la relazione con i non indigeni secondo i mebengokré del fiume bakajá

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142 Capitolo ottavo La relazione con i non indigeni secondo i mebengokré del ume Bakajá Introduzione Voglio qui proporre un’analisi dei processi di signicazione della rete di attori che operano nella quotidianità mebengokré, in parti- colare focalizzando come vengano visti i non indigeni, i kuben, da parte della comunità che abita le sponde del ume Bakajá nel Brasile centrale. Questo tema, al centro di un ampio dibattito che da alcuni anni vede coinvolta una importante parte dell’antropologia amaz- zonista, può permettere di far luce su alcune speciche modalità di relazione, sulle discorsività, sulle pratiche che attribuiscono e con- corrono a ridenire costantemente tali signicazioni. Erickson (1986), ad esempio, ha proposto di denire “alteri- tà costitutiva” la specica relazione che si viene ad instaurare con l’Altro nelle cosmologie, come quelle amazzoniche, caratterizzate da un’apertura all’alterità in cui è possibile riconoscere una strategia che minimizza l’innato enfatizzando l’acquisizione dall’esterno degli ele- menti costitutivi. Tale suggerimento deriva dalla considerazione che le economie amazzoniche sono indirizzate alla produzione di perso- ne e non di cose, il che avviene attraverso un lavoro rituale e simboli- co nalizzato a renderle soggetti (Seeger e altri 1979; Santos Granero 1986; Turner 1995; Brightman 2007; Galli 2012; Grotti 2012). In questo senso, è possibile riconoscere che il rapporto con le va- rie forme di Alterità deve essere compreso come un costante processo di produzione di relazioni tra soggetti che abitano il mondo. Questa è la proposta di Descola, secondo cui l’analogismo costituirebbe una forma di pensiero che permette di mettere in relazione i vari esseri, mantenendoli distinti gli uni dagli altri proprio perché assume come punto di partenza le dierenze, che però non si situerebbero nelle entità stesse, bensì nelle relazioni tra esse (Descola 2005). Una ac- cezione diversa è quella di Viveiros de Castro, che dimostra come il motore delle relazioni sia da ricercare nella constatazione che, secon-

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Capitolo ottavoLa relazione con i non indigeni secondo i mebengokré del !ume Bakajá

Introduzione

Voglio qui proporre un’analisi dei processi di signi!cazione della rete di attori che operano nella quotidianità mebengokré, in parti-colare focalizzando come vengano visti i non indigeni, i kuben, da parte della comunità che abita le sponde del !ume Bakajá nel Brasile centrale. Questo tema, al centro di un ampio dibattito che da alcuni anni vede coinvolta una importante parte dell’antropologia amaz-zonista, può permettere di far luce su alcune speci!che modalità di relazione, sulle discorsività, sulle pratiche che attribuiscono e con-corrono a ride!nire costantemente tali signi!cazioni.

Erickson (1986), ad esempio, ha proposto di de!nire “alteri-tà costitutiva” la speci!ca relazione che si viene ad instaurare con l’Altro nelle cosmologie, come quelle amazzoniche, caratterizzate da un’apertura all’alterità in cui è possibile riconoscere una strategia che minimizza l’innato enfatizzando l’acquisizione dall’esterno degli ele-menti costitutivi. Tale suggerimento deriva dalla considerazione che le economie amazzoniche sono indirizzate alla produzione di perso-ne e non di cose, il che avviene attraverso un lavoro rituale e simboli-co !nalizzato a renderle soggetti (Seeger e altri 1979; Santos Granero 1986; Turner 1995; Brightman 2007; Galli 2012; Grotti 2012).

In questo senso, è possibile riconoscere che il rapporto con le va-rie forme di Alterità deve essere compreso come un costante processo di produzione di relazioni tra soggetti che abitano il mondo. Questa è la proposta di Descola, secondo cui l’analogismo costituirebbe una forma di pensiero che permette di mettere in relazione i vari esseri, mantenendoli distinti gli uni dagli altri proprio perché assume come punto di partenza le di"erenze, che però non si situerebbero nelle entità stesse, bensì nelle relazioni tra esse (Descola 2005). Una ac-cezione diversa è quella di Viveiros de Castro, che dimostra come il motore delle relazioni sia da ricercare nella constatazione che, secon-

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do i popoli amazzonici, le relazioni tra umani e non umani seguireb-bero un modello sociale e quindi l’Altro sarebbe sempre una persona (Viveiros de Castro 2000), motivo per cui ciò che determinerebbe la posizione di soggetto sarebbe il “punto di vista” e quindi il mondo verrebbe visto a partire dalla propria posizione in esso (Viveiros de Castro 2002).

I gruppi del Brasile centrale, regione etnogra!ca cui appartengo-no i mebengokré del Bakajá, però, a lungo sono stati trattati come estranei a questa logica, principalmente a causa del fatto che le inda-gini etnogra!che li hanno caratterizzati come “dualisti” o “dialettici” (Maybury-Lewis, 1979). In anni più recenti questa visione è stata messa in discussione: autori come Lea (1986) o Giannini (1991) indicavano già la possibilità di avvicinare i due contesti etnogra!-ci in cui veniva divisa la regione, l’Amazzonia e il Brasile centrale. Ovviamente questo non signi!ca che non esistano di"erenze anche notevoli, ma che è possibile individuare tratti comuni che prendono forme confrontabili tra loro nei due contesti1.

