e ciò che gli spettatori accettano senza stupore[…] Il
visibile è quel che appare fotografabile e presentabile sugli
schermi in un’epoca data[…] Le fluttuazioni del visibile non
hanno niente di aleatorio: rispondono ai bisogni, o al
rifiuto di una formazione sociale. Le condizioni che
influenzano le metamorfosi del visivo, e il campo stesso del
visivo sono strettamente legati: un gruppo vede ciò che può
vedere, e ciò che è capace di percepire definisce il
perimetro entro il quale esso è in grado di porre i propri
problemi. Il cinema è al tempo stesso repertorio e produzione
di immagini. Mostra non già il “reale”, ma i frammenti del
reale che il pubblico accetta e riconosce. Per un altro
verso, contribuisce ad allargare il territorio del visibile,
a imporre immagini nuove»8.
Cosa dunque era “visibile” della Sicilia e della sua storia
sotto il fascismo in quel secondo dopoguerra?
Iniziamo dalla sequenza che apre il film: si tratta di una
serie di inquadrature ordinate secondo un principio di
montaggio di tipo descrittivo: ci mostrano i luoghi in cui si
svolgerà la vicenda. Si tratta in pratica di una serie di
cartoline illustrate in movimento legate tra loro da
dissolvenze incrociate e da una voce narrante che, se prima
descrive, un po’ manzonianamente, l’ambiente urbano che ci
scorre sotto gli occhi rivelandone la collocazione geografica
e il toponimo a spettatori che si presupponeva,
evidentemente, non conoscessero molto bene la Sicilia, ci
presenta Modica e, simbolicamente, l’isola intera come
usbergo di un genius loci piuttosto singolare: il buon senso che
albergherebbe “nel popolo di queste città”.
Ora, della cittadina di Modica ci viene presentata una
visione a volo d’uccello che ce ne illustra la caratteristica
ed affascinante configurazione urbana, con, nella parte alta,
le sue antiche abitazioni tratte dai dammusi, addossate le
une alle altre e organizzate secondo un intrico di casette,
viuzze e larghe scale (una ripresa diventata anch’essa un
documento storico, visto lo scempio che di gran parte del
centro storico è stato compiuto in seguito a speculazioni
edilizie tra i ’60 e gli ’80) e ancora alcune sue bellezze
architettoniche, come la chiesa Madre di San Giorgio. Da
questa descrizione d’ambiente, che è anche una perimetrazione
sociale (la città è abitata da impiegati, farmacisti,
avvocati) su cui la voce off esprime quel giudizio che abbiamo
visto, sono escluse però alcune bellezze di altro genere. Se
le panoramiche iniziali, infatti, si fossero spinte un po’
oltre, avrebbero scoperto una parte del territorio anch’essa
molto caratteristica: la fitta rete di muri a secco,
trapuntati da meravigliosi alberi di carrubo, che dividevano
gli appezzamenti di terreno intorno a Modica. Vale a dire che
la campagna e coloro che la abitano sono espulsi dal visibile
del film. Siamo coscienti che «il non-visibile non si
confonde con la collezione di tutto ciò che non viene
mostrato al cinema»9, ma crediamo appunto che la
scotomizzazione della campagna siciliana, che poi vuol dire
del problema contadino e, attraverso esso, del problema
siciliano tout court, non sia proprio casuale10. Tramite la
cancellazione dei contadini è la Sicilia stessa, in quanto
realtà storico-sociale, che viene messa tra parentesi o
ridotta a pura scenografia. Il confronto con la maniera di
filmare altri luoghi di lavoro e lo stesso panorama
antropologico ce lo conferma: infatti non c’è in Anni difficili una
elisione del lavoro per partito preso: la mdp indugia
sull’ufficio di Piscitello e del Podestà, esplora addirittura
la fabbrica chimica appartenente a quest’ultimo, seppure
soltanto per quanto riguarda la postazione destinata al
figlio di Piscitello, Giovanni, che è un tecnico (niente
operai, dunque, e anche questo è significativo). Per quel che
riguarda il panorama antropologico, i contadini, ma possiamo
dire, in questo caso, i siciliani, nel film hanno un ruolo
quasi del tutto insignificante, a parte le scene di masse o
d’insieme e due eccezioni che dicono molto, come vedremo:
Zampa decide di girare con attori professionisti (e questo è
un primo importante segno di come il film non sia
assimilabile al neorealismo, anzi, se ne distacchi
profondamente); tuttavia, a parte Umberto Spadaro gli altri
attori (basti pensare a Ave Ninchi o Massimo Girotti) sono
completamente inverosimili anche soltanto come siciliani.
Eppure l’ambientazione, se presa sul serio, avrebbe potuto
motivare una certa presenza contadina nel film: Modica
infatti, come abbiamo accennato, poteva essere assimilata ad
una di quelle agrotowns di cui il fascismo temeva la
pericolosa promiscuità sociale, potenzialmente foriera di
solidarietà classiste e inter-classiste11. Non solo;
l’agricoltura modico-ragusana presentava una forte
specificità rispetto al prevalente modello siciliano: essa
era organizzata non in grandi latifondi, ma in più piccoli
appezzamenti di terreno gestiti da una classe di piccoli
proprietari terrieri. L’assenza di un sistema latifondista, e
in particolare di quelle figure intermediarie e parassitarie,
come i gabellotti ad esempio, aveva impedito nella zona la
crescita e lo sviluppo della mafia, che dunque non poteva
esercitare la funzione di guardia bianca padronale nei
confronti del movimento contadino. Si creavano dunque delle
condizioni favorevoli a che i braccianti riuscissero a
costituire organizzazioni molto forti ed a esercitare
un’efficace azione rivendicativa. Al momento della marcia su
Roma Modica presentava una delle non numerose amministrazioni
socialiste siciliane. Tuttavia, proprio l’assenza dei gruppi
mafiosi fece sì che gli agrari, sin dalla fine del 1920,
cominciassero a spalleggiare ed incentivare il nascente
fascismo: «Il fascismo siciliano trovava il suo originario
punto di forza nella provincia di Siracusa [allora Ragusa non
era capoluogo di provincia; lo diventò nel 1927 proprio ad
opera del fascismo], e in particolare nel circondario di
Modica, grazie ad una violenta contrapposizione squadristica
al movimento bracciantile e alle amministrazioni socialiste
che costituì poi, nel tempo, il vanto e l’indiscusso merito
delle camicie nere iblee agli occhi delle classi dominanti e
dell’opinione d’ordine»12. Non crediamo allora sia casuale
neanche la data che segna l’inizio del tempo del film: il 2
agosto 1934, giorno della morte di Hindenburg e della
definitiva presa del potere da parte di Hitler. È come se
l’espulsione dei contadini dal visibile non si svolgesse
soltanto nella dimensione spazio-topografica ma anche in
quella temporale del film. Ora, quel che crediamo di avere
dimostrato anche soltanto con queste brevi notazioni storiche
è che la rimozione della questione agraria da una
rappresentazione filmica incentrata sulla storia del fascismo
in Sicilia renda impossibile non soltanto una corretta ed
incisiva ambientazione locale (che infatti è per la gran
parte puramente decorativa), ma, soprattutto, faccia perdere la
chiave per una reale comprensione storica di questa vicenda, impedisca cioè
una messa in scena capace di enucleare ed esprimere le
ragioni che ne muovono la dinamica. Così il pur generoso
sforzo di ricostruzione del fascismo in Sicilia promosso da
Zampa e dai suoi sceneggiatori non può che risolversi in una
restituzione bozzettistica di esso secondo una prospettiva
storica, come vedremo, individualistica e fatalistica, il cui
“necessario” sbocco interpretativo finale, un moralistico
«siamo tutti dei vigliacchi», finisce con l’apparire, come
mostreremo più avanti, un atteggiamento sostanzialmente
autoassolutorio.
Leggere storicamente un film come Anni difficili significa per
noi individuare i limiti della lettura storica che propone.
Si tratta adesso di storicizzare i limiti stessi di tale
lettura. Per farlo dovremo esplorare il clima socio-politico
e nel quale il film è stato realizzato e fruito, e analizzare
le attrezzature mentali dei suoi autori.
Anni difficili fu girato e presentato nel fatidico 1948, proprio a
ridosso delle elezioni che avrebbero deciso il futuro del
paese. L’Italia era un paese profondamente diviso, ancora
scosso sul piano sociale dalle lotte operaie al nord e
dall’azione del movimento contadino al sud, e percorso dalle
violente lacerazioni politiche conseguenti a una campagna
elettorale condotta in modo virulento, segnata da una
contrapposizione partitica che aveva oramai assunto i toni
della guerra fredda. L’11 gennaio del 1947 con la scissione
di palazzo Barberini i socialisti si spaccavano e veniva
fondato il PSDI di Saragat, che fondava la divisione sul
rifiuto della politica da Fronte Popolare di Nenni. Nel marzo
di quell’anno nasceva la “dottrina Truman”, secondo la quale
gli Stati Uniti e i loro alleati avrebbero dovuto opporre
resistenza all’espansione dell’area d’influenza dell’URSS. In
primavera De Gasperi effettuava il famoso viaggio negli Stati
Uniti, al ritorno dal quale estromette socialisti e comunisti
dal governo. Era il segnale di una svolta moderata che si
consolidava nel risultato delle elezioni stravinte dal
quadripartito conservatore a guida DC: si apriva così un
periodo di restaurazione normalizzatrice. Da parte sua
Togliatti, che già dopo l’attentato subito il 14 luglio aveva
tenuto a freno con fatica la spinta rivoluzionaria di parte
del suo partito, reagiva alla débâcle delle forze progressiste,
aggravata dalla scissione sindacale che si sarebbe realizzata
da lì a breve, preparando il PCI a quella “lunga marcia
nelle istituzioni” che significava incanalare le energie dei
suoi militanti nella difesa legalitaria dei valori
costituzionali e arroccando così il partito in una guerra di
posizione sostanzialmente difensiva.
Uno dei centri, forse il principale, di questo groviglio di
tensioni politico-sociali era proprio la Sicilia. Corsa dalle
bande separatiste prima, insanguinata dalla reazione agraria
che riprendeva il rapporto con la mafia lesta a rinvigorirsi
dopo il periodo fascista e pronta a scagliarsi con violenza
sul vigoroso movimento contadino in lotta per l’attuazione
dei decreti Gullo, essa fu poi il teatro dove la rottura
dell’alleanza antifascista ebbe le conseguenze più gravi.
Comunisti, socialisti, organizzazioni sindacali e cooperative
furono lasciati soli a battersi contro il blocco agrario-
mafioso; ma soli furono lasciati, in nome di un anticomunismo
viscerale rafforzato anche dalla paura per i fatti di Praga,
anche gli esponenti di sinistra della DC e tutti i cattolici
che avevano militato a fianco del movimento contadino e
contro i “padrini”. Con il 1947 le divisioni si rafforzarono
mentre la repressione statale e mafiosa infieriva (uccisione
di Accursio Miraglia, strage di Messina, con i carabinieri
che sparano al grido di “Viva i Savoia). Nonostante tutto
alle prime elezioni regionali del 20 aprile il Blocco del
Popolo sostenuto dai contadini conquistava la vittoria. Ma
subito dopo arrivava immediamente Portella delle Ginestre,
l’oscuro segno dell’intreccio tra neofascismo13 e mafia
all’ombra di Scelba. Dopo l’estromissione dei comunisti e dei
socialisti dal governo arriva così il clamoroso rovesciamento
della vittoria ottenuta in Sicilia dal Blocco del Popolo
sull’onda delle lotte contadine, con la Democrazia Cristiana
che si allea con la destra estrema, mettendo in minoranza i
vincitori. Col 1948 Togliatti, temendo che le agitazioni
fossero un ulteriore pretesto per spingere la DC a nuovi
provvedimenti anticomunisti su scala nazionale, metteva un
freno ai dirigenti comunisti del movimento contadino. La Dc
era Scelba.
Credo che questa sintetica ricostruzione della situazione
storico-politica italiana sia sufficiente, almeno, a intuire
come far apparire sugli schermi italiani di quel periodo
“veri” siciliani e “veri” contadini significasse agitare una
materia sociale incandescente. Non stupisce la loro rarità in
quel clima14.
D’altra parte il cinema non poteva rimanere estraneo al
moto di restaurazione che spegneva il vento della Resistenza
e soffocava l’impeto e il prestigio che le forze sociali
progressiste avevano acquisito ponendosi alla guida del
processo di liberazione nazionale. Le produzioni “alla
macchia” si facevano sempre più rare, Cinecittà riapre nel
1947; è il primo segno di rinascita dell’industria che
significa per il cinema italiano il ritorno del confronto con
le necessità commerciali. Il neorealismo è sempre più messo
all’angolo15. In questa situazione acquista un valore decisivo
l’evoluzione del gusto del pubblico. Se nel 1945-1946 Roma
città aperta di Rossellini risultava il film più visto, nel 1948-
49 la miglior posizione per incasso è del feuilleton Sepolta
viva di Brignone, anche se un film “neorealista”, In nome della
legge di Germi, riesce a piazzarsi al terzo posto. Nel 1950-
1951 nessun film di scuola neorealista compare tra i dieci
maggiori successi16. Spinazzola inquadra acutamente il
problema: «Il gruppo di registi di varia formazione
ideologica e culturale che diede vita al neorealismo si
proponeva appunto di favorire una larga coscienza critica
delle condizioni e contraddizioni della civiltà italiana
attuale[…] nello stesso tempo volevano avviare con le platee
un dialogo che, pur esigendo una predisposizione all’ascolto,
non tagliasse fuori gli strati meno qualificai di spettatori,
ai quali si rivolgeva in nome d’una comune coscienza
ideologica. La sorte del neorealismo si giocò sul doppio
versante fra la crescita della democrazia politica, nel
paese, e il volenteroso sforzo d’una democratizzazione dello
spettacolo cinematografico»17. Il blocco del processo
democratico causò il fallimento di questo progetto: «In
effetti le graduatorie commerciali danno la misura esatta del
fallimento dell’operazione neorealistica nel suo punto
programmatico più ambizioso e delicato:la volontà di indurre
un mutamento radicale nei rapporti tra cinema e pubblico,
quali si esplicano negli spettacoli strutturati
industrialmente. Qui sta il motivo essenziale di debolezza
interna del movimento: su di esso avranno buon gioco a
intervenire i sempre più pesanti condizionamenti del potere
politico, diretti ed indiretti»18. Il neorealismo comincia
così a subire una mutazione: mantiene le tematiche
populistiche e magari anche l’attualità bruciante (Come persi la
guerra, 1947, di Borghesio, ad esempio) ma le declina sul
registro comico-satirico. Alla lunga tale svolta doveva
costituire, accanto al cosiddetto neorealismo rosa, una delle
diramazioni che dovevano estenuare il possente fiume
neorealista. L’opera di Zampa rappresenta il perno di questa
svolta. Film come L’onorevole Angelina (1947) con la sua
qualunquistica, indiscriminata antipolitica e, ancora di più,
Vivere in pace (1947), fungono da cardine in tal senso, la prima
per l’introduzione, resa ancora più significativa dal fatto
che qui la star è un’attrice simbolo come la Magnani, del
divismo nel neorealismo e l’abbandono della politica degli
attori di strada, la seconda per la capacità di ridurre ad
una dimensione bozzettistica, in questo caso con una certa
efficacia seppure ovviamente sempre nel limite della
falsificazione idillico-campagnola, una grande tematica come
la Resistenza19. Entrambi questi aspetti, tra l’altro, come
abbiamo visto, lasciano chiare tracce in Anni difficili: le uniche
due circostanze in cui vediamo, in modo sufficientemente
individuato, dei contadini sullo schermo appartengono ad
inquadrature che li presentano come questuanti, o presso
Piscitello per avere dei documenti che «aspettamu d’un misi»
o presso il farmacista per un po’ di soldi. Ora, soprattutto
per quel che riguarda la seconda serie di inquadrature, è
bastata soltanto la presenza fisica di questi “attori da
strada”, i loro volti invecchiati troppo presto, l’amarezza
sconsolata addensata per sempre nella piega delle loro
labbra, per aprire uno squarcio di bruciante verità nel tran
tran quotidiano appena increspato dall’inquietudine per il
figlio e dal fastidio per gli scomodi stivaloni del mondo di
Piscitello. Ecco, la miseria impotente del proletariato
agricolo di una provincia siciliana che si trova a scegliere
tra la morte per fame e il rischio della morte per guerra,
che ha perso anche l’alternativa della dura prova
dell’emigrazione, poiché Mussolini non vuole intaccare il suo
prestigio con un’ Italia che non sfama i suoi figli, tutto
questo è vero, storicamente vero. Ma resta il fatto che gli
unici contadini ad apparire sono quasi mendicanti postulanti
con mite umiltà la grazia di qualche spicciolo in più al
possidente dei campi in cui lavora il padre. La loro
rassegnata filosofia di vita («Nella Spagna ci danno quaranta
lire al giorno e da mangiare. Se Dio ci aiuta riportiamo la
pelle a casa e qualche soldo. Se no, sia fatta la Sua
volontà») permette loro di entrare con pieno diritto a
Modica, il reame del Buon Senso. Ci permettiamo però di
dubitare che i loro compagni occupanti di terre ne avrebbero
mai avuto la cittadinanza.
Insomma, cineasta piccolo-borghese, strutturalmente
limitato nella sua visione sociale, ma, come scrive
ottimamente Spinazzola, «mosso da un pacifismo antifascista
di stampo liberale, poco complicato ma non privo di una sua
risentita autenticità, Zampa si rivelò fra i pochi capaci di
confezionare spettacoli artigianalmente robusti, con una
miscela di elementi comici sino al limite inferiore della
farsa e di accensioni drammatiche retoricamente
amplificate»20. Nel momento in cui il nostro regista decide di
affrontare una rievocazione ampia del periodo fascista, quasi
naturalmente la sua scelta cade su una sceneggiatura tratta
da un racconto di Brancati, Il vecchio con gli stivali.
Brancati, rispetto a Zampa, è un artista dalla visione
infinitamente più complessa, possiede una personalità
nobilmente risentita, uno sguardo causticamente acuto,
impietoso ma anche pessimisticamente “comprensivo” della
fragilità umana. Durante la collaborazione con Zampa (Anni
difficili, Anni facili, L’arte di arrangiarsi), egli dà nerbo satirico ad
una ispirazione comica che rischia continuamente di cadere
nella farsa o nel bozzetto macchiettistico, riuscendo a
correggerne gli sbandamenti qualunquistici tramite un’etica
della responsabilità morale sinceramente e dolorosamente
sentita. La visione del fascismo di Brancati è complessa e
articolata, le modalità espressive e le profonde ragioni del
suo antifascismo lo sono altrettanto. Ci preme però
sottolineare come la scelta di Zampa del Vecchio con gli stivali come
supporto narrativo della sua indagine sul fascismo in Sicilia
sia molto significativa. La critica del fascismo vi è acre,
corrosiva, ma ha una dimensione esclusivamente
individualistica e non a caso si appunta soprattutto sugli
aspetti più esteriori della retorica fascista, organizzandosi
secondo i modi dell’analisi di costume. Lo stesso Piscitello
è sì il simbolo di un’umanità negata, stritolata negli
ingranaggi insensati di un regime di cartapesta la cui follia
è denunciata con tanto più vigore quanto più essa viene
confrontata con un’individualità “normale”; ma Brancati
ottiene tutto questo astraendo progressivamente dalla
concretezza storico-sociale, impedendosi quindi una
comprensione reale delle ragioni, delle dinamiche che
strutturavano al fondo quella follia. Contrariamente a quel
che succede di solito nei romanzi o nei racconti, il
personaggio Piscitello, invece di arricchirsi di sfumature,
di sostanziarsi di gesti, di movenze psicologiche, di azioni
sociali che lo definiscano sempre più precisamente, durante
lo sviluppo della narrazione va incontro ad una sorta di fading
narrativo, secondo un progressivo svuotamento punteggiato
dalle ripetute dichiarazioni di ignoranza da parte del
narratore (e ci sarebbe da interrogarsi su tanta demolizione
del “narratore onnisciente” da parte di un erede di Verga e
De Roberto nel momento in cui si confronta con la storia del
suo tempo…). «Che cosa abbia fatto Piscitello in questo tempo
io non lo so:mi mancano molte notizie e mi mordo le mani […]…
Ma qui di nuovo lo perdo di vista […] E dopo? Dopo, cosa
disse e fece? Sinceramente non lo so […] Ma ecco ormai la
storia di Piscitello volge al termine. Che cosa narreremo di
lui?»: sembra una michelangiolesca poiesis del “togliere” che
finisce per consumare l’intera statua… Siamo coscienti che
tramite la “dissolvenza” del personaggio Brancati esprime una
radicale polemica contro quegli aspetti retoricamente
vitalistici, dannunzianamente manipolatori (l’esistenza di
Piscitello sembra il perfetto rovesciamento della «vita
inimitabile» del Vate) del regime, che egli respinge con
tanta più asprezza quanto più convinta era stata la sua
adesione nella sua giovinezza. Non si può negare, tuttavia,
che la vis polemica colpisca l’aspetto più esteriore del
fascismo, non cogliendone la “negatività” se non a livello
individuale, senza mostrare il suo necessario scaturire dalla
vita concreta nelle sue determinazioni socio-economico-
politiche e lasciandola di conseguenza inspiegata. Infatti,
perché Piscitello è antifascista? Non è certo casuale che
un’invincibile afasia lo colpisca ogni volta che cerca di
spiegarlo alla moglie. Brancati si chiede, suggestivamente:
«Perché un canto di Milton o di Leopardi sulla libertà, o il
libro di un filosofo proibito non volò in soccorso di questo
pover’uomo, tradito da tutte le sofferenze che un’anima
onesta può ricevere dall’oppressione, e tuttavia incapace di
dire perché soffrisse?»21. Già, ma non dovremmo prima
chiederci perché mai questo Piscitello, impiegato comunale22
che il narratore ci presenta come totalmente, quasi
antropologicamente estraneo alla “politica”, dovrebbe
risentire del fascismo? Che cosa se ne farebbe, Piscitello,
della libertà perduta? Piscitello, in realtà, non può
esprimere le ragioni della sua avversione al fascismo perché
è abitato da un sentimento non suo, perché è egli stesso un
“canto” di Brancati sulla libertà, perché, cioè, è soltanto
lo strumento musicale mediante il quale un intellettuale
animato da un amore quasi kantiano per la legge morale
(significativamente di fronte all’ennesima domanda della
moglie di Piscitello sui motivi del suo antifascismo, il
narratore interviene in sua vece con queste parole, dove
ognuno potrà trovare le tracce di un celebre epitaffio… «Sì –
disse – hai detto la verità: non mi piace che l’Italia vinca!
–; – E perché? –; Ahi! Come al solito, Aldo Piscitello non lo
sapeva. Ma sapeva che un perché c’era e scintillava di notte
sul mondo come un cielo stellato, e splendeva di giorno come
il sole»23) accorda flebilmente, per un attimo, il suo acre
pessimismo esistenziale, “cosmico”, ad un dimensione storica,
senza donare però alla sua creatura una vita autonoma.
Così la corrosiva carica umoristica del Vecchio con gli stivali,
col suo fascismo visto dalla prospettiva sociale di un
qualunque impiegato comunale e il suo sdegno moralistico
costituiscono quel minimo comun denominatore che assicura
l’efficacia artistica e il successo di pubblico del sodalizio
Brancati-Zampa ma segnano inevitabilmente i pesanti limiti di
comprensione storica della loro opera ce ne motiva, come
vedremo, la contrastata ricezione. Alcune delle scene più
riuscite del film nascono dalla rappresentazione dei “sabati
fascisti”, cioè delle mascherate sociali ai quali il regime
sottoponeva la popolazione: le pagliaccesche, periodiche
parate commemorative affollate da diciannovisti immaginari
(data la facilità di ottenere patenti di “fascista della
prima ora”…), con Spadaro capace di conferire a Piscitello
un’andatura chapliniamente caracollante (il riferimento è
forse alla celebre scena di Tempi moderni (1936) in cui Charlot
prende da terra un fazzoletto rosso e diventa
involontariamente il “duce” di un corteo) che esprime tutto
il disagio di un «popolo in stivaloni», i cori fascisti dove
tutti vanno fuori tempo, gli esercizi ginnici in cui gli
ostacoli si aggirano ma non si abbattono, con panciuti
apprendisti atleti che si lanciano a volo d’angelo tra le
braccia dei compagni, travolgendoli (sketch che dileggia la
grottesca ossessione di Mussolini per la forma fisica della
popolazione). Qui la carica satirica di Zampa e Brancati si
fa straordinariamente efficace24nel denunciare, tramite queste
grottesche manifestazioni, la totale estraneità e
impermeabilità della popolazione siciliana alla cultura del
regime, nonostante tutti i tentativi mussolininiani di
“fascistizzare” la Sicilia, di cui l’ “assalto al latifondo”,
a cui abbiamo accennato, fu l’ultimo e forse più esemplare
tentativo. Alla denuncia del tentativo fascista di
egemonizzare, schiacciandole, le culture locali, e in
particolare quella siciliana, è dedicato l’episodio
dell’esecuzione della Norma al teatro lirico. Qui l’ottusità
censoria del dirigente fascista che vuol cancellare con un
tratto di penna i versi antiromani di Bellini, artista «di
cento anni fa» che fa misteriosamente parte della nefanda
cricca degli «intellettuali italiani… sporchi antifascisti!»,
è satireggiata nella sua arrogante, occhiuta ignoranza senza
alcuna pietà e la polemica antifascista zampiana coglie
pienamente nel segno.
Passiamo adesso al tema che è al centro del film: l’eterno,
quasi connaturale, trasformismo isolano ed italico,
l’ipocrita cinismo voltagabbana di chi, senza ideali,
conserva il potere sotto tutte le bandiere e in tutti i
regimi. Cominciamo col dire che si tratta del punto
storicamente più incandescente nel rapporto del film col
proprio tempo, del suo, potenzialmente, maggior attrito con
esso; non era facile trattare un problema di così bruciante
attualità: «chi aveva combattuto nella Resistenza o aveva
sofferto contro il fascismo pretendeva, con qualche
giustificazione, che i membri del regime fascista non
sfuggissero a una qualche punizione. D’altro canto epurare
l’amministrazione dai fascisti iscritti significava più o
meno chiuderla, dal momento che la tessera del partito
fascista era stata obbligatoria per tutti i funzionari
statali. L’attività delle commissioni di epurazione riuscì ad
abbinare i lati peggiori di questo stato di cose: lasciò
liberi alcuni tra i maggiori responsabili del fascismo,
incriminando invece il personale dei livelli più bassi […]
L’epurazione si risolse in un fallimento completo. La
magistratura non ne fu minimamente toccata e quando fu il suo
turno di giudicare prosciolse quanti più imputati poté
dall’accusa di collaborare col passato regime. Anche altri
settori fondamentali del personale statale rimasero
inviolati. Nel 1960 si calcolò che 62 dei 64 prefetti in
servizio erano stati funzionari sotto il fascismo. Lo stesso
era vero per tutti i 135 questori e per i loro 139 vice […] I
dirigenti fascisti furono assolti con formulazioni
oltraggiose. Paolo Orano, capo di stato maggiore di Mussolini
durante la marcia su Roma, membro del Gran Consiglio e
sottosegretario agli Interni, fu liberato perché il Tribunale
fu incapace di stabilire un “nesso causale” tra il suo
comportamento e la distruzione della democrazia»25. Nel giugno
del 1946 Togliatti, ministro della giustizia, promulgò
un’amnistia che posava una pietra tombale sull’epurazione.
Questi i risultati: «Proposta per motivi umanitari,
l’amnistia sollevò una valanga di critiche. Grazie alle sue
norme sfuggirono alla giustizia anche i fascisti epuratori.
Venne stabilita una distinzione grottesca e disgraziata tra
torture “normali” e “sevizie particolarmente efferate. Con
questa formula i tribunali riuscirono ad assolvere crimini
quali lo stupro plurimo di una partigiana, la tortura di
alcuni partigiani appesi al soffitto e presi a calci e pugni
come un sacco da pugile, la somministrazione di scariche
elettriche sui genitali attraverso i fili di un telefono da
campo[…] Alla fin fine l’unica effettiva epurazione fu quella
condotta dai ministri democristiani contro i partigiani e gli
antifascisti che erano entrati nell’amministrazione statale
subito dopo l’insurrezione nazionale. Lentamente, ma con
determinazione, De Gasperi sostituì tutti i prefetti nominati
dal Clnai con funzionari di carriera di propria scelta. E nel
1947-48 il nuovo ministro democristiano degli Interni, Mario
Scelba, epurò con sveltezza la polizia dal consistente numero
di partigiani che vi erano entrati nell’aprile 1945»26. Zampa
e i suoi sceneggiatori trattano il problema con una certa
precisione: nella scena del contrasto tra il federale e il
podestà, per le due autorità fasciste sembrano prefigurarsi
destini differenti («– Vedrete, per la sola ragione che io
sono stato federale e voi podestà… – Piano… piano… La mia è
semplicemente una carica amministrativa, non è una carica
politica come la vostra! – Non fatevi illusioni podestà..
Onesti e disonesti, buoni o cattivi siamo legati tutti allo
stesso carro, e voi più degli altri… – Feduraluccio mio
voleve sapere una cosa? Pur di vedere voi sulla forca ci vado
volentieri anch’io…»), che poi in effetti si realizzano nella
intuibile epurazione del primo (non lo vediamo più apparire
sullo schermo) e nella nomina a sindaco del secondo. Ebbene,
tale diverso trattamento riservato ai podestà e ai federali è
un fenomeno storicamente fondato27. In Sicilia gli anglo-
americani manifestarono di voler dare un segno tangibile del
cambio di regime colpendo le istituzioni fasciste più
visibili e gli uomini politicamente più in vista, arrestando
i prefetti, i federali e i podestà delle grandi città; invece
i podestà dei piccoli centri vennero esclusi dall’epurazione,
ritenendosi che nelle piccole comunità non occorressero
mediazioni politiche tali da richiedere interventi repressivi
di eventuali proteste. Così circa il 50% dei podestà
mantennero il loro posto mentre tutti i prefetti e i federali
delle province siciliane furono epurati. Contribuiva a tale
fenomeno la convinzione condivisa, da inglesi e americani, di
trovarsi di fronte ad una cosiddetta società “semplice”, di
tipo tribale, nella quale contassero più i legami comunitari
che i valori politici. Gli americani ritenevano che prendere
in carico la maggior parte delle cariche amministrative, in
modo da agevolare un benefico contatto, soprattutto ai
livelli più bassi, tra la “selvaggia” popolazione locale e i
comportamenti del “mondo civile” potesse promuovere
l’educazione democratica dei siciliani e favorire le
operazioni di guerra; spingevano così per una epurazione
severa. Per gli inglesi, invece, soprattutto per opera di sir
Francis Rennell Ross, conoscitore dell’Italia e esperto di
questioni coloniali, la soluzione migliore doveva essere
simile a quella adottata nelle colonie britanniche
dell’Africa tropicale, alle quali fu applicato il cosiddetto
Indirect Rule: i capi nativi sarebbero stati investiti delle
responsabilità amministrative a livello locale in modo da
evitare il rischio di un rigetto a causa dell’immissione di
elementi istituzionali e strumenti burocratici ritenuti
eccessivamente moderni rispetto alla tribale società
siciliana. Infine, a un altro livello, «in Sicilia sarebbero
state le élites agrarie, radicate in una società supposta
integralmente rurale, depositarie di un potere tradizionale
che si poneva al di sopra delle congiunture politiche a
garantire il passaggio dal fascismo ad un’amministrazione non
fascista; e tramite questa classe dominante locale sarebbe
stato raggiunto l’obiettivo più ambizioso di stabilire un
collegamento con la Corona e la classe dominante su scala
nazionale»28. A determinare il prevalere dell’opzione inglese
furono diverse ragioni: la mancanza di alternative al vecchio
personale amministrativo a causa della scarsa istruzione, i
notevoli risparmi di risorse umane ed economiche che essa
avrebbe comportato rispetto all’opzione americana. Importante
fu anche la diffidenza che gli anglo-americani manifestavano
verso l’antifascismo “politico”, in particolare, ovviamente
quello di sinistra, mentre privilegiarono, soprattutto nei
piccoli centri, un ambiguo “antifascismo sociale”29.
Si diffondeva inoltre la convinzione, determinata dalla
festosa accoglienza popolare all’esercito alleato e dal fatto
che «i più noti cittadini e gli uomini d’affari si erano
dimostrati di notevole aiuto e dotati di senso civico nel
cercare di riportare le cose alla normalità», mentre colpiva
«la mancanza di risentimento [… per i bombardamenti e per i
danni ai civili»30, che «il fascismo non [fosse stato] mai
popolare in Sicilia, dove [era stato] visto come un sistema
imposto dai politici del Nord»31. Anche questo importante
aspetto è presente nel film, dove un ufficiale americano,
scherzando con il vecchio podestà e sindaco di fresca nomina,
si chiede stupefatto: «sono tutti antifascisti... tutti
contro la guerra... ma cos’era questo fascismo?».
Ecco, la rappresentazione dell’epurazione avrebbe potuto
costituire un’occasione per dare una risposta, seppure
parziale, a questa domanda. Ma per intendere e mostrare il
significato di una epurazione che permetteva alla vecchia
classe dominante di conservare il potere, sarebbe stato
necessario il riferimento alla questione agraria.
Nelle condizioni fissate dalle decisioni anglo-americane
riguardo al rapporto con i vecchi poteri locali, l’elemento
determinante nel permanere al potere dell’ antico
notabilitato fu l’irriducibile vischiosità di un sistema
sociale fondato sulla struttura agraria, che aveva il suo
cuore nella particolare declinazione siciliana del rapporto
di mezzadria e si era già cementato nell’epoca liberal-
giolittiana in una struttura clientelare che aveva resistito
tetragona, sostanzialmente intatta, anche al periodico
prevalere, nell’oscillante politica del fascismo nei suoi
confronti, della componente nazionalpopulista di
quest’ultimo. Il “blocco agrario”, che, grazie al fascismo,
aveva vinto la sua battaglia col capitale finanziario dei
Carnazza, Bosurgi e Sarauw, a cui il fascismo aveva
addomesticato il movimento contadino, che il fascismo aveva
liberato dal parassitismo della bassa mafia (ma solo per
proporsi di superare ogni mediazione nel dialogo con esso;
infatti il prefetto Mori «assolveva decisamente i possidenti
dalle accuse di favoreggiamento nei confronti dei mafiosi,
con riferimento ad un presunto stato di necessità»)32, che
aveva insomma mantenuto l’egemonia sociale, se non sempre
quella politica33, dopo un breve periodo di difficoltà dovuto
all’ “assalto al latifondo” veniva riportato a galla
tesaurizzando al meglio il suo capitale di controllo sociale
(che vuol dire anche consenso) come forza contrattuale nei
confronti degli anglo-americani e coagulando attorno a sé
anche una buona parte dei ceti medi cittadini34.
Ora, proprio quella classe di proprietari terrieri che
aveva sfruttato a suo vantaggio le circostanze della fine
della guerra e l’epurazione anglo-americana del 1943 e che,
una volta consolidata l’alleanza con la DC e abbandonata
l’ipotesi separatista, costituiva il fulcro e il cemento del
“nuovo” ordine economico e sociale siciliano, nel 1948 era
impegnata, sotto la nuova protezione politica e servendosi
della bocca di fuoco mafiosa e della repressione
istituzionale, in un conflitto senza pietà con il movimento
contadino, in cui fondamentale era il ruolo dei comunisti
(basti pensare a Accursio Miraglia, a Girolamo Li Causi).
Crediamo appaia evidente quale esplosivo potenziale di
denuncia sociale potesse avere, nel 1948, una
rappresentazione filmica dell’epurazione sul fascismo
siciliano che non scotomizzasse il problema agrario.
L’opzione ideologica di Zampa-Brancati e il contesto storico-
politico contemporaneo non permettono tuttavia che tutto
questo rientri nell’ordine del visibile del nostro film. Ecco
allora che la rappresentazione dell’epurazione viene posta
ancora una volta in termini moralistici, quasi di contegno
individuale, per cui ogni responsabilità politico-sociale e
di classe viene cancellata e la sincera indignazione degli
autori (e, conseguentemente, del pubblico), a ben vedere,
stinge in una forte tonalità qualunquistica. Se infatti il
comportamento del podestà-sindaco35 suscita ribrezzo, non meno
disdicevole appare l’atteggiamento, fin troppo facilmente
conciliatorio, del gruppetto di antifascisti della farmacia,
i quali accettano senza un’alzata di sopracciglio le
interessate e melliflue avances del podestà pronto ad
accreditarsi come simpatizzante antifascista presso la loro
cerchia, che egli intuisce diventerà parte della futura
classe dirigente. In particolare tra l’onorevole, che
addirittura gli porge la mano per primo, e il gerarchetto si
svolge il seguente significativo dialogo: Turi, Turi, fa
ridere un po’ anche noi, no? Col permesso dell’onorevole che
fa finta di non conoscermi e non risponde al mio saluto… –
Ma, veramente, Podestà…io non potevo pensare che il suo
saluto fosse rivolto a me… Io non sono che l’ultimo dei
cittadini di Modica, mentre lei è il primo… – Andiamo,
andiamo onorevole, adesso lei vuol confondermi…ma io sono qui
a porgerle i miei omaggi…Eh, la mano veramente….
I due, che dovrebbero essere divisi da una feroce rivalità,
si scappellano vicendevolmente, si scambiano complimenti
affettati, si riconoscono rispetto reciproco, uniti da una
oramai piena solidarietà di casta. É finalmente arrivata la
democrazia, non c’è più alcuna differenza tra fascista ed
antifascista, liberale, popolare, comunista36, tutti fanno
parte di una stessa razza amorale, irresponsabile ed ipocrita
contro cui viene diretto (indiscriminatamente) lo sdegno
dello spettatore: quella dei politici. Zampa lo sottolinea con
efficaci accorgimenti linguistici: se fino all’invasione
anglo-americana il podestà e il gruppetto degli antifascisti
sono sempre collocati in spazi diversi, e l’unica volta in
cui si incontrano (al matrimonio di Giovanni) appaiono
ripresi all’interno di un campo-controcampo chiaramente
oppositivo, a partire dalla scena della “riconciliazione”
essi spesso si incontrano negli medesimi luoghi e sempre
dentro la stessa inquadratura.
L’umanità che emerge da questa rappresentazione
dell’epurazione non si divide secondo appartenenze di classe,
né tanto meno si distingue per scelte politiche. Il grande
spartiacque si organizza, invece, lungo le due grandi
categorie metastoriche che sarebbero diventate costanti
strutturali della progenie di commedie sul fascismo (ma anche
di tanto cinema farsesco e della grande parte della commedia
all’italiana, che infatti ha grossi debiti nei confronti di
Anni difficili): i “fessi” e i “furbi” 37 (qui quasi tutti
genericamente “politici”, ovviamente, in una ripresa della
pessimistica, se non appunto qualunquistica, sfiducia nei
confronti delle istituzioni parlamentari espressa dal regista
già in L’onorevole Angelina): quelli che perseguono senza scrupoli
i propri interessi e che quindi dominano tramite l’ipocrisia
e l’arroganza, e gli altri sempre vittime innocenti,
portatori positivi di un onesto ma ingenuo buon senso
destinato perennemente ad essere calpestato. Insomma, la
nuova democrazia, rappresentata dall’alleanza di nuovo conio
antifascisti-podestà, opprime l’uomo qualunque quanto e più
(visto che Piscitello viene licenziato) del fascismo.
In tale prospettiva è persino ovvio che la Storia opprima
Piscitello come un susseguirsi incomprensibile di eventi
dapprima lontani, letteralmente invisibili (la scena in cui nella
pagina di giornale in cui si annuncia la morte di Hindeburg e
la definitiva presa del potere di Hitler Piscitello legge
soltanto la notizia della morte di un Percolla), che poi, con
la guerra, si abbattono improvvisamente sulla sua vita ma
sempre conservando la loro dolorosa inesplicabità, come un
movimento fatale sul quale egli non può nulla, dai cui
meccanismi egli è totalmente slegato e inconsapevole. Zampa
lo esprime anche linguisticamente, dando alle immagini della
Storia uno statuto irriducibilmente diverso (i cinegiornali
del LUCE, i documentari che vengono innestati come corpi
estranei nel fluire del film, sospendendolo e trasferendo lo
spettatore quasi in un’altra dimensione) da quelle che
raccontano l’esistenza di Piscitello. D’altra parte anche
questa Storia vista con gli occhi di un impiegato comunale di
una provincia siciliana burocratica e farmaceutica è vera,
perché, come scrive Calvino, «molta Italia, sarebbe bugia il
negarlo, era sotto il fascismo sganciata dalle ragioni vive
della storia, e non solo nel Sud»38; ma è proprio la scelta di
rappresentare esclusivamente questa Italia che non rende
possibile cogliere quella Storia come un dramma collettivo,
come campo di tensioni sociali in cui gli uomini e le donne
di tutti i giorni sono immersi e i cui equilibri
contribuiscono a determinare non meno di quanto da essi siano
condizionati.
È interessante notare, tuttavia, che il film propone dei
punti di resistenza a questa visione dell’individuo costretto
a subire passivamente la Storia. D’altronde, una concezione
del film come “prodotto culturale”, secondo la definizione di
Sorlin, permette di assumere tali contraddizioni come
conseguenze inevitabili della dimensione collettiva della
concezione e fabbricazione del film, soprattutto nel caso di
un’opera realizzata da un’équipe così eterogenea: alla
sceneggiatura contribuirono infatti personaggi come Sergio
Amidei da un lato e Franco Evangelisti dall’altro. Così,
subito dopo la morte del figlio, Piscitello, fuori di sé,
raggiunge gli antifascisti della farmacia ed esplode nel
famoso discorso del «siamo tutti dei vigliacchi», la cui
importanza Brancati sottolinea così: «Il sugo del film è
nella tirata finale del protagonista, quando egli grida che
contro la dittatura non bisogna contentarsi di mormorare a
bassa voce, ma rischiare il carcere e perfino la morte, se
non si vuole che, in vece nostra, muoiano i nostri figli in
una delle tante guerre disastrose che la dittatura suole
provocare»39. Inoltre il film rappresenta una forma di
progressiva assunzione di responsabilità da parte di
Piscitello: se all’inizio del film, come abbiamo visto, la
Storia gli si nasconde dietro il necrologio di un amico, in
seguito, insofferente dell’antifascismo da retrobottega del
solito gruppetto, egli si chiede se non sia loro dovere dire
in piazza quel che sussurrano chiusi in una farmacia; e
subito dopo lo sbarco americano, avendo scoperto che il
giovane italo-americano collabora con gli alleati, rischia la
vita non denunciandolo. Non è inverosimile supporre che in
questi passi del film si faccia sentire la mano di un
personaggio come Amidei, esponente di quella nuova
generazione di antifascisti che, come scrive Calvino, «non
vuole chiudersi in farmacia»40 e a cui si deve probabilmente
anche l’acre, e forse eccessivamente severa, satira di un
antifascismo provinciale e isolato che nel film non sa
esprimersi se non per barzellette. Ma si tratta di episodi
isolati che non incidono sulla prospettiva ideologica
complessiva del film e che infatti vengono, a ben guardare,
subito “neutralizzati”; la riappropriazione della parola
“pubblica41 da parte di Piscitello che sembra segnare, al
tempo stesso, la sua presa di coscienza e l’inizio di un
nuovo rapporto con la Storia si dissolve nel suo mutismo di
fronte al podestà usurpatore del ruolo di sindaco con la sua
falsa patente di antifascista. Nella stessa direzione va la
non ricomparsa, dopo la liberazione della Sicilia, del
farmacista che, unico, aveva avuto il coraggio di portare la sue
parole in piazza, secondo l’invito di Piscitello, cantando la
Marsigliese durante l’annuncio dell’entrata in guerra, e per
questo era stato mandato al confino. Nel racconto di Brancati
è lui a diventare sindaco. Nel film di Zampa invece,
significativamente, precipita nel non-visibile e non sappiamo più
niente di lui, segno del finale e definitivo prevalere di una
sterile ideologia qualunquistica. Dopo quell’esperienza il
farmacista avrebbe accettato così facilmente il posticcio
antifascismo del podestà? Loro sarebbero stati ancora tutti
uguali?
In questa prospettiva che impedisce di vedere le profonde
ragioni che muovono la storia e in cui le identità politiche
si confondono indistinguibilmente in un cinismo
opportunistico generalizzato, il «siamo tutti dei vigliacchi»
di Piscitello cambia di segno e se, soggettivamente, conferma
una presa di coscienza individuale delle proprie
responsabilità di fronte alla storia, si rovescia
oggettivamente in un facile conciliatorismo autoassolutorio
che fa della storia stessa una notte in cui tutte le vacche
sono nere. Insomma, crediamo sia possibile dire, seguendo
un’analisi analoga che Foucault effettuò su quella
particolare produzione cinematografica detta «rétro»42, che
dietro la frase di Piscitello si nasconda un’altra frase che
costituisce, a nostro avviso, l’autentico “messaggio” del
film: «non ci sono stati colpevoli, non ci sono stati eroi».
Frase che, pronunciata nel 1948, acquisiva un ulteriore
significato: «non ci sono state lotte allora, non ci sono,
non ci possono essere lotte vittoriose oggi».
Non stupisce quindi la magnanimità di Andreotti verso un
film di cui il sagace uomo politico intuisce l’inoffensività,
benevolmente accettandolo come un’opportuna valvola di sfogo
degli umori e malumori popolari capace inoltre di agire sulla
memoria collettiva in una direzione augurabile per il potere
democristiano, svelando al pubblico non ciò che è stato ma
ciò che deve ricordare di essere stato; nè sorprende che la
“verità” del film sia esaltata da “Il Popolo” con parole
eloquenti: «Sono parecchi quelli che hanno sulla coscienza
questo coraggio, di aver detta tutta la “nostra” verità,
perché la verità di Piscitello, travet del comune di Modica,
è la verità di altri milioni di italiani[…] Una pellicola che
dica questa nostra tragedia – e tragedia è perché siamo come
siamo e che il Signore ci aiuti – è una pellicola che fa
onore a chi l’ha fatta e a chi l’ha pensata. Non c’è da
vergognarsi a dire la verità e non c’è da nasconderselo che
quelli sono stati “anni difficili”…»43.
Ma anche quelli del dopoguerra sono anni difficili; e alla
domanda che Calvino pone ai tanti Piscitello (siciliani e
non) seduti in sala: «È ancor oggi nello stesso comune, sotto
all’antico podestà-barone, ora sindaco democristiano, con
l’Azione Cattolica che gli porta a Roma i figli col basco
verde, e la moglie che brontola perché i colleghi iscritti
alle Acli portano a casa i pacchi americani e lui no, e la
radio e i giornali che parlano del Patto Atlantico. Però c’è
qualcosa di nuovo: in piazza, a un balcone, c’è l’insegna
rossa della sezione comunista, e dentro tanta povera gente
come lui che però ha idee più chiare di lui sul sindaco-
barone, sui baschi verdi, sui pacchi americani e i patti
atlantici. Piscitello che ha l’esperienza dell’altra volta,
cosa farà, Piscitello?»44, il film dà già una risposta:
siederà a fianco dell’americano, che ha indossato la divisa
da fascista, e tacerà.
Note
1 L’intero intervento parlamentare di Andreotti è rintracciabile,insieme ad una parte dell’interrogazione dei senatori in S. Gesù (acura di), Vitaliano Brancati, Associazione Turistica Pro Loco Acicatena,1989, Catania, pp. 50-54.2 La celebre lettera a De Sica su Umberto D. è del 1952.3 Il primo originale contributo italiano al problema del film nellasua dimensione di documento storico, il libro di A. Mura, Film, storia estoriografia, Edizioni della Quercia, Roma, 1967, è tutto strutturatoancora dal vecchio pregiudizio positivistico secondo cui documentario efilm di fiction avrebbero due diversi “statuti ontologici” e per ilquale nel cinema bisognerebbe cercare quella che si potrebbe definire,secondo la celebre espressione di Wilson, «la storia scritta dalfulmine» (cfr. P. Ortoleva, Scene dal passato, Loerscher, Torino, 1991,p.2), cioè i frammenti di realtà impressi nella pellicola ripulitidalla “manipolazione” degli autori. 4 R. CANUDO, L’usine aux images, Ed. Seguier, Marseille, 1995 ( trad.it,L’officina delle immagini, Bianco e Nero, Roma, 1966). 5 Y. BIRO, Il film storico e i suoi aspetti moderni, in G.M. Gori (a cura di), Lastoria al cinema, Bulzoni, Roma, 1994, p. 22. 6 G. FINK, Essere o essere stati:il film italiano, il tempo, la storia, ivi, p. 30. 7 Cfr. G. BRUNETTA, Il cinema, in G-M. Gori (a cura di), op. cit., pp.177-178.8 P. SORLIN, Sociologie du cinéma, Aubier Montagne, Paris, 1977 (trad. it.Sociologia del cinema, Garzanti, Milano, 1979, pp. 68-70).9 P. SORLIN, op. cit., p 221.10 Ivi, p. 222.
11 Si tratta dei tipici grossi paesi siciliani in cui si mescolanobraccianti, popolani, proprietari, borghesi e che erano già temutiall’inizio del secolo, secondo le parole di Lorenzoni che ricordava la“grande paura” dei Fasci siciliani (Inchiesta parlamentare sulle condizioni deicontadini nelle province meridionali e nella Sicilia, vol. VI: Sicilia, Roma 1910, tomoII, p. 45, citato in S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo in M. Aymard, G.Giarrizzo (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi: Sicilia, Einaudi,Torino, pp. 471-472), come luoghi di raccolta di «siffatteagglomerazioni di uomini, appartenenti in massima parte ad una solaclasse» che «è agevole intendere quale pericolo possano costituire inmomenti torbidi, quando il malcontento o il disagio aizzino come unaface i cuori rassegnati bensì per forza, ma pronti a divampare se unmiraggio baleni loro dinnanzi». E ancora: «del paese si temeva lapromiscuità sociale che esponeva questi “atipici” contadini meridionaliall’influenza corruttrice della borghesia; non solo morale ma ancorapolitica, come dimostrava la storia dei “socialismi”, delle“democrazie” più o meno sociali, dei mille clientelismi localistici cheil nazionalpopulismo antiparlamentare aveva inteso distruggere» (S.LUPO, op. cit., p. 472). Contro questa specificità siciliana l’ultimofascismo scagliò l’ “assalto al latifondo”, inteso a riorganizzarel’agricoltura siciliana secondo un modello colonico che appunto celava,dietro l’ideologia ruralistico-patriarcale (collocando le abitazionidei contadini nel terreno da loro coltivato si sarebbe risposto,secondo tale ideologia, alla dispersione familiare indotta dalla vitapaesana o cittadina, restaurando così l’autorità patriarcale, e legandoi contadini alla terra e ai suoi presunti “valori”, operosità ,mansuetudine, religiosità, rispetto delle gerarchie, ecc) , ben preciseragioni socio-politiche.12 S. LUPO, op. cit., p. 383.13 Cfr. G. CASARRUBEA, Storia segreta della Sicilia, Bompiani, Milano, 2005.14 Naturalmente ci sono le eccezioni: La terra trema (1947) di Visconti,Caccia tragica (1946) e Riso amaro (1948) di De Santis, ma sono film chenascono in un contesto molto diverso e con modalità particolari diproduzione per il primo, e un’ambientazione settentrionale per glialtri due. D’altra parte bisogna anche ricordare che il disinteresseverso il mondo contadino e le sue problematiche ha anche ragioniprecipuamente culturali. In un’intervista Olmi attesta: «Nondimentichiamo che la storia di questo secolo non è fatta soltanto delmondo operaio, c’è un mondo contadino che malauguratamente è statosottovalutato e persino ridicolizzato, soprattutto da degliintellettuali, tanto che il contadino è diventato un soggetto dabarzellette. Ci si è messa sotto i piedi la cultura contadina». Interviewà Ermanno Olmi, in “Positif”, settembre 1974. Lo storico Philippe Joutardaggiunge: «I documenti sul mondo operaio si ritrovano molto facilmenteda qualche anno; ma se ne trovano molto pochi sul mondo contadino, comese quest’ultima categoria fosse stata colpita da un duplice ostracismo,da destra e da sinistra».
15 Per capire l’atteggiamento dei produttori è sufficiente leggere lerisposte di alcuni di loro ad un’inchiesta promossa dalla rivista“Cinespettacolo” (agosto 1948): «Alla domanda: – Dopo i cicliromantici, gialli, avventurosi, l’attuale ciclo tende esclusivamente alrealismo? […] Dino de Laurentis: “L’attuale ciclo tende al realismo, maad un realismo crudo contenuto più nella scenografia che nelsignificato del film. Secondo il mio gusto, invece, il realismo deveessere un altro, aderente non all’esteriorità, ma al contenutointrinseco della vita, come nel mio ultimo film – (Molti sogni per lestrade) e con un fondo di bontà: Giulio Vanenti: “No! Escludo ilrealismo, perché esso è falsificato e perché il realismocinematografico italiano degrada il nostro popolo»; citato in G.FERRARA, Il nuovo cinema italiano, Le Monnier, Firenze, 1957, p.180.16 Per un resoconto più esauriente dei dati cfr. V. SPINAZZOLA, Cinema epubblico, Bompiani, Milano, 1974, p.11.17 Ivi, p. 9.18 Ivi, p. 12.19 Cfr. ivi, pp. 7-17.20 Ivi, pp. 20-21.21 V. BRANCATI, Tutti i racconti,a cura di D. Perrone, Bompiani, Milano, 1994,p. 399.22 Dunque appartenente ad una classe sociale, la piccola borghesiaburocratica, che non fu certo tra quelle che più patirono il regime.23 Ivi, p.400.24 Anche se non è un caso che proprio queste scene, in cui sidemoliscono aspetti del fascismo che, per quanto fortemente incidentinella vita quotidiana della popolazione, sono indubitabilmentesecondari, siano diventate un topos immancabile nelle commedie sulfascismo degli anni ‘50 e successivi. Di queste commedie che,significativamente, da Tutti a casa di Comencini (1960. Si tratta in questocaso però di un esempio straordinariamente riuscito di un’affilatacritica del fascismo che si affida agli strumenti del “comico”sfruttandoli nella maniera più efficace) a La marcia su Roma (1962) diDino Risi o Il federale (1961) di Salce depotenziano progressivamente lacarica satirica fino ad estenuarla in farsa più o meno volgare e a cui,altrettanto significativamente, Anni difficili dà la struttura di base (laprogressiva presa di coscienza del/i protagonista/i con finale più omeno tragico o edificante), il film di Zampa può essere legittimamenteconsiderato il capostipite.25 P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino, 1989, p.121.26 Ibidem.27 È interessante notare che il federale del film non è siciliano(durante la rappresentazione della Norma egli risponde al dirigentenazionale fascista, che gli chiede notizie sulla trama dell’opera, dinon saperne nulla perché non del luogo). Ciò da un lato sembrarimandare alla presunta “estraneità” del potere politico fascistarispetto alla Sicilia, dall’altro alla nota diffidenza di Mussolini
verso le classi politiche isolane e al tentativo di metterle sotto ilcontrollo del centro, anche mediante personale non isolano (vedi ilcaso di Franz Turchi, federale a Messina e a Ragusa. Per leimplicazioni più generali vedi nota n. 32). Dando un’origine nonisolana al federale Zampa sembra forse manifestare un cedimento alpregiudizio di una presunta maggiore inclinazione meridionale al viziotrasformistico: nella scena di cui sopra, infatti, il federale chesembra accettare, rassegnato, di dover subire le conseguenze delle sueresponsabilità politiche, appare una figura più dignitosa rispetto alpodestà che manifesta tutta la sicumera arrogante di chi sa già che,pur condividendo quelle stesse responsabilità, alle conseguenze di essesi sottrarrà. 28 R. MANGIAMELI, La regione in guerra (1943-1950), in M. AYMARD E G. GIARRIZZO,op. cit., p. 489.29 Intendo con questa espressione gli esponenti dei gruppi di potere odi classi sociali che, a diverso titolo avevano avuto motivo di attritocol fascismo. In questa composita categoria, per l’incomprensionealleata della struttura sociale siciliana, rientrarono anche personaggicome Calogero Vizzini, Infatti nominato sindaco di Villalba.30 Prem 3/288-a9, Rennell’s Report, 2 e 8 agosto 1943, citato da R.MANGIAMELI, op. cit., p. 491, fonte dalla quale traggo le informazionistoriche di cui sopra.31 Prem 3/288-8, RENNELL, Notes for Use by the Secretary of State in the Debite onAmgot, settembre 1943, citato in R. MANGIAMELI, op. cit., p. 494.32 S. LUPO, op. cit., p. 403.33 Paradossalmente, questo non fu un grave danno, anzi. Ad esempio,l’attacco portato dal fascismo, in nome della lotta ai gruppi di poterelocali, ai vecchi mediatori politici, tradizionali referenti degliinteressi dei potentati autoctoni, che erano riusciti ad omologarsi alnuovo potere fascista, attacco condotto tramite l’abolizione deimeccanismi elettivi nelle federazioni e il conseguente spostamento deimeccanismi di selezione politica a livello centrale-nazionale (ifederali, come abbiamo accennato, diventano una diretta emanazione delcentro e a volte non sono neanche siciliani), comportano un’accentuazione della dimensione informale del potere, cioè unrafforzarsi delle élites sociali, rappresentate quasi ovunque dallapossidenza agraria. Nella stessa direzione si orientarono leconseguenze dell’offensiva condotta, nel tentativo ancora una volta ditroncare i legami tra le varie sezioni del potere clientelare, controcooperative, casse rurali, circoli di conversazione, ecc. Il sistemaclientelare si rigenerava immediatamente tramite la nascita di nuoveassociazioni sotto un’egida fascista del tutto esteriore (Dopolavorofascista, ad esempio); e mentre si svuotano le Case del Fascio e siriempiono i caffè, diventati i nuovi luoghi dell’aggregazioneeconomico-politica, esso perde sempre più ogni connotazione politico-ideologica acquisendo un carattere personalistico-sociale sempre piùspiccato.
34 A proposito del grave problema degli ammassi e del loro controllo,elemento decisivo per assicurare di che sfamare i ceti cittadini, S.Lupo scrive: «La scelta perseguita è ancora quella di neutralizzare gliaspetti politici e puntare sulle élites sociali, sui grandiproprietari[…] È una consapevole scelta classista, dunque, che scontala rappresentazione dicotomica (cappeddi e birritti) della societàarretrata, sottovalutando l’incidenza di aspetti più complessi dellagestione della politica agraria. Ritornati alla direzione delleistituzioni agrarie i proprietari non si dimostrano docili esecutori dipolitiche liquidatorie, tendono piuttosto al mantenimento delle vecchiestrutture, si oppongono al licenziamento di personale[…] È unaquestione di posti di lavoro che inceppa il processo di epurazione eche suscita il consenso dei ceti medi urbani attorno al riacquistatoruolo dirigente dei grandi agrari […] La riconquista delle istituzioniagrarie e la sapiente gestione delle scarse risorse disponibiliconsentono di far politica uscendo dagli angusti limiti imposti dalgoverno militare» (op. cit., p. 511). Gli agrari così riprendono a tessererelazioni su larga scala, influenzano le nomine politiche, siassicurano un complesso reticolo di solidarietà.35 Si veda soprattutto la scena magistrale del licenziamento diPiscitello, in cui l’ex podestà mette in bocca all’ammutolito epuratoparole che prese alla lettera sono vere, ma pronunciate da questomostro di ipocrisia acquisiscono un senso completamente diverso. Egli èl’incarnazione stessa della doppiezza: anche quando non mente dicesempre una bugia.36 Gli schieramenti politici degli “antifascisti della farmacia” sicomprendono, grosso modo, dal battibecco che nasce tra loro quandoPiscitello chiede consiglio su cosa fare a seguito dell’ordine delpodestà di iscriversi al partito fascista pena la perdita del posto.L’avvocato che allude alla mancata unione delle forze popolari èverosimilmente un socialista o un comunista. Il notabile che glirisponde scaricando le responsabilità della mancata unione sugliattacchi alla chiesa sembra rappresentare un esponente del PartitoPopolare. L’onorevole invece appare un moderato, tenta di mediare, maparla di “dialettica della storia”. Si potrebbe avanzare l’ipotesi diun’appartenenza demosocialista? 37 Cfr. V. SPINAZZOLA, op. cit., p. 205.38 I. CALVINO, Anni difficili, in Millimetri, n. 6-7, settembre 2004.39 Citato da S. GESÙ, op. cit., p. 49.40 I. CALVINO, op.cit..41 Il film sembra manifestare un modo di usare il linguaggio che rivelaun risvolto immediatamente politico: le barzellette sul Duce sussurratenel retrobottega esprimono l’inconcludenza di un antifascismo che sirinchiude in una farmacia, le parole tonitruanti di Mussolini, cheoccupano la piazza, e quelle del dirigente nazionale fascistarimbombanti nel vuoto del teatro, metaforizzano l’egemonia fascistasullo spazio pubblico. I versi della Marsigliese che dalla piazzavengono scacciate e quelle della Norma che vengono censurate traducono
l’elisione della libertà, le tracce dannunziane nel linguaggio dellafiglia di Piscitello anticipano e preparano la fanatizzazione dellaragazza… 42 Cfr. Anti-rétro, conversazione con Michel Foucault, in La storia al cinema, op. cit.,p. 191. 43 Citato da Vitaliano Brancati, a cura di S. GESÙ, op.cit., p. 118. 44 I. CALVINO, op. cit..