siamo tutti dei vigliacchi? problematiche storiche in “anni difficili” di luigi zampa

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SIAMO TUTTI DEI VIGLIACCHI? PROBLEMATICHE IN “ANNI DIFFICILI” DI LUIGI ZAMPA Il giorno 27 novembre 1948, nel corso della seduta CXVII del Senato della Repubblica, l’allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo sport, spettacolo e turismo, l’on. Giulio Andreotti, in risposta ad una virulenta interrogazione parlamentare da parte dei senatori Magliano, Cingolani e Persico che deplorava «la proiezione di films nei quali produttori e registi di poco scrupolo, speculando sulle miserie della patria, ne mettono ostentatamente in luce gli aspetti più deprimenti e le brutture più dolorose […] offendono altresì il senso morale e più ancora la dignità di un popolo che così duramente lotta per risollevarsi dalle sue sventure», attaccando in particolare il film di Zampa, Anni difficili, rispondeva all’accusa fatta al film di screditare l’immagine dell’Italia all’estero: «Io vorrei che ci si fermasse un secondo a pensare che ogni film non ha la pretesa di fare la storia di un periodo o di essere un documentario; il film, anche quando parte da alcuni fatti realmente avvenuti, e li inserisce in un determinato ambiente e contesto storico, ha però tutti gli elementi della fantasia, della genialità di invenzione, del contorno di colore, che è una cosa profondamente diversa da quello che è il puro documentario, che invece vuole essere una rappresentazione di avvenimenti più o meno solenni, ma comunque di risonanza pubblica ed inseriti nella storia e nella cronaca di una collettività. Quindi non dobbiamo (come nessuno si sognerebbe di dire che all’estero possano dare un

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SIAMO TUTTI DEI VIGLIACCHI?

PROBLEMATICHE IN “ANNI DIFFICILI” DI LUIGI ZAMPA

Il giorno 27 novembre 1948, nel corso della seduta CXVII del

Senato della Repubblica, l’allora Sottosegretario alla

Presidenza del Consiglio con delega allo sport, spettacolo e

turismo, l’on. Giulio Andreotti, in risposta ad una virulenta

interrogazione parlamentare da parte dei senatori Magliano,

Cingolani e Persico che deplorava «la proiezione di films nei

quali produttori e registi di poco scrupolo, speculando sulle

miserie della patria, ne mettono ostentatamente in luce gli

aspetti più deprimenti e le brutture più dolorose […]

offendono altresì il senso morale e più ancora la dignità di

un popolo che così duramente lotta per risollevarsi dalle sue

sventure», attaccando in particolare il film di Zampa, Anni

difficili, rispondeva all’accusa fatta al film di screditare

l’immagine dell’Italia all’estero:

«Io vorrei che ci si fermasse un secondo a pensare che ogni

film non ha la pretesa di fare la storia di un periodo o di

essere un documentario; il film, anche quando parte da alcuni

fatti realmente avvenuti, e li inserisce in un determinato

ambiente e contesto storico, ha però tutti gli elementi della

fantasia, della genialità di invenzione, del contorno di

colore, che è una cosa profondamente diversa da quello che è

il puro documentario, che invece vuole essere una

rappresentazione di avvenimenti più o meno solenni, ma

comunque di risonanza pubblica ed inseriti nella storia e

nella cronaca di una collettività. Quindi non dobbiamo (come

nessuno si sognerebbe di dire che all’estero possano dare un

giudizio sulla situazione italiana o sull’orientamento

psicologico del nostro Paese partendo da un romanzo o

partendo da una composizione letteraria) non dobbiamo, di

fronte ad un film, sopravvalutarne l’importanza sotto un

simile punto di vista»1.

È curioso notare, a parte il paradosso (apparente, come

vedremo) per cui il sostenitore dell’inoffensiva irrilevanza

del film di Zampa nel 1948 si trasformerà nel “censore” dei

panni sporchi lavati in pubblico dal cinema di De Sica nel

19522, come Andreotti facesse propria, per volgerla ai propri

fini di una difesa “di retroguardia” dell’opera di Zampa

fondata sulla sua presunta innocuità, una diffidenza nei

confronti del valore “storico” del film di finzione che era

allora (e lo sarebbe stato ancora per lungo tempo, almeno in

Italia3) dominante e che si fondava ancora sulla vecchia

distinzione canudiana tra «film storico» e «film in costume»:

secondo Canudo, infatti, «gli unici film storici, nel senso

pieno e suggestivo della parola, sono quelli che al cinema si

chiamano attualità […] Gli altri sono soltanto film in

costume»4. Probabilmente Andreotti aveva in mente la storia di

paccottiglia propinata dal cinema fascista in film come

Scipione l’Africano (1937) di Giaccone o Condottieri (1937) di

Trenker o, ancor meglio, l’attualità fiabescamente edulcorata

del cinema dei telefoni bianchi. In realtà, già intorno agli

anni trenta, nelle riviste “Bianco e Nero” e “Cinema”, nasce

un intenso dibattito, ad opera di giovani critici e futuri

registi, sull’effettivo valore di questo cinema e si comincia

a manifestare una profonda volontà di “storicità” in senso

ben diverso da quello che motiva le puntigliose ricerche

sugli ornamenti di esotici pachidermi. Seguendo Yvette Biro,

potremmo così definirlo e spiegarlo: «mostrare le grandi

svolte storiche non solamente attraverso i conflitti storici

fra i grandi personaggi, come accade a teatro, ma con le

azioni quotidiane della gente semplice […] Il fatto e la

comprensione del fatto che la vita individuale è in rapporto

molto stretto con la storia, che la storia interviene

incessantemente nella vita degli individui, è l’esperienza

che gli uomini del nostro secolo sempre più vivono e fanno

propria. Gli orrori delle due guerre mondiali hanno fatto

comprendere agli uomini questa interdipendenza e allo stesso

tempo che le vicende della vita hanno un carattere storico.

Sembra che il cinema proprio per le sue caratteristiche

artistiche sia adatto a riflettere questo aspetto della vita.

Il cinema ama scegliere eroi semplici per fare capire,

attraverso i loro destini, i rivolgimenti storici, in un modo

familiare, naturale, semplice e nello stesso tempo complesso,

proprio come la gente è abituata a viverli[…] Riconducendo la

storia al livello della vita quotidiana e dando alla vita

quotidiana delle prospettive storiche, il cinema, con la sua

nuova drammaturgia, esprime una nuova ed interessante

tendenza, quella di unire, nel modo più naturale,

l’evoluzione storica e i drammi individuali»5. A parte il

riferimento al teatro, credo sia possibile dire che proprio

l’affermazione nella cultura cinematografica italiana di

questo concetto di storicità, che ha ovviamente alle spalle

le grandi tradizioni del romanzo storico di Scott, Balzac,

Manzoni, coniugato alla furibonda sete di realtà cresciuta

contro quello che Visconti chiamò «un cinema di cadaveri»

costituisca uno dei più potenti detonatori del neorealismo

cinematografico,non solo in film come Ossessione (1943) dello

stesso Visconti, ma anche in opere come Un pilota ritorna (1942)

di Rossellini, «film disperatamente “contemporanei”, che

proprio mentre sembrano anelare a bruciare le loro stesse

immagini in una polemica affermazione dello hic et nunc si

rivelano naturalmente, automaticamente “storici”»6. Se è

difficile inserire un film come Anni difficili nel filone

neorealista, è certo che esso fa suo, pur con tutte le sue

ambiguità ideologiche, il doppio aspetto di questa concezione

di storicità, complicandolo però ulteriormente poiché si

tratta di un film al tempo stesso “contemporaneo” e

“storico”, visto che il periodo temporale cui esso fa

riferimento si estende dal 1934 fino allo sbarco americano

del 1943. Se dunque per i contemporanei, al di là del

velleitario tentativo di neutralizzazione di Andreotti, quel

film rappresentò una bruciante radiografia di un passato che

confinava con il presente fino quasi a coincidere con esso,

per noi esso costituisce forse il primo esempio di un’opera

cinematografica italiana intesa a una ricostruzione

complessiva del fascismo. Ai fini di una “lettura storica”

del film è necessario dunque chiarire, seguendo le parole di

Giampiero Brunetta7, che consideriamo Anni difficili come

appartenente a quel genere di «film storico, poniamo

sull’antichità classica o sul medioevo, o sul fascismo» –

appunto – che «non può essere considerato una fonte

documentaria[…] Ciò non toglie che questa ricostruzione può

essere analizzata dallo storico, sia della società

contemporanea, sia delle società del passato, alla stregua di

qualsiasi altra fonte, una volta chiariti gli ambiti della

ricerca e l’utilizzazione che se ne può fare»; in particolare

per quel che concerne «lo studio della società contemporanea

attraverso la rilettura del passato» bisogna tenere conto che

«come ogni altro film spettacolare, a soggetto, anche il film

storico stabilisce con la realtà un rapporto indiretto,

mediato, chiaramente affabulato […] Sennonché, trattandosi di

fatti, ambienti e personaggi “storici” il rapporto è più

complesso, concerne l’interpretazione che si vuol dare del

passato e quindi l’ideologia che sottende tanto la scelta

dell’argomento quanto i modi della sua rappresentazione

cinematografica[…] Perché all’origine di ogni film c’è sempre

un intento, più o meno dichiarato; ed anche la rilettura del

passato per farne oggetto di spettacolo nasce da motivazioni

determinate. Si tratta di individuarle, in modo da utilizzare

un film sul passato come un documento sul presente». Per noi

dunque “leggere storicamente un film” significa storicizzare

non solo i condizionamenti ideologico-sociali che hanno

presieduto alla sua produzione e realizzazione, ma anche i

suoi procedimenti formali, il modo in cui essi configurano la

sua precipua maniera di guardare, senza trascurare i processi di

ricezione che insieme alle altre due dimensioni

costituiscono, secondo complesse e a volte contradditorie

stratificazioni, il film come oggetto storico. Per cogliere tali

stratificazioni di sensi e di nessi che dal testo rimandano

al contesto storico e alle «attrezzature mentali» dei suoi

autori e dei suoi ricettori, per preservare la possibilità di

coglierli anche nelle loro contraddizioni, ci faremo guidare

dal concetto di «visibile» elaborato da Pierre Sorlin:

«ognuno sa che noi non vediamo il mondo esterno “come è”; noi

percepiamo persone e cose attraverso le nostre abitudini, le

nostre attese, la nostra mentalità, vale a dire attraverso le

maniere, proprie del nostro ambiente, di strutturare

l’essenziale (ciò che per noi è essenziale) rispetto

all’accessorio. Il “visibile” di un’epoca è ciò che i

fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo,

e ciò che gli spettatori accettano senza stupore[…] Il

visibile è quel che appare fotografabile e presentabile sugli

schermi in un’epoca data[…] Le fluttuazioni del visibile non

hanno niente di aleatorio: rispondono ai bisogni, o al

rifiuto di una formazione sociale. Le condizioni che

influenzano le metamorfosi del visivo, e il campo stesso del

visivo sono strettamente legati: un gruppo vede ciò che può

vedere, e ciò che è capace di percepire definisce il

perimetro entro il quale esso è in grado di porre i propri

problemi. Il cinema è al tempo stesso repertorio e produzione

di immagini. Mostra non già il “reale”, ma i frammenti del

reale che il pubblico accetta e riconosce. Per un altro

verso, contribuisce ad allargare il territorio del visibile,

a imporre immagini nuove»8.

Cosa dunque era “visibile” della Sicilia e della sua storia

sotto il fascismo in quel secondo dopoguerra?

Iniziamo dalla sequenza che apre il film: si tratta di una

serie di inquadrature ordinate secondo un principio di

montaggio di tipo descrittivo: ci mostrano i luoghi in cui si

svolgerà la vicenda. Si tratta in pratica di una serie di

cartoline illustrate in movimento legate tra loro da

dissolvenze incrociate e da una voce narrante che, se prima

descrive, un po’ manzonianamente, l’ambiente urbano che ci

scorre sotto gli occhi rivelandone la collocazione geografica

e il toponimo a spettatori che si presupponeva,

evidentemente, non conoscessero molto bene la Sicilia, ci

presenta Modica e, simbolicamente, l’isola intera come

usbergo di un genius loci piuttosto singolare: il buon senso che

albergherebbe “nel popolo di queste città”.

Ora, della cittadina di Modica ci viene presentata una

visione a volo d’uccello che ce ne illustra la caratteristica

ed affascinante configurazione urbana, con, nella parte alta,

le sue antiche abitazioni tratte dai dammusi, addossate le

une alle altre e organizzate secondo un intrico di casette,

viuzze e larghe scale (una ripresa diventata anch’essa un

documento storico, visto lo scempio che di gran parte del

centro storico è stato compiuto in seguito a speculazioni

edilizie tra i ’60 e gli ’80) e ancora alcune sue bellezze

architettoniche, come la chiesa Madre di San Giorgio. Da

questa descrizione d’ambiente, che è anche una perimetrazione

sociale (la città è abitata da impiegati, farmacisti,

avvocati) su cui la voce off esprime quel giudizio che abbiamo

visto, sono escluse però alcune bellezze di altro genere. Se

le panoramiche iniziali, infatti, si fossero spinte un po’

oltre, avrebbero scoperto una parte del territorio anch’essa

molto caratteristica: la fitta rete di muri a secco,

trapuntati da meravigliosi alberi di carrubo, che dividevano

gli appezzamenti di terreno intorno a Modica. Vale a dire che

la campagna e coloro che la abitano sono espulsi dal visibile

del film. Siamo coscienti che «il non-visibile non si

confonde con la collezione di tutto ciò che non viene

mostrato al cinema»9, ma crediamo appunto che la

scotomizzazione della campagna siciliana, che poi vuol dire

del problema contadino e, attraverso esso, del problema

siciliano tout court, non sia proprio casuale10. Tramite la

cancellazione dei contadini è la Sicilia stessa, in quanto

realtà storico-sociale, che viene messa tra parentesi o

ridotta a pura scenografia. Il confronto con la maniera di

filmare altri luoghi di lavoro e lo stesso panorama

antropologico ce lo conferma: infatti non c’è in Anni difficili una

elisione del lavoro per partito preso: la mdp indugia

sull’ufficio di Piscitello e del Podestà, esplora addirittura

la fabbrica chimica appartenente a quest’ultimo, seppure

soltanto per quanto riguarda la postazione destinata al

figlio di Piscitello, Giovanni, che è un tecnico (niente

operai, dunque, e anche questo è significativo). Per quel che

riguarda il panorama antropologico, i contadini, ma possiamo

dire, in questo caso, i siciliani, nel film hanno un ruolo

quasi del tutto insignificante, a parte le scene di masse o

d’insieme e due eccezioni che dicono molto, come vedremo:

Zampa decide di girare con attori professionisti (e questo è

un primo importante segno di come il film non sia

assimilabile al neorealismo, anzi, se ne distacchi

profondamente); tuttavia, a parte Umberto Spadaro gli altri

attori (basti pensare a Ave Ninchi o Massimo Girotti) sono

completamente inverosimili anche soltanto come siciliani.

Eppure l’ambientazione, se presa sul serio, avrebbe potuto

motivare una certa presenza contadina nel film: Modica

infatti, come abbiamo accennato, poteva essere assimilata ad

una di quelle agrotowns di cui il fascismo temeva la

pericolosa promiscuità sociale, potenzialmente foriera di

solidarietà classiste e inter-classiste11. Non solo;

l’agricoltura modico-ragusana presentava una forte

specificità rispetto al prevalente modello siciliano: essa

era organizzata non in grandi latifondi, ma in più piccoli

appezzamenti di terreno gestiti da una classe di piccoli

proprietari terrieri. L’assenza di un sistema latifondista, e

in particolare di quelle figure intermediarie e parassitarie,

come i gabellotti ad esempio, aveva impedito nella zona la

crescita e lo sviluppo della mafia, che dunque non poteva

esercitare la funzione di guardia bianca padronale nei

confronti del movimento contadino. Si creavano dunque delle

condizioni favorevoli a che i braccianti riuscissero a

costituire organizzazioni molto forti ed a esercitare

un’efficace azione rivendicativa. Al momento della marcia su

Roma Modica presentava una delle non numerose amministrazioni

socialiste siciliane. Tuttavia, proprio l’assenza dei gruppi

mafiosi fece sì che gli agrari, sin dalla fine del 1920,

cominciassero a spalleggiare ed incentivare il nascente

fascismo: «Il fascismo siciliano trovava il suo originario

punto di forza nella provincia di Siracusa [allora Ragusa non

era capoluogo di provincia; lo diventò nel 1927 proprio ad

opera del fascismo], e in particolare nel circondario di

Modica, grazie ad una violenta contrapposizione squadristica

al movimento bracciantile e alle amministrazioni socialiste

che costituì poi, nel tempo, il vanto e l’indiscusso merito

delle camicie nere iblee agli occhi delle classi dominanti e

dell’opinione d’ordine»12. Non crediamo allora sia casuale

neanche la data che segna l’inizio del tempo del film: il 2

agosto 1934, giorno della morte di Hindenburg e della

definitiva presa del potere da parte di Hitler. È come se

l’espulsione dei contadini dal visibile non si svolgesse

soltanto nella dimensione spazio-topografica ma anche in

quella temporale del film. Ora, quel che crediamo di avere

dimostrato anche soltanto con queste brevi notazioni storiche

è che la rimozione della questione agraria da una

rappresentazione filmica incentrata sulla storia del fascismo

in Sicilia renda impossibile non soltanto una corretta ed

incisiva ambientazione locale (che infatti è per la gran

parte puramente decorativa), ma, soprattutto, faccia perdere la

chiave per una reale comprensione storica di questa vicenda, impedisca cioè

una messa in scena capace di enucleare ed esprimere le

ragioni che ne muovono la dinamica. Così il pur generoso

sforzo di ricostruzione del fascismo in Sicilia promosso da

Zampa e dai suoi sceneggiatori non può che risolversi in una

restituzione bozzettistica di esso secondo una prospettiva

storica, come vedremo, individualistica e fatalistica, il cui

“necessario” sbocco interpretativo finale, un moralistico

«siamo tutti dei vigliacchi», finisce con l’apparire, come

mostreremo più avanti, un atteggiamento sostanzialmente

autoassolutorio.

Leggere storicamente un film come Anni difficili significa per

noi individuare i limiti della lettura storica che propone.

Si tratta adesso di storicizzare i limiti stessi di tale

lettura. Per farlo dovremo esplorare il clima socio-politico

e nel quale il film è stato realizzato e fruito, e analizzare

le attrezzature mentali dei suoi autori.

Anni difficili fu girato e presentato nel fatidico 1948, proprio a

ridosso delle elezioni che avrebbero deciso il futuro del

paese. L’Italia era un paese profondamente diviso, ancora

scosso sul piano sociale dalle lotte operaie al nord e

dall’azione del movimento contadino al sud, e percorso dalle

violente lacerazioni politiche conseguenti a una campagna

elettorale condotta in modo virulento, segnata da una

contrapposizione partitica che aveva oramai assunto i toni

della guerra fredda. L’11 gennaio del 1947 con la scissione

di palazzo Barberini i socialisti si spaccavano e veniva

fondato il PSDI di Saragat, che fondava la divisione sul

rifiuto della politica da Fronte Popolare di Nenni. Nel marzo

di quell’anno nasceva la “dottrina Truman”, secondo la quale

gli Stati Uniti e i loro alleati avrebbero dovuto opporre

resistenza all’espansione dell’area d’influenza dell’URSS. In

primavera De Gasperi effettuava il famoso viaggio negli Stati

Uniti, al ritorno dal quale estromette socialisti e comunisti

dal governo. Era il segnale di una svolta moderata che si

consolidava nel risultato delle elezioni stravinte dal

quadripartito conservatore a guida DC: si apriva così un

periodo di restaurazione normalizzatrice. Da parte sua

Togliatti, che già dopo l’attentato subito il 14 luglio aveva

tenuto a freno con fatica la spinta rivoluzionaria di parte

del suo partito, reagiva alla débâcle delle forze progressiste,

aggravata dalla scissione sindacale che si sarebbe realizzata

da lì a breve, preparando il PCI a quella “lunga marcia

nelle istituzioni” che significava incanalare le energie dei

suoi militanti nella difesa legalitaria dei valori

costituzionali e arroccando così il partito in una guerra di

posizione sostanzialmente difensiva.

Uno dei centri, forse il principale, di questo groviglio di

tensioni politico-sociali era proprio la Sicilia. Corsa dalle

bande separatiste prima, insanguinata dalla reazione agraria

che riprendeva il rapporto con la mafia lesta a rinvigorirsi

dopo il periodo fascista e pronta a scagliarsi con violenza

sul vigoroso movimento contadino in lotta per l’attuazione

dei decreti Gullo, essa fu poi il teatro dove la rottura

dell’alleanza antifascista ebbe le conseguenze più gravi.

Comunisti, socialisti, organizzazioni sindacali e cooperative

furono lasciati soli a battersi contro il blocco agrario-

mafioso; ma soli furono lasciati, in nome di un anticomunismo

viscerale rafforzato anche dalla paura per i fatti di Praga,

anche gli esponenti di sinistra della DC e tutti i cattolici

che avevano militato a fianco del movimento contadino e

contro i “padrini”. Con il 1947 le divisioni si rafforzarono

mentre la repressione statale e mafiosa infieriva (uccisione

di Accursio Miraglia, strage di Messina, con i carabinieri

che sparano al grido di “Viva i Savoia). Nonostante tutto

alle prime elezioni regionali del 20 aprile il Blocco del

Popolo sostenuto dai contadini conquistava la vittoria. Ma

subito dopo arrivava immediamente Portella delle Ginestre,

l’oscuro segno dell’intreccio tra neofascismo13 e mafia

all’ombra di Scelba. Dopo l’estromissione dei comunisti e dei

socialisti dal governo arriva così il clamoroso rovesciamento

della vittoria ottenuta in Sicilia dal Blocco del Popolo

sull’onda delle lotte contadine, con la Democrazia Cristiana

che si allea con la destra estrema, mettendo in minoranza i

vincitori. Col 1948 Togliatti, temendo che le agitazioni

fossero un ulteriore pretesto per spingere la DC a nuovi

provvedimenti anticomunisti su scala nazionale, metteva un

freno ai dirigenti comunisti del movimento contadino. La Dc

era Scelba.

Credo che questa sintetica ricostruzione della situazione

storico-politica italiana sia sufficiente, almeno, a intuire

come far apparire sugli schermi italiani di quel periodo

“veri” siciliani e “veri” contadini significasse agitare una

materia sociale incandescente. Non stupisce la loro rarità in

quel clima14.

D’altra parte il cinema non poteva rimanere estraneo al

moto di restaurazione che spegneva il vento della Resistenza

e soffocava l’impeto e il prestigio che le forze sociali

progressiste avevano acquisito ponendosi alla guida del

processo di liberazione nazionale. Le produzioni “alla

macchia” si facevano sempre più rare, Cinecittà riapre nel

1947; è il primo segno di rinascita dell’industria che

significa per il cinema italiano il ritorno del confronto con

le necessità commerciali. Il neorealismo è sempre più messo

all’angolo15. In questa situazione acquista un valore decisivo

l’evoluzione del gusto del pubblico. Se nel 1945-1946 Roma

città aperta di Rossellini risultava il film più visto, nel 1948-

49 la miglior posizione per incasso è del feuilleton Sepolta

viva di Brignone, anche se un film “neorealista”, In nome della

legge di Germi, riesce a piazzarsi al terzo posto. Nel 1950-

1951 nessun film di scuola neorealista compare tra i dieci

maggiori successi16. Spinazzola inquadra acutamente il

problema: «Il gruppo di registi di varia formazione

ideologica e culturale che diede vita al neorealismo si

proponeva appunto di favorire una larga coscienza critica

delle condizioni e contraddizioni della civiltà italiana

attuale[…] nello stesso tempo volevano avviare con le platee

un dialogo che, pur esigendo una predisposizione all’ascolto,

non tagliasse fuori gli strati meno qualificai di spettatori,

ai quali si rivolgeva in nome d’una comune coscienza

ideologica. La sorte del neorealismo si giocò sul doppio

versante fra la crescita della democrazia politica, nel

paese, e il volenteroso sforzo d’una democratizzazione dello

spettacolo cinematografico»17. Il blocco del processo

democratico causò il fallimento di questo progetto: «In

effetti le graduatorie commerciali danno la misura esatta del

fallimento dell’operazione neorealistica nel suo punto

programmatico più ambizioso e delicato:la volontà di indurre

un mutamento radicale nei rapporti tra cinema e pubblico,

quali si esplicano negli spettacoli strutturati

industrialmente. Qui sta il motivo essenziale di debolezza

interna del movimento: su di esso avranno buon gioco a

intervenire i sempre più pesanti condizionamenti del potere

politico, diretti ed indiretti»18. Il neorealismo comincia

così a subire una mutazione: mantiene le tematiche

populistiche e magari anche l’attualità bruciante (Come persi la

guerra, 1947, di Borghesio, ad esempio) ma le declina sul

registro comico-satirico. Alla lunga tale svolta doveva

costituire, accanto al cosiddetto neorealismo rosa, una delle

diramazioni che dovevano estenuare il possente fiume

neorealista. L’opera di Zampa rappresenta il perno di questa

svolta. Film come L’onorevole Angelina (1947) con la sua

qualunquistica, indiscriminata antipolitica e, ancora di più,

Vivere in pace (1947), fungono da cardine in tal senso, la prima

per l’introduzione, resa ancora più significativa dal fatto

che qui la star è un’attrice simbolo come la Magnani, del

divismo nel neorealismo e l’abbandono della politica degli

attori di strada, la seconda per la capacità di ridurre ad

una dimensione bozzettistica, in questo caso con una certa

efficacia seppure ovviamente sempre nel limite della

falsificazione idillico-campagnola, una grande tematica come

la Resistenza19. Entrambi questi aspetti, tra l’altro, come

abbiamo visto, lasciano chiare tracce in Anni difficili: le uniche

due circostanze in cui vediamo, in modo sufficientemente

individuato, dei contadini sullo schermo appartengono ad

inquadrature che li presentano come questuanti, o presso

Piscitello per avere dei documenti che «aspettamu d’un misi»

o presso il farmacista per un po’ di soldi. Ora, soprattutto

per quel che riguarda la seconda serie di inquadrature, è

bastata soltanto la presenza fisica di questi “attori da

strada”, i loro volti invecchiati troppo presto, l’amarezza

sconsolata addensata per sempre nella piega delle loro

labbra, per aprire uno squarcio di bruciante verità nel tran

tran quotidiano appena increspato dall’inquietudine per il

figlio e dal fastidio per gli scomodi stivaloni del mondo di

Piscitello. Ecco, la miseria impotente del proletariato

agricolo di una provincia siciliana che si trova a scegliere

tra la morte per fame e il rischio della morte per guerra,

che ha perso anche l’alternativa della dura prova

dell’emigrazione, poiché Mussolini non vuole intaccare il suo

prestigio con un’ Italia che non sfama i suoi figli, tutto

questo è vero, storicamente vero. Ma resta il fatto che gli

unici contadini ad apparire sono quasi mendicanti postulanti

con mite umiltà la grazia di qualche spicciolo in più al

possidente dei campi in cui lavora il padre. La loro

rassegnata filosofia di vita («Nella Spagna ci danno quaranta

lire al giorno e da mangiare. Se Dio ci aiuta riportiamo la

pelle a casa e qualche soldo. Se no, sia fatta la Sua

volontà») permette loro di entrare con pieno diritto a

Modica, il reame del Buon Senso. Ci permettiamo però di

dubitare che i loro compagni occupanti di terre ne avrebbero

mai avuto la cittadinanza.

Insomma, cineasta piccolo-borghese, strutturalmente

limitato nella sua visione sociale, ma, come scrive

ottimamente Spinazzola, «mosso da un pacifismo antifascista

di stampo liberale, poco complicato ma non privo di una sua

risentita autenticità, Zampa si rivelò fra i pochi capaci di

confezionare spettacoli artigianalmente robusti, con una

miscela di elementi comici sino al limite inferiore della

farsa e di accensioni drammatiche retoricamente

amplificate»20. Nel momento in cui il nostro regista decide di

affrontare una rievocazione ampia del periodo fascista, quasi

naturalmente la sua scelta cade su una sceneggiatura tratta

da un racconto di Brancati, Il vecchio con gli stivali.

Brancati, rispetto a Zampa, è un artista dalla visione

infinitamente più complessa, possiede una personalità

nobilmente risentita, uno sguardo causticamente acuto,

impietoso ma anche pessimisticamente “comprensivo” della

fragilità umana. Durante la collaborazione con Zampa (Anni

difficili, Anni facili, L’arte di arrangiarsi), egli dà nerbo satirico ad

una ispirazione comica che rischia continuamente di cadere

nella farsa o nel bozzetto macchiettistico, riuscendo a

correggerne gli sbandamenti qualunquistici tramite un’etica

della responsabilità morale sinceramente e dolorosamente

sentita. La visione del fascismo di Brancati è complessa e

articolata, le modalità espressive e le profonde ragioni del

suo antifascismo lo sono altrettanto. Ci preme però

sottolineare come la scelta di Zampa del Vecchio con gli stivali come

supporto narrativo della sua indagine sul fascismo in Sicilia

sia molto significativa. La critica del fascismo vi è acre,

corrosiva, ma ha una dimensione esclusivamente

individualistica e non a caso si appunta soprattutto sugli

aspetti più esteriori della retorica fascista, organizzandosi

secondo i modi dell’analisi di costume. Lo stesso Piscitello

è sì il simbolo di un’umanità negata, stritolata negli

ingranaggi insensati di un regime di cartapesta la cui follia

è denunciata con tanto più vigore quanto più essa viene

confrontata con un’individualità “normale”; ma Brancati

ottiene tutto questo astraendo progressivamente dalla

concretezza storico-sociale, impedendosi quindi una

comprensione reale delle ragioni, delle dinamiche che

strutturavano al fondo quella follia. Contrariamente a quel

che succede di solito nei romanzi o nei racconti, il

personaggio Piscitello, invece di arricchirsi di sfumature,

di sostanziarsi di gesti, di movenze psicologiche, di azioni

sociali che lo definiscano sempre più precisamente, durante

lo sviluppo della narrazione va incontro ad una sorta di fading

narrativo, secondo un progressivo svuotamento punteggiato

dalle ripetute dichiarazioni di ignoranza da parte del

narratore (e ci sarebbe da interrogarsi su tanta demolizione

del “narratore onnisciente” da parte di un erede di Verga e

De Roberto nel momento in cui si confronta con la storia del

suo tempo…). «Che cosa abbia fatto Piscitello in questo tempo

io non lo so:mi mancano molte notizie e mi mordo le mani […]…

Ma qui di nuovo lo perdo di vista […] E dopo? Dopo, cosa

disse e fece? Sinceramente non lo so […] Ma ecco ormai la

storia di Piscitello volge al termine. Che cosa narreremo di

lui?»: sembra una michelangiolesca poiesis del “togliere” che

finisce per consumare l’intera statua… Siamo coscienti che

tramite la “dissolvenza” del personaggio Brancati esprime una

radicale polemica contro quegli aspetti retoricamente

vitalistici, dannunzianamente manipolatori (l’esistenza di

Piscitello sembra il perfetto rovesciamento della «vita

inimitabile» del Vate) del regime, che egli respinge con

tanta più asprezza quanto più convinta era stata la sua

adesione nella sua giovinezza. Non si può negare, tuttavia,

che la vis polemica colpisca l’aspetto più esteriore del

fascismo, non cogliendone la “negatività” se non a livello

individuale, senza mostrare il suo necessario scaturire dalla

vita concreta nelle sue determinazioni socio-economico-

politiche e lasciandola di conseguenza inspiegata. Infatti,

perché Piscitello è antifascista? Non è certo casuale che

un’invincibile afasia lo colpisca ogni volta che cerca di

spiegarlo alla moglie. Brancati si chiede, suggestivamente:

«Perché un canto di Milton o di Leopardi sulla libertà, o il

libro di un filosofo proibito non volò in soccorso di questo

pover’uomo, tradito da tutte le sofferenze che un’anima

onesta può ricevere dall’oppressione, e tuttavia incapace di

dire perché soffrisse?»21. Già, ma non dovremmo prima

chiederci perché mai questo Piscitello, impiegato comunale22

che il narratore ci presenta come totalmente, quasi

antropologicamente estraneo alla “politica”, dovrebbe

risentire del fascismo? Che cosa se ne farebbe, Piscitello,

della libertà perduta? Piscitello, in realtà, non può

esprimere le ragioni della sua avversione al fascismo perché

è abitato da un sentimento non suo, perché è egli stesso un

“canto” di Brancati sulla libertà, perché, cioè, è soltanto

lo strumento musicale mediante il quale un intellettuale

animato da un amore quasi kantiano per la legge morale

(significativamente di fronte all’ennesima domanda della

moglie di Piscitello sui motivi del suo antifascismo, il

narratore interviene in sua vece con queste parole, dove

ognuno potrà trovare le tracce di un celebre epitaffio… «Sì –

disse – hai detto la verità: non mi piace che l’Italia vinca!

–; – E perché? –; Ahi! Come al solito, Aldo Piscitello non lo

sapeva. Ma sapeva che un perché c’era e scintillava di notte

sul mondo come un cielo stellato, e splendeva di giorno come

il sole»23) accorda flebilmente, per un attimo, il suo acre

pessimismo esistenziale, “cosmico”, ad un dimensione storica,

senza donare però alla sua creatura una vita autonoma.

Così la corrosiva carica umoristica del Vecchio con gli stivali,

col suo fascismo visto dalla prospettiva sociale di un

qualunque impiegato comunale e il suo sdegno moralistico

costituiscono quel minimo comun denominatore che assicura

l’efficacia artistica e il successo di pubblico del sodalizio

Brancati-Zampa ma segnano inevitabilmente i pesanti limiti di

comprensione storica della loro opera ce ne motiva, come

vedremo, la contrastata ricezione. Alcune delle scene più

riuscite del film nascono dalla rappresentazione dei “sabati

fascisti”, cioè delle mascherate sociali ai quali il regime

sottoponeva la popolazione: le pagliaccesche, periodiche

parate commemorative affollate da diciannovisti immaginari

(data la facilità di ottenere patenti di “fascista della

prima ora”…), con Spadaro capace di conferire a Piscitello

un’andatura chapliniamente caracollante (il riferimento è

forse alla celebre scena di Tempi moderni (1936) in cui Charlot

prende da terra un fazzoletto rosso e diventa

involontariamente il “duce” di un corteo) che esprime tutto

il disagio di un «popolo in stivaloni», i cori fascisti dove

tutti vanno fuori tempo, gli esercizi ginnici in cui gli

ostacoli si aggirano ma non si abbattono, con panciuti

apprendisti atleti che si lanciano a volo d’angelo tra le

braccia dei compagni, travolgendoli (sketch che dileggia la

grottesca ossessione di Mussolini per la forma fisica della

popolazione). Qui la carica satirica di Zampa e Brancati si

fa straordinariamente efficace24nel denunciare, tramite queste

grottesche manifestazioni, la totale estraneità e

impermeabilità della popolazione siciliana alla cultura del

regime, nonostante tutti i tentativi mussolininiani di

“fascistizzare” la Sicilia, di cui l’ “assalto al latifondo”,

a cui abbiamo accennato, fu l’ultimo e forse più esemplare

tentativo. Alla denuncia del tentativo fascista di

egemonizzare, schiacciandole, le culture locali, e in

particolare quella siciliana, è dedicato l’episodio

dell’esecuzione della Norma al teatro lirico. Qui l’ottusità

censoria del dirigente fascista che vuol cancellare con un

tratto di penna i versi antiromani di Bellini, artista «di

cento anni fa» che fa misteriosamente parte della nefanda

cricca degli «intellettuali italiani… sporchi antifascisti!»,

è satireggiata nella sua arrogante, occhiuta ignoranza senza

alcuna pietà e la polemica antifascista zampiana coglie

pienamente nel segno.

Passiamo adesso al tema che è al centro del film: l’eterno,

quasi connaturale, trasformismo isolano ed italico,

l’ipocrita cinismo voltagabbana di chi, senza ideali,

conserva il potere sotto tutte le bandiere e in tutti i

regimi. Cominciamo col dire che si tratta del punto

storicamente più incandescente nel rapporto del film col

proprio tempo, del suo, potenzialmente, maggior attrito con

esso; non era facile trattare un problema di così bruciante

attualità: «chi aveva combattuto nella Resistenza o aveva

sofferto contro il fascismo pretendeva, con qualche

giustificazione, che i membri del regime fascista non

sfuggissero a una qualche punizione. D’altro canto epurare

l’amministrazione dai fascisti iscritti significava più o

meno chiuderla, dal momento che la tessera del partito

fascista era stata obbligatoria per tutti i funzionari

statali. L’attività delle commissioni di epurazione riuscì ad

abbinare i lati peggiori di questo stato di cose: lasciò

liberi alcuni tra i maggiori responsabili del fascismo,

incriminando invece il personale dei livelli più bassi […]

L’epurazione si risolse in un fallimento completo. La

magistratura non ne fu minimamente toccata e quando fu il suo

turno di giudicare prosciolse quanti più imputati poté

dall’accusa di collaborare col passato regime. Anche altri

settori fondamentali del personale statale rimasero

inviolati. Nel 1960 si calcolò che 62 dei 64 prefetti in

servizio erano stati funzionari sotto il fascismo. Lo stesso

era vero per tutti i 135 questori e per i loro 139 vice […] I

dirigenti fascisti furono assolti con formulazioni

oltraggiose. Paolo Orano, capo di stato maggiore di Mussolini

durante la marcia su Roma, membro del Gran Consiglio e

sottosegretario agli Interni, fu liberato perché il Tribunale

fu incapace di stabilire un “nesso causale” tra il suo

comportamento e la distruzione della democrazia»25. Nel giugno

del 1946 Togliatti, ministro della giustizia, promulgò

un’amnistia che posava una pietra tombale sull’epurazione.

Questi i risultati: «Proposta per motivi umanitari,

l’amnistia sollevò una valanga di critiche. Grazie alle sue

norme sfuggirono alla giustizia anche i fascisti epuratori.

Venne stabilita una distinzione grottesca e disgraziata tra

torture “normali” e “sevizie particolarmente efferate. Con

questa formula i tribunali riuscirono ad assolvere crimini

quali lo stupro plurimo di una partigiana, la tortura di

alcuni partigiani appesi al soffitto e presi a calci e pugni

come un sacco da pugile, la somministrazione di scariche

elettriche sui genitali attraverso i fili di un telefono da

campo[…] Alla fin fine l’unica effettiva epurazione fu quella

condotta dai ministri democristiani contro i partigiani e gli

antifascisti che erano entrati nell’amministrazione statale

subito dopo l’insurrezione nazionale. Lentamente, ma con

determinazione, De Gasperi sostituì tutti i prefetti nominati

dal Clnai con funzionari di carriera di propria scelta. E nel

1947-48 il nuovo ministro democristiano degli Interni, Mario

Scelba, epurò con sveltezza la polizia dal consistente numero

di partigiani che vi erano entrati nell’aprile 1945»26. Zampa

e i suoi sceneggiatori trattano il problema con una certa

precisione: nella scena del contrasto tra il federale e il

podestà, per le due autorità fasciste sembrano prefigurarsi

destini differenti («– Vedrete, per la sola ragione che io

sono stato federale e voi podestà… – Piano… piano… La mia è

semplicemente una carica amministrativa, non è una carica

politica come la vostra! – Non fatevi illusioni podestà..

Onesti e disonesti, buoni o cattivi siamo legati tutti allo

stesso carro, e voi più degli altri… – Feduraluccio mio

voleve sapere una cosa? Pur di vedere voi sulla forca ci vado

volentieri anch’io…»), che poi in effetti si realizzano nella

intuibile epurazione del primo (non lo vediamo più apparire

sullo schermo) e nella nomina a sindaco del secondo. Ebbene,

tale diverso trattamento riservato ai podestà e ai federali è

un fenomeno storicamente fondato27. In Sicilia gli anglo-

americani manifestarono di voler dare un segno tangibile del

cambio di regime colpendo le istituzioni fasciste più

visibili e gli uomini politicamente più in vista, arrestando

i prefetti, i federali e i podestà delle grandi città; invece

i podestà dei piccoli centri vennero esclusi dall’epurazione,

ritenendosi che nelle piccole comunità non occorressero

mediazioni politiche tali da richiedere interventi repressivi

di eventuali proteste. Così circa il 50% dei podestà

mantennero il loro posto mentre tutti i prefetti e i federali

delle province siciliane furono epurati. Contribuiva a tale

fenomeno la convinzione condivisa, da inglesi e americani, di

trovarsi di fronte ad una cosiddetta società “semplice”, di

tipo tribale, nella quale contassero più i legami comunitari

che i valori politici. Gli americani ritenevano che prendere

in carico la maggior parte delle cariche amministrative, in

modo da agevolare un benefico contatto, soprattutto ai

livelli più bassi, tra la “selvaggia” popolazione locale e i

comportamenti del “mondo civile” potesse promuovere

l’educazione democratica dei siciliani e favorire le

operazioni di guerra; spingevano così per una epurazione

severa. Per gli inglesi, invece, soprattutto per opera di sir

Francis Rennell Ross, conoscitore dell’Italia e esperto di

questioni coloniali, la soluzione migliore doveva essere

simile a quella adottata nelle colonie britanniche

dell’Africa tropicale, alle quali fu applicato il cosiddetto

Indirect Rule: i capi nativi sarebbero stati investiti delle

responsabilità amministrative a livello locale in modo da

evitare il rischio di un rigetto a causa dell’immissione di

elementi istituzionali e strumenti burocratici ritenuti

eccessivamente moderni rispetto alla tribale società

siciliana. Infine, a un altro livello, «in Sicilia sarebbero

state le élites agrarie, radicate in una società supposta

integralmente rurale, depositarie di un potere tradizionale

che si poneva al di sopra delle congiunture politiche a

garantire il passaggio dal fascismo ad un’amministrazione non

fascista; e tramite questa classe dominante locale sarebbe

stato raggiunto l’obiettivo più ambizioso di stabilire un

collegamento con la Corona e la classe dominante su scala

nazionale»28. A determinare il prevalere dell’opzione inglese

furono diverse ragioni: la mancanza di alternative al vecchio

personale amministrativo a causa della scarsa istruzione, i

notevoli risparmi di risorse umane ed economiche che essa

avrebbe comportato rispetto all’opzione americana. Importante

fu anche la diffidenza che gli anglo-americani manifestavano

verso l’antifascismo “politico”, in particolare, ovviamente

quello di sinistra, mentre privilegiarono, soprattutto nei

piccoli centri, un ambiguo “antifascismo sociale”29.

Si diffondeva inoltre la convinzione, determinata dalla

festosa accoglienza popolare all’esercito alleato e dal fatto

che «i più noti cittadini e gli uomini d’affari si erano

dimostrati di notevole aiuto e dotati di senso civico nel

cercare di riportare le cose alla normalità», mentre colpiva

«la mancanza di risentimento [… per i bombardamenti e per i

danni ai civili»30, che «il fascismo non [fosse stato] mai

popolare in Sicilia, dove [era stato] visto come un sistema

imposto dai politici del Nord»31. Anche questo importante

aspetto è presente nel film, dove un ufficiale americano,

scherzando con il vecchio podestà e sindaco di fresca nomina,

si chiede stupefatto: «sono tutti antifascisti... tutti

contro la guerra... ma cos’era questo fascismo?».

Ecco, la rappresentazione dell’epurazione avrebbe potuto

costituire un’occasione per dare una risposta, seppure

parziale, a questa domanda. Ma per intendere e mostrare il

significato di una epurazione che permetteva alla vecchia

classe dominante di conservare il potere, sarebbe stato

necessario il riferimento alla questione agraria.

Nelle condizioni fissate dalle decisioni anglo-americane

riguardo al rapporto con i vecchi poteri locali, l’elemento

determinante nel permanere al potere dell’ antico

notabilitato fu l’irriducibile vischiosità di un sistema

sociale fondato sulla struttura agraria, che aveva il suo

cuore nella particolare declinazione siciliana del rapporto

di mezzadria e si era già cementato nell’epoca liberal-

giolittiana in una struttura clientelare che aveva resistito

tetragona, sostanzialmente intatta, anche al periodico

prevalere, nell’oscillante politica del fascismo nei suoi

confronti, della componente nazionalpopulista di

quest’ultimo. Il “blocco agrario”, che, grazie al fascismo,

aveva vinto la sua battaglia col capitale finanziario dei

Carnazza, Bosurgi e Sarauw, a cui il fascismo aveva

addomesticato il movimento contadino, che il fascismo aveva

liberato dal parassitismo della bassa mafia (ma solo per

proporsi di superare ogni mediazione nel dialogo con esso;

infatti il prefetto Mori «assolveva decisamente i possidenti

dalle accuse di favoreggiamento nei confronti dei mafiosi,

con riferimento ad un presunto stato di necessità»)32, che

aveva insomma mantenuto l’egemonia sociale, se non sempre

quella politica33, dopo un breve periodo di difficoltà dovuto

all’ “assalto al latifondo” veniva riportato a galla

tesaurizzando al meglio il suo capitale di controllo sociale

(che vuol dire anche consenso) come forza contrattuale nei

confronti degli anglo-americani e coagulando attorno a sé

anche una buona parte dei ceti medi cittadini34.

Ora, proprio quella classe di proprietari terrieri che

aveva sfruttato a suo vantaggio le circostanze della fine

della guerra e l’epurazione anglo-americana del 1943 e che,

una volta consolidata l’alleanza con la DC e abbandonata

l’ipotesi separatista, costituiva il fulcro e il cemento del

“nuovo” ordine economico e sociale siciliano, nel 1948 era

impegnata, sotto la nuova protezione politica e servendosi

della bocca di fuoco mafiosa e della repressione

istituzionale, in un conflitto senza pietà con il movimento

contadino, in cui fondamentale era il ruolo dei comunisti

(basti pensare a Accursio Miraglia, a Girolamo Li Causi).

Crediamo appaia evidente quale esplosivo potenziale di

denuncia sociale potesse avere, nel 1948, una

rappresentazione filmica dell’epurazione sul fascismo

siciliano che non scotomizzasse il problema agrario.

L’opzione ideologica di Zampa-Brancati e il contesto storico-

politico contemporaneo non permettono tuttavia che tutto

questo rientri nell’ordine del visibile del nostro film. Ecco

allora che la rappresentazione dell’epurazione viene posta

ancora una volta in termini moralistici, quasi di contegno

individuale, per cui ogni responsabilità politico-sociale e

di classe viene cancellata e la sincera indignazione degli

autori (e, conseguentemente, del pubblico), a ben vedere,

stinge in una forte tonalità qualunquistica. Se infatti il

comportamento del podestà-sindaco35 suscita ribrezzo, non meno

disdicevole appare l’atteggiamento, fin troppo facilmente

conciliatorio, del gruppetto di antifascisti della farmacia,

i quali accettano senza un’alzata di sopracciglio le

interessate e melliflue avances del podestà pronto ad

accreditarsi come simpatizzante antifascista presso la loro

cerchia, che egli intuisce diventerà parte della futura

classe dirigente. In particolare tra l’onorevole, che

addirittura gli porge la mano per primo, e il gerarchetto si

svolge il seguente significativo dialogo: Turi, Turi, fa

ridere un po’ anche noi, no? Col permesso dell’onorevole che

fa finta di non conoscermi e non risponde al mio saluto… –

Ma, veramente, Podestà…io non potevo pensare che il suo

saluto fosse rivolto a me… Io non sono che l’ultimo dei

cittadini di Modica, mentre lei è il primo… – Andiamo,

andiamo onorevole, adesso lei vuol confondermi…ma io sono qui

a porgerle i miei omaggi…Eh, la mano veramente….

I due, che dovrebbero essere divisi da una feroce rivalità,

si scappellano vicendevolmente, si scambiano complimenti

affettati, si riconoscono rispetto reciproco, uniti da una

oramai piena solidarietà di casta. É finalmente arrivata la

democrazia, non c’è più alcuna differenza tra fascista ed

antifascista, liberale, popolare, comunista36, tutti fanno

parte di una stessa razza amorale, irresponsabile ed ipocrita

contro cui viene diretto (indiscriminatamente) lo sdegno

dello spettatore: quella dei politici. Zampa lo sottolinea con

efficaci accorgimenti linguistici: se fino all’invasione

anglo-americana il podestà e il gruppetto degli antifascisti

sono sempre collocati in spazi diversi, e l’unica volta in

cui si incontrano (al matrimonio di Giovanni) appaiono

ripresi all’interno di un campo-controcampo chiaramente

oppositivo, a partire dalla scena della “riconciliazione”

essi spesso si incontrano negli medesimi luoghi e sempre

dentro la stessa inquadratura.

L’umanità che emerge da questa rappresentazione

dell’epurazione non si divide secondo appartenenze di classe,

né tanto meno si distingue per scelte politiche. Il grande

spartiacque si organizza, invece, lungo le due grandi

categorie metastoriche che sarebbero diventate costanti

strutturali della progenie di commedie sul fascismo (ma anche

di tanto cinema farsesco e della grande parte della commedia

all’italiana, che infatti ha grossi debiti nei confronti di

Anni difficili): i “fessi” e i “furbi” 37 (qui quasi tutti

genericamente “politici”, ovviamente, in una ripresa della

pessimistica, se non appunto qualunquistica, sfiducia nei

confronti delle istituzioni parlamentari espressa dal regista

già in L’onorevole Angelina): quelli che perseguono senza scrupoli

i propri interessi e che quindi dominano tramite l’ipocrisia

e l’arroganza, e gli altri sempre vittime innocenti,

portatori positivi di un onesto ma ingenuo buon senso

destinato perennemente ad essere calpestato. Insomma, la

nuova democrazia, rappresentata dall’alleanza di nuovo conio

antifascisti-podestà, opprime l’uomo qualunque quanto e più

(visto che Piscitello viene licenziato) del fascismo.

In tale prospettiva è persino ovvio che la Storia opprima

Piscitello come un susseguirsi incomprensibile di eventi

dapprima lontani, letteralmente invisibili (la scena in cui nella

pagina di giornale in cui si annuncia la morte di Hindeburg e

la definitiva presa del potere di Hitler Piscitello legge

soltanto la notizia della morte di un Percolla), che poi, con

la guerra, si abbattono improvvisamente sulla sua vita ma

sempre conservando la loro dolorosa inesplicabità, come un

movimento fatale sul quale egli non può nulla, dai cui

meccanismi egli è totalmente slegato e inconsapevole. Zampa

lo esprime anche linguisticamente, dando alle immagini della

Storia uno statuto irriducibilmente diverso (i cinegiornali

del LUCE, i documentari che vengono innestati come corpi

estranei nel fluire del film, sospendendolo e trasferendo lo

spettatore quasi in un’altra dimensione) da quelle che

raccontano l’esistenza di Piscitello. D’altra parte anche

questa Storia vista con gli occhi di un impiegato comunale di

una provincia siciliana burocratica e farmaceutica è vera,

perché, come scrive Calvino, «molta Italia, sarebbe bugia il

negarlo, era sotto il fascismo sganciata dalle ragioni vive

della storia, e non solo nel Sud»38; ma è proprio la scelta di

rappresentare esclusivamente questa Italia che non rende

possibile cogliere quella Storia come un dramma collettivo,

come campo di tensioni sociali in cui gli uomini e le donne

di tutti i giorni sono immersi e i cui equilibri

contribuiscono a determinare non meno di quanto da essi siano

condizionati.

È interessante notare, tuttavia, che il film propone dei

punti di resistenza a questa visione dell’individuo costretto

a subire passivamente la Storia. D’altronde, una concezione

del film come “prodotto culturale”, secondo la definizione di

Sorlin, permette di assumere tali contraddizioni come

conseguenze inevitabili della dimensione collettiva della

concezione e fabbricazione del film, soprattutto nel caso di

un’opera realizzata da un’équipe così eterogenea: alla

sceneggiatura contribuirono infatti personaggi come Sergio

Amidei da un lato e Franco Evangelisti dall’altro. Così,

subito dopo la morte del figlio, Piscitello, fuori di sé,

raggiunge gli antifascisti della farmacia ed esplode nel

famoso discorso del «siamo tutti dei vigliacchi», la cui

importanza Brancati sottolinea così: «Il sugo del film è

nella tirata finale del protagonista, quando egli grida che

contro la dittatura non bisogna contentarsi di mormorare a

bassa voce, ma rischiare il carcere e perfino la morte, se

non si vuole che, in vece nostra, muoiano i nostri figli in

una delle tante guerre disastrose che la dittatura suole

provocare»39. Inoltre il film rappresenta una forma di

progressiva assunzione di responsabilità da parte di

Piscitello: se all’inizio del film, come abbiamo visto, la

Storia gli si nasconde dietro il necrologio di un amico, in

seguito, insofferente dell’antifascismo da retrobottega del

solito gruppetto, egli si chiede se non sia loro dovere dire

in piazza quel che sussurrano chiusi in una farmacia; e

subito dopo lo sbarco americano, avendo scoperto che il

giovane italo-americano collabora con gli alleati, rischia la

vita non denunciandolo. Non è inverosimile supporre che in

questi passi del film si faccia sentire la mano di un

personaggio come Amidei, esponente di quella nuova

generazione di antifascisti che, come scrive Calvino, «non

vuole chiudersi in farmacia»40 e a cui si deve probabilmente

anche l’acre, e forse eccessivamente severa, satira di un

antifascismo provinciale e isolato che nel film non sa

esprimersi se non per barzellette. Ma si tratta di episodi

isolati che non incidono sulla prospettiva ideologica

complessiva del film e che infatti vengono, a ben guardare,

subito “neutralizzati”; la riappropriazione della parola

“pubblica41 da parte di Piscitello che sembra segnare, al

tempo stesso, la sua presa di coscienza e l’inizio di un

nuovo rapporto con la Storia si dissolve nel suo mutismo di

fronte al podestà usurpatore del ruolo di sindaco con la sua

falsa patente di antifascista. Nella stessa direzione va la

non ricomparsa, dopo la liberazione della Sicilia, del

farmacista che, unico, aveva avuto il coraggio di portare la sue

parole in piazza, secondo l’invito di Piscitello, cantando la

Marsigliese durante l’annuncio dell’entrata in guerra, e per

questo era stato mandato al confino. Nel racconto di Brancati

è lui a diventare sindaco. Nel film di Zampa invece,

significativamente, precipita nel non-visibile e non sappiamo più

niente di lui, segno del finale e definitivo prevalere di una

sterile ideologia qualunquistica. Dopo quell’esperienza il

farmacista avrebbe accettato così facilmente il posticcio

antifascismo del podestà? Loro sarebbero stati ancora tutti

uguali?

In questa prospettiva che impedisce di vedere le profonde

ragioni che muovono la storia e in cui le identità politiche

si confondono indistinguibilmente in un cinismo

opportunistico generalizzato, il «siamo tutti dei vigliacchi»

di Piscitello cambia di segno e se, soggettivamente, conferma

una presa di coscienza individuale delle proprie

responsabilità di fronte alla storia, si rovescia

oggettivamente in un facile conciliatorismo autoassolutorio

che fa della storia stessa una notte in cui tutte le vacche

sono nere. Insomma, crediamo sia possibile dire, seguendo

un’analisi analoga che Foucault effettuò su quella

particolare produzione cinematografica detta «rétro»42, che

dietro la frase di Piscitello si nasconda un’altra frase che

costituisce, a nostro avviso, l’autentico “messaggio” del

film: «non ci sono stati colpevoli, non ci sono stati eroi».

Frase che, pronunciata nel 1948, acquisiva un ulteriore

significato: «non ci sono state lotte allora, non ci sono,

non ci possono essere lotte vittoriose oggi».

Non stupisce quindi la magnanimità di Andreotti verso un

film di cui il sagace uomo politico intuisce l’inoffensività,

benevolmente accettandolo come un’opportuna valvola di sfogo

degli umori e malumori popolari capace inoltre di agire sulla

memoria collettiva in una direzione augurabile per il potere

democristiano, svelando al pubblico non ciò che è stato ma

ciò che deve ricordare di essere stato; nè sorprende che la

“verità” del film sia esaltata da “Il Popolo” con parole

eloquenti: «Sono parecchi quelli che hanno sulla coscienza

questo coraggio, di aver detta tutta la “nostra” verità,

perché la verità di Piscitello, travet del comune di Modica,

è la verità di altri milioni di italiani[…] Una pellicola che

dica questa nostra tragedia – e tragedia è perché siamo come

siamo e che il Signore ci aiuti – è una pellicola che fa

onore a chi l’ha fatta e a chi l’ha pensata. Non c’è da

vergognarsi a dire la verità e non c’è da nasconderselo che

quelli sono stati “anni difficili”…»43.

Ma anche quelli del dopoguerra sono anni difficili; e alla

domanda che Calvino pone ai tanti Piscitello (siciliani e

non) seduti in sala: «È ancor oggi nello stesso comune, sotto

all’antico podestà-barone, ora sindaco democristiano, con

l’Azione Cattolica che gli porta a Roma i figli col basco

verde, e la moglie che brontola perché i colleghi iscritti

alle Acli portano a casa i pacchi americani e lui no, e la

radio e i giornali che parlano del Patto Atlantico. Però c’è

qualcosa di nuovo: in piazza, a un balcone, c’è l’insegna

rossa della sezione comunista, e dentro tanta povera gente

come lui che però ha idee più chiare di lui sul sindaco-

barone, sui baschi verdi, sui pacchi americani e i patti

atlantici. Piscitello che ha l’esperienza dell’altra volta,

cosa farà, Piscitello?»44, il film dà già una risposta:

siederà a fianco dell’americano, che ha indossato la divisa

da fascista, e tacerà.

Note

1 L’intero intervento parlamentare di Andreotti è rintracciabile,insieme ad una parte dell’interrogazione dei senatori in S. Gesù (acura di), Vitaliano Brancati, Associazione Turistica Pro Loco Acicatena,1989, Catania, pp. 50-54.2 La celebre lettera a De Sica su Umberto D. è del 1952.3 Il primo originale contributo italiano al problema del film nellasua dimensione di documento storico, il libro di A. Mura, Film, storia estoriografia, Edizioni della Quercia, Roma, 1967, è tutto strutturatoancora dal vecchio pregiudizio positivistico secondo cui documentario efilm di fiction avrebbero due diversi “statuti ontologici” e per ilquale nel cinema bisognerebbe cercare quella che si potrebbe definire,secondo la celebre espressione di Wilson, «la storia scritta dalfulmine» (cfr. P. Ortoleva, Scene dal passato, Loerscher, Torino, 1991,p.2), cioè i frammenti di realtà impressi nella pellicola ripulitidalla “manipolazione” degli autori. 4 R. CANUDO, L’usine aux images, Ed. Seguier, Marseille, 1995 ( trad.it,L’officina delle immagini, Bianco e Nero, Roma, 1966). 5 Y. BIRO, Il film storico e i suoi aspetti moderni, in G.M. Gori (a cura di), Lastoria al cinema, Bulzoni, Roma, 1994, p. 22. 6 G. FINK, Essere o essere stati:il film italiano, il tempo, la storia, ivi, p. 30. 7 Cfr. G. BRUNETTA, Il cinema, in G-M. Gori (a cura di), op. cit., pp.177-178.8 P. SORLIN, Sociologie du cinéma, Aubier Montagne, Paris, 1977 (trad. it.Sociologia del cinema, Garzanti, Milano, 1979, pp. 68-70).9 P. SORLIN, op. cit., p 221.10 Ivi, p. 222.

11 Si tratta dei tipici grossi paesi siciliani in cui si mescolanobraccianti, popolani, proprietari, borghesi e che erano già temutiall’inizio del secolo, secondo le parole di Lorenzoni che ricordava la“grande paura” dei Fasci siciliani (Inchiesta parlamentare sulle condizioni deicontadini nelle province meridionali e nella Sicilia, vol. VI: Sicilia, Roma 1910, tomoII, p. 45, citato in S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo in M. Aymard, G.Giarrizzo (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi: Sicilia, Einaudi,Torino, pp. 471-472), come luoghi di raccolta di «siffatteagglomerazioni di uomini, appartenenti in massima parte ad una solaclasse» che «è agevole intendere quale pericolo possano costituire inmomenti torbidi, quando il malcontento o il disagio aizzino come unaface i cuori rassegnati bensì per forza, ma pronti a divampare se unmiraggio baleni loro dinnanzi». E ancora: «del paese si temeva lapromiscuità sociale che esponeva questi “atipici” contadini meridionaliall’influenza corruttrice della borghesia; non solo morale ma ancorapolitica, come dimostrava la storia dei “socialismi”, delle“democrazie” più o meno sociali, dei mille clientelismi localistici cheil nazionalpopulismo antiparlamentare aveva inteso distruggere» (S.LUPO, op. cit., p. 472). Contro questa specificità siciliana l’ultimofascismo scagliò l’ “assalto al latifondo”, inteso a riorganizzarel’agricoltura siciliana secondo un modello colonico che appunto celava,dietro l’ideologia ruralistico-patriarcale (collocando le abitazionidei contadini nel terreno da loro coltivato si sarebbe risposto,secondo tale ideologia, alla dispersione familiare indotta dalla vitapaesana o cittadina, restaurando così l’autorità patriarcale, e legandoi contadini alla terra e ai suoi presunti “valori”, operosità ,mansuetudine, religiosità, rispetto delle gerarchie, ecc) , ben preciseragioni socio-politiche.12 S. LUPO, op. cit., p. 383.13 Cfr. G. CASARRUBEA, Storia segreta della Sicilia, Bompiani, Milano, 2005.14 Naturalmente ci sono le eccezioni: La terra trema (1947) di Visconti,Caccia tragica (1946) e Riso amaro (1948) di De Santis, ma sono film chenascono in un contesto molto diverso e con modalità particolari diproduzione per il primo, e un’ambientazione settentrionale per glialtri due. D’altra parte bisogna anche ricordare che il disinteresseverso il mondo contadino e le sue problematiche ha anche ragioniprecipuamente culturali. In un’intervista Olmi attesta: «Nondimentichiamo che la storia di questo secolo non è fatta soltanto delmondo operaio, c’è un mondo contadino che malauguratamente è statosottovalutato e persino ridicolizzato, soprattutto da degliintellettuali, tanto che il contadino è diventato un soggetto dabarzellette. Ci si è messa sotto i piedi la cultura contadina». Interviewà Ermanno Olmi, in “Positif”, settembre 1974. Lo storico Philippe Joutardaggiunge: «I documenti sul mondo operaio si ritrovano molto facilmenteda qualche anno; ma se ne trovano molto pochi sul mondo contadino, comese quest’ultima categoria fosse stata colpita da un duplice ostracismo,da destra e da sinistra».

15 Per capire l’atteggiamento dei produttori è sufficiente leggere lerisposte di alcuni di loro ad un’inchiesta promossa dalla rivista“Cinespettacolo” (agosto 1948): «Alla domanda: – Dopo i cicliromantici, gialli, avventurosi, l’attuale ciclo tende esclusivamente alrealismo? […] Dino de Laurentis: “L’attuale ciclo tende al realismo, maad un realismo crudo contenuto più nella scenografia che nelsignificato del film. Secondo il mio gusto, invece, il realismo deveessere un altro, aderente non all’esteriorità, ma al contenutointrinseco della vita, come nel mio ultimo film – (Molti sogni per lestrade) e con un fondo di bontà: Giulio Vanenti: “No! Escludo ilrealismo, perché esso è falsificato e perché il realismocinematografico italiano degrada il nostro popolo»; citato in G.FERRARA, Il nuovo cinema italiano, Le Monnier, Firenze, 1957, p.180.16 Per un resoconto più esauriente dei dati cfr. V. SPINAZZOLA, Cinema epubblico, Bompiani, Milano, 1974, p.11.17 Ivi, p. 9.18 Ivi, p. 12.19 Cfr. ivi, pp. 7-17.20 Ivi, pp. 20-21.21 V. BRANCATI, Tutti i racconti,a cura di D. Perrone, Bompiani, Milano, 1994,p. 399.22 Dunque appartenente ad una classe sociale, la piccola borghesiaburocratica, che non fu certo tra quelle che più patirono il regime.23 Ivi, p.400.24 Anche se non è un caso che proprio queste scene, in cui sidemoliscono aspetti del fascismo che, per quanto fortemente incidentinella vita quotidiana della popolazione, sono indubitabilmentesecondari, siano diventate un topos immancabile nelle commedie sulfascismo degli anni ‘50 e successivi. Di queste commedie che,significativamente, da Tutti a casa di Comencini (1960. Si tratta in questocaso però di un esempio straordinariamente riuscito di un’affilatacritica del fascismo che si affida agli strumenti del “comico”sfruttandoli nella maniera più efficace) a La marcia su Roma (1962) diDino Risi o Il federale (1961) di Salce depotenziano progressivamente lacarica satirica fino ad estenuarla in farsa più o meno volgare e a cui,altrettanto significativamente, Anni difficili dà la struttura di base (laprogressiva presa di coscienza del/i protagonista/i con finale più omeno tragico o edificante), il film di Zampa può essere legittimamenteconsiderato il capostipite.25 P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino, 1989, p.121.26 Ibidem.27 È interessante notare che il federale del film non è siciliano(durante la rappresentazione della Norma egli risponde al dirigentenazionale fascista, che gli chiede notizie sulla trama dell’opera, dinon saperne nulla perché non del luogo). Ciò da un lato sembrarimandare alla presunta “estraneità” del potere politico fascistarispetto alla Sicilia, dall’altro alla nota diffidenza di Mussolini

verso le classi politiche isolane e al tentativo di metterle sotto ilcontrollo del centro, anche mediante personale non isolano (vedi ilcaso di Franz Turchi, federale a Messina e a Ragusa. Per leimplicazioni più generali vedi nota n. 32). Dando un’origine nonisolana al federale Zampa sembra forse manifestare un cedimento alpregiudizio di una presunta maggiore inclinazione meridionale al viziotrasformistico: nella scena di cui sopra, infatti, il federale chesembra accettare, rassegnato, di dover subire le conseguenze delle sueresponsabilità politiche, appare una figura più dignitosa rispetto alpodestà che manifesta tutta la sicumera arrogante di chi sa già che,pur condividendo quelle stesse responsabilità, alle conseguenze di essesi sottrarrà. 28 R. MANGIAMELI, La regione in guerra (1943-1950), in M. AYMARD E G. GIARRIZZO,op. cit., p. 489.29 Intendo con questa espressione gli esponenti dei gruppi di potere odi classi sociali che, a diverso titolo avevano avuto motivo di attritocol fascismo. In questa composita categoria, per l’incomprensionealleata della struttura sociale siciliana, rientrarono anche personaggicome Calogero Vizzini, Infatti nominato sindaco di Villalba.30 Prem 3/288-a9, Rennell’s Report, 2 e 8 agosto 1943, citato da R.MANGIAMELI, op. cit., p. 491, fonte dalla quale traggo le informazionistoriche di cui sopra.31 Prem 3/288-8, RENNELL, Notes for Use by the Secretary of State in the Debite onAmgot, settembre 1943, citato in R. MANGIAMELI, op. cit., p. 494.32 S. LUPO, op. cit., p. 403.33 Paradossalmente, questo non fu un grave danno, anzi. Ad esempio,l’attacco portato dal fascismo, in nome della lotta ai gruppi di poterelocali, ai vecchi mediatori politici, tradizionali referenti degliinteressi dei potentati autoctoni, che erano riusciti ad omologarsi alnuovo potere fascista, attacco condotto tramite l’abolizione deimeccanismi elettivi nelle federazioni e il conseguente spostamento deimeccanismi di selezione politica a livello centrale-nazionale (ifederali, come abbiamo accennato, diventano una diretta emanazione delcentro e a volte non sono neanche siciliani), comportano un’accentuazione della dimensione informale del potere, cioè unrafforzarsi delle élites sociali, rappresentate quasi ovunque dallapossidenza agraria. Nella stessa direzione si orientarono leconseguenze dell’offensiva condotta, nel tentativo ancora una volta ditroncare i legami tra le varie sezioni del potere clientelare, controcooperative, casse rurali, circoli di conversazione, ecc. Il sistemaclientelare si rigenerava immediatamente tramite la nascita di nuoveassociazioni sotto un’egida fascista del tutto esteriore (Dopolavorofascista, ad esempio); e mentre si svuotano le Case del Fascio e siriempiono i caffè, diventati i nuovi luoghi dell’aggregazioneeconomico-politica, esso perde sempre più ogni connotazione politico-ideologica acquisendo un carattere personalistico-sociale sempre piùspiccato.

34 A proposito del grave problema degli ammassi e del loro controllo,elemento decisivo per assicurare di che sfamare i ceti cittadini, S.Lupo scrive: «La scelta perseguita è ancora quella di neutralizzare gliaspetti politici e puntare sulle élites sociali, sui grandiproprietari[…] È una consapevole scelta classista, dunque, che scontala rappresentazione dicotomica (cappeddi e birritti) della societàarretrata, sottovalutando l’incidenza di aspetti più complessi dellagestione della politica agraria. Ritornati alla direzione delleistituzioni agrarie i proprietari non si dimostrano docili esecutori dipolitiche liquidatorie, tendono piuttosto al mantenimento delle vecchiestrutture, si oppongono al licenziamento di personale[…] È unaquestione di posti di lavoro che inceppa il processo di epurazione eche suscita il consenso dei ceti medi urbani attorno al riacquistatoruolo dirigente dei grandi agrari […] La riconquista delle istituzioniagrarie e la sapiente gestione delle scarse risorse disponibiliconsentono di far politica uscendo dagli angusti limiti imposti dalgoverno militare» (op. cit., p. 511). Gli agrari così riprendono a tessererelazioni su larga scala, influenzano le nomine politiche, siassicurano un complesso reticolo di solidarietà.35 Si veda soprattutto la scena magistrale del licenziamento diPiscitello, in cui l’ex podestà mette in bocca all’ammutolito epuratoparole che prese alla lettera sono vere, ma pronunciate da questomostro di ipocrisia acquisiscono un senso completamente diverso. Egli èl’incarnazione stessa della doppiezza: anche quando non mente dicesempre una bugia.36 Gli schieramenti politici degli “antifascisti della farmacia” sicomprendono, grosso modo, dal battibecco che nasce tra loro quandoPiscitello chiede consiglio su cosa fare a seguito dell’ordine delpodestà di iscriversi al partito fascista pena la perdita del posto.L’avvocato che allude alla mancata unione delle forze popolari èverosimilmente un socialista o un comunista. Il notabile che glirisponde scaricando le responsabilità della mancata unione sugliattacchi alla chiesa sembra rappresentare un esponente del PartitoPopolare. L’onorevole invece appare un moderato, tenta di mediare, maparla di “dialettica della storia”. Si potrebbe avanzare l’ipotesi diun’appartenenza demosocialista? 37 Cfr. V. SPINAZZOLA, op. cit., p. 205.38 I. CALVINO, Anni difficili, in Millimetri, n. 6-7, settembre 2004.39 Citato da S. GESÙ, op. cit., p. 49.40 I. CALVINO, op.cit..41 Il film sembra manifestare un modo di usare il linguaggio che rivelaun risvolto immediatamente politico: le barzellette sul Duce sussurratenel retrobottega esprimono l’inconcludenza di un antifascismo che sirinchiude in una farmacia, le parole tonitruanti di Mussolini, cheoccupano la piazza, e quelle del dirigente nazionale fascistarimbombanti nel vuoto del teatro, metaforizzano l’egemonia fascistasullo spazio pubblico. I versi della Marsigliese che dalla piazzavengono scacciate e quelle della Norma che vengono censurate traducono

l’elisione della libertà, le tracce dannunziane nel linguaggio dellafiglia di Piscitello anticipano e preparano la fanatizzazione dellaragazza… 42 Cfr. Anti-rétro, conversazione con Michel Foucault, in La storia al cinema, op. cit.,p. 191. 43 Citato da Vitaliano Brancati, a cura di S. GESÙ, op.cit., p. 118. 44 I. CALVINO, op. cit..