Questo suggerimento è stato poi approfondito da nuovi studi che hanno enfatizzato come l’idea della “predazione” potesse costi-tuire un utile strumento per comprendere anche queste realtà, le quali non presentano un esplicito riferimento ad essa. Cohn (2005), all’analizzare la funzione della guerra tra i mebengokré del Bakajá mette in risalto come essa sia !nalizzata ad una costante appropria-zione di persone e nuovi beni dall’esterno. Non si tratterebbe però di una semplice acquisizione, bensì di un processo di incorporazione di ciò che si ottiene attraverso tale pratica. Gordon (2006), a sua volta, analizza le relazioni economiche dei mebengokré del Cateté con il mondo non indigeno, collocandole in relazione diretta e di continu-ità con le precedenti pratiche di appropriazione di beni dall’esterno, da altri collettivi umani o naturali, e dimostrando come tali elementi si inseriscano in una economia “simbolica” !nalizzata alla produzio-ne di persone.

1 Il dibattito a riguardo sia delle somiglianze e di"erenze tra Amazzonia e Brasile centrale, sia a riguardo della citata ri7essione che attribuisce agli enti presenti nel mondo una soggettività è molto più variegata dei brevi cenni che ne faccio qui. Una presentazione più ampia non è però possibile nello spazio di questo lavoro, motivo per cui voglio solo sottolineare come tale dibattito serva a de!nire i termini di una moltiplicazione dei soggetti presenti nell’esperienza quotidiana amazzonica (cfr. Bollettin 2011, Capitolo 1, per una discussione più dettagliata).

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Nella mia tesi di dottorato (Bollettin 2011) ho dimostrato co-me questo 7usso di persone e beni dall’esterno verso l’interno non rappresenti un fenomeno di accumulazione, ma si con!guri come il detonatore di una costante e necessaria attività trasformativa. I soggetti mebengokré si formano attraverso una perenne ria"erma-zione della propria soggettività, in cui alcuni elementi detti kukra-dja, materiali e immateriali, concorrono a de!nire “chi è chi”. In questo senso, ragionare sulla immagine del non indigeno all’interno della visione del mondo mebengokré signi!ca prima di tutto osser-vare questo processo trasformativo al cui interno il kuben acquisisce un ruolo speci!co. Ma questo processo trasformativo in costante movimento deriva, a mio avviso, proprio da quanto detto sopra a riguardo della produzione di di"erenze nella rete di relazioni, che determina ad ogni momento il “punto di vista” da cui si osserva il mondo.

Per proseguire, quindi, inizierò caratterizzando il contesto etno-gra!co cui faccio riferimento, per poi presentare alcune de!nizioni dei soggetti non indigeni proposte dai mebengokré e in!ne con-nettere queste ultime all’interno di una visione più ampia in cui i diversi soggetti coinvolti si trovano inseriti in una rete relazionale in costante movimento.

I mebengokré del !ume Bakajá e la formazione della persona

Il contesto etnogra!co nel quale ho avuto modo di fare la mia ricerca, che si è svolta in quattro esperienze di campo nel corso degli ultimi sei anni, è situato nell’area indigena Trincheira Bakajá, che comprende una vasta estensione territoriale nella cosiddetta Amaz-zonia occidentale. Gli abitanti di quest’area sono considerati e si auto-considerano “parenti” degli altri gruppi mebengokré-kayapó e con questi condividono diversi aspetti dell’organizzazione socio-culturale già conosciuti nella letteratura antropologica: il formato circolare del villaggio, con le case disposte attorno ad una piazza centrale, vista come il luogo della vita politica, rituale e sociale per eccellenza; l’enfasi riposta sulle attività cerimoniali, con un’attenzio-ne particolare per i rituali di iniziazione e di nominazione; la divisio-ne della comunità in gruppi maschili, che svolgono sia una funzione produttiva sia politica; l’importanza della divisione in classi d’età;

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l’uxorilocalità come residenza preferenziale2; ecc. I mebengokré del !ume Bakajá sono suddivisi in sei villaggi edi!cati lungo le sponde del !ume principale, che dà il nome all’area. Di questi villaggi, ben quattro sono stati edi!cati negli ultimi sette anni, segno evidente della forte ripresa demogra!ca dopo la decimazione che ha seguito il “contatto” con la società brasiliana, ma anche della preoccupazio-ne anche per l’occupazione del territorio che ne permette un mag-giore controllo. Questa moltiplicazione dei villaggi deriva anche da un’altra causa: come evidenzia Fisher a riguardo della fondazione del villaggio di Potikru (il secondo edi!cato, nel 1985) la scissione di una parte della popolazione dal villaggio iniziale era dovuta al successo dell’allora benadjure, “capo”, nel gestire le relazioni con i non indigeni (Fisher 1991, p. 466). Secondo questo autore, infatti, il 7usso di beni esogeni generò una competizione per l’ottenimento di essi, che a sua volta in7uenzò una rivalità interna tra le “fazioni rituali”, che culminò appunto nella scissione del gruppo. Anche nel caso della fondazione dei successivi villaggi è possibile riconoscere questa competizione per l’accesso privilegiato a ciò che proviene dal mondo dei kuben, il che dimostra come sia necessario osservare que-sta relazione attraverso il prisma della volontà di acquisire elementi dall’esterno (Bollettin 2011, pp. 295-309). In questo lavoro, però, farò riferimento principalmente al villaggio di Mrõtidjam, per due motivi: il primo è che lì vi ho trascorso la maggior parte del tempo della mia ricerca e il secondo è che questo villaggio viene riconosciu-to come quello che coordina le relazioni dell’insieme dei villaggi con il mondo non-indigeno dato che lì risiede Bep-eti, unanimemente considerato come colui che meglio conosce le strategie per gestire queste relazioni3.

2 Per una rassegna della letteratura su questi popoli rimando alla mia tesi di dotto-rato (Bollettin, 2011; Capitolo 1).3 Ad esempio è in questo villaggio che si tengono le riunioni con gli esponenti della FUNAI per coordinare i progetti legati alle misure compensatorie della diga idroelettrica di Belo Monte. Questo progetto di “sviluppo”, di estrema importan-za per il futuro della regione, non verrà da me a"rontato in questa sede, poiché meriterebbe molto più spazio di quello qui concessomi. Per una ri7essione sulla politica mebengokré nelle relazioni con i non-indigeni si vedano Fisher (1996) e Bollettin (2012). Inoltre bisogna sottolineare come il processo di riconoscimento di Bep-eti come interlocutore privilegiato tra l’interno e l’esterno della comunità non sia lineare, ma venga continuamente ride!nito, sia per la concorrenza interna di altri soggetti, sia per la necessaria legittimazione dall’esterno (Bollettin 2011,

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Si tratta di una popolazione relativamente giovane (circa metà ha un’età inferiore ai dieci anni), di circa seicento individui somman-do tutti i villaggi; a Mrõtidjam, il villaggio più densamente abitato, si possono contare circa duecentocinquanta residenti. È importante evidenziare però come si possa assistere ad una accentuata mobilità tra i diversi abitati: quando un ragazzo si sposa, ad esempio, si reca a vivere presso la famiglia della sposa e spesso questo implica il dover lasciare il proprio villaggio natale. Altre volte, invece, questa mobi-lità deriva dal desiderio di riconoscersi in una “autenticità” meben-gokré. Spesso infatti mi è stato detto che solamente i due villaggi di Bakajá e di Mrõtidjam possono essere considerati “autenticamente mebengokré”, già che negli altri, che sono situati più a valle del cor-so del !ume e quindi più vicini alla città di Altamira (la principale della regione), sono presenti anche abitanti di altra origine, come ad esempio alcuni mebengokré-kayapó che si sono uniti in matri-monio con donne mebengokré della comunità. Ciò risulta parti-colarmente interessante perché evidenzia come il processo di auto-riconoscimento sia costantemente ride!nito, e quindi necessiti di un continuo lavorio di formazione della mebengokricità4.

Se possiamo osservare, quindi, questo movimento di inclusione di nuovi elementi all’interno della sfera della mebengokricità, sep-pure in forma limitata, è importante anche osservare come si viene a formare una persona mebengokré. In questo senso, seguire come viene descritta la crescita del bambino permette di far emergere ele-menti importanti ai !ni di questo lavoro, perché in questo percorso è possibile identi!care due direttrici: una che va nella direzione della fabbricazione della parentela e l’altra verso un continuo movimento di trasformazione rituale !nalizzato a ristabilire di"erenze.

Il corpo del bambino, e prima il feto, sono considerati “molli”, per questo sono necessarie molte attenzioni in questa fase, non solo da parte della madre, ma anche dei padri, ossia degli uomini che

pp. 354-357). 4 Vale la pena di sottolineare come il processo di incorporazione in seno alla comu-nità di persone di altra origine sia una pratica comune tra i Mebengokré: rapimen-ti di donne da altre comunità indigene, prigionieri di guerra, bambini sottratti ad altri gruppi, o anche i matrimoni costituivano una pratica ricorrente (Cohn 2005). Il processo di mebengokrizzazione passava attraverso l’apprendimento del-la lingua, delle abitudini alimentari, delle regole sociali, ecc., processo che viene enfatizzato anche oggi dato che questo movimento di entrata di persone continua.

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hanno avuto relazioni sessuali con lei durante la gravidanza. Mi è stato spiegato, infatti, che il feto si costituisce durante i primi tre mesi circa nel ventre della madre attraverso un continuo apporto di sperma, motivo per cui la madre frequentemente ha relazioni ses-suali con il marito e con altri uomini durante gli “scambi” rituali tra famiglie. Successivamente, i rapporti sessuali vengono interrotti per evitare che si venga a formare un secondo feto e quindi il latte materno diviene il principale elemento di formazione del corpo del bambino. Dopo la nascita, comincia un lungo processo di “induri-mento” del corpo legato al fatto che è necessario che la pelle divenga su;cientemente dura, toi, per poter sopportare la forza degli ele-menti soggettivanti che la persona acquisirà durante i rituali, come i nomi, gli ornamenti, le prerogative. Questi verranno trasmessi so-lamente nel momento dell’iniziazione quando i ragazzi menoronyre e la ragazze mekurerere giungono al momento adatto per poter ricevere senza problemi tali elementi. La fase “adulta” è poi contraddistin-ta da ciò che si potrebbe de!nire come una progressiva perdita del corpo, che termina nel momento della morte. Se infatti i giovani iniziandi vengono considerati come coloro che presentano il mas-simo grado di “durezza” del corpo e di “bellezza”, allo stesso tempo non hanno ancora raggiunto un adeguato grado di “maturazione” e di conseguenza non possono, ad esempio, lavorare alcune sostan-ze considerate pericolose, svolgere attività sciamaniche, dividere le prede della caccia, perché altrimenti rischierebbero di invecchiare rapidamente accelerando così la morte. Gli adulti, coloro che han-no già avuto dei !gli, e gli anziani, coloro che hanno dei nipoti, al contrario, attraversano un percorso di progressiva perdita del corpo, ma acquisiscono la capacità di trasmettere ritualmente gli elementi soggettivanti che concorrono a formare la persona5.

Lo sviluppo del corpo, quindi, si lega allo sviluppo della socia-lità, i diversi passaggi attraverso cui viene riconosciuto lo sviluppo della soggettività marcano in parallelo la crescita !sica (ad esempio il camminare da solo, l’avere !gli, l’invecchiare) e l’inserimento del-la persona nelle reti relazionali e sociali e la possibilità di realizzare determinate azioni. La corporeità, quindi appare come il palco in 5 Ho trattato questo argomento anche in un altro testo, al quale rimando (Bollet-tin 2008). Per altre analisi dello sviluppo corporale secondo i mebengokré si ve-dano, oltre alla mia tesi di dottorato (Bollettin 2011), anche Vidal (1977, 1981), Cohn (2000, 2010) e Gordon (2012).

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cui si inscenano socialità e soggettività dell’individuo, in particola-re nei rituali di iniziazione e di nominazione, nei quali si assiste al riconoscimento del soggetto come parte di una rete più ampia di relazioni sociali che lo determinano in quanto tale. Ciò permette di a"ermare che l’identi!cazione di un soggetto si fonda sulla corporei-tà, la quale oggettiva la socialità che compone il soggetto. Per capire questo aspetto, credo sia utile ragionare su un rituale e su ciò che si costruisce in esso.

Non tutti i mebengokré passano per i rituali di iniziazione e di nominazione, il che determina che tale passaggio sia un fattore di di"erenziazione interna al gruppo, di"erenziazione che si lega al fatto che in questi momenti si “fa bella”, mei, la persona. Coloro che passano per questi rituali vengono detti mereremei, “coloro che diventano belli”, e ottengono in quel momento tali elementi sogget-tivanti detti kukradja. Questi ultimi, che possono essere prerogative rituali, oggetti, canti, nomi e altri elementi materiali e immateriali, concorrono a formare il soggetto, rendendolo mei, determinando la sua soggettività e inserendolo in speci!che reti di relazioni attraverso cui essi vengono trasmessi. Durante il rituale, quindi, si viene a de-terminare la formazione della soggettività dell’individuo, in maniera complementare con la formazione !sica, i due processi appaiono quindi come momenti non separabili nel determinare la speci!cità di ogni soggetto.

Il kukradja

Il kukradja costituisce un insieme di elementi che viene a de!-nire il soggetto propriamente mebengokré nelle sue speci!che re-lazioni6. Esistono diverse ampiezze cui si riconosce l’assegnazione 6 Prima di proseguire in questo discorso, è importante evidenziare come altri grup-pi mebengokré-kayapó, ma anche gli stessi Mebengokré-Xikrin del Cateté, e"et-tuino una distinzione tra i termini kukradja e nekrei. Quest’ultimo de!nirebbe tra i Mebengokré-Kayapó tanto elementi materiali quanto immateriali (Lea 1986). Tra i Mebengokré-Xikrin del Cateté il termine invece verrebbe utilizzato per gli adorni corporali, tanto che Gordon (2006, 2009) sostiene che originalmente esso sarebbe stato associato agli adorni piumari. Questo autore, comunque, propone una inclusione del termine nekrei all’interno del campo semantico del termine kukradja: «Questo è un termine più inclusivo, dato che anche i nêkrêjx vengono detti kukràdjà, ma di un tipo particolare (quest’ultimo ha un carattere più astrat-

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del kukradja: ad esempio mebengokré kukradja, cioè i kukradja dei mebengokré, quando questi elementi sono visti come parte di un patrimonio collettivo; menoron kukradja o metumre kukraja, rispet-tivamente kukradja dei giovani o degli anziani, quindi de!niti come prerogative di speci!che classi d’età; mem’ kukradja e menire kukra-dja, rispettivamente kukradja degli uomini e delle donne, riferiti a una distinzione di genere; e ikukradja “il mio kukradja” o Bep nho kukradja, “il kukradia di Bep”, quindi il kukradja individuale e spe-ci!co di una persona. Si comprende come tali elementi costituisca-no un insieme di prerogative, oggetti, conoscenze che funzionano a di"erenti livelli in maniera da poter soggettivare un individuo, ma anche distinguerlo da altri, allo stesso modo in cui ciò avviene per determinati insiemi di individui.

Il kukradja comprende sia gli oggetti sia le conoscenze, sia le prerogative rituali sia le reti di relazioni, con!gurandosi così come un’etica e un’estetica mebengokré (Cohn 2005). Si trova quindi in ogni spazio dell’ontologia mebengokré contribuendo alla costante produzione dei soggetti mebengokré, come evidenzia ancora Cohn:

«il kukradjà fa la persona mebengokré a diversi livelli: la costituisce, nella condizione di attributi e conoscenze; costituisce il repertorio ed il modo di fare rituale che attua nella sua costituzione; costitu-isce, in termini ancora più generici, le conoscenze necessarie per ogni azione (adeguata, appropriata, mebengokré), nel mondo, e che culmineranno nella produzione di persone, relazioni, a"etti – dice in questo senso qualcosa a riguardo di conoscenze produttive, fem-minili e maschili, tecniche ed esoteriche» (Cohn 2005, p. 174).

Il termine, quindi, viene a de!nire gli elementi che concorro-no alla produzione non solo dei soggetti, ma anche delle relazioni.

to o immateriale, mentre il primo denota qualcosa di più concreto e materiale). Così, ogni nêkrêjx è considerato kukràdjà, ma non tutti i kukràdjà sono considerati nêkrêjx» (Gordon 2009, p. 11). Durante la mia ricerca non ho registrato riferi-menti a una distinzione tra elementi materiali ed immateriali, concreti e astratti, pertanto utilizzo il termine kukradja per denotare l’insieme delle parti e le parti stesse, senza distinzione. In ogni caso, ritengo che sia importante sottolineare que-sta distinzione perché permette di evitare incongruenze con altri lavori etnogra!ci sul tema. Questo tipo di elementi non sono esclusivi dei Mebengokré: anche altri gruppi amazzonici presentano categorie classi!catorie dei beni soggettivanti che possono essere lette in parallelo, si veda a proposito Coelho de Souza (2005).

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Una caratteristica signi!cativa è che tali elementi che costituiscono il kukradja hanno una origine esterna nell’universo mebengokré: «il Kukradjà è spesso scoperto al di fuori del villaggio tra i popoli vici-ni, o anche tra i bianchi» (Fisher 2001, p. 118) e tale processo non si esaurisce nel tempo mitico o nel passato. È invece costantemen-te attualizzato, in quanto vengono continuamente introdotti nuovi elementi all’interno del kukradja, tanto individuale che collettivo. Trattandosi quindi di un insieme sempre rinnovato, può essere visto come un 7uire di conoscenze, saperi, attributi, oggetti, prerogative, più che come un insieme propriamente detto.

Un’altra caratteristica del kukradja è la sua esclusività (Bollettin 2011)7: per poter e"ettivamente rendere una persona mei, bella, ve-ra, corretta, esso deve essere esclusivo del soggetto, nel senso che una sua eccessiva condivisione rischia di diluirne la capacità di sogget-tivazione. L’esclusività e la rarità di un elemento è ciò che lo rende propriamente un kukradja. Non si tratta di elementi che si manten-gono costanti come marcatori di soggettività, ma di elementi che devono essere costantemente rinnovati per poter rendere e"ettiva questa loro proprietà distintiva. Gli elementi che costituiscono il kukradja, quindi, possono acquisire un valore maggiore o minore in base al processo di trasmissione perché nel momento in cui un elemento diviene proprio di un eccessivo numero di individui esso perde il proprio carattere distintivo.

Un esempio concreto chiarirà meglio questo punto: la capacità, ma soprattutto la possibilità, di confezionare i cesti di paglia co-munemente utilizzati per trasportare oggetti non viene considerata come un elemento kukradja, ma la capacità, e soprattutto la possi-bilità, di confezionare cesti di paglia che poi vengono dipinti in una maniera speci!ca è sì una prerogativa del mio ospite, Bepkro, il qua-le ha imparato a confezionarli durante la sua permanenza presso la Casa do Índio di Belem: solo lui li fabbrica, il che fa sì che tale abilità venga considerata un suo kukradja, così come gli oggetti prodotti. Nel momento in cui una prerogativa rimane esclusiva di un soggetto o di un gruppo mantiene una potenzialità di di"erenziazione che rende il soggetto mei, quando invece viene condivisa essa perde tale caratteristica: così i cesti comuni non sono considerati kukradja, al contrario, quelli ornati di Bepkro lo sono.7 Si vedano a proposito anche Lea (1986); Fisher (1991); Cohn (2005) e Gordon (2006).

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La di"erenza tra oggetti e beni di prestigio e di uso comune è stata indicata anche da Silva nella sua indagine sulla tecnologia me-bengokré, sottolineando una di"erenza tra oggetti “curati” e ogget-ti “espedienti”. Il primo tipo è una: «produzione di beni materiali la cui manifattura e uso sono previamente piani!cate, implica una manifattura elaborata, e il previo ottenimento e preparazione del-la materia prima» (2000, p. 128). Ella distingue questa tecnologia da quella che de!nisce come “espediente”, che riguarda quei beni e quelle tecniche !nalizzati solo a uno scopo momentaneo. Nella pri-ma tipologia si tratta di una modalità di realizzazione di oggetti che si con!gura come particolarmente curata e che segue speci!ci canoni di realizzazione, determinati sia da una estetica !nalizzata a renderli mei, “belli” in senso conforme alle rappresentazioni simboliche, sia da una coerenza con il sistema di prerogative che permettono una soggettivazione del produttore. Pensando al processo trasformativo in cui si troverebbero inseriti i termini in relazione, processo che può vedere invertite le posizioni di soggetto e oggetto della trasfor-mazione, si può intravvedere in questi beni “curati” una capacità di agentività sul loro realizzatore e portatore.

Si comprende così come non tutti i beni e non tutte le cono-scenze e tecniche siano considerati kukradja di un individuo o di un gruppo di individui, ma solamente quelli che rappresentano attributi che consentono la soggettivazione dell’individuo. Il poter realizzare un artefatto, una danza, un canto, il poterli utilizzare per identi!care e oggettivare una soggettività speci!ca all’interno di un campo relazionale rappresentano quindi solamente una parte delle condizioni che ne determinano il valore di"erenziale. Il kukradja de-ve essere trasmesso attraverso una corretta procedura che coinvolge soggetti in relazione tra loro, ossia coinvolge e determina i soggetti nelle loro posizioni relazionali. Turner traduce il termine con queste parole: «cose che ci mettono molto tempo ad essere dette», «tutte le tradizioni di ogni tipo, dalle canzoni cerimoniali !no alla partenza di un motore fuori bordo» (Turner 1988, p. 199).

In tale continua ricerca di elementi di"erenzianti i mebengokré si sono appropriati, nel corso del tempo, di una molteplicità di ele-menti dall’esterno8. Questo processo di acquisizione continua nel 8 Alcuni esempi di questo processo di acquisizione sono il rituale di Bo, che è stato importato dai Karaja, ed i nomi, che provengono dai pesci secondo i racconti mitici (Bollettin, 2011).

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tempo ancora oggi e nuovi elementi vengono costantemente acqui-siti dall’esterno ed entrano nelle disponibilità di oggetti, di cono-scenze e di pratiche e vengono assimilati come kukradja. Tuttavia questa origine esogena determina una ulteriore necessaria ri7essione su come questi elementi possono essere coerentemente assorbiti a costituire l’individuo. Coelho de Souza propone a riguardo il con-cetto di “metamorfosi rituale” (Coelho de Souza 2005) come chiave per comprendere questa possibilità; Gordon si spinge oltre, parten-do dalla constatazione che il concetto di kukradja, tradotto anche come “cultura”: «rinvia ad una nozione di parte» (Gordon 2003, p. 312). Pertanto l’appropriazione dall’esterno di elementi !nalizzati a soggettivare all’interno deriverebbe dalla necessità di mantenere un costante 7usso di elementi, perché:

«La “cultura” non sarebbe, in questo modo, una totalità circoscrit-ta, ma parte di un 7usso di conoscenze, saperi ed attribuzioni che popolano il cosmo e di cui ci si può appropriare a diversi livelli. Essa può, quindi, ricevere successivi apporti (o perdite), ad esem-pio, nuove parti (nuove conoscenze o attribuzioni), che vengono a comporre, così, una nuova parte di “qualcuno” (colui che se ne appropria: sciamano o guerriero), ed eventualmente una nuova par-te di tutti i mebêbêngokre. Così i kukràdjà (e nêkrêjx) che un indi-viduo “scopre” e di cui si appropria da un Altro – visti come “cose belle” (möja mejx) o potenti – divengono una parte distintiva della propria persona (i-kukràdjà), e un segno della relazione così stabilita con quest’Altro. E come tale potrà essere trasferita ai suoi parenti»” (Gordon 2003, pp. 312-313).

Questa ri7essione presenta alcuni punti che necessitano di essere approfonditi. Gordon glossa il termine kukradja come “cultura”, allo stesso modo come lo fanno anche i mebengokré e sottolinea la co-stituzione strati!cata del kukradja, ossia gli attributi del soggetto che lo determinano come tale risulterebbero proprio da questo costante 7usso di elementi che necessariamente devono continuamente essere introdotti nel suo “patrimonio”. Perché siano e"ettivamente carat-terizzanti è infatti necessario che si mantengano un bene scarso ed è necessario scoprirne e importarne sempre di nuovi, per evitare che essi si svalutino nei continui processi in cui vengono trasmessi.

Il momento rituale in cui si acquisiscono e si trasmettono i ku-kradja si con!gura come espressione della potenzialità relazionale in

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cui si trova inserito il soggetto. I kukradja non hanno una capacità soggettivante indipendente dalle reti relazionali. Osservare il kukra-dja come un insieme di parti ne mantiene comunque la caratteristica di elemento “oggettivabile”, di elemento che può essere preso indi-pendentemente dal suo 7uire. Personalmente ritengo che sia proprio il circolare di questi elementi, come oggettivazione di relazioni, o meglio la capacità di oggettivare relazioni detenuta da questi beni, da queste prerogative e tecniche, che così tendono ad assumere la posizione di soggetto agente nella “metamorfosi” (per usare il ter-mine di Coelho de Souza) del soggetto mebengokré, che ne attiva il potenziale. Cohn, discutendo degli ornamenti corporali come parte del kukradja di una persona, evidenzia come:

«gli ornamenti rituali sono in questo senso supporto di una identità personale, qualcosa che rende questa importante parte della perso-na mebengokré visibile. Con questo voglio dire due cose: la prima, che non è l’oggetto che conta, ma il signi!cato che esso veicola; la seconda, che allo stesso tempo, l’oggetto è cruciale perché esplicita ciò che costituisce la persona» (Cohn 2005, p. 88).

Secondo Cohn i kukradja concorrono a formare il soggetto nella misura in cui fungono da “supporto”, ossia agiscono nella e"ettiva-zione della persona mebengokré. Diviene quindi importante pensare ai beni ad alle tecniche del mondo non indigeno, che presenterò tra poco, come a un tipo di elementi che concorrono ognuno a determi-nare e a modi!care costantemente il soggetto, costituendo il motore del 7usso trasformativo della realtà locale. La relazione con l’esterno per la loro acquisizione diviene importante perché permette di ren-derne concreta l’acquisizione.

La possibilità trasformativa del rituale

Prima di vedere più da vicino il processo di soggettivazione del non indigeno, però deve essere evidenziato anche un altro aspetto del rituale: in esso, vestendo le corone di piume ed emettendo grida stridule, i mebengokré dicono che si trasformano in are o in gia-guari. Queste a"ermazioni sono state oggetto di una molteplicità di interpretazioni. Turner a"erma che: «“divenire ara” è diventare piena-

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mente umani, nel senso di un essere sociale capace di trascendere e ricreare struttura e signi!cato della vita sociale» (1991, p. 150), ossia che trasformandosi in ara il soggetto acquisisce le abilità dell’uccello, il vedere il mondo come un insieme, che gli permetteranno l’espres-sione di una corretta maniera di essere. Giannini complica un po’ le cose presentando ulteriori !gure transitorie che intervengono nel cor-so del rituale, gli uomini-giaguaro, i quali poi divengono arpie una volta socializzati nel rituale stesso, e conclude che «l’identità umana e sociale sarà ottenuta solamente con l’identi!cazione degli umani con gli uccelli» (Giannini 1991, p. 139), come dimostra la trasformazione degli uomini-giaguaro in uomini-uccello. Gordon, a sua volta, mette in risalto il legame con un mito delle origini in cui due eroi ancestrali liberano l’umanità uccidendo una arpia gigante, per a"ermare che:

«le piume che vengono prese da Àkti e, da qui in avanti, dagli uccelli, rimarranno come segno o indice (oggettivato) dell’incorporazione della potenza agentiva dell’ “uccello predatore”, segno del cambia-mento di direzione della relazione “agente-paziente” (o “soggetto-oggetto”), che verrà revivi!cata nel rituale» (Gordon 2003, p. 166).

Cohn a"ronta l’argomento sostenendo che ciò che crea gli uma-ni sono le piume utilizzate nei rituali, le quali derivano, per la loro trasformazione da uccelli a piume, dalla caccia, dalla guerra o dallo scambio (Cohn 2005, p. 85), ossia a"erma che sarebbero le azioni collettive ciò che viene a"ermato nella trasformazione in ara.

Da queste ri7essioni si evince che l’importanza del momento tra-sformativo, quindi, risiede nel riconoscimento da parte degli altri, nella partecipazione, nella empatia dei partecipanti verso coloro i quali si trasformano in uccelli. Solamente con la partecipazione col-lettiva, con il riconoscimento collettivo, si possono rendere e"ettive le potenzialità che derivano dal trasformarsi in uccelli. Inoltre, ciò che viene cercato ed ottenuto, se il rituale ha successo, è la conferma ed il riconoscimento collettivo della soggettività che dal rituale si de-ve esprimere, più che la sua costituzione, la quale avviene attraverso relazioni altre: con i genitori, reali o !ttizi, con le pratiche corporali o l’attribuzione del nome, ecc. Si comprende, così, come l’atto della trasformazione nel rituale sia un momento collettivo, proprio perché della collettività ha bisogno per essere e;cace.

Ma credo che si possa andare ancora oltre, mettendo in relazione l’avvenimento rituale con il discorso mitico. In quest’ultimo, infatti,

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appare chiaramente ed esplicitamente come il processo trasformati-vo sia un processo immanente all’esperienza del mondo: il giaguaro, il pesce e gli altri animali, ma anche i fenomeni naturali, hanno origine dall’uomo, il kuben dal mebengokré. Può quindi essere uti-le osservare questo continuo processo di trasformazione, nella sua importanza collettiva, come una esplicitazione di potenzialità che sono intrinsecamente costitutive della mebengokricità. In questa di-rezione sembra andare Viveiros de Castro, quando a"erma che il ritorno al tempo del mito non signi!ca il procedere nella direzione di una indi"erenziazione generalizzata, bensì di «una di"erenza in-!nita, ma interna ad ogni personaggio o agente (al contrario delle di"erenze !nite ed esterne che codi!cano il mondo attuale)» (Vi-veiros de Castro 2000, pp. 40-41). Riproducendo l’esperienza del mito, nel racconto dello stesso o nel rito poco importa, quindi, si tornerebbero ad esprimere potenzialità intrinseche che permettono in questo modo l’esplicitazione dell’umanità. Detto altrimenti, la trasformazione in uccelli, o in giaguari, rimette il mebengokré nella condizione di poter esprimere la propria umanità. Vestirsi con le piume, quindi, e con ciò trasformarsi in ara, oppure rivivere il mito, e trasformarsi in giaguaro o arpia, o ancora vestire i panni del kuben, e divenire mebengokré e kuben allo stesso tempo, e impararne le pratiche, divenendo meccanici o farmacisti, permette di diventare umani nella misura in cui permette di riconoscere le relazioni che vengono veicolate attraverso tali narrazioni e tali pratiche.

Gli attori non indigeni

Voglio adesso concentrare la mia attenzione su alcuni attori non indigeni che rivestono una speciale importanza nella quotidianità locale e per farlo credo sia utile partire da come vengono nominati, ossia da come vengono riconosciuti e de!niti. Quelli con i quali la comunità mantiene relazioni più o meno costanti possono essere identi!cati nei funzionari della Fundação Nacional do Índio (kuben benadjure), quelli della Fundação Nacional de Saúde (pidjy ngary djwynh) e della Secretária Especial de Educação (piono,ok djwynh), nelle imprese di sfruttamento minerario e forestale (kuben-ken-ku-pex-djwynh e pi-ngãry-djwynh), negli allevatori e braccianti (puru-ti-kamͿpex-djwynh e kube-nho-myja-ket), nei commercianti delle città

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vicine (myja-ngary-djwynh) ed in!ne negli antropologi (kube-kàja-ka). Ovviamente questa lista non è esaustiva, ma può essere impor-tante per evidenziare alcune caratteristiche della logica classi!catoria utilizzata dai mebengokré.

Si può inizialmente notare che, escludendo i braccianti e gli an-tropologi, gli altri hanno una de!nizione nella lingua locale che rimanda alle attività pratiche che eseguono. Così, ad esempio, i funzionari della Secretária Especial de Educação vengono identi!cati come “coloro che scrivono” perché essendo i professori della scuola hanno l’abitudine di utilizzare la parola scritta per fare lezione nel villaggio. Un aspetto da sottolineare è che nel villaggio di Mrõtidjam i due professori soggiornano solamente durante il periodo delle le-zioni e che sono entrambi non indigeni (diversamente da altre real-tà amazzoniche dove questo incarico viene assunto direttamente da membri della comunità). Questo determina che la relazione che si instaura sia estremamente volatile: i professori passano lì poco tempo e cambiano continuamente, motivo per cui apprendono molto po-co della lingua mebengokré, il che costituisce un impedimento alla creazione di relazioni più strette. La conoscenza della lingua, infatti, rappresenta una condizione per il riconoscimento di una “umanità” propriamente detta: gli stessi prigionieri di guerra prima di essere inseriti nelle reti sociali (parentela, amicizia formale, matrimonio, ecc.) dovevano infatti apprendere la lingua mebengokré, perché così divenivano “persone” (Bollettin, 2011, p. 213; Cohn, 2005, p. 114).

I funzionari della Fundação Nacional de Saúde vengono chiamati “coloro che danno le medicine”, in quanto prestano la prima as-sistenza sanitaria già nei villaggi attraverso la somministrazione di farmaci. In questo caso la situazione si complica, perché nonostante ci sia una forte mobilità di questi funzionari, come dei professori, coloro che io ho personalmente conosciuto acquisivano una mag-giore padronanza della lingua, ma rimanevano comunque ai margini dei con!ni del villaggio, dato che la farmacia è situata al di fuori del cerchio delle case. La loro funzione di distribuire le medicine acqui-sisce quindi un carattere determinante nella de!nizione di questi soggetti: i mebengokré si recano quotidianamente a assumere qual-che medicina dei kuben, lamentando problemi di salute che gli stes-si funzionari mi hanno spesso detto essere “immaginari” (Bollettin 2011, pp. 208-215). Sia come sia, che esistano o no questi disturbi della salute, i mebengokré riconoscono ai funzionari della Fundação

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Nacional de Saúde questa speci!ca funzione di distribuire tali “beni”. Nonostante sia presente un Atendente Indígena de Saúde, ossia un indigeno incaricato di ausiliare il funzionario nella farmacia, spesso ho ascoltato i membri del villaggio a"ermare esplicitamente di non volere le medicine da lui, ma dal funzionario.

Gli allevatori sono «coloro che fanno i grandi campi», già che usualmente lavorano in grandi estensioni di terra, e così via. In par-ticolare i mebengokré del villaggio di Mrõtidjam intessono relazioni più o meno strette, e più o meno con7ittuali, con alcuni proprietari della regione: a volte ospitandosi nelle loro proprietà quando vi tran-sitano, altre volte richiedendo ausilio per la fornitura di alimenti o combustibile, ecc. Una caratteristica importante che mi è stata più volte sottolineata, però, è che questi disboscano vaste estensioni di terra in cui “fa caldo” al contrario della foresta, e quindi del sistema produttivo mebengokré, in cui “fa freddo”. Questa comparazione esplicita rende evidente anche in questo caso come la loro capacità di creare grandi appezzamenti coltivati o grandi pascoli ne determina la speci!cità in maniera chiara.

Un discorso a parte meritano i braccianti, che sono chiamati «co-loro che non possiedono nulla», ossia un riferimento esplicito alla povertà che spesso caratterizza i lavoratori rurali salariati della regio-ne. Ciò, però, dimostra anche come una caratteristica importante del kuben consista proprio nel possesso di beni speci!ci, come emer-ge anche dal mito di Wapmekaprã, il primo non indigeno, in cui egli quasi si identi!ca con i suoi beni e che riporterò tra poco. Non possederli costituisce così una caratteristica di primaria importanza secondo i mebengokré, già che proprio attraverso questa caratteriz-zano questa parte dei kuben. Lo spostamento semantico diventa an-cora più evidente al considerare che due braccianti vengono stipen-diati dai mebengokré per prendersi cura di un piccolo allevamento che questi detengono in prossimità di uno dei limiti dell’area indi-gena, la loro subalternità nei confronti dei mebengokré viene resa attraverso riferimenti ad una loro incapacità di procacciarsi da soli il cibo. Il saper fare, anche in questo caso, diviene l’elemento chiave di una classi!cazione locale.

Vorrei anche spendere alcune parole per analizzare l’immaginario costruito sugli antropologi, i quali vengono identi!cati attraverso un colore, “bianco”, una enfatizzazione della distanza, ossia se il kuben viene chiamato in portoghese branco dai mebengokré quando utiliz-

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zano l’idioma brasiliano, l’uso della de!nizione “straniero bianco” segnerebbe una separazione ancora maggiore. Ciò penso che sia una conseguenza del fatto che il primo antropologo che ha passato mol-to tempo tra loro non era brasiliano e quindi veniva riconosciuto come straniero anche dagli stessi kuben con i quali i mebengokré avevano una relazione più frequente, ossia quelli che abitano la re-gione. Ma questa ragione non spiega totalmente questa di"erenza, che nella mia opinione deve essere cercata nella di"erente attitudi-ne dimostrata dagli antropologi che hanno studiato la comunità. Il desiderio di conoscere la lingua, i costumi, i miti, in!ne tutto ciò che generalmente rientra nella de!nizione di “cultura”, e che i mebengokré traducono come kukradja, colloca gli antropologi su di un piano di"erente, perché dimostrano un interesse nell’imparare, passaggio fondamentale nel processo di apprendimento, ma anche di creazione del soggetto mebengokré, con la conseguente possibilità di un avvicinamento maggiore alla socialità appropriata. Ciò risulta evidente anche dalla “appropriazione” da parte di ogni villaggio di uno speci!co antropologo: in occasione della mia visita nel 2009, infatti, un anziano della comunità mi è venuto a salutare dicendomi che non potevo dimenticarmi di loro perché: «noi siamo i tuoi indi-geni». Questa a"ermazione risulta particolarmente rilevante perché evidenzia come si venga a creare un legame che può essere visto in maniera speculare: se loro sono i miei indigeni, allora io sono il loro antropologo.

L’elenco potrebbe continuare, ma già da questi esempi è possibile evidenziare come siano i gesti quotidiani ciò che de!nisce le diver-se soggettività dei kuben con cui loro entrano in relazione. Questa caratteristica del pensiero mebengokré emerge anche al considera-re i racconti mitologici. La socialità del giaguaro viene modi!cata nell’atto di donare il fuoco all’uomo, non perché il primo non lo detenga più, ma perché non può più cucinare gli alimenti. La capa-cità di e"ettuare una azione speci!ca diviene quindi elemento deter-minante per la costruzione di una speci!ca forma di essere. Prima di continuare in questa direzione, però, voglio presentare il mito di Wapmekaprã, il primo non indigeno, perché da esso sarà possibile estrarre alcune considerazioni rilevanti per questa ri7essione.

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Wapmekaprã, il primo non indio

Il racconto che segue mi è stato riportato in diverse versioni da più di un membro della comunità, ciascuna con lievi scostamenti da una struttura comune. Non mi so"ermerò però su questo aspetto, perché nel complesso si può dire che i tratti salienti rimangono co-stanti, per questo motivo riassumerò qui il racconto a partire dalle diverse versioni che ho potuto raccogliere.

«Wapmekaprã uccise la propria !glia, mentre l’altro !glio si svegliò, vide ciò che il padre aveva fatto e disse alla madre ciò che aveva osservato. A quel punto il !glio e la madre cominciarono a riunire tutto il popolo per uccidere Wapmekaprã. Ma lui, pur ucciso una prima volta, tornò di nuovo, quindi la madre gridò a;nché il po-polo lo uccidesse ancora una volta. Il popolo lo uccise nuovamente e tutti andarono a sbarazzarsi lontano del corpo. Ma poi scoprirono che lui era di nuovo in vita e che era andato via, quindi lo cerca-rono per ucciderlo un’altra volta. Ma non lo trovarono perché lui era andato via, !no a che egli non tornò di nuovo al villaggio. La moglie gridò al popