marcello cecchetti- diritto dell'ambiente

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LA DISCIPLINA GIURIDICA DELLA TUTELA AMBIENTALE COME “DIRITTO DELL’AMBIENTE” di MARCELLO CECCHETTI Università LUISS Guido Carli Facoltà di giurisprudenza Corso di diritto dell’ambiente

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LA DISCIPLINA GIURIDICA DELLA TUTELA AMBIENTALE COME “DIRITTO DELL’AMBIENTE”

di

MARCELLO CECCHETTI

Università LUISS Guido Carli Facoltà di giurisprudenza

Corso di diritto dell’ambiente

II

INDICE SOMMARIO

Introduzione: “Diritto dell’ambiente” o “legislazione ambientale”? …..... 1

CAPITOLO 1

ORIGINI E FONTI DELLA TUTELA GIURIDICA DELL’AMBIENTE 1.1. La mancanza di un “sistema” delle fonti per la tutela dell’ambiente ... 3 1.2. I diversi livelli di normazione: il livello internazionale ……………... 3 1.3. Segue: il livello comunitario e il rapporto tra fonti europee

e fonti interne ……………………………………………………….. 6 1.4. Segue: il livello statale e il rapporto tra fonti legislative

e fonti sub-legislative ……………………………………………….. 12 1.5. Segue: il livello regionale e locale. I rapporti tra fonti statali,

fonti regionali e fonti locali dopo la riforma costituzionale del Titolo V (rinvio) ……………………………………………….... 15

1.6. La normazione tecnica …………………………………………….... 17 1.7. Le ordinanze di necessità e urgenza ……………………………….... 19

CAPITOLO 2

L’AMBIENTE COME OGGETTO DI TUTELA GIURIDICA: IL PROBLEMA DELLE NOZIONI E DELLE QUALIFICAZIONI NORMATIVE

2.1. Il problema della definizione giuridica di «ambiente»

e il rapporto con le nozioni contigue ………………………………... 22 2.1.1. La nozione di «paesaggio» …………………………………… 22 2.1.2. Le nozioni di «ambiente» e di «ecosistema» .......…………….. 28 2.1.3. Le nozioni di «beni ambientali» e di «beni paesaggistici» …… 33 2.1.4. La nozione di «bene culturale» e il peculiare problema

dei confini con le altre nozioni ……………………………….. 37 2.2. La qualificazione giuridica della tutela dell’ambiente: gli erronei

tentativi di configurare il “diritto all’ambiente” e l’ambiente come “bene giuridico” ………………………………………………. 44

2.3. La qualificazione della tutela dell’ambiente in termini di “valore costituzionale” ……………………………………………. 45

2.4. Caratteri e implicazioni giuridiche del “valore costituzionale” ……... 47 2.5. La “tutela dell’ambiente” come «materia» nel nuovo art. 117

Cost. e nei trattati comunitari ………………………………………... 50

III

CAPITOLO 3

I PRINCIPÎ COSTITUZIONALI PER LA TUTELA DELL’AMBIENTE 3.1. Ruolo, significato, fondamento giuridico e classificazione …………. 53 3.2. I principî che identificano i caratteri fondamentali

dell’ambiente come oggetto di tutela giuridica ……………………… 56 3.2.1. Il principio dell’antropocentrismo ……………………………. 56 3.2.2. Il principio di unitarietà dell’ambiente ……………………….. 58 3.2.3. Il principio di primarietà dell’ambiente e il rapporto di

necessaria “integrazione” tra tutela ambientale e interessi pubblici diversi ……………………………………………….. 62 3.2.3.1. Un esempio emblematico: il rapporto con le

funzioni pubbliche di «governo del territorio» ……… 68 3.2.4. Il principio di economicità dell’ambiente e il principio

«chi inquina paga» …………………………………………..... 74 3.2.4.1. Gli strumenti di regolamentazione diretta …………... 78 3.2.4.2. Gli strumenti economici ............................................... 79 3.2.4.3. Le tecniche riparatorie fondate sulla responsabilità

civile: sintesi della disciplina del danno ambientale..................................................................... 87

3.2.4.4. Cenni sull’evoluzione del significato del principio «chi inquina paga» ...................................................... 92

3.3. I principî sull’azione di tutela dell’ambiente ....................................... 95 3.3.1. Il principio dell’azione preventiva ............................................. 95 3.3.2. Il principio di precauzione ......................................................... 98

3.3.2.1. Principali implicazioni dell’approccio precauzionale .. 102 3.3.2.2. Un “modello” possibile di procedimento per la

normazione precauzionale .......................................... 105 3.3.2.3. La scelta della fonte più idonea alla

normazione precauzionale; il “nuovo” ruolo della fonte legislativa ........................................................... 110

3.3.3. Il principio del bilanciamento: gradualità e dinamicità dell’azione di tutela .................................................................... 112

3.3.4. Il principio dell’informazione ambientale ................................. 117 3.4. I principî sul ruolo dei soggetti nella tutela dell’ambiente .................. 123

3.4.1. Il principio di corresponsabilità e il principio di cooperazione . 123 3.4.2. Il principio di sussidiarietà: l’azione unitaria del livello

territoriale superiore e la tutela più rigorosa del livello territoriale inferiore ................................................................... 126 3.4.2.1. L’ordinamento comunitario .......................................... 126 3.4.2.2. L’ordinamento interno .................................................. 132

IV

CAPITOLO 4

LA RIPARTIZIONE DELLE FUNZIONI NORMATIVE E AMMINISTRATIVE TRA GLI ENTI DELLA REPUBBLICA

4.1. Il “modello” astratto disegnato nel nuovo Titolo V della

Parte II della Costituzione ................................................................... 142 4.2. I problemi interpretativi connessi alla riserva allo Stato della

legislazione esclusiva in materia di «tutela dell’ambiente-paesaggio, dell’ecosistema e dei beni ambientali» ...... 145

4.3. La delimitazione della potestà normativa statale in materia di «tutela dell’ambiente-paesaggio» e di «tutela dei beni paesaggistici»: il piano teorico-concettuale ........................................ 147

4.4. Segue: il piano della prassi ordinamentale .......................................... 151 4.4.1. La giurisprudenza costituzionale sull’art. 117, secondo

comma, lett. s), Cost. in tema di «tutela dell’ambiente-paesaggio» ......................................................... 152

4.4.2. Caratteri e implicazioni del modello di riparto delle competenze normative sulla tutela paesistico-ambientale ricostruito dalla giurisprudenza costituzionale .......................... 155

4.4.3. L’approccio del legislatore ordinario: il significativo esempio delle competenze normative in tema di tutela paesaggistica nel Codice dei beni culturali e del paesaggio ...... 159

4.5. La potestà normativa nelle materie di legislazione concorrente del «governo del territorio» e della «valorizzazione dei beni culturali e ambientali» ........................................................................ 164

4.6. La potestà amministrativa ................................................................... 172 4.7. La potestà regolamentare per la disciplina dell’organizzazione

e dello svolgimento delle funzioni amministrative ............................. 175

CAPITOLO 5

PROSPETTIVE DI RIFORMA PER UNA CORRETTA “POSITIVIZZAZIONE” DEI FONDAMENTI COSTITUZIONALI DEL

“DIRITTO DELL’AMBIENTE” 5.1. I tentativi di revisione costituzionale della XIV legislatura e la

prospettiva di una “normazione costituzionale” sulla tutela dell’ambiente ....................................................................................... 180

5.2. La duplice possibile finalità degli interventi di normazione

V

costituzionale: “bilancio” o “programma”? ......................................... 182 5.3. Le “acquisizioni costituzionali” pacificamente consolidate

del diritto dell’ambiente ....................................................................... 184 5.4. I nodi da sciogliere e le lacune da colmare .......................................... 185 5.5. Una revisione costituzionale auspicabile ............................................. 186 5.6. L’opportunità di una legge costituzionale sulla tutela dell’ambiente .. 189 5.7. Le altre ipotesi di intervento con fonte super-legislativa ..................... 190

1

INTRODUZIONE

“DIRITTO DELL’AMBIENTE” O “LEGISLAZIONE AMBIENTALE”?

L’obiettivo di fondo che un corso di “diritto dell’ambiente”

non può eludere è quello di provare a fornire gli elementi di base e gli eventuali percorsi di approfondimento per dare una risposta alla seguente domanda: esiste – particolarmente nell’ordinamento italiano – un “diritto dell’ambiente” o, quanto meno, sussistono i presupposti e le condizioni per poter configurare un “diritto dell’ambiente”? Oppure, al contrario, si deve ritenere che la disciplina giuridica che ormai da qualche decennio va indirizzandosi al perseguimento di obiettivi di salvaguardia degli equilibri ecosistemici, di protezione, conservazione e razionale utilizzo dei fattori e delle risorse naturali, di miglioramento della qualità della vita e delle condizioni di salute dell’uomo e degli altri esseri viventi, non possa essere qualificata altro che come una più o meno coerente ed organica “legislazione ambientale”?

Posta in questi termini, l’alternativa può apparire più secca e radicale di quanto in effetti non risulti nella realtà e, forse, rischia di semplificare eccessivamente i nodi del problema.

Con la prima prospettiva, quella del “diritto dell’ambiente”, si fa riferimento all’ipotesi secondo la quale la tutela dell’ambiente si conformi – o si vada progressivamente conformando – attraverso un peculiare regime giuridico fatto di istituti, procedimenti e atti che risultano, almeno in parte, specifici e speciali rispetto a quelli conosciuti nelle altre branche del diritto.

Nella seconda prospettiva, invece, ci si limita a prendere atto che la tutela giuridica dell’ambiente finisce per risolversi semplicemente in una pluralità di “legislazioni” o – più propriamente – di “produzioni normative” dedicate a singoli fenomeni o ad aspetti comunque parcellizzati dell’ambiente e dei fattori che lo compongono, senza che tali normative presentino peculiarità di sorta rispetto agli istituti comunemente utilizzati nelle altre branche del diritto, se non sotto il profilo squisitamente relativo ai contenuti sostanziali della disciplina.

Va segnalato, peraltro, che può anche essere ipotizzata una prospettiva mediana, secondo la quale – come è stato osservato

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utilizzando una espressione assai felice – si dovrebbe ragionare più propriamente, almeno allo stato attuale, di un “diritto per l’ambiente”1, volendosi esprimere con tale formula l’intrinseca “trasversalità” della tutela giuridica dell’ambiente rispetto a tutti i settori tradizionali del diritto (internazionale, comunitario, costituzionale, amministrativo, tributario, civile, penale, etc.), trasversalità che impone una specifica conformazione e, in molti casi, una vera e propria torsione degli istituti e degli strumenti propri di tali discipline.

Le tre prospettive appena richiamate costituiscono lo scenario “teorico-dogmatico” in cui inevitabilmente si colloca un corso intitolato “diritto dell’ambiente”.

Le pagine che seguono intendono fornire gli strumenti di base ed i percorsi di riflessione non per giungere a risposte certe e definitive ma, quanto meno, per provare ad individuare una dinamica ordinamentale in corso.

Agli studenti e a tutti coloro che avranno la pazienza di seguire le linee di ragionamento che qui si propongono, l’onere e la responsabilità di formarsi un proprio autonomo giudizio.

1 Cfr. S. GRASSI, Introduzione, in S. GRASSI, M. CECCHETTI, A. ANDRONIO (a cura di), Ambiente e diritto, 2 voll., Firenze, Olschki, 1999.

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CAPITOLO 1

ORIGINI E FONTI DELLA TUTELA GIURIDICA DELL’AMBIENTE

1.1. La mancanza di un “sistema” delle fonti per la tutela dell’ambiente

Nella disciplina giuridica della tutela ambientale non esiste,

almeno fino ad oggi, un “sistema” proprio delle fonti del diritto costruito sulla individuazione di particolari atti o di particolari procedimenti per la produzione normativa in questa materia. È dunque inevitabile prendere atto della necessità di ricondurre la disciplina giuridica rivolta alla tutela dell’ambiente a tutte le diverse tipologie di atti di produzione normativa riconosciute generalmente nell’ambito dell’ordinamento, tenendo conto, d’altronde, che la complessità strutturale e le peculiarità che connotano in sé l’oggetto della tutela – come si vedrà – rendono, di fatto, indispensabili interventi normativi caratterizzati dalla continuità nel tempo e dalla collocazione a tutti i livelli territoriali di governo (internazionale, sovranazionale, nazionale, regionale, locale).

La constatazione di questi dati rende ragione delle principali caratteristiche negative che accomunano i diversi livelli della normazione a tutela dell’ambiente: eccessiva proliferazione e difficoltà di coordinare gli interventi dei diversi tipi di fonti; carattere frequentemente “emergenziale” della normativa; incertezze sul piano dogmatico che conducono spesso a determinare vere e proprie “rotture” del sistema delle fonti del diritto e dei principî che ne sorreggono la sistematica, con tutte le inevitabili ripercussioni sul piano della coerenza complessiva e della chiarezza interpretativa. Di qui l’esigenza sempre più forte di un’opera di razionalizzazione del diritto dell’ambiente, che più volte nell’ultimo decennio si è tentato di avviare, ma che ancora sembra alquanto lontana dal raggiungimento di risultati soddisfacenti.

1.2. I diversi livelli di normazione: il livello internazionale

4

La disciplina giuridica rivolta alla tutela dell’ambiente nasce, anzitutto, sul piano del diritto internazionale, tanto che, da tempo, si è cominciato a parlare di un vero e proprio “diritto internazionale dell’ambiente”. Si tratta di una produzione normativa che ha assunto dimensioni significative a partire dalla prima metà degli anni settanta e che è in progressiva espansione, in quanto destinata a disciplinare non soltanto i fenomeni di “inquinamento transfrontaliero” tra Stati diversi, ma soprattutto i problemi ambientali a carattere globale.

Per la verità, non mancano esempi di normazione internazionale più risalente (si pensi alla Convenzione di Londra del 1954 sull’inquinamento marino da idrocarburi, oppure ad alcune disposizioni della Convenzione di Ginevra sul diritto del mare); e ancora più antica è la famosa sentenza arbitrale del 1941 sul caso della fonderia di Trail, che viene spesso ricordata come origine del diritto internazionale dell’ambiente (in quanto costituì la prima pronuncia che specificamente risolveva una controversia fra Stati in materia di ambiente) e che sancì la responsabilità del Governo canadese in relazione ai danni che la fonderia arrecava con le sue emissioni in atmosfera (in un tipico caso di inquinamento transfrontaliero) agli agricoltori degli Stati Uniti.

Le prime manifestazioni nella società internazionale di un interesse per la tutela dell’ambiente hanno riguardato proprio l’esigenza di prevenire le conseguenze negative derivanti da attività che si svolgevano nel territorio di un determinato Stato a carico degli equilibri ambientali di Stati diversi, oppure a carico di ambienti o di fattori ambientali comuni a più Stati (ad esempio fiumi o laghi che attraversano una pluralità di Stati).

In seguito, si sono cominciati a prendere in considerazione i danni transfrontalieri anche nei casi in cui risultasse danneggiato l’ambiente di luoghi o spazi non assoggettati alla sovranità di alcuno Stato ed anche per attività che si svolgevano all’interno di questi medesimi spazi (si pensi, ad esempio, all’alto mare, allo spazio extratmosferico, all’Antartide).

Solo più di recente si è manifestata l’ulteriore esigenza di fronteggiare quei particolari fenomeni che sono stati chiamati di “inquinamento globale” (effetto serra, cambiamenti climatici, assottigliamento o “buco” dell’ozono stratosferico, etc.). Si tratta, come è evidente, di problemi che coinvolgono l’equilibrio ambientale complessivo del pianeta e che, come tali, non possono che essere affrontati in una dimensione di diritto internazionale.

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L’interesse della società internazionale ha assunto, infine, anche un’altra direzione: quella della tutela dell'ambiente di uno Stato in relazione ad attività dannose che quello stesso Stato possa compiere o tollerare sul proprio territorio. In questi casi – si badi bene – non si tratta di danni che ricadono su ambienti di altri Stati o di danni agli ambienti non soggetti a sovranità, né si tratta di fenomeni di inquinamento globale che provochino conseguenze dannose per tutto il pianeta, bensì di danni che si verificano in uno Stato e che, normalmente, dovrebbero ritenersi rientrare sotto la giurisdizione e il controllo dell’ordinamento dello Stato in questione. Proprio a tale proposito, negli ultimi anni, la società internazionale ha iniziato a sviluppare una certa sensibilità verso la configurazione di beni da considerare come “patrimonio comune dell’umanità”, soprattutto in relazione a particolari risorse di pregio (come, ad esempio, la biodiversità, le foreste tropicali, le specie animali in via di estinzione), rispetto alle quali il tradizionale riconoscimento della esclusiva sovranità dello Stato territorialmente competente entra in crisi a causa dell’interesse “comune” che gli altri Stati manifestano nei confronti di quei beni o di quelle risorse naturali.

Nell’ambito dell’ordinamento internazionale si configurano ormai alcune norme di diritto consuetudinario, peraltro ancora in numero molto esiguo, tra le quali viene ad esempio ricompresa la norma contenuta nel principio 21 della Dichiarazione di Stoccolma del 1972, ripresa dal principio 2 della Dichiarazione di Rio del 1992, in base alla quale «gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse secondo le loro politiche ambientali e di sviluppo, ed hanno il dovere di assicurare che le attività sottoposte alla loro giurisdizione o al loro controllo non causino danni all’ambiente di altri Stati o di zone situate oltre i limiti della giurisdizione nazionale».

Tuttavia, la fonte senza dubbio più significativa del diritto internazionale dell’ambiente è rappresentata dai trattati, che ormai, tra convenzioni multilaterali e convenzioni bilaterali, raggiungono complessivamente il numero di alcune centinaia. Tra questi trattati, molti vedono anche la partecipazione dell’Italia, con la conseguente necessità che l’ordinamento interno, attraverso altrettanti atti di recepimento, si conformi agli obblighi assunti dal nostro paese sul piano internazionale. Solitamente, la fonte attraverso la quale le norme internazionali convenzionali in materia di tutela dell’ambiente vengono introdotte nel nostro ordinamento è la legge ordinaria del Parlamento, ma non mancano anche casi in cui la legge che rende

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esecutivo un determinato trattato demanda a fonti sub-legislative o ad altri atti non aventi la natura formale delle fonti del del diritto il compito di apprestare nel dettaglio gli strumenti necessari all’adempimento nei confronti degli altri Stati contraenti2.

1.3. Segue: il livello comunitario e il rapporto tra fonti europee e fonti interne

Sempre a livello sovranazionale, ma con un importanza

notevolmente maggiore sia in termini di quantità e di contenuti sia in termini di capacità di incidenza nell’ordinamento interno, occorre considerare il ruolo fondamentale che assume la normativa comunitaria per la tutela dell’ambiente.

Questa, come è noto, non era espressamente considerata nell’ambito delle disposizioni originarie dei trattati comunitari. L’attenzione degli organi delle Comunità europee verso i problemi della questione ambientale nasce anche in questo caso solo intorno ai primi anni settanta, trovando fondamento in alcune norme generali contenute nel trattato CEE. In particolare, la necessità di un intervento comunitario indirizzato a fini di tutela dell’ambiente viene desunta, in via interpretativa, dalla formulazione dell’art. 2, dove si fa riferimento all’esigenza di uno «sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della Comunità» e di «una espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento più rapido del tenore di vita e più strette relazioni fra gli Stati che ad essa partecipano». Assieme all’art. 2, vengono richiamate, in questa prima fase, le disposizioni sul ravvicinamento delle legislazioni (artt. 100, 101 e 102), per la diretta incidenza sul funzionamento del mercato comune che può assumere una situazione di obiettiva divergenza o semplice disomogeneità tra le discipline giuridiche dei singoli Stati membri finalizzate alla protezione dell’ambiente, nonché l’art. 235 che prevede la possibilità di un’azione degli organi comunitari ogni volta che questa «risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità», anche in assenza di poteri d’azione espressamente previsti.

2 Cfr., ad esempio, la legge n. 120 del 2002, che ha reso esecutivo in Italia il Protocollo di Kyoto alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, fatto a Kyoto l’11 novembre 1997.

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Il primo atto comunitario che si riferisce espressamente alla protezione e al miglioramento dell’ambiente in generale, è la Prima comunicazione in materia di ambiente, presentata dalla Commissione al Consiglio il 22 luglio 19713, dove si afferma la necessità di ricomprendere la tutela dell’ambiente nell’ambito degli scopi della Comunità anche in assenza di un esplicito fondamento normativo nei trattati, dovendosi ritenere, a questo fine, legittimo l’utilizzo dell’art. 235 del trattato CEE quale base giuridica degli interventi.

L’impulso decisivo, sul piano politico, all’attivazione di un’azione comunitaria finalizzata alla tutela dell’ambiente viene dalla dichiarazione conclusiva del vertice dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri della Comunità svoltosi a Parigi il 19 e 20 ottobre 1972. In questo documento, fornendo un’interpretazione evolutiva dell’art. 2 del trattato CEE, viene riconosciuto che l’espansione economica «non è un fine a sé stante» e «deve tradursi in un miglioramento della qualità come del tenore di vita»; da ciò scaturisce la necessità di dedicare «un’attenzione particolare ai valori e a beni non materiali e alla protezione dell’ambiente naturale, onde porre il progresso al servizio dell’uomo». Su questa base, le istituzioni comunitarie vengono invitate a predisporre un Programma di azione per la politica comunitaria ambientale, utilizzando nel modo più ampio possibile tutte le disposizioni dei trattati, «compreso l’art. 235 del trattato della CEE»4. In tal modo, si realizza un chiaro impulso tendente a superare le lacune delle disposizioni costituzionali comunitarie in tema di ambiente e a promuovere una lettura in chiave evolutiva delle norme contenute nel trattato CEE.

Proprio grazie all’individuazione delle basi giuridiche appena richiamate, a partire dal 1973, cominciano ad essere adottati i programmi d’azione, che servono ad individuare le linee direttrici degli interventi ambientali della Comunità e che, inizialmente, hanno durata quadriennale. L’importanza di questi programmi, che pure assumono la natura formale di atti di indirizzo politico giuridicamente non vincolanti, risiede nel fatto che in essi si rinvengono gli orientamenti fondamentali sui quali possono basarsi le istituzioni comunitarie per l’emanazione degli atti normativi finalizzati alla tutela dell’ambiente.

3 Il testo della comunicazione si trova in Boll. CEE, 1971, n. 9/10, 58 ss. 4 Le citazioni sono tratte dal testo della Dichiarazione, pubblicato in Boll. CEE, 1972, n. 10, 16, 21 e 24.

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Per l’affermazione esplicita della rilevanza costituzionale dell’ambiente nell’ambito dell’ordinamento comunitario occorre attendere la metà degli anni ottanta e, in particolare, il contributo della giurisprudenza della Corte di giustizia. In una prima pronuncia, la Corte comunitaria afferma che la tutela dell’ambiente «costituisce uno degli scopi essenziali della Comunità» e ciò vale a giustificare atti comunitari che comportino, per scopi di protezione ambientale, restrizioni ai principî della libertà del commercio, della libera circolazione delle merci e della libera concorrenza (sent. 7 febbraio 1985, in causa n. 240/83, in materia di oli usati). Con una seconda decisione di poco successiva la Corte riconosce, per la prima volta in modo esplicito, la tutela dell’ambiente come una di quelle «esigenze imperative» che possono costituire cause di deroga per i singoli Stati membri al principio della libera circolazione delle merci, ossia cause di giustificazione di misure nazionali restrittive degli scambi (sent. 20 settembre 1988, in causa n. 302/86, in materia di imballaggi per birre e bibite).

Nel periodo che intercorre tra le due pronunce si assiste peraltro all’inserimento formale dei fondamenti giuridici della tutela dell’ambiente all’interno dei trattati comunitari; ciò grazie all’approvazione dell’Atto Unico Europeo del 1986, che provvede ad alcune rilevanti modificazioni e integrazioni della disciplina contenuta nei trattati istitutivi delle Comunità europee, aggiungendo alla parte III del trattato CEE il titolo VII, dedicato all’ambiente e contenente gli artt. 130R, 130S, 130T.

Nell’art. 130R, anziché optare per una definizione giuridica dell’ambiente, vengono individuati anzitutto gli obiettivi dell’azione comunitaria in materia ambientale: «Salvaguardare, proteggere e migliorare la qualità dell’ambiente; contribuire alla protezione della salute umana; garantire un’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali”. Vengono inoltre enunciati in modo espresso alcuni principî che già erano andati affermandosi quando ancora gli interventi della Comunità per la tutela dell’ambiente non trovavano una base giuridica esplicita nei trattati: il principio dell’azione preventiva, il principio della correzione, anzitutto alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché il principio “chi inquina paga”, cui si aggiungono il principio di integrazione delle esigenze connesse con la salvaguardia dell’ambiente nelle altre politiche della Comunità e il principio di sussidiarietà, che proprio in questa materia trova la sua prima formulazione normativa all’interno dei trattati comunitari,

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anche se con un significato e una portata diversi rispetto al principio che sarà successivamente introdotto nell’art. 3B (ora art. 5) del trattato CE.

I due articoli successivi sono dedicati alla definizione del procedimento decisionale per adottare le deliberazioni comunitarie rivolte alla protezione dell’ambiente (art. 130S) e alla formulazione di quella clausola che consente agli Stati membri di disporre una tutela dell’ambiente più rigorosa di quella adottata a livello comunitario, stabilendo che «i provvedimenti di protezione adottati in comune in virtù dell’art. 130S non impediscono ai singoli Stati membri di mantenere e di prendere provvedimenti, compatibili con il presente trattato, per una protezione ancora maggiore» (art. 130T).

Oltre alle disposizioni contenute nel nuovo titolo VII della parte III del trattato CEE, l’A.U.E. introduce anche l’art. 100A che, stabilendo una procedura derogatoria rispetto all’art. 100 per l’adozione di misure volte al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri, codifica il principio del “livello elevato di tutela”, secondo cui la Commissione, nelle sue proposte in materia di sanità, sicurezza, protezione dell’ambiente e protezione dei consumatori, assume come base «un livello di protezione elevato».

Il trattato sull’Unione europea del 1992 introduce ulteriori significative modificazioni al testo del trattato CEE che, da questo momento, assume la denominazione di «trattato CE».

Nell’art. 2, tra i compiti della Comunità, viene inserito espressamente quello di promuovere «una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l’ambiente», mentre nell’art. 3, lett. k), si individua la «politica nel settore dell’ambiente» come uno degli elementi caratterizzanti l’azione della Comunità per il raggiungimento dei fini enunciati nell’art. 2. Si procede, inoltre, ad un deciso ampliamento e rafforzamento dei contenuti dei tre articoli del titolo VII, che diviene il titolo XVI.

Le modifiche più rilevanti vengono apportate al testo dell’art. 130R. Al par. 1, viene confermato il passaggio della qualificazione giuridica delle iniziative comunitarie finalizzate alla tutela dell’ambiente da «azione» a «politica»; il che, nel lessico comunitario, implica una presenza costante e strategica delle istituzioni comunitarie nella materia5; inoltre, si registra l’aggiunta di un ulteriore obiettivo da 5 L’osservazione è di M.P. CHITI, Ambiente e ‘costituzione’ europea: alcuni nodi problematici, in S. GRASSI, M. CECCHETTI, A. ANDRONIO (a cura di), Ambiente e diritto, cit., I, 138.

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perseguire mediante la politica ambientale, consistente nella «promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale».

Al par. 2, viene inserito il principio del “livello elevato di tutela”, che assume perciò una portata generale nella predisposizione di tutti gli interventi comunitari in materia ambientale; nell’ambito dello stesso paragrafo viene conferita una maggiore incisività al richiamo del principio dell’azione preventiva, cui si aggiunge – in stretta connessione – il principio di precauzione, nonché alla formulazione del principio di integrazione, stabilendosi che «le esigenze connesse con la salvaguardia dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle altre politiche comunitarie».

Infine, l’affermazione della sussidiarietà viene stralciata dall’art. 130R ed assume valore di principio esplicito di portata generale, destinato a regolare tutti i rapporti tra la Comunità e gli Stati membri, grazie all’inserimento nell’art. 3B del trattato CE di una formulazione più ricca e articolata della precedente.

L’approvazione del trattato di Amsterdam, avvenuta il 2 ottobre 1997, segna un’ennesima tappa fondamentale nell’evoluzione del regime costituzionale comunitario dell’ambiente.

Oltre all’introduzione dell’esplicito riferimento che oggi compare nell’art. 2 del trattato UE allo «sviluppo equilibrato e sostenibile», come uno degli obiettivi dell’Unione europea, le modifiche più rilevanti vengono apportate alla parte generale del trattato CE e, in particolare all’art. 2 dove, tra i compiti della Comunità europea, vengono inseriti quelli di promuovere «uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche», nonché «un elevato livello di protezione dell’ambiente ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo».

A questa disposizione si collega direttamente l’introduzione del nuovo art. 3C, la cui formulazione consente di far assurgere il principio di integrazione (che viene stralciato dal testo dell’art. 130R, par. 2) a principio generale destinato ad orientare tutta l’attività della Comunità: «Le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni comunitarie di cui all’art. 3, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile». Tale principio, significativamente, risulta oggi ribadito all’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 7

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dicembre 2000), che, anziché contemplare un generico e inutile riferimento al diritto all’ambiente, afferma: «Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile»6.

In base al trattato di Amsterdam le disposizioni contenute nel trattato CE e nel trattato sull’Unione europea hanno subito una generale rinumerazione. Occorre dunque tenere presente che gli artt. 3B e 3C sono divenuti, rispettivamente, gli artt. 5 e 6, che l’art. 100A è divenuto l’art. 95 e che gli artt. 130R, 130S e 130T sono stati ricompresi nell’ambito del titolo XIX e corrispondono attualmente ai vecchi artt. 174, 175 e 176 del trattato CE.

Già le articolate disposizioni “costituzionali” appena illustrate pongono in evidenza la centralità della politica ambientale nel sistema dell’Unione europea. Ma ancora più rilevante è la considerazione degli atti di normazione derivata, che ormai coprono quasi la totalità dei settori coinvolti nella “materia” dell’ambiente: tutela delle acque, tutela dell’aria, rumore, gestione dei rifiuti, controllo integrato degli inquinamenti, protezione della flora e della fauna, grandi rischi, sostanze pericolose, VIA, informazione ambientale, etc.

Il solo numero complessivo di questi atti normativi rende agevolmente l’idea del peso che ha assunto la produzione normativa comunitaria in tema di tutela dell’ambiente: nell’ultimo trentennio, a fronte di circa cento regolamenti e di oltre cinquanta decisioni, si contano più di duecento direttive, delle quali circa la metà a contenuto integrativo, modificativo o parzialmente sostitutivo di direttive precedenti. E se a questi dati si aggiunge il fatto che in questa materia, forse più che in altre, le istituzioni comunitarie utilizzano ampiamente lo strumento della “direttiva dettagliata”, è facile comprendere le difficoltà che si pongono agli ordinamenti nazionali non soltanto nell’adeguamento tempestivo della propria legislazione ma soprattutto nel coordinamento di questa con discipline normative i cui processi di produzione fanno capo in massima parte al livello sovranazionale.

6 Tale principio si trova riaffermato, in termini letterali pressoché identici, nel Trattato costituzionale – come è noto, non ancora vigente – come principio fondamentale cardine delle politiche dell’Unione europea; l’art. III-119, infatti, stabilisce che «le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni di cui alla presente parte [parte III, sulle politiche e il funzionamento dell’Unione], in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile».

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Proprio sul piano del rapporto tra fonti comunitarie e fonti interne si colloca uno dei nodi centrali della disciplina giuridica a tutela dell’ambiente. Di fronte alla necessità di garantire il continuo adeguamento del diritto interno all’evoluzione delle direttive comunitarie, si deve purtroppo ancora constatare l’assenza, in Italia, di un disegno chiaro e razionale sull’utilizzazione dei diversi meccanismi di adeguamento. La scelta della fonte per dare attuazione ad una direttiva in materia di ambiente (legge ordinaria, atto con forza di legge, regolamento governativo o ministeriale, atto amministrativo generale) si rivela quasi sempre casuale e priva di una logica intrinseca che possa fondarsi su ragioni diverse rispetto a quelle dettate dalle mere opportunità contingenti.

È pur vero che, soprattutto negli anni più recenti, si assiste ad un tentativo sempre più deciso di concentrare nello strumento delle leggi comunitarie annuali almeno la “previsione” delle azioni di adeguamento, ma le difficoltà di coordinamento tra il processo di attuazione degli atti comunitari e i contesti normativi previgenti sembrano riproporre, come circostanza inevitabile, la pluralità degli interventi di normazione e la loro frammentazione nel tempo. A tali difficoltà sembrano, oltretutto, potersi ricondurre da un lato il problema delle evidenti lacune nei principî e criteri direttivi che le leggi comunitarie dettano quando conferiscono una delega legislativa al Governo in materia di tutela dell’ambiente, dall’altro l’esperienza sostanzialmente fallimentare delle grandi deleghe legislative attuate dal Governo nell’ultimo decennio (si pensi ai decreti legislativi n. 22 del 1997, in materia di gestione dei rifiuti, n. 152 del 1999, in materia di acque, e al più recente n. 152 del 2006, che ha riformato un’ampia pluralità di settori di legislazione ambientale); deleghe il cui scopo, tra gli altri, era proprio quello di cogliere l’adeguamento al diritto comunitario come occasione di “definitiva” razionalizzazione normativa, ma la cui attuazione, al contrario, è risultata ben lontana dall’obiettivo di unificare sistematicamente e sostanzialmente le discipline dei settori considerati, incontrando, oltretutto, la necessità di ampi interventi integrativi e correttivi.

1.4. Segue: il livello statale e il rapporto tra fonti legislative e fonti sub-legislative

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La disciplina ambientale di produzione nazionale rivela un consistente ricorso allo strumento legislativo, anche in presenza di contenuti puntuali o di natura meramente tecnica, per i quali – come si dirà – sarebbero “naturalmente” più indicate le fonti secondarie. Oltre alla legge formale del Parlamento, però, i caratteri intrinseci della materia giustificano il frequente ricorso alla produzione normativa attraverso atti con forza di legge (decreti legge e decreti legislativi) approvati dal Governo.

Quanto ai decreti legge, occorre ricordare che per un lungo periodo, soprattutto nella prima metà degli anni novanta, il fenomeno della decretazione d’urgenza aveva assunto i tratti dello strumento principale di intervento normativo dello Stato per la tutela dell’ambiente, con tutte le conseguenze che ciò poteva comportare in termini di coerenza e razionalità del sistema delle fonti. Ci si riferisce, in particolare, ai due fenomeni rispetto ai quali la ben nota sentenza n. 360 del 1996 della Corte costituzionale (che ha imposto limiti molto rigidi al potere del Governo di reiterare i decreti legge decaduti per scadenza dei termini di conversione) costituisce una sorta di spartiacque: da un lato, il fatto che, prima della sentenza, interi settori della disciplina giuridica a tutela dell’ambiente (inquinamento delle acque, gestione dei rifiuti e materie prime secondarie, inquinamento atmosferico, controlli ambientali) erano risultati per anni affidati a decreti legge ripetutamente reiterati; dall’altro lato, il fatto che, dopo la sentenza, il legislatore abbia fatto inizialmente un largo uso delle c.d. “leggi di sanatoria”, le quali non si sono affatto limitate a disciplinare gli effetti dei decreti non convertiti e non più ripresentabili, ma sono di fatto risultate elemento di ulteriore complicazione e irrazionalità del sistema (cfr., ad es., la legge 19 maggio 1997, n. 137, in tema di grandi rischi industriali, nonché la legge 11 novembre 1996, n. 575, in tema di recupero dei rifiuti).

Negli ultimi anni, peraltro, malgrado che il fenomeno della decretazione d’urgenza risulti complessivamente tutt’altro che sottodimensionato, si può ritenere che, in certa misura, la produzione normativa ambientale attraverso l’emanazione di decreti legge abbia ritrovato una propria “naturale” e più fisiologica dimensione.

Quanto ai decreti legislativi, negli anni più recenti anche il campo della tutela dell’ambiente rivela quella tendenza ad affidare sempre di più la normazione primaria allo strumento della delegazione legislativa e dunque a configurare quella sorta di “stagione delle deleghe” ormai ben conosciuta in molti altri settori dell’ordinamento.

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Nelle ultime due legislature, tutti i più rilevanti interventi di riforma della discipline ambientali preesistenti sono passati attraverso la fonte della legislazione delegata: si pensi, solo per citare qualche esempio, al d.lgs. n. 22 del 1997, sulla gestione dei rifiuti, al d.lgs. n. 152 del 1999, sulla tutela delle acque dagli inquinamenti, al d.lgs. n. 351 del 1999, sulla valutazione e gestione della qualità dell’aria, al d.lgs. n. 372 del 1999, sulla prevenzione e riduzione integrata dell’inquinamento, al d.lgs. n. 334 del 1999, sul controllo dei rischi di incidenti rilevanti, al d.lgs. n. 195 del 2005, sull’accesso all’informazione ambientale, fino al più recente e complessivo d.lgs. n. 152 del 2006 (impropriamente conosciuto come “Codice dell’ambiente”).

Oltre alle fonti primarie, pure largamente utilizzate, la materia della tutela dell’ambiente risulta disciplinata prevalentemente (e non potrebbe essere altrimenti, considerata la necessità di una normazione caratterizzata da contenuti tecnici ed estremamente pervasivi) in atti di rango sub-legislativo, i quali non sempre assumono le forme (seguendone i rispettivi procedimenti di adozione) proprie degli atti normativi in senso stretto (regolamenti governativi o ministeriali), bensì quelle degli atti amministrativi generali a contenuto normativo.

Il problema più delicato che si pone di fronte a questa molteplicità di atti normativi statali è quello del rapporto che viene ad instaurarsi tra le fonti legislative e le fonti sub-legislative; qui la disciplina ambientale rivela l’intrinseca difficoltà di una chiara determinazione dei criteri necessari a conseguire un riparto razionale (e omogeneo nei diversi settori materiali coinvolti) tra l’ambito della fonte primaria e l’ambito delle fonti secondarie. Il risultato che ne scaturisce, anche in questo caso, è l’affidamento a logiche meramente contingenti o di pura casualità delle scelte relative all’attrazione o alla riserva di un determinato contenuto normativo alla fonte legislativa; delle scelte di affidare parte della disciplina a regolamenti governativi o ministeriali o ad atti amministrativi generali; delle scelte in ordine ai “modelli” di delegificazione possibili. A quest’ultimo proposito, è necessario considerare che il modello generale di delegificazione previsto nell’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, costruito in modo tale da non presentare dubbi di legittimità costituzionale (giacché consente che un regolamento del Governo possa intervenire in una materia già disciplinata con legge, determinando l’abrogazione della fonte primaria, solo a condizione che una legge definisca previamente le “norme generali regolatrici della materia” e che sia la

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stessa legge a disporre l’abrogazione delle norme legislative vigenti, con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari), nella legislazione a tutela dell’ambiente – così come, peraltro, in altri settori dell’ordinamento – risulta molto spesso derogato a favore di modelli di “delegificazione anomala”, in base ai quali la legge consente a semplici regolamenti ministeriali la modifica di norme di rango legislativo senza la previa individuazione da parte del legislatore né delle norme generali inderogabili né delle norme suscettibili di modificazione o abrogazione con la fonte regolamentare.

1.5. Segue: il livello regionale e locale. I rapporti tra fonti statali, fonti regionali e fonti locali dopo la riforma costituzionale del Titolo V (rinvio)

Accanto alle fonti statali, devono poi essere considerati gli atti

normativi delle Regioni, alle quali, nonostante l’assenza nella versione originaria dell’art. 117 Cost. di un riferimento esplicito alla tutela dell’ambiente, la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto, fin dalla metà degli anni ottanta, una specifica competenza legislativa generale in questa materia7. Anche le leggi regionali, tuttavia, presentano generalmente i difetti degli atti legislativi statali: estrema pervasività della disciplina; minuziosa puntualità dei contenuti; conseguente perdita dei caratteri formali e sostanziali della fonte legislativa.

Oltre a tali difetti, che potrebbero facilmente ritenersi “non peculiari” della legge regionale a tutela dell’ambiente, va aggiunto però che l’esperienza concreta della legislazione regionale in questa materia ha prodotto finora risultati tutt’altro che esaltanti; si tratta, infatti, di una legislazione che, anche nei casi in cui non si riveli del tutto assente o gravemente lacunosa, risulta in larga misura priva di contenuti normativi originali rispetto alla legislazione statale e dunque spesso limitata alla mera ripetizione o riproduzione letterale delle disposizioni dettate al livello centrale. Nei non frequenti casi in cui le leggi regionali hanno introdotto vere e proprie innovazioni normative, queste sono state poi o estese dalla legislazione dello Stato a tutto l’ordinamento8, oppure bloccate o ridimensionate attraverso le 7 Si vedano, per tutte, le sentenze n. 183 del 1987 e n. 382 del 1999. 8 Cfr., ad es., le due leggi reg. Piemonte n. 32 del 1974 e n. 23 del 1975, nonché la legge reg. Lombardia n. 48 del 1974, chiaramente anticipatrici di contenuti

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procedure di controllo, perché ritenute in contrasto con le scelte fondamentali del legislatore nazionale9.

Più in generale, da tempo è stato messo in evidenza che proprio il settore della tutela dell’ambiente sembra costituire un vero e proprio “ambito privilegiato” per l’emersione di tutti i nodi problematici del difficile rapporto tra Stato e autonomie regionali.

Tra i fenomeni principali che rilevano sul piano delle fonti, è sufficiente richiamare, oltre al carattere prevalentemente “esecutivo-attuativo” delle leggi regionali: l’assenza pressoché totale della normazione regolamentare di livello regionale, cui si collega il diffuso fenomeno delle “fughe” dalle forme degli atti fonte attraverso l’emanazione di un’eterogenea pletora di delibere di Consiglio, di Giunta o di Presidente della Giunta a contenuto sicuramente normativo; la spiccata tendenza dello Stato ad estendere il proprio intervento negli spazi formalmente di competenza regionale, anche con fonti regolamentari e atti amministrativi; l’assai scarso utilizzo, da parte delle Regioni, del potere di attuare direttamente le direttive comunitarie negli ambiti spettanti alla loro competenza.

La tutela giuridica dell’ambiente implica, inoltre, necessariamente il riconoscimento di un ruolo senza dubbio assai rilevante anche alle fonti delle autonomie comunali e provinciali. Basti pensare, in proposito, alla necessità di regolare fenomeni e attività che si svolgono e producono i loro effetti prevalentemente nella dimensione locale (come ad esempio, l’inquinamento acustico, l’inquinamento atmosferico delle aree urbane, la gestione dei servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani, la localizzazione sul territorio degli impianti e delle attrezzature che producono emissioni elettromagnetiche), per comprendere che la disciplina giuridica della tutela ambientale passa inevitabilmente anche dalla potestà regolamentare degli enti locali territoriali. normativi successivamente fatti propri dalla legge 10 maggio 1976, n. 319, in materia di tutela delle acque dagli inquinamenti; si vedano anche la legge prov. Bolzano n. 63 del 1973 e la legge reg. Puglia n. 24 del 1983, le quali per prime contenevano una disciplina dell’acqua intesa come risorsa da gestire in modo razionale, anticipando l’approccio successivamente seguito dalla legge 5 gennaio 1994, n. 36. 9 Cfr. la vicenda che vide alcune Regioni, nella prima metà degli anni novanta, operare il tentativo di introdurre norme legislative di semplificazione dei controlli relativi allo stoccaggio provvisorio dei rifiuti tossici e nocivi presso il luogo di produzione e che furono sistematicamente dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale.

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Il principale problema che pone l’intervento di questa pluralità di fonti statali, regionali e locali attiene, con tutta evidenza, alla definizione dei criteri sui quali fondare un chiaro e funzionale riparto delle competenze normative tra i diversi enti che, ai sensi dell’art. 114 Cost., “costituiscono” la Repubblica. In proposito, è noto che il nuovo Titolo V della Parte II, Cost., così come riformato dalla legge cost. n. 3 del 2001, configura in modo sostanzialmente nuovo il modello di “forma di stato” disegnato nella Costituzione del 1947, modificando profondamente l’assetto dei rapporti tra Stato, Regioni ed autonomie locali, anche con specifico riferimento alla tutela dell’ambiente; per tale ragione, la trattazione dei rapporti tra le diverse fonti che intervengono a disciplinare la tutela dell’ambiente non può che essere rinviata a quanto si dirà nel capitolo 4, laddove si analizzeranno il ruolo che la Costituzione affida ai soggetti pubblici in questo campo e i criteri sui quali è costruito il relativo riparto di competenze normative e amministrative.

1.6. La normazione tecnica Una delle principali peculiarità che connotano trasversalmente

(investendo pertanto l’intera gamma dei rapporti tra le fonti) la tutela giuridica dell’ambiente è senz’altro rappresentata dall’ineliminabile esigenza di normazione tecnica.

Se con questa espressione, in generale, si deve intendere quella particolare tipologia di norme giuridiche che si fondano direttamente su valutazioni e giudizi delle scienze teoriche e applicate, è evidente che una qualunque disciplina che si proponga di tutelare l’ambiente (cioè l’equilibrio ecologico) non possa evitare di fare largo uso di un simile tipo di normazione. Lo stesso Trattato CE, come si è visto, quando all’art. 174, par. 3, stabilisce che «nel predisporre la sua politica in materia ambientale la Comunità tiene conto […] dei dati scientifici e tecnici disponibili», fornisce una chiara indicazione nel senso del necessario fondamento “scientifico e tecnico” di ogni decisione di governo dell’ambiente.

La produzione normativa in materia ambientale è dunque intrinsecamente e “naturalmente” spinta a trovare fondamento nel dominio delle scienze teoriche o tecniche, proprio al fine della sua stessa efficacia, intesa come idoneità a conseguire gli obiettivi della tutela. E laddove questo fondamento costituisca il presupposto diretto

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e immediato della norma, si è di fronte ad una “norma tecnica” in senso proprio.

Questo dato, con riferimento al problema delle fonti del diritto e dunque alla produzione da parte delle autorità pubbliche di quelle che vengono definite “regole tecniche”, che assumono cioè efficacia precettiva, generale ed astratta, deve essere combinato con la constatazione che, in questi casi, il fondamento scientifico della regola non può escludere che la stessa autorità compia valutazioni, bilanciamenti, sintesi politica di interessi, di talché la “regola tecnica” finisce necessariamente per comprendere in sé due dimensioni: una “base” scientifica, fornita dal mondo della ricerca, e una componente valutativa, affidata alle scelte della politica.

Ciò permette di cogliere uno dei problemi più delicati di questo tipo di normazione e cioè l’estrema complessità che dovrebbe caratterizzare l’organizzazione dei procedimenti di produzione delle regole tecniche e, al tempo stesso, le numerose esigenze che tali procedimenti dovrebbero in linea di principio soddisfare, evitando l’utilizzo, in modo del tutto casuale, ora del procedimento legislativo formale, ora di quello per i regolamenti governativi, ora di quello per l’emanazione di decreti ministeriali non regolamentari.

Fino ad oggi, l’analisi delle fonti di produzione di regole tecniche per la tutela dell’ambiente mostra la quasi totale disattenzione del legislatore italiano verso la costruzione di procedimenti normativi che risultino adeguati almeno sotto due profili.

Da un primo punto di vista, l’“adeguatezza” dei procedimenti di normazione dovrebbe essere misurata in relazione alla capacità di assicurare la correttezza e l’oggettività scientifica delle valutazioni e dei giudizi da cui scaturisce la previsione della norma tecnica; sotto tale profilo sarebbe necessario, ad esempio:

a) garantire un’istruttoria ampia, articolata e aperta a tutti i soggetti potenzialmente in grado di fornire i dati scientifici e tecnici rilevanti, tenendo conto delle diverse discipline coinvolte nell’elaborazione del precetto e, di conseguenza, delle competenze e delle professionalità che devono essere attivate;

b) affidare l’istruttoria ad un organo imparziale, i cui membri (così come i soggetti chiamati a fornire consulenze “esterne”) siano selezionati mediante procedure pubbliche evidenti e garantite, in base a criteri oggettivi di competenza ed esperienza professionale acquisita;

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c) predisporre meccanismi che consentano un rapido e continuo adeguamento delle norme al progresso delle conoscenze tecniche e scientifiche.

Da un secondo punto di vista, la predisposizione di procedimenti di normazione “adeguati” dovrebbe farsi carico di rendere chiaramente distinguibili (e dunque giudicabili nelle sedi in cui può essere fatta valere la responsabilità politica) le componenti valutative della norma tecnica e le scelte “politiche” che hanno presieduto alla sua produzione; sotto questo profilo, i procedimenti di formazione delle norme tecniche dovrebbero assumere uno spiccato carattere di trasparenza e visibilità in tutte le loro fasi, anche attraverso la predisposizione di strumenti di informazione semplificata al pubblico circa le diverse opzioni possibili. Solo così si renderebbe possibile un controllo realistico non solo della coerenza interna degli atti-fonte contenenti norme tecniche ma anche della conformità (legalità) tra questi e le norme che esprimono le scelte di politica ambientale e che propriamente tecniche non sono.

1.7. Le ordinanze di necessità e urgenza La tutela giuridica dell’ambiente si realizza, infine, anche

attraverso l’esercizio di poteri di ordinanza extra ordinem, abilitati a derogare alle leggi vigenti e previsti da norme generali (cioè non concepite espressamente ed esclusivamente per la tutela dell’ambiente) o da norme di settore (cioè dirette specificamente alla tutela dell’ambiente).

Le norme generali attualmente vigenti sono: 1) l’art. 32 della legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, in base al quale il Ministro della sanità, il Presidente della Giunta regionale, o il Sindaco possono emettere ordinanze di carattere contingibile ed urgente, in materia di igiene e sanità pubblica, e di polizia veterinaria, nei diversi ambiti territoriali di competenza; 2) il testo unico sugli enti locali (d.lgs. n. 267 del 2000), art. 50, commi 5 e 6, che affida al Sindaco il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale; art. 54, comma 2, che attribuisce al Sindaco il potere di adottare provvedimenti contingibili per tutelare l’incolumità dei cittadini.

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Le norme specifiche per la tutela dell’ambiente sono: 1) l’art. 8 della legge n. 59 del 1987, sul funzionamento del Ministero dell'ambiente, in base al quale il Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri eventualmente competenti, può emettere ordinanze contingibili e urgenti per la tutela dell’ambiente; 2) l’art. 191 del d.lgs. n. 152 del 2006, che, con una disciplina particolarmente dettagliata, attribuisce al Presidente della Giunta regionale, al Presidente della Provincia, o al Sindaco il potere di emettere, nell’ambito delle rispettive competenze, ordinanze contingibili e urgenti per consentire il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti; 3) l’art. 9, della legge quadro sull’inquinamento acustico n. 447 del 1995, che attribuisce al Sindaco, al Presidente della Provincia, al Presidente della Giunta regionale, al Prefetto, al Ministro dell’ambiente, al Presidente del Consiglio dei Ministri, il potere di ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria totale o parziale di determinate attività.

In assenza di specifiche norme, la tutela dagli inquinamenti degli altri fattori ambientali, quali le acque e l’aria, si svolge sulla base dei poteri straordinari di portata generale già richiamati.

Secondo l’opinione dominante in dottrina e giurisprudenza (cfr. Corte cost. n. 8 del 1956, n. 26 del 1961, n. 4 del 1977), le ordinanze di necessità e urgenza non possono essere considerate fonti del diritto, in quanto possono al più operare, in situazioni contingenti, deroghe particolari alle previsioni delle fonti di rango primario; tale capacità derogatoria si fonda sull’efficacia attiva delle norme di legge che prevedono i poteri di ordinanza.

Le ordinanze in questione devono essere allora considerate atti amministrativi necessitati atipici, essenzialmente privi dei requisiti di generalità e astrattezza che caratterizzano le fonti del diritto in senso sostanziale, anche se costituiscono di fatto un elemento di chiusura del sistema, al confine tra norma giuridica e interesse da tutelare.

Le conseguenze pratiche più immediate di tale ricostruzione sono: l’impugnabilità di fronte al giudice amministrativo o ordinario; la generale inapplicabilità del principio iura novit curia in un giudizio nel quale vengano in rilevo ordinanze di necessità, con conseguente onere di allegazione di parte; la riconduzione del vizio amministrativo di violazione dell’ordinanza nell’ambito della categoria dell’eccesso di potere; la non applicabilità delle ordinanze quali parametro di

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legittimità nel giudizio di Cassazione per violazione di legge; la qualificazione dell’errore sull’ordinanza come errore di fatto.

La struttura e gli effetti degli atti in esame sono stati delineati dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale come limiti formali e sostanziali ad un potere generale di ordinanza originariamente concepito come libero. Nell’attuale sistema delle fonti, il potere atipico in questione risulta pertanto vincolato sia da limiti impliciti sia da limiti espliciti, previsti dalla più recente legislazione di settore.

I limiti in questione possono avere per oggetto sia le ordinanze, sia le leggi che le prevedono. Ciò in considerazione delle oscillazioni della giurisprudenza costituzionale, che si è pronunciata in materia sia con sentenze interpretative di accoglimento sia con sentenze interpretative di rigetto, senza chiarire, in definitiva, se sia sufficiente che i limiti individuati siano rispettati dalle ordinanze, o debbano invece essere espressamente previsti dalle leggi autorizzative. Si può comunque ritenere opportuno che i limiti in questione siano previsti dalle leggi che di volta in volta autorizzano l’esercizio del potere di ordinanza.

In particolare, è necessario che sia impossibile provvedere adeguatamente in via ordinaria alla tutela di interessi costituzionalmente protetti; l’efficacia delle ordinanze deve essere limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell’urgenza; la deroga operata con l’ordinanza deve essere proporzionale alla gravità della situazione straordinaria da fronteggiare; le ordinanze devono avere forma scritta e adeguata motivazione; sono necessarie adeguate forme di pubblicazione o comunicazione al destinatario; le ordinanze devono essere conformi alla Costituzione e ai principî generali dell’ordinamento e non devono incidere su riserve di legge assolute; possono incidere su riserve relative solo laddove la norma di legge che prevede il potere di ordinanza preveda criteri-guida per il suo esercizio; le ordinanze devono espressamente indicare le disposizioni cui intendono derogare.

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CAPITOLO 2

L’AMBIENTE COME OGGETTO DI TUTELA GIURIDICA: IL PROBLEMA DELLE NOZIONI E DELLE QUALIFICAZIONI NORMATIVE 2.1. Il problema della definizione giuridica di «ambiente» e il rapporto con le nozioni contigue

Un approccio corretto ai problemi della tutela dell’ambiente,

da qualunque punto di vista lo si intenda affrontare (giuridico, politico, economico, sociale, filosofico), non può fare a meno di muovere da un sufficiente grado di consapevolezza delle caratteristiche intrinseche, affatto peculiari, che assume l’oggetto della tutela.

In questa ottica, occorre senz’altro affrontare, in via preliminare, la questione relativa alla corretta identificazione di ciò che debba intendersi per «ambiente» e di come tale nozione possa distinguersi dalle altre che si rinvengono nel testo della nostra Carta costituzionale (e nella legislazione attuativa) e che si riferiscono ad oggetti contigui o connessi quali l’«ecosistema», il «paesaggio», i «beni ambientali», i «beni paesaggistici», nonché – almeno da un particolare punto di vista – i «beni culturali».

2.1.1. La nozione di «paesaggio» Se si muove dalla nozione di «paesaggio», che trova espressa

menzione nella fondamentale disposizione di principio contenuta nell’art. 9 Cost., va anzitutto osservato che con la sentenza n. 196 del 200410, avente ad oggetto la legittimità costituzionale dell’ultimo condono edilizio straordinario disciplinato dal legislatore nazionale con l’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, la Corte costituzionale mostra in modo esplicito di aver ormai fatto propria – anche nei suoi termini semantici – una tesi che in dottrina ha origini remote e molto autorevoli e che concepisce il paesaggio come «forma del territorio e dell’ambiente».

10 Cfr., in particolare, il punto 23 del Considerato in diritto.

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Tale espressione è solo il più recente punto di emersione di un consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, la quale – pur negando sempre l’assimilabilità dell’interesse paesaggistico con l’interesse urbanistico11 – ha variamente affermato che la tutela del paesaggio «va intesa nel senso lato della tutela ecologica»12 e della «conservazione dell’ambiente»13; che essa è «basata primariamente sugli interessi ecologici e quindi sulla difesa dell’ambiente come bene unitario, pur se composto da molteplici aspetti rilevanti per la vita naturale e umana»14; che l’art. 9 Cost. «tutela il paesaggio-ambiente come espressione di principio fondamentale dell’ambito territoriale in cui si svolge la vita dell’uomo e si sviluppa la persona umana»15; che l’ordinamento giuridico impone «una tutela del paesaggio improntata ad integrità e globalità in quanto implicante una riconsiderazione dell’intero territorio nazionale alla luce del valore estetico-culturale del paesaggio, sancito dall’art. 9 Cost. e assunto come valore primario come tale»16.

Secondo l’impostazione della dottrina cui si faceva riferimento poc’anzi, il concetto di «paesaggio» dovrebbe essere fatto coincidere con «la forma del territorio, o dell’ambiente, creata dalla comunità umana che vi è insediata, con una continua interazione della natura e dell’uomo»; il paesaggio, dunque, «come processo creativo continuo, incapace di essere configurato come realtà o dato immobile», come «modo di essere del territorio nella sua percezione visibile», come «forma e immagine dell’ambiente», «come ambiente visibile, ma inscindibile dal non visibile»17. Come è stato efficacemente sintetizzato, «paesaggio viene così a coincidere con ambiente, o meglio, con la valenza culturale che si attribuisce al rapporto uomo-

11 Cfr., fra le molte, Corte cost. nn. 56 del 1968, 141 del 1972, 359 del 1985, 327 del 1990, 417 del 1995, 378 del 2000. 12 Così la sentenza n. 430 del 1990. 13 Così la sentenza n. 391 del 1989. 14 Così la sentenza n. 1029 del 1988. 15 Così le sentenze nn. 85 del 1998 e 378 del 2000. 16 Così la sentenza n. 417 del 1995; analogamente, cfr. le sentenze nn. 151 del 1986, 67 del 1992, 269 del 1993 e 46 del 1995. 17 Si tratta della ben nota tesi di A. PREDIERI, da ultimo sintetizzata nella voce Paesaggio, in Enc. dir., XXXI, Milano, Giuffrè, 1981, 503 ss., dove si riprendono le riflessioni già offerte sul finire degli anni sessanta (cfr. Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Milano, 1969; La regolazione giuridica degli insediamenti turistici e residenziali nelle zone alpine, in Foro amm., 1970, III, 359).

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ambiente»18, nella sua fisica percepibilità attraverso la forma del territorio. Ciò in perfetta coerenza con la collocazione costituzionale del paesaggio, nel secondo comma dell’art. 9, che lo individua al contempo come “prodotto” e come “presupposto” di quello «sviluppo della cultura» che il primo comma affida all’attività di promozione ad opera degli enti della Repubblica19.

Da questo punto di vista, conferme significative si rinvengono anche nel Codice dei beni culturali e del paesaggio approvato con il d.lgs. n. 42 del 2004, il quale, all’art. 131, per la prima volta fornisce una formulazione normativa del concetto di paesaggio, definendolo come «una parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni» e aggiungendo che «la tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili». La nozione risulta sostanzialmente confermata anche a seguito delle modifiche al testo del Codice introdotte con il d.lgs. n. 157 del 2006, dal quale oggi risulta che per paesaggio «si intendono parti di territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni», con ciò ponendosi in risalto la necessità che il paesaggio sia declinato al plurale in ragione della molteplicità e della ricchezza di storie, di culture, di relazioni antropiche che i caratteri morfologici dei territori italiani sono in grado di esprimere.

Le formule utilizzate dal legislatore del Codice riecheggiano in termini assai evidenti i contenuti della Convenzione europea sul paesaggio, aperta alla firma a Firenze nel dicembre 2000 e resa esecutiva in Italia con la recente legge n. 14 del 200620. L’art. 1 della Convenzione definisce il “paesaggio” come «una determinata parte di territorio, cosi come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro 18 Così, espressamente, F. MERUSI, Art. 9, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro Italiano, 1975, 445. 19 Sul rapporto sistematico che connota le due proposizioni dell’art. 9 e sulla “circolarità” dei rispettivi significati normativi, cfr., da ultimo, M. CECCHETTI, Art. 9, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario della Costituzione, Torino, UTET, 2006, ed ivi i necessari riferimenti storici e bibliografici. 20 Nel senso di una vera e propria «derivazione» della nozione di «paesaggio» dalla Convenzione europea, cfr., ad es., P. CARPENTIERI, Art. 131, in G. TROTTA, G. CAIA, N. AICARDI (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Nuove leggi civ. comm., 2006, 125.

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interrelazioni». Al paesaggio è riconosciuta espressamente una particolare valenza culturale-identitaria, di talché gli Stati contraenti si impegnano, tra l’altro, a «riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di via delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità» (art. 5), nella consapevolezza del fatto «che il paesaggio concorre all’elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa» (preambolo).

Nella medesima Convenzione, inoltre, si manifesta una concezione spiccatamente “globale” della tutela paesaggistica attraverso l’affermazione secondo la quale «il paesaggio è in ogni luogo un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni nelle area urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana» (preambolo), con la naturale conseguenza che la disciplina dell’azione pubblica concernente il paesaggio e contenuta nella Convenzione «si applica a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani» (art. 2).

In questa stessa logica si era senza alcun dubbio collocato il testo originario del Codice del 2004 laddove si individuavano l’ambito di operatività e i compiti prioritari del piano paesaggistico, strumento che – anche nel testo vigente – assume i caratteri di vero e proprio “centro del sistema” di tutela paesaggistica, in un rapporto con i tradizionali strumenti vincolistici che risulta ormai ribaltato21. Tale piano, in base alle previsioni anteriori alla novella del 2006 e contenute, in particolare, negli articoli 135, comma 1, e 143, comma 1, era elaborato su scala regionale e doveva concernere «l’intero territorio» della Regione ripartendolo «in ambiti omogenei, da quelli di elevato pregio paesaggistico fino a quelli significativamente compromessi o degradati», sulla base delle «caratteristiche naturali e 21 Così P. CARPENTIERI, Art. 135, in G. TROTTA, G. CAIA, N. AICARDI (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 138-139, il quale sottolinea come, nel nuovo Codice, il piano paesaggistico «da mero “contenitore” descrittivo dei perimetri delle aree e degli immobili sottoposti a vincolo e da semplice raccordo con la pianificazione urbanistica, diviene la sede della conoscenza e della programmazione degli obiettivi di tutela e della pianificazione delle misure di intervento e delle azioni di recupero e riqualificazione per conseguire il nuovo obiettivo di una salvaguardia dinamica per una qualità “diffusa” dei paesaggi, con effetti prescrittivi sovraordinati rispetto alla strumentazione urbanistica».

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storiche ed in relazione al livello di rilevanza e integrità dei valori paesaggistici»22.

Le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 157 del 2006, ad una prima lettura di superficie, potrebbero far pensare ad una attenuazione della connotazione della tutela paesaggistica in termini di “globalità”, soprattutto nella parte in cui – a fronte della eliminazione della richiamata previsione dell’art. 143, comma 1 – il nuovo comma 2 dell’art. 135 stabilisce che «i piani paesaggistici, in base alle caratteristiche naturali e storiche, individuano ambiti definiti in relazione alla tipologia, rilevanza e integrità dei valori paesaggistici» (sottolineato aggiunto), con ciò potendo lasciare intendere che l’individuazione degli ambiti, seguendo la tradizionale concezione “selettiva” della tutela del paesaggio affermatasi dapprima nella legge n. 1497 del 1939 e poi anche nella legge “Galasso” n. 431 del 1985, non debba necessariamente esaurire il territorio regionale nella sua interezza23.

Una riflessione più attenta, tuttavia, sembra poter smentire radicalmente una simile conclusione, conducendo, al contrario, ad una interpretazione delle nuove disposizioni codicistiche non soltanto nel senso di una conferma dell’impostazione originaria ma anche, forse, di una maggiore “messa a fuoco” delle specifiche implicazioni derivanti dalla concezione “globale” della tutela paesaggistica.

In questa direzione milita, anzitutto, un argomento di ordine sistematico: nell’art. 135, comma 1, risulta confermato che le Regioni approvano piani paesaggistici «concernenti l’intero territorio regionale», mentre l’art. 143, comma 1, prevede come fasi 22 La medesima impostazione poteva cogliersi già nell’«Accordo tra il Ministro per i beni e le attività culturali e le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sull’esercizio dei poteri in materia di paesaggio» del 19 aprile 2001, in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, 18 maggio 2001, n. 114, non a caso stipulato a pochi mesi di distanza dalla firma della Convenzione europea di Firenze del 2000. 23 Si consideri, ad esempio, che l’estensione della pianificazione paesaggistica a tutto il territorio, così come risultante nel testo originario del Codice del 2004, è valutata in termini alquanto critici da P. CARPENTIERI, Art. 131, cit., 126 ss., ma anche Art. 135, cit., 141, il quale sottolinea il rischio «di sfocare la specificità della materia e di appiattirla sul piano dell’urbanistica», ravvisando nelle scelte del Codice un elemento di contraddittorietà tra una concezione tradizionale della tutela paesaggistica, «fondata su un criterio selettivo di beni di pregio meritevoli di tutela», e «una concezione di tipo più “ambientale” o territorialista, rivolta alla tutela e alla valorizzazione di vaste aree definite in base a criteri aprioristici morfologico ubicazionali, di tipo geografico (legge “Galasso”), oppure, addirittura, dell’intero territorio».

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“necessarie” della elaborazione del piano, oltre alla «individuazione degli ambiti paesaggistici di cui all’art. 135» (lett. d) e alla «definizione di prescrizioni generali ed operative per la tutela e l’uso del territorio compreso negli ambiti individuati», la «ricognizione dell’intero territorio, considerato mediante l’analisi delle caratteristiche storiche, naturali, estetiche e delle loro interrelazioni e la conseguente definizione dei valori paesaggistici da tutelare, recuperare, riqualificare e valorizzare» (lett. a); l’«analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio attraverso l’individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio …» (lett. c); l’«individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate …» (lett. g); l’«individuazione delle misure necessarie al corretto inserimento degli interventi di trasformazione del territorio nel contesto paesaggistico, alle quali debbono riferirsi le azioni e gli investimenti finalizzati allo sviluppo sostenibile delle aree interessate» (lett. h).

L’insieme di queste previsioni rende del tutto evidente come il piano paesaggistico si configuri quale strumento non soltanto fondato sulla preventiva ricognizione e sull’analisi di tutto il territorio regionale ma anche contenente specifiche disposizioni e misure conformative degli interventi di trasformazione e degli usi ammissibili dello stesso territorio nella sua interezza, con la conseguenza che l’individuazione degli ambiti paesaggistici – sia pure in una logica inevitabilmente “selettiva” di differenziazione dei contesti, dei patrimoni e dei valori da salvaguardare o da promuovere che nel nuovo testo appare meglio specificata – non potrà implicare l’esclusione in radice di parti più o meno estese del territorio considerate quali “non-paesaggi” in quanto prive di qualunque sia pur minimo rilievo paesaggistico.

A sostegno di tale lettura può essere invocato anche un argomento più forte, fondato sul canone dell’interpretazione costituzionalmente orientata. Tralasciando il riferimento all’art. 9 Cost. e all’evoluzione che il significato di “paesaggio” ha subito nella giurisprudenza costituzionale e nella dottrina richiamate nelle pagine che precedono, appare sufficiente considerare l’art. 117, primo comma, Cost., laddove impone ai legislatori statale e regionali – come parametro di legittimità costituzionale – il vincolo del rispetto degli obblighi internazionali, in relazione alle già citate previsioni della Convenzione europea sul paesaggio regolarmente ratificata e resa

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esecutiva in Italia con la legge n. 14 del 2006. In assenza di una esplicita “delimitazione” da parte dello Stato italiano in sede di firma o di deposito dello strumento di ratifica della Convenzione dei territori cui limitare l’applicazione della disciplina ivi contenuta, come previsto dall’art. 15 della stessa24, è inevitabile ritenere che un adempimento corretto (anche sotto il profilo della legittimità costituzionale interna) agli obblighi consapevolmente assunti dall’Italia con gli altri Paesi contraenti passi necessariamente dalla predisposizione di discipline di tutela paesaggistica che siano applicabili a tutto il territorio nazionale e che, in particolare, consentano di soddisfare l’esigenza di «identificare i propri paesaggi, sull’insieme del proprio territorio», in ossequio a quanto stabiliscono, senza possibilità di equivoco, gli artt. 2 e 6 della Convenzione.

In sintesi, dunque, il piano paesaggistico deve essere considerato come strumento espressamente chiamato a considerare l’intero territorio25, in piena sintonia con quel significato costituzionale ampio del «paesaggio» inteso come «forma del territorio e dell’ambiente» sul quale, come si è sottolineato, convergono tanto la dottrina maggioritaria quanto la giurisprudenza costituzionale.

Se si accoglie questo significato della nozione costituzionale di «paesaggio», sembra possibile disporre di un primo punto di riferimento certo per mettere in evidenza le differenze sostanziali con le altre nozioni che debbono essere qui considerate.

2.1.2. Le nozioni di «ambiente» e di «ecosistema» Il problema definitorio si atteggia in termini ben più complicati

con riferimento alla nozione di «ambiente». Con il termine «ambiente» si è soliti identificare un concetto

tendenzialmente macroscopico e di difficile predeterminazione, 24 L’art. 15, comma 1, stabilisce: «Ogni Stato o la Comunità Europea può, al momento della firma o al momento del deposito del proprio strumento di ratifica, accettazione, approvazione o di adesione, designare il territorio o i territori in cui si applicherà la presente Convenzione». 25 Sottolinea specificamente questo aspetto, seppure in relazione a quanto risultante dal testo originario del Codice del 2004, da ultimo, Corte cost. n. 51 del 2006, punto 5 del Considerato in diritto (ma cfr., nel precedente regime, già Corte cost. n. 36 del 1995). In dottrina il dato è considerato pacifico, ad es., da D.M. TRAINA, Le competenze degli enti territoriali, in Giust. amm., 2004, www.giustamm.it, 6.

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connotato da una intrinseca complessità strutturale dovuta soprattutto al suo carattere poliedrico e multidimensionale. Quando, infatti, si utilizza il concetto di «ambiente» è inevitabile la considerazione di almeno tre dimensioni: la dimensione relazionale tra più fattori sia naturali che antropici (si pensi alla stessa etimologia del termine «ambiente», come «ciò che fascia, circonda un determinato soggetto o essere o cosa»26); la dimensione spaziale o geografico-territoriale, che impone di specificare sempre a quale dei molti “ambienti” si intenda fare riferimento (globale, regionale, locale, a seconda che si consideri l’intera biosfera o singoli ecosistemi); la dimensione temporale o diacronica, che rivela l’esigenza ineludibile di adottare una prospettiva dinamica che sia in grado di rappresentare in modo adeguato la continua evoluzione e i mutamenti delle “relazioni ambientali”, le quali “vivono” in quanto coinvolgono necessariamente esseri viventi.

Anche attraverso queste semplici constatazioni, si comprendono facilmente le ragioni per le quali l’interesse alla tutela dell’ambiente – considerato nel suo complesso, ossia, come si vedrà più avanti, in una logica unitaria e sistemica e non semplicemente nelle sue diverse componenti parcellizzate – finisce per atteggiarsi, in astratto, come interesse intrinsecamente composito, plurisenso, polivalente, per certi aspetti eterogeneo o comunque tale da comprendere aspetti eterogenei. Si tratta, in sostanza, di un interesse dal contenuto sfuggente, non rigidamente delimitato o delimitabile a priori, non formulabile mai in modo esaustivo e che sembra potersi definire esclusivamente in concreto e soltanto attraverso complesse e ragionevoli ponderazioni tra una molteplicità di elementi, frutto del retto combinarsi di apporti tecnico-scientifici e di opzioni squisitamente “politiche”.

Di fronte ad un oggetto così configurato, i tentativi di individuare una nozione di «ambiente», che risultasse utile e apprezzabile in termini giuridici, sono sempre radicalmente falliti e da tempo tanto i legislatori quanto la giurisprudenza sembrano correttamente avervi rinunciato; appare pressoché impossibile, infatti, uscire dall’alternativa tra definizioni corrette sotto il profilo della completezza, ma troppo ampie per risultare di una qualche utilità, e definizioni che cercano di risultare più “chiuse” e delimitate, ma che

26 Così A. PREDIERI, Paesaggio, cit., 508.

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per questo si rivelano inevitabilmente parziali o, più spesso, meramente descrittive di una pluralità di oggetti di tutela.

Anche la dottrina sembra ormai concorde sull’inutilità della ricerca a tutti i costi di una nozione giuridica di «ambiente». Opportunamente è stato messo in evidenza come le caratteristiche oggettive dell’ambiente possano essere rappresentate in modo più efficace, sotto il profilo definitorio, se il giurista accetta di adottare un approccio “umile” e interdisciplinare che si mostri aperto al contributo delle scienze ecologiche27. Solo così sembra possibile conciliare le due opposte esigenze: di disporre di una nozione sufficientemente completa e significativa, che rappresenti in modo efficace il nucleo essenziale e le peculiarità dell’oggetto della tutela; ma, al tempo stesso, di riconoscere i limiti della scienza giuridica e del linguaggio normativo, che risultano impotenti di fronte ad un concetto ontologicamente indeterminabile in astratto e di per sé non riducibile in enunciati prescrittivi.

In questa prospettiva, debbono essere prese in considerazione soprattutto la nozione di «ecosistema» (come insieme nel quale esiste uno stato di equilibrio, autonomo rispetto agli altri ecosistemi) – espressione che, come detto, compare oggi espressamente nel testo costituzionale – e quella di «biosfera» (come combinazione di tutti gli ecosistemi), in quanto costituiscono il momento di sintesi delle diverse forme di vita e dei diversi fattori ambientali, da distinguere, questi ultimi, in abiotici e biotici. Grazie alle elaborazioni dell’ecologia, che ricostruisce l’ambiente come «l’insieme delle condizioni fisico-chimiche e biologiche che permette e favorisce la vita degli esseri viventi», è dunque possibile dare alla nozione di «ambiente» un significato autonomo ed unitario, riconoscendo che esso consiste nell’«equilibrio ecologico, di volta in volta, della biosfera o dei singoli ecosistemi di riferimento» e che dunque la tutela dell’ambiente deve essere intesa, in buona sostanza, come «tutela dell’equilibrio ecologico della biosfera o degli ecosistemi considerati».

Ovviamente, il riferimento alla tutela degli equilibri ecologici della biosfera e dei singoli ecosistemi non può essere inteso come esclusivamente rivolto agli “ambienti naturali”. Come sottolinea la medesima dottrina cui si deve la paternità della prospettiva qui considerata, «della biosfera e degli ecosistemi fa parte l’uomo e ne

27 Si tratta della nota prospettiva da tempo suggerita da B. CARAVITA (da ultimo, cfr. ID., Diritto dell’ambiente, Bologna, Il Mulino, 2005, 22 ss.).

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fanno parte ambienti costruiti e strutturati dall’uomo e dagli esseri viventi; l’equilibrio ecologico non è dunque quello di ambienti irrealisticamente “naturali”, ma quello delle situazioni concrete dove l’uomo e gli esseri viventi operano e così come lo hanno nei secoli e nei millenni strutturato»28.

A questo punto dovrebbe risultare con chiarezza la differenza tra la nozione di «ambiente» e quella sopra illustrata di «paesaggio».

Nel caso dell’ambiente, il rapporto uomo-natura che viene preso in considerazione risulta comprensivo anche degli aspetti non fisicamente percepibili attraverso la forma del territorio, essendovi connaturato il costante riferimento all’intero insieme delle condizioni di vita degli esseri viventi e particolarmente dell’uomo. «Ambiente», pertanto, è senz’altro concetto più ampio di «paesaggio», in quanto considera, almeno in parte, il rapporto uomo-natura non necessariamente limitato agli aspetti fisicamente percepibili e ai quali sia riconosciuta rilevanza culturale per la collettività umana che si trovi insediata in un determinato territorio.

Se si applicano in concreto queste considerazioni all’interpretazione del testo costituzionale vigente, la conseguenza che sembra derivarne con maggiore plausibilità è che la tutela del paesaggio – al di là del già richiamato valore “culturale-identitario” che ad essa è ineliminabilmente connesso (art. 9 Cost.) – deve necessariamente considerarsi ricompresa nell’ambito della più generale espressione «tutela dell’ambiente» utilizzata nell’art. 117 della Costituzione ai fini del riparto di competenze tra gli enti della Repubblica29.

La considerazione della tutela del paesaggio come una delle componenti della più ampia tutela dell’ambiente risulta supportata, non soltanto dalla giurisprudenza costituzionale già menzionata, ma anche da quanto significativamente emerge, sul piano dell’ordinamento comunitario (nonché a livello internazionale), in relazione ad alcuni dei più rilevanti istituti della tutela dell’ambiente come la valutazione d’impatto ambientale, da un lato, e l’accesso alle

28 Ibidem, 25. 29 In questo senso, cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 14 dicembre 2001, n. 9, in Cons. St., 2001, I, 2585 ss. In dottrina, cfr. M. CECCHETTI, L’ambiente tra fonti statali e fonti regionali alla luce della riforma costituzionale del Titolo V, in U. DE SIERVO (a cura di), Osservatorio sulle fonti 2001, Torino, Giappichelli, 2002, 273. Della stessa opinione è G.F. CARTEI, Il paesaggio, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, IV, Milano, Giuffrè, 2003, 2110 ss.

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informazioni ambientali, dall’altro. Se, infatti, si considera la nozione di ambiente sottesa alla definizione di «impatto ambientale» già accolta, a suo tempo, nella direttiva n. 85/337/CEE, non si può fare a meno di cogliere che essa è incentrata proprio sulla «interazione» tra una serie di fattori naturali e umani quali l’uomo, la fauna e la flora, il suolo, l’acqua, l’aria, il clima e, non a caso, il paesaggio30; similmente avviene in relazione alla definizione di «informazione ambientale» contenuta nella direttiva n. 2003/4/CE, laddove, all’art. 2, si fa riferimento a «lo stato degli elementi dell’ambiente, quali l’aria e l’atmosfera, l’acqua, il suolo, il territorio, il paesaggio e i siti naturali, compresi gli igrotopi, le zone costiere e marine, la diversità biologica e i suoi elementi costitutivi, compresi gli organismi geneticamente modificati, nonché le interazioni tra questi elementi».

L’ulteriore nozione di «ecosistema» – espressione che compare nel medesimo art. 117 Cost. a seguito della riforma di cui alla legge cost. n. 3 del 2001 – non può che essere intesa come elemento di maggiore specificazione, che vale ad evidenziare in modo autonomo le restanti peculiarità dell’«ambiente» come oggetto di tutela giuridica, dando risalto alla necessità che – prima di tutto da parte dei poteri pubblici – si provveda a garantire il mantenimento degli “equilibri ecologici” che si instaurano tra i fattori fisici, chimici e biologici che permettono e favoriscono la vita di tutti gli esseri

30 Cfr. l’art. 3 della direttiva 27 giugno 1985, n. 85/337/CEE, (Direttiva del Consiglio concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati). In seguito, si veda il vigente art. 3 della direttiva del Consiglio del 3 marzo 1997, n. 97/11/CE (Modifica della direttiva 85/337/CEE concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati), dove tra i fattori la cui interazione deve essere valutata per l’individuazione dell’impatto ambientale vengono esplicitamente compresi anche i «beni materiali» ed il «patrimonio culturale». Pressoché analoghe alle due disposizioni comunitarie risultano la definizione di «impatto [ambientale]» contenuta nella Convention on Environmental Impact Assessment in a Transboundary Context, (Espoo) 25 febbraio 1991, art. 1 (VII), nonché la definizione di «impatto transfrontaliero» contenuta nella Convention on the Protection and Use of Transboundary Watercourses and International Lakes, (Helsinki) 17 marzo 1992, art. 1, par. 2. Nello stesso senso, si veda la Convention on Civil Liability for Damage Resulting from Activities Dangerous to the Environment, (Lugano) 21 giugno 1993, art. 2, par. 10, dove si afferma che l’«ambiente» comprende «natural resources both abiotic and biotic, such as air, water, soil, fauna and flora and the interaction between the same factors; property which forms part of the cultural heritage; and the characteristic aspects of the landscape».

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viventi, indipendentemente o comunque a prescindere da una specifica interazione con l’uomo31.

In questi termini, la questione del rapporto tra tutela dell’ambiente e dell’ecosistema da un lato e tutela del paesaggio dall’altro, con specifico riferimento alla corretta interpretazione con cui assumere le due nozioni che compaiono nella lettera s) dell’art. 117, secondo comma, Cost., ai fini del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni, potrebbe apparire in gran parte chiarita.

Tuttavia, occorre avvertire sin da ora che il problema non può, allo stato della presente riflessione, ritenersi risolto in via definitiva; correttamente, infatti, non può essere trascurato il vasto e autorevole orientamento della dottrina che, come si vedrà, soprattutto dopo la emanazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, tende a ricondurre le nozioni di «paesaggio» e di «beni paesaggistici» all’espressione «beni culturali» di cui al medesimo art. 117 Cost., proprio in nome di quella più volte sottolineata valenza “culturale-identitaria” che intrinsecamente connota tutti gli oggetti contemplati nell’art. 9 Cost. Se dunque per esprimere un’opinione definitiva sul problema fin qui affrontato è necessario sottoporre a verifica le tesi appena menzionate, sicuramente preliminare è l’analisi delle ulteriori nozioni che compaiono nella Carta costituzionale e, in particolare, della nozione di «bene culturale».

2.1.3. Le nozioni di «beni ambientali» e di «beni paesaggistici»

31 Al riguardo, cfr. l’opinione di P. CARPENTIERI, Art. 131, cit., 131, nt. 26, il quale riconosce in termini espliciti «che il legislatore costituzionale del 2001 ha mostrato chiaramente di intendere per “tutela dell’ambiente” e per “beni ambientali” essenzialmente la tutela del paesaggio e i beni paesaggistici, come si evince dagli stilemi “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali” adoperati, rispettivamente, nella lett. s) del comma 2° dell’art. 117 e nel successivo comma 3°. (…) La distinta menzione della tutela dell’ecosistema si giustifica in relazione alla nozione di ambiente-quantità, riferita all’ecologia in senso proprio». In termini analoghi si esprime anche N. AICARDI, Art. 3, in G. TROTTA, G. CAIA, N. AICARDI (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Nuove leggi civ. comm., 2005, 1064, nt. 3, il quale riconosce che la materia «tutela dell’ambiente», «anche in quanto menzionata separatamente rispetto alla materia “tutela (…) dell’ecosistema”, concerne, ragionevolmente, l’ambiente in senso morfologico o ubicazionale, e quindi parrebbe astrattamente idonea a comprendere anche i beni paesaggistici».

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Con riferimento alle nozioni di «beni ambientali» e di «beni paesaggistici», va anzitutto rilevato che l’espressione «beni ambientali» – che oggi compare esplicitamente nel testo costituzionale all’art. 117, terzo comma – è stata radicalmente e integralmente sostituita nel Codice del 2004 dal concetto di «beni paesaggistici»; di talché – anche in forza del chiaro disposto contenuto nella delega legislativa che affidava al Governo l’opera di «codificazione»32 – non è difficile sostenere che, nella lettura combinata dell’art. 117 Cost. e del Codice, pure in assenza di uno specifico coordinamento, beni ambientali e beni paesaggistici finiscano in tutto e per tutto per coincidere33.

In termini di diritto positivo, l’espressione «beni ambientali» trova origine a metà degli anni settanta, dapprima nel d.l. n. 657 del 1974, convertito in legge dalla legge n. 5 del 1975, sull’istituzione del Ministero per i beni culturali e ambientali, successivamente nell’art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977, sulla delega alle Regioni delle funzioni amministrative in materia; in entrambi i casi, la nozione è utilizzata con riferimento alle «bellezze naturali» contemplate dalla legge n. 1497 del 193934. Successivamente, con l’art. 148 del d.lgs. n. 112 del

32 Cfr. l’art. 10, comma 1, lett. a), della legge n. 137 del 2002, che espressamente delegava il Governo alla codificazione delle disposizioni legislative «in materia di beni culturali e ambientali». 33 Nel senso della “abolizione” della formula lessicale «beni ambientali» e della sua “sostituzione” con quella di «beni paesaggistici», cfr. P. CARPENTIERI, Art. 131, cit., 124-125 (ma anche, Art. 134, ivi, 138), anche se l’A. riconduce tale operazione alla necessità di superare le ambiguità derivanti dalla precedente normativa circa la «mancata delimitazione della materia paesaggistica rispetto a quella del diritto dell’ambiente». Al contrario, sembra ammettere la permanenza di una autonoma categoria di beni qualificabili come «beni ambientali» e distinti dai «beni paesaggistici» (ai quali soltanto andrebbe riconosciuto il segno distintivo del valore culturale) G. CAIA, Art. 2, in G. TROTTA, G. CAIA, N. AICARDI (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 1061-1062. 34 L’art. 1 di questa legge – oggi integralmente ripreso dall’art. 136 del Codice sotto il titolo «Immobili ed aree di notevole interesse pubblico», con la sola aggiunta (ad opera del d.lgs. n. 157 del 2006) dell’espresso riferimento alle «zone di interesse archeologico» – annoverava tra le «bellezze naturali»: «1) le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica; 2) le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose di interesse artistico o storico, si distinguono per la loro non comune bellezza; 3) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale; 4) le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze».

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1998 (ancora in tema di conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle autonomie regionali e locali), il legislatore statale fornisce una definizione esplicita dei «beni ambientali»: con la precisazione che la definizione vale «ai fini del presente decreto»35, i «beni ambientali» vengono qualificati come «quelli individuati in base alla legge quale testimonianza significativa dell’ambiente nei suoi valori naturali o culturali», risultando così sancito, in definitiva, il rapporto di diretta derivazione di tale nozione da quella costituzionale di «paesaggio» nella sua accezione più ampia di «forma e immagine visibile dell’ambiente» espressiva del connubio inscindibile tra uomo e natura e dell’intrinseca valenza “estetico-culturale” che assume tale connubio.

I «beni ambientali» – tra i quali poco più tardi il d.lgs. n. 490 del 1999 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali) ricomprende in termini espliciti sia le antiche «bellezze naturali» sia le aree e porzioni di territorio sottoposte a tutela dalla legge n. 431 del 1985 in ragione del loro interesse paesaggistico (art. 138) – rappresentano dunque, per così dire, una “selezione” del più ampio concetto di paesaggio, costituita da ciò che dalla legge o in base alla legge venga considerato «testimonianza significativa» e che perciò risulti meritevole di un particolare regime di tutela vincolistica. Ed è con questo significato originario, verosimilmente, che la nozione entra anche nel testo costituzionale, attraverso la legge cost. n. 3 del 2001, laddove il nuovo art. 117, terzo comma, elencando le materie attribuite alla potestà legislativa concorrente delle Regioni, contempla espressamente la materia della «valorizzazione dei beni ambientali»36.

Come accennato, la più recente evoluzione legislativa mostra, tuttavia, l’abbandono del riferimento ai «beni ambientali» e la sua vera e propria sostituzione (mediante l’abrogazione delle precedenti definizioni) con l’espressione «beni paesaggistici». In questo senso si collocano sia il d.lgs. n. 3 del 2004, sulla riorganizzazione del

35 Ma anche il successivo d.lgs. n. 368 del 1998 sull’istituzione del nuovo Ministero per i beni e le attività culturali, all’art. 1, comma 2, rinvia espressamente a questa definizione. 36 Si tenga presente che il riferimento esplicito ai «beni ambientali» compare anche negli atti normativi di riorganizzazione del nuovo Ministero per i beni e le attività culturali adottati sul finire degli anni novanta (cfr. il già richiamato d.lgs. n. 368 del 1998 e il d.lgs. n. 300 del 1999, art. 52 ss.).

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Ministero per i beni e le attività culturali37, sia soprattutto il Codice dei beni culturali e del paesaggio, nel quale i «beni paesaggistici» vengono definiti come specifici immobili o aree selezionate dal paesaggio ad opera della legge o in base alla legge, in ragione del loro particolare valore paesistico – cioè in quanto «costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio» – e vengono distinti in tre categorie38: le antiche «bellezze naturali» della legge n. 1497 del 1939; le aree di interesse paesaggistico della c.d. «legge Galasso» n. 431 del 1985; «gli immobili e le aree comunque sottoposti a tutela dai piani paesaggistici», previsione quest’ultima riformulata dal recente d.lgs. correttivo n. 157 del 2006 nella seguente: «gli immobili e le aree tipizzati, individuati e sottoposti a tutela dai piani paesaggistici previsti dagli articoli 143 e 156»39.

A ciò debbono aggiungersi, per completare il quadro, le previsioni contenute nell’art. 2, comma 1, del Codice, secondo cui i beni paesaggistici costituiscono, assieme ai beni culturali, «il patrimonio culturale», nonché nell’art. 1, comma 2, in base al quale «la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura».

Dagli elementi fin qui evidenziati sembra dunque possibile concludere che, in base all’attuale legislazione, il «paesaggio» di cui all’art. 9 Cost. finisce per corrispondere – per dimensione spaziale – all’intero territorio nazionale, distinguibile per ambiti definiti dotati di peculiari caratteri distintivi, corrispondenti ad altrettanti “paesaggi” declinati al plurale, e che, nell’ambito di questi ultimi, siano selettivamente individuati o individuabili (in quanto espressivi dei valori culturali paesaggistici in termini di particolare pregio)

37 In realtà, il riferimento ai «beni paesaggistici» compariva già, come una sorta di sinonimo dei «beni ambientali», nell’art. 6 del d.lgs. n. 368 del 1998, laddove si individuavano i settori di competenza degli uffici dirigenziali generali del Ministero. 38 Cfr. l’art. 2, comma 3, del Codice, ma anche gli artt. 134 ss. 39 Sulla qualificazione di quest’ultima previsione – sia pure nella sua originaria versione del 2004 – come una delle più rilevanti novità del Codice, in quanto individuante un vero e proprio “tertium genus” di beni paesaggistici rispetto alle categorie di beni fatti oggetto dei vincoli tradizionali (provvedimentali od ope legis), concorda P. CARPENTIERI, Art. 134, cit., 137, il quale vi legge uno dei principali segnali «della progressiva integrazione e fusione tra misure vincolistiche e strumenti pianificatori». Contra, G.F. CARTEI, Art. 134, in M. CAMMELLI (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Bologna, Il Mulino, 2004, 517.

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specifiche aree o immobili qualificabili come «beni paesaggistici» e destinati ad essere caratterizzati da particolari misure di tutela e da un particolare regime d’uso40. Resta, peraltro, il mancato coordinamento esplicito della disciplina normativa con la categoria dei «beni ambientali» utilizzata nell’art. 117 della Costituzione per il riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni, categoria che, attualmente, deve senz’altro essere ritenuta corrispondente a quella dei «beni paesaggistici» così come integrata e ampliata dal nuovo Codice.

2.1.4. La nozione di «bene culturale» e il peculiare problema dei confini con le altre nozioni

A questo punto può essere compiutamente affrontato il

problema cui sopra si è fatto cenno circa il rapporto tra la nozione di «bene culturale» e le nozioni di «paesaggio» e di «beni paesaggistici», particolarmente in funzione di predisporre le basi per una corretta interpretazione del riparto di competenze tra Stato e Regioni disegnato nella Carta costituzionale di cui si discorrerà più avanti.

In base alle disposizioni contenute nel Codice dei beni culturali e del paesaggio e nell’art. 117 Cost., si può ritenere che il concetto di «bene culturale» sia da considerare senz’altro distinto da quelli di «paesaggio» e di «bene paesaggistico».

La definizione offerta oggi dal Codice (art. 2, comma 2) qualifica i beni culturali, nella loro essenza, come le «cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà», distinguendoli nettamente – mediante definizioni diverse e non sovrapponibili – dai beni paesaggistici (art. 2, comma 3) e dal paesaggio nella sua interezza (art. 131), nel solco – sembrerebbe potersi dire – di una consolidata tradizione che ha sempre avversato l’originaria prospettiva avanzata dalla Commissione Franceschini 40 Cfr., al riguardo, la diversa opinione di P. CARPENTIERI, Art. 131, cit., 126, secondo cui il rapporto tra «paesaggio» e «beni paesaggistici» finisce per atteggiarsi in termini di pressoché totale immedesimazione. L’A., infatti, sostiene che il concetto di paesaggio individuato nel Codice sia «la forma sintetica» del concetto di beni paesaggistici e che la definizione di questi ultimi sia «l’espressione analitica» del primo, aggiungendo che paesaggio «è il carattere (o la forma) impressa al territorio dalla presenza di beni paesaggistici e che deriva dalla natura e dalla storia umana e dalla reciproche interrelazioni», in quanto «il paesaggio “esprime” “valori”, valori che sono, per l’appunto, quelli propri dei beni paesaggistici, come indicati dall’art. 2, comma 3°».

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negli anni sessanta di accogliere in una comune nozione di bene culturale i beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario41.

La tesi appena enunciata, anche in forza di quanto si è già ripetutamente sottolineato nei paragrafi precedenti, non intende in alcun modo negare il valore “culturale” del paesaggio e dei beni paesaggistici ricavabile dall’art. 9 Cost.; valore che appare pienamente compatibile con la riconduzione di tali oggetti al concetto costituzionale di «ambiente» (nella sua “forma” esteriore fisicamente percepibile e culturalmente connotata) e che trova una chiara espressione nel Codice, laddove l’art. 2 accomuna i beni paesaggistici e i beni culturali nell’ambito della nozione unitaria di «patrimonio culturale». Del resto, la distinzione concettuale dei beni paesaggistici dai beni culturali trova sicura conferma nell’art. 117, terzo comma, Cost., che mostra in modo espresso come il testo costituzionale apprezzi la differenza concettuale tra i «beni culturali» e i «beni ambientali» (oggi, come si è visto, denominati nel codice «beni paesaggistici») quando contempla la materia di potestà legislativa concorrente relativa alla loro «valorizzazione».

Pertanto – a meno di non voler ammettere l’assurdo di identificare nella «tutela del paesaggio e dei beni paesaggistici o ambientali» una materia innominata, come tale spettante alla potestà legislativa residuale delle Regioni ai sensi del quarto comma dell’art. 117 – sembra di assoluta evidenza che, nell’ambito della lett. s) del secondo comma dello stesso art. 117, la «tutela del paesaggio e dei beni paesaggistici o ambientali» non può essere ricompresa nell’espressione «tutela dei beni culturali» bensì nell’espressione «tutela dell’ambiente»42.

41 Sotto la rubrica «Patrimonio culturale della Nazione», la Dichiarazione I della Commissione affermava che «appartengono al patrimonio culturale della Nazione tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà», aggiungendo, al secondo comma, che «sono assoggettati alla legge i beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario, ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà» (sottolineato aggiunto; cfr., al riguardo, la Relazione conclusiva dei lavori in Riv. trim. dir. pubbl., 1966, 119 ss.). 42 Nella recente sentenza n. 51 del 2006, la Corte costituzionale, sia pure ancora con qualche ambiguità, afferma che la materia «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione è «comprensiva tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni ambientali o culturali», con ciò chiarendo definitivamente che la «tutela del

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Si è detto, peraltro, che – soprattutto a seguito dell’approvazione del Codice – un autorevole (e, in qualche modo, variegato) indirizzo della dottrina sostiene invece la riconducibilità del «paesaggio» e dei «beni paesaggistici» entro la categoria dei «beni culturali» così come essa è utilizzata nel testo costituzionale43. La tesi, nella sua formulazione più compiuta e analitica, sembrerebbe fondata essenzialmente su cinque argomenti, tutti ricavati da elementi normativi già evidenziati nelle pagine che precedono:

a) la scelta del Codice di introdurre la nozione di «beni paesaggistici» andrebbe intesa come «superamento» della «più generica qualificazione degli stessi come “beni ambientali”», nozione quest’ultima che la Costituzione distingue da quella di «beni culturali»;

b) la definizione dei «beni paesaggistici» contenuta nell’art. 2, comma 3, del Codice, secondo la quale tali beni costituiscono «espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio», varrebbe a sottolineare che essi «sono tutelati non in quanto entità di tipo meramente geografico-territoriale, ma in quanto entità in cui gli elementi naturali e morfologici si arricchiscono di tratti storici, culturali e/o estetici, in varia combinazione tra loro»;

c) la definizione del «paesaggio» che si rinviene nell’art. 131 del Codice, laddove si afferma che esso esprime valori «quali paesaggio e dei beni paesaggistici o ambientali» non può essere considerata materia di potestà residuale regionale, ma anche – a quanto sembra – che il «paesaggio» e i «beni ambientali» non possono essere confusi con i «beni culturali». 43 Decisamente in questo senso, si vedano, soprattutto: G. CAIA, Art. 2, cit., 1061-1062; G. TROTTA, Premessa sistematica, in G. TROTTA, G. CAIA, N. AICARDI (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 1048; P. UNGARI, Art. 158, in G. TROTTA, G. CAIA, N. AICARDI (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Nuove leggi civ. comm., 2006, 222; V. MILANI, Il paesaggio, in Giorn. dir. amm., 2004, n. 5, 486 ss.; F. MISCIOSCIA, I beni paesaggistici, in M.A. CABIDDU-N. GRASSO, Diritto dei beni culturali e del paesaggio, Torino, Giappichelli, 2004, 289. Con sfumature diverse e minore perentorietà, cfr., inoltre, G. SEVERINI, I principi del codice dei beni culturali e del paesaggio, in Giorn. dir. amm., 2004, n. 5, 473, nonché D.M. TRAINA, Le competenze degli enti territoriali, cit., 3, il quale, pur riconoscendo la inscindibilità della valenza ambientale e della valenza culturale del paesaggio, con il che esso si collocherebbe a cavallo tra ambiente e beni culturali o meglio andrebbe «ricondotto all’una o all’altra materia a seconda delle finalità a cui è orientata la disciplina di cui forma oggetto», conclude che «non potendo scindere i due profili ai fini della collocazione costituzionale, in ultima analisi deve assegnarsi prevalenza a quelli culturali, essendo ormai acquisito (…) che il paesaggio contribuisce a formare l’identità della comunità insediata in un territorio».

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manifestazioni identitarie percepibili», confermerebbe che trattasi di valori legati non soltanto alle «caratteristiche fisico-strutturali dei beni tutelati (e valorizzati)», ma anche ad un «giudizio – di carattere storico, culturale ed estetico – che consenta di riconoscere in detti beni l’attitudine ad essere testimonianza percepibile del legame identitario tra l’uomo ed il territorio di suo insediamento»;

d) l’affermazione di cui all’art. 1, comma 2, del Codice, secondo la quale «la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura», evidenzierebbe senza equivoci che anche le finalità di interesse pubblico delle funzioni concernenti tutti i beni facenti parte del patrimonio culturale – dunque anche i beni paesaggistici, ai sensi dell’art. 2, comma 1 – sono configurate come «finalità di carattere eminentemente culturale»;

e) «la riconduzione dei beni paesaggistici entro la sfera dei beni culturali» sarebbe, infine, dichiaratamente portata a termine dalla unificazione delle due specie di beni disciplinate dal Codice (beni culturali e beni paesaggistici) nell’unica categoria giuridica del «patrimonio culturale»; tale previsione, infatti, varrebbe a «fugare ogni dubbio circa la volontà del Codice di attrarre anche i beni paesaggistici nell’ambito materiale dei “beni culturali”, quale menzionato negli artt. 117 e 118 Cost.», dal momento che la categoria giuridica unitaria del patrimonio culturale servirebbe proprio «a consacrare l’appartenenza sia dei beni culturali sia dei beni paesaggistici ad un unico genus, quello del “patrimonio culturale”, il quale non può corrispondere, evidentemente, che all’ambito denominato “beni culturali” dalle norme costituzionali»44.

In realtà, tali argomenti si rivelano, a ben vedere, in parte erronei, in parte contraddittori rispetto al dato normativo positivo, in parte, comunque, non decisivi al fine di sostenere la riconduzione del paesaggio e dei beni paesaggistici entro l’espressione «beni culturali» utilizzata nel testo costituzionale45.

44 Gli argomenti appena illustrati sono tutti analiticamente esposti da G. CAIA, Art. 2, cit., 1061-1062. 45 L’unico argomento di diritto positivo a favore di tale tesi, peraltro non considerato dalla dottrina richiamata, potrebbe forse rinvenirsi nella recente legislazione sull’organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali, la quale, a fronte di una denominazione della struttura che (al contrario della precedente, intitolata ai «beni culturali e ambientali») distingue chiaramente i soli «beni culturali» dalle

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È senz’altro erroneo l’argomento fondato sul presunto “superamento” della nozione di «beni ambientali» ad opera della nuova qualificazione di «beni paesaggistici», qualora da ciò si voglia dedurre – come sembra – la perdurante sussistenza di beni qualificabili come «ambientali» (in base alla specifica menzione di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.) e distinti dai «beni paesaggistici» come individuati nel Codice. Lo stesso Autore cui si deve la prospettiva in esame, nel richiamare puntualmente tutta l’evoluzione normativa sull’utilizzo dell’espressione «beni ambientali»46, fornisce un evidente supporto alla tesi sostenuta da chi scrive, secondo la quale i beni paesaggistici del Codice non sarebbero altro che quei beni che le discipline legislative previgenti – e dunque, inevitabilmente anche il legislatore costituzionale del 2001 – avevano identificato come «ambientali».

Contraddittorio, invece, rispetto alle risultanze più esplicite del dato normativo, si rivela l’argomento secondo il quale la categoria unitaria del «patrimonio culturale» – costituita, secondo il Codice, sia dai beni culturali che dai beni paesaggistici – non potrebbe che corrispondere alla espressione «beni culturali» accolta in Costituzione. Di fronte ad un testo legislativo che, come si è osservato, fornisce espressamente la definizione di un concetto («beni culturali») menzionato nel testo costituzionale e di fronte al fatto che lo stesso testo legislativo è chiarissimo nel distinguere i «beni paesaggistici» dai «beni culturali» (così come fa, del resto, l’art. 117 Cost., quando contempla i «beni ambientali»), fornendone due definizioni diverse e, per lo stesso tenore letterale, non sovrapponibili, l’Autore è costretto ad effettuare una sorta di gioco di prestigio. Da un lato, deve

«attività culturali», affida a tale Ministero le competenze in materia di beni paesaggistici («beni ambientali» nel testo originario) (cfr. il d.lgs. n. 368 del 1998, il d.lgs. n. 300 del 1999, artt. 52 ss., nonché il d.lgs. n. 3 del 2004). Si tratta, tuttavia, di un argomento assai debole e formale, contraddetto oltretutto dalle disposizioni – contenute nei medesimi testi legislativi – che disciplinano l’organizzazione interna, centrale e periferica, del Ministero, le quali trattano i beni culturali e i beni paesaggistici come concetti distinti (cfr., ad es., l’art. 3, comma 2, l’art. 4 e l’art. 7 del d.lgs. n. 368 del 1998, nonché l’art. 54 del d.lgs. n. 300 del 1999). Sulle aporie e le incongruenze dell’organizzazione ministeriale in tema di ambiente, paesaggio e beni culturali, si veda, da ultimo, l’ampia ricostruzione di L. CARBONE, Ambiente, paesaggio e beni culturali e ambientali, in L’attuazione del Titolo V della Costituzione, Atti del L convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Milano, Giuffrè, 2005, spec. 284 ss. 46 V. G. CAIA, op. ult. cit., 1061, nt. 3.

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ammettere che nell’ordinamento convivano al contempo due nozioni distinte – l’una legislativa, l’altra costituzionale – di «beni culturali»: i beni culturali “in senso stretto” come species, e i beni culturali “in senso lato” come genus. Dall’altro, deve sostenere, con una evidente forzatura interpretativa, che la definizione di «beni culturali» fornita dal comma 2 dell’art. 2 del Codice valga a qualificare, in realtà, «il genus nel suo complesso e perciò, a ben vedere, il concetto di patrimonio culturale», con la conseguenza che essa includerebbe al suo interno anche i beni paesaggistici definiti nella specifica disposizione di cui al successivo comma 3, disposizione alla quale dovrebbe applicarsi il rinvio del comma 2 alle «altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà»47.

I restanti argomenti, fondati complessivamente sul riconoscimento, in base all’art. 9 Cost., dell’intrinseco e peculiare “valore culturale” del paesaggio e dei beni paesaggistici, non risultano affatto decisivi, in quanto – come si è già evidenziato – la tesi qui sostenuta della riconducibilità di queste nozioni alla materia della «tutela dell’ambiente» non vale in alcun modo ad escluderne la dimensione “culturale”48, ma vale primariamente a mettere in rilievo le scelte che lo stesso legislatore nazionale ha operato, in termini del tutto compatibili con il disegno costituzionale, trattando in modo distinto tali oggetti rispetto a ciò che si qualifichi propriamente come «bene culturale» e giustificandone così il diverso regime giuridico anche sotto il profilo del riparto delle competenze così come disegnato dalle norme del Codice49. 47 Ibidem, 1062. 48 Assai simile a quella qui sostenuta, quantomeno sotto il profilo dell’interpretazione delle espressioni utilizzate nell’art. 117 Cost., è la tesi di P. CARPENTIERI, La nozione giuridica di paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, 363 ss., passim, anche se l’A. da un lato non condivide fino in fondo la “dilatazione” della nozione di «ambiente», la quale – a suo giudizio – rischia di ingenerare confusione tra i ben distinti profili dell’ambiente e del paesaggio, dall’altro saluta con plauso la unificazione operata dal Codice con la nozione di «patrimonio culturale», che segnerebbe la «formale esplicitazione del principio dell’unitarietà della materia dei beni culturali» (a tale ultimo proposito, cfr., inoltre, ID., Art. 131, cit., 125 ss., dove l’A. afferma senza mezzi termini che il paesaggio «è prima di tutto un bene culturale; è un aspetto del territorio rilevante giuridicamente in quanto fenomeno della cultura», così sottolineandone «la specificità culturale» e ribadendo la propria convinzione circa «la netta distinzione tra paesaggio, ambiente e urbanistica»). 49 Si pensi, solo per fare un esempio, alla diversa disciplina dell’individuazione dei

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A tale ultimo riguardo, si potrebbe peraltro essere indotti a ritenere che, una volta ricondotta la tutela del paesaggio e dei beni paesaggistici alla «tutela dell’ambiente», ossia ad una materia attribuita alla potestà legislativa esclusiva dello Stato sulla base di quella stessa lett. s) del secondo comma dell’art. 117 Cost. che contempla la «tutela dei beni culturali», il problema della diversità di regime giuridico non abbia in fondo alcuna ragione di porsi sul piano del diritto costituzionale. È del tutto evidente, infatti, che se si muovesse dal presupposto secondo il quale la disciplina che la Costituzione stabilisce per il riparto di competenze sia sostanzialmente unitaria, la questione della collocazione del paesaggio nell’ambiente o nei beni culturali finirebbe per assumere, inevitabilmente, «una rilevanza poco più che definitoria»50.

In realtà, a dispetto di un dato testuale che sembrerebbe inequivoco nel senso di una simile conclusione, occorre rilevare che anche il regime costituzionale del riparto di competenze in relazione alla tutela dell’ambiente – come si cercherà di far emergere più avanti, nel capitolo 4 – presenta notevoli peculiarità e specificità sia sul piano della ricostruzione teorica sia sul piano della prassi ordinamentale sviluppatasi dopo la riforma del 200151. È questa la ragione che rende assolutamente cruciale, concreta e non relegabile tra le mere dispute accademiche la questione definitoria dei concetti qui presi in considerazione, ragione per la quale si è ritenuto utile soffermarsi analiticamente sulle diverse ricostruzioni suggerite in dottrina.

«beni paesaggistici» rispetto a quella dei «beni culturali» propriamente intesi: la prima, anche solo in parte, affidata alle Regioni attraverso lo strumento del piano paesaggistico, ai sensi degli artt. 134, comma 1, lett. c), e 143, comma 1, lett. i), del Codice; la seconda, invece, oggetto di riserva allo Stato ai sensi degli artt. 10 ss. del Codice. 50 Così D.M. TRAINA, Le competenze degli enti territoriali, cit., 3, il quale rileva che l’unica differenza sarebbe rinvenibile nella specifica disposizione dell’art. 118, terzo comma, Cost., espressamente rivolta alla materia della «tutela dei beni culturali» e non alla materia della «tutela dell’ambiente» (sui problemi interpretativi che suscita la ricostruzione del corretto significato di questa disposizione, si rinvia a M. CECCHETTI, Ambiente, paesaggio e beni culturali, in G. CORSO, V. LOPILATO (a cura di), Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, Parte speciale, I, Milano, Giuffrè, 2006, 408 ss.). 51 Sul punto, cfr. l’analoga opinione di G. CAIA, Art. 2, cit., 1062, il quale osserva come, in ordine al regime del riparto sia della potestà legislativa che della potestà amministrativa, «in sede interpretativa ed applicativa delle norme costituzionali, i due ambiti (tutela dei beni culturali e tutela dell’ambiente) non necessariamente sono fatti oggetto di trattamento identico».

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2.2. La qualificazione giuridica della tutela dell’ambiente: gli erronei tentativi di configurare il “diritto all’ambiente” e l’ambiente come “bene giuridico”

Se – come si è visto – quello della individuazione di una

nozione giuridica di «ambiente» si rivela, in fondo, un falso problema, ben diverso (perché ontologicamente irrinunciabile) è il ruolo che il diritto è chiamato a svolgere nella definizione della natura giuridica, ossia nella qualificazione in termini giuridici, dell’interesse alla «tutela dell’ambiente». Si tratta, in sostanza, di domandarsi quali vesti e quale natura giuridica assuma l’interesse alla tutela ambientale allorché l’ordinamento lo riconosca come giuridicamente rilevante.

Tra le diverse ricostruzioni che sono state prospettate in proposito, le più tradizionali tendono a riconoscere rilevanza giuridica alla tutela dell’ambiente da un lato come oggetto di vere e proprie situazioni giuridiche soggettive, variamente connotate (diritto soggettivo della persona, interesse diffuso, interesse collettivo, etc.) e tutte riconducibili alla generica formula del “diritto all’ambiente”, dall’altro come “bene giuridico”, utilizzando a tal fine il contributo della teoria dei beni giuridici elaborata nell’ambito delle discipline civilistiche.

In realtà, la capacità degli schemi e delle categorie giuridiche tradizionali di rappresentare e di contenere efficacemente le istanze collegate con l’esigenza di tutela dell’ambiente rivela tutti i suoi limiti, soprattutto con riferimento alle caratteristiche peculiari dell’oggetto della tutela che, come ricordato, non appare suscettibile di definizioni aprioristiche, valide in ogni circostanza e una volta per tutte, e che perciò necessita di una determinazione in concreto che risulti dinamica e frutto di una pluralità di interventi coordinati e bilanciati anzitutto sul piano politico e amministrativo. La molteplicità delle opzioni e la complessità delle soluzioni tecniche che consentono, in continuo, prima di “definire” e poi di “garantire” gli obiettivi di tutela dell’ambiente rendono pressoché impossibile e comunque inefficace la configurazione di situazioni giuridiche soggettive riferite all’ambiente nel suo complesso o la qualificazione di questo come bene giuridico determinato; il che presupporrebbe la possibilità di riferirsi a posizioni consolidate nel tempo, secondo una determinazione statica degli interessi da tutelare.

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La formula “diritto all’ambiente” va quindi intesa non già nel senso tecnico dell’esistenza di una pretesa soggettiva riferibile all’ambiente, bensì come formula sintetica per individuare un fascio di situazioni soggettive diversamente strutturate e diversamente tutelate. Mentre l’ambiente come equilibrio ecologico non è un bene appropriabile o un bene su cui si possano vantare situazioni soggettive individuali, giacché spetta al legislatore ed ai poteri pubblici, in primo luogo, soddisfare le aspettative di benessere e di qualità della vita connesse alla tutela dell’ambiente, è invece certamente ammissibile, in relazione ai singoli fattori ecologici o a singole aspettative differenziate, la configurazione di specifiche situazioni soggettive direttamente tutelabili, come, ad esempio, il diritto all’ambiente salubre (inteso come diritto alle condizioni minime di salubrità dell’ambiente), i diritti di partecipazione ai processi decisionali, i diritti all’informazione sullo stato dell’ambiente, sulle attività e sulle politiche che incidono sull’ambiente52.

2.3. La qualificazione della tutela dell’ambiente in termini di “valore costituzionale”

Il vero salto di qualità nella qualificazione giuridica

dell’ambiente può dirsi raggiunto solo in tempi relativamente recenti, attraverso la progressiva affermazione del rilievo costituzionale dell’interesse ambientale, che conduce, al termine di un lungo percorso evolutivo, alla configurazione della tutela dell’ambiente come “valore costituzionale”.

Nell’ambito dell’ordinamento italiano, considerata l’assenza nel testo della Costituzione del 1947 di disposizioni esplicitamente rivolte a contemplare la tutela dell’ambiente nel suo complesso, la qualificazione dell’interesse ambientale come interesse di rilievo costituzionale è risultato da attribuire al contributo interpretativo della giurisprudenza della Corte costituzionale e che ormai può senz’altro essere considerato come dato unanimemente condiviso.

La Corte utilizza, inizialmente, espressioni dal contenuto vago ed impreciso, per giungere, gradualmente, ad affermare, soprattutto dalla metà degli anni ottanta, la natura giuridica della tutela

52 Cfr., infra, cap. 3, par. 3.3.4.

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dell’ambiente come «valore fondamentale della collettività», in forza di un’interpretazione evolutiva degli artt. 9 e 32 Cost.53.

Nelle pronunce più recenti, dove la rilevanza costituzionale della tutela dell’ambiente come valore fondamentale dell’ordinamento viene richiamata come dato ormai quasi scontato54, la Corte mostra di aver maturato una concezione pienamente corretta e moderna dell’ambiente come oggetto di tutela giuridica, abbandonando definitivamente le logiche tradizionali della ricostruzione della rilevanza dell’ambiente in termini di situazioni giuridiche soggettive e ancorando, invece, la pluralità degli interessi connessi con gli equilibri ambientali al tessuto dei valori che contraddistinguono l’assetto costituzionale.

In questa ottica, la modernità emerge anche dalla consapevolezza che esprime la Corte con riferimento al carattere “polidimensionale” del valore costituzionale in questione; la tutela dell’ambiente, infatti, secondo il giudice delle leggi, è un valore che si configura come sintesi, in una visione globale ed integrata, di una pluralità di aspetti e di una serie di altri valori che attengono non soltanto ad interessi meramente naturalistici o sanitari, ma anche ad interessi culturali, educativi, ricreativi e di partecipazione, tutti caratterizzati dall’importanza essenziale che rivestono per la vita della comunità55.

Anche nell’ambito dell’ordinamento comunitario, per quanto si è già rilevato in precedenza56, si può ritenere che l’interesse per la tutela dell’ambiente abbia ormai assunto un vero e proprio rilievo costituzionale, grazie alle citate pronunce della Corte di giustizia e, soprattutto, ai progressivi interventi emendativi apportati, a partire dal 1986, al testo originario del trattato CEE (oggi trattato CE), cui si collegano i già richiamati riferimenti generali introdotti nel trattato UE.

Dei principali significati di queste disposizioni si cercherà di dare conto nel prosieguo della trattazione – e, in particolare, nel capitolo 3 – laddove saranno illustrati quelli che possono essere considerati i principî costituzionali per la tutela dell’ambiente. Per il

53 Si vedano, ad es., le sentenze nn. 167 e 210 del 1987, 1031 del 1988, 324 del 1989. 54 Cfr., ad es., dopo la riforma costituzionale del 2001, le sentenze nn. 407 e 536 del 2002, 96 e 222 del 2003, 259 del 2004, 214 del 2005, 182 del 2006. 55 In questo senso, cfr., in particolare, le sentenze nn. 302 e 356 del 1994. 56 Cfr., retro, par. 1.3.

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momento è sufficiente constatare che anche sul piano dell’ordinamento comunitario la tutela dell’ambiente ha assunto da tempo la qualificazione giuridica di “valore costituzionale”, tenendo conto, peraltro, di una doverosa precisazione: che le disposizioni costituzionali sulla tutela dell’ambiente contenute nei trattati comunitari presentano una caratteristica affatto peculiare rispetto al taglio che comunemente assumono le norme ambientali che si rinvengono nella maggior parte delle costituzioni nazionali. Si tratta, infatti, di disposizioni assai complesse e articolate, che individuano analiticamente gli obiettivi della tutela, i principî cui gli operatori e le istituzioni si devono ispirare, i parametri di riferimento per la predisposizione degli interventi, i criteri per impostare correttamente i rapporti tra l’interesse alla tutela dell’ambiente e gli altri interessi potenzialmente confliggenti. Tale caratteristica, tipica delle formulazioni “costituzionali” dell’ordinamento europeo, presenta l’indubbio vantaggio di rendere queste disposizioni particolarmente significative per la ricostruzione del sistema dei principî che dovrebbe ispirare – e al quale, di fatto, si ispirano – le concrete modalità di realizzazione e di attuazione del “valore costituzionale” rappresentato dalla tutela dell’ambiente.

2.4. Caratteri e implicazioni giuridiche del “valore costituzionale” La progressiva affermazione della tutela dell’ambiente come

interesse di rilievo costituzionale, sia sul piano dell’ordinamento interno sia sul piano dell’ordinamento comunitario, e la conseguente configurazione giuridica dell’ambiente come “valore costituzionale” risulta dunque ormai un dato definitivamente acquisito, tanto che tale acquisizione può senz’altro essere considerata «il “cuore” della disciplina costituzionale dell’ambiente»57.

La classificazione dell’interesse alla tutela dell’ambiente nell’ambito della tavola dei valori costituzionali si rivela pienamente conforme alle caratteristiche peculiari dell’oggetto della tutela e, in particolare, alla accertata impossibilità di fornirne una compiuta e soddisfacente definizione giuridica; i valori, infatti, come tali, non sono suscettibili di una definizione normativa a priori.

57 Così G. MORBIDELLI, Il regime amministrativo speciale dell’ambiente, in Studi in onore di Alberto Predieri, Milano, Giuffrè, 1996, 1133.

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L’individuazione dei valori – o, meglio, l’attribuzione della qualifica di “valore” ad un determinato principio, interesse, istituto, bene materiale o immateriale – è il risultato di un’operazione di “stima” che consiste sostanzialmente in una complessa attività di interpretazione della Costituzione, «alla luce di criteri di elasticità, di adeguamento normativo, di apertura al sociale» I valori «sono parte essenziale della cultura di un dato ambito sociale e con essa si trasformano di continuo, stante la storicità della cultura e insieme la pluralità delle culture»; grazie all’operazione “culturale” che sovraintende all’identificazione dei valori, le disposizioni costituzionali possono essere permeate «di significati che, al di là del dato letterale, sono tratti dalla storia, da concezioni etiche di giustizia e di equità, dal sentimento comune, e dunque si inseriscono in quel percorso [...] di apertura delle costituzioni al sociale, ma anche alla morale [...] e in genere alle regole inespresse su cui si regge una collettività»58.

I valori costituzionali, nell’ambito di un ordinamento ed in un determinato momento storico, esprimono dunque sostanzialmente interessi ad alto tasso di condivisione nel corpo sociale, ma anche (e proprio per questa ragione) ad alto tasso di indeterminatezza, ciò che li rende non comprimibili in una formulazione normativa che pretenda di definirli in astratto. Grazie alla loro natura e ai loro caratteri, tuttavia, i valori sono in grado di assolvere ad alcune funzioni essenziali nella vita e nello sviluppo di un ordinamento giuridico: si tratta, infatti, di “esigenze costituzionalmente protette” che costituiscono punti di riferimento, cioè standard che possono orientare nelle diverse situazioni la condotta dei soggetti a tutti i livelli istituzionali, aiutando a prendere posizione sui problemi complessi e favorendo la partecipazione attiva alle scelte politiche e la valutazione di azioni, attitudini, comportamenti.

In questa ottica, la qualificazione giuridica dell’ambiente come valore costituzionale non soltanto vale a superare definitivamente l’approccio tradizionale che mirava alla ricerca a tutti i costi di una precisa e rigorosa definizione normativa di “ambiente”, ma sancisce anche che esso costituisce, proprio in quanto valore, uno degli elementi fondamentali che caratterizzano attualmente la nostra società e sul quale le istituzioni chiamate ad assicurare la convivenza sociale debbono fondare la propria legittimazione.

Da qui discendono una serie di importanti conseguenze. 58 Queste osservazioni sono sempre di G. MORBIDELLI, op. cit., 1134-1138.

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Anzitutto, parlare di ambiente in termini di valore costituzionale evidenzia la centralità (o, meglio, la priorità) che assume il ruolo del legislatore nell’attuazione concreta del valore e nella sua realizzazione dinamica. Se il valore «ambiente» non è definibile in astratto, occorre riconoscere che solo grazie agli apprezzamenti e alle scelte discrezionali del legislatore possono essere definiti in concreto i contenuti della relazione uomo-cosmo, il tipo di equilibrio ecologico che si vuole salvaguardare o perseguire per il futuro, le situazioni soggettive di diritto e di obbligo connesse ad un’efficace azione di tutela, la ripartizione dei compiti e delle responsabilità tra i vari soggetti ed organi pubblici, nonché tra questi e i privati. In altri termini, il valore «ambiente» può trovare la sua concreta definizione, diversa a seconda del momento storico o della circoscrizione territoriale che si prenda a riferimento, soltanto sulla base, insostituibile, delle scelte politiche compiute dal legislatore nell’esercizio della sua fondamentale discrezionalità; scelte che devono necessariamente precedere, in rigoroso ordine logico, prima gli interventi dell’amministrazione e poi, solo a chiusura del sistema, quelli dei giudici (i quali si troverebbero ad assumere un ruolo ben più rilevante se la tutela dell’ambiente fosse ricostruibile in termini di individuazione di un diritto soggettivo a contenuto globale).

Tuttavia, dal momento che si tratta dell’attuazione di un valore costituzionale, lo svolgimento di un simile compito da parte del legislatore implica, a sua volta, la necessità di operare attraverso la tecnica del bilanciamento tra tutti i valori costituzionalmente rilevanti che risultino, in concreto, potenzialmente confliggenti con le esigenze di tutela dell’ambiente. È evidente, infatti, che dal riconoscimento dell’ambiente come valore in sé e per sé deriva non certo l’incondizionata subordinazione alle istanze di tutela dell’ambiente di ogni altro valore nel quale si manifesti l’identità stessa dell’ordinamento, bensì l’esigenza che si realizzi un attento e congruo bilanciamento tra tutti i valori in gioco, in modo tale che nessuno di questi venga, nel caso concreto, pretermesso o interamente annullato.

Il criterio fondamentale che il legislatore deve seguire nelle delicate operazioni di bilanciamento che è chiamato ad effettuare è, senz’altro, quello della ragionevolezza, il cui rispetto può essere verificato in sede di giudizio di costituzionalità delle leggi, anche se, almeno in Italia, la Corte costituzionale tende a lasciare libero il legislatore di determinare quando e come graduare l’attuazione di un valore iscritto nella Costituzione, evitando di spingersi a sindacare la

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scelta del momento in cui deve essere attuato il valore e dell’intensità con cui tale attuazione si deve realizzare.

In realtà, non è difficile percepire l’insufficienza di un sistema che pretenda di affidare interamente l’attuazione concreta del valore “ambiente” alla piena discrezionalità di un legislatore sottoposto al semplice controllo di ragionevolezza svolto dal giudice costituzionale. Proprio per garantire la migliore realizzazione e la massima espansione possibile del valore, occorre che lo stesso legislatore incontri dei limiti, dei vincoli, o che almeno possa contare su una serie di linee guida che risultino in grado di indirizzarlo e orientarlo nell’esercizio delle sue delicate attribuzioni. Da questo punto di vista, si rivela non solo opportuna ma indispensabile l’individuazione di una serie di principî che possano fungere da punti di riferimento certi, da criteri di orientamento prima di tutto per gli organi titolari delle funzioni legislative, ma anche, conseguentemente, per le amministrazioni pubbliche, per i giudici chiamati ad interpretare ed applicare la legge e, in definitiva, per tutti i soggetti coinvolti in qualche misura nell’attuazione concreta del valore costituzionale, considerato sia in sé, sia nel rapporto dinamico con gli altri valori fondamentali dell’ordinamento. In altri termini, si può dire che è lo stesso riconoscimento dell’ambiente come valore ad imporre la necessità di definire, al livello del diritto costituzionale, i criteri orientatori e i principî fondamentali capaci di guidare l’attuazione del valore e la sua coesistenza con gli altri valori costituzionali.

2.5. La “tutela dell’ambiente” come «materia» nel nuovo art. 117 Cost. e nei trattati comunitari

Il problema della qualificazione giuridica della tutela

dell’ambiente, tuttavia, non può dirsi definitivamente risolto se prima non si affronta un’altra questione, da sempre oggetto di dibattito in dottrina e spesso matrice di gravi equivoci concettuali: quella relativa alla configurabilità o meno di una «materia» ambientale, da intendersi in senso tecnico ossia come specifico campo o settore di intervento del diritto delimitato da confini sufficientemente certi.

La questione sembra aver assunto una nuova concreta attualità a seguito della riforma del titolo V, parte II, Cost., la quale, modificando l’art. 117 della Carta costituzionale, ha attribuito alla legislazione esclusiva dello Stato la «materia» tutela dell’ambiente e

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dell’ecosistema (comma 2, lett. s), mentre ha affidato espressamente alla legislazione concorrente dello Stato e delle Regioni una serie di materie che presentano necessariamente forti profili di connessione con la tutela degli equilibri ecologici: valorizzazione dei beni culturali e ambientali, tutela della salute, governo del territorio, protezione civile, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi (comma 3). A queste materie vanno poi aggiunti altri ambiti materiali che, non risultando esplicitamente elencati, devono essere ritenuti attribuiti alla legislazione residuale e primaria delle Regioni e che analogamente presentano alcune non irrilevanti contiguità con la tutela dell’ambiente (comma 4); tra questi ambiti, possono richiamarsi almeno: agricoltura e foreste, industria, commercio e artigianato, turismo, reti di trasporto e di navigazione regionali e locali, caccia, pesca, miniere, cave e torbiere, acque minerali e termali.

La qualificazione della tutela dell’ambiente come «materia» e la ripartizione per campi materiali introdotta dal legislatore di revisione costituzionale possono conciliarsi con il riconoscimento all’ambiente della natura giuridica di “valore costituzionale”? Oppure deve necessariamente prevalere una delle due qualificazioni sull’altra?

Si consideri che, in questa seconda ipotesi si prospetterebbe un’alternativa secca: o ragionare in termini di “materia”, negando irragionevolmente l’intrinseco carattere “trasversale” e multidisciplinare della tutela ecologica; o ragionare in termini di “valore”, ossia di “scopo” in grado di legittimare qualsivoglia intervento del legislatore statale nella disciplina delle singole materie pure affidate formalmente alla competenza regionale.

In realtà, nessuna di tali due prospettive può farsi discendere come conseguenza necessitata della nuova formulazione del testo costituzionale. Infatti, da un lato non può disconoscersi che la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema presenta, come si vedrà, un connotato intrinseco di unitarietà in senso “sistemico-teleologico” assai diverso da quell’unitarietà di tipo oggettivo che permetterebbe di farne una «materia» nel senso proprio e tecnico-giuridico del termine e che, dunque, l’ambiente non può essere racchiuso entro i confini di una “materia” avente un oggetto giuridico definito (tanto che, appunto, ben gli si adatta la natura propria dei “valori costituzionali”); dall’altro lato, però, è altrettanto impossibile negare le peculiarità e la specificità

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di una disciplina giuridica il cui oggetto risulti quello di definire e garantire, in modo diretto e immediato, determinati equilibri ecologici. Vi è, in altri termini, il bisogno ineludibile di un intervento del diritto, volto direttamente e immediatamente alla tutela degli equilibri ecologici, che non può non essere anche logicamente prioritario rispetto alla considerazione che di quegli stessi equilibri si debba avere nella disciplina dei settori materiali appena richiamati: basti pensare, in proposito, alla disciplina del controllo degli inquinamenti ambientali o della protezione e gestione razionale delle risorse naturali, così come alla disciplina di quegli istituti o strumenti tipicamente finalizzati alla tutela degli equilibri ecologici, quali la valutazione d’impatto ambientale o il danno ambientale.

Si può dunque affermare che la tutela dell’ambiente non può essere considerata “materia” in senso proprio solo perché non è soltanto una materia, in quanto l’attuazione di questo “valore costituzionale” deve necessariamente attraversare tutti i comportamenti umani e tutte le politiche pubbliche; ma ciò non può valere a negare che esista un profilo “materiale” (in senso stretto) che risulta, almeno in certa misura, ben determinabile e che costituisce da sempre il campo privilegiato delle politiche ambientali e degli interventi normativi a tutela dell’ambiente.

Nello stesso senso, d’altronde, sono orientate – come si è visto – le disposizioni del trattato CE, laddove accanto all’affermazione di un principio generale come quello dell’integrazione trasversale di cui all’art. 6, si prevede in termini espliciti, all’art. 3, par. 1, lett. l), «una politica [della Comunità] nel settore dell’ambiente», che risulta poi disciplinata nell’apposito titolo XIX agli artt. 174-176 e che, non a caso, viene espressamente orientata al perseguimento combinato e diretto degli obiettivi di: «Salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente»; «protezione della salute umana»; «utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali»; «promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale» (art. 174, par. 1). Ciò dimostra, senza ombra di dubbio, che nell’ordinamento comunitario la natura “valoriale-trasversale” della tutela dell’ambiente è senz’altro in grado di convivere armonicamente con la configurazione di specifici campi di intervento riservati all’elaborazione e all’implementazione delle «politiche ambientali» propriamente intese.

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CAPITOLO 3

I PRINCIPÎ COSTITUZIONALI PER LA TUTELA DELL’AMBIENTE

3.1. Ruolo, significato, fondamento giuridico e classificazione

Come già anticipato, la costruzione di un sistema di principî

costituzionali per la tutela dell’ambiente può essere considerata un’immediata conseguenza della qualificazione dell’ambiente come “valore costituzionale” e, in un certo senso, ne rappresenta senza dubbio il logico svolgimento.

Questi principî di rango costituzionale, infatti, sono in grado di svolgere una preziosa funzione di razionalizzazione dei sistemi di tutela giuridica dell’ambiente, operando in una duplice direzione: da un lato nei confronti degli organi legislativi, in quanto possono rappresentare i parametri cui le scelte dei legislatori devono conformarsi e su cui tali scelte potranno poi essere sindacate dal giudice costituzionale; dall’altro lato nei confronti di tutti gli altri soggetti coinvolti nei compiti di realizzazione concreta del valore costituzionale, fornendo loro gli orientamenti essenziali cui ispirare i propri comportamenti, soprattutto nelle innumerevoli ipotesi in cui il solo testo normativo non risulta in grado di fornire con certezza ed in modo esaustivo la regola da adottare nel caso concreto.

In questo senso, la principale peculiarità dei principî costituzionali per la tutela dell’ambiente è quella di rappresentare le linee comuni di orientamento che tendono ad ispirare, in modo più o meno uniforme e stringente, l’evoluzione delle forme di giuridificazione dell’interesse ambientale nell’esperienza di tutti i più evoluti ordinamenti contemporanei. Si tratta di principî che non si limitano ad avere natura descrittiva, come principî di un “diritto dell’ambiente” già interamente positivizzato, ma si collocano, più propriamente, come i punti di emersione delle istanze ineludibili che l’obiettivo della tutela dell’ambiente impone a tutti i livelli del diritto. Cosicché sembra appropriata la denominazione di “principî per la tutela dell’ambiente”, proprio allo scopo di sottolineare l’essenza “funzionale” di tali principî, ai quali è affidato il compito non solo e non tanto di contribuire all’interpretazione e alla razionalizzazione del diritto esistente, quanto quello di rappresentare orizzontalmente le basi

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irrinunciabili e le linee portanti per la costruzione e l’evoluzione dinamica dei sistemi normativi finalizzati alla tutela dell’ambiente.

La qualifica di “principî costituzionali” dipende essenzialmente da tre ordini di ragioni.

In primo luogo, il dato di diritto positivo, consistente nel fatto che questi principî si collocano – sia al vertice dell’ordinamento costituzionale interno (grazie all’uso consolidato che la Corte costituzionale ne fa nell’ambito della motivazione delle sue pronunce) sia al vertice dell’ordinamento comunitario – come parametri di rango sovraordinato su cui è possibile effettuare la valutazione della correttezza dell’operato degli organi legislativi, dell’esercizio della funzione amministrativa e, più in generale, di tutti i comportamenti dei soggetti coinvolti nell’azione di tutela dell’ambiente.

In secondo luogo, quello che potrebbe definirsi come l’intrinseco carattere costituzionale di tali principî, dal momento che si tratta di principî comuni che emergono nella considerazione dell’ambiente ad ogni livello territoriale, quasi si trattasse di una sorta di diritto costituzionale comune i cui contenuti sono “imposti”, per così dire, da alcune esigenze irrinunciabili per un’efficace e realistica azione di tutela del “valore” rappresentato dagli equilibri ecologici.

Infine, la considerazione che i principî che saranno illustrati hanno immediate ripercussioni su aspetti giuridici tradizionalmente disciplinati nell’ambito del diritto costituzionale: il rapporto tra ordinamenti statali e la progressiva erosione del concetto di sovranità; il rapporto Stato-cittadino; la ripartizione dei compiti e delle responsabilità tra i diversi livelli territoriali di governo, nonché tra l’organizzazione pubblica e i soggetti privati; il rapporto tra attività di normazione e attività di amministrazione; il bilanciamento tra valori costituzionali e tra situazioni soggettive costituzionalmente garantite; la coerenza del sistema delle fonti e l’adeguatezza dei procedimenti e delle tecniche di produzione normativa.

Il grado di effettiva vigenza di tali principî nel nostro sistema giuridico di tutela dell’ambiente può essere valutato solo facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte costituzionale e al diritto comunitario. Come si è osservato, infatti, in assenza di disposizioni esplicite ed articolate all’interno della Costituzione, è proprio il giudice delle leggi che, soprattutto attraverso il sindacato sulla ragionevolezza delle scelte operate dal legislatore, finisce per assumere un ruolo fondamentale nel garantire, ex post, razionalità e

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coerenza al sistema normativo rispetto al valore costituzionale della tutela dell’ambiente.

D’altronde, in tema di tutela dell’ambiente, come si è già sottolineato nel capitolo 1, la sola considerazione delle vicende relative all’ordinamento nazionale non può certo essere sufficiente. In questa materia non è possibile prescindere da quanto viene elaborato, ormai da circa un trentennio, nell’ambito dell’ordinamento comunitario; non soltanto per gli effetti diretti e l’efficacia propulsiva che il diritto delle Comunità europee può assumere nei confronti del diritto interno, ma anche per il fondamentale contributo che le istituzioni comunitarie hanno effettivamente fornito alla impostazione e alla soluzione dei problemi legati alla qualificazione giuridica dell’interesse alla tutela dell’ambiente e alle concrete modalità di giuridificazione di tale interesse. In questa ottica, è indispensabile che l’individuazione dei principî costituzionali per la tutela dell’ambiente trovi fondamento anche nei dati ricavabili dall’evoluzione del diritto comunitario e, particolarmente, nei risultati fin qui conseguiti sul piano delle disposizioni costituzionali contenute nei trattati e delle elaborazioni giurisprudenziali della Corte di giustizia.

I principî costituzionali per la tutela dell’ambiente possono essere classificati in tre categorie, che complessivamente formano un sistema sufficientemente razionale per orientare l’attuazione di questo valore costituzionale.

Anzitutto, debbono essere considerati i “principî che identificano i caratteri fondamentali dell’ambiente come oggetto di tutela giuridica”, e tra questi, in particolare, il principio dell’antropocentrismo, il principio di unitarietà, il principio di primarietà e il principio di economicità, nell’ambito del quale si colloca il fondamentale principio “chi inquina paga”.

In secondo luogo, i “principî sull’azione di tutela dell’ambiente”, cioè quei principî che indicano le esigenze fondamentali cui deve essere orientata la concreta predisposizione delle azioni di tutela; nell’ambito di questa categoria si collocano il principio dell’azione preventiva ed il principio di precauzione, il principio del bilanciamento, con i due corollari della gradualità e della dinamicità delle misure di tutela, nonché il principio dell’informazione ambientale.

Infine, non meno importanti, i “principî sul ruolo dei soggetti pubblici e privati nella tutela dell’ambiente”; tra questi principî occorre ricomprendere il principio di corresponsabilità o della

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condivisione delle responsabilità, il principio di cooperazione e il principio di sussidiarietà; quest’ultimo, come si cercherà di illustrare trova concreta specificazione da un lato nell’azione unitaria del livello territoriale superiore, dall’altro nella tutela più rigorosa del livello territoriale inferiore. 3.2. I principî che identificano i caratteri fondamentali dell’ambiente come oggetto di tutela giuridica 3.2.1. Il principio dell’antropocentrismo

Il primo principio che contribuisce alla stessa individuazione

dell’ambiente come oggetto di tutela giuridica sul piano costituzionale è il cosiddetto principio dell’antropocentrismo. Si tratta di un principio di importanza fondamentale che, almeno in una lettura corretta ed equilibrata, è in grado di orientare l’approccio complessivo al tema dell’ambiente attraverso l’opzione di fondo in esso contenuta: la centralità della persona umana.

La concezione antropocentrica dell’ambiente traspare in modo evidente sia nella giurisprudenza della Corte costituzionale sia nell’ordinamento comunitario, ma sempre in termini piuttosto impliciti, quasi scontati e, comunque, mai con un’indicazione netta del significato di fondo da attribuirle.

A questo proposito, non si può dire che esista una nozione univoca di “antropocentrismo” tale da consentire l’attribuzione di un significato certo ed universalmente accettato al relativo principio che, letteralmente, si limita per l’appunto a richiamare la necessità di fondare il rapporto uomo/ambiente sulla centralità della persona umana. Il vero problema è quello di chiarire come debba essere intesa questa “centralità”, la quale, se intesa nel suo significato più forte e tradizionale, rischia di essere interpretata come “superiorità” nel senso di “dominio”, manifestando così una visione del tutto utilitaristica del rapporto uomo/ambiente in cui il primo domina sul secondo e in cui quest’ultimo, a sua volta, assume un “valore” solo in quanto strumento di vantaggi o di soddisfacimento di bisogni per la specie umana.

L’evidente inadeguatezza di una simile impostazione ha portato a contrapporre ad essa la cosiddetta concezione “ecocentrica” o “biocentrica”, che si fonda su una rivalutazione dell’ambiente in quanto tale, attraverso l’affermazione del valore intrinseco della

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natura e della centralità della biosfera, indipendentemente e prima di una individuazione dell’utilità e della strumentalità delle risorse ambientali rispetto alle attività dell’uomo. Anche la prospettiva ecocentrica, tuttavia, presenta alcuni limiti ontologici, soprattutto nelle sue più concrete implicazioni giuridiche (come, ad esempio, il tentativo di fondarvi la costruzione di situazioni giuridiche da attribuire alle entità naturali, i c.d. “diritti della natura). Si tratta, pur sempre, infatti, di un punto di vista umano sulla natura e quindi non si esce dalla necessità di fare i conti con la centralità dell’uomo.

In realtà, la tendenza più recente è quella di accettare senza timori pregiudiziali la prospettiva antropocentrica, recuperandone però una nozione corretta, fondata su una vera centralità dell’uomo nel creato e non sulla contrapposizione utilitaristica.

In questo senso, è andata sempre più affermandosi una sorta di “revisione ecocompatibile dell’antropocentrismo”, che consente di concepire l’ambiente come una relazione continua e dinamica tra uomo e cosmo in cui «conoscenza ed esperienza della natura modificano percezioni ed azioni umane, e queste, dirigendosi nuovamente verso la natura, ne sono ulteriormente modificate»59. Cosicché la centralità della persona umana può senza dubbio continuare ad essere vista come superiorità, nel senso dell’eccellenza, ma a patto che tale superiorità si intenda correttamente solo come affermazione del più alto grado di “responsabilità” che caratterizza il ruolo e la posizione dell’uomo rispetto alle entità non-umane; dunque una centralità e un’eccellenza che valgono ad esprimere la posizione dell’uomo come unico essere in grado di assumere la “consapevole responsabilità” di tutto ciò che lo circonda e del mantenimento delle relazioni di equilibrio ecologico.

Con questo significato la concezione antropocentrica dell’ambiente è senz’altro in grado di assumere una rilevanza concreta per il diritto, tale da assurgere alla dignità di principio costituzionale logicamente prioritario rispetto a tutti i principî che definiscono il sistema di tutela giuridica dell’ambiente.

Il principio dell’antropocentrismo, infatti, è in grado di determinare un effetto diretto nella definizione dell’oggetto della tutela che l’ordinamento intende apprestare: non si tratta di proteggere una cosa materiale oppure l’uomo astrattamente inteso, bensì un

59 L’affermazione è di M. TALLACCHINI, Diritto per la natura. Ecologia e filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 1996, 160.

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rapporto, una relazione di equilibrio in continuo divenire, che in questo suo incessante ridefinirsi non è mai fissabile in un ordine da assumere come dato e immutabile.

Ma non è soltanto la definizione fondamentale dell’oggetto della tutela giuridica a rivestire il rango di una vera e propria scelta costituzionale, da cui, come si vedrà nei paragrafi successivi, discendono conseguenze quali la necessità di una considerazione unitaria e globale dell’ambiente, nonché la sua collocazione tra i valori più elevati all’interno dell’ordinamento. Proprio i caratteri peculiari dell’oggetto della tutela assumono inevitabilmente un peso determinante in sede di definizione delle strategie e delle modalità delle azioni di tutela e, quindi, non possono non risultare giuridicamente rilevanti, in particolare sul piano del diritto costituzionale. In definitiva, tutti i principî che saranno illustrati si rivelano, in buona misura, strettamente collegati all’approccio antropocentrico più illuminato: si può pensare, solo per fare qualche esempio, alla necessità di fondare preferibilmente l’azione di tutela su strategie preventive e cautelari, piuttosto che su misure repressive o di mero ripristino; oppure alla necessità di procedere a continue operazioni di bilanciamento in concreto dei vari interessi in gioco, tenendo conto, in particolare, dell’inevitabile incertezza di molti dati scientifici e della ontologica dinamicità delle situazioni e delle soluzioni tecniche; oppure, ancora, alla necessità di affermare la corresponsabilità di tutti i soggetti, dai livelli territoriali più ampi, alle associazioni, ai singoli individui.

3.2.2. Il principio di unitarietà dell’ambiente La denominazione di questo principio potrebbe richiamare il

noto dibattito registratosi in dottrina tra i sostenitori della possibilità di ricostruire una nozione unitaria di “ambiente” e chi, invece, sottolinea la necessità di riconoscerne l’inevitabile natura multiforme e frazionata (almeno sotto il profilo giuridico) negandone, di conseguenza, la configurabilità in termini unitari60. 60 Il dibattito prende le mosse dal noto saggio di M.S. GIANNINI, «Ambiente»: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 15 ss., in cui l’autore distingue: «1) l’ambiente a cui fanno riferimento la normativa e il movimento di idee relativi al paesaggio; 2) l’ambiente a cui fanno riferimento la normativa e il movimento di idee relativi alla difesa del suolo, dell’aria, dell’acqua;

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Tuttavia, l’unitarietà cui si fa riferimento in questo contesto assume un significato del tutto diverso da quello usato da chi pretenda di individuare una nozione giuridica che sia in grado di rappresentare efficacemente l’ambiente da un punto di vista oggettivo-descrittivo; pertanto è opportuno precisare, in via preliminare, che l’affermazione di questo principio non vale affatto a negare la già richiamata impossibilità di fornire una nozione di “ambiente”, che lo renda univocamente e astrattamente definito in tutte le sue componenti, e quindi l’impossibilità di costruire l’ambiente come bene giuridico “chiuso”.

Il principio di unitarietà tende, in realtà, a mettere in risalto il valore giuridico, sostanziale (e non meramente descrittivo o verbale), che assume la sintesi espressa dal termine “ambiente” all’interno di un contesto normativo.

Quando si fa riferimento all’ambiente, infatti, non si prende in considerazione una mera sommatoria di singoli fattori, di interessi o beni da tutelare l’uno indipendentemente dall’altro, bensì un equilibrio relazionale tra uomo e cosmo valutabile e apprezzabile nel suo complesso; l’ambiente, in una corretta prospettiva antropocentrica, non è altro che un insieme armonico di condizioni fisiche, chimiche e biologiche strettamente interrelate tra loro, da cui si genera un prezioso equilibrio (l’equilibrio ecologico) che rappresenta il vero ed essenziale obiettivo della tutela.

In questa ottica, il principio di unitarietà svolge la precipua funzione di porre l’attenzione sul fatto che l’obiettivo della tutela dell’ambiente è l’equilibrio complessivo (la sintesi) che scaturisce da un insieme di interazioni e che tale equilibrio si consegue non tanto con una semplice protezione separata dei singoli fattori, ma con la protezione integrata e coordinata dei medesimi. In altre parole, l’unitarietà non nega che la tutela dell’ambiente si consegua attraverso la protezione di singoli beni o la disciplina di singoli aspetti dell’attività umana, ma serve a negare che la considerazione di singoli profili possa consentire automaticamente e necessariamente il raggiungimento del risultato complessivo; tutelare l’ambiente non è lo stesso che proteggere le singole componenti o i singoli aspetti della relazione uomo/cosmo.

La sintesi espressa dal termine “ambiente” non ha dunque una valenza meramente descrittiva o linguistica (come sintesi degli

3) l’ambiente a cui si fa riferimento nella normativa e negli studi dell’urbanistica».

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elementi materiali che costituiscono la realtà ambientale), ma assume una concreta rilevanza per l’ordinamento giuridico nel momento in cui serve a consentire o, meglio, ad “imporre” la considerazione integrata, sistemica ed interdisciplinare dei singoli profili che esso comprende, allo scopo di conseguire efficacemente il fine ultimo della tutela61.

In questo senso, l’interesse ambientale finisce per postulare il collegamento e l’armonica realizzazione di una molteplicità di interessi pubblici inerenti alle diverse componenti dell’habitat naturale, spingendo quindi verso il loro coordinamento in una visione di sintesi che, peraltro, non può escludere la reciproca autonomia.

Quando si parla di “tutela dell’ambiente”, può risultare realisticamente efficace una lotta agli inquinamenti condotta separatamente per acqua, aria e suolo, come se l’inquinamento non fosse tecnicamente trasferibile da un elemento all’altro? Può essere ragionevole una tutela dall’inquinamento perseguita senza alcun coordinamento contestuale con l’assetto del territorio, la disciplina degli insediamenti o il razionale uso delle risorse naturali? O, viceversa, è possibile immaginare di occuparsi del razionale assetto del territorio o della disciplina degli insediamenti senza curare, contemporaneamente, le esigenze di tutela della salute umana? Certo, tali singoli interessi mantengono un loro autonomo spazio di rilevanza e non possono identificarsi o annullarsi nell’interesse ambientale; tuttavia, è evidente che la considerazione integrata dei vari aspetti, che il riferimento all’“ambiente” impone, non potrà non avere ricadute sulla individuazione degli strumenti organizzativi e procedimentali che serviranno a definire, in concreto, le strategie e le modalità della tutela, ponendo in rilievo la necessità di attivare strutture e procedimenti che consentano di comprendere le connessioni, giungendo ad una valutazione delle interazioni e ad una ponderazione completa dei diversi interessi implicati.

Il principio di unitarietà assume quindi uno specifico significato di carattere finalistico, dove la concezione unitaria serve ad aggregare e a coordinare una pluralità di strumenti nel quadro di una visione complessiva in grado di consentire il perseguimento di 61 In proposito, si vedano già le illuminate considerazioni di A. PREDIERI, Paesaggio, cit., 509-510, il quale, con riferimento alla multiformità dell’ambiente, parla di «una pluralità di tutele, connesse ad interessi diversi e meritevoli, spesso, di strumentazioni organizzatorie e procedimentali differenziate... [che] dovrebbero essere poi collegate e integrate fra di loro in una visione e azione sistemica e interdisciplinare».

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obiettivi globali. E proprio questa unitarietà di tipo “teleologico” consente di conciliare la natura oggettivamente polimorfica ed aperta dell’ambiente, come risultato continuamente variabile di rapporti non definibili in modo esaustivo, con la necessità di adottare una considerazione globale che rappresenti adeguatamente la prospettiva finale dell’oggetto che si vuole tutelare.

Le maggiori conferme, sul piano dell’ordinamento positivo, della graduale affermazione di questo principio possono essere colte non soltanto in alcune significative pronunce della Corte costituzionale62, ma soprattutto in alcuni istituti tipici del settore, la cui “faticosa” introduzione nel nostro ordinamento trae origine dal diritto comunitario. Si pensi, in proposito, alla già menzionata nozione di «impatto ambientale» sulla quale si fondava il testo originario della direttiva n. 85/337/CEE in tema di valutazione d’impatto ambientale, in cui si faceva riferimento alla «capacità di riproduzione dell’ecosistema» e alla «interazione» tra una serie di fattori quali l’uomo, la fauna e la flora, il suolo, l’acqua, l’aria, il clima ed il paesaggio (attualmente, dopo la riforma introdotta dalla direttiva n. 97/11/CE, anche i beni materiali e il patrimonio culturale)63; oppure si pensi a quelle direttive che si incentrano sulla necessità di una «tutela integrata dell’ambiente» o di una «protezione dell’ambiente nel suo complesso», in considerazione dei limiti intrinseci che devono essere riconosciuti a quelle forme di tutela che tengono conto separatamente dell’inquinamento dei singoli fattori ambientali.

In proposito, si segnala, tra le molte, già la direttiva n. 94/67/CE (sull’incenerimento dei rifiuti pericolosi), in cui si parla propriamente di «inquinamento ambientale» inteso in senso globale e tale da imporre una “protezione integrata” che consenta di evitare fenomeni di trasferimento delle sostanze inquinanti da un fattore ambientale all’altro. Nella medesima ottica, ma con una portata innovativa ancora più ampia, si colloca la direttiva n. 96/61/CE, in cui vengono individuate le linee generali di una specifica disciplina «della prevenzione e della riduzione integrate dell’inquinamento», al fine di conseguire l’obiettivo di «un livello elevato di protezione dell’ambiente nel suo complesso»; questa direttiva mostra, in termini 62 Cfr., per tutte, le sentenze nn. 210 e 641 del 1987, n. 1029 del 1988, n. 356 del 1994. 63 Cfr., retro, cap. 2, par. 2.1.2, ove si richiama l’analoga definizione di «informazione ambientale» contenuta nella direttiva 2003/4/CE, attuata dal legislatore nazionale italiano con il d.lgs. n. 195 del 2005.

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molto chiari, il rilievo determinante che l’approccio integrato (come diretta espressione del principio di unitarietà) è in grado di assumere, in concreto, sul piano dell’organizzazione amministrativa, nonché sul piano della definizione delle procedure e degli strumenti di tutela dell’ambiente.

3.2.3. Il principio di primarietà dell’ambiente e il rapporto di necessaria “integrazione” tra tutela ambientale e interessi pubblici diversi

Il terzo principio costituzionale che concorre a delineare i tratti

essenziali dell’ambiente come oggetto di tutela giuridica si può denominare, in ossequio ad alcune espressioni utilizzate dalla Corte costituzionale, principio di primarietà. Nel suo significato più immediato, questo principio tende ad evidenziare il carattere fondamentale dell’interesse ambientale, la consapevolezza dell’esigenza imprescindibile di tutelare l’ambiente in quanto presupposto essenziale per la stessa esistenza dell’umanità. Se si abbina alla qualificazione dell’ambiente come valore costituzionale, la primarietà esprime la rilevanza notevole, in termini di peso, che occorre riconoscere alla tutela dell’ambiente nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali, mettendo in risalto la necessità di attribuire una sorta di generico favor alla protezione dell’equilibrio ecologico.

Tra le implicazioni concrete che discendono da questo principio, la prima consiste senz’altro nell’esigenza di perseguire l’obiettivo di un livello elevato di tutela, in particolare nell’ottica dei principî dell’azione preventiva e di precauzione (in tal senso, si rinvengono riferimenti espliciti negli artt. 95, par. 3, e 174, par. 2, del trattato CE, nonché ora anche nell’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE).

A ciò sembra strettamente collegata, come ulteriore e più specifica conseguenza, la tendenza negli ordinamenti positivi a configurare quello che è stato denominato «il regime amministrativo speciale dell’ambiente»64, che si esprime in una serie di specifiche 64 Cfr., G. MORBIDELLI, op. cit., spec. 1144 ss. L’autore, in realtà, individua le ragioni della nascita di questo regime amministrativo speciale non soltanto nella primarietà dell’ambiente ma anche nella particolare impossibilità di definire con precisione lo stesso interesse ambientale, soprattutto per la peculiare esigenza di espandere l’uso di valutazioni tecnico-discrezionali (sul punto, si veda, infra, par.

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previsioni normative le quali, nel loro insieme, finiscono per determinare una sottolineatura particolarmente forte dell’interesse ambientale ed una sorta di plusvalore dell’amministrazione di tale interesse [si pensi, solo per citare qualche esempio, ai rafforzamenti procedimentali previsti dalla legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo65, con riferimento alla applicabilità in questa materia degli strumenti di semplificazione dell’azione amministrativa; oppure all’ampia previsione di poteri eccezionali e d’urgenza posti a salvaguardia degli interessi ambientali66]. Si tratta, come è evidente, di norme che trovano fondamento nell’esigenza di dotare la tutela dell’ambiente di una strumentazione particolarmente forte; ed è altrettanto chiaro che proprio l’affermazione della primarietà dell’ambiente acquista una rilevanza concreta proprio nella capacità di costituire il fondamento di misure di tutela dotate di speciale intensità.

Al principio di primarietà, inoltre, è possibile ricondurre un’ulteriore conseguenza relativa all’individuazione dei compiti e dei ruoli dei soggetti chiamati ad intervenire nell’azione di tutela dell’ambiente. Si tratta di quello che può essere ritenuto l’asse portante dei principî che saranno illustrati più avanti e che consiste nell’affermazione della necessità di coinvolgere, in uno spirito di concreta e reciproca cooperazione, tutti i soggetti pubblici e privati e specialmente tutti i livelli territoriali di governo.

È evidente che tale affermazione trova un logico fondamento nella primarietà del valore riconosciuto alla tutela dell’ambiente. Infatti, se si ammette che la tutela di un valore primario debba essere pronta, piena e completa e che, comunque, debba consentire il raggiungimento del migliore livello di protezione possibile, questa consapevolezza porta inevitabilmente a ritenere che nessun soggetto possa essere escluso da concrete assunzioni di responsabilità: i livelli territoriali inferiori saranno i più idonei a rispondere alle esigenze più immediate e più vicine ai cittadini; i livelli territoriali superiori saranno, invece, i più idonei a rispondere alle esigenze di ampio spettro, a predisporre un livello uniforme di tutela generalmente non modificabile in peius dai livelli inferiori e a garantire, in ogni caso,

3.3.3., a proposito del principio del bilanciamento). 65 Si vedano, in proposito, soprattutto gli artt. 14-bis, comma 3-bis, 14-ter, commi 4 e 5, 14-quater, commi 3 e 5, 16, comma 3, 17, comma 2, 19, comma 1, e 20, comma 4. 66 Cfr., retro, cap. 1, par. 1.7.

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un’azione di supplenza in presenza di difficoltà o inerzia di questi ultimi.

Altra e più rilevante implicazione del principio di primarietà è, senza dubbio, il progressivo affermarsi della consapevolezza che occorre inserire la considerazione della tutela dell’ambiente all’interno di tutti i processi decisionali da cui possano derivare conseguenze sui paesaggi e sugli equilibri ecologici e, particolarmente, di quelli concernenti le scelte di sviluppo economico-sociale.

Da questo punto di vista, l’affermazione della primarietà da riconoscere al valore in questione pone una delle questioni più delicate di tutto il diritto dell’ambiente: quella del rapporto che si instaura tra il valore della tutela dell’ambiente e gli altri valori riconosciuti e tutelati a livello costituzionale.

Primarietà è concetto che esprime, senza dubbio, il bisogno oltre che di affermare un valore in assoluto anche di configurare una relazione in cui si manifesta, come si è detto, il favor per la tutela di un determinato interesse rispetto ad altri. Il vero problema è allora quello di stabilire in quali termini debba intendersi questo favor per la tutela dell’ambiente.

In primo luogo, ci si deve domandare se sia possibile ritenere che il carattere primario attribuito alla tutela dell’ambiente possa declinarsi nei termini di una «primazia ad ogni costo», assoluta, incondizionata e aprioristica sovraordinazione dell’interesse ambientale ad ogni altro valore riconosciuto nella Costituzione. La risposta corretta, al riguardo, è senz’altro negativa, anche in forza di quanto affermato dalla Corte costituzionale, la quale definisce espressamente la primarietà in termini diametralmente opposti: come insuscettibilità di subordinazione (in astratto) ad ogni altro valore o interesse67.

Tra i diversi valori costituzionali non è possibile (né auspicabile) un’astratta predeterminazione di gerarchie; dunque la loro pariordinazione in astratto impone la necessità di effettuare operazioni di bilanciamento in concreto, per giungere alla definizione dei conflitti tra valori diversi senza che la contrapposizione generi il sacrificio totale di uno di essi. E in questa ottica vanno letti i numerosi riferimenti contenuti negli atti comunitari e internazionali al concetto di «sviluppo sostenibile», il quale esprime se non una vera e propria fusione, quantomeno l’interdipendenza paritaria tra le istanze di tutela

67 Si veda, per tutte, la sentenza n. 151 del 1986.

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dell’ambiente ed il perseguimento degli obiettivi di sviluppo economico e sociale68.

Qui però si pone un secondo problema. Se non si può negare la necessità di procedere ad un continuo bilanciamento tra i diversi interessi che assumono rilievo sul piano dei valori costituzionali e quindi si deve pure ammettere che tale bilanciamento possa condurre, nei suoi esiti concreti, a forme di “sacrificio” o di “relativizzazione” dell’interesse ambientale propriamente inteso, in che cosa consiste, in definitiva, il plusvalore che sembra legato alla qualifica della tutela dell’ambiente come valore primario? Come si concilia il proclamato favor per l’ambiente con il necessario bilanciamento da effettuare con gli interessi che fanno capo a valori costituzionali diversi?

Per una risposta soddisfacente può essere utile muovere da quanto affermato espressamente dalla Corte costituzionale nella recente – e già richiamata – sentenza n. 196 del 2004, laddove il giudice delle leggi si preoccupa di precisare a chiare lettere che la «primarietà» riconosciuta agli interessi paesaggistico-ambientali «non legittima un primato assoluto in una ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali, ma origina la necessità che essi debbano sempre essere presi in considerazione nei concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche amministrazioni; in altri termini, la “primarietà” degli interessi che assurgono alla qualifica di “valori costituzionali” non può che implicare l’esigenza di una compiuta ed esplicita rappresentazione di tali interessi nei processi decisionali all’interno dei quali si esprime la discrezionalità delle scelte politiche o amministrative» (sottolineati aggiunti)69.

Il favor che caratterizza i valori costituzionali definiti “primari”, dunque, non può smentire in alcun modo la logica della valutazione comparativa e del bilanciamento nel caso concreto di tutti gli interessi coinvolti. Ciò che impone la primarietà non è affatto un vincolo di risultato, ossia la soddisfazione automatica e piena dell’interesse collegato al valore in questione, quindi la sua prevalenza certa ed assoluta nel confronto con gli altri interessi; più semplicemente, è imposta una considerazione particolare dell’interesse – nel nostro caso, della tutela dell’ambiente – all’interno dei processi decisionali, una ponderazione peculiare che risulta “rafforzata” sotto il profilo della certezza che tale interesse venga 68 Cfr., ad esempio, l’art. 2 del trattato UE, gli artt. 2 e 6 del trattato CE e l’art. 37 della Carta europea dei diritti fondamentali. 69 Cfr. il punto 23 del Considerato in diritto.

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sempre e comunque rappresentato e preso in considerazione70. La primarietà non vale, di per sé, a garantire l’esito finale del bilanciamento nel caso concreto, ma permette di assicurare la presenza costante e imprescindibile del punto di vista della tutela dell’ambiente ogniqualvolta possano esservi implicazioni per il paesaggio e per gli equilibri ecologici.

In tal modo si evidenzia un’accezione realistica e giuridicamente rilevante del favor che occorre riconoscere al valore della tutela dell’ambiente e quindi il significato più autentico del principio di primarietà. Un principio che non può negare (ed anzi presuppone) la logica della ponderazione in concreto di tutti gli interessi in gioco e che pertanto si risolve nell’esprimere l’obbligo giuridico (anzitutto per i legislatori) di predisporre una serie di strumenti che consentano di non trascurare mai l’interesse ambientale, attraverso particolari garanzie organizzative e procedurali.

Alla primarietà del valore costituzionale si collega poi coerentemente un ulteriore elemento che – proprio in nome di una più specifica e del tutto peculiare valenza “trasversale” riconosciuta alla «tutela dell’ambiente» rispetto a tutte le altre politiche pubbliche – caratterizza in termini di assoluta e più spiccata tipicità lo statuto giuridico degli interessi paesaggistico-ambientali.

Tale elemento consiste nel già ricordato «principio di integrazione», che trova la sua formulazione più nota nell’ambito dell’ordinamento comunitario e precisamente nell’art. 6 del Trattato CE, secondo il quale «le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni comunitarie di cui all’art. 3, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile». Si osservi, peraltro, che tale principio si trova ribadito anche con specifico riferimento al paesaggio nell’art. 5 della Convenzione europea sul paesaggio del 2000 e, dunque, a seguito della legge n. 14 del 2006, con la quale si è provveduto a rendere la Convenzione esecutiva nell’ordinamento italiano, costituisce oggi diritto vigente anche sul piano interno; in base a tale disposizione, le Parti contraenti si impegnano a «integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione 70 In tal senso, cfr. le tesi di G. CAIA, ad es., I procedimenti amministrativi in materia ambientale ed i problemi dell’amministrazione pubblica, in Razionalizzazione della normativa in materia ambientale, Atti del Convegno giuridico, Castel Ivano, 29-30 aprile 1994, Milano, Istituto per l’Ambiente, 1994, 88 ss.).

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del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere un’incidenza diretta o indiretta sul paesaggio».

La logica cui risponde il «principio di integrazione» della tutela dell’ambiente-paesaggio in tutte le altre politiche sembra imporre agli organi politici ed amministrativi obblighi assai più pregnanti (nel senso della elaborazione di una vera e propria politica ambientale all’interno e attraverso la costruzione e l’implementazione delle altre politiche) rispetto alla semplice esigenza di «rappresentazione piena ed esplicita» nei processi decisionali che, come si è visto, ad avviso del giudice delle leggi italiano, costituisce il “cuore” dello statuto giuridico degli interessi qualificabili come «valori costituzionali primari». Si tratta, infatti, di “introdurre armonicamente” l’interesse ambientale all’interno di politiche e di azioni destinate a perseguire obiettivi (e a tutelare interessi) diversi e spesso contrapposti, con il risultato che la protezione e la cura dell’ambiente-paesaggio assumono la natura non soltanto di un obiettivo da considerare in modo autonomo o, al più, di un limite “esterno” da prendere in esplicita considerazione, ma anche e soprattutto una sorta di “filtro” che sempre più deve essere in grado di condizionare gli esiti di tutti i processi di decisione pubblica e dei relativi strumenti di attuazione; con tutte le inevitabili ripercussioni che da ciò dovrebbero discendere in termini di razionale configurazione degli apparati istituzionali e dei loro assetti organizzativi, nonché di conformazione dei processi decisionali in cui questi sono coinvolti.

L’individuazione, nei termini che si sono cercati di chiarire, del significato da riconoscere alla qualificazione di un interesse giuridicamente rilevante come «valore costituzionale primario» e, più in particolare, al «principio di integrazione» degli interessi paesaggistico-ambientali in tutte le politiche pubbliche permette non soltanto di ascrivere a tali elementi una indubbia valenza “prescrittiva” (e non meramente “descrittiva”) in relazione all’esercizio di tutte le funzioni dei soggetti pubblici, ma anche di individuare le ragioni che possono costituirne il fondamento teorico.

Tanto la «primarietà» quanto l’«integrazione», se si considerano attentamente le loro concrete implicazioni giuridiche, non sembrano affatto atteggiarsi come mere “petizioni di principio” attraverso le quali ci si limiti a prendere atto di alcune esigenze

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imposte all’ordinamento da una inafferrabile e suprema volontà costituente (o, ancor peggio, dal semplice assunto dell’interprete della Costituzione); sembra, infatti, possibile ritenere che esse affondino le loro radici in un preciso giudizio circa la “necessità” e l’“adeguatezza” di particolari strumenti e modalità per l’implementazione di determinati valori costituzionali (ambiente-paesaggio, nel nostro caso, ma anche, ad esempio, cultura, salute e incolumità pubblica), i quali, in assenza di tali strumenti e modalità, a motivo delle loro intrinseche caratteristiche oggettive, finirebbero per risultare, di fatto, pregiudicati o irrimediabilmente compromessi.

3.2.3.1. Un esempio emblematico: il rapporto con le funzioni pubbliche di «governo del territorio»

La ricostruzione complessiva che si è fin qui provato ad

illustrare circa il significato da attribuire alla qualificazione di “valore costituzionale primario” e al peculiare statuto giuridico – riassumibile nell’esigenza di “integrazione” – che caratterizza la tutela dell’ambiente nei rapporti con gli altri interessi costituzionalmente rilevanti, sembra trovare un significativo banco di prova in relazione alle funzioni pubbliche concernenti il “governo del territorio”.

Tale formula non conosce una esplicita definizione normativa statale ma, come è stato correttamente osservato, è «una espressione di sintesi coniata dalla dottrina per individuare il complesso degli strumenti normativi diretti alla regolamentazione, controllo e gestione dell’uso del territorio, inteso, si può aggiungere, come bene immobile suscettibile di proprietà pubblica o privata e, nello stesso tempo, polo di attrazione di alcuni valori costituzionali: la tutela dell’ambiente, del paesaggio e della salute, nonché uno spazio naturale di espansione dei diritti sociali»71.

In realtà, l’espressione compare sul piano del diritto positivo nella legislazione regionale di poco precedente alla riforma costituzionale del Titolo V72, manifestandosene l’utilizzazione «come

71 Così G.L. CONTI, Dimensioni costituzionali del governo del territorio, ed. provv., Milano, Giuffrè, 2004, 176. 72 In questo periodo, al «governo del territorio» fanno esplicito riferimento, ad esempio, la legge reg. della Toscana, 16 gennaio 1995, n. 5 (Norme per il governo del territorio), la legge reg. della Basilicata, 11 agosto 1999, n. 23 (Tutela, governo ed uso del territorio), nonché la legge reg. del Lazio, 22 dicembre 1999, n. 38

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indicatore di un nuovo modello di pianificazione, nel quale le esperienze regionali scelgono come distribuire il potere di determinare gli usi ammissibili del suolo all’interno di una gamma di strumenti normativi che si rifanno in termini piuttosto elastici a quelli previsti in generale dalla disciplina statale, che vengono definiti nuovamente in base alle singole esperienze regionali e locali ed alla considerazione che in queste esperienze assumono i vari interessi coinvolti dalla attività di pianificazione del territorio»73.

Da questo punto di vista, la materia «governo del territorio» contemplata nell’art. 117, terzo comma, Cost. assume i connotati di un ambito di normazione concernente la definizione, l’allocazione e la distribuzione dei poteri di regolamentazione, uso e gestione del territorio, ossia dei poteri pubblici rivolti alla determinazione degli usi ammissibili del suolo, sulla base di una puntuale ricostruzione, individuazione e graduazione degli interessi coinvolti.

Proprio in questa ottica sembra essersi collocata la Corte costituzionale, la quale, ancora una volta nella sentenza n. 196 del 2004, ha ritenuto la disciplina del governo del territorio «ben più ampia» dei profili tradizionalmente appartenenti all’urbanistica e all’edilizia, in quanto «comprensiva, in linea di principio, di tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività»74 e riconducibile, in definitiva, all’«insieme delle norme che consentono di identificare e graduare gli interessi in base ai quali possono essere regolati gli usi ammissibili del territorio»75.

Da questa concezione del «governo del territorio» discendono una serie di importanti implicazioni, soprattutto sul piano dei rapporti tra tale «funzione» e l’implementazione del valore costituzionale costituito dalla tutela dell’ambiente-paesaggio, il quale si trova in strettissima connessione con la determinazione degli usi ammissibili del suolo e la relativa graduazione di tutti gli interessi coinvolti.

Indiscutibile appare, infatti, il collegamento indissolubile che intercorre tra «governo del territorio» e «tutela paesaggistica» in senso stretto, laddove, avendo ormai entrambe le funzioni identico riferimento oggettivo (per l’appunto il “territorio”), il «governo del territorio» sembra configurarsi come funzione di primo livello rispetto alla quale la «tutela paesaggistica» finisce per sovrapporsi come (Norme sul governo del territorio). 73 In questi termini, ancora, G.L. CONTI, op. cit., 183-184. 74 Come già era stato affermato nelle sentenze nn. 303, 307, 331 e 362 del 2003. 75 Cfr. il punto 20 del Considerato in diritto.

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funzione di secondo livello, destinata cioè specificamente a conformare la prima per mezzo del valore culturale-identitario che connota questa funzione nella sua essenza; tale valore, in altri termini, sembra poter operare in concreto come una vera e propria “lente” attraverso la quale debbono essere esercitati i complessi poteri di regolazione e pianificazione necessari alla individuazione degli usi ammissibili del suolo.

Analogamente sembra possibile ragionare circa i rapporti tra «governo del territorio» e «tutela dell’ambiente» in senso ampio (e, dunque, comprensivo dei profili propriamente ecologici). Il collegamento inscindibile tra le due funzioni, sia pure nella sicura distinzione sul piano concettuale e teorico, è quasi intuitivo.

È innegabile, infatti, che «ogni strumento di governo del territorio ha un impatto rilevante sull’ambiente, poiché concorre a determinare le linee guida dello sviluppo di una collettività»76. Da questo punto di vista, sembrerebbe quasi impossibile definire una linea di confine che sia in grado di tenere separata in concreto la «tutela dell’ambiente» dal «governo del territorio» nell’ampia accezione che qui se ne è accolta. Il valore costituzionale nel quale si esprime nei termini più propri la qualificazione giuridica dell’ambiente e della sua tutela trova senza dubbio la sua prima forma di realizzazione in concreto attraverso gli strumenti del governo del territorio e, al tempo stesso, quest’ultimo si configura come il presupposto ineludibile di ogni politica ambientale che voglia risultare efficace e compatibile con i principî costituzionali interni ed europei che la devono necessariamente guidare (azione preventiva, precauzione, integrazione, sviluppo sostenibile, corresponsabilità, sussidiarietà, etc.), nonché con i diritti delle generazioni future. In altre parole, è proprio l’atteggiarsi della «tutela dell’ambiente» come valore costituzionale primario a determinare la strumentalità della funzione di «governo del territorio» rispetto alla concretizzazione di tale valore, nel senso che questa non può mai ritenersi perseguibile nella sua complessità se non assicurando la valorizzazione e lo sviluppo sostenibile di tutte le risorse che insistono su un determinato ambito territoriale, attraverso l’adeguata ponderazione di tutti gli interessi coinvolti nelle scelte concernenti gli usi ammissibili del suolo; reciprocamente, però, il medesimo valore costituzionale finisce 76 L’affermazione è ancora di G.L. CONTI, op. cit., 13, il quale, soprattutto nel cap. III del suo saggio, offre una ampia e sistematica ricostruzione della complessità dei rapporti fra «ambiente» e «territorio».

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per affermarsi come una delle “matrici” più rilevanti del «governo del territorio», nel senso che gli obiettivi da perseguire nella concreta definizione degli usi ammissibili del suolo non possono mai essere scissi da una attenta considerazione delle istanze di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

Parzialmente diverso si rivela il rapporto tra il «governo del territorio» e le più specifiche funzioni, ad esempio, di «tutela e valorizzazione dei beni culturali e dei beni ambientali (o paesaggistici)», espressamente contemplate nell’art. 117 Cost.

Anche in relazione ai beni cui tali funzioni si rivolgono la Corte costituzionale ha spesso fatto riferimento alla loro intrinseca connessione con il «valore estetico-culturale» che trova riconoscimento come «valore primario» nell’art. 9 Cost.77; dunque, a tale “valore”, nella sua accezione generale, debbono connettersi le stesse implicazioni di rafforzamento “procedimentale” che caratterizzano il regime degli altri valori costituzionali “primari”, con il relativo obbligo della loro compiuta ed esplicita emersione in tutti i processi decisionali.

Tuttavia, il regime giuridico delle specifiche funzioni pubbliche che abbiano ad oggetto i beni culturali e i beni ambientali (o paesaggistici) propriamente intesi non sembra corrispondere in tutto e per tutto a quello degli interessi relativi alla tutela dell’ambiente-paesaggio.

Nel primo caso, infatti, il riferimento ad oggetti compiutamente definiti e individuabili, dal quale consegue la configurabilità di veri e propri ambiti materiali di disciplina normativa e di azione amministrativa nei quali possano considerarsi pienamente ed esaustivamente conseguibili gli specifici obiettivi affidati alla cura dei pubblici poteri in relazione a quei particolari beni, non impone affatto quella peculiare “trasversalità” che si manifesta invece nell’esigenza di “integrare” le istanze di tutela dell’ambiente all’interno di tutte le politiche pubbliche. Più semplicemente – ferma restando la necessità che gli interessi connessi con il valore “estetico-

77 Cfr., al riguardo, proprio la citata sentenza n. 151 del 1986, cui adde, sempre prima della riforma costituzionale del 2001, ad es., la sentenza n. 378 del 2000 (che riprende la sentenza n. 85 del 1998), dove si afferma che «la tutela del bene culturale è nel testo costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di principio fondamentale unitario dell’ambito territoriale in cui si svolge la vita dell’uomo […] e tali forme di tutela costituiscono una endiadi unitaria».

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culturale” vengano sempre pienamente rappresentati nei processi decisionali, in modo da assicurare sempre la considerazione ed il perseguimento (sia pur “bilanciato”) delle finalità che in tale valore si incarnano – le misure di tutela e valorizzazione dei beni culturali e dei beni paesaggistici concretamente adottate dagli organi competenti, in attuazione del suddetto valore, costituiscono nient’altro che un limite “esterno” e insuperabile che si impone ad ogni decisione pubblica.

Resta, peraltro, affidata al libero apprezzamento delle autorità pubbliche la possibilità che alla emersione in concreto dell’interesse estetico-culturale vengano collegate forme di vera e propria “integrazione facoltativa” tra politiche che abbiano ad oggetto la cura di interessi diversi.

In questi termini si può comprendere, ad esempio, quanto sembra emergere dalla giurisprudenza costituzionale, la quale, in relazione soprattutto alla «tutela dei beni culturali» in senso stretto, pur confermando sempre – in astratto – la loro connessione con il «valore estetico-culturale» affidato dall’art. 9 Cost. alle cure della «Repubblica», ha sempre tradizionalmente interpretato il riparto costituzionale delle competenze in termini molto rigorosi, limitando fortemente gli spazi concessi al legislatore regionale e concependo la disciplina e le funzioni statali in materia come limite “esterno” rispetto alle sfere di competenza della Regione78. Nella più recente sentenza n. 232 del 2005, tuttavia, sembra di poter scorgere un orientamento parzialmente innovativo, destinato probabilmente a contribuire alla graduale definizione di un assetto in linea con quello che qui si è provato ad illustrare.

La motivazione di questa pronuncia, nella parte che qui ha rilievo, è costruita sostanzialmente su tre fondamentali passaggi argomentativi. La Corte sottolinea preliminarmente che «la tutela dei beni culturali (…) è materia che condivide con altre alcune peculiarità. Essa ha un proprio ambito materiale, ma nel contempo contiene l’indicazione di una finalità da perseguire in ogni campo in cui possano venire in rilievo beni culturali» (sottolineati aggiunti)79.

78 Nella giurisprudenza successiva alla riforma del 2001, possono leggersi chiaramente in questo senso le sentenze nn. 94 del 2003, 9 e 26 del 2004. 79 Cfr. il punto 2 del Considerato in diritto. Significativamente, il giudice costituzionale aggiunge che la materia della tutela dei beni culturali «costituisce anche una materia-attività, come questa Corte l’ha già definita (v. sentenza n. 26 del 2004), condividendo alcune caratteristiche con la tutela dell’ambiente, non a caso ricompresa sotto la stessa lettera s) del secondo comma dell’art. 117 della

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Di qui il giudice delle leggi passa a considerare la potestà delle Regioni di stabilire la disciplina degli strumenti urbanistici, in forza della loro competenza legislativa concorrente in materia di «governo del territorio», concludendo con l’affermazione secondo la quale «non v’è dubbio che tra i valori che gli strumenti urbanistici devono tutelare abbiano rilevanza non secondaria quelli artistici, storici, documentari e comunque attinenti alla cultura nella polivalenza di sensi del termine» (sottolineato aggiunto)80. Su queste basi la Corte fonda la propria considerazione conclusiva, affermando che l’attribuzione – da parte di una Regione – al piano di assetto territoriale regionale (PAT) della funzione di «determinare i livelli di tutela e le modalità di utilizzazione dei beni culturali esistenti nei centri storici”, “non comporta contraddizione della normativa statale in tema di tutela dei beni culturali, in quanto la disciplina regionale è in funzione di una tutela non sostitutiva di quella statale, bensì diversa ed aggiuntiva, da assicurare nella predisposizione della normativa di governo del territorio, nella quale sono necessariamente coinvolti i detti beni» (sottolineati aggiunti).

L’insieme di tali argomentazioni mostra con sufficiente chiarezza: in primo luogo, come alla «tutela dei beni culturali» possa e debba essere riconosciuto «un proprio ambito materiale» definito; in secondo luogo, come il connesso «profilo teleologico della disciplina» dei beni culturali – riconducibile al più volte richiamato «valore estetico-culturale» – determini quell’obbligo di «considerazione esplicita» nelle decisioni sul governo del territorio che è tipica conseguenza della “primarietà” del valore in questione; infine, come l’effetto di vera e propria “integrazione” della tutela dei beni culturali nelle politiche di governo del territorio perseguito dalla norma legislativa censurata nel caso di specie sia concepito dalla Corte essenzialmente in termini di mera “facoltà” del legislatore regionale competente in quest’ultima materia e come il parametro di legittimità cui la Regione deve essere considerata vincolata sia esclusivamente costituito, ab externo, dal rispetto del regime di tutela di quei particolari beni predisposto dal legislatore statale.

Costituzione. In entrambe assume rilievo il profilo teleologico della disciplina». 80 In proposito, la Corte osserva: «Non si può dubitare, ad esempio, che disposizioni le quali, a qualsiasi livello, limitino l’inquinamento atmosferico o riducano, disciplinando la circolazione stradale, le vibrazioni, tutelino l’ambiente e insieme, se esistenti, gli immobili o i complessi immobiliari di valore culturale».

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3.2.4. Il principio di economicità dell’ambiente e il principio «chi inquina paga»

L’ultimo principio che consente di rappresentare le

caratteristiche essenziali dell’ambiente come oggetto di tutela giuridica è quello che può essere definito come principio di economicità. Si tratta di un principio che sottolinea in modo spiccato l’esigenza di adottare un approccio interdisciplinare nella trattazione del diritto dell’ambiente, richiamando la necessità di considerare attentamente la prospettiva delle scienze economiche.

Secondo gli economisti l’economicità dell’ambiente si rivela soprattutto nel riconoscimento ad esso di un vero e proprio valore economico, nel senso che l’ambiente deve essere considerato come una sorta di patrimonio multifunzionale che fornisce agli esseri umani una vasta gamma di funzioni e servizi di carattere economico, tali che se comprati o venduti in un mercato sarebbero tutti caratterizzati da un prezzo positivo. Tra queste funzioni e servizi che hanno un valore economico positivo possono essere ricompresi: a) una base di risorse naturali (rinnovabili e non rinnovabili); b) un insieme di beni naturali che forniscono servizi come il piacere estetico, la ricreazione e lo svago, la stessa realizzazione spirituale; c) una capacità di assimilazione dei rifiuti e, in generale, dei prodotti di scarto; d) un sistema complessivo di sostegno alla vita. La conseguenza è che in questa ottica si rende possibile una valutazione economica (sia pure con inevitabili margini di approssimazione) dell’ambiente in termini di benefici, ossia di aumento di benessere o di soddisfacimento di desideri, e di costi, ossia di riduzione di benessere o di sottrazione a desideri.

Tradotto sul piano giuridico, il principio di economicità dell’ambiente consente di rappresentare efficacemente l’urgenza di tenere conto non soltanto delle esigenze ambientali, ma soprattutto dei loro costi e del loro valore economico, evitando l’affermazione di una concezione del tutto parziale, distorta, irrealistica e, in fondo, inefficace dell’azione di tutela ambientale. Una corretta predisposizione degli strumenti di tutela dell’ambiente non può ragionevolmente fare a meno di considerare che la produzione di beni o servizi e l’esercizio di attività economica in generale comportano sempre dei costi ambientali in senso proprio, cioè in termini di alterazioni più o meno evidenti dell’equilibrio ecologico (uso di

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risorse, scarico di rifiuti, etc.); a ciò si aggiunga che ogni azione o misura finalizzata alla tutela dell’ambiente implica inevitabilmente l’esigenza di “finanziare” almeno dei costi economici diretti, che finiscono anch’essi per rientrare nella categoria dei costi ambientali: così le azioni di prevenzione, di sorveglianza, di gestione, di controllo, ma anche quelle di miglioramento, di recupero o ripristino, di informazione e di ricerca.

Uno dei principali problemi segnalati dagli economisti è quello che i costi ambientali connessi alle attività umane che usano delle risorse dell’ambiente o comunque incidono sull’equilibrio ecologico tendono ad assumere il carattere di costi sociali o costi esterni (detti anche “diseconomie esterne” o “esternalità”), ossia di costi che, anziché essere sostenuti e contabilizzati dal soggetto agente, vengono sopportati da terzi o dalla generalità dei consociati. La causa di questo fenomeno è da ricondurre, in particolare, da un lato alla mancanza di un prezzo di mercato connesso allo sfruttamento di molte delle risorse ambientali (si pensi, ad esempio, alla capacità di assimilazione dei rifiuti da parte dell’ambiente), dall’altro alla inadeguatezza dei prezzi di alcune risorse che molto spesso non riflettono i costi totali determinati dal loro impiego (ad esempio, il prezzo dell’energia elettrica non riflette il valore dei danni all’ambiente provocati dalla sua produzione). In tutti questi casi il soggetto che usa delle risorse ambientali o produce comunque un’alterazione dell’equilibrio ecologico finisce per valutare in modo scorretto i suoi costi interni, che risultano sottostimati, a danno del resto della società cui finiscono per essere addossati i costi ambientali.

La produzione di “diseconomie esterne”, a seguito di attività che incidono sull’equilibrio ambientale, comporta una serie di conseguenze rilevanti. Anzitutto si determina una inefficiente allocazione delle risorse, dal momento che quando l’impresa offre un bene o un servizio ad un prezzo di mercato che non riflette il valore complessivo dei fattori produttivi utilizzati e che quindi non trasmette un segnale corretto ai consumatori, provoca inevitabilmente una distorsione nelle preferenze di spesa: il bene o il servizio hanno un costo apparente inferiore a quello reale. Il fatto che il produttore non prenda in considerazione l’intero costo tra i suoi costi interni determina, inoltre, una sovrautilizzazione delle risorse apparentemente gratuite e quindi un eccesso di produzione rispetto al livello ottimale che si avrebbe con un corretto funzionamento del sistema di mercato. Ma un discorso del tutto analogo può essere fatto anche per le attività

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che non attengono alla produzione di beni o servizi. Se infatti un soggetto, svolgendo una qualsiasi attività, causa danni a terzi che rimangono privi di ogni tutela, è del tutto plausibile che la considerazione dei costi imposti non influenzerà in alcun modo la sua determinazione ad intraprendere o meno quella attività; anzi, proprio l’assenza di ogni previsione funzionerà da incentivo per l’utilizzazione di una risorsa che appare gratuita. In casi come questo si evidenzia un altro ordine di conseguenze che è generalmente legato alla presenza di diseconomie esterne e che assume rilievo più da un punto di vista equitativo (e quindi giuridico) che da un punto di vista strettamente economico: la produzione di un costo sociale finisce per lasciare ingiustificatamente senza risarcimento i danni che si causano alla collettività in generale.

Il rimedio che viene prevalentemente suggerito per ovviare ai problemi che nascono dal fenomeno dei costi esterni derivanti da attività che incidono sull’ambiente consiste nella cosiddetta internalizzazione dei costi ambientali, ossia nella neutralizzazione delle esternalità attraverso la loro riconduzione all’interno della sfera dei soggetti che intervengono a modificare l’equilibrio ecologico. Grazie all’internalizzazione il prezzo dei beni e dei servizi dovrebbe riflettere fedelmente il loro costo totale di produzione, compreso il costo di tutte le risorse utilizzate che cesserebbero di essere risorse ad accesso libero e gratuito. Si potrebbe così conseguire un triplice ordine di vantaggi: in primo luogo, si otterrebbe una corretta allocazione della ricchezza, evitando le distorsioni del mercato con le loro implicazioni; in secondo luogo, si determinerebbe una maggiore equità nei rapporti tra chi produce (o contribuisce a produrre) il degrado ambientale e chi è costretto soltanto a subirne le conseguenze; infine, lo stesso mercato, con il suo funzionamento, potrebbe costituire un efficace strumento di protezione dell’equilibrio ecologico, almeno nella misura in cui gli operatori sarebbero correttamente stimolati a tenere conto del valore economico delle risorse e dei servizi forniti dall’ambiente. Il che è come dire che l’internalizzazione dei costi ambientali non serve soltanto a far pagare tali costi al soggetto che interviene sull’ambiente, ma può costituire un metodo molto efficace affinché siano prodotti minori costi ambientali, dunque già in sé e per sé uno strumento per tutelare l’ambiente.

Il criterio fondamentale elaborato per tradurre in termini giuridici la necessità di perseguire gli obiettivi di internalizzazione dei costi ambientali è costituito dal principio «chi inquina paga» o «chi

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usa paga». Questo principio, che si afferma originariamente sul piano del diritto positivo nell’ambito dell’ordinamento comunitario, per un verso costituisce la fondamentale regola economica di politica ambientale, finalizzata ad integrare l’uso dell’ambiente nella sfera economica, per l’altro assume una specifica rilevanza giuridica nella sua funzione di orientare, in generale, l’imputazione di tutti i costi ambientali.

In via preliminare, occorre tenere conto della duplicità di dimensioni in cui il principio è destinato ad operare. Secondo una prima prospettiva, il principio “chi inquina paga” può essere considerato, senza dubbio, come espressione diretta (in guisa di corollario) del principio di economicità dell’ambiente, dal momento che si fonda sul duplice presupposto che all’ambiente deve essere riconosciuto un valore economico e che ogni intervento di modifica dell’equilibrio ecologico implica un costo economico che non può essere trascurato. In una seconda prospettiva, peraltro, il principio “chi inquina paga” assume inevitabilmente la funzione di criterio orientatore per la predisposizione in concreto delle azioni e delle misure di tutela dell’ambiente, proprio in quanto costituisce la formalizzazione giuridica di quell’esigenza di internalizzazione che nasce sul piano squisitamente economico e che impone l’imputazione del costo ambientale al soggetto che agisce sull’ambiente.

In questo senso, il principio in questione si colloca come vero e proprio fondamento, nonché come parametro di conformità, di tutta l’ampia varietà di strumenti che servono a soddisfare le esigenze di internalizzazione dei costi ambientali e nell’ambito dei quali, solo per ricordare quelli che presuppongono un intervento pubblico di regolazione (c.d. approccio normativo), si possono distinguere:

– strumenti normativi diretti o di “regolamentazione diretta”, fondati sull’approccio più tradizionale detto comando e controllo;

– strumenti economici, che si basano sull’uso dei meccanismi di mercato, soprattutto attraverso l’applicazione di forme di incentivazione e disincentivazione di determinate attività (tributi ambientali, sussidi diretti o indiretti, permessi negoziabili, etc.);

– strumenti risarcitori (o tecniche riparatorie) che, tramite l’applicazione della responsabilità civile, impongono l’obbligo di risarcire il danno causato all’ambiente, tanto sulla base degli elementi soggettivi della colpa e del dolo, quanto sulla base della semplice responsabilità oggettiva.

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3.2.4.1. Gli strumenti di “regolamentazione diretta”

Il sistema degli strumenti di regolamentazione diretta

rappresenta, senza dubbio, l’approccio più tradizionale e consiste nella produzione di norme, generali o particolari, che stabiliscono, ad esempio, requisiti di qualità (dell’ambiente, di singoli fattori ambientali, di prodotti) oppure regole di comportamento per l’esercizio di determinate attività o per l’utilizzazione di certe sostanze. Il funzionamento concreto di questo sistema esige, naturalmente, l’assegnazione di un ruolo preponderante all’azione amministrativa che si manifesta nell’emanazione di ordini, nel rilascio di autorizzazioni o licenze, nello svolgimento di controlli, nell’irrogazione di sanzioni, etc. La necessità di rispettare le norme ed i vincoli imposti dal legislatore o dalla pubblica amministrazione consente di conseguire gli obiettivi di internalizzazione dei costi ambientali, dal momento che l’impresa o, comunque, il soggetto che interviene sull’ambiente sono costretti ad addossarsi le spese per l’adeguamento delle loro attività.

Gli economisti tendono a ritenere che l’approccio basato sugli strumenti di regolamentazione diretta sia scarsamente efficiente e che debba essere preferito l’approccio che utilizza gli strumenti di mercato. L’inefficienza dei metodi di comando e controllo viene generalmente sostenuta in quanto si tratterebbe di strumenti altamente dispendiosi e, oltretutto, poco incentivanti.

Sotto il primo profilo, si fa notare che tali strumenti implicano che il legislatore e le amministrazioni pubbliche consumino risorse per aquisire informazioni che gli inquinatori già possiedono e ciò vale tanto nella fase di elaborazione e di determinazione delle misure di tutela, quanto nella successiva (e necessaria) fase del controllo; inoltre, i dati della realtà mostrano che «gli inquinatori differiscono fra loro per la facilità con cui possono ridurre l’inquinamento», essendo caratterizzati da costi di controllo diversi che non vengono tenuti in considerazione quando si impone a tutti di perseguire un medesimo standard di tutela. Il risultato è che l’approccio di regolamentazione diretta ha una tendenza intrinseca a fare sì che, a parità di livelli complessivi di tutela dell’ambiente, si determinino costi totali superiori a quelli che si produrrebbero attraverso l’uso degli strumenti di internalizzazione fondati sul mercato.

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Sotto il secondo profilo, si osserva che gli strumenti di comando e controllo impongono agli inquinatori soltanto uno sforzo iniziale di adeguamento e quindi non forniscono alcun incentivo che spinga, dinamicamente, a superare e migliorare i livelli di tutela prefissati sul piano normativo o amministrativo.

Malgrado i difetti che si devono riconoscere agli strumenti di regolamentazione diretta, non si può negare che, in determinate situazioni, tali strumenti si rivelano indispensabili ed anzi costituiscono l’approccio relativamente “migliore”. Occorre infatti, considerare la necessità di applicare, oltre all’economicità dell’ambiente e al principio «chi inquina paga», gli altri principî che si sono analizzati (si pensi alla centralità della persona umana, che discende dal principio dell’antropocentrismo, oppure al livello elevato di tutela, che discende dal principio di primarietà) e, soprattutto, i principî che servono specificamente ad orientare la predisposizione delle azioni di tutela dell’ambiente e che saranno illustrati più avanti (si pensi, in particolare, al principio dell’azione preventiva, cui si collega il principio di precauzione). L’interazione di questi principî fa sì che nei casi in cui, ad esempio, esista un forte grado di incertezza sulle conseguenze dannose che certe attività producono sull’ambiente oppure sussistano rischi di deterioramento irreversibile dell’equilibrio ecologico oppure, ancora, vi siano rischi molto elevati di danni per la salute umana, sia necessario adottare un atteggiamento particolarmente rigoroso, che privilegi la prudenza, attraverso l’emanazione di norme che fissino standard od obblighi inderogabili.

3.2.4.2. Gli strumenti economici Per quanto concerne gli strumenti economici, ossia quegli

strumenti che mirano a fornire incentivi o disincentivi nell’ambito della logica di mercato, sfruttando la sensibilità dell’inquinatore al meccanismo economico, essi – pur nella loro infinita varietà – possono essere classificati in tre categorie generali:

a1) strumenti che attuano un intervento diretto sui livelli del prezzo o del costo;

b1) strumenti che attuano un intervento indiretto sui prezzi e sui costi, attraverso misure di carattere finanziario o fiscale;

c1) strumenti che servono alla creazione o al sostegno di un mercato.

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Nella categoria sub a1) possono farsi rientrare le varie forme di tassazione ambientale, nonché i sistemi di rimborso dei depositi (deposit-refund). Nell’ambito della categoria sub b1) possono essere incluse le forme di sussidio diretto oppure indiretto (come, ad esempio, gli incentivi creditizi o fiscali). Infine, all’interno della categoria sub c1) può essere collocato il sistema “dei permessi negoziabili” (altrimenti detto “dei diritti di inquinamento”).

Tra i meccanismi di tassazione ambientale vengono solitamente distinti tre tipi di imposte. Anzitutto le imposte sulle emissioni, che sono «applicate alla dispersione di sostanze inquinanti nell’aria, nell’acqua o nel suolo, nonché sulla generazione di rumore» e che «si riferiscono alla quantità e alla qualità dell’agente inquinante e ai costi dei danni provocati all’ambiente»; in secondo luogo le imposte sullo sfruttamento o sull’utilizzazione di certe risorse, che «servono a raccogliere denaro e si riferiscono ai costi di trattamento, di raccolta e di smaltimento, nonché al recupero di costi amministrativi», mentre non hanno una diretta relazione con il costo dei danni provocati all’ambiente; infine le imposte sui prodotti o sulla produzione, che si applicano su prodotti che sono dannosi per l’ambiente quando vengono utilizzati in processi di produzione, oppure quando vengono consumati o smaltiti» e che sono riferite «alla rilevanza dei costi del danno ambientale provocati dal prodotto in questione»81.

La dottrina giuridica più recente sottolinea l’importanza di distinguere concettualmente i tributi ambientali in senso stretto dai tributi con funzione ambientale, cioè da quei tributi cui può essere riconosciuta solo come finalità extrafiscale una funzione di tutela ambientale. In questa logica dovrebbe essere considerato propriamente tributo ambientale solo quel tributo che risulti «caratterizzato da una relazione diretta, causale, fra il suo presupposto e l’unità fisica (emissioni inquinanti, risorsa ambientale, bene o prodotto) che produce o può produrre un danno all’ambiente»82. 81 Le definizioni citate sono di R.K. TURNER, D.W. PEARCE, I. BATEMAN, Economia ambientale, Bologna, Il Mulino, 1996, 210. 82 In tal senso, si vedano F. GALLO, F. MARCHETTI, I presupposti della tassazione ambientale, in S. GRASSI, M. CECCHETTI, A. ANDRONIO (a cura di), Ambiente e diritto, cit., II, spec. 364-366. Gli autori sottolineano che questa distinzione non significa che il tributo ambientale non possa assumere anche una funzione di tutela ambientale e sentono il bisogno di precisare che «il tributo ambientale è tale per la relazione diretta, causale, che sussiste fra il presupposto e il fatto materiale e

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In genere i tributi ambientali (sia quelli con “presupposto ambientale” sia quelli con semplice “funzione ambientale”) vengono considerati un tipo di strumento di internalizzazione particolarmente vantaggioso e, in astratto, di gran lunga preferibile rispetto all’approccio fondato sulla regolamentazione diretta.

Si tratta, infatti, di strumenti dotati di una spiccata flessibilità, ossia della capacità di essere modulati per tenere conto dei diversi costi di riduzione dell’inquinamento che possono caratterizzare i diversi settori produttivi, e ciò dovrebbe permettere di conseguire risultati socialmente ed economicamente migliori di quanto sarebbe possibile attraverso gli obblighi o gli standard.

Inoltre, l’imposizione di un tributo sull’inquinamento costituisce un evidente incentivo per l’inquinatore a ridurre progressivamente le conseguenze del proprio intervento sull’ambiente, senza mai accontentarsi dei risultati già realizzati; come viene efficacemente osservato, per sottolineare la differenza con il sistema di regolamentazione diretta, in questi casi la regola è: «meno si inquina meno si paga, e se non si inquina non si paga niente»83. La continua ricerca della riduzione o dell’eliminazione degli effetti dannosi sull’ambiente produce poi, come effetto non secondario, una forte spinta verso l’innovazione tecnologica e la scoperta di nuovi sistemi produttivi a minore impatto ambientale.

Occorre sottolineare, infine, che il meccanismo dei tributi ambientali presenta l’indiscutibile pregio di inviare segnali corretti sia ai produttori che ai consumatori. Poiché il tributo determina un aumento diretto dei costi di produzione con uno spostamento della curva dell’offerta, la conseguente diminuzione del profitto del produttore e l’aumento dei prezzi per il consumatore costituiscono altrettanti segnali, per entrambi, del costo del danno all’ambiente causato dal prodotto, incoraggiandoli a rivolgersi alla produzione e al consumo di beni meno dannosi. Al produttore può convenire di ridurre l’impatto sull’ambiente al fine di diminuire la misura del tributo; ciò si rifletterà sul prezzo del bene offerto che diventerà maggiormente competitivo sul mercato e preferibile per i consumatori rispetto a beni più costosi e più inquinanti. oggettivo (unità fisica) che determina il deterioramento scientificamente accertato dell’ambiente, ferma restando la possibilità che tale tributo persegua come effetto economico ed extrafiscale anche funzioni di tutela ambientale». 83 L’espressione è di P. MANZINI, I costi ambientali nel diritto internazionale, Milano, Giuffrè, 1996, 15.

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Nonostante i vantaggi, le forme di tassazione ambientale presentano alcune innegabili difficoltà applicative.

La prima risiede indubbiamente nella determinazione dell’importo del tributo che si vuole istituire, tenendo conto che, per fissare un importo ottimale, occorre basarsi su dati precisi in ordine ai costi ambientali complessivi e ai vantaggi legati allo svolgimento di certe attività o alla produzione di determinati beni. L’impossibilità di disporre di informazioni complete e scientificamente esatte su molti degli aspetti che sarebbero rilevanti e la conseguente incertezza sui costi e sui benefici effettivi, fa sì che il calcolo del livello ottimale di un tributo costituisca un obiettivo irrealistico e che l’importo venga fissato dall’autorità pubblica sulla base di valutazioni caratterizzate, inevitabilmente, da margini di approssimazione e da elementi di arbitrarietà.

La seconda difficoltà che incontra l’applicazione di imposte ambientali è dovuta al fatto che l’efficacia concreta di questi tipi di strumenti (in termini di diminuzione degli effetti negativi sull’ambiente) è strettamente connessa al grado di “elasticità” delle curve di domanda e di offerta del settore in cui si intendono introdurre. Se la domanda è molto elastica, cioè molto reattiva nei confronti delle variazioni di prezzo e quindi i consumatori possono facilmente rivolgere le loro preferenze verso l’acquisto di prodotti sostitutivi adeguati, il produttore ha un forte incentivo a diminuire l’importo da versare e quindi a ridurre l’impatto sull’ambiente. Al contrario, nei casi di domanda inelastica, in cui il consumatore non trova disponibili prodotti sostitutivi validi, il produttore non ha alcun incentivo a diminuire l’inquinamento84.

Un altro limite che viene indicato come uno dei punti più deboli dell’applicazione di forme di tassazione ambientale risiede nelle implicazioni negative che questi strumenti determinano per l’economia di uno Stato che intenda introdurli unilateralmente. In altri termini, gli svantaggi che i tributi ambientali possono creare alle 84 Si osservi che, nella prima ipotesi (domanda molto elastica), il produttore riesce solo in misura molto lieve a scaricare il peso dell’imposta sul consumatore sotto forma di prezzi più elevati e, di conseguenza, è costretto a sostenere la maggior parte dell’importo del tributo; nella seconda ipotesi, viceversa, è molto probabile che sia il consumatore a sostenere il peso maggiore dell’imposta, dato che non può o non è disponibile a ridurre il livello dei propri consumi, nonostante l’aumento del prezzo. Anche in quest’ultimo caso, comunque, il principio “chi inquina paga” sembrerebbe rispettato, dal momento che anche i consumatori possono essere ritenuti responsabili, almeno in parte, del degrado ambientale.

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imprese di un determinato paese, nei confronti delle imprese straniere, rendono del tutto impraticabile una politica autonoma del singolo Stato che prescinda dal raggiungimento di un vasto consenso tra più Stati sulla simultanea introduzione di tali strumenti; di conseguenza, si impone la necessità di stipulare una qualche forma di accordo o di trattato internazionale. La concreta realizzabilità di tali accordi trova però numerosi ostacoli. Si pensi, ad esempio, al fatto che ogni Stato trova certamente più conveniente che l’accordo avvenga tra tutti gli altri paesi, eccetto se stesso, potendo in tal modo sfruttare i vantaggi competitivi per le proprie imprese ed i vantaggi della riduzione di inquinamento sostenuta dalle imprese altrui; oppure si pensi alla difficoltà di trovare un consenso su una determinazione quantitativa comune del tributo, dovendo tenere conto di realtà e di costi che si differenziano da paese a paese.

Le difficoltà ed i limiti applicativi che possono incontrare le forme di tassazione ambientale suggeriscono l’opportunità di non esagerare nell’esaltazione di questo tipo di strumenti e di rivolgere l’attenzione anche agli altri meccanismi economici che si fondano sulle logiche del mercato e che consentono di ottenere vantaggi simili.

Ad esempio, in determinate situazioni, i vantaggi connessi con un intervento diretto sui livelli di prezzo possono essere conseguiti più facilmente con il sistema del deposito rimborsabile (deposit-refund). Questo strumento consiste nell’obbligo di versare una somma per acquistare o utilizzare un prodotto potenzialmente nocivo per l’ambiente e nel corrispondente diritto di riscattare tale somma al momento della restituzione del prodotto o del suo residuo in un punto di raccolta autorizzato.

Tra gli strumenti economici che attuano un intervento indiretto sul livello dei prezzi e dei costi vengono annoverate, come già ricordato, le varie forme di sussidio, diretto o indiretto, che ricadono nella disciplina comunitaria degli aiuti di Stato. Si tratta di strumenti che di per sé si collocano al di fuori della logica dell’internalizzazione dei costi ambientali, dal momento che (e nella misura in cui) il costo del beneficio all’ambiente è sostenuto in questi casi dalla collettività (Stato). La loro funzione è quella di diminuire le esternalità (almeno fintanto che la misura del sussidio è inferiore al costo complessivo dei danni evitati all’ambiente), piuttosto che quella di ricondurre i costi sociali nella sfera dell’inquinatore; possono quindi costituire un valido stimolo ad una produzione minore di costi esterni e in ogni caso,

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anche se economicamente svantaggiosi nel rapporto complessivo tra costi e benefici, conducono ad una maggiore tutela dell’ambiente.

Dal punto di vista tipologico e terminologico si possono distinguere dei veri e propri “sussidi-premio” e dei “sussidi-incentivo”: i primi sono stati definiti come il «prezzo negativo della depurazione, ossia [il] ‘premio’ che viene dato a chi disinquina, in perfetta simmetria con la tassa che grava sull’inquinatore»; i secondi rappresentano una forma di sussidio parziale che consiste in un «incentivo concesso allo svolgimento di un’operazione onerosa, qual’è nel caso specifico la depurazione, diretto a diminuire le resistenze allo svolgimento dell’operazione stessa ma incapace, di per sé, di rappresentare una forma di guadagno netto»85. È evidente che i sussidi del secondo tipo possono, in concreto, farsi rientrare nell’ambito di una logica di internalizzazione “parziale”, dal momento che fungono soltanto da incentivi e non coprono l’intero costo di una determinata misura di tutela dell’ambiente che, in buona parte, continua a fare carico sull’inquinatore.

Un’altra distinzione rilevante sotto il profilo tipologico è quella già richiamata tra sussidi diretti e sussidi indiretti. Nella prima categoria rientrano le sovvenzioni in senso stretto, ossia le prestazioni positive concesse dallo Stato in natura o in denaro; nella seconda categoria vengono fatte rientrare le varie forme di incentivazione che mirano ad alleviare gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa, come ad esempio gli sgravi fiscali o le agevolazioni creditizie.

Al di là dei pregi e dei limiti che possono caratterizzare le varie forme di sussidio, l’aspetto fondamentale che deve essere sottolineato è il fatto che tali strumenti costituiscono comunque una deroga al principio «chi inquina paga» e sono sottoposti, sia in ambito comunitario che in ambito internazionale, alla disciplina degli aiuti di Stato.

L’ultima categoria di strumenti economici è rappresentata, come accennato, dagli strumenti finalizzati alla creazione o al sostegno di un mercato; tra questi, assumono una particolare rilevanza i permessi commerciabili o diritti negoziabili di inquinamento.

85 Le due definizioni sono di G. MURARO, L’impiego dei sussidi per la regolazione delle diseconomie esterne con particolare riguardo all’inquinamento, in Riv. dir. fin. e sc. finanze, 1974, 383.

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In estrema sintesi, l’idea che sta alla base del funzionamento di questo sistema è piuttosto semplice. In primo luogo, si tratta di determinare, a livello normativo o amministrativo, una certa quantità di sostanze inquinanti che costituiscono il livello massimo per garantire la qualità di un determinato fattore ambientale (aria, acqua, suolo, etc.). In base a tale standard complessivo, l’organo pubblico competente rilascia un certo numero di permessi relativi, ciascuno, ad una determinata quota di inquinamento consentito. Ogni “diritto” di inquinare per quella quota ha un prezzo, «cosicché è lasciata alla convenienza delle imprese la scelta circa la produzione di inquinamento o l’utilizzazione di sistemi di depurazione»86. Dal momento in cui si è realizzata l’allocazione iniziale dei permessi, gli inquinatori sono liberi di commercializzarli e ciò costituisce la caratteristica peculiare e la principale attrattiva di questo tipo di strumento. L’impresa che incontra costi di abbattimento dei carichi inquinanti più elevati rispetto al prezzo dei permessi sarà incentivata ad acquistarli, mentre l’impresa che si trova nella situazione opposta troverà più conveniente venderli.

Da questo forte incentivo agli scambi si determina una situazione che, con un notevole grado di semplificazione, può essere descritta nel modo seguente. Le misure di tutela dell’ambiente tenderanno a gravare su coloro per i quali esse risultano meno onerose; viceversa, il possesso dei permessi tenderà a concentrarsi nelle mani degli inquinatori che hanno maggiori difficoltà a ridurre il loro impatto sull’ambiente; in tale contesto, l’autorità pubblica competente dovrebbe svolgere il ruolo di mediazione nel commercio dei permessi, nonché di regolazione e di correzione di eventuali disfunzioni del mercato. Il risultato complessivo è che, a fronte di un determinato standard di tutela ambientale da rispettare, si ottiene una diminuzione dei costi totali di adeguamento, rispetto a quanto avverrebbe in un sistema fondato solo su strumenti di comando e controllo. In altri termini, lo strumento dei permessi commerciabili può costituire un valido sistema di utilizzazione dei meccanismi di mercato per conseguire gli obiettivi fissati dalle misure di regolamentazione diretta, riducendone alcuni dei principali svantaggi87. 86 Così M. MELI, Il principio comunitario “chi inquina paga”, Milano, Giuffrè, 1996, 52. 87 Il sistema in questione assume spiccate caratteristiche di flessibilità anche attraverso l’introduzione di alcune varianti come le compensazioni (offsets), che

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Come avviene per gli altri strumenti che si sono descritti, anche il sistema dei permessi non è esente da limiti applicativi. Alcuni di questi limiti si ricollegano alle difficoltà che molto spesso le imprese incontrano, nella pratica, a realizzare scambi esterni e quindi alla tendenza che il sistema ha di orientare quasi esclusivamente verso forme di scambio nell’ambito della stessa impresa88. Altri limiti sono rappresentati dalle conseguenze che possono derivare in relazione al numero dei soggetti coinvolti nel sistema; se gli inquinatori sono molto numerosi, si possono avere costi amministrativi molto elevati e quindi poco convenienti; se, invece, gli inquinatori sono molto pochi, questi hanno la concreta capacità di paralizzare il mercato dei permessi, rifiutando di commercializzarli, con l’ulteriore conseguenza di poter impedire l’ingresso di nuove imprese nel settore.

Oltre ai limiti appena richiamati, merita di essere menzionata un’altra critica che, soprattutto in passato, è stata rivolta allo strumento dei permessi negoziabili sulla base di un approccio troppo superficiale e poco realistico: l’accusa di essere un sistema “immorale” perché crea manifestamente un mercato dell’inquinamento, consentendo di degradare l’ambiente a fronte del pagamento di un prezzo. Tale accusa risulta del tutto infondata, se si considera che lo strumento dei permessi non comporta, di per sé, un sacrificio della qualità ambientale rispetto ai metodi fondati sul comando e controllo, anzi può costituire un efficace ausilio per un migliore funzionamento di questi ultimi.

Le considerazioni svolte in ordine agli strumenti di internalizzazione dei costi ambientali basati su metodi di regolamentazione diretta e su meccanismi di mercato mettono in luce un dato di sintesi di estremo rilievo. Tenuto conto dei pregi e dei

servono a favorire l’ingresso sul mercato di nuove imprese, e le accumulazioni (banking), che funzionano come una sorta di diritti di credito conseguenti ad una riduzione delle emissioni oltre la misura stabilita. Si tenga presente, inoltre, che lo scambio dei permessi può avvenire non soltanto tra inquinatori diversi ma anche tra le diverse fonti di inquinamento all’interno della medesima impresa. A ciò si aggiunga il fatto che il sistema può essere applicato, oltre che ai fenomeni di inquinamento, anche ad ambiti ulteriori, come ad esempio l’uso delle risorse (in questi casi vengono assegnate e rese commerciabili quote di sfruttamento di una determinata risorsa). 88 Le principali ragioni di questa tendenza vengono comunemente individuate negli elevati costi di acquisizione di informazioni relative alle altre imprese disponibili ad effettuare una transazione e nella maggiore incertezza di fondo che, di conseguenza, caratterizza gli scambi esterni.

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difetti che ciascuno strumento presenta (se preso singolarmente), è necessario concludere che la combinazione dei vari sistemi si rivela indispensabile per ottenere i migliori risultati possibili.

Il metodo di approccio “combinato” o “misto” deve servire non soltanto a guidare la scelta tra i vari tipi di strumenti economici, ma anche a non trascurare l’importanza che occorre riconoscere ai sistemi di regolamentazione diretta. Nonostante gli indubbi vantaggi che possono derivare dall’uso di strumenti che si fondano sulle logiche del mercato, gli strumenti di regolamentazione diretta conservano un loro specifico ruolo e quindi non possono essere integralmente sostituiti dagli strumenti economici. Questi ultimi hanno essenzialmente la funzione di potenziare e migliorare l’efficienza concreta dei primi, in un contesto che vede i due tipi di strumenti in rapporto di complementarietà e non di reciproca esclusione. Il problema principale diviene allora quello del corretto ed equilibrato dosaggio, fra i due differenti tipi di approccio e fra i singoli strumenti, che deve caratterizzare le scelte di una efficace politica di tutela dell’ambiente che miri all’internalizzazione dei costi ambientali, in conformità con il principio «chi inquina paga».

3.2.4.3. Le tecniche riparatorie fondate sulla responsabilità civile: sintesi della disciplina del danno ambientale

La conclusione a cui si è appena giunti vale, a maggior

ragione, se si prende in considerazione anche l’ultimo degli strumenti di internalizzazione che si sono precedentemente richiamati: le tecniche riparatorie che si basano sull’istituto della responsabilità civile per danni all’ambiente.

In realtà tale strumento viene generalmente trascurato dalle analisi degli economisti che si occupano del problema dei costi ambientali e ciò, principalmente, per tre ordini di ragioni. Anzitutto, il sistema risarcitorio sarebbe scarsamente “economico” a motivo degli alti costi dei meccanismi processuali e delle concrete difficoltà di impiego (individuazione del nesso causale, valutazione dell’elemento soggettivo in caso di responsabilità per colpa, quantificazione del danno); in secondo luogo, si fa notare che quando vengono in considerazione “beni pubblici”, ossia beni che non consentono di escludere l’uso che altri ne faccia e/o di dividere i vantaggi che essi offrono, la tecnica riparatoria si rivelerebbe inefficiente e

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impraticabile, data la necessità di indennizzare un numero indefinibile di soggetti; infine, la responsabilità per danno ambientale sarebbe incompatibile con l’uso degli strumenti che mirano a realizzare una tutela di tipo preventivo, dal momento che «costringerebbe il danneggiante al rispetto di standard diversi rispetto a quelli fissati dal legislatore» e, soprattutto, «obbligherebbe l’inquinatore a sostenere, per la seconda volta, dei costi» (il che porterebbe ad una riduzione dell’inquinamento al di sotto del livello ritenuto ottimale)89.

Le obiezioni richiamate, pur cogliendo alcuni dei profili più problematici che caratterizzano l’applicazione in concreto degli strumenti risarcitori, non si rivelano del tutto insuperabili e quindi decisive.

La dottrina giuridica più attenta è da tempo concorde nel ritenere che l’istituto della responsabilità civile per danni all’ambiente possa costituire un valido strumento di internalizzazione delle esternalità ambientali, in perfetta conformità con il principio “chi inquina paga”, al pari delle misure di regolamentazione diretta e degli strumenti economici. Come è stato osservato, «ritenere l’inquinatore responsabile civilmente per i danni ambientali che causa ai terzi nell’esercizio della propria attività significa, innanzitutto, imporgli l’internalizzazione dei costi ambientali che esso trasferisce sui terzi sotto forma di danni; e significa, in secondo luogo, indurlo indirettamente a dotarsi di quegli strumenti e/o a porre in essere quelle misure necessarie ad evitare che i terzi vengano danneggiati»90.

In realtà, l’uso delle tecniche riparatorie non si rivela astrattamente incompatibile con l’applicazione degli altri strumenti di internalizzazione dei costi ambientali. Al di là della funzione deterrente (e quindi preventiva) che può assumere, la predisposizione di meccanismi risarcitori risulta indispensabile se si considera che, in concreto, non tutti gli eventi dannosi possono essere prevenuti e che pertanto, una volta che il danno si sia verificato, sarà necessario rispondere all’esigenza di ricondurre i costi da chi li subisce a chi li genera.

In questo senso, si deve ammettere che all’applicazione della responsabilità civile per danno ambientale possa essere riconosciuto

89 Per una accurata ricostruzione di queste argomentazioni, con ampi riferimenti bibliografici, si veda M. MELI, Il principio comunitario “chi inquina paga”, cit., 55-59, da cui sono tratti i passi citati. 90 Così P. MANZINI, op. cit., 32.

89

un ampio spazio di operatività ed una funzione di completamento dei sistemi volti a risolvere il problema delle esternalità ambientali; si conferma così la necessità di adottare un approccio combinato che consenta una equilibrata integrazione dei vari tipi di strumenti.

Ma quale può essere lo specifico campo d’azione delle tecniche riparatorie, soprattutto se si tiene conto della necessità di garantirne la compatibilità con le misure di regolamentazione diretta e con gli strumenti economici?

La dottrina che si è dedicata maggiormente allo studio di questi aspetti individua alcune ipotesi in cui, per conseguire gli obiettivi di internalizzazione, si potrebbe (e si dovrebbe) ricorrere allo strumento del risarcimento del danno91.

Anzitutto vengono in considerazione i casi di “inquinamento accidentale” e di “inquinamento intermittente”: i primi non pongono alcun problema di duplicazione dei costi sopportati dagli inquinatori, poiché «il danno scaturisce da una disfunzione verificatasi all’interno del processo produttivo, che prescinde da una previa determinazione del livello di inquinamento consentito»; i secondi presentano la peculiarità che «per assicurare un livello ottimale [di inquinamento] si devono affrontare costi superiori ai danni evitati, e [quindi] è preferibile mantenere l’inquinamento esistente ed indennizzare le vittime affinché lo accettino» (come nel caso dell’inquinamento acustico prodotto dal traffico aereo).

Per quanto concerne i fenomeni di “inquinamento continuo”, il problema principale che incontra l’uso delle tecniche riparatorie è, come accennato, quello di conciliarsi con il cosiddetto livello di inquinamento “consentito”, ossia con il pregiudizio che residua da un’attività conforme alle misure di regolazione imposte e che deve essere lasciato a carico di chi lo subisce, per non determinare una duplicazione dei costi dell’inquinatore e rendere così instabile l’equilibrio raggiunto. Un comportamento previamente autorizzato (in quanto conforme agli standard stabiliti o perché frutto di un “permesso” di inquinare, etc.) non può, di principio, essere considerato illecito e quindi fonte di un obbligo di risarcimento. In questi casi l’autorità pubblica ha già preso in considerazione un “danno residuale collettivo” che viene tollerato e non può essere ricondotto alla sfera di responsabilità dell’inquinatore.

91 In merito a tali ipotesi e per le citazioni che seguono, si veda M. MELI, Il principio comunitario “chi inquina paga”, cit., 59-60, 152-154.

90

Tutto ciò porta a concludere che, nel trattamento dell’inquinamento continuo, le tecniche riparatorie possono essere utilizzate soltanto nelle ipotesi di mancato rispetto delle misure di regolazione (superamento dei limiti consentiti) e nelle ipotesi in cui «il pregiudizio verificatosi non debba ritenersi “consentito”», in quanto manca del tutto un intervento regolativo oppure «la determinazione del livello di inquinamento [da parte dell’autorità pubblica] prende in considerazione interessi diversi da quelli lamentati nel caso di specie (siano essi collettivi o individuali)»92.

Una volta delineato l’ambito di operatività degli strumenti risarcitori per l’internalizzazione dei costi ambientali, non possono essere trascurati i nodi fondamentali che presenta la costruzione di un efficiente modello di responsabilità civile per danno all’ambiente. Si tratta, in particolare, di considerare tre profili problematici, che impongono alcune delicate scelte di politica legislativa e che, in questa sede, possono soltanto essere richiamati.

Il primo è costituito dall’introduzione di forme di responsabilità oggettiva, che la dottrina tende a ritenere più adatte a conseguire gli obiettivi rispetto ai criteri di imputazione soggettivi fondati sulla colpa. Al riguardo, si fa notare che, nonostante la preferenza da riconoscere alla responsabilità oggettiva, questa non può avere un campo di applicazione incondizionato, dovendosi coordinare con «l’esigenza di considerare fuori dal risarcibile quei pregiudizi che siano il risultato di attività svolte in conformità con le misure di regolazione imposte»93.

92 In quest’ultimo caso ci si trova di fronte al cosiddetto “danno residuale differenziato”, che consiste, in estrema sintesi, in un pregiudizio diverso da quello considerato nella predisposizione delle misure di regolazione (come accade, ad esempio, per le conseguenze negative che debbono subire i soggetti che si trovano in maggiore contiguitas con la fonte dell’inquinamento). La risarcibilità di questo tipo di danno, che non sarebbe ostacolata dal rispetto delle normative pubblicistiche antinquinamento da parte del responsabile, è ritenuta un «principio ormai consolidato»; sul punto, cfr. M. MELI, Il principio comunitario “chi inquina paga”, cit., 153, che rinvia a: G. MORBIDELLI, Strumenti privatistici contro l’inquinamento delle acque interne, in Foro amm., 1971, 380; M. PARADISO, Inquinamento delle acque interne e strumenti privatistici di tutela, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, 1391; G. VISINTINI, Il divieto di immissioni e il diritto alla salute nella giurisprudenza odierna e nei rapporti con le recenti leggi ecologiche, in Riv. dir. civ., 1980, 249; M.R. MAUGERI, Normativa sull’inquinamento atmosferico e tutela privatistica delle immissioni, in Riv. crit. dir. priv., 1994, 243. 93 Così M. MELI, Il principio comunitario “chi inquina paga”, cit., 156.

91

Il secondo profilo riguarda i contenuti che la tutela risarcitoria deve concretamente assumere e, in particolare, l’introduzione di forme di risarcimento per equivalente accanto agli irrinunciabili strumenti a carattere inibitorio o ripristinatorio. È evidente che qualora il ripristino non sia più possibile o si riveli eccessivamente oneroso rispetto ai benefici che produrrebbe, è necessario prevedere il pagamento di una somma di denaro da parte dell’inquinatore a colui che ha subito il danno, altrimenti si vanificherebbero gli obiettivi di internalizzazione dei costi. In questi casi, però, emergono numerosi problemi legati alle difficoltà (soprattutto per il giudice) di quantificare monetariamente un danno che certamente fuoriesce dalla logica patrimoniale del “danno emergente” e del “lucro cessante”.

Il terzo aspetto, che impone al legislatore una scelta adeguata alla complessità degli obiettivi, concerne l’individuazione del soggetto o dei soggetti che siano in grado di agire a tutela degli interessi della collettività danneggiata, dal momento che il danno ambientale rileva quasi sempre in relazione a beni insuscettibili di appartenenza individuale.

Nel nostro ordinamento, la disciplina della responsabilità per danno ambientale è attualmente contenuta nella parte sesta del d.lgs. n. 152 del 2006 (Norme in materia ambientale), che, in attuazione della direttiva n. 2004/35/CE sulla responsabilità in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, prevede che:

1) le funzioni di tutela, prevenzione, riparazione dei danni all’ambiente sono esercitate dal Ministro dell’ambiente, che si avvale della collaborazione di Regioni e enti locali (art. 299);

2) è danno ambientale «qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima»; ai sensi della direttiva n. 2004/35/CE, costituisce danno ambientale il deterioramento alle specie e agli habitat naturali protetti, alle acque interne, alle acque costiere, al terreno (art. 300);

3) trova applicazione il principio di precauzione, in relazione a ogni rischio che possa essere individuato a séguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva (art. 301);

4) l’azione di tutela è in primo luogo azione di prevenzione; l’operatore che causa una minaccia imminente di danno ambientale deve adottare le necessarie misure di prevenzione e di messa in sicurezza; di fronte ad una minaccia di danno, il Ministro dell’ambiente può chiedere informazioni, ordinare l’adozione di

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misure di prevenzione, adottare direttamente misure di prevenzione (art. 304);

5) in caso di danno ambientale, incombono sull’operatore che lo ha causato gli obblighi di ripristino di cui agli artt. 305 e 306; il Ministro dell’ambiente può chiedere informazioni, ordinare l’adozione di misure di ripristino, adottare direttamente misure di ripristino (art. 305);

6) i costi di prevenzione e ripristino gravano sull’operatore che ha causato la minaccia di danno o il danno, a meno che non dimostri la mancanza di dolo o colpa e che l’evento pericoloso o dannoso a) è stato espressamente consentito da una autorizzazione o b) non era prevedibile come probabile conseguenza del suo comportamento secondo le conoscenze scientifiche e tecniche del momento (art. 308);

7) il Ministro dell’ambiente è legittimato ad agire di fronte al giudice ordinario, in un giudizio civile o mediante costituzione di parte civile in un giudizio penale, per il risarcimento in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, contro “chiunque, realizzando un fatto illecito o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza, o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte” (art. 311);

8) il Ministro può, in alternativa (art. 315), procedere in via amministrativa, adottando un’ordinanza che ingiunga il ripristino ambientale o il pagamento di una somma pari al valore del danno accertato e residuato (artt. 312, 313, 314).

3.2.4.4. Cenni sull’evoluzione del significato del principio «chi inquina paga»

Si è detto che il principio «chi inquina paga» si afferma sul

piano del diritto positivo soprattutto nel diritto comunitario (cfr. art. 130R, ora 174, par. 2, del trattato CE, che dal 1986 ne contempla l’esplicito richiamo tra i principî che debbono fondare l’azione della Comunità in materia ambientale) ma è evidente che grazie al peso che assume la produzione normativa comunitaria, gli effetti di tale principio ricadono inevitabilmente anche sul diritto interno (ad es., Cass. pen., Sez. III, 6 aprile 1993, n. 3148).

93

Nella sua formula letterale, il principio mostra chiaramente una doppia anima, un carattere aperto che, almeno in astratto, consentirebbe ad esso di fungere nel contempo da regolatore economico, attraverso l’imputazione dei costi dell’inquinamento all’inquinatore, realizzando una tutela ex ante, e da fonte per la regolamentazione di meccanismi di risarcimento del danno ambientale, basati sulla responsabilità civile, esercitando una tutela ex post. Ma in realtà l’analisi del diritto comunitario porta ad escludere che, almeno in origine, possano farsi rientrare nella sfera di operatività del principio “chi inquina paga” anche le tecniche riparatorie volte al risarcimento dei danni all’ambiente che si siano già verificati.

Il principio nasce, infatti, essenzialmente per due finalità: da un lato, per “finanziare” le azioni di tutela ambientale, addossando sui soggetti inquinatori i costi delle misure necessarie ad evitare o ridurre l’inquinamento e, quindi, scaricando di tali oneri la collettività (evitando così, oltretutto, le sovvenzioni degli Stati membri); dall’altro, per contribuire alla prevenzione degli inquinamenti, inducendo gli inquinatori a ridurli, a ricercare prodotti e tecnologie meno dannosi per l’ambiente e ad utilizzare più razionalmente le risorse naturali94.

Fino alla metà degli anni ottanta prevale senz’altro un’accezione del principio «chi inquina paga» legata alla logica dell’internalizzazione parziale che tende ad escluderne la funzione di strumento di responsabilità civile; a ciò si aggiunge il pericolo di un’applicazione addirittura distorta del principio, almeno rispetto alla sua ratio originaria; sembra infatti concretamente prospettabile la possibilità che i costi sostenuti dall’inquinatore finiscano per assumere in definitiva il carattere del prezzo per l’acquisto di un’autorizzazione ad inquinare, giungendosi in tal modo ad un vero e proprio ribaltamento della formula da «chi inquina paga» a «inquina ma paga».

Solo a partire dal 1986 il significato del principio «chi inquina paga» subisce un’evoluzione decisiva.

In primo luogo, il principio comincia ad essere richiamato esplicitamente anche come fondamento di responsabilità civile per i danni causati all’ambiente. In secondo luogo, la costituzionalizzazione ad opera dell’art. 130R (ora art. 174), par. 2, del trattato CEE, come 94 In questo senso, cfr. la comunicazione della Commissione al Consiglio allegata alla raccomandazione n. 75/436 Euratom, CECA, CEE, emanata dal Consiglio il 3 marzo 1975.

94

principio autonomo e distinto dai principî di prevenzione e correzione (dopo Maastricht anche di precauzione), anche se ad essi collegato, ha consentito al principio “chi inquina paga” di perdere gran parte dell’originaria ambiguità. Non sembra più possibile, infatti, considerare la prevenzione e la correzione come aspetti ricompresi e quasi assorbiti nell’ambito di un unico principio «chi inquina paga», con il rischio di quel ribaltamento della formula ad un «inquina ma paga» che vanificherebbe ogni sforzo per tutelare l’ambiente.

Nella formulazione dell’art. 174 attualmente vigente vi è un preciso ordine di principî che costituiscono non soltanto il fondamento, ma anche il parametro di “costituzionalità” della politica di tutela dell’ambiente all’interno della Comunità.

Questo ordine di principî segue un criterio di priorità logica e cronologica per cui la precauzione deve ispirare l’azione preventiva; l’azione preventiva deve essere preferita alla correzione; la correzione, in via prioritaria alla fonte, degli inconvenienti ambientali deve imporsi rispetto alle forme di risarcimento per equivalente; il risarcimento del danno fondato sui meccanismi della responsabilità civile riveste la funzione di strumento di chiusura del sistema, in grado di fornire un minimo di protezione a tutte le situazioni non altrimenti tutelabili.

In questa precisa serie di forme e di strumenti di tutela dell’ambiente, in concorso successivo e inderogabile tra loro, si inserisce il principio «chi inquina paga», che assume il carattere di principio orizzontale che deve informare di sé tutte le azioni e i metodi di tutela.

Grazie all’interpretazione sistematica dell’art. 174, par. 2, del trattato CE, il principio «chi inquina paga» opera come strumento per “finanziare” (attraverso l’individuazione del soggetto sul quale deve gravare l’onere economico), nell’ordine, le misure precauzionali, le azioni di tutela preventiva e le azioni di correzione, nonché per fondare la responsabilità ed il relativo obbligo di risarcimento a carico di colui che abbia provocato un danno all’ambiente, purché non rientrante nei costi ambientali già considerati dall’ordinamento. Tale ordine, merita ribadirlo, è da considerare tassativo ed inderogabile; non sembrano pertanto ammissibili forme di protezione dell’ambiente che lascino al potenziale inquinatore la possibilità di scegliere liberamente, a priori, quale misura di tutela gli convenga maggiormente “finanziare”.

95

3.3. I principî sull’azione di tutela dell’ambiente 3.3.1. Il principio dell’azione preventiva

Tra i principî che individuano le esigenze fondamentali cui

deve essere orientata la concreta predisposizione delle azioni di tutela dell’ambiente il principio dell’azione preventiva si colloca, senza dubbio, in una particolare posizione di priorità.

Nella sua ratio più elementare, questo principio impone che la tutela dell’ambiente si configuri, anzitutto e prevalentemente, come tutela preventiva. Si tratta di un’esigenza di fondamentale importanza, oltreché di immediata percepibilità, non solo perché prevenire è sempre meno gravoso che risarcire, ma anche per la considerazione che il carattere rischioso di determinate attività può facilmente fare sì che le conseguenze dannose eccedano qualsiasi possibilità di riparazione.

La migliore azione di tutela dell’ambiente è certamente quella che cerca di evitare la creazione di inquinamenti o danni agli equilibri ecologici, piuttosto che quella che cerca di eliminare o riparare successivamente gli effetti dannosi. Non è un caso che nell’elenco dei principî richiamati nell’art. 174, par. 2, del trattato CE risulti evidente la collocazione in posizione secondaria del principio di correzione, che rende l’azione correttiva dei danni all’ambiente “subordinata” al previo esperimento di adeguate misure preventive, le quali, in via di massima, sono senz’altro da preferire nei limiti del possibile e pur sempre nella consapevolezza della funzione essenziale svolta dalla correzione; a quest’ultima, infatti, non può essere negato il ruolo di coprire le lacune e gli insuccessi della tutela preventiva, attraverso la riduzione e l’eliminazione, «in via prioritaria alla fonte», dell’inquinamento e delle alterazioni ambientali già verificatisi.

Dal punto di vista giuridico e in termini generalissimi, la valorizzazione del momento preventivo dell’azione significa che l’intervento normale del diritto deve tendere a preservare la stabilità ecosistemica prima, e piuttosto, che a ripristinare equilibri compromessi. In questo senso, il principio dell’azione preventiva si colloca in linea di immediata continuità tanto con il concetto di “sviluppo sostenibile”, che tra i propri contenuti più condivisi annovera quello di “evitare danni permanenti all’ambiente”, quanto con il principio di integrazione che, richiamando la necessità di

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prendere in considerazione le esigenze di tutela dell’ambiente nella definizione e nella attuazione di tutte le decisioni (politiche, normative o amministrative), mette chiaramente in luce il privilegio accordato all’approccio preventivo per conseguire l’obiettivo di una protezione efficace.

Malgrado il significato apparentemente generico ed il carattere pressoché scontato, che potrebbero farne sottovalutare l’importanza, il principio dell’azione preventiva risulta ricco di implicazioni concrete per la determinazione delle strategie di tutela dell’ambiente e non sembra affatto privo di conseguenze giuridicamente rilevanti.

Ad esempio, come si è accennato, nella scelta fra i diversi strumenti di internalizzazione dei costi ambientali, le logiche della prevenzione giustificano senz’altro un ruolo non secondario e comunque imprescindibile affidato agli strumenti di regolamentazione diretta (approccio command and control). Vi sono, infatti, situazioni in cui la sussistenza di un sufficiente grado di certezza circa le conseguenze dannose che certe attività producono sull’ambiente, sulla salute umana o, comunque, sulla conservazione degli equilibri ecologici rende ragione dell’adozione di un approccio preventivo fondato su un atteggiamento particolarmente rigoroso, che privilegi la prudenza e che si concretizzi nell’emanazione di norme che fissino standard od obblighi inderogabili, nonché nella predisposizione di adeguati controlli e strumenti sanzionatori in grado di assicurare il rispetto delle prescrizioni imposte.

La valorizzazione del ruolo delle misure di command and control, che discende direttamente dall’esigenza di adottare un approccio fondato sulla prevenzione, implica non soltanto interventi a carattere normativo ma, più in generale, «un intervento non marginale dell’Amministrazione e basilarmente un’organizzazione della stessa adeguata allo scopo», da cui consegue anche la centralità dei problemi relativi alle modalità concrete di «conformazione dei procedimenti amministrativi che interessano la materia», dal momento che «il procedimento serve, nella misura massima possibile, alla concreta composizione preventiva degli interessi in gioco»95.

Sul piano dell’attività, inoltre, l’imprescindibile ruolo dell’Amministrazione chiamata a realizzare la tutela preventiva dell’ambiente richiede, soprattutto, l’adozione di strumenti di programmazione e pianificazione, nonché la predisposizione di regimi

95 Così G. CAIA, I procedimenti amministrativi in materia ambientale, cit., 74-75.

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autorizzatori per le attività potenzialmente dannose, con tutti i relativi poteri pubblici di rilascio di autorizzazioni, licenze, nulla-osta, etc., di controllo e di sanzione in caso di violazioni.

Dunque si può affermare che proprio nel principio di prevenzione trovano fondamento alcuni degli istituti più largamente utilizzati nel diritto dell’ambiente. E proprio questo principio è stato utilizzato dalla giurisprudenza costituzionale e da quella comunitaria per renderne esplicito un importante corollario: che le autorizzazioni (e, in generale, gli atti di assenso dei pubblici poteri) in materia di tutela dell’ambiente devono avere alcune caratteristiche specifiche e, in particolare, devono essere sempre espresse e temporanee96, affinché le attività potenzialmente nocive per gli equilibri ecologici risultino sempre oggetto di specifici controlli e di verifiche periodiche sulla loro conformità ai requisiti richiesti.

Una delle più importanti applicazioni del principio dell’azione preventiva e dell’atteggiamento prudenziale che ne deriva (che consiste nell’anticipazione della soglia di rilevanza dei fenomeni connessi con l’ambiente in modo da rappresentare preventivamente gli eventi potenzialmente dannosi) è costituita, senza dubbio, dell’istituto della valutazione di impatto ambientale, che addirittura, secondo alcuni, per le peculiari caratteristiche che la contraddistinguono, sarebbe in grado di assurgere al rango di principio autonomo.

Come è noto, la ratio sottesa al giudizio di impatto ambientale è essenzialmente quella di prevenire gli eventuali danni che potrebbero derivare da interventi suscettibili di avere rilevanti incidenze sull’ambiente, attraverso l’anticipata rappresentazione dei loro effetti.

L’intento prudenziale del giudizio di impatto ambientale è evidente: di fronte alla possibilità che si verifichino interferenze significative con l’ambiente, si cercano di conoscere anticipatamente gli effetti di un determinato intervento, in modo tale da autorizzare e/o realizzare poi soltanto ciò che produce conseguenze conoscibili e accettabili. Si manifesta così la natura principalmente conoscitiva della VIA, ma anche l’idea di scienza come sapere certo (cioè in grado di far pervenire a un giudizio oggettivo) che costituisce il fondamento dell’istituto e al tempo stesso il suo limite intrinseco, se è vero che la complessità degli equilibri ambientali dà luogo molto spesso a

96 Cfr., ad esempio, Corte cost. n. 194 del 1993 e n. 96 del 1994, nonché Corte di giustizia 28 febbraio 1991, in causa n. 360 del 1987.

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situazioni di incertezza su cui la scienza non è in grado di fornire risposte univoche.

3.3.2. Il principio di precauzione Proprio in queste situazioni di incertezza, determinate dalle

lacune del sapere scientifico, il principio dell’azione preventiva e gli strumenti che lo realizzano trovano supporto e potenziamento grazie ad un altro principio direttamente connesso con il concetto di prevenzione ma che, per gli specifici caratteri che lo connotano, assume una propria autonoma configurazione ed è in grado di rappresentare, senza dubbio, una delle grandi “frontiere” del diritto dell’ambiente: il principio di precauzione (altrimenti conosciuto anche come “approccio precauzionale”).

Il principio di precauzione trova le sue origini nell’ordinamento internazionale.

La dichiarazione ministeriale di Bergen sullo sviluppo sostenibile del 16 maggio 1990, al par. 7, stabilisce, ad esempio: «Al fine di raggiungere lo sviluppo sostenibile, le politiche devono essere fondate sul principio di precauzione. (…) In caso di rischio di danni gravi o irreversibili, la mancanza di un’assoluta certezza scientifica non deve costituire un pretesto per rimandare l'adozione di misure per prevenire il degrado ambientale».

Il principio di precauzione è stato poi esplicitamente riconosciuto dalla Conferenza di Rio de Janeiro nel 1992, e figura nella Dichiarazione di Rio con la ben nota formulazione del principio 15: «Per proteggere l’ambiente, gli Stati debbono applicare intensamente misure di precauzione a seconda delle loro capacità. In caso di rischio di danni gravi o irreversibili, la mancanza di un’assoluta certezza scientifica non deve costituire un pretesto per rimandare l’adozione di misure efficienti in rapporto al loro costo volte a prevenire il degrado ambientale».

Il principio 15, che esprime senz’altro la più condivisa accezione della precauzione, è ripreso in termini analoghi, ad esempio, nel preambolo della Convenzione sulla diversità biologica (1992) e nell’art. 3 della Convenzione sui cambiamenti climatici (1992), nonché nella Convenzione di Parigi per la protezione dell’ambiente marino per l’Atlantico Nord-Orientale (settembre 1992).

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Più recentemente, il 28 gennaio 2000, durante la Conferenza delle Parti della Convenzione sulla diversità biologica, è stato adottato il Protocollo sulla Biosicurezza, concernente il trasferimento, la manipolazione e l’utilizzazione sicuri degli organismi viventi modificati derivanti dalla moderna biotecnologia, dove la funzione fondamentale del principio di precauzione è confermata all’art. 10, par. 6.

Nonostante i numerosi riferimenti positivi, restano tuttavia molti dubbi sia sul significato preciso da attribuire al principio di precauzione, sia sulla portata giuridica di tale principio nel diritto internazionale.

In via di prima approssimazione, si può ritenere che l’idea di fondo su cui si basa il principio di precauzione esprime un’esigenza tipicamente cautelare e consiste nella necessità di perseguire gli obiettivi della tutela dell’ambiente «anche qualora manchi l’evidenza scientifica di un danno incombente, vale a dire quando non sussista interamente l’evidenza di un collegamento causale tra una situazione potenzialmente dannosa e conseguenze lesive dell’ambiente o quando la conoscenza scientifica non sia comunque completa»97. In sostanza, il concetto di “precauzione” si fonda sulla consapevolezza di tre dati essenziali:

– delle condizioni di incertezza che gravano inevitabilmente sulla stessa individuazione e sulla soluzione della gran parte dei problemi ambientali;

– del fatto che sempre più spesso la comunità scientifica non riesce ad esprimere concordanza di opinioni in ordine ai fenomeni di mutamento dinamico degli equilibri ecologici;

– della necessità di garantire la primarietà del valore “ambiente”, la cui sicurezza deve essere tutelata cautelarmente pur in assenza di evidenze scientifiche.

Il principio di precauzione è in grado dunque di determinare un mutamento radicale dei tradizionali strumenti di approccio ai (e gestione dei) problemi della tutela dell’ambiente.

Nell’approccio precauzionale è infatti connaturata una intrinseca funzione di anticipazione della soglia di intervento dell’azione preventiva. La mancanza di certezza scientifica in ordine alle conseguenze ambientali di determinati comportamenti non può giustificare il rinvio di un’azione preventiva adeguata all’entità dei

97 Così si esprime M. TALLACCHINI, Diritto per la natura, cit., 310.

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possibili rischi; il che è come dire che, grazie al principio di precauzione, l’intervento preventivo a tutela dell’ambiente non può attendere la prova scientifica degli effetti dannosi, ma deve essere predisposto sulla base di valutazioni di semplice probabilità del rischio, che tengano conto anche di una preliminare determinazione del grado di “accettabilità” sociale di quest’ultimo.

In questa ottica l’approccio precauzionale finisce per “imporre” non soltanto che la soglia di intervento dell’azione preventiva venga anticipata in misura tendenzialmente illimitata, ma anche che le scelte sulla tutela dell’ambiente vengano ordinariamente prese in condizioni di incertezza, sulla base delle conoscenze scientifiche e tecniche “attualmente” disponibili.

Qualche punto di riferimento più specifico per comprendere la portata “sconvolgente” e “rivoluzionaria” della precauzione si riscontra sul piano dell’ordinamento comunitario.

Come si è già anticipato, il principio ha ricevuto un riconoscimento esplicito con il trattato di Maastricht del 1992, che lo ha introdotto all’interno dell’art. 130R (oggi art. 174), par. 2, del trattato CE. In questo contesto, tuttavia, l’ordinamento comunitario si è limitato a recepire una formula sostanzialmente “aperta”, senza alcuna specificazione dei significati da attribuirle e senza alcun riferimento agli strumenti tecnico-giuridici necessari per attuarla in concreto, salvo il generico collegamento con il principio dell’azione preventiva.

Il 2 febbraio 2000 la Commissione europea ha però emanato una comunicazione sul principio di precauzione in cui si cercano di chiarire alcuni orientamenti essenziali, che risultano in buona parte confermati anche nella specifica risoluzione approvata dal Consiglio europeo di Nizza il 9 dicembre 2000 e che mettono opportunamente in evidenza la distinzione fondamentale tra la “valutazione del rischio”, da affidare agli scienziati, e la “gestione del rischio”, da affidare alle scelte politiche. Secondo la Commissione:

«a) Il ricorso al principio di precauzione presuppone: – L’identificazione di effetti potenzialmente negativi derivanti

da un fenomeno, da un prodotto o da un procedimento; – Una valutazione scientifica del rischio che, per

l’insufficienza dei dati, il loro carattere non concludente o la loro imprecisione, non consente di determinare con sufficiente certezza il rischio in questione.

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b) La scelta della risposta da dare di fronte ad una certa situazione deriva da una decisione eminentemente politica, funzione del livello del rischio “accettabile” dalla società che deve sopportarlo.

c) Il ricorso al principio di precauzione non si traduce necessariamente nell’adozione di atti finali volti a produrre effetti giuridici, suscettibili di controllo giurisdizionale.

d) L’attuazione di una strategia basata sul principio di precauzione dovrebbe iniziare con una valutazione scientifica, quanto più possibile completa, identificando, ove possibile, in ciascuna fase il grado d’incertezza scientifica.

e) Una valutazione delle potenziali conseguenze dell’inazione e delle incertezze della valutazione scientifica dovrebbe essere compiuta dai responsabili al momento di decidere se intraprendere azioni basate sul principio di precauzione.

f) Tutte le parti in causa dovrebbero essere coinvolte nel modo più completo possibile nello studio delle varie opzioni di gestione del rischio, una volta che i risultati della valutazione scientifica e/o della valutazione del rischio siano disponibili. La procedura dovrebbe essere quanto più possibile trasparente.

g) Le misure dovrebbero essere proporzionate al livello di protezione prescelto, non dovrebbero introdurre discriminazioni nella loro applicazione e dovrebbero essere coerenti con misure analoghe già adottate in circostanze analoghe o utilizzando analoghe strategie.

h) Le misure adottate presuppongono l’esame dei vantaggi e degli oneri derivanti dall’azione o dall’inazione. Questo esame dovrebbe comprendere un’analisi economica costi/benefici quando ciò sia adeguato e realizzabile. Potrebbero tuttavia essere presi in considerazione altri metodi di analisi, come quelli relativi all’efficacia e all’impatto socioeconomico delle opzioni possibili. D’altro canto, il responsabile può essere guidato anche da considerazioni non economiche, quali ad esempio la tutela della salute.

i) Anche se di natura provvisoria, le misure devono essere mantenute finché i dati scientifici rimangono incompleti, imprecisi o non concludenti e finché il rischio viene ritenuto sufficientemente importante per non accettare di farlo sostenere dalla società.

Il loro mantenimento dipende dall’evoluzione delle conoscenze scientifiche, alla luce della quale devono essere sottoposte a nuova

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valutazione. Ciò implica che le ricerche scientifiche devono essere proseguite, al fine di disporre di dati più completi.

Le misure basate sul principio di precauzione devono essere riesaminate e, se necessario, modificate in funzione dei risultati della ricerca scientifica e del controllo del loro impatto.

j) Le misure basate sul principio di precauzione possono stabilire una responsabilità in materia di produzione delle prove scientifiche necessarie ad una valutazione del rischio completa» (sottolineati aggiunti).

3.3.2.1. Principali implicazioni dell’approccio precauzionale Il quadro che si delinea sulla base degli elementi appena

richiamati pone in evidenza l’assoluta centralità che assume il rapporto tra il principio di precauzione e la produzione pubblica del diritto, nell’ottica di un’azione dei pubblici poteri che intenda assolvere ai compiti di “governo dell’incertezza scientifica”.

La “normazione precauzionale” offre un angolo prospettico privilegiato per un approccio multi-disciplinare al diritto, in cui si combinano e si mescolano i giochi linguistici della scienza, della tecnica e dell’economia. In essa, infatti, si intersecano valutazioni tecnico-scientifiche del rischio per l’ambiente e la salute umana, dimensione politico-valutativa del nomoteta nella scelta del livello di rischio accettabile e nella gestione del medesimo, analisi economica della misura cautelativa in ordine al rapporto costi-benefici.

Per questa via il principio di precauzione assume le sembianze di un vero e proprio “archetipo” dell’incontro/scontro tra scienza e tecnica, da un lato, e politica e diritto, dall’altro.

Si può ritenere, però, che a risolvere la partita tra il dominio della scienza o del diritto nei procedimenti normativi attuativi del principio precauzionale a favore del secondo spinga l’intima natura del principio in questione.

L’invocabilità del medesimo a fondamento di misure cautelative solo laddove sussista incertezza scientifica quanto all’esistenza o alla portata di rischi per l’ambiente e la salute implica, infatti, necessariamente la politicità e, quindi, la giuridicità della decisione concernente sia il livello di rischio accettabile per la società sia le concrete modalità di gestione del medesimo. In altri termini, a fronte del cedimento del fondamento epistemologico della certezza

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della scienza, rivelatasi, al pari delle scienze sociali, fallibilista e graduale, la dimensione “giuridico-politica” recupera terreno. Per l’influenza del diritto sulla scienza si aprono così ampi spazi.

Il principio di precauzione segna l’irreversibile passaggio dalla «soggezione alla scienza certa» alla «regolazione della scienza incerta»98, offrendo l’occasione per delineare un modello di “governo dell’incertezza scientifica” e per acquisire, al contempo, piena consapevolezza della dimensione politico-valutativa del rapporto scienza-diritto conseguente al crollo del tradizionale dogma della sussumibilità avalutativa e obiettiva del dato scientifico nella sfera normativa.

Se questo è vero e se dunque il principio di precauzione – nei termini della massima “anticipazione” possibile – impone alle autorità pubbliche di “governare”, ossia di disciplinare, situazioni di incertezza e se l’incertezza è ormai la condizione fisiologica e ricorrente del sapere scientifico contemporaneo, gli spazi di riflessione per la dottrina giuspubblicistica nello studio delle fonti del diritto e dei procedimenti di produzione normativa si aprono verso orizzonti del tutto nuovi rispetto agli approcci tradizionali.

Il dato da cui muovere è che il principio precauzionale, per quanto fin qui si è rilevato, non fornisce – di per sé – una regola per decidere, quanto, piuttosto, una regola di procedere. Si tratta della nota alternativa tra quello che si ritiene il significato “formale” (“debole”) del principio in questione come “regola di procedere” e il significato “sostanziale” (“forte”) di “regola per decidere”99.

Ciò che sembra più sostenibile è che esistano solide ragioni per affermare che il significato “forte” del principio precauzionale sia quello procedurale e non quello sostanziale di regola per decidere (al di là di un generico, ma concretamente “debole”, favor per la cautela).

La legittimazione dell’approccio precauzionale, guidato dalla logica ipotetica della scienza e della tecnica, non può che risiedere nell’organizzazione delle procedure, nei cui canali si convogliano le valutazioni scientifiche, economiche e politiche che fondano il ricorso

98 Sui profili di incertezza “oggettiva” e “soggettiva” che connotano i saperi scientifici e tecnici contemporanei cfr. M.C. TALLACCHINI, Ambiente e diritto della scienza incerta, in S. GRASSI, M. CECCHETTI, A. ANDRONIO, Ambiente e diritto, cit., I, 85. 99 Sulla quale, cfr., ad es., F. FONDERICO, La tutela dall’inquinamento elettromagnetico. Profili giuridici. Quaderni del Giornale di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2002, 51 ss.

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alla misura cautelativa. Nell’intrico inestricabile dei giochi linguistici della scienza, dell’economia e del diritto, le uniche possibili meta-prescrizioni comuni, idonee ad assicurare la convivenza dei linguaggi, paiono essere le procedure generatrici della norma precauzionale.

Il principio di precauzione è destinato così ad acquisire un significato ed una valenza eminentemente procedurale e metodologica e ad abbandonare la primigenia carica etica ed ideologica, che, potrebbe tradursi in oscurantismo antiscientifico ed antitecnologico.

Al riguardo, risulta assai eloquente il recente documento del Comitato nazionale di bioetica del 2004100, ove si legge che «il principio di precauzione permette di passare da una generica attitudine alla cautela ed alla prudenza alla individuazione di un percorso, anche procedurale, che i pubblici poteri sono chiamati a seguire nelle situazioni di incertezza» (sottolineato aggiunto).

Il principio obbliga l’autorità normativa a prendere in considerazione l’incertezza scientifica nell’ambito della valutazione del rischio, a determinare il grado di accettabilità/inaccettabilità del rischio stesso e, solo a questo punto, ad individuare la misura regolativa più adatta a gestire nel tempo l’incertezza della scienza al riguardo, non senza acquisire alla decisione il parametro dell’analisi costi/benefici. È dunque nella struttura del processo decisionale, nel corretto funzionamento del procedimenti di produzione della regola precauzionale, ossia nei congegni produttivi delle norme (potremmo dire, nella “laicità” delle procedure) che si gioca la partita tra la volontà scientifica, tecnologica, economica e politica e, in ultima analisi, tra la scienza ed il diritto nel governo dell’incertezza.

In un simile contesto, la sfida diviene quella della “ragionevolezza” delle procedure di normazione del principio di precauzione; ragionevolezza, non tanto nel senso di “astratta conformità a ragione”, quanto bensì di “adeguatezza rispetto al fine”, dunque di “capacità” di rappresentare e bilanciare tutte le istanze (scientifiche e politiche) in gioco.

L’imperativo a cui il giurista che voglia svolgere il proprio compito non può sottrarsi diviene, dunque, quello di definire e organizzare le procedure che consentono alla precauzione di tradursi in dispositivo giuridico. E nel congegnare il procedimento normativo del principio in parola, il giurista deve aprirlo alle valutazioni

100 COMITATO NAZIONALE DI BIOETICA. Il principio di precauzione: profili bioetici, filosofici, giuridici, in www.palazzochigi.it/bioetica/pareri.html, 30.

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scientifiche del rischio, alle analisi economiche dei costi e benefici dell’azione cautelativa, nonché alle istanze democratico-partecipative e, più in generale, di controllo sociale connesse alla natura politica della decisione da assumere in ordine al livello di rischio accettabile per la società.

A questo punto l’attenzione si sposta decisamente sul procedimento, nella consapevolezza che, alla fine, proprio in esso e nella sua “ragionevolezza” risiede l’unica possibilità per la normatività politico-giuridica di rapportarsi in termini corretti e di reciproco rispetto con quella scientifico-tecnologica.

Nei due paragrafi che seguono, in estrema sintesi, si prova anzitutto ad individuare un “modello astratto” (auspicabile) di configurazione dei procedimenti di normazione attuativi del principio di precauzione, onde enucleare le condizioni logico-giuridiche di quello che potrebbe definirsi come il paradigma di un “giusto” procedimento normativo precauzionale; successivamente, si provano a fornire alcuni spunti di riflessione in ordine al problema della “scelta” della fonte più adeguata a “produrre” la norma precauzionale e al connesso problema della normazione sulla produzione della norma precauzionale, con la conseguente constatazione della necessità di utilizzare approcci innovativi nella ricostruzione dei rapporti tra le diverse fonti del diritto nell’ottica della loro riconducibilità ad un “sistema” degno di definirsi tale.

3.3.2.2. Un “modello” possibile di procedimento per la normazione precauzionale

Per quanto fin qui osservato, il compito senza dubbio

prioritario consiste nella adeguata modulazione del procedimento normativo in funzione della sua permeabilità alle valutazioni scientifiche e tecniche fondanti la scelta politica sulla gestione del rischio nell’incertezza scientifica circa gli effetti negativi di un fenomeno.

Il punto di partenza è dunque quello di strutturare il procedimento, ed in particolare la fase istruttoria, in modo da acquisire le opinioni, anche minoritarie, della comunità scientifica, così da far emergere – nella scelta ponderata tra le diverse tesi scientifiche – i margini di manovra dei pubblici poteri, che fino ad oggi restano per lo più celati dietro al dogma della certezza della scienza.

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Si tratta, come si è già potuto mettere in evidenza a proposito della “normazione tecnica”, di conformare procedimenti che, per un verso, «garantiscano l’attendibilità dei dati, giudizi e previsioni e che evitino il rischio di un abuso strumentale di proposizione pseudoscientifiche»; per l’altro, «consentano di rendere evidenti le componenti descrittive ed assiologiche della decisione finale, giustificando le scelte, avvalorando i dati e i modelli da considerare attendibili, aggiornando le nozioni obsolete»101. In altri termini, occorre assicurare, da un lato, il pieno dispiegamento delle funzioni che spettano rispettivamente al dominio della scienza e al dominio della politica, dall’altro, il pieno rispetto della separazione che distingue il campo di intervento di ciascuno dei due domìni.

L’immissione di tale duplice esigenza nei canali delle procedure impone la funzionalizzazione dei procedimenti normativi a tre ordini di obiettivi.

In primo luogo, quello di forgiare un’istruttoria tecnico-scientifica completa, articolata ed aperta, almeno potenzialmente, a tutti i soggetti detentori di dati scientifici e tecnici rilevanti.

In secondo luogo, quello di affidare l’organizzazione dell’istruttoria e la definizione dei suoi contenuti ad un organo imparziale (non politico), i cui membri siano selezionati mediante procedure pubbliche, secondo il criterio della competenza e le esperienze professionali.

In terzo luogo, quello di costruire meccanismi normativi di adeguamento progressivo e continuo all’evoluzione delle conoscenze scientifiche e tecniche, al progresso ed all’innovazione, nonché di revisione delle misure cautelative sulla base dei dati scientifici “disponibili”, onde garantirne la proporzionalità.

Sotto il primo angolo visuale, nei procedimenti normativi diviene centrale il ruolo degli organi tecnico-scientifici nazionali ed internazionali per la verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali. Al loro contributo potrebbe affiancarsi nell’istruttoria normativa il ricorso a meccanismi di semplificazione dell’analisi scientifica, quale lo strumento della peer review, vale a dire del sistema attraverso il quale la stessa comunità scientifica, pur senza occultare le opinioni dissenzienti e minoritarie e nell’auspicabile partecipazione pubblica, riconosce la validità di una ricerca. Tale

101 Le espressioni citate sono di M.C. TALLACCHINI, Ambiente e diritto della scienza incerta, cit., 91 e 93.

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analitica vivisezione del peso specifico delle voci che animano il panorama scientifico consentirebbe un immediato controllo della scelta ultima operata dal decisore politico.

Sotto il secondo profilo, particolare rilievo assume, come è ovvio, la procedura di nomina dell’organo consultivo, la cui tipologia e composizione non può essere demandata all’intuitu fiduciae dell’amministrazione procedente, ma deve rispondere a obiettivi criteri di concorsualità pubblica.

Dal terzo punto di vista, infine, il monitoraggio dell’evoluzione scientifica e l’adeguamento in progress delle normative esistenti potrebbe trovare utile e satisfattivo sbocco nel c.d. incremental process, promosso dalla Comunicazione del 12 maggio 2004 della Commissione europea come scelta preferibile di regolazione del fenomeno delle c.d. “nanotecnologie”.

In ogni caso, le risultanze dell’istruttoria – o, meglio, delle istruttorie – dovrebbero sempre trovare articolata elaborazione in schede e/o relazioni apprestate a corredo della proposta normativa, onde consentire sia la valutazione del fondamento scientifico e tecnico della regolazione (in ordine al carattere “individuato”, seppur “incerto”, del rischio), sia il test di proporzionalità della medesima, sia una adeguata ponderazione degli elementi consustanziali alla società del rischio (relazione dose-rischio, risk tradeoff, ormesi).

Come si è osservato, poi, nei canali delle procedure non può non confluire la «necessità di una preventiva analisi economica dei vantaggi e degli oneri risultanti dall’azione o dall’inazione», espressamente riconosciuta dalla Comunicazione della Commissione europea del 2 febbraio del 2000.

Nell’ambito della sempre più diffusa tendenza all’analisi di impatto economico-sociale della regolazione, l’analisi costi-benefici, ad esempio, posta all’interno della normazione attuativa del principio precauzionale, dovrebbe quantificare, oltre che identificare, in via preventiva i costi economici ed i potenziali benefici delle varie ipotesi regolative, nonché descriverne e valutarne gli effetti “qualitativi”, avuto riguardo ad un giudizio comparativo che tenga conto, da un lato, della necessità di salvaguardare i preminenti valori sottesi all’approccio precauzionale (ambiente, innanzitutto, ma anche salute e sicurezza), dall’altro, dell’interesse economico implicato dall’attività rischiosa.

Con ciò non si intende certo avvalorare un procedimento normativo che fondi la decisione giuridica sulla sola analisi

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economica o che compia, a priori, la “tragica scelta” tra economia e diritto. Si intende, però, focalizzare l’attenzione sull’opportunità di garantire nei meccanismi produttivi della normazione precauzionale un’istruttoria completa, idonea a motivare la scelta regolativa anche in ordine ai profili economico-sociali102. D’altro canto, e circolarmente, è lo stesso rapporto tra costi economici e potenziali benefici cautelativi ad indirizzare, in concreto, la modulazione del principio di proporzionalità, al cui test – come si è detto – la norma precauzionale non può sottrarsi.

Se è vero, però, da quanto si è rilevato in precedenza, che la decisione pubblica fondata sulla precauzione non può considerarsi il frutto “necessitato” di acquisizioni scientifiche certe, obiettive e immutabili, ma comporta necessariamente la “valutazione” politica del grado di accettabilità del rischio da parte della collettività di riferimento, nonché la individuazione, altrettanto politica, delle strategie e delle modalità di “gestione permanente” del rischio stesso (e, primariamente, si potrebbe dire del rischio “inaccettabile”), la conformazione dei procedimenti di normazione precauzionale non può fare a meno di misurarsi con il problema di garantire la maggiore legittimazione democratica possibile della decisione.

A questo scopo, i caratteri intrinseci della decisione precauzionale sembrano determinare l’inadeguatezza (nel senso di una sorta di deminutio di “legittimazione democratica”) delle ordinarie e tradizionali sedi della democrazia rappresentativa o, quanto meno, sembrano imporre l’elaborazione di nuovi sistemi di “governance” pubblica e la ricerca di canali di collegamento più diretti, più continui e immediati, tra gli organi politici cui è affidata la produzione normativa ed i soggetti coinvolti.

In tale prospettiva, l’imperativo diviene, per un verso, garantire forme di partecipazione pubblica ai procedimenti normativi precauzionali onde attenuarne l’autoreferenzialità, per l’altro, assicurare idonee modalità di informazione pubblica. Ad esigerlo in termini espliciti è proprio la richiamata Comunicazione della Commissione del 2 febbraio 2000 che, a fronte dell’elevato tasso di politicità sotteso alla normazione precauzionale, impone, come strumento di bilanciamento, «trasparenza e dialogo con le parti interessate».

102 Cfr., ad es., l’art. 174, par. 3, del Trattato CE.

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Dal punto di vista della partecipazione, le garanzie procedimentali connesse alla responsible governance ed al carattere valutativo e discrezionale della normazione informata al principio di precauzione sembrano suscettibili di tradursi in una istruttoria “aperta” sia al dialogo con tutti i soggetti interessati (i c.d. stakeholders, siano essi associazioni categoriali rappresentative, siano essi amministrazioni pubbliche coinvolte), sia a forme di consultazione dell’opinione pubblica103.

Con il ché non si vuole certo tratteggiare un modello partecipativo che finisca per “annacquare” la responsabilità politica della decisione finale, paralizzando così il processo di decision making in nome di un potere di veto dell’opinione pubblica, di sovente non dotata delle conoscenze razionali per formulare scelte razionali. Si intende, piuttosto, evidenziare la possibilità di sfruttare nella fase istruttoria dei procedimenti normativi le reti telematiche per creare “comunità virtuali” e focus groups tematici, ad accesso libero. Le potenzialità democratiche dell’“Agorà della rete” potrebbero controbilanciare il sapere specialistico delle elites tecnocratiche e contribuire, assieme alle tradizionali forme partecipative, ad aumentare il tasso di democraticità nella gestione del rischio.

Non ci si nasconde che l’estensione delle garanzie partecipative ai procedimenti normativi nel nostro ordinamento si scontra con la loro attuale esclusione ex lege. Ma ove si ponga mente alla crisi conclamata della rappresentanza politica ed all’esigenza sempre più pressante di nuove forme di legittimazione democratica dell’imperatività, ci si avvede di come l’ingresso delle consultation procedures nei procedimenti normativi e, con quelle, del contraddittorio non abbia nulla di scandaloso.

Sotto il diverso profilo della trasparenza e della conoscibilità dei dati e delle opzioni che si manifestano nei procedimenti di formazione della norma precauzionale (paradossalmente ancora privi, nella maggior parte dei casi, delle forme di pubblicità proprie della legge e delle forme di trasparenza proprie degli atti amministrativi), dinnanzi ai quali le garanzie procedimentali manifestano tutta la loro

103 Evidente la diversità di ratio che separa l’apertura dell’istruttoria agli organi tecnico-scientifici dalle forme di partecipazione pubblica: la prima, infatti, è preordinata ad acquisire dati ed informazioni tecnico-scientifici (di cui i regolatori pubblici non dispongono) da esperti nelle scienze teoriche ed applicate; la seconda, invece, è volta a condividere dati, opinioni ed informazioni con l’opinione pubblica, onde rafforzare la legittimazione democratica dei processi e dei prodotti normativi.

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insufficienza, l’attenzione si sposta sull’introduzione di obblighi di informazione pubblica, quali la pubblicazione delle proposte iniziali del testo normativo, dei pareri e studi tecnico-scientifici, dei progetti intermedi, della relazione illustrativa dell’istruttoria compiuta, nonché delle osservazioni pervenute in sede di partecipazione generalizzata.

3.3.2.3. La scelta della fonte più idonea alla normazione precauzionale; il “nuovo” ruolo della fonte legislativa

In un contesto come quello che si è appena cercato di

descrivere, risulta evidente come la scelta della fonte alla quale affidare la normazione precauzionale non possa costituire un fatto irrilevante, quasi che tutte le numerose esigenze che vengono in gioco possano essere indifferentemente soddisfatte dall’utilizzo, del tutto casuale e fondato su valutazioni meramente contingenti, ora della legge del Parlamento, ora dell’atto legislativo di produzione governativa, ora del regolamento del Governo oppure dell’atto ministeriale formalmente normativo o meno.

Come si è ripetutamente sottolineato, la decisione normativa fondata sulla precauzione esige la disponibilità di una base complessa e – almeno potenzialmente – completa di conoscenze specialistiche (scientifiche e tecniche), la cui continua evoluzione rende indispensabili successivi interventi di costante e tempestivo aggiornamento del prodotto normativo, che siano tali da contrastarne la inevitabile obsolescenza.

A rispondere a queste necessità sembrano decisamente inadeguate le fonti di rango legislativo, tanto che il legislatore che opti per l’incorporazione di norme a contenuto o fondamento tecnico-scientifico in un atto fonte di rango legislativo, si trova quasi sempre costretto a prevedere contestualmente quei meccanismi di “delegificazione anomala” in base ai quali nello stesso atto con forza di legge si autorizza una fonte sub-legislativa (generalmente il regolamento ministeriale ma spesso anche atti ministeriali emanati senza la forma e le procedure previste per gli atti normativi) a produrre norme in grado di abrogare – modificandole, sostituendole o eliminandole – le norme tecniche di rango legislativo appena approvate; meccanismi cui, peraltro, risulta assai difficile riconoscere una piena conformità alla Costituzione.

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È pur vero, peraltro, che la imprescindibile componente “politico-valutativa” insita nella opzione normativa precauzionale rende senz’altro impossibile e profondamente scorretto affidare in via esclusiva la produzione di queste norme ad organi tecnici indipendenti che si trovino in situazione di irresponsabilità politica.

Alle esigenze della normazione precauzionale sembrano, per contro, poter rispondere assai bene le fonti secondarie, vale a dire – nel caso dell’ordinamento interno italiano – i regolamenti governativi o ministeriali, ove la struttura governativa o ministeriale appare dotata (o dotabile), per un verso, delle necessarie cognizioni specialistiche a contenuto tecnico-scientifico, per l’altro, della responsabilità politica a cui deve immancabilmente ricondursi la dimensione valutativa e assiologica insita nella decisione precauzionale.

Il ché, si badi bene, non significa disconoscere la centralità che potrebbe continuare a mantenere la fonte legislativa nel sistema di produzione pubblica del diritto; significa, invece, provare a ripensare il ruolo di questo tipo di fonte, riservando ad essa la definizione e l’organizzazione dei procedimenti di adozione delle regole precauzionali, piuttosto che la loro disciplina sostanziale.

In altri termini ed in estrema sintesi, alla legge – e, più in generale, alla fonte di rango legislativo – dovrebbe attribuirsi la delicata, ma doverosa, funzione di istituzionalizzazione dell’“agire comunicativo” tra i diversi domìni del sapere e, per quanto qui più da vicino interessa, di standardizzazione delle regole dell’istruttoria tecnico-scientifica, dell’analisi costi/benefici, dei procedimenti di consultazione pubblica, nonché degli obblighi di informazione pubblica.

Si tratterebbe, in sostanza, di prendere atto della impossibilità di coniugare l’obiettivo di una buona ed efficace normazione precauzionale (profondamente connotata, come si è detto, di contenuti e fondamenti tecnico-scientifici) con il rispetto dei principî dello Stato democratico di diritto attraverso l’uso esclusivo delle fonti di rango legislativo, adottando, invece, una prospettiva più “laica”. Una prospettiva che, distinguendo rigorosamente i compiti della legge e della fonte subordinata, consenta di realizzare istruttorie complete e ben fatte, ampia partecipazione all’iter decisionale e trasparenza della decisione finale, senza che quest’ultima debba necessariamente transitare dalla sede formale parlamentare o, comunque, dalle sedi “tradizionali” e “ordinarie” della produzione pubblica del diritto.

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In questa ottica, il ruolo da riconoscere alla fonte legislativa rischia di assumere un’importanza ancora maggiore che nel passato.

È infatti soltanto a tale tipo di fonte che dovrà spettare la disciplina del procedimento di adozione delle regole tecniche, ossia, in altri termini, l’individuazione delle modalità concrete per una corretta “integrazione razionale” tra i domìni della scienza e della politica. Ed è evidente, come è stato osservato, che in questa opera alla legge spetteranno sostanzialmente e contestualmente i due compiti più delicati: garantire la «validità ed eticità della scienza», attraverso la cosiddetta determinazione giuridica della “buona scienza”, ossia – come si è già sottolineato – «dei criteri e delle procedure che garantiscano l’attendibilità di dati, giudizi e previsioni, e che evitino il rischio di un abuso strumentale di proposizioni pseudoscientifiche»; garantire «la scientificità e trasparenza delle valutazioni giuridiche», cioè della decisione politico-normativa, attraverso la determinazione della “buona normazione precauzionale”, ossia dei criteri e delle procedure scientifico-giuridiche che «consentano di rendere evidenti le componenti descrittive e assiologiche della decisione finale, giustificando le scelte, avvalorando i dati e i modelli da considerare attendibili, aggiornando le nozioni obsolete»104.

3.3.3. Il principio del bilanciamento: gradualità e dinamicità della tutela dell’ambiente

Il principio del bilanciamento esprime, nel suo significato più

generale, un’esigenza di fondamentale importanza: l’impossibilità di concepire ed organizzare l’azione di tutela dell’ambiente prescindendo da concrete operazioni di bilanciamento tra i vari interessi, valori ed esigenze che vengono in gioco, di volta in volta, nelle diverse situazioni.

In questo senso, è evidente che questo principio richiama da vicino quella accezione “procedimentale” e moderata della primarietà dell’ambiente che già si è cercato di illustrare, in base alla quale il plusvalore da riconoscere all’ambiente non può essere inteso come sovraordinazione aprioristica rispetto agli altri interessi, ma, più realisticamente, come garanzia che l’interesse ambientale non venga

104 Cfr., retro, nt. 101.

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mai pretermesso e dunque venga sempre adeguatamente “ponderato” e “integrato” in tutti i processi decisionali.

In base a tali premesse, si può quindi affermare che il principio del bilanciamento costituisce la traduzione, sul piano della predisposizione e della concreta realizzazione dell’azione di tutela, del principio di primarietà dell’ambiente nel suo significato più corretto. La decisione che sancisce la scelta per una determinata azione di tutela ambientale non può risultare mai unidirezionale, monolitica o “fondamentalista”. Al contrario, è indispensabile che tale decisione rifletta una molteplicità di punti di vista, assumendo un’ampia serie di sfaccettature e risultando così la sintesi di una pluralità di scelte, l’armonico coordinamento (non senza tensioni), nel caso concreto, di una serie di conoscenze e di dati acquisiti attraverso l’esperienza ed elaborati in primis dalla comunità scientifica, nonché di molteplici valori ed interessi che vengono inevitabilmente ad interferire e che non possono essere pretermessi, almeno in sede di formazione della decisione stessa.

Per semplicità si possono distinguere due tipi di bilanciamento: un bilanciamento “esterno”, così definibile perché relativo alla composizione ragionevole dell’interesse alla tutela dell’ambiente con gli altri (diversi) interessi ad esso pariordinati che possono emergere nei singoli casi; un bilanciamento “interno”, così definibile perché concerne la definizione e la stessa individuazione in concreto dell’interesse ambientale in quanto tale, prescindendo dal rapporto con altri interessi connessi o contrapposti.

Del primo si è già dato conto a proposito del principio di primarietà. Quanto al secondo, è sufficiente considerare che: se è vero che la protezione dell’ambiente consiste nella tutela non di un oggetto determinato, bensì di un rapporto, di una relazione di equilibrio in continuo divenire la quale, nel suo incessante ridefinirsi, non è mai fissabile in risultati da poter assumere come immutabili; e se è vero, di conseguenza, che l’interesse ambientale, si presenta ontologicamente come interesse complesso, poliedrico, non univoco e consistente per definizione in un equilibrio mai stabile, diverso a seconda della dimensione territoriale che si prenda in considerazione e legato a dati scientifici e tecnici spesso non pienamente certi e per loro natura soggetti a frequenti modificazioni nel tempo; allora non si può non prendere atto che lo stesso interesse alla tutela dell’ambiente trova la sua matrice intrinseca solo nella complessa ponderazione di una serie di elementi, la cui mutevolezza – in rapporto alle singole situazioni e

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alla stessa dimensione temporale – impedisce l’individuazione e il perseguimento di obiettivi predeterminabili in astratto e validi una volta per tutte.

Dall’effetto combinato delle due esigenze di bilanciamento “esterno” e di bilanciamento “interno” emerge non soltanto l’impossibilità di adottare decisioni sulla tutela dell’ambiente a contenuto vincolato da valutazioni aprioristiche, ma anche (e soprattutto) l’estrema complessità che caratterizza la predisposizione dell’azione di tutela; complessità di cui l’ordinamento giuridico deve costituzionalmente farsi carico, attraverso la previsione di adeguate procedure decisionali che garantiscano, in misura e con modalità affatto peculiari, la soddisfazione di alcune specifiche e irrinunciabili esigenze.

Anzitutto è indispensabile che i procedimenti siano costruiti in modo tale da garantire che possano essere rappresentati correttamente e in modo completo tutti i dati e gli elementi conoscibili per adottare la decisione.

Dalla necessità di garantire la completezza e la correttezza del quadro conoscitivo scaturisce la seconda esigenza, che impone il coinvolgimento di tutti i soggetti, pubblici o privati, tecnici o politici, che dispongono dei dati e degli elementi da considerare nel bilanciamento, tenendo conto, in particolare, di due fattori: in primo luogo, del fatto che in operazioni di ponderazione così complesse e delicate il mancato apporto da parte anche di uno solo dei soggetti da coinvolgere può rivelarsi determinante per gli esiti del procedimento; in secondo luogo, della necessità che sia assicurato il più alto grado di competenza e professionalità possibile dei soggetti chiamati a fornire i dati tecnici o scientifici per la decisione.

Ovviamente, la costruzione di procedure decisionali adeguate a rispondere a tali istanze non può perdere di vista la necessità di garantire l’ulteriore esigenza, particolarmente pressante in tema di tutela dell’ambiente, rappresentata dalla indispensabile tempestività degli interventi e quindi dalla possibilità di adottare decisioni in tempi ragionevolmente brevi.

Infine, proprio la complessità delle operazioni di bilanciamento da compiere per la predisposizione dell’azione di tutela dell’ambiente fa emergere la necessità di assicurare in modo particolare la trasparenza, la pubblicità e quindi il controllo democratico dei procedimenti decisionali in questa materia; quanto più la decisione finale è il frutto di una complessa ponderazione di innumerevoli

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elementi il cui risultato non è mai predeterminabile, tanto più deve essere possibile almeno la conoscenza dei dati e delle valutazioni sulla base dei quali tale decisione è stata adottata.

Oltre alle implicazioni che si sono appena richiamate, l’affermazione del principio del bilanciamento, come principio orientatore da cui non è possibile prescindere nella definizione delle azioni di tutela dell’ambiente, costituisce il fondamento di alcune caratteristiche essenziali che devono necessariamente connotare tale tutela e che dunque si pongono come veri e propri corollari del bilanciamento.

La prima di queste caratteristiche consiste nella gradualità dell’azione di tutela dell’ambiente e discende dalla constatazione che tale tutela non può che realizzarsi attraverso un approccio graduale, che consenta di predisporre una sorta di iter progressivo, attraverso la previsione di fasi, tempi ed obiettivi che vengono determinati grazie alla corretta ponderazione dell’insieme di tutti gli interessi in gioco e di tutti i dati conoscitivi disponibili.

La gradualità dell’azione di tutela (richiamata espressamente dalla Corte costituzionale addirittura come principio autonomo)105, risponde specificamente alla necessità che gli obiettivi della tutela dell’ambiente e gli strumenti scelti per il loro perseguimento abbiano uno spiccato carattere di flessibilità nel tempo, che consenta di adattarli alla diversità delle situazioni concrete e alle effettive capacità dei soggetti chiamati a conformarvisi, con ciò contribuendo in modo diretto e in misura notevole alla realizzazione in concreto dell’auspicato contemperamento di tutti gli interessi coinvolti, indipendentemente dal tipo di obiettivi o di misure prescelti. In questo senso, si può osservare che la predisposizione di un’azione di tutela che si fondi su un approccio graduale, fatto di tappe progressive che tengano conto delle situazioni concrete in cui si trovano i vari soggetti dell’ordinamento, spesso è in grado di realizzare un soddisfacente contemperamento di tutti gli interessi in gioco molto più efficacemente della stessa scelta, effettuata a monte, circa il tipo di strumento di tutela da adottare (si pensi, al riguardo, al ricorrente strumento delle discipline differenziate per i c.d. “impianti esistenti”, che da sempre caratterizza l’introduzione di nuove discipline a tutela dell’ambiente contro gli inquinamenti).

105 Si vedano, ad esempio, le sentenze nn. 127 del 1990 e n. 53 del 1991.

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La seconda caratteristica dell’azione di tutela dell’ambiente che si collega direttamente al principio del bilanciamento è costituita dalla necessità che tale tutela sia caratterizzata da una intrinseca dinamicità. Anche in questo caso emerge la rilevanza che occorre riconoscere al fattore “tempo” e l’imprescindibile dimensione diacronica che deve assumere l’azione di tutela. Tuttavia, a differenza della gradualità, che esprime una dinamicità di tipo “estrinseco”, una flessibilità nel tempo degli strumenti e degli obiettivi della tutela che, in un certo senso, deve essere prevista e imposta dal diritto al fine di conciliare le esigenze e le capacità di soggetti che si trovano in situazioni diverse, quando si parla di dinamicità, si fa propriamente riferimento ad una dinamicità di tipo “intrinseco”, che scaturisce dalla continua mutevolezza dell’oggetto della tutela, nonché dall’impossibilità di cristallizzare gli equilibri ambientali esistenti in un dato momento storico; in questo senso, dunque, la dinamicità si “impone” al diritto, costringendolo a prevedere forme e strumenti di tutela adatti a regolare situazioni ontologicamente in evoluzione.

Queste considerazioni risultano confermate in tutta l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia, ma soprattutto trovano un esplicito riferimento sul piano del “diritto costituzionale comunitario”, dove si rinviene una specifica – e già più volte richiamata – disposizione normativa da cui il principio del bilanciamento emerge in termini molto chiari. L’art. 174, par. 3, del trattato CE afferma che «nel predisporre la sua politica in materia ambientale la Comunità tiene conto:

– dei dati scientifici e tecnici disponibili; – delle condizioni dell’ambiente nelle varie regioni della

Comunità; – dei vantaggi e degli oneri che possono derivare dall’azione o

dall’assenza di azione; – dello sviluppo socio-economico della Comunità nel suo

insieme e dello sviluppo equilibrato delle sue singole regioni». Si tratta dei c.d. «parametri dell’azione comunitaria in materia

ambientale», ossia degli elementi essenziali di cui le istituzioni comunitarie devono tenere conto nella predisposizione delle azioni di tutela dell’ambiente, al fine di pervenire ad una decisione più consapevole ed equilibrata che rappresenti il risultato della ragionevole composizione di molteplici esigenze106. I singoli

106 Così P.A. PILLITU, Profili costituzionali della tutela ambientale nell’ordinamento

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parametri, che certo non rappresentano un elenco esaustivo, esprimono in modo molto efficace da un lato le principali componenti che devono concorrere alla individuazione dell’interesse ambientale, soprattutto attraverso la considerazione delle possibili variabili sul piano tecnico-scientifico e sul piano geografico-territoriale, dall’altro le basi fondamentali su cui impostare un corretto rapporto tra tutela dell’ambiente e sviluppo economico.

3.3.4. Il principio dell’informazione ambientale L’ultimo principio che contribuisce ad individuare gli elementi

e i caratteri essenziali di una corretta ed efficace azione di tutela dell’ambiente esprime l’esigenza, largamente avvertita, di quella che viene ormai indicata, comunemente, come “informazione ambientale”.

Il principio dell’informazione ambientale nasce dalla consapevolezza, sempre più matura, dell’impossibilità di negare che tutti i soggetti (pubblici o privati) coinvolti nell’azione di tutela, o comunque interessati ai mutamenti degli equilibri ecologici, dispongano tempestivamente di informazioni che risultino continue, complete, obiettive, affidabili e comprensibili, in ordine ai fenomeni naturali, alle situazioni create dall’attività umana, ai problemi, ai pericoli, alle decisioni, alle scelte e alle strategie che concernono la tutela dell’ambiente.

Questa necessità di informazione si collega direttamente agli aspetti essenziali di un’efficace azione di tutela, costituendone il presupposto indispensabile. La possibilità, per chi debba prendere decisioni, di disporre di dati tecnici e scientifici certi ed aggiornati per orientare il proprio comportamento e le proprie scelte; l’effettiva possibilità, per tutti i soggetti coinvolti, di partecipare efficacemente ai processi decisionali; la possibilità di effettuare una seria programmazione degli interventi e di verificarne i risultati; la possibilità, per i diversi soggetti ed organi competenti, di stabilire un reale e leale coordinamento dei rispettivi ruoli nell’azione di tutela; infine, la stessa possibilità di evitare che le conseguenze dannose di determinate attività possano giungere allo stadio di disastro irreparabile, per mancata o intempestiva conoscenza da parte di chi le subisce o delle autorità competenti ad intervenire.

comunitario europeo, Perugia, Galeno, 1992, 101-102.

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Di fronte a simili obiettivi, occorre riconoscere che la necessità dell’informazione ambientale può essere ritenuta una diretta conseguenza dell’esigenza di fondare l’azione di tutela dell’ambiente sui principî dell’azione preventiva e di precauzione, nonché sul principio del bilanciamento, almeno laddove la ponderazione tra i diversi elementi debba avvenire sulla base di una corretta e completa rappresentazione dei dati scientifici e tecnici disponibili e delle situazioni concrete su cui le misure di tutela sono destinate ad incidere107.

La definizione più articolata e completa di “informazione ambientale” è contenuta attualmente nell’art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 195 del 2005, che ha dato attuazione, sul piano nazionale, alla direttiva n. 2003/4/CE sostitutiva della precedente n. 90/313/CEE in materia di accesso del pubblico all’informazione ambientale.

Ai fini di tale disciplina, l’«informazione ambientale» è definita come «qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra forma materiale concernente:

1) lo stato degli elementi dell’ambiente, quali l’aria, l’atmosfera, l’acqua, il suolo, il territorio, i siti naturali, compresi gli igrotopi, le zone costiere e marine, la diversità biologica ed i suoi elementi costitutivi, compresi gli organismi geneticamente modificati, e, inoltre, le interazioni tra questi elementi;

2) fattori quali le sostanze, l’energia, il rumore, le radiazioni od i rifiuti, anche quelli radioattivi, le emissioni, gli scarichi ed altri rilasci nell’ambiente, che incidono o possono incidere sugli elementi dell’ambiente, individuati al numero 1);

3) le misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura amministrativa, nonché le attività che incidono o possono incidere sugli elementi e sui fattori dell’ambiente di cui ai numeri 1) e 2), e le misure o le attività finalizzate a proteggere i suddetti elementi;

4) le relazioni sull’attuazione della legislazione ambientale; 5) le analisi costi-benefici ed altre analisi ed ipotesi

economiche, usate nell’ambito delle misure e delle attività di cui al numero 3);

107 Esplicitamente in questo senso, cfr. Corte cost. n. 201 del 1987.

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6) lo stato della salute e della sicurezza umana, compresa la contaminazione della catena alimentare, le condizioni della vita umana, il paesaggio, i siti e gli edifici d’interesse culturale, per quanto influenzabili dallo stato degli elementi dell’ambiente di cui al punto 1) o, attraverso tali elementi, da qualsiasi fattore di cui ai punti 2) e 3)».

La principale conseguenza che discende, sul piano giuridico, dal principio dell’informazione ambientale risiede nella necessità di configurare un complesso sistema di situazioni soggettive, sia attive che passive, tali da consentire il conseguimento dell’obiettivo fondamentale rappresentato dalla massima circolazione possibile di informazioni relative all’ambiente.

In generale, nel vasto panorama normativo comunitario e nazionale, sul versante delle situazioni passive, si possono distinguere da un lato gli obblighi imposti ai privati di fornire informazioni alle amministrazioni o al pubblico, dall’altro i doveri imposti alle amministrazioni di fornire informazioni ai privati, al pubblico in generale o ad altre amministrazioni; a questi obblighi e doveri corrispondono, sul versante delle situazioni attive, i diritti di ricevere informazioni e il diritto di accesso alle (o di ricercare le) informazioni.

Queste situazioni giuridiche soggettive pongono in evidenza le due esigenze principali alle quali risponde l’informazione ambientale: in primo luogo, la necessità di dotare le amministrazioni pubbliche (e, in generale, tutte le sedi decisionali coinvolte) di adeguati apparati di conoscenze e dati su cui poter fondare la correttezza e l’efficacia delle scelte in merito alle strategie e alle misure di tutela; in secondo luogo, la necessità di fornire informazioni ai soggetti privati, o a collettività determinate, o al pubblico in generale, allo scopo di sviluppare le conoscenze, la partecipazione e la responsabilità, favorendo una maggiore coscienza ambientale e una maggiore consapevolezza nei comportamenti di tutti.

Per conseguire tali finalità è indispensabile assicurare che le informazioni nel campo della tutela dell’ambiente presentino una serie di requisiti essenziali; la mancanza anche di uno solo di tali requisiti è in grado di determinare la compromissione della stessa intrinseca funzione dell’informazione ambientale, oltre a costituire una indubbia lesione nella sfera giuridica di coloro (amministrazioni pubbliche o soggetti privati) che risultino titolari del diritto a ricevere le informazioni.

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Si tratta, come già accennato, di garantire anzitutto la correttezza e l’obiettività delle informazioni (e quindi la loro affidabilità), in particolare attraverso la creazione di raccolte ufficiali dei dati organizzate e tenute da organismi di cui sia assicurata l’indipendenza, che siano dotati di adeguate competenze sul piano tecnico-scientifico e che inoltre siano in grado, in molti casi, di provvedere direttamente ad effettuare le operazioni di raccolta, valutazione ed elaborazione dei dati (in questa ottica, un ruolo primario e forse insostituibile è destinato ad essere svolto dalla rete delle agenzie per la protezione dell’ambiente)108.

In secondo luogo, è necessario assicurare la continuità dei flussi di informazioni e la completezza dei dati forniti, soprattutto attraverso l’attivazione di reti di monitoraggio stabili e la standardizzazione delle modalità e dei tempi di trasmissione dei dati; oltretutto, l’uso di sistemi informativi standardizzati (e quindi omogenei) risulta indispensabile anche in funzione di garantire, come ulteriori requisiti per rendere effettivo il diritto di ricevere le informazioni, la comprensibilità e dunque la fruibilità di queste ultime.

Infine, non si può trascurare la necessità di garantire altresì la tempestività delle informazioni, in particolare allorché i dati siano riferiti a situazioni di rischio o a veri e propri pericoli concreti, derivanti dal verificarsi di eventi calamitosi. In questi casi, a causa della gravità delle conseguenze che potrebbero discendere da un’informazione poco efficace, sarebbe forse auspicabile addirittura la configurazione di una vera e propria azione di risarcimento per le ipotesi di mancata informazione tempestiva, nonché la possibilità di attivare specifiche forme di controllo sui dati forniti, sulla loro correttezza e sui criteri di conoscibilità.

Più in generale, a questi requisiti relativi ai caratteri delle informazioni si devono aggiungere alcune esigenze peculiari che l’attuazione concreta del principio “costituzionale” dell’informazione ambientale impone di soddisfare.

La prima esigenza, senz’altro prioritaria, consiste nella necessità di dare soluzioni efficaci ai problemi organizzativi, rivelandosi indispensabile, sotto tale profilo, la costruzione di veri e propri sistemi informativi complessi, strettamente coordinati tra loro,

108 Sulla importanza da riconoscere in proposito al ruolo del sistema delle agenzie, si veda, ad es., Corte cost. n. 356 del 1994.

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che siano in grado di assicurare effettivamente la massima informazione possibile. A tale scopo, si impone una delicata opera di individuazione degli organi e degli uffici pubblici più adatti su cui debbono gravare gli svariati compiti relativi all’informazione ambientale (raccolta, verifica, elaborazione, erogazione, etc.), ma anche la definizione di forme e strumenti specifici per il coordinamento tra organi ed uffici diversi, affinché si possa realizzare un sistema informativo sostanzialmente unitario che consenta di evitare contraddizioni e inefficienze.

In secondo luogo, è necessaria una particolare cura da parte dei legislatori nella definizione puntuale degli aspetti procedimentali che emergono nel concreto dispiegarsi delle diverse situazioni soggettive in tema di informazione ambientale, definizione che già di per sé è in grado di costituire un’adeguata garanzia (necessaria, anche se non sufficiente) per il conseguimento effettivo degli obiettivi di correttezza, completezza, continuità, comprensibilità e tempestività dell’informazione.

Da ultimo, occorre considerare l’impossibilità di prescindere, nell’attuazione del principio dell’informazione ambientale, da un’attenta ponderazione di tutti gli interessi connessi alla salvaguardia di valori costituzionali e, in particolare, da una specifica considerazione degli interessi che costituiscono il fondamento delle disposizioni sui vari tipi di segreto (amministrativo, istruttorio, industriale, commerciale, etc.) e che sono in grado di porsi, per loro stessa natura, come altrettanti limiti alla circolazione delle informazioni; ciò, naturalmente, tenendo conto del fatto che – considerato il fondamento costituzionale tanto dei diritti collegati all’informazione quanto dell’interesse alla tutela dell’ambiente – non è possibile negare la necessità di una specifica base nella Costituzione anche per le esigenze di riservatezza che si vogliano contrapporre, come limiti, alla diffusione delle informazioni relative all’ambiente.

Al riguardo, la disciplina contenuta nella direttiva n. 2003/4/CE e nel d.lgs. n. 195 del 2005, prevede esplicitamente i casi di esclusione del diritto di accesso alle informazioni ambientali. L’art. 5, comma 2, del citato d.lgs. stabilisce che «l’accesso all’informazione ambientale è negato quando la divulgazione dell’informazione reca pregiudizio:

a) alla riservatezza delle deliberazioni interne delle autorità pubbliche, secondo quanto stabilito dalle disposizioni vigenti in materia;

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b) alle relazioni internazionali, all’ordine e sicurezza pubblica o alla difesa nazionale;

c) allo svolgimento di procedimenti giudiziari o alla possibilità per l’autorità pubblica di svolgere indagini per l’accertamento di illeciti;

d) alla riservatezza delle informazioni commerciali o industriali, secondo quanto stabilito dalle disposizioni vigenti in materia, per la tutela di un legittimo interesse economico e pubblico, ivi compresa la riservatezza statistica ed il segreto fiscale, nonché ai diritti di proprietà industriale, di cui al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30;

e) ai diritti di proprietà intellettuale; f) alla riservatezza dei dati personali o riguardanti una

persona fisica, nel caso in cui essa non abbia acconsentito alla divulgazione dell’informazione al pubblico, tenuto conto di quanto stabilito dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196;

g) agli interessi o alla protezione di chiunque abbia fornito di sua volontà le informazioni richieste, in assenza di un obbligo di legge, a meno che la persona interessata abbia acconsentito alla divulgazione delle informazioni in questione;

h) alla tutela dell’ambiente e del paesaggio, cui si riferisce l’informazione, come nel caso dell’ubicazione di specie rare».

Non si tratta tanto di individuare a priori quali informazioni oppure quali tipologie di dati non possano oggettivamente essere divulgate ma, piuttosto, di curare la salvaguardia di alcune sostanziali esigenze di riservatezza che possono manifestarsi nel caso concreto. L’attenzione specifica a questo obiettivo è in grado di costituire una sorta di controlimite nei confronti della stessa riservatezza, consentendo di limitare, nelle singole fattispecie, il sacrificio dell’interesse all’informazione ambientale solo alla misura strettamente necessaria a non compromettere gli interessi tutelati dal segreto che emergono in quel determinato contesto. Non a caso, lo stesso art. 5 del d.lgs. n. 195 del 2005 precisa che «l’autorità pubblica applica le disposizioni dei commi 1 e 2 in modo restrittivo, effettuando, in relazione a ciascuna richiesta di accesso, una valutazione ponderata fra l’interesse pubblico all’informazione ambientale e l’interesse tutelato dall’esclusione dall’accesso» (comma 3), provvedendo inoltre ad individuare una sorta di “bilanciamento preventivo”, non suscettibile di condurre ad esiti diversi nel caso concreto, laddove stabilisce che «nei casi di cui al

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comma 2, lettere a), d), f), g) e h), la richiesta di accesso non può essere respinta qualora riguardi informazioni su emissioni nell’ambiente» (comma 4).

Si consideri, oltretutto, che in molte situazioni, anziché sottrarre delle informazioni alla libera circolazione, può essere sufficiente la loro diffusione esclusivamente in forma aggregata o anonima, in modo tale che non se ne possa trarre alcun riferimento individuale; a questa logica si ispira chiaramente la previsione contenuta nel comma 5 del citato art. 5, secondo la quale «nei casi di cui al comma 1, lettere d) ed e), ed al comma 2, l’autorità pubblica dispone un accesso parziale, a favore del richiedente, qualora sia possibile espungere dall’informazione richiesta le informazioni escluse dal diritto di accesso ai sensi dei citati commi 1 e 2». 3.4. I principî sul ruolo dei soggetti nella tutela dell’ambiente 3.4.1. Il principio di corresponsabilità e il principio di cooperazione

Il principio di corresponsabilità o della responsabilità

condivisa e il conseguente principio di cooperazione si collocano come fondamento ineludibile di ogni sistema giuridico che intenda perseguire razionalmente una tutela efficace ed effettiva del valore costituzionale dell’ambiente.

È sufficiente richiamare le dimensioni “relazionale” e “territoriale” dell’ambiente, dalle quali emergono le caratteristiche peculiari di un rapporto in cui è difficile individuare a priori i titolari degli interessi ambientali e coloro che sono chiamati ad assicurarne la tutela, per comprendere la necessità di presupporre, nei modelli organizzativi e procedimentali relativi a questo settore, il potenziale coinvolgimento di tutti i soggetti pubblici e privati e di tutti i livelli territoriali di governo.

La condivisione delle responsabilità esprime un’idea di fondo che è in grado di condizionare in modo determinante l’intero sistema di tutela dell’ambiente. Nei problemi relativi agli equilibri ecologici sono necessariamente coinvolti tutti: i soggetti privati, in qualità di singoli cittadini, di consumatori, di imprenditori; le amministrazioni pubbliche, ciascuna al livello territoriale corrispondente alla dimensione del problema da affrontare. Nessun soggetto può essere considerato a priori escluso. Dunque, in base al principio di

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corresponsabilità, ad ogni soggetto e ad ogni livello territoriale di governo deve essere riconosciuto un ruolo attivo, fondato sull’attribuzione di precise responsabilità, nell’ottica di ottimizzare i risultati sviluppando e sfruttando al meglio le capacità e le risorse di ciascuno.

Dalla necessaria corresponsabilità che deve ispirare il sistema di tutela dell’ambiente possono farsi discendere alcune rilevanti implicazioni sul piano giuridico, sia con riferimento ai rapporti tra livelli territoriali di intervento pubblico, sia con riferimento ai rapporti tra organi pubblici e soggetti privati.

Sul primo versante, emerge anzitutto la necessità di riconoscere l’inevitabile concorrenza di competenze di tutti i livelli di governo pubblico, che saranno chiamati ad intervenire, di volta in volta, con misure adeguate alla dimensione territoriale dei singoli problemi. Ciò determina, in ragione delle stesse caratteristiche oggettive della materia ambientale, l’impossibilità di costruire modelli di riparto delle funzioni fondati sulla radicale separazione delle sfere di attribuzione e improntati alla garanzia di ciò che spetta ad un livello piuttosto che ad un altro. In tema di ambiente si afferma con particolare evidenza il bisogno che la concorrenza delle competenze nel perseguimento dei comuni obiettivi di tutela sia costantemente ispirata al principio di cooperazione, in modo tale da realizzare un vero e proprio «policentrismo istituzionale e decisionale»109 caratterizzato da una rete di soggetti pubblici che si collocano su tutte le diverse dimensioni territoriali e che collaborano lealmente in vista del miglior equilibrio ambientale possibile.

Il principio di cooperazione impone la predisposizione di strumenti concreti che risultino in grado di realizzare effettivamente il rapporto collaborativo che deve intercorrere tra i diversi organi ed enti; ed è chiaro che quello della scelta concreta degli strumenti e delle forme con cui si dà attuazione alla leale cooperazione dei vari soggetti pubblici costituisce il vero punto di snodo determinante per il buon funzionamento del sistema. In astratto, infatti, la tipologia delle forme di raccordo collaborativo è estremamente variegata: si va da veri e propri meccanismi (più o meno paritari) di codecisione volti a favorire il raggiungimento di un in idem consensus, quali le intese (in senso “forte” e in senso “debole”), a forme di coordinamento operativo, 109 L’espressione è utilizzata da R. FERRARA (cfr., già, ID., L’organizzazione amministrativa dell’ambiente: i soggetti istituzionali, in R. FERRARA, F. FRACCHIA, N. OLIVETTI RASON, Diritto dell’ambiente, Bari, Laterza, 1999, 135).

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come le convenzioni e gli accordi di programma, a formule di partecipazione a decisioni altrui, come i pareri e le audizioni, all’attivazione di organismi misti o di conferenze (più o meno stabili) che funzionino da “tavoli di concertazione” o comunque da momento di rappresentazione di tutti i punti di vista coinvolti.

Di tali figure di raccordo a carattere collaborativo è largamente costellata tutta la legislazione in tema di tutela dell’ambiente, ma il vero problema risiede, in realtà, nella valutazione dell’adeguatezza che deve caratterizzare ciascuno strumento in relazione al tipo di decisione da prendere e al tipo di istanze di cui i vari soggetti interessati si assumono portatori. Proprio su questi aspetti, si incentra uno dei principali contributi forniti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che, sia pure con un atteggiamento di fondo ispirato prevalentemente alla prudenza, ha finito per ammettere il proprio sindacato sulla scelta degli strumenti attuativi del principio di leale cooperazione, precisando in alcuni casi i caratteri e le modalità di applicazione di tali strumenti e giungendo perfino ad imporne l’adozione di un tipo piuttosto che di un altro110.

Sul piano dei rapporti tra organi pubblici e soggetti privati, i principî di corresponsabilità e di cooperazione sono in grado di assumere una portata dirompente rispetto ai tradizionali modelli autoritativi fondati sull’approccio del comando-controllo. La necessità di condividere le responsabilità ambientali, nell’ottica di un rapporto di collaborazione piuttosto che di opposizione tra pubblico e privato, impone l’introduzione di nuovi modelli di amministrazione e di gestione delle politiche di tutela dell’ambiente improntati alla ricerca del consenso e alla partecipazione attiva di tutti i soggetti coinvolti.

Non si tratta soltanto di ampliare il ricorso ai consueti strumenti di partecipazione e di coinvolgimento dei privati nei processi decisionali degli organi pubblici. Occorre soprattutto sviluppare la costruzione di modelli integrati di azione che siano in grado di ottimizzare e di coordinare le risorse e le potenzialità di cui dispongono da un lato le amministrazioni pubbliche e dall’altro i soggetti privati e, in particolare, le imprese.

In questa logica, i due principî possono costituire la base costituzionale per l’introduzione di tutti quegli istituti che si collocano nell’ambito della c.d. “privatizzazione di funzioni amministrative”, sia

110 Si vedano, per tutte, Corte cost. n. 337 del 1989, n. 366 del 1992, nn. 127 e 157 del 1995.

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sul piano dell’organizzazione delle funzioni (società miste per la gestione dei servizi, consorzi, etc.) sia sul piano dell’attività (strumenti negoziali e, in particolare, accordi e contratti di programma)111.

Inoltre, trova fondamento costituzionale nei principî di corresponsabilità e di cooperazione l’intera categoria dei cosiddetti “strumenti volontari”, i quali – sia pure in una logica diversa da quella strettamente negoziale propria degli accordi e dei contratti di programma – tendono anch’essi a favorire la promozione di modelli di tutela dell’ambiente alternativi rispetto all’approccio tradizionale del comando e controllo. Tali strumenti (tra i quali, possono essere annoverati il bilancio ambientale d’impresa, il bilancio ambientale di prodotto, i sistemi di audit ambientale e di gestione ambientale dell’impresa, i sistemi di analisi del ciclo di vita dei prodotti, i sistemi di etichettatura ecologica), presentano la caratteristica comune di costituire l’espressione di una sorta di vera e propria “autoresponsabilizzazione” dell’impresa collegata ad un radicale cambiamento di ottica nei confronti dei problemi ambientali.

3.4.2. Il principio di sussidiarietà: l’azione unitaria del livello territoriale superiore e la tutela più rigorosa del livello territoriale inferiore

Nella ricostruzione del modello complessivo di intervento

nella tutela dell’ambiente – particolarmente per quanto attiene all’intervento dei poteri pubblici, su cui si concentrerà l’attenzione nelle pagine che seguono – i principî di corresponsabilità e di cooperazione debbono necessariamente essere combinati con il principio di sussidiarietà, il quale si presenta come principio in grado di fornire orientamenti più precisi sulle modalità applicative dei primi due.

3.4.2.1. L’ordinamento comunitario A livello comunitario, il principio di sussidiarietà trova il

proprio riconoscimento “costituzionale” esplicito nell’art. 5, comma 2, 111 Sul tema, per un primo orientamento, cfr. S. AMOROSINO, Ambiente e privatizzazione delle funzioni amministrative, in S. GRASSI, M. CECCHETTI, A. ANDRONIO (a cura di), Ambiente e diritto, cit., II, 349 ss.

127

del trattato CE, che lo inserisce tra i principî generali dell’ordinamento sovranazionale. La disposizione stabilisce: «Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario».

È significativo che la formula utilizzata riprenda, sia pure con qualche modifica, una norma che l’Atto Unico Europeo aveva già inserito nel trattato CEE proprio e solo in materia di tutela dell’ambiente e che il trattato di Maastricht ha opportunamente eliminato in quanto ricompresa nella disposizione generale. Nella precedente versione, l’art. 130R, par. 4, prevedeva che «la Comunità agisce in materia ambientale nella misura in cui gli obiettivi di cui al paragrafo 1 possono essere meglio realizzati a livello comunitario piuttosto che a livello dei singoli Stati membri».

Secondo la formulazione del trattato, il principio di sussidiarietà opera come principio regolatore dei rapporti tra Comunità e Stati membri, in ambiti di competenza concorrente.

Dunque il presupposto imprescindibile per l’applicazione di tale principio è che ci si trovi in presenza di una concorrenza di competenze; con l’importante precisazione, tuttavia, secondo la quale, a livello comunitario, il principio in questione non opera sul piano dell’attribuzione formale delle competenze, quanto invece come criterio mobile e flessibile di smistamento o distribuzione dell’esercizio di determinate competenze tra i vari livelli in relazione alle esigenze concrete che si pongono, con riferimento alla specifica azione o al singolo aspetto da disciplinare. In altri termini, nell’ordinamento europeo, il principio di sussidiarietà serve ad “allocare” l’esercizio e non la titolarità di certe competenze al livello comunitario, oppure a lasciare tale esercizio di competenze alla piena disponibilità dei livelli territoriali inferiori, sulla base di valutazioni di merito (basate su logiche eminentemente “funzionalistiche”) dei singoli interventi in relazione alle situazioni da fronteggiare e ai bisogni da soddisfare.

Emerge così il carattere di massima flessibilità del criterio che dovrebbe guidare l’esercizio delle competenze concorrenti dei diversi livelli territoriali di governo. L’intervento dell’uno piuttosto che dell’altro livello risulta legato esclusivamente a valutazioni di merito

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da effettuare di volta in volta, nelle quali possono prevalere tanto le posizioni del livello territoriale più elevato, quanto le posizioni dei livelli inferiori.

Da questo punto di vista, occorre rassegnarsi ad una ineliminabile ambivalenza del significato del principio di sussidiarietà, che risulterà utilizzabile come “formula aperta” a sviluppi differenti, tanto nel senso di garantire i livelli di governo inferiori contro indebite ed eccessive ingerenze del livello superiore quanto, viceversa, nel senso di favorire l’espansione degli interventi di quest’ultimo a scapito dei livelli inferiori.

Alcuni importanti chiarimenti in merito all’applicazione del principio di sussidiarietà vengono forniti nel protocollo allegato al trattato CE dal trattato di Amsterdam del 1997 intitolato all’applicazione dei principî di sussidiarietà e di proporzionalità. Tali chiarimenti sembrano particolarmente significativi in quanto contenuti in un atto che costituisce l’espressione della volontà unanime degli Stati membri e si colloca, come i trattati, sul piano delle fonti “costituzionali” europee. L’elemento comune che emerge in tutto il protocollo è il chiaro intento di dare alla sussidiarietà un significato tendente a salvaguardare il ruolo degli Stati membri e a impedire che l’azione del livello di governo comunitario si espanda al di là di quanto strettamente necessario.

Al punto 3 viene confermato che il principio di sussidiarietà non rimette in questione il quadro (formale) delle competenze conferite alla Comunità e che esso si applica solo nei settori che non sono di esclusiva competenza comunitaria; la sussidiarietà serve a dare un orientamento sul modo in cui le competenze (concorrenti) devono essere esercitate a livello comunitario e «consente che l’azione della Comunità, entro i limiti delle sue competenze, sia ampliata laddove le circostanze lo richiedano e, inversamente, sia ristretta e sospesa laddove essa non sia più giustificata». Al punto successivo è stabilito formalmente l’obbligo di motivazione di ogni proposta di normativa comunitaria in relazione al rispetto della sussidiarietà e della proporzionalità, specificandosi che «le ragioni che hanno portato a concludere che un obiettivo comunitario può essere conseguito meglio dalla Comunità devono essere confortate da indicatori qualitativi o, ove possibile, quantitativi».

Sui parametri che giustificano l’intervento del livello comunitario, viene chiarito, al punto 5, che devono risultare rispettate entrambe le condizioni previste dall’art. 3B (ora art. 5), comma 2.

129

Vengono poi indicati alcuni principî guida da applicare come parametri nello svolgimento di tale valutazione:

«– il problema in esame presenta aspetti transnazionali che non possono essere disciplinati in maniera soddisfacente mediante l’azione degli Stati membri;

– le azioni dei soli Stati membri o la mancanza di un’azione comunitaria sarebbero in conflitto con le prescrizioni del trattato (come la necessità di correggere distorsioni di concorrenza o evitare restrizioni commerciali dissimulate o rafforzare la coesione economica e sociale) o comunque pregiudicherebbero in modo rilevante gli interessi degli Stati membri;

– l’azione a livello comunitario produrrebbe evidenti vantaggi per la sua dimensione o i suoi effetti rispetto all’azione a livello di Stati membri».

Ai punti 6 e 7, infine, vengono individuate con una certa precisione le caratteristiche che dovrebbero assumere gli interventi della Comunità fondati sulla sussidiarietà.

Quanto alla forma dell’azione comunitaria, si stabilisce che essa «deve essere quanto più possibile semplice, in coerenza con un soddisfacente conseguimento dell’obiettivo della misura e con la necessità di un’efficace applicazione», aggiungendosi che «la Comunità legifera soltanto per quanto necessario» e che «a parità di altre condizioni, le direttive dovrebbero essere preferite ai regolamenti e le direttive quadro a misure dettagliate».

Quanto invece alla natura e alla portata dell’azione comunitaria, al punto 7 si afferma che «le misure comunitarie dovrebbero lasciare il maggior spazio possibile alle decisioni nazionali, purché sia garantito lo scopo della misura e siano soddisfatte le prescrizioni del trattato», con la precisazione secondo la quale «se opportuno, e fatta salva l’esigenza di un’effettiva attuazione, le misure comunitarie dovrebbero offrire agli Stati membri vie alternative per conseguire gli obiettivi delle misure».

Nella medesima logica della sussidiarietà, ed anzi come specificazione volta a definire il ruolo del livello nazionale rispetto al livello comunitario nella tutela dell’ambiente, deve essere letta la clausola contenuta nell’art. 176 del trattato CE e già introdotta come art. 130T nella versione del trattato CEE modificata con l’Atto Unico Europeo del 1986, in base alla quale «i provvedimenti di protezione adottati in comune in virtù dell’art. 175 non impediscono ai singoli Stati membri di mantenere e di prendere provvedimenti per una

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protezione ancora maggiore. Tali provvedimenti devono essere compatibili con il presente trattato. Essi sono notificati alla Commissione».

L’origine storica della clausola della tutela ambientale più rigorosa da parte degli Stati membri va senz’altro ricondotta alla necessità di salvaguardare quegli Stati che temevano per un possibile abbassamento del livello di tutela dell’ambiente da essi praticato a seguito dell’introduzione di misure comunitarie. Più in generale, non si può negare che la ratio della clausola contenuta nell’art. 176 possa essere ricondotta ai parametri “di bilanciamento” dell’azione di tutela dell’ambiente indicati nell’art. 174, par. 3, e – in modo particolare – al secondo di tali parametri, in base al quale le istituzioni comunitarie devono tenere conto «delle condizioni dell’ambiente nelle varie regioni della Comunità».

Il significato più immediato della clausola non pone eccessivi problemi; gli Stati membri possono non soltanto «mantenere» misure di tutela preesistenti, ma anche «introdurre» misure nuove, in rapporto a quelle adottate in sede comunitaria sulla base dell’art. 175 del trattato CE. I problemi interpretativi sorgono, invece, sul significato dell’espressione «protezione maggiore» che deve costituire la finalità delle misure mantenute o introdotte dal singolo Stato, nonché sui limiti che devono comunque imporsi al potere concesso agli Stati membri.

In ordine al primo profilo, agli Stati sarebbe riconosciuta, in via di principio, la possibilità di adottare una tutela più rigorosa (more stringent protective measures) di quella approntata in sede comunitaria; una tutela ambientale in melius, a fronte della quale la protezione garantita dalle istituzioni comunitarie tenderebbe inevitabilmente ad assumere il carattere di tutela “minimale” (la clausola, infatti, è detta anche “clausola minimale” o “minimum stringency clause”), quasi si trattasse di una sorta di “minimo comune denominatore” inderogabile in senso peggiorativo.

Se si accoglie un significato di “tutela minimale” o di “minimo comune denominatore” in senso relativo, tali espressioni sembrano del tutto compatibili sia con l’affermazione contenuta nell’art. 174, par. 2, del trattato CE, circa il livello elevato della tutela che deve caratterizzare la politica ambientale della Comunità, sia con il principio di sussidiarietà. Il livello di protezione ambientale applicato sul piano comunitario potrà certo essere il più elevato possibile, compatibilmente con le condizioni dei paesi membri; ma una volta che

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gli Stati possono adottare livelli di protezione più elevati non v’è dubbio che la tutela comunitaria (per quanto elevata) finisce per assumere la caratteristica di una base comune avente carattere minimale in relazione alla tutela apprestabile dai singoli Stati membri.

Il sistema che scaturisce dall’interazione tra livello elevato di tutela dell’ambiente sul piano comunitario, sussidiarietà e tutela ambientale più rigorosa degli Stati membri valorizza in modo evidente l’attuazione dinamica dell’azione di tutela dell’ambiente, che risulta caratterizzata dalla predisposizione di misure a livello comunitario superabili da parte dei singoli Stati membri (in considerazione delle eterogenee situazioni nelle varie regioni) e poi ancora migliorabili dalla Comunità, come in una sequenza progressiva finalizzata ad ottenere le migliore tutela ambientale possibile ad ogni livello territoriale. E in base a queste considerazioni sembra corretta la conclusione secondo cui l’espressione «protezione maggiore», contenuta nella clausola di cui all’art. 176 del trattato CE, non può intendersi altro che come «protezione intensificata a livello statale, che non contraddica quella comunitaria, ma la perfezioni e la superi»112.

Tale conclusione consente di risolvere anche il secondo problema interpretativo concernente la clausola in questione e relativo ai limiti che si impongono al potere riconosciuto ai singoli Stati membri.

La formula dell’art. 176 fa espresso riferimento al carattere di necessaria “compatibilità” con il trattato che deve assumere la protezione rinforzata introdotta o mantenuta dagli Stati membri, intendendo con ciò impedire che tale tutela possa costituire uno strumento di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata nel commercio all’interno della Comunità. Tuttavia, al di là del limite esplicito di “compatibilità” con il trattato, sembra corretto ritenere che la clausola contenga un limite intrinseco alla tutela rinforzata adottabile dai singoli Stati membri, consistente nel fatto che le ulteriori misure di protezione dell’ambiente devono costituire un rafforzamento della tutela comunitaria e non una deviazione dalla medesima. In altri termini, la protezione nazionale più rigorosa deve essere congruente con la tutela comunitaria di base e non deve avere un contenuto diverso, rappresentando solo un “potenziamento” su

112 Così P.A. PILLITU, Profili costituzionali della tutela ambientale nell’ordinamento comunitario europeo, cit., 185.

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scala nazionale dell’azione di tutela, senza per questo poter assumere un carattere propriamente derogatorio. Gli Stati membri non dispongono pertanto di un potere di regolamentazione del tutto autonomo, bensì di un potere vincolato dalla necessità di non porsi in contrasto con la disciplina comunitaria e, quindi, con i principî e gli aspetti fondamentali della tutela stabiliti al livello territoriale superiore.

Si delinea così il modello di “governo” dell’ambiente vigente nell’ordinamento comunitario.

Tale modello è quello di un livello territoriale superiore che, grazie alla più ampia visione di cui dispone, è in grado di adottare un approccio complessivo ai problemi della tutela dell’ambiente e una disciplina tendenzialmente uniforme, sulla cui base è possibile garantire il perseguimento di uno standard di protezione valido per tutto il territorio considerato. La disciplina dettata al livello superiore resta fondamentalmente una disciplina a maglie piuttosto larghe, da adattare e attuare nell’ambito delle singole realtà territoriali e, comunque, “potenziabile” (nel senso del rafforzamento e non della deviazione) in relazione alle peculiari esigenze che tali realtà possono presentare.

3.4.2.2. L’ordinamento interno Quanto all’ordinamento nazionale, come si illustrerà

analiticamente più avanti, il richiamo espresso al principio di sussidiarietà (senza alcuna precisazione) compare nel testo del nuovo art. 118 Cost. riformato nel 2001, come principio generale al quale ispirare – assieme ai principî di differenziazione e adeguatezza – la ripartizione delle funzioni amministrative tra tutti i livelli territoriali di governo.

Tuttavia, già prima della riforma costituzionale del titolo V, era andato progressivamente consolidandosi un sistema di riparto delle competenze (e dunque dei ruoli complessivi e delle responsabilità) ambientali tra i diversi enti territoriali della Repubblica orientato decisamente su logiche di tipo sussidiario, fondate, più in particolare, da un lato sul criterio della dimensione territoriale degli interessi, dall’altro – ed è ciò che sembra più rilevante – sulla individuazione del livello ottimale di allocazione delle diverse funzioni in relazione alle caratteristiche oggettive del “fenomeno” su cui intervenire.

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Tanto la giurisprudenza della Corte quanto la legislazione più prossima all’avvento della riforma costituzionale del 2001 (e, in particolare, il d.lgs. n. 112 del 1998, in attuazione della riforma amministrativa conosciuta come “federalismo amministrativo a Costituzione invariata” e avviata con la legge di delegazione n. 59 del 1997) mostrano la chiara consapevolezza delle due diverse tipologie di esigenze che si fronteggiano ineliminabilmente nel governo dell’ambiente: da un lato le “esigenze unitarie”, che impongono l’intervento dei livelli superiori (Stato e Regioni, rispettivamente nei confronti del livello regionale e dei livelli locali), soprattutto a fini di uniformità e omogeneità strategica dell’azione di tutela, oltre che per la definizione di livelli minimi di intensità delle misure di protezione; dall’altro le “esigenze di differenziazione”, che impongono l’intervento dei livelli inferiori (Regioni ed enti locali, rispettivamente nei confronti del livello statale e del livello regionale), a fini di adattamento dell’azione di tutela ai diversi contesti territoriali, anche attraverso l’introduzione di misure più intense e rigorose di quelle previste al livello superiore.

Rispetto al sistema vigente sul piano comunitario, al livello interno meritano, tuttavia, di essere sottolineate due peculiarità. Da un lato, il fatto che in Italia la sussidiarietà si è sempre prevalentemente atteggiata non tanto come criterio di distribuzione dell’esercizio concreto delle diverse competenze, quanto piuttosto come criterio per l’attribuzione della loro titolarità formale (le competenze risultano dunque “concorrenti” solo nel senso che “concorrono” all’interno del medesimo ambito materiale e non invece perché siano esercitabili indifferentemente all’uno o all’altro livello). Dall’altro lato, il fatto che il modello italiano di governo dell’ambiente ha finito per assumere, fino ad oggi, i connotati di un modello “sostanziale”; un modello, cioè, fondato sull’effettivo perseguimento degli obiettivi di tutela e sugli aspetti per così dire “di sostanza” del rapporto tra i diversi livelli territoriali di governo dell’ambiente e che perciò si è caratterizzato soprattutto per il fatto di prescindere da ogni rigida e formale distinzione tra ambito della “normazione” e ambito dell’“amministrazione”, in una sorta di continua osmosi tra riconoscimento di competenze amministrative e riconoscimento di competenze normative.

È in un simile contesto che la sussidiarietà nel sistema interno di governo dell’ambiente sembra mostrare una tendenza assai spiccata a scomporsi, in una logica del tutto analoga (nella sostanza) a quella

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comunitaria, in due principî più specifici: il principio di azione unitaria del livello superiore e il principio della tutela più rigorosa del livello territoriale inferiore.

La necessità dell’azione unitaria dei livelli territoriali superiori risulta generalmente fondata su quattro presupposti generali, che emergono – in misura più o meno analoga – anche in altri settori (ad es. la tutela della salute), ma che nel campo della tutela dell’ambiente assumono connotazioni affatto particolari, in ragione della specificità e della varietà dei fenomeni da prendere in considerazione.

Due presupposti possono essere considerati “ordinari”, in quanto costituiscono il fondamento di poteri da riservare ordinariamente ai livelli territoriali superiori e che, per loro natura, non possono che essere affidati a tali livelli di governo dell’ambiente; gli altri due presupposti hanno invece carattere “straordinario”, in quanto si riferiscono a situazioni contingenti in cui l’intervento che spetterebbe normalmente al livello inferiore viene straordinariamente attratto, in via provvisoria, nella sfera di responsabilità del livello superiore.

I presupposti “ordinari” consistono essenzialmente da un lato in esigenze di globalità dell’azione di tutela, dall’altro in esigenze di uniformità di disciplina o, meglio, di condizioni di tutela; le esigenze di globalità, che in gran parte si collegano anche all’affermazione del principio di unitarietà dell’ambiente, impongono la predisposizione in continuo di una politica ambientale organica e sistemica, che sia in grado di superare le visioni particolaristiche legate esclusivamente a situazioni e interessi territorialmente localizzati; le esigenze di uniformità di disciplina o di condizioni di tutela fanno riferimento alla necessità di evitare difformità, o quantomeno difformità eccessive, nei livelli di protezione ambientale, soprattutto in considerazione della primarietà del valore costituzionale da tutelare.

Quanto ai due presupposti cosiddetti “straordinari”, questi tendono a far configurare il livello di governo superiore come garante della tempestività degli interventi e come responsabile ultimo dell’effettivo perseguimento degli obiettivi di tutela da parte del rispettivo livello inferiore.

Si tratta, in primo luogo, di quelle situazioni di urgenza o di vera e propria emergenza che non possono essere affrontate in modo adeguato e tempestivo dai livelli territoriali ordinariamente competenti, per carenza di mezzi, risorse e strutture operative, e che

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dunque rendono indispensabile l’intervento ausiliario del livello superiore.

In secondo luogo, si tratta di quelle situazioni di inerzia dei livelli territoriali inferiori dalle quali possa derivare un effettivo pericolo per il conseguimento degli obiettivi essenziali della tutela e che perciò richiedono l’attivazione di poteri di vigilanza e di intervento attivo da parte del livello superiore. L’azione unitaria del livello di governo superiore si configura in entrambe queste ipotesi come una sorta di “valvola di sicurezza” del sistema di tutela dell’ambiente ed ha, per l’appunto, la funzione di costituire un rimedio a situazioni straordinarie nelle quali rischi di essere irreparabilmente compromessa l’effettività della tutela.

In questa cornice di riferimento, occorre però domandarsi, più in particolare, quali poteri debbano spettare ai livelli territoriali superiori in forza del principio di azione unitaria, a prescindere – in questa sede – da una distinzione rigorosa tra funzioni normative e funzioni amministrative.

Sulla base dei due presupposti “ordinari”, ai livelli di governo superiori (rispettivamente lo Stato centrale e le Regioni) dovrebbero necessariamente essere riservati i poteri di determinazione degli obiettivi, delle priorità strategiche e degli indirizzi generali delle politiche di tutela dell’ambiente, nonché i poteri di coordinamento indispensabili a ricondurre ad un disegno unitario le diverse azioni di tutela; tali poteri si dovrebbero poi articolare, in concreto, nella fissazione di principî e nell’emanazione di direttive e linee guida, ai quali i livelli territoriali inferiori (rispettivamente le Regioni e gli enti locali) dovrebbero uniformare le loro azioni di tutela dell’ambiente attraverso, a loro volta, l’esercizio di poteri attinenti fondamentalmente al momento della gestione amministrativa e all’adattamento (mediante prescrizioni puntuali) delle strategie complessive alle esigenze localizzate nel territorio.

In questa logica, l’azione unitaria dei livelli superiori si dovrebbe esprimere attraverso forme di intervento “leggero”, a maglie ampie, in modo da garantire globalità e uniformità della tutela senza privare di effettivi spazi di scelta e margini di responsabilità i livelli di governo inferiori; a questi dovrebbero in ogni caso essere riservati i compiti di programmazione operativa, nonché – almeno tendenzialmente – tutti i poteri di gestione e di amministrazione attiva.

Nel caso dei due presupposti “straordinari”, occorrerebbe riconoscere al livello di governo superiore una potestà di intervento

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forte ed incisivo, che sia in grado di costituire una solida garanzia del perseguimento effettivo dei risultati di tutela e che dunque possa consistere anche in una ingerenza diretta nei compiti di amministrazione attiva dei livelli inferiori.

Anche su questo versante, tuttavia, risulterebbe necessario assicurare il mantenimento del quadro delle responsabilità spettanti ordinariamente. E in questo senso, nella logica di una corretta interpretazione della sussidiarietà, il livello di governo superiore potrebbe pure giungere all’estrema ratio della sostituzione diretta nello svolgimento di determinati compiti ritenuti indispensabili, ma mai prima di aver adottato tutte le soluzioni possibili per favorire il coinvolgimento e l’impegno attivo degli enti e degli organi direttamente competenti, evitandone così la totale deresponsabilizzazione.

A differenza del principio di azione unitaria, il principio della tutela più rigorosa tende a focalizzarsi sui compiti spettanti generalmente ai livelli territoriali inferiori, sempre all’interno della logica della sussidiarietà.

Il contenuto essenziale di tale principio si può così sintetizzare: i livelli di governo inferiori possono adottare provvedimenti (indifferentemente di natura normativa o amministrativa) per una tutela dell’ambiente che risulti maggiore e più restrittiva rispetto alle misure predisposte dal livello superiore, le quali, di conseguenza, devono essere considerate semplicemente come un sistema di tutela a carattere minimale, inderogabile in peius, almeno fin quando il livello superiore non autorizzi esplicitamente l’introduzione di misure più permissive.

Anche nell’ordinamento interno, peraltro, occorre precisare che agli interventi di tutela più restrittivi, comunque adottati dai livelli inferiori, si impone necessariamente un limite di compatibilità. Tale limite, infatti, come già si è visto per la clausola di cui all’art. 176 del trattato CE, è da ritenere connaturato alla stessa essenza del principio. La possibilità che i livelli territoriali inferiori adottino misure di tutela dell’ambiente più rigorose, infatti, non può che nascere con un intrinseco carattere relativo se, come sembra, deve necessariamente essere esclusa la configurabilità di un potere assoluto dei livelli inferiori di adottare forme di rigorismo ambientale che risultino del tutto indipendenti da quelle esigenze di uniformità e di approccio globale che, come si è visto, valgono a giustificare ordinariamente l’intervento unitario dei livelli di governo superiori.

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Il limite di compatibilità della tutela più rigorosa costituisce dunque il nodo fondamentale da sciogliere: devono essere definiti, in sostanza, i parametri di riferimento della compatibilità, il grado della medesima, nonché eventuali ulteriori fattori che possono condizionare l’introduzione delle misure di tutela più restrittive; e, in questo senso, assume un rilievo decisivo l’individuazione di un raccordo con il principio di azione unitaria del livello superiore.

Sul tema non esistono, in verità, punti di riferimento consolidati né nella legislazione né nella giurisprudenza. Si può rilevare, però, che già sotto il profilo puramente logico il limite di compatibilità non può che collocarsi su un piano diverso rispetto a quello del livello minimo di tutela imposto dal livello di governo superiore, che risulta per l’appunto derogabile in senso più restrittivo. Ma se questo è vero, che cosa deve rispettare il livello territoriale inferiore quando intenda esercitare il proprio potere di derogare al minimum garantito dal livello superiore, approntando una tutela dell’ambiente più rigorosa?

Una possibile risposta può essere avanzata se si considera che la tutela dell’ambiente presenta una dimensione qualitativa distinguibile da una dimensione quantitativa, anche se entrambe risultano indispensabili e strettamente correlate tra loro.

La prima è essenzialmente quella che investe il tipo di rapporto di equilibrio tra uomo e cosmo che si intende perseguire ed è quindi la dimensione che concerne l’individuazione dei fattori da considerare, le scelte di fondo, le strategie di tutela, i grandi bilanciamenti soprattutto con gli interessi confliggenti, le priorità di intervento; la seconda, invece, è quella che investe la scelta sulla intensità della tutela, il quantum di protezione che si intende assicurare, ossia i livelli e il grado di tutela da garantire nelle diverse realtà territoriali (si pensi alle prescrizioni che fissano standard di qualità ambientale e valori limite di emissione di sostanze inquinanti).

In un simile contesto, è chiaro che le scelte attinenti agli aspetti quantitativi della tutela incontrano necessariamente il limite delle scelte operate sul piano qualitativo, le quali non possono che essere logicamente sovraordinate.

Sulla base di questa distinzione, sembra di poter dire che il principio di azione unitaria abbia essenzialmente il proprio campo di applicazione nella definizione dei ruoli spettanti ai diversi livelli territoriali di governo con riferimento alla dimensione qualitativa della tutela ambientale, mentre il principio della tutela più rigorosa svolga

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la medesima funzione sul versante della dimensione quantitativa; ciò dovrebbe rendere più agevole l’individuazione della portata giuridica del limite di compatibilità che caratterizza il principio della tutela più rigorosa del livello inferiore, nonché delle modalità di raccordo tra questo principio e l’assetto dei rapporti derivante dal principio di azione unitaria del livello superiore.

Sul piano dei contenuti, delle strategie di tutela e delle scelte di fondo, in base al principio di azione unitaria, ai livelli superiori dovrebbero ritenersi riservati, come si è detto, i poteri di determinazione degli obiettivi, delle priorità strategiche e degli indirizzi generali delle politiche di tutela dell’ambiente (in particolare attraverso la fissazione di principî, direttive e linee guida), mentre ai livelli di governo inferiori dovrebbero competere la gestione amministrativa, la disciplina di dettaglio e l’adattamento alle esigenze locali.

Sul piano degli aspetti quantitativi e dell’intensità della tutela dell’ambiente, in base al principio della tutela più rigorosa, ai livelli superiori dovrebbe spettare la fissazione di un quantum minimo da garantire su tutto il territorio considerato (attraverso, ad esempio, la determinazione di standard minimi-essenziali di qualità ambientale e di valori massimi di emissione di sostanze inquinanti), mentre ai livelli di governo inferiori resterebbe affidato il potere di fissare standard e valori limite più restrittivi, sulla base delle particolari situazioni che emergono nel proprio ambito territoriale di competenza (situazioni che costituiscono il parametro di riferimento per sindacare, a posteriori, la legittimità dell’intervento più rigoroso).

I due piani si intersecano e si integrano a vicenda, risultando assolutamente inscindibili per una efficace azione di tutela dell’ambiente, ma non possono confondersi né sovrapporsi; il livello inferiore può apprestare una tutela più rigorosa soltanto sotto il profilo quantitativo, dovendo comunque rispettare le scelte di fondo, i principî e gli indirizzi che vengono elaborati dal livello di governo superiore in base al principio di azione unitaria.

Sembrerebbe così chiarito che il limite di compatibilità si riferisce esclusivamente alle scelte qualitative effettuate ai livelli territoriali superiori e non certo agli aspetti concernenti il grado minimo di intensità della tutela garantito a tali livelli.

Occorre osservare, peraltro, che vi possono essere delle situazioni in cui le scelte di fondo, o magari le operazioni di ponderazione e bilanciamento tra valori costituzionali, risultano

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strettamente collegate a determinati livelli quantitativi di tutela dell’ambiente, con la conseguenza di limitare ulteriormente il potere del livello di governo inferiore di introdurre una tutela più rigorosa.

È questo il caso, ad esempio, dell’oggi non più vigente d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, in materia di inquinamento atmosferico provocato dagli impianti industriali che, proprio su questo punto era passato indenne all’esame della Corte costituzionale (sentenza n. 53 del 1991). L’art. 3, comma 2, lett. a), del decreto, infatti, riservava allo Stato centrale la determinazione dei valori limite di emissione sia minimi che massimi, impedendo così, in via generale, che i livelli di governo inferiori potessero stabilire valori più rigorosi di un certo quantum. Alle Regioni, secondo quanto espressamente previsto dal successivo art. 4, comma 1, lett. e), rimaneva la possibilità di fissare limiti alle emissioni più restrittivi dei valori minimi statali soltanto in presenza di zone particolarmente inquinate, o per specifiche esigenze di tutela ambientale, e comunque soltanto nell’ambito dei piani di risanamento e tutela della qualità dell’aria.

Più recentemente, risulta assai emblematico il caso degli standard di protezione dall’inquinamento elettromagnetico contemplati dalla legge n. 36 del 2001.

In base all’art 3 di tale legge, gli standard di protezione dall’inquinamento elettromagnetico si distinguono nel modo seguente:

–“limiti di esposizione”, ossia valori di campo che non devono essere superati in alcuna condizione di esposizione della popolazione e dei lavoratori per assicurare la tutela della salute;

– “valori di attenzione”, intesi come valori di campo da non superare, a titolo di cautela rispetto ai possibili effetti a lungo termine, negli ambienti abitativi e scolastici e nei luoghi adibiti a permanenze prolungate;

– “obiettivi di qualità”, distinti in due categorie, di cui una consiste ancora in valori di campo definiti «ai fini della progressiva minimizzazione dell’esposizione» (art. 3, comma 1, lettera d, n. 2), e l’altra in «criteri localizzativi, standard urbanistici, prescrizioni e incentivazioni per l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili» (art. 3, comma 1, lettera d, n. 1).

La legge attribuisce allo Stato la determinazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità del primo dei due tipi indicati, mentre attribuisce alla competenza delle Regioni la indicazione degli obiettivi di qualità del secondo tipo; nulla di esplicito si dice, però, circa l’eventuale inderogabilità dei valori-

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soglia fissati dallo Stato ovvero la possibilità che le Regioni provvedano a modificarli in senso più rigoroso, fissando valori più bassi.

Il problema è stato affrontato da ultimo nella sentenza n. 307 del 2003 della Corte costituzionale, la quale ha chiarito che se la ratio della fissazione dei valori-soglia di cui alla legge n. 36 del 2001 consistesse esclusivamente nella tutela della salute dai rischi dell’inquinamento elettromagnetico, potrebbe essere ammissibile un intervento delle Regioni che stabilisse limiti più rigorosi rispetto a quelli fissati dallo Stato, in coerenza con il principio, proprio anche del diritto comunitario, che ammette deroghe alla disciplina comune, in specifici territori, con effetti di maggiore protezione dei valori tutelati (cfr. sentenze n. 382 del 1999 e n. 407 del 2002). Nella specie, tuttavia, la fissazione di valori-soglia risponde, secondo la Corte, ad una ratio più complessa e articolata: da un lato, si tratta effettivamente di proteggere la salute della popolazione dagli effetti negativi delle emissioni elettromagnetiche, dall’altro, si tratta di consentire – anche attraverso la fissazione di soglie diverse in relazione ai tipi di esposizione, ma uniformi sul territorio nazionale, e la graduazione nel tempo degli obiettivi di qualità espressi come valori di campo – la realizzazione degli impianti e delle reti rispondenti a rilevanti interessi nazionali, sottesi alle competenze concorrenti di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, come quelli che fanno capo alla distribuzione dell’energia e allo sviluppo dei sistemi di telecomunicazione. Tali interessi sono indubbiamente sottesi alla considerazione del «preminente interesse nazionale alla definizione di criteri unitari e di normative omogenee» che, secondo l’art. 4, comma 1, lettera a), della legge-quadro in questione, fonda l’attribuzione allo Stato della funzione di determinare detti valori-soglia.

In sostanza, ad avviso del giudice delle leggi italiano, la fissazione a livello nazionale di valori-soglia non derogabili dalle Regioni nemmeno in senso più restrittivo rappresenta il punto di equilibrio tra più esigenze contrapposte: da un lato, quella di evitare al massimo l’impatto delle emissioni elettromagnetiche, dall’altro quella di consentire la realizzazione di impianti necessari al paese. Cosicché, seguendo la logica per cui la competenza delle Regioni in materia di trasporto dell’energia e di ordinamento della comunicazione è di tipo concorrente, ossia vincolata ai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, ai legislatori regionali non è consentito derogare in

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senso più restrittivo ai valori fissati al livello statale, pure in assenza di un esplicito divieto in tal senso contenuto nella legge n. 36 del 2001.

Al di fuori di casi come quello appena descritto, nei quali il livello di intensità delle misure di tutela ambientale fissato dallo Stato deve essere considerato come l’unica espressione possibile di una ponderazione tra valori ed esigenze diverse caratterizzata da necessaria uniformità e dunque da effettuare esclusivamente al livello superiore, si può ritenere – come la stessa Corte riconosce richiamando i propri precedenti delle sentenze nn. 382 del 1999 e 407 del 2002 – che la possibilità per i livelli territoriali inferiori di adottare misure di tutela dell’ambiente a carattere più restrittivo (sul piano dell’intensità) si configuri come principio generale che non richiede una esplicita “autorizzazione” normativa in tal senso da parte del livello superiore, trattandosi – in buona sostanza – di una tipica specificazione della sussidiarietà. In questa logica, almeno nel suo ordinario funzionamento, il principio impone la necessità che il livello di governo superiore ponga un limite esplicito laddove ritenga incompatibile con le strategie ambientali complessive il superamento di determinati livelli di intensità delle misure di tutela, nella consapevolezza che, in mancanza di tale espressa previsione, il principio generale di sussidiarietà ed i suoi corollari tenderanno inevitabilmente a valorizzare il ruolo affidato agli enti di governo più vicini ai cittadini.

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CAPITOLO 4

LA RIPARTIZIONE DELLE FUNZIONI NORMATIVE E AMMINISTRATIVE TRA GLI ENTI DELLA REPUBBLICA

4.1. Il “modello” astratto disegnato nel nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione

Il nuovo Titolo V, Parte II, Cost., così come riformato dalla

legge cost. n. 3 del 2001, configura in modo sostanzialmente nuovo il modello di “stato regionale” previsto nella Costituzione del 1947, modificando profondamente l’assetto dei rapporti tra Stato, Regioni ed autonomie territoriali locali, anche con specifico riferimento alla tutela dell’ambiente che, come si è già segnalato, per la prima volta compare esplicitamente nel testo costituzionale.

Sul versante della legislazione, si è già detto che il nuovo art. 117, secondo comma, lett. s), sancisce l’attribuzione alla potestà legislativa esclusiva dello Stato della “materia” «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» e che, al tempo stesso, il comma successivo affida alla legislazione concorrente dello Stato e delle Regioni la materia della «valorizzazione dei beni culturali e ambientali», alla quale si aggiungono le materie della «tutela della salute», del «governo del territorio», della «protezione civile», della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», dei «porti e aeroporti civili», delle «grandi reti di trasporto e di navigazione», della «ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi». Va inoltre considerato che tra le materie per le quali si deve ritenere che il quarto comma preveda, in via generale, una potestà legislativa delle Regioni residuale e primaria – come, seppure in parte, ha già chiarito il giudice delle leggi – vanno senz’altro ricomprese almeno l’«agricoltura e le foreste», l’«industria, il commercio e l’artigianato», il «turismo», le «reti di trasporto e di navigazione regionali e locali», la «caccia», la «pesca», le «miniere», le «cave e torbiere», le «acque minerali e termali».

Sempre l’art. 117, al quinto comma, stabilisce che «le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea»,

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fissando così un principio di pieno parallelismo tra la potestà legislativa affidata alle Regioni e il potere di queste non solo di provvedere direttamente all’attuazione e all’esecuzione degli atti internazionali e comunitari ma anche di partecipare alla formazione di questi ultimi, sia pure con il limite del «rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza».

Sul versante della potestà regolamentare, l’art. 117, sesto comma, stabilisce una ripartizione tendenzialmente meno articolata. Nelle materie di legislazione esclusiva statale, allo Stato spetta anche, in via di principio, la potestà regolamentare, salva la possibilità di affidarla – con specifiche deleghe – alle Regioni. A queste spetta invece, in via esclusiva, la potestà regolamentare in tutte le altre materie. Agli altri enti territoriali (Comuni, Province e Città metropolitane) viene riconosciuta la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni (amministrative) loro attribuite, ma è difficile pensare che questa stessa potestà normativa non debba necessariamente e implicitamente ritenersi riconosciuta, in via generale, anche alle Regioni e allo stesso Stato centrale, laddove le prime (nelle materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato) o il secondo (nelle altre materie o settori normativi) si vedano affidate funzioni amministrative sulla base di quanto previsto dall’art. 118.

Per completare il quadro, occorre sottolineare che quest’ultima disposizione si limita ad enunciare alcuni principî fondamentali in tema di attribuzione e ripartizione delle funzioni amministrative, con una prima rilevante conseguenza che è quella di sancire la netta distinzione tra la funzione regolamentare – che è funzione squisitamente normativa e perciò disciplinata nell’art. 117 – e la funzione amministrativa in senso proprio. Il primo comma dell’art. 118 stabilisce che «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza».

Con ciò sembrerebbero sanciti, da un lato, il principio dell’attribuzione in via di massima (cioè in assenza di specifiche disposizioni legislative derogatorie) delle funzioni amministrative ai Comuni; dall’altro, la potestà (potere-dovere), per le leggi statali o regionali, di conferire o riservare espressamente funzioni amministrative agli enti territoriali di livello superiore (Province, Città

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metropolitane, Regioni e Stato), con il duplice limite – che è al tempo stesso fine costituzionalmente imposto e che dunque assume il valore di parametro di costituzionalità tanto in senso negativo quanto in senso positivo – della rispondenza ad esigenze di «esercizio unitario» e della conformità ai principî di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.

Quanto specificamente alle funzioni amministrative dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane, il secondo comma dell’art. 118 precisa, sia pure con qualche contraddizione terminologica, che tali enti «sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze». Il nodo centrale sembra rappresentato dal fatto che i “conferimenti” di funzioni amministrative agli enti locali parrebbero poter essere disposti solo con legge statale o regionale, ciascuna però nei limiti della propria competenza. Da ciò si potrebbe dedurre (e in tal senso sembrerebbe purtroppo doversi orientare l’interpretazione più corretta del dato testuale e dello spirito del legislatore di revisione) che la norma sia riferita esclusivamente al riparto delle competenze legislative fissato nell’art. 117, con la conseguenza che, nelle materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato, le Regioni non avrebbero il potere di modificare la distribuzione di competenze amministrative (ovviamente in relazione ai livelli inferiori a quello dell’amministrazione dello Stato) operata dalla legge statale; analogamente, che nelle materie di competenza legislativa esclusiva delle Regioni, lo Stato non avrebbe alcun potere di incidere sul quadro delle attribuzioni amministrative individuato dalle Regioni, fatti salvi, ovviamente, gli spazi di intervento che possano di volta in volta trovare diretto fondamento nell’ampio elenco delle materie di legislazione esclusiva statale.

A chiusura del sistema fin qui rapidamente descritto deve peraltro essere richiamata la disposizione introdotta nel terzo comma del nuovo art. 116 Cost., in base alla quale è prevista la possibilità di attribuire alle Regioni di diritto comune, con legge dello Stato a procedura “rinforzata” (iniziativa della Regione interessata, parere degli enti locali, rispetto dei principî dell’art. 119 Cost., intesa tra lo Stato e la Regione interessata, approvazione delle Camere a maggioranza assoluta dei componenti), «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» in tutte le materie di potestà legislativa concorrente, nonché in tre specifiche materie di potestà legislativa

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esclusiva dello Stato tra le quali è significativamente ricompresa la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Si tratta di una clausola “aperta”, dalle potenzialità concrete ancora tutte da verificare, ma che prefigura certamente l’idea di un regionalismo parzialmente differenziato, che contempli Regioni dotate (a richiesta) di spazi di autonomia legislativa e amministrativa diversi in ragione delle loro capacità di governo e delle specificità delle loro realtà complessive (territorio, popolazione, assetti socio-economici, istituzioni e governi locali, etc.).

4.2. I problemi interpretativi connessi alla riserva allo Stato della legislazione esclusiva in materia di «tutela dell’ambiente-paesaggio, dell’ecosistema e dei beni ambientali»

Se si provano a leggere le disposizioni costituzionali appena

richiamate alla luce dei chiarimenti di ordine terminologico che si sono provati a fornire nel capitolo 2, sembra possibile procedere alla ricostruzione del vigente sistema di ripartizione dei poteri pubblici relativi alla “tutela dell’ambiente” muovendo da alcuni punti fermi.

Il primo è che i «beni ambientali» cui fa riferimento il testo costituzionale non possono che corrispondere, come già rilevato, ai «beni paesaggistici» definiti e disciplinati dal legislatore nazionale nel Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004.

Il secondo è che i «beni paesaggistici» sono oggetti ben distinti dai «beni culturali», anche se – in base a quanto espressamente disposto dal menzionato Codice – rientrano nella complessiva nozione di «patrimonio culturale».

Il terzo punto fermo è che i «beni paesaggistici», l’«ambiente» e l’«ecosistema» sono qualcosa di diverso dal «territorio» in sé e per sé considerato, tanto che la loro tutela viene identificata, nel testo costituzionale, come ambito materiale di normazione distinto dal «governo del territorio»; di talché sono ben possibili (e, per quanto si è detto, ineliminabili) le intersezioni, ma è altrettanto indubbio che le relative discipline non possono mai ritenersi destinate a coincidere interamente.

Il quarto è che la funzione di «tutela» in senso stretto del paesaggio e dei beni paesaggistici, non può che essere ricompresa nell’ambito materiale della «tutela dell’ambiente» di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s); si tratta di una ricostruzione teoricamente

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ineccepibile – per quanto si è cercato di chiarire circa i significati dei concetti di «ambiente» e di «paesaggio» – e pienamente coerente con i principî ricavabili dall’art. 9 Cost.113

Infine, il quinto punto fermo è che la funzione di «tutela» dell’ambiente-paesaggio e dell’ecosistema complessivamente considerati, non avendo ad oggetto beni concretamente individuati o individuabili nella loro specificità e non potendo d’altronde fare riferimento a profili contenutistici o finalistici astrattamente ed oggettivamente predeterminabili, non può che essere intesa in senso ampio, non suscettibile di una distinzione che risulti apprezzabile in termini giuridici tra profili meramente protettivo-conservativi e profili valorizzativi, ma inevitabilmente e inscindibilmente comprensiva di entrambi114.

L’enucleazione dei menzionati profili di certezza mette a nudo il principale problema di fondo che sembra scaturire dall’interpretazione letterale del modello costituzionale di distribuzione delle potestà normative per quanto specificamente concerne le funzioni pubbliche relative all’ambiente, al paesaggio e ai beni paesaggistici; all’indomani dell’entrata in vigore della riforma, infatti, ci si è subito domandati se la tutela (in senso ampio) dell’ambiente-paesaggio e quella (in senso stretto) dei beni paesaggistici dovessero o meno configurarsi realmente come ambiti di disciplina riservati alla legislazione esclusiva dello Stato, con tutte le conseguenze che ne dovrebbero coerentemente derivare.

Quali siano tali conseguenze è facilmente sintetizzabile:

113 Sul punto si rinvia, da ultimo, a M. CECCHETTI, Ambiente, paesaggio e beni culturali, cit., spec. 341 ss. 114 Solo in questa accezione meramente descrittiva dei contenuti e delle finalità dell’azione pubblica sull’ambiente-paesaggio, pare possibile leggere i riferimenti alle «attività di tutela e valorizzazione del paesaggio» che si rinvengono, ad esempio, negli artt. 132 e 133 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. In senso contrario sembra orientata l’opinione di F. FRACCHIA, Sulla configurazione giuridica unitaria dell’ambiente: art. 2 Cost. e doveri di solidarietà ambientale, in Dir. economia, 2002, 242-243, il quale addirittura formula l’ipotesi limite – per la verità assai poco convincente – che la «valorizzazione dell’ambiente», non essendo compresa negli elenchi del secondo e del terzo comma dell’art. 117 Cost., «debba essere considerata materia residualmente spettante alla Regione», di talché, proprio sulla base di tale presupposto «la legislazione regionale sarebbe […] legittimata ad introdurre norme volte a “migliorare” l’ambiente e, dunque, a raggiungere un assetto differente di equilibrio». Sul raggiungimento di tale risultato attraverso vie alternative rispetto alla ricostruzione prospettata dall’A., cfr., infra, parr. 4.3. e 4.4.

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a) la potestà legislativa di allocazione di tutte le funzioni amministrative dovrebbe ritenersi riservata allo Stato (art. 118, secondo comma, Cost.);

b) la potestà normativa secondaria potrebbe risultare affidata alle Regioni solo in base a delega esplicita del legislatore statale (art. 117, sesto comma, Cost.);

c) la potestà legislativa regionale troverebbe spazio solo come frutto di una competenza indiretta, esercitabile attraverso la legislazione sulle materie connesse e, in particolare, sulla più ampia materia del «governo del territorio», sulla materia della «valorizzazione dei beni ambientali», nonché sulla materia della «tutela della salute», nella disciplina delle quali potrebbero e dovrebbero essere considerati e realizzati i valori costituzionali ambientali e paesistici; con il pesante limite “esterno” dell’integrale conformità alla disciplina statale sulla tutela paesaggistica e ambientale e, in particolare, con la possibilità di introdurre misure e livelli di tutela diversi da quelli fissati dallo Stato solo se questi ultimi siano espressamente qualificati come derogabili (tanto in melius, quanto in peius) dallo stesso legislatore statale.

Ora, anche in forza di quanto si è provato ad argomentare nei paragrafi conclusivi del capitolo precedente, è del tutto evidente che simili conseguenze comporterebbero non soltanto un pesante arretramento del modello di “governo dell’ambiente” rispetto al sistema costituzionale progressivamente affermatosi nel vigore del testo originario della Costituzione repubblicana (soprattutto così come concretizzatosi nella giurisprudenza della Corte costituzionale e nella riforma amministrativa avviata con la legge n. 59 del 1997) e rispetto alle esperienze degli altri paesi europei, ma anche un eccessivo irrigidimento degli assetti delle competenze, in palese contrasto con le esigenze di flessibilità ispirate al principio di sussidiarietà e imposte dalla variegata e complessa tipologia degli obiettivi della tutela.

4.3. La delimitazione della potestà normativa statale in materia di «tutela dell’ambiente-paesaggio» e di «tutela dei beni paesaggistici»: il piano teorico-concettuale

Per la soluzione del problema appena enunciato, occorre

un’analisi condotta sia sul piano teorico-concettuale, sia sul piano della prassi ordinamentale sviluppatasi, dopo l’entrata in vigore della

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riforma del 2001, particolarmente nella giurisprudenza costituzionale e nella legislazione attuativa.

Dal primo punto di vista, si deve partire dal dato già posto in evidenza secondo il quale la «tutela dell’ambiente» e la «tutela del paesaggio» non possono essere considerati (o, almeno, non possono essere considerati soltanto) come “ambiti materiali” in senso stretto, in quanto si configurano propriamente e principalmente come “valori costituzionali”, e dunque richiedono una realizzazione trasversale rispetto ad ogni materia in cui intervenga la normazione da parte dei poteri pubblici. Sul punto, si è detto, la giurisprudenza costituzionale e la dottrina, almeno a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, risultano assolutamente consolidati.

La realizzazione trasversale di questi valori per mezzo della disciplina delle singole materie – e anche questo elemento è stato ampiamente sottolineato nelle pagine che precedono – si atteggia in termini del tutto peculiari secondo il c.d. «principio di integrazione», che compare nel Trattato CE attualmente vigente (art. 6) e nell’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, oltre ad essere espressamente contemplato tra gli obblighi della Convenzione europea sul paesaggio.

Come si è concluso nell’ultimo paragrafo del capitolo 2, la ricostruzione che vede la tutela dell’ambiente e del paesaggio come valori costituzionali dei quali è imposta la realizzazione trasversale in tutte le politiche pubbliche non esclude affatto, in linea teorica, che nell’ambito della tutela degli interessi ambientali o paesistici si possano individuare campi materiali di disciplina o di azione pubblica ben definibili, che da sempre costituiscono le aree privilegiate delle politiche ambientali o paesistiche. Le stesse disposizioni dei trattati comunitari, distinguendo in modo netto la politica nel settore dell’ambiente dalla “integrazione” delle esigenze ambientali in tutte le altre politiche, mostrano in termini inequivocabili la perfetta configurabilità di uno specifico campo di intervento delle politiche di tutela degli equilibri ecologici o paesaggistici, che non vale a negare l’esigenza di integrazione trasversale del valore ambiente-paesaggio, ma a cui questa esigenza semplicemente si aggiunge come indispensabile imperativo strategico per il migliore e più efficace perseguimento degli obiettivi di tutela. Nell’ordinamento comunitario la natura “valoriale-trasversale” della tutela dell’ambiente convive dunque in perfetta armonia con la configurazione di specifici campi di

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intervento riservati all’elaborazione e all’implementazione delle “politiche ambientali”.

Da ciò sembra potersi dedurre che, anche nell’ordinamento costituzionale interno, i connotati intrinseci dell’ambiente-paesaggio come “valore costituzionale” non rendono affatto impossibile – almeno in astratto – il riconoscimento delle peculiarità e della specificità di una disciplina giuridica il cui oggetto risulti quello di definire e garantire, in modo diretto e immediato, determinati equilibri ecologici o paesaggistici. Solo in questi termini sembra possibile esprimere la consapevolezza del bisogno ineludibile di un intervento normativo volto direttamente e immediatamente alla tutela degli equilibri ambientali considerati nel loro complesso e, al tempo stesso, ammettere che tale intervento normativo risulta qualitativamente diverso e logicamente prioritario rispetto alla considerazione che di quegli stessi equilibri si debba avere nella regolazione di altri specifici settori materiali: si pensi, ad esempio, alla disciplina degli inquinamenti ambientali o della protezione e gestione delle risorse naturali, così come alla disciplina di quegli istituti o strumenti tipicamente finalizzati alla tutela degli equilibri ecologici, quali la VIA o il danno ambientale, o alla speciale tutela di equilibri paesistici oggettivamente predeterminabili in relazione a determinati beni, come il regime vincolistico che caratterizza i beni paesaggistici115.

Una simile impostazione, sulla base di una tradizione legislativa difficilmente confutabile, considera dunque identificabili alcuni ambiti o settori di normazione in senso proprio, sia con riferimento alla disciplina dell’ambiente come «rapporto uomo-natura non fisicamente percepibile» o anche all’ecosistema come «equilibrio ecologico», sia in relazione quantomeno alla «tutela dei beni paesaggistici», in quel significato sopra illustrato che risulta pienamente compatibile con la natura giuridica di «ambito materiale di disciplina normativa» ontologicamente e qualitativamente distinguibile dalla «tutela del paesaggio» considerata nel suo complesso e in senso squisitamente “valoriale”. Né tale identificabilità

115 A conclusioni non tanto dissimili sembra giungere anche l’originale ricostruzione di F. FRACCHIA, Governo del territorio e ambiente, cit., spec. 66 ss., il quale ritiene che confluisca «nella disciplina della “tutela dell’ambiente” la normazione di quegli specifici rapporti presi in considerazione dall’ordinamento in vista dell’imposizione, in capo ai soggetti (almeno potenzialmente) aggressori, di una situazione di doverosità a diretta ed esclusiva protezione dell’ambiente e dell’ecosistema (comportamenti doverosi di solidarietà ambientale)» (71) (corsivi aggiunti).

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di settori di normazione di tradizione consolidata sembra poter essere contraddetta dalla pur innegabile constatazione che, per alcuni oggetti o istituti, si pone inevitabilmente una oggettiva difficoltà di individuazione dell’ambito materiale di appartenenza, in considerazione dei molteplici interessi (diversi da quelli propriamente ecologici o paesaggistici) che vengono in gioco; si può pensare, ad es., alla disciplina delle attività a rischio di incidente rilevante, a quella delle aree protette, alle certificazioni ambientali, all’etichettatura ecologica, ai tributi ambientali, alle sostanze pericolose, alla produzione di energia da fonti rinnovabili; e, forse, anche a discipline che solitamente vengono fatte rientrare nell’ambito della legislazione ambientale, come la normativa sul controllo dell’inquinamento acustico e dell’inquinamento elettromagnetico.

Se si condividono queste premesse, le conseguenze in termini di riparto delle competenze normative che scaturiscono dal disegno costituzionale dovrebbero risultare assai chiare: negli ambiti materiali riconducibili alla «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» e alla «tutela dei beni paesaggistici» la potestà legislativa dovrebbe spettare in via esclusiva allo Stato, con tutte le ulteriori implicazioni che si sono richiamate nel paragrafo precedente.

Limitandosi a considerare, ad esempio, la “materia” oggettivamente delimitata e denominata «tutela dei beni paesaggistici», la conclusione difficilmente negabile sul piano teorico è che un nucleo minimo di funzioni pubbliche corrispondenti al concetto di «tutela» (con le connesse attività dei privati) e un nucleo minimo di oggetti corrispondenti alla nozione di «beni paesaggistici» non possono che rientrare nella potestà legislativa esclusiva dello Stato. Certo, si può “lavorare” sulla delimitazione del concetto di «tutela» rispetto a quello di «valorizzazione», facendo in modo che all’interno del primo vengano compresi solo alcuni profili (ad es. l’individuazione dei beni, la conservazione della loro integrità fisica, il sistema dei controlli e delle sanzioni) e che tutto il resto venga ritenuto attinente alla seconda, in ordine alla quale è esplicitamente prevista la potestà legislativa concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost.116. Si può, parimenti, “lavorare” sulla delimitazione degli 116 Ad un simile ordine di idee sembra riconducibile la posizione di S. CIVITARESE MATTEUCCI, Il paesaggio nel nuovo Titolo V, Parte II della Costituzione, in Riv. giur. ambiente, 2003, spec. 263 ss., il quale conclude che «la tutela, di competenza esclusiva dello Stato, verrebbe a coincidere (per esclusione), da un lato con l’individuazione dei beni […] e, dall’altro, con le sanzioni che costituiscono

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oggetti, ossia su quali beni debbano o meno rientrare nella nozione di «beni paesaggistici» (ad. es. solo le antiche «bellezze naturali» della legge n. 1497 del 1939, oppure anche le aree di interesse paesaggistico identificate nella c.d. «legge Galasso» n. 431 del 1985, oppure ancora altri beni o aree liberamente individuabili dai piani paesaggistici, come previsto nell’art. 134 del Codice)117. Ma la conclusione sopra accennata non appare suscettibile di essere smentita.

Si osservi, peraltro, che – per quanto si è cercato di porre fin qui in evidenza – non è affatto detto che in un simile contesto alla legge regionale sarebbe impedito di occuparsi di «tutela paesistica», ad esempio proprio attraverso la disciplina della funzione di «governo del territorio». Alla legge regionale sarebbe soltanto impedito di occuparsi di ciò che la legge statale abbia definito come «beni paesaggistici», sotto il profilo di ciò che sia stato individuato, sempre dalla legge statale, come azione di «tutela».

Per questi profili, sul piano delle competenze normative della Regione, resterebbe la possibilità della «delega» di potere regolamentare da parte dello Stato (art. 117, sesto comma, Cost.) e, secondo coloro che la ritengono ancora ammissibile nel nuovo quadro costituzionale, la vecchia potestà legislativa attuativa-facoltativa, se ed in quanto singole leggi dello Stato prevedessero esplicitamente la possibilità per le Regioni di emanare disposizioni di rango legislativo per dare esecuzione ed attuazione alla disciplina dettata dal legislatore statale (ad esempio, per la distribuzione a livello infraregionale delle funzioni amministrative contemplate da quella determinata legge).

4.4. Segue: il piano della prassi ordinamentale

ovviamente la chiusura del cerchio» (268). Analogamente, cfr. G.F. CARTEI, Il paesaggio, cit., 2119 ss.; anch’egli, infatti, configura una nozione ampia della «valorizzazione», tale da comprendere i poteri di autorizzazione e quelli di pianificazione. 117 Si tenga presente che si tratta di due aspetti non definiti in Costituzione ma rimessi allo stesso legislatore statale, salvo – ovviamente – il limite del sindacato di ragionevolezza da parte del giudice costituzionale: sindacato che sarà necessariamente più stringente per il primo profilo, dal momento che la Costituzione contrappone la tutela alla valorizzazione, affidando la disciplina legislativa di quest’ultima alle Regioni e impedendone così un totale svuotamento contenutistico ad opera del legislatore statale.

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Se però, si considera il secondo punto di vista, quello della prassi ordinamentale, le conclusioni appena esposte cambiano radicalmente.

La tendenza che si sta chiaramente affermando, a cinque anni dall’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001, è quella di continuare, nel solco della linea interpretativa affermatasi nel vigore del vecchio modello di riparto delle competenze, a concepire la potestà legislativa in tema di «tutela dell’ambiente», «tutela del paesaggio», e «tutela dei beni paesaggistici» come una potestà sostanzialmente concorrente, o comunque ripartita tra il legislatore statale e il legislatore regionale secondo un criterio ispirato – nella sostanza – al principio di sussidiarietà e ai suoi corollari118.

In questo senso depongono, al momento, seppure con logiche molto diverse tra loro, sia la giurisprudenza costituzionale sia – almeno in parte – alcune soluzioni particolarmente emblematiche rinvenibili nella legislazione nazionale ordinaria.

4.4.1. La giurisprudenza costituzionale sull’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost. in tema di «tutela dell’ambiente-paesaggio»

Sul significato del nuovo art. 117, secondo comma, lett. s),

Cost., la sentenza n. 407 del 2002 rappresenta il punto di partenza di un orientamento della Corte costituzionale che può ritenersi, al momento, abbastanza consolidato e che appare caratterizzato da una spiccata “continuità” sostanziale con l’assetto dei rapporti tra Stato e Regioni nel settore della tutela dell’ambiente precedente alla riforma costituzionale del 2001.

Il giudice costituzionale, di fronte ad una legge della Regione Lombardia che dettava una disciplina sulle industrie a rischio di incidente rilevante, muove dalla constatazione che non tutti gli ambiti materiali previsti nell’art. 117, secondo comma, Cost., possono configurarsi come “materie” in senso stretto, dal momento che, in alcune ipotesi, è evidente che si tratta di competenze del legislatore statale idonee a investire una pluralità di materie. In particolare, secondo la Corte, si deve escludere che possa identificarsi una “materia” in senso tecnico, qualificabile come «tutela dell’ambiente», giacché «non sembra configurabile come sfera di competenza statale

118 Cfr., retro, cap. 3, par. 3.4.2.2.

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rigorosamente circoscritta e delimitata» ma, al contrario, «essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze». L’ambiente – prosegue la Corte, richiamando la propria costante giurisprudenza – si configura come «valore» costituzionalmente protetto e, in quanto tale, deve essere considerato come «una sorta di materia “trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale», senza che ne resti esclusa «la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali»119.

In quest’ultima affermazione, però, è agevole cogliere il dilemma di fondo che resta sotteso alla ricostruzione della Corte. Da un lato, il “ritaglio” di un ruolo ambientale da riconoscere al legislatore statale (quello di «fissare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale»), conservando alle Regioni un titolo di legittimazione “diretta” ad intervenire per la tutela dell’ambiente in relazione a tutte le «ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere unitario definite dallo Stato». Dall’altro lato, il riconoscimento della potestà legislativa regionale in ordine alla cura di una vasta serie di interessi «funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali» e dunque di un titolo di legittimazione soltanto “indiretta” dei legislatori regionali a completare e integrare, attraverso la legislazione sulle “materie” connesse, quella «tutela dell’ambiente» che la Costituzione riserverebbe alla legislazione esclusiva dello Stato.

Tale orientamento si trova successivamente confermato nelle sentenze nn. 536 del 2002, 96, 222 e 307 del 2003, 259 del 2004, 62 e 214 del 2005, con l’avvertenza che, soprattutto nelle sentenze nn. 259 del 2004 e 214 del 2005, le ambiguità in ordine al titolo di legittimazione delle Regioni a legiferare in tema di tutela dell’ambiente sembrerebbero assai attenuate a favore di una tendenziale prevalenza della prima opzione interpretativa: quella in base alla quale, nonostante la formale riserva della materia «tutela dell’ambiente» alla legislazione esclusiva dello Stato, al legislatore statale spetterebbe soltanto il potere di assicurare una tutela uniforme sull’intero territorio nazionale, particolarmente attraverso la determinazione di standard “minimi” che i legislatori regionali

119 Cfr. il punto 3.2 del Considerato in diritto.

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sarebbero vincolati a rispettare come limite non più soltanto “esterno” rispetto alle loro sfere di competenza legislativa, bensì “interno” ad una competenza propriamente “ambientale” ricostruita direttamente sulla qualifica della tutela dell’ambiente come «valore costituzionale».

In questa ottica, diviene assai difficile sostenere che la riforma costituzionale del Titolo V abbia introdotto novità di rilievo – almeno sotto il profilo del concreto funzionamento dell’assetto delle competenze normative – rispetto al modello di “governo” dell’ambiente faticosamente affermatosi in precedenza. Di fatto, secondo la ricostruzione della Corte costituzionale, la modifica dell’art. 117 Cost. non impedirebbe di configurare un sistema di riparto delle competenze ambientali sostanzialmente assimilabile al vecchio modello di “governo” dell’ambiente; un modello, come si è messo in evidenza nel capitolo precedente (par. 3.4.2.2.), fondato essenzialmente sulla concorrenza della legislazione statale e regionale e su un’individuazione dei ruoli spettanti ai diversi livelli territoriali basata su quelle logiche di tipo sussidiario che distinguono le “esigenze unitarie” (che impongono e giustificano l’intervento del livello superiore, soprattutto a fini di uniformità e omogeneità strategica dell’azione di tutela, oltre che per la definizione di livelli minimi di intensità delle misure di protezione) e le “esigenze di differenziazione” (che impongono e giustificano l’intervento del livello inferiore, a fini di adattamento dell’azione di tutela ai diversi contesti territoriali, anche attraverso l’introduzione di misure più intense e rigorose di quelle previste al livello superiore)120.

In base a questo modello seguito in prevalenza dal giudice delle leggi, la Regione dispone costituzionalmente di una potestà legislativa ripartita con quella del legislatore statale, secondo un meccanismo, però, che non è quello che risulta oggi testualmente

120 Sembra condividere questa lettura dell’impostazione seguita dalla Corte, a partire dalla sent. n. 407 del 2002, G. PASTORI, Governo del territorio e nuovo assetto delle competenze statali e regionali, in B. POZZO-M. RENNA (a cura di), L’ambiente nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., 40, il quale osserva: «Ritorna in tal modo l’idea di fondo che nel rapporto fra Stato e Regioni anche in sede di competenza esclusiva ci si misura non in termini di spartizioni di parti o settori di materia (nell’accezione tradizionale), ma di trasversalità di funzioni, di ruoli funzionali diversi, che si contemperano e si devono contemperare sul piano legislativo secondo il diverso ruolo dello Stato e della Regione: l’uno fissando standard e requisiti comuni di qualità del territorio (…) e l’altra provvedendo al coordinamento degli usi del territorio nel rispetto di tali standard e requisiti comuni, e potendo inoltre la Regione incrementare ed elevare i livelli di protezione ambientale».

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esplicitato per la potestà concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost. (con la riserva allo Stato della determinazione dei principî fondamentali in materie spettanti, in via primaria, alla legislazione regionale), ma che invece costruisce direttamente e ripartisce la concorrenza di competenze sul criterio della sussidiarietà121.

Si osservi, infine, che la nettezza di tale ricostruzione della Corte consente di ritenerla applicabile a tutti gli ambiti materiali (propriamente intesi) che si considerino riconducibili all’espressione «tutela dell’ambiente» di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s) cui prima si è fatto cenno; e si osservi altresì che in buona misura diverso si presenta invece il modello seguito dal giudice delle leggi per interpretare il riparto di competenze legislative nella materia della «tutela dei beni culturali» (pure formalmente contemplata nella medesima disposizione costituzionale), dove si assiste alla tendenziale conferma di un chiaro (e anch’esso tradizionale) orientamento a favore di una più “piena” competenza del legislatore statale e di una corrispondente più rigorosa delimitazione degli spazi riconosciuti di spettanza del legislatore regionale122.

4.4.2. Caratteri e implicazioni del modello di riparto delle competenze normative sulla tutela paesistico-ambientale ricostruito dalla giurisprudenza costituzionale

In base a quanto si è cercato di illustrare, la conclusione cui

sembra fin qui pervenuta la Corte costituzionale nell’interpretazione dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost. è quella secondo la quale nella materia della «tutela dell’ambiente-paesaggio e dell’ecosistema» – e dunque, per quanto qui sostenuto, anche nella “materia” in senso proprio della «tutela dei beni paesaggistici» – non vi è una competenza legislativa esclusiva dello Stato propriamente intesa ma una competenza legislativa ripartita tra Stato e Regioni secondo il modello indicato.

121 Sulle differenze nel modo di operare della “sussidiarietà” a seconda che si tratti di intervento statale in una materia “trasversale” di competenza “esclusiva” o di intervento statale nelle materie di legislazione concorrente per la disciplina dei principî fondamentali, si vedano, infra, i parr. 4.4.2. e 4.5. 122 In proposito, si vedano soprattutto Corte cost. nn. 94 del 2003, 9 e 26 del 2004, 232 del 2005, sulle quali si rinvia a M. CECCHETTI, Ambiente, paesaggio e beni culturali, cit., 384 ss.

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Va osservato, al riguardo, che la Corte non ha provveduto affatto ad una sorta di “dequalificazione” della competenza legislativa esclusiva statale stabilita nel testo costituzionale in competenza concorrente, quanto piuttosto ad una sua “delimitazione”. Il campo della legislazione esclusiva statale sulla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema è stato di fatto “ritagliato” e “ridotto” solo a quegli aspetti (standard) che rispondano ad esigenze unitarie, in primis alle ragioni di garanzia dell’uniformità dell’azione di tutela su tutto il territorio nazionale. Su tutti i rimanenti profili viene riconosciuta la competenza legislativa regionale, che si atteggia dunque come competenza “sostanzialmente residuale”, destinata ad integrare la disciplina statale per tutti i profili suscettibili di una regolazione diversa in base alle esigenze e alle peculiarità delle singole Regioni.

La menzionata “delimitazione” della potestà legislativa esclusiva dello Stato vale senza dubbio a limitare il campo di intervento del legislatore statale, garantendo soprattutto un titolo di legittimazione diretto per l’intervento legislativo delle Regioni, ma vale altresì – ed è ciò che qui si vuole sottolineare – a mantenere alla potestà statale il regime giuridico previsto per gli ambiti riservati alla legislazione esclusiva di cui al secondo comma dell’art. 117 Cost., in particolare per le materie c.d. «trasversali», che costituiscono altrettanti titoli privilegiati in grado di “veicolare” quelle «esigenze unitarie» connesse all’unità e indivisibilità della Repubblica di cui all’art. 5 Cost. sulle quali è costruito il principio di sussidiarietà come «precetto di ottimizzazione»123.

È pur vero che – come si vedrà più specificamente124 – è proprio la sussidiarietà il principio sul quale è destinato a modellarsi, in definitiva, anche il riparto della potestà legislativa concorrente nelle materie elencate nel terzo comma dell’art. 117, attraverso un’interpretazione “flessibile” della portata e del grado di pervasività dei «principî fondamentali» – da intendersi come quella base di disciplina normativa che sia ritenuta rispondente alle «esigenze unitarie» – secondo il test di necessarietà, idoneità-pertinenza logica e proporzionalità cui esplicitamente fa riferimento la Corte

123 In argomento, per tutti, cfr. O. CHESSA, La sussidiarietà (verticale) come “precetto di ottimizzazione” e come criterio ordinatore, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2002, 1442 ss. Sulle materie “trasversali” come “veicolo” delle esigenze unitarie, cfr., inoltre, ID., Sussidiarietà ed esigenze unitarie: modelli giurisprudenziali e modelli teorici a confronto, in Regioni, 2004, 941 ss. 124 Cfr., infra, par. 4.5.

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costituzionale, ad esempio, nella sentenza n. 6 del 2004. Ma è altrettanto innegabile che negli ambiti di legislazione esclusiva lo Stato dispone di un titolo che lo abilita a legiferare a tutela delle esigenze unitarie senza la necessità che l’intervento normativo (e, in particolare, l’individuazione delle suddette esigenze unitarie da soddisfare) debba rispondere ad una giustificabilità sotto il profilo della effettiva sussistenza in concreto di tali esigenze.

In altri termini, sembra possibile ritenere che i titoli di legislazione esclusiva (come, nel caso in esame, la potestà in materia di «tutela dell’ambiente-paesaggio e dell’ecosistema») siano in grado di funzionare come altrettante “presunzioni” di sussistenza di esigenze unitarie, di talché il legislatore statale competente può liberamente definire e apprezzare tali esigenze, rimanendo assoggettabile al solo scrutinio generale di ragionevolezza, sotto i consueti profili della adeguatezza, della necessarietà e della proporzionalità, valutati in specifica relazione con le istanze di autonomia e di pluralismo istituzionale di cui sono portatrici le Regioni.

Conseguentemente, l’intervento legislativo statale nelle materie “trasversali” non potrà che essere sottoposto a scrutinio di legittimità costituzionale alla luce del suo configurarsi come effettivamente adeguato e proporzionato rispetto al perseguimento del fine che si prefigge, nonché necessario nel senso di risultare come il meno invasivo possibile delle sfere di competenza regionale, rivelandosi invece del tutto irrilevante, in tale contesto, la verifica della concreta sussistenza di esigenze di disciplina unitaria.

Al contrario, per la determinazione dei principî fondamentali nelle materie di legislazione concorrente ex art. 117, terzo comma, Cost., la potestà legislativa dello Stato, intervenendo in campi affidati in via generale alla legislazione regionale, deve ritenersi rigorosamente vincolata al presupposto della effettiva sussistenza di esigenze di disciplina unitaria, rendendone così necessario un riscontro in concreto che, attraverso il test sopra richiamato, consenta di tracciare, di volta in volta, la linea di confine tra intervento legittimo e intervento illegittimo.

Le implicazioni di un simile assetto – al contempo “vecchio”, perché ripropone in termini in buona parte analoghi il modello vigente in relazione alla tutela dell’ambiente prima della riforma costituzionale, “nuovo”, perché frutto di una elaborazione giurisprudenziale che interpreta in modo radicalmente innovativo

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l’impianto che sembrerebbe potersi dedurre dalla lettera delle disposizioni costituzionali – sono assai notevoli:

a) tanto lo Stato quanto le Regioni, in applicazione del modello di cui all’art. 117, quinto comma, Cost., hanno titolo per dare attuazione diretta al diritto comunitario prodotto nel settore della tutela dell’ambiente, realizzando un sistema di normazione attuativa nel quale la legislazione statale e quella regionale si integrano a vicenda e debbono essere considerate complessivamente ai fini della valutazione del corretto e completo adempimento degli obblighi imposti a livello sovranazionale;

b) trova soluzione soddisfacente il problema della potestà legislativa regionale in ordine alla allocazione (e alla disciplina) delle funzioni amministrative; la Regione infatti, per gli aspetti di propria competenza, ha un titolo diretto di potestà legislativa per distribuire (e disciplinare) le funzioni amministrative tra il livello regionale e i livelli locali, ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost.125, salvo ovviamente per quelle funzioni che la legge dello Stato riservi al livello dell’amministrazione statale in ragione delle esigenze di esercizio unitario;

c) quanto al potere regolamentare, seguendo la logica della “delimitazione” della potestà legislativa statale e non quella della sua “dequalificazione”, si può ritenere perdurante la competenza statale sulla normazione secondaria per i soli aspetti ritenuti compresi nella lett. s) del secondo comma dell’art. 117 Cost., aprendo le porte alla conseguente competenza regionale per tutti i rimanenti aspetti; ciò che però sembra più interessante da rilevare è che questa ricostruzione, di fatto, finisce per “azzerare” del tutto lo spazio per le deleghe di potere regolamentare alle Regioni (nella loro totalità) contemplate dall’art. 117, sesto comma, Cost.: se la competenza esclusiva statale è limitata agli standards uniformi e alle esigenze unitarie, non si riesce davvero a comprendere su che base potrebbe trovare ragionevole giustificazione l’esigenza di conferire su tali profili un potere regolamentare alle Regioni. La Regione, d’altra parte, disponendo di una competenza legislativa “sostanzialmente residuale” per i profili di disciplina “differenziabili” perché non unitari, non potrebbe che ritenersi già dotata di una competenza regolamentare propria in base allo stesso art. 117, sesto comma, Cost.;

125 In questo senso, esplicitamente, si vedano le due sentenze della Corte costituzionale nn. 259 del 2004 e 214 del 2005.

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d) il quarto ordine di conseguenze investe le potenzialità del meccanismo di “differenziazione regionale” previsto dall’art. 116, terzo comma, Cost. proprio – fra le altre – nella materia di cui alla lett. s) del secondo comma dell’art. 117; il modello qui analizzato riduce decisamente gli spazi di possibile operatività della prospettiva del regionalismo differenziato; pressoché nulli sarebbero, infatti, i margini per un ampliamento della potestà legislativa della Regione (dal momento che, se lo Stato disciplina già solo ciò che non è differenziabile, non si vede quali rivendicazioni di competenza ulteriore potrebbe avanzare una singola Regione che volesse ottenere l’autonomia differenziata). Forse un possibile spazio in tal senso potrebbe concepirsi per i poteri normativi di rango regolamentare, potendo immaginarsi che una singola Regione particolarmente “efficiente” voglia rivendicare una delega in via generale per l’esecuzione e/o l’attuazione delle leggi statali nel territorio regionale. In caso contrario, resterebbero margini soltanto per eventuali richieste di ampliamento delle competenze amministrative e dell’autonomia finanziaria.

4.4.3. L’approccio del legislatore ordinario: il significativo esempio delle competenze normative in tema di tutela paesaggistica nel Codice dei beni culturali e del paesaggio

La tendenza a privilegiare un modello di “concorrenza” tra

competenze legislative statali e regionali in tema di «tutela dell’ambiente-paesaggio» (espressione certamente comprensiva, per quanto si è detto, anche della «tutela dei beni paesaggistici»), pur in presenza dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., si manifesta anche da parte dello stesso legislatore statale nel Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, anche se in una logica non pienamente assimilabile a quella seguita dal giudice delle leggi126. 126 Cfr., al riguardo, l’osservazione di uno dei partecipanti ai lavori di elaborazione del Codice (P. UNGARI, Il codice del paesaggio tra innovazione e continuità. Riflessi sul regime dei suoli, in Giust. amm., 2004, www.giustamm.it), il quale “confessa” (2) che «la questione della spettanza della potestà legislativa è stata accantonata e si è perseguita l’elaborazione di una normativa dai contenuti condivisi, che, pur lasciando spazi alla disciplina regionale, non può certo dirsi soltanto di principî». Concorde l’opinione di D.M. TRAINA, Le competenze degli enti territoriali, cit., 5-6, che osserva come il paesaggio nel Codice sia «trattato – sostanzialmente – come materia concorrente».

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La norma chiave sembra individuabile nell’art. 135, dove viene riproposto – anche se con contenuti decisamente più pervasivi, in grado di costituire l’intero architrave del sistema di tutela paesaggistica, soprattutto a seguito della integrale riformulazione della disposizione operata con il d.lgs. n. 157 del 2006 – il tradizionale “doppio modello” di pianificazione, fondato sull’alternativa tra lo strumento del «piano paesaggistico» in senso stretto (pianificazione “dedicata”) e lo strumento del «piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici», il quale realizza l’integrazione degli interessi paesaggistici nell’ambito della pianificazione territoriale ordinaria (pianificazione territoriale “orientata”).

Le Regioni, secondo il legislatore del Codice, continuano ad essere libere (come nel passato) di scegliere il modello; ma è del tutto evidente che la scelta a favore del primo tipo di strumenti implica necessariamente che i poteri di pianificazione affidati al livello regionale debbano ritenersi ricadere nella materia «tutela dell’ambiente-paesaggio e tutela dei beni paesaggistici», mentre la scelta del secondo tipo di strumento realizza l’opzione per un meccanismo “indiretto” di tutela paesistica, attraverso – innanzitutto – l’uso delle competenze spettanti alle Regioni in materia di «governo del territorio»127.

La disciplina dettata dal legislatore statale in tema di pianificazione paesaggistica si rivela, peraltro, a maglie relativamente ampie.

L’art. 135, comma 2, dispone che «i piani paesaggistici, in base alle caratteristiche naturali e storiche, individuano ambiti definiti in relazione alla tipologia, rilevanza e integrità dei valori paesaggistici».

Il successivo comma 3 individua i contenuti generali dei suddetti piani, stabilendo che «al fine di tutelare e migliorare la qualità del paesaggio, i piani paesaggistici definiscono per ciascun ambito specifiche prescrizioni e previsioni ordinate:

a) al mantenimento delle caratteristiche, degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni sottoposti a tutela, tenuto conto

127 A tale proposito, e proprio – da ultimo – valorizzando il disposto dell’art. 135 del Codice (sia pure nella versione precedente alla riforma del 2006), si mostra assai chiaro anche il punto di vista del giudice delle leggi (cfr., al riguardo, Corte cost. n. 51 del 2006).

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anche delle tipologie architettoniche, nonché delle tecniche e dei materiali costruttivi;

b) all’individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibili con i diversi livelli di valore riconosciuti e con il principio del minor consumo del territorio, e comunque tali da non diminuire il pregio paesaggistico di ciascun ambito, con particolare attenzione alla salvaguardia dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO e delle aree agricole;

c) al recupero e alla riqualificazione degli immobili e delle aree compromessi o degradati, al fine di reintegrare i valori preesistenti, nonché alla realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati;

d) all’individuazione di altri interventi di valorizzazione del paesaggio, anche in relazione ai principi dello sviluppo sostenibile».

Infine, l’art. 143 determina, anzitutto, le diverse fasi nelle quali deve articolarsi il procedimento di elaborazione e approvazione del piano paesaggistico, in tal modo finendo anche per fornire una maggiore specificazione dei contenuti generali sopra descritti; la medesima disposizione stabilisce poi le diverse modalità (ed i connessi diversi effetti giuridici) con le quali il piano può essere elaborato e approvato dalla sola Regione interessata oppure attraverso l’accordo con il Ministero dei beni e delle attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio.

A fronte di simili previsioni della legge statale, risulta assai difficile pensare che si tratti di una normativa autosufficiente e che le Regioni non debbano approvare una propria disciplina di rango legislativo volta a regolare il procedimento di pianificazione, anzitutto provvedendo a compiere quelle opzioni che il legislatore statale ha loro affidato. La conseguenza è evidentemente una sola: che lo Stato, in particolare con l’art. 135 del Codice, nell’esercizio della sua potestà legislativa in materia di «tutela dell’ambiente-paesaggio e tutela dei beni paesaggistici», consente alle Regioni, da un lato, di utilizzare un modello di tutela paesaggistica “diretta”, che implica necessariamente il riconoscimento pieno di una competenza legislativa regionale – di tipo sostanzialmente “residuale” – nella medesima materia; dall’altro, in alternativa, di utilizzare un modello di tutela paesaggistica “indiretta”, che passa dalla competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia di «governo del territorio», nella quale deve risultare integrata la considerazione degli interessi paesistici. Ed è quasi superfluo osservare che il regime di questa seconda potestà

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legislativa regionale, se ed in quanto le Regioni operino una scelta in tale direzione, non potrà certo essere altro che quello proprio della legislazione concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost., sia pure in base al fondamento giuridico formale contenuto nella legge statale128.

Va osservato, peraltro, che il regime della potestà legislativa statale esercitata con l’emanazione del Codice, per la parte qui presa in considerazione, continua ad essere quello della lett. s) del secondo comma dell’art. 117 (sebbene in quella portata “ridotta” e limitata alla garanzia delle esigenze di uniformità, che risulta dalla ricostruzione fin qui accolta dalla Corte), anche se tale normazione andrà necessariamente ad integrarsi con quella – pure spettante allo Stato – in ordine ai principî fondamentali relativamente ai profili di «governo del territorio» in senso proprio.

Si assiste, in altri termini, ad un evidente fenomeno di “incastro” tra potestà legislative di tipo diverso, nel quale i limiti che incontra la legislazione regionale – almeno nel caso di opzione per il modello della pianificazione territoriale “orientata” – sono rappresentati, al contempo, dalla disciplina statale degli standard uniformi per la «tutela dell’ambiente-paesaggio e tutela dei beni paesaggistici» e dalla disciplina statale dei principî fondamentali nella materia del «governo del territorio».

Di tale fenomeno di “incastro” sembra rendersi consapevole lo stesso legislatore del Codice, il quale, all’interno del Capo V dedicato alle «disposizioni di prima applicazione e transitorie», all’art. 158129, stabilisce che «fino all’emanazione di apposite disposizioni regionali di attuazione del presente codice restano in vigore, in quanto applicabili, le disposizioni del regolamento approvato con regio decreto 3 giugno 1940, n. 1357 [(Regolamento per l’applicazione della l. 29 giugno 1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze natura)]». Come si può osservare, il legislatore nazionale si limite a confermare, in nome del principio di continuità dell’ordinamento, la perdurante applicabilità (in quanto compatibile con la nuova disciplina) delle antiche disposizioni regolamentari di esecuzione e di attuazione della legge n. 1497 del 1939, opportunamente utilizzando un’espressione del tutto generica per riconoscere in capo alle Regioni la potestà normativa di deroga al richiamato regolamento statale. 128 Sui principali aspetti problematici del regime giuridico della potestà legislativa concorrente, si veda, infra, par. 4.5. 129 Intitolato “Disposizioni regionali di attuazione”.

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Sembra evidente che l’espressione «disposizioni regionali di attuazione» possa essere riferita potenzialmente a fenomeni e poteri normativi affatto distinti e, purtuttavia, probabilmente destinati a “convivere”; si può, infatti, almeno in astratto, ipotizzare che la disposizione statale faccia riferimento contemporaneamente:

a) al riconoscimento di una potestà regolamentare delle Regioni nella materia di competenza legislativa esclusiva statale «tutela dell’ambiente-paesaggio e tutela dei beni paesaggistici», con l’avvertenza che – per quanto sopra evidenziato in relazione alle implicazioni che dovrebbero discendere dalla “delimitazione” della potestà esclusiva dello Stato operata dalla giurisprudenza costituzionale130 – non di «delega» ai sensi dell’art. 117, sesto comma, Cost. si tratterebbe, quanto invece di un “ordinario” potere regolamentare connesso alla competenza legislativa regionale in materia131;

b) proprio al riconoscimento della potestà legislativa delle Regioni nella materia della «tutela dell’ambiente-paesaggio e tutela dei beni paesaggistici», secondo quella accezione “residuale” rispetto alla disciplina degli standard uniformi spettante al legislatore nazionale su cui si è attestato il giudice delle leggi e che, come già osservato, consente di risolvere in radice il problema del titolo di legittimazione regionale per la disciplina delle funzioni amministrative che non risultino allocate presso organi dello Stato132;

130 Cfr., retro, par. 4.4.2., spec. lett. c). 131 In senso contrario, si veda l’opinione di P. UNGARI, Art. 158, cit., 223, il quale, con un’interpretazione assai rigorosa e formale del riparto costituzionale delle competenze, ritiene che la norma in esame costituisca «tacita applicazione (nella misura in cui le disposizioni della parte III [del Codice] non siano riconducibili alla “valorizzazione”, quindi all’ambito di potestà regolamentare propria delle regioni) della delega della potestà regolamentare dello Stato alle regioni, pure prevista dall’art. 117, comma 6°». 132 Diversamente, proprio nel commento della disposizione del Codice qui presa in esame, oltre a P. UNGARI, op. ult. cit., 222-223, cfr. l’opinione di F. DI MAURO, Art. 158, in M. CAMMELLI (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 609-610, la quale ipotizza «un’applicazione in senso discendente (con transizione di competenze normative dallo Stato verso le regioni) del principio sancito dalla Corte costituzionale nella sentenza 1° ottobre 2003, n. 303 [su cui v., infra, par. 4.5. e nt. 134] in senso ascendente»; in altri termini, poiché sarebbe l’attribuzione di funzioni amministrative a determinare la necessità di intestare allo stesso ente la connessa funzione normativa, secondo l’A. il legislatore nazionale avrebbe «voluto riconoscere alle regioni il potere di regolare direttamente – almeno nel dettaglio – le competenze amministrative ad esse largamente attribuite dal Codice».

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c) all’esercizio di competenze legislative e regolamentari nelle materie di legislazione concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost., che risultino connesse e intersecate con la materia della «tutela dell’ambiente-paesaggio e tutela dei beni paesaggistici» (in particolare, in questo caso, le materie del «governo del territorio» e della «valorizzazione dei beni culturali e ambientali»).

4.5. La potestà normativa nelle materie di legislazione concorrente del «governo del territorio» e della «valorizzazione dei beni culturali e ambientali»

Al quadro fin qui illustrato occorre aggiungere, per completezza,

la considerazione del riparto delle competenze normative nelle materie del «governo del territorio» e della «valorizzazione dei beni culturali e ambientali» appena richiamate.

Senza potersi qui soffermare sul dibattuto problema concernente l’individuazione certa dell’ambito oggettivo pertinente alle attività o funzioni di «valorizzazione» rispetto alle attività o funzioni di «tutela» e alla loro reciproca “confinazione”, che – almeno sul piano del dato normativo positivo – è problema ancora in buona misura aperto133, merita di essere posto in evidenza il fatto che, in relazione ai profili di disciplina normativa ascrivibili al concetto di «valorizzazione» dei beni culturali e dei beni paesaggistici e, analogamente, per tutto ciò che si ritenga rientrare nella “funzione” di «governo del territorio», ci si trova senza alcun dubbio nell’ambito di materie esplicitamente contemplate dalla Costituzione tra quelle di legislazione concorrente, per le quali, stando alla lettera dell’art. 117, lo Stato dovrebbe poter soltanto dettare con legge i principî fondamentali, senza disporre di alcuna potestà normativa secondaria.

In questa sede è possibile solo accennare a due questioni che meriterebbero ben altro sviluppo di analisi e argomentazioni.

a) La prima questione pone in discussione la correttezza dell’affermazione secondo la quale, nelle materie elencate nel terzo comma dell’art. 117 Cost., la potestà normativa dello Stato dovrebbe ritenersi limitata alla disciplina legislativa dei principî fondamentali. 133 Si vedano, al riguardo, le definizioni di «tutela» e di «valorizzazione» oggi contenute, rispettivamente, negli artt. 3 e 6 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, sulle quali cfr. M. CECCHETTI, Ambiente, paesaggio e beni culturali, cit., 341 ss.

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Al riguardo la giurisprudenza della Corte costituzionale ha già ripetutamente affermato che anche nelle materie di legislazione concorrente lo Stato può esercitare una potestà legislativa non limitata ai soli principî fondamentali, allorché questa sia necessaria a regolare una funzione amministrativa assunta in sussidiarietà al livello statale sulla base dell’art. 118 Cost., sia pure con garanzie di “leale collaborazione” con le autonomie regionali e test di giustiziabilità ex post di un simile fenomeno134. In queste pronunce la Corte si esprime in termini molto netti: in presenza di quei presupposti è possibile far “ascendere” al livello statale funzioni amministrative che non possano essere adeguatamente svolte ai livelli inferiori ma anche, in deroga al sistema di riparto fissato nell’art. 117 Cost., la relativa potestà normativa per l’organizzazione e la disciplina di tali funzioni.

Si tratta di una potestà normativa che potrebbe definirsi “sussidiaria”135, in quanto fondata non sui titoli di legittimazione materiali dell’art. 117, bensì sull’art. 118, primo comma, Cost., allorché si configuri l’ipotesi che – sulla base dei principî in esso enunciati – una funzione amministrativa debba essere «chiamata in sussidiarietà» dal livello statale. Quanto al tipo di potestà normativa da ritenere riconducibile a tale titolo “straordinario” di legittimazione, la Corte ha originariamente affermato, senza mai smentirsi in termini espliciti, che il fenomeno può riguardare soltanto la potestà legislativa e mai quella regolamentare, dal momento che ai principî dell’art. 118 e, in particolare, al principio di sussidiarietà non potrebbe essere «riconosciuta l’attitudine a vanificare la collocazione sistematica delle fonti conferendo primarietà ad atti che possiedono lo statuto giuridico di fonti secondarie e a degradare le fonti regionali a fonti subordinate ai regolamenti statali o comunque a questi condizionate»136. Su questa base argomentativa, la normazione secondaria dovrebbe ritenersi disciplinata inderogabilmente dall’art. 117, sesto comma, Cost., così da spettare allo Stato sempre e solo nelle materie di legislazione esclusiva.

Mentre la prima parte della ricostruzione risulta ineccepibile tanto sotto il profilo logico-sistematico dell’interpretazione

134 Cfr., in particolare, le sentenze nn. 303 del 2003, 6 del 2004 e 31 del 2005, ma anche, più di recente e ancor più chiaramente, le sentenze nn. 242, 270, 285 e 383 del 2005. 135 Così, ad es., P. BARILE, E. CHELI, S. GRASSI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 2005, 339. 136 Così la sentenza n. 303 del 2003, punto 7 del Considerato in diritto.

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costituzionale, quanto sotto il profilo squisitamente funzionale, la seconda parte non sembra altrettanto convincente a tal punto da finire di fatto per essere implicitamente ma ripetutamente smentita dallo stesso giudice delle leggi. Ad esempio, nella sentenza n. 7 del 2004, depositata lo stesso giorno della richiamata n. 6, la Corte fa salva la disposizione di una legge regionale del Piemonte – che affidava, nella materia concorrente dell’energia, un potere alla Regione di dettare norme tecniche per la progettazione degli impianti di produzione, distribuzione ed utilizzo dell’energia elettrica – affermando, in via interpretativa, che tale normazione tecnica è naturalmente assoggettata ad un limite di compatibilità rispetto alle norme tecniche affidate al Gestore nazionale della rete elettrica (GRTN) e poste in funzione della soddisfazione delle esigenze unitarie. La stessa legge regionale deve dunque, a sua volta, essere compatibile, con la potestà di normazione tecnica del GRTN.

Se questo è vero, però, c’è solo un’alternativa: o la normazione tecnica del GRTN costituisce espressione di autentica potestà normativa, e allora si avrebbe un potere sostanzialmente regolamentare dello Stato che si impone come limite alla legge regionale in materia di legislazione concorrente; oppure la normazione tecnica del GRTN costituisce espressione di potestà amministrativa, ma allora ci si troverebbe di fronte ad un atto amministrativo statale che vincola la legislazione regionale, con l’evidente paradosso per cui ciò che sarebbe consentito ad un atto del GRTN non potrebbe mai essere consentito ad un regolamento del Governo. Di qui l’evidente – seppur implicita – smentita della tesi che sostiene la rigidità se non di tutto l’art. 117 Cost. almeno del suo sesto comma (in relazione alla distribuzione della potestà normativa secondaria) e la conclusione, avanzata in dottrina e probabilmente inevitabile, secondo la quale «l’ascesa al livello statale di una funzione normativa in forza della sussidiarietà ed in deroga ai criteri di riparto dell’art. 117 non è limitabile agli atti di natura legislativa»137.

137 Così si esprime S. PINTUS, La sentenza n. 7 del 2004 della Corte costituzionale. Sussidiarietà, norme tecniche e riparto di competenze normative tra Stato e Regioni, in www.federalismi.it, 9 settembre 2004, 9. Concorde l’autorevole opinione di A. RUGGERI, Il parallelismo “redivivo” e la sussidiarietà legislativa (ma non regolamentare…) in una storica (e, però, solo in parte soddisfacente) pronunzia, in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti – Studi dell’anno 2003, II, Torino, Giappichelli, 2004, 297 ss.

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Tale conclusione sembra ancor più avvalorata dalla più recente sentenza n. 285 del 2005138, la quale respinge una serie di censure di violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost. da parte di previsioni legislative statali attributive di poteri ministeriali, ritenendo «determinante la loro riconduzione nell’ambito della “chiamata in sussidiarietà” da parte dello Stato». La Corte, pur non argomentando esplicitamente in relazione alle perentorie affermazioni della sentenza n. 303 del 2003, sembra avere di fatto superato quell’orientamento, prendendo atto che l’art. 117, sesto comma, non può che essere riferito al sistema di riparto per materie di cui allo stesso art. 117, mentre, allorché l’intervento normativo statale trovi il proprio titolo di legittimazione nel diverso criterio funzionalistico desunto in via interpretativa dall’art. 118 Cost., non sembra rinvenibile, nel sistema costituzionale, alcuna limitazione concernente il tipo di fonte che può essere utilizzato in tale intervento. Ragionando diversamente, del resto, si giungerebbe a conclusioni evidentemente irragionevoli, costringendo lo Stato a disciplinare con legge in tutte le loro fasi i procedimenti amministrativi in questione, quand’anche esigenze di maggiore funzionalità – alle quali non è estraneo lo stesso art. 118 – consigliassero di devolvere a fonti secondarie la disciplina di alcuni specifici aspetti.

Si consideri, inoltre, che proprio in ragione del fatto che la legittimazione dello Stato ad esercitare la potestà normativa per regolare le funzioni amministrative avocate in sussidiarietà non affonda le sue radici in un riparto per materie, nei medesimi ambiti nei quali venga compiuta tale «chiamata in sussidiarietà» la Regione non perde la legittimazione a porre norme di rango regolamentare, naturalmente negli spazi ad essa lasciati liberi dalle disposizioni statali che siano state dettate compatibilmente con il sistema costituzionale.

b) La seconda questione che occorre porre in evidenza è quella relativa alla corretta interpretazione del significato dell’espressione «principî fondamentali», alla disciplina dei quali – salve le ipotesi di deroga appena evidenziate – sarebbe limitata la competenza del legislatore statale nelle materie di legislazione concorrente contemplate nel terzo comma dell’art. 117 Cost.

Si può essere davvero convinti che non solo la Corte ma anche la dottrina e gli stessi legislatori utilizzino una accezione comune dei

138 Ma si veda, seppure in termini del tutto privi di motivazione, anche Corte cost. n. 151 del 2005.

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«principî fondamentali», o – ancor più – che una nozione univoca di essi sia ricostruibile in linea teorica? L’affermazione secondo la quale nelle materie di legislazione concorrente (nel caso di specie, la «valorizzazione dei beni ambientali» e il «governo del territorio») vi è una riserva di legge statale per la disciplina dei «principî fondamentali» e che questi ultimi costituiscono il limite “ordinario” di legittimazione per gli interventi normativi dello Stato in tali materie che cosa significa?

La questione pone in evidenza la necessità di chiarire se i «principî fondamentali» siano norme caratterizzate da una particolare struttura nomologica (le c.d. «norme di principio») che permette di distinguerle – come spesso si è fatto nel vigore del vecchio art. 117 Cost. e si continua a fare dopo la riforma costituzionale – dalle c.d. «norme di dettaglio». Oppure se, indipendentemente dalla struttura nomologica, si tratti di norme connotate “funzionalmente” dalla loro finalità ad essere rivolte ai legislatori regionali per fungere da guida, orientamento e limite rispetto ad un necessario “sviluppo normativo” di competenza di questi ultimi, con la conseguenza che esse non potrebbero mai assumere efficacia autoapplicativa. Oppure, ancora, se si tratti di norme la cui legittima pervasività, in relazione agli oggetti di volta in volta disciplinati, non è valutabile con criteri rigidi e univoci, bensì con quella flessibilità e adeguatezza in concreto che è tipica – in buona sostanza – dei modelli di ripartizione delle competenze basati sul principio di sussidiarietà, ossia sulla sussistenza o meno di quelle «esigenze di disciplina unitaria» che sole possono giustificare l’intervento del livello di governo superiore.

In questa sede non è possibile sviluppare un’analisi adeguata né fornire risposte complessive e, al tempo stesso, dotate di un sufficiente grado di attendibilità; d’altronde, la stessa giurisprudenza costituzionale dell’ultimo quadriennio si caratterizza per un approccio sostanzialmente casistico e privo di affermazioni volte ad una ricostruzione in termini generali della potestà legislativa concorrente. Tuttavia, è senz’altro possibile affermare che le tendenze in atto spingono decisamente verso una ricostruzione dei principî fondamentali anche nell’ultimo dei significati sopra accennati, ossia come quelle basi di disciplina normativa che siano ritenute rispondenti alle «esigenze unitarie» e che per tale ragione non possono che essere imputate alla competenza legislativa dello Stato; in proposito, non mancano affatto casi in cui la Corte ha legittimato – nelle materie di potestà concorrente – interventi normativi dello Stato che si

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spingevano ben al di là di una normazione “strutturalmente” di principio o di una normazione rivolta solo a guidare il legislatore regionale e dunque non autoapplicativa139.

In questo senso possono senz’altro leggersi alcune importanti affermazioni rinvenibili nella giurisprudenza più recente, laddove la Corte ha espressamente riconosciuto che «la nozione di “principio fondamentale” (…) non ha e non può avere caratteri di rigidità e di universalità, perché le “materie” hanno diversi livelli di definizione che possono mutare nel tempo»140, e che pertanto «l’ampiezza e l’area di operatività dei principî fondamentali non possono essere individuate in modo aprioristico e valido per ogni possibile tipologia di disciplina normativa», bensì alla luce delle esigenze e finalità di disciplina unitaria e uniforme per tutto il territorio nazionale141.

Problema specifico ma connesso a quanto appena osservato è quello relativo alla possibilità o meno che il legislatore statale, attraverso la disciplina dei principî fondamentali nelle materie di legislazione concorrente, provveda direttamente alla allocazione di determinate funzioni amministrative ai livelli regionali e locali, ovviamente in conformità con i principî dell’art. 118 Cost., con ciò rendendo tale allocazione non suscettibile di deroghe ad opera del legislatore regionale.

In linea generale, anche accogliendo l’interpretazione ampia e “sostanzialistica” dei principî fondamentali, sembrerebbe da escludere che il grado di pervasività della legislazione statale nelle materie concorrenti possa spingersi, in nome delle esigenze unitarie, fino al punto di stabilire direttamente e inderogabilmente una determinata allocazione di funzioni amministrative ai livelli di governo sub-statali142. Secondo questa impostazione si dovrebbe ritenere che allo

139 Si pensi, ad esempio, alla sentenza sul condono edilizio (n. 196 del 2004), nella quale la disciplina dettata dal legislatore statale con l’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, con i correttivi introdotti dal giudice delle leggi, si atteggia come un vero e proprio “principio di normazione unitaria”, da integrare e specificare ad opera della legge della Regione ma suscettibile anche di diretta applicazione in assenza di un intervento del legislatore regionale. 140 Così la sentenza n. 50 del 2005, punto 3 del Considerato in diritto. 141 Così la sentenza n. 336 del 2005, punto 6.1 del Considerato in diritto, ma la medesima ratio è rinvenibile anche nella sentenza n. 270 del 2005. 142 Il problema, evidentemente, non tocca la possibilità che lo Stato provveda ad intestare determinate funzioni al suo stesso livello di amministrazione in forza delle menzionate «esigenze di esercizio unitario», attraendo così a se stesso la relativa potestà legislativa.

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Stato, nell’ambito delle materie di legislazione concorrente, spetti esclusivamente il potere di dettare principî “sull’allocazione” ai livelli regionali e locali delle funzioni amministrative, in attuazione o specificazione dei principî di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118 Cost., ma non norme “di allocazione” delle suddette funzioni, in quanto queste ultime si porrebbero come preclusive, sul punto, di qualunque spazio di potere normativo per il legislatore regionale formalmente competente in materia143.

La questione, tuttavia, è più complessa di quanto si possa ritenere a prima impressione e non sembra prestarsi a soluzioni univoche e applicabili sempre e comunque. Non è un caso che il giudice costituzionale, al riguardo, si sia limitato – sul piano delle affermazioni generali – a dare atto che «l’allocazione delle funzioni amministrative nelle materie […] di competenza concorrente, non spetta, in linea di principio, allo Stato»144.

Anzitutto, non sembra priva di rilievo la distinzione tra l’allocazione di funzioni al livello regionale e l’allocazione di funzioni ai livelli locali. Si consideri, infatti, non soltanto che la prima è forse in grado più della seconda di corrispondere a quelle esigenze di uniformità di disciplina normativa che sono in grado di legittimare un principio fondamentale, ma anche che l’allocazione ai livelli locali può, di fatto, configurarsi in concreto come genericamente rivolta ad intestare la funzioni agli «enti locali», senza una precisa individuazione di ciò che debba spettare alle Province, alle Città metropolitane o ai Comuni, lasciando così al legislatore regionale un effettivo spazio di autonomia nell’ambito del “principio” stabilito dal legislatore statale145. 143 In questo senso cfr., ad esempio, le opinioni di A. CORPACI, Revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione e sistema amministrativo, in Regioni, 2001, 1310 ss., e di G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, ivi, spec. 1260; da ultimo, ID., L’autonomia amministrativa e regolamentare, ivi, 2004, spec. 411-412. Sembra invece preferire la soluzione opposta, ritenendola caratterizzata da una «maggiore aderenza al dettato costituzionale», D.M. TRAINA, Le competenze degli enti territoriali, cit., 4, anche se l’A. non manca di precisare che «la diretta allocazione di funzioni dallo Stato agli enti locali è sottoposta ad uno scrutinio stretto di costituzionalità sull’applicazione del principio di sussidiarietà». 144 Così Corte cost. nn. 50 e 384 del 2005. 145 In questa direzione si è esplicitamente orientato il giudice costituzionale nella sentenza n. 336 del 2005, affermando che il generico riferimento agli «enti locali», non costituisce allocazione diretta di funzioni amministrative ad un determinato livello di governo, bensì un principio fondamentale di disciplina che lascia intatta la

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In secondo luogo, occorre tenere conto delle specificità delle materie concorrenti qui prese in considerazione e, particolarmente, della funzione di «governo del territorio». A tale proposito, non può non assumere rilievo decisivo la constatazione secondo la quale il territorio è l’elemento che prima di ogni altro unisce e accomuna tutti gli enti che costituiscono la Repubblica ai sensi dell’art. 114 Cost. e che dunque impone a tali enti «di costruire una rete di relazioni interistituzionali capace di assicurare un reciprocamente corretto espandersi delle loro autonomie nel determinare gli usi ammissibili del suolo»; di talché, proprio la posizione tendenzialmente pariordinata di tali enti prefigurata dalla Costituzione «rende centrale la allocazione del potere di controllare e indirizzare le trasformazioni del territorio che li unisce, a partire dalla considerazione dello status costituzionale di ciascuno di questi enti, status che impone al legislatore, tanto statale che regionale, di determinare le loro funzioni secondo i principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza»146.

Da questo punto di vista, sembra possibile ritenere che proprio le peculiarità della funzione di «governo del territorio», specialmente sotto il profilo della inscindibilità e interdipendenza delle relazioni che debbono essere instaurate tra i diversi livelli territoriali, rendano non soltanto ammissibile ma anche indispensabile che lo Stato, nel determinare i principî fondamentali della disciplina, provveda ad individuare almeno un assetto di massima della distribuzione delle funzioni amministrative tra gli enti coinvolti, con ciò limitando e orientando l’esercizio della potestà legislativa regionale in materia. In questa logica, ad esempio, sarà possibile (ferma restando l’applicazione dei test sopra menzionati), considerare legittimamente quale principio fondamentale che vincola la legislazione regionale la norma statale che riconosce gli essenziali poteri di pianificazione territoriale dei Comuni e delle Province, oppure la norma che alloca al livello regionale un determinato potere di piano. Si pensi, solo per citare un esempio assai rilevante nelle materie qui considerate, all’attribuzione alle Regioni, operata dal menzionato art. 135 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, della funzione di approvazione del piano paesaggistico, esplicitamente costruito come facoltà delle Regioni di allocare le funzioni in esame ad un determinato livello territoriale sub-regionale. 146 I passi citati sono tratti da G.L. CONTI, Dimensioni costituzionali del governo del territorio, cit., 185-186.

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espressione (sia pure facoltativa) delle competenze in tema di «governo del territorio» e, comunque, finalizzato anche ad individuare gli interventi di «valorizzazione» del paesaggio e dei beni paesaggistici.

Proprio in tal senso, con la recente sentenza n. 182 del 2006, si è pronunciata la Corte costituzionale a proposito di una disposizione della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, con la quale si consentiva che parte della disciplina dei beni paesaggistici fosse definibile nell’ambito del «piano strutturale» dei Comuni, in tal modo sottraendo al piano paesaggistico regionale alcuni dei contenuti individuati dal legislatore nazionale. La Corte ha dichiarato incostituzionale la norma in questione, giudicandola in contrasto «con il sistema di organizzazione delle competenze delineato dalla legge statale a tutela del paesaggio, che costituisce un livello uniforme di tutela, non derogabile dalla Regione». Ad avviso della Corte, infatti, «l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica e la sua dimensione regionale, attuate attraverso una metodologia uniforme sul territorio nazionale, sono assunti dalla legislazione statale come “valori imprescindibili” e, pertanto, inderogabili dal legislatore regionale»147.

4.6. La potestà amministrativa Il regime complessivo dell’autonomia amministrativa e il

modello di riparto delle relative funzioni assumono, nel vigente testo dell’art. 118 Cost., un assetto del tutto nuovo rispetto al regime precedente, con ampi margini di incertezza e una notevole quantità di nodi da sciogliere.

Come in parte si è già anticipato, la riforma costituzionale del 2001 ha introdotto un sistema affatto diverso per la distribuzione delle funzioni amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo

147 Così sintetizza A. BORZÌ, La disciplina della tutela e della valorizzazione del paesaggio alla luce del d.lgs. n. 157 del 2006 e della recente giurisprudenza costituzionale. Parte I – Paesaggio, Beni paesaggistici e pianificazione, in federalismi.it, 28 giugno 2006, 26-27, il quale osserva che, in tal modo, «il giudice costituzionale ha riconosciuto nel conferimento di una funzione amministrativa ad un determinato livello di governo l’espressione di uno standard uniforme inderogabile e di un principio fondamentale, in quanto aspetto centrale e qualificante della disciplina statale».

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rispetto al criterio delle materie su cui risulta formalmente impostato il riparto della potestà normativa e al quale si richiamava il precedente principio del c.d. «parallelismo» tra competenze legislative e competenze amministrative statali e regionali148. L’art. 118 Cost., dopo aver affermato il principio del c.d. «municipalismo di preferenza» («le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che …»), stabilisce che l’allocazione delle funzioni ai livelli di volta in volta superiori deve essere giustificata dalla sussistenza di esigenze di esercizio unitario di quella determinata funzione, da valutarsi caso per caso in ragione dei principî di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Con specifico riferimento alle funzioni amministrative delle autonomie territoriali locali, l’art. 118, secondo comma, afferma che esse «sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze», mentre l’art. 117, secondo comma, lett. p), riconosce allo Stato la potestà legislativa esclusiva nella materia «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane».

La giurisprudenza della Corte costituzionale ha fino ad ora fornito alcuni chiarimenti, sia pure ancora parziali, per l’interpretazione di questi elementi testuali assai ambigui e lacunosi. In questa sede meritano di esserne richiamati almeno tre.

a) La concreta allocazione delle funzioni amministrative – «in conformità alla generale attribuzione costituzionale ai Comuni o in deroga ad essa per esigenze di “esercizio unitario”, a livello sovracomunale, delle funzioni stesse» – spetta sempre alla legge statale o alla legge regionale in relazione al riparto di funzioni legislative.

Sul punto la sentenza n. 43 del 2004 è chiarissima: occorre una legge, che sia statale o regionale secondo il relativo riparto delle competenze149; e, per quanto si è cercato di evidenziare nelle pagine che precedono, non si può negare che in relazione alla «tutela dell’ambiente-paesaggio, dell’ecosistema e dei beni paesaggistici» sia

148 Con l’eccezione delle funzioni «di interesse esclusivamente locale», che potevano essere attribuite direttamente dalla legge statale agli enti locali, nonché delle ulteriori funzioni che lo Stato poteva «delegare» alle Regioni al di fuori delle materie di loro competenza legislativa (art. 118, primo e secondo comma, Cost. nel testo previgente). 149 Cfr. il punto 3.2 del Considerato in diritto. Pienamente confermative di tale orientamento risultano, inoltre, le sentenze nn. 69-73 del 2004.

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la Regione che lo Stato hanno titolo per legiferare e dunque per allocare funzioni amministrative.

b) L’allocazione delle funzioni amministrative al livello territoriale più elevato è recessiva rispetto alla collocazione al livello inferiore assistita da meccanismi di potere sostitutivo.

Sempre nella sentenza n. 43 del 2004 la Corte è assai esplicita: il potere sostitutivo della Regione nei confronti degli enti locali trova diretto fondamento nella sussidiarietà verticale, configurandosi propriamente come uno degli strumenti che consentono la realizzazione più piena di quella “preferenza” per l’allocazione agli enti più vicini ai cittadini che è insita nel principio di sussidiarietà. Se è possibile lasciare la funzione al livello più basso e garantirne il corretto, efficiente ed efficace esercizio compatibilmente con le “esigenze unitarie” di cui sia portatore il livello di governo superiore grazie alla previsione di poteri sostitutivi attivabili da quest’ultimo, tale opzione è costituzionalmente preferibile rispetto alla diretta allocazione della funzione a tale livello; «se così non fosse, si avrebbe […] l’assurda conseguenza che, per evitare la compromissione di interessi unitari che richiedono il compimento di determinati atti o attività, derivante dall’inerzia anche solo di uno degli enti competenti, il legislatore (statale o regionale) non avrebbe altro mezzo se non collocare la funzione ad un livello di governo più comprensivo, assicurandone “l’esercizio unitario” ai sensi del primo comma dell’articolo 118 della Costituzione: conseguenza evidentemente sproporzionata e contraria al criterio generale insito nel principio di sussidiarietà»150.

c) Il rispetto della sussidiarietà, come principio fondamentale che deve ispirare l’intero sistema di distribuzione delle funzioni amministrative è giustiziabile in concreto sulla base di test fondati su valutazioni di necessarietà, idoneità, proporzionalità e collaborazione-partecipazione procedimentale.

Si possono richiamare, in proposito, ancora una volta le sentenze nn. 303 del 2003 e 6 del 2004151, che affermano esplicitamente questa giustiziabilità da parte del giudice delle leggi in relazione alla «sussidiarietà legislativa» cui si è fatto riferimento in precedenza. Ma 150 Così, ancora, il punto 3.2 del Considerato in diritto, nonché le sentenze nn. 69-73 del 2004. Sul tema, si veda l’ampia e approfondita trattazione di S. PAJNO, Il potere sostitutivo nei confronti degli enti territoriali, in G. CORSO, V. LOPILATO (a cura di), Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, Parte generale, cit., passim. 151 Ma si vedano, al riguardo, anche le altre sentenze citate, retro, nt. 134.

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assume notevole rilievo anche la sentenza n. 196 del 2004, poiché vi si rinviene un’altra affermazione decisiva per il tema qui trattato e cioè che i Comuni sono «titolari di funzioni fondamentali di gestione e controllo del territorio».

Sul significato di tale affermazione potrebbero porsi alcuni interrogativi, ad esempio in relazione al dubbio se si tratti delle «funzioni fondamentali» cui fa riferimento la lett. p) del secondo comma dell’art. 117 Cost., riservandone la disciplina alla legislazione esclusiva dello Stato, oppure, diversamente, se si tratti delle «funzioni proprie» di cui all’art. 118, secondo comma. La Corte non risolve questo problema, perché a volte le chiama «fondamentali» e altre volte le chiama «proprie»; nella sentenza n. 43 del 2004, ad esempio, il giudice costituzionale riconosce espressamente di voler prescindere dalla distinzione fra funzioni fondamentali e funzioni proprie152. Quello che è certo è che, stando a quanto risulta ricavabile al momento dalla giurisprudenza costituzionale, queste funzioni di gestione e controllo del territorio – almeno in un loro nucleo essenziale ed intangibile – non possono che collocarsi al livello comunale, tanto che nella stessa sentenza n. 196 del 2004 l’ultimo capo della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003 sulla disciplina del condono edilizio colpisce proprio una norma, il comma 49-ter, che attribuiva al Prefetto una funzione in ordine alle demolizioni che invece sarebbe dovuta spettare al Comune. Si tratta del primo – e, fino ad oggi, unico – caso in cui la Corte si è spinta ad effettuare un sindacato diretto di legittimità costituzionale con il parametro dell’art. 118, primo comma, Cost., giungendo a dichiarare l’incostituzionalità di una norma legislativa perché allocava una funzione amministrativa ad un livello diverso da quello comunale, in violazione delle condizioni e dei limiti stabiliti dalla disposizione costituzionale.

4.7. La potestà regolamentare per la disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni amministrative

Alla titolarità in concreto di funzioni amministrative la

Costituzione collega una specifica potestà normativa di rango regolamentare «per la disciplina dell’organizzazione e dello

152 Cfr. il punto 3.2. del Considerato in diritto.

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svolgimento» di tali funzioni. Si tratta della previsione contenuta nell’art. 117, sesto comma, ultimo periodo, che è esplicitamente rivolta a riconoscere tale potere alle autonomie locali costitutive della Repubblica (Comuni, Province e Città metropolitane), ma che deve correttamente ritenersi estendibile, in via generale e seppur per implicito, anche alle Regioni e allo stesso Stato centrale, là dove le prime (nelle materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato) o il secondo (nelle altre materie o settori normativi) si vedano affidate funzioni amministrative sulla base di quanto previsto dall’art. 118 Cost.153. Non sembra possibile negare, in altre parole, l’emersione – nell’art. 117, sesto comma – di un principio generale in base al quale l’ente titolare di una funzione amministrativa dispone necessariamente della correlativa potestà regolamentare per disciplinarne l’organizzazione e le modalità di svolgimento, indipendentemente dalla spettanza di una potestà legislativa sulla materia cui la funzione amministrativa in questione possa ritenersi riconducibile154.

Se si condivide tale interpretazione, la conseguenza sarà inevitabilmente che, al di là della ripartizione formale del potere regolamentare fondata sul “parallelismo” rispetto alle materie di competenza legislativa, lo Stato potrà legittimamente emanare regolamenti sull’organizzazione e lo svolgimento di funzioni amministrative ad esso spettanti in concreto nelle materie del «governo del territorio» o della «valorizzazione dei beni culturali e ambientali»; così come la Regione potrà fare altrettanto in relazione alle funzioni amministrative ad essa eventualmente attribuite nelle materie della «tutela dell’ambiente-paesaggio», della «tutela dell’ecosistema» e della «tutela dei beni paesaggistici», materie affidate alla legislazione esclusiva dello Stato sia pure nel senso “delimitato” che si è cercato di chiarire nelle pagine che precedono.

Tuttavia, il profilo senza dubbio più delicato di questa potestà regolamentare relativa alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni amministrative non sembra risiedere tanto nel rapporto tra potestà normativa statale e potestà normativa regionale né nel rapporto tra fonte legislativa e fonte regolamentare dello Stato o della Regione, quanto invece nel rapporto tra legge 153 In questi termini, si veda P. BARILE, E. CHELI, S. GRASSI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 340. 154 Cfr., retro, quanto osservato al par. 4.5. in relazione alla attrazione in sussidiarietà da parte dello Stato di funzioni amministrative e della relativa potestà normativa per la loro disciplina.

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statale o regionale da un lato e autonomia normativa degli enti locali dall’altro. Al riguardo, infatti, sorge il problema di definire quali siano gli spazi legittimamente occupabili dalla fonte legislativa competente ad allocare la funzione amministrativa, individuando, di converso, quali siano gli spazi da ritenere spettanti alla disciplina dettata per il tramite del potere regolamentare dell’ente locale titolare di tale funzione.

Tra le soluzioni astrattamente ipotizzabili, sembra da scartare quella che fa leva sul principio della «preferenza di legge», in base al quale la norma costituzionale contenuta nell’art. 117, sesto comma, si limiterebbe a consentire l’esercizio della potestà regolamentare locale senza bisogno di una previa autorizzazione legislativa ma non eviterebbe la prevalenza sempre e comunque della legge statale o regionale rispetto al regolamento locale incompatibile; analogamente, sembra da scartare quella che configura la previsione costituzionale come una vera e propria «riserva di regolamento locale» in senso tecnico, ossia come norma istitutiva di un ambito materiale riservato alla fonte locale e non comprimibile in alcun modo dalla legislazione competente per materia155. Va accolta, invece, ad avviso di chi scrive, la soluzione che ricostruisce il potere regolamentare locale come caratterizzato da una «preferenza tendenziale», ossia da una competenza propria che non assume i connotati della «riserva in senso forte» ma che risulta fondata sul principio di sussidiarietà ed è ragionevolmente derogabile in nome di esigenze unitarie valutate e soddisfatte ad opera del legislatore competente156.

Pertanto, fermo restando che la norma costituzionale impedisce senz’altro che gli enti locali possano essere del tutto privati, da parte del legislatore statale o regionale, di adeguati spazi di competenza normativa in relazione alla disciplina delle funzioni amministrative loro attribuite, deve senz’altro ritenersi ammissibile una disciplina di tali funzioni anche ad opera della legge competente, purché tale intervento risulti giustificabile in base al principio di sussidiarietà. In questa logica, del resto, sembra muoversi la previsione contenuta nell’art. 4 della legge n. 131 del 2003 (c.d. «legge La Loggia»), che stabilisce: «La disciplina dell’organizzazione, dello svolgimento e 155 Su tali ipotesi, cfr. le considerazioni di E. BALBONI, Gli scenari incerti dell’autonomia normativa locale in una disposizione di difficile interpretazione, in federalismi.it, 30 maggio 2002. 156 In questo senso, cfr. le considerazioni di O. CHESSA, La sussidiarietà (verticale) come “precetto di ottimizzazione” e come criterio ordinatore, cit., 1452-1453.

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della gestione delle funzioni dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane è riservata alla potestà regolamentare dell’ente locale, nell’ambito della legislazione dello Stato o della Regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità, secondo le rispettive competenze». E in senso analogo si è espressa anche la Corte costituzionale nella sentenza n. 372 del 2004; di fronte ad una norma dello statuto della Regione Toscana, nella quale si prevede che l’organizzazione delle funzioni amministrative conferite agli enti locali, «nei casi in cui risultino specifiche esigenze unitarie», possa essere disciplinata con legge regionale per assicurare requisiti essenziali di uniformità (art. 63, comma 2), il giudice costituzionale osserva che una simile previsione è pienamente «ammissibile purché sia limitata, per non comprimere eccessivamente l’autonomia degli enti locali, ai soli casi di sussistenza di “specifiche esigenze unitarie”, che possano giustificare, nel rispetto dei principî indicati dall’art. 118, primo comma, della Costituzione, la disciplina legislativa regionale dell’organizzazione e svolgimento delle funzioni “conferite”». La logica è esattamente la stessa di quanto si è visto affermato nelle sentenze nn. 43 e 69-73 del 2004, ossia quella della preferibilità dello strumento meno invasivo dell’autonomia degli enti territorialmente meno comprensivi allorché si tratti di dare soddisfazione a quelle “esigenze unitarie” cui si informa il funzionamento in concreto del principio di sussidiarietà; la Corte, infatti, sottolinea – anche in questo caso – che «negando tale facoltà si perverrebbe […] all’assurda conclusione che, al fine di evitare la compromissione di precisi interessi unitari che postulano il compimento di determinate attività in modo sostanzialmente uniforme, il legislatore regionale non avrebbe altra scelta che allocare le funzioni in questione ad un livello di governo più comprensivo, assicurandone così l’esercizio unitario. Il che sarebbe chiaramente sproporzionato rispetto al fine da raggiungere e contrastante con lo stesso principio di sussidiarietà».

Al contrario, nella più recente sentenza n. 246 del 2006, il giudice delle leggi ha esplicitamente negato la conformità all’art. 117, sesto comma, Cost. di una norma di legge regionale157 che consentiva ad un regolamento regionale avente ad oggetto la disciplina di procedure autorizzative di competenza della Regione di essere

157 Si trattava dell’art. 16, comma 7, della legge della Regione Emilia-Romagna n. 26 del 2004.

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applicato, in via suppletiva, anche ai procedimenti di autorizzazione di competenza degli enti locali fino all’entrata in vigore degli appositi regolamenti emanati dai suddetti enti. Anche in questo caso la Corte non sembra aver fatto leva su una presunta “riserva di regolamento” in senso forte a favore delle autonomie territoriali locali, quanto, invece, sul fatto che il legislatore regionale, nell’esercizio del potere di allocazione delle funzioni amministrative, dispone già di tutti gli elementi e gli strumenti per considerare le (e dare soddisfazione alle) “esigenze unitarie” imposte dai principî di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, sia sotto il profilo dell’eventuale “attrazione” della funzione al livello regionale, sia sotto il profilo dell’eventuale previsione di norme (legislative) regolatrici della funzione “conferita” al livello inferiore volte ad assicurare requisiti essenziali di uniformità. Di qui la conclusione cui perviene, sia pure in termini molto sintetici, il giudice costituzionale nel senso dell’intrinseca contraddittorietà di una norma di legge regionale che, come quella che era oggetto di censura nel caso di specie, affidi funzioni amministrative agli enti locali e contestualmente pretenda di riconoscere – sia pure in via suppletiva – ad un organo della Regione la potestà regolamentare spettante ai Comuni e alle Province per la disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento di tali funzioni; ciò in ragione del fatto che tale specifica potestà normativa secondaria è da considerare prerogativa esclusiva dell’ente titolare della funzione amministrativa in questione e che tutte le eventuali “esigenze unitarie” possono (e debbono) essere adeguatamente soddisfatte sul piano legislativo.

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CAPITOLO 5

PROSPETTIVE DI RIFORMA PER UNA CORRETTA “POSITIVIZZAZIONE” DEI FONDAMENTI COSTITUZIONALI DEL “DIRITTO DELL’AMBIENTE” 5.1. I tentativi di revisione costituzionale della XIV legislatura e la prospettiva di una “normazione costituzionale” sulla tutela dell’ambiente

La XIV legislatura appena conclusa è stata caratterizzata dal

primo tentativo della storia repubblicana di condurre seriamente in porto una revisione costituzionale tendente ad introdurre il riferimento positivo esplicito alla tutela dell’ambiente e degli ecosistemi tra i principî fondamentali della nostra Costituzione.

Sul piano politico, gli obiettivi generali che caratterizzavano le proposte di legge costituzionale su cui si è concentrato il dibattito parlamentare erano i seguenti:

– sancire nella Costituzione il riconoscimento della tutela dell’ambiente e degli ecosistemi come valore costituzionale fondamentale;

– sancire nella Costituzione il riconoscimento di vere e proprie situazioni giuridiche soggettive (diritti) del singolo individuo e della collettività, con riferimento all’ambiente salubre, all’informazione ambientale, alla partecipazione ai processi decisionali, all’accesso alla giurisdizione;

– inserirsi coerentemente e senza stravolgimenti in una disposizione come l’art. 9 della Costituzione, che già da almeno un paio di decenni la Corte costituzionale utilizza come fondamento della rilevanza degli interessi ambientali e che esprime alcune delle principali peculiarità che connotano l’identità collettiva della Repubblica;

– introdurre a livello costituzionale un riferimento esplicito al rispetto degli animali e alla tutela della loro dignità, anche in relazione al recente operato del legislatore costituzionale tedesco158; 158 L’attuale testo dell’art. 20-a della Legge fondamentale tedesca stabilisce: “Nell’ambito dell’ordinamento costituzionale, lo Stato, in considerazione anche della sua responsabilità nei confronti delle generazioni future, protegge i

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– sancire il diritto di accesso all’acqua come diritto fondamentale dell’individuo, con l’eventuale specificazione dell’acqua come “bene pubblico”.

Il lavoro delle assemblee parlamentari ha condotto, in entrambi i rami del Parlamento, all’approvazione in prima lettura di due testi di riforma dell’art. 9 della Costituzione: il primo, approvato dal Senato il 24 settembre 2003, che si limitava a riformulare il secondo comma dell’art. 9, anteponendo l’«ambiente naturale» al paesaggio e al patrimonio storico e artistico della Nazione159; il secondo, approvato dalla Camera il 28 ottobre 2004, che prevedeva, in termini un po’ più articolati, l’introduzione di un nuovo terzo comma così formulato: «Tutela l’ambiente e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Protegge le biodiversità e promuove il rispetto degli animali»160.

Non è questa la sede per una puntuale analisi critica dei contenuti delle formulazioni appena richiamate, anche se non può certo sfuggire che il secondo testo appare senz’altro preferibile, soprattutto in ragione della maggiore correttezza terminologica.

Se, però, si muove dalla constatazione che anche la formula più articolata del progettato intervento di revisione non sembra affatto idonea, in sé e per sé, ad incidere qualitativamente sul già vigente statuto costituzionale degli interessi ambientali, se ne può trarre utile spunto per una assai più interessante (e forse feconda) riflessione circa l’attualità o, quanto meno, l’opportunità di una prospettiva di “normazione costituzionale” di diritto interno in tema di tutela dell’ambiente come condizione per consolidare in termini di “diritto positivo” i frutti degli apporti giurisprudenziali fin qui forniti dal giudice costituzionale e, al tempo stesso, per definire analiticamente e chiaramente – attraverso la formulazione di un testo normativo – quei fondamenti di rango costituzionale che si rivelano indispensabili per la costruzione del “diritto dell’ambiente”, secondo quanto si è provato ad argomentare nei capitoli che precedono.

fondamenti naturali della vita e gli animali, attraverso la legislazione e, conformemente alla legge e al diritto, attraverso i poteri esecutivo e giurisdizionale”. 159 Cfr. A.S. (XIV Legislatura) n. 553, in testo unificato con A.S. n. 1658, n. 1712 e n. 1749. 160 Cfr. A.C. (XIV Legislatura) n. 4307, in testo unificato con A.C. n. 705, n. 2949, n. 3666, n. 3809, n. 4181, n. 4423 e n. 4429.

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Al riguardo, è però necessaria una precisazione preliminare in relazione sia alle ragioni che spiegano il perché, in una prospettiva de iure condendo, si debba fare riferimento non ad una semplice “costituzionalizzazione” degli interessi ambientali ma ad una “normazione costituzionale” per la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, sia al significato con il quale si intende utilizzare tale espressione.

Dal primo punto di vista, va osservato che l’attuale esistenza di un diritto costituzionale italiano dell’ambiente è senza dubbio innegabile, con la precisazione però che trattasi di un diritto esclusivamente giurisprudenziale; la Corte costituzionale, infatti, nel silenzio della Carta repubblicana, ha – come si è visto – da molto tempo raggiunto una serie di consolidati (dove più, dove meno!) punti di approdo, i quali costituiscono, per comune opinione, il nostro diritto costituzionale dell’ambiente, sia pure nella perdurante assenza di una sua formalizzazione positiva in proposizioni normative.

Ma anche per un’altra ragione occorre ragionare di una prospettiva di “normazione costituzionale”. Bisogna, infatti, distinguere tra i fenomeni di positivizzazione delle norme nelle carte costituzionali rispetto alla positivizzazione delle norme in atti legislativi di rango costituzionale. La prospettiva di una normazione costituzionale sull’ambiente è dunque, in astratto, almeno duplice: occorre individuare, in definitiva, ciò che dovrebbe o potrebbe entrare nella Carta fondamentale e distinguerlo da ciò che potrebbe o dovrebbe entrare in (o essere affidato a) una diversa fonte di rango costituzionale.

Solo tenendo presente tale fondamentale distinzione potrebbe essere poi sviluppato l’ulteriore percorso di analisi tendente a valutare la praticabilità di un intervento del legislatore costituzionale in termini di “necessarietà”, “utilità” o mera “opportunità” rispetto al dato normativo esistente e agli eventuali obiettivi di sistema che si intendano perseguire.

5.2. La duplice possibile finalità degli interventi di normazione costituzionale: “bilancio” o “programma”?

L’individuazione dei possibili contenuti di qualsiasi intervento

di normazione costituzionale non può fare a meno di poggiare su una ulteriore consapevolezza di carattere preliminare. Senza dovere in

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questa sede soffermarsi sulla distinzione formale tra “revisione costituzionale” in senso proprio e semplice “legislazione costituzionale”, sembra possibile utilizzare una fondamentale distinzione che la dottrina costituzionalistica applica all’istituto della revisione ma che appare senz’altro estendibile, in generale, anche ad interventi di normazione costituzionale che trovino la loro formalizzazione al di fuori del testo della Costituzione.

Se in genere è pacifico che ogni revisione costituzionale di tipo integrativo è rivolta primariamente a dare ulteriori orientamenti ai comportamenti in primis dei legislatori, ma poi anche senza dubbio delle Amministrazioni pubbliche, dei giudici e di tutti i consociati, è invece possibile distinguere tra quelle che vengono indicate come “revisioni bilancio” e quelle che vengono indicate come “revisioni programma”: le prime, realizzate per dare veste e sanzione formale a trasformazioni del tessuto costituzionale che siano state determinate da fonti normative sub-costituzionali o da fatti costituzionali sostanzialmente derogatori o integrativi, ma ormai invalsi e non contrastati; le seconde, effettuate in vista di un progetto di superamento o comunque di evoluzione dell’attuale normativa che si ritenga non più adeguata161.

La chiara rappresentazione di quale dei due tipi di normazione costituzionale si intenda realizzare è presupposto necessario affinché l’integrazione del testo della Costituzione avvenga il più possibile nel rispetto di quattro fondamentali requisiti:

- che la modifica sia armonica, rispetto al testo costituzionale con il quale deve entrare in relazione;

- che la modifica risulti corretta, non solo giuridicamente ma anche – soprattutto in casi come quello in esame – sotto il profilo tecnico-scientifico;

- che la modifica sia utile, determinando almeno un effetto significativo per l’ordinamento;

- che la modifica sia essenziale, nella consapevolezza che, soprattutto all’interno del testo della Costituzione, vanno privilegiate formule sintetiche, non esaustive, aperte all’evoluzione dei tempi e capaci di costituire matrice adeguata per gli ulteriori svolgimenti normativi di rango legislativo. 161 Cfr., per tutti, G. SILVESTRI, Spunti di riflessione sulla tipologia e sui limiti della revisione costituzionale, in Studi in onore di P. Biscaretti di Ruffia, II, Milano, Giuffrè, 1987, 1187-1189.

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5.3. Le “acquisizioni costituzionali” pacificamente consolidate del diritto dell’ambiente

Se ci si muove nello scenario appena descritto, occorre ovviamente partire dal dato esistente, ossia dal quel “diritto costituzionale dell’ambiente” di matrice giurisprudenziale cui si è ripetutamente fatto cenno, almeno per gli aspetti che possano considerarsi ormai definitivamente acquisiti.

In rapida sintesi, quale è l’attuale stato dell’arte in base a quanto si è provato ad illustrare nei capitoli precedenti?

Tra le molteplici elaborazioni della Corte Costituzionale, si possono individuare almeno tre elementi che risultano assolutamente consolidati e pacifici e che la Corte ribadisce ormai quasi con clausole di stile.

In primo luogo, l’affermazione della rilevanza costituzionale dell’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente, direttamente ricavata dall’art. 9 della Costituzione e dal riferimento ivi contenuto alla tutela del paesaggio.

In secondo luogo, la qualificazione giuridica della tutela dell’ambiente come “valore costituzionale primario”, con la “primarietà” assunta in quel significato squisitamente “procedimentale” da ultimo esplicitato nella sentenza n. 196 del 2004 e su cui ci si è a lungo soffermati.

Infine, il riconoscimento del fatto che la tutela dell’ambiente si atteggia come interesse tipicamente “trasversale”, rispetto a una molteplicità indefinita di settori, di materie, di ambiti oggettivi nei quali intervengono le politiche pubbliche. La giurisprudenza costituzionale sul nuovo art. 117, secondo comma, lett. s), illustrata nel capitolo 4, pur ancora con le ambiguità che si sono segnalate, almeno su un punto è assai chiara: le Regioni, nei settori di loro competenza, non solo possono ma forse “debbono” considerare e implementare il valore costituzionale della tutela dell’ambiente. Dunque, ineliminabile “trasversalità” che, ovviamente, è in grado di dispiegare i suoi effetti anche nei confronti delle attribuzioni spettanti alle altre autonomie territoriali e che si collega in termini del tutto coerenti, con la logica del “compito comune” che – ad avviso della dottrina maggioritaria e in base all’art. 9 della Costituzione – spetta a

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tutti gli enti pubblici della Repubblica «indistintamente nella misura e nei limiti ammessi dal proprio ambito di competenze»162.

Qual è la sintesi possibile che si ricava da questi punti di approdo della nostra giurisprudenza costituzionale?

La sensazione più forte è che questa sintesi possa ritenersi espressa assai bene con il richiamo al principio di integrazione che, come si è più volte ricordato nei capitoli precedenti, ha matrice europea e trova esplicitazione contenuto nell’art. 6 del Trattato CE, nell’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali e ora nell’articolo III119 del Trattato costituzionale come principio generale che impone di considerare sempre le esigenze di tutela dell’ambiente nell’elaborazione e nell’attuazione di tutte le politiche comunitarie.

Il proprium costituzionale consolidato della tutela dell’ambiente sembra collocarsi esattamente qui: primarietà, trasversalità, integrazione; un trinomio che, in successione logica, rappresenta l’essenza della dimensione costituzionale dell’ambiente. E non è un caso che su questa essenza il diritto costituzionale positivo europeo e il diritto costituzionale giurisprudenziale italiano, di fatto, vengono a coincidere. 5.4. I nodi da sciogliere e le lacune da colmare

Se però si sposta lo sguardo su quanto, nonostante gli spunti

rinvenibili qua e là nella giurisprudenza e nella legislazione, è ancora ben lungi dal costituire acquisizione consolidata, non si può fare a meno di constatare che gli spazi per un intervento normativo di riforma sul piano costituzionale sarebbero sicuramente assai ampi.

Se si ripercorrono alcuni dei principali temi trattati nei capitoli che precedono, si può pensare, anzitutto, alla perdurante necessità di un intervento chiarificatore definitivo circa la corretta “confinazione” reciproca delle nozioni di «ambiente», «ecosistema», «paesaggio», «beni ambientali o paesaggistici», «beni culturali», «patrimonio culturale», «territorio», «salute», etc., le quali, a tutt’oggi, presentano margini di ambiguità e sovrapposizioni che generano conflitti e contraddizioni.

162 Così, per tutti, F. MERUSI, Art. 9, cit., 438, il quale parla esplicitamente di Stato, Regioni, Comuni e Province, nonché di tutti gli altri enti pubblici in connessione con i loro fini istituzionali.

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Vi è poi il problema della individuazione o meno della «tutela dell’ambiente» come “materia”, ossia come specifico settore di intervento dei poteri pubblici da distinguere, correttamente, rispetto alla (ma al tempo stesso da conciliare con la) “trasversalità” del “valore costituzionale” con il quale la stessa «tutela dell’ambiente» viene comunemente qualificata.

A ciò, come si è ampiamente sottolineato, si connette la difficoltà di definire in termini chiari le modalità di relazione tra la «tutela dell’ambiente» e la cura degli interessi pubblici connessi o collegati, e dunque le peculiari problematiche legate alla implementazione concreta del principio di integrazione all’interno delle politiche non propriamente ambientali. Il che comporterebbe un ripensamento totale dell’organizzazione degli apparati pubblici (tanto delle autorità normative, quanto delle autorità amministrative); una riorganizzazione complessiva dei processi decisionali; una adeguata predisposizione delle ingenti risorse finanziarie necessarie allo scopo.

In questo contesto, non potrebbe poi farsi a meno di una riforma complessiva dell’intero sistema delle fonti di produzione della normativa ambientale che risultasse idoneo alla corretta formazione della decisione “precauzionale” intesa come “governo dell’incertezza scientifica, ispirandosi, più in generale, ad una visione realistica e moderna del rapporto tra scienza e tecnica da un lato e politica e diritto dall’altro.

Infine, ma non certo di minore rilevanza, vi sarebbe il problema della individuazione di un più chiaro e definito modello di riparto delle competenze tra livelli territoriali di governo, attraverso, in particolare, la definizione normativa delle modalità di funzionamento e specificazione del principio di sussidiarietà in questa materia. 5.5. Una revisione costituzionale auspicabile

Con queste premesse, sembrerebbe possibile azzardare una

prima conclusione in relazione al contenuto “auspicabile” di un intervento di revisione della nostra Carta costituzionale in vista della definitiva costruzione di un “diritto dell’ambiente”.

Se si condivide la lettura dei dati fin qui forniti, una revisione costituzionale in senso proprio non potrebbe che limitarsi ad un contenuto assolutamente minimale.

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In primo luogo, nell’ottica di una “revisione bilancio”, si potrebbe sancire formalmente l’ingresso nel testo costituzionale degli interessi ambientali come “valori fondamentali della collettività”. Sul piano terminologico, però, quale espressione dovrebbe essere utilizzata?

Al riguardo, risulterebbe evidente la necessità di un coordinamento armonico con le espressioni che già si trovano nella Carta costituzionale: il «paesaggio» di cui al secondo comma dell’art. 9; i «beni ambientali» di cui al terzo comma dell’art. 117; l’«ambiente» e l’«ecosistema» di cui al secondo comma, lett. s), dell’art. 117.

Se si esclude, per l’eccessiva limitatezza del campo di riferimento, l’espressione “ambiente naturale” che compariva nel testo del P.d.L. Cost. A.C. n. 4307 approvato dal Senato della Repubblica il 24 settembre 2003, le opzioni più accreditabili e meno impegnative sembrerebbero quelle offerte dal testo dell’art. 117, secondo comma, con il riferimento alla tutela dell’«ambiente» senza ulteriori aggettivazioni o alla tutela dell’«ecosistema». Qui, però, non è soltanto un problema di armonia terminologica, ma di correttezza rispetto ai punti di arrivo delle elaborazioni scientifiche e della stessa dottrina giuridica. In realtà, infatti, come si è osservato a suo tempo, il riferimento più appropriato dovrebbe essere alla tutela degli ecosistemi e dunque alla tutela dell’equilibrio ecologico (inteso come «l’insieme delle condizioni fisico-chimiche e biologiche che permette e favorisce la vita degli esseri viventi») di volta in volta della biosfera o dei singoli ecosistemi di riferimento.

Occorre essere consapevoli, peraltro, che l’uso dell’espressione «ecosistemi», come oggetto di un compito di tutela posto nell’art. 9 Cost. in capo alla Repubblica, potrebbe automaticamente condurre a dare un significato di evidente contenimento all’ambito materiale affidato dall’art. 117, secondo comma, lett. s), alla legislazione esclusiva dello Stato, supportando – anche sul piano squisitamente letterale – quella lettura che già la giurisprudenza costituzionale ha operato del nuovo riparto di attribuzioni legislative tra Stato e Regioni in materia ambientale: una lettura che, come si è messo in evidenza, tende a mantenere la configurabilità di una sorta di vera e propria “concorrenza” dei legislatori statale e regionale nella disciplina della tutela dell’ambiente, di fatto svuotando di qualunque possibile significato la affermata “esclusività” della legislazione dello Stato. La conseguenza pressoché automatica di un più che corretto riferimento

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alla tutela degli ecosistemi nell’art. 9 non potrebbe che essere quella di considerare la norma dell’art. 117, secondo comma, come relativa al solo ecosistema di rilievo “nazionale”, ritenendo affidata alle Regioni la disciplina della tutela dei singoli “ecosistemi” di rilievo “regionale” o “locale”.

Queste dirette implicazioni di carattere terminologico-letterale che certamente scaturirebbero dall’uso del termine ecosistemi nell’art. 9, indurrebbero a ritenere preferibile l’introduzione del riferimento alla tutela degli «equilibri ecologici», che avrebbe un triplice vantaggio: a) sarebbe indiscutibilmente corretto sul piano scientifico, oltreché consolidato nella dottrina giuspubblicistica; b) lascerebbe del tutto inalterato il problema interpretativo del riparto delle competenze legislative; c) si coniugherebbe in modo pienamente armonico tanto con il riferimento al paesaggio quanto con i riferimenti ad ambiente ed ecosistema, senza alcun pericolo di accentuare i problemi di confusione terminologica che senza dubbio caratterizzano la formula utilizzata nell’art. 117.

Il secondo possibile contenuto qualificante di un intervento di revisione della Carta costituzionale potrebbe invece collocarsi nell’ottica di una “revisione programma” o, quanto meno, di una revisione avente anche “effetti programmatici”.

Si tratterebbe di enunciare formalmente il principio di integrazione, alla maniera di quanto dispone l’art. 6 del trattato CE, ciò che costituirebbe senza dubbio la positivizzazione di quanto già oggi costituisce il frutto delle elaborazioni della Corte costituzionale, ma, al tempo stesso, si configurerebbe come un nuovo punto di partenza ordinamentale, in cui il diritto costituzionale giurisprudenziale viene a corrispondere con il diritto costituzionale positivo contenuto nella Carta. Una simile modifica, infatti, non sarebbe di pura facciata ma di sostanza, giacché sarebbe estremamente utile ad imporre ai legislatori l’attuazione in concreto di quella che si può considerare, assieme alla precauzione, come la principale linea di frontiera della tutela dell’ambiente.

Tuttavia, la considerazione che la Carta costituzionale non possa contenere tutto quello di cui c’è bisogno, soprattutto se si tengono presenti le complessità che dovrebbero caratterizzare la disciplina dei profili cui si è fatto riferimento nel paragrafo che precede, rende ragione di un’ulteriore opportunità di contenuto che un intervento di modifica del testo costituzionale potrebbe cogliere: l’introduzione nella Costituzione di un esplicito rinvio ad una apposita

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legge costituzionale sulla tutela dell’ambiente, alla quale affidare l’ambizioso compito di definire – in termini di diritto positivo – le basi e i principali fondamenti di quel “diritto dell’ambiente” sulla cui prospettiva ci si è intrattenuti fin dall’inizio delle nostre riflessioni.

5.6. L’opportunità di una legge costituzionale sulla tutela dell’ambiente

Da più di un decennio il dibattito dottrinale ha posto in

evidenza la necessità di disporre, anche sotto il profilo di chiare formulazioni normative, di un quadro definito di principî per la tutela dell’ambiente, al fine di procedere a quell’auspicata opera di razionalizzazione complessiva delle diverse e variegate normative in materia che è esigenza da tutti avvertita163. Peraltro, è di immediata evidenza che, qualora si intendesse perseguire tale obiettivo con il normale procedimento legislativo, potrebbe facilmente essere addotto il consueto argomento della scarsa efficacia dell’adozione di una legge di principî con fonte ordinaria; ciò che determinerebbe l’impossibilità di rendere i suoi contenuti vincolanti rispetto all’azione di sistemazione e razionalizzazione dell’esistente, nonché rispetto alla produzione legislativa successiva.

L’unica risposta plausibile contro questa obiezione è inevitabilmente quella di prefigurare un intervento di livello costituzionale, affidando l’adozione della legge di principî ad una fonte approvata con lo speciale procedimento individuato dall’art. 138 Cost. E non mancherebbero, d’altronde, argomenti per sostenere la natura anche “sostanzialmente” costituzionale di una simile disciplina, volta a definire i principî per la concreta attuazione – da parte dei legislatori – del valore costituzionale riconosciuto alla tutela dell’ambiente, dunque quei principî da ritenere sottratti alla disponibilità delle contingenti maggioranze chiamate a sostenere le funzioni di governo.

La legge costituzionale di principî potrebbe rappresentare lo strumento più idoneo per rispondere alle esigenze che si sono evidenziate. 163 Solo per un esempio, si veda il testo della bozza di legge di principî elaborato dalla Commissione istituita nel 1993 dal Ministro dell’ambiente Valdo Spini per la razionalizzazione della legislazione in campo ambientale, pubblicato in Riv. giur. ambiente, 1994, n. 3, con commento di B. CARAVITA.

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Costituirebbe, anzitutto, la sede naturale per distinguere gli ambiti oggettivamente propri della politica ambientale in senso stretto dagli ambiti pertinenti a politiche non ambientali nei quali debba operare l’integrazione trasversale delle esigenze di tutela paesaggistico-ecologica.

Darebbe la possibilità di effettuare per la prima volta una ricognizione e un’importante specificazione, attraverso una formulazione normativa puntuale e l’individuazione delle loro principali implicazioni, dei principî costituzionali sulla tutela dell’ambiente, così come emergono dalla giurisprudenza costituzionale e dall’ordinamento comunitario.

Consentirebbe di costruire apparati organizzativi e procedimenti di produzione normativa adeguati alle esigenze dell’integrazione trasversale degli interessi ambientali e dell’approccio precauzionale.

Renderebbe possibile individuare e disciplinare in via generale, gli istituti trasversali ai vari settori della disciplina ambientale, tenendo conto delle peculiarità che li caratterizzano (VIA e tutela integrata dagli inquinamenti; strumenti di programmazione e pianificazione; strumenti economici per la internalizzazione dei costi; sistema dei controlli; responsabilità e danni; sistema sanzionatorio).

Consentirebbe, infine, di individuare più puntualmente criteri di riparto di competenze tra i diversi livelli istituzionali, a integrazione e specificazione di quanto già stabilito nel Titolo V della Costituzione.

Con questi contenuti, la legge costituzionale di principî consentirebbe di evitare gli “atavici” difetti della normazione ambientale, da sempre costituita da interventi di “novellazione” stratificati nel tempo e frutto di logiche miopi ed emergenziali. Una simile riforma, infatti, avrebbe la capacità di orientare l’azione di razionalizzazione della normativa esistente, secondo un quadro organicamente definito; di fissare in modo stabile i punti di riferimento intorno ai quali consentire la costruzione dinamica e tempestiva di tutta la normativa successiva; di concentrare la disciplina degli istituti a carattere trasversale, alleggerendo l’opera di sistemazione delle legislazioni di settore.

5.7. Le altre ipotesi di intervento con fonte super-legislativa

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Da ultimo, si può soltanto brevemente accennare, in questa sede, alla possibilità di interventi di riforma attraverso l’utilizzo di altre fonti già contemplate nell’ordinamento, le quali – sia pure con un grado di efficacia più limitato in ragione del loro ridotto ambito di competenza – condividono con la legge costituzionale la capacità di vincolare la produzione legislativa ordinaria successiva.

Tra le fonti statali, deve essere considerata la già richiamata previsione contenuta nell’art. 116, terzo comma, Cost., il quale stabilisce che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) [norme generali sull’istruzione] e s) [tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali], possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principî di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».

Senza poter entrare nell’analisi dettagliata dei contenuti di tale disposizione e delle implicazioni di sistema che ne possano discendere, è sufficiente rilevare che – fermo restando il necessario rispetto dei vincoli procedurali e dei limiti sostanziali ai quali la “legge rinforzata” di riconoscimento della maggiore autonomia deve ritenersi subordinata – non vi siano soluzioni obbligate o “meccaniche” sotto il profilo dei possibili contenuti. Dalla norma costituzionale non è affatto dato ricavare che la maggiore autonomia regionale debba necessariamente dispiegarsi solo sul versante della potestà legislativa e solo nel senso dell’automatico spostamento (a favore della Regione) delle singole materie tra un tipo di potestà legislativa e l’altro: le materie di potestà concorrente, che potrebbero essere riqualificate come di potestà residuale regionale; le materie di potestà esclusiva statale che potrebbero essere riqualificate come di potestà concorrente o, a loro volta, di potestà residuale regionale. Una simile lettura dell’art. 116, comma 3, non sembra trovare alcun fondamento né sul piano dell’interpretazione del testo normativo né, tanto meno, sul piano della logica o della ragionevolezza.

In realtà, la competenza della fonte riservata è chiaramente individuata nel riconoscimento alla singola Regione di «ulteriori forme e condizioni di autonomia», sia pure all’interno degli ambiti materiali indicati; pertanto, oggetto della specifica disciplina da

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introdurre con il meccanismo dell’art. 116, comma 3, potranno essere – per ciascuna delle materie elencate al terzo comma dell’art. 117 e per le tre materie comprese nell’elenco del secondo comma (tra cui la «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema») – tutti gli aspetti relativi alla definizione delle sfere di autonomia regionale nel loro rapporto con le attribuzioni e i poteri dello Stato centrale.

In questa prospettiva, è evidente che si apre una varietà di opzioni astrattamente possibili ben più ampia della semplice e “secca” riqualificazione del tipo di potestà legislativa riconosciuta alla Regione in una determinata materia. Tali opzioni, come è naturale, si porranno e dovranno essere valutate in stretta correlazione con il “modello ordinario” di rapporti tra Stato e Regioni che – come si è sottolineato – non risulta ancora né interamente definito né consolidato, ma che, anche proprio dall’attuazione dell’art. 116, comma 3, potrà ricevere un rilevante contributo in questo senso. Sempre ragionando in astratto, infatti, un’attuazione seria ed effettiva del regionalismo differenziato non potrebbe fare a meno di considerare il complessivo assetto delle potestà normative (con la definizione di rapporti chiari tra legislazione statale e legislazione regionale e tra potere regolamentare dello Stato e della Regione), ma anche la distribuzione delle funzioni amministrative e delle risorse finanziarie con specifico riferimento alla Regione interessata, nonché – last but not least – la definizione di sedi e modalità di raccordo tra organi statali e organi regionali che possano garantire maggiormente l’autonomia della Regione e l’unità della Repubblica nel segno del principio di leale collaborazione.

Se questo è vero, è evidente che, sia pure limitatamente ai rapporti tra lo Stato e l’ordinamento della Regione singolarmente interessata, la legge “rinforzata” che attuasse il regionalismo differenziato di cui all’art. 116, terzo comma, Cost. nel campo della «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema», potrebbe rappresentare la sede per disciplinare molti degli aspetti che si sono sopra segnalati come contenuti auspicabili della legge costituzionale di principî.

Analogamente, sul versante delle fonti propriamente regionali (e, dunque, limitatamente a quanto si ritenga già attualmente spettante alla competenza delle Regioni), potrebbero essere utilmente utilizzati gli statuti delle Regioni ordinarie, i quali – come la stessa Corte costituzionale ha confermato anche nel vigore del nuovo art. 123 Cost. – possono anche contemplare contenuti eventuali rispetto ai contenuti c.d. “necessari” o “riservati”; così come non sembrerebbero sussistere

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problemi particolari ad utilizzare in modo analogo le “leggi statutarie” delle Regioni speciali; così come, ulteriormente, queste stesse fonti appena menzionate, nell’ambito della disciplina della forma di governo e del sistema delle fonti endoregionali, potrebbero prevedere l’emanazione di un’apposita legge regionale generale per la disciplina della «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» e dell’integrazione trasversale del valore costituzionale in questione nell’ambito delle politiche diverse, da approvarsi con procedimento aggravato e dunque in grado di prevalere sugli atti di legislazione ordinaria della stessa Regione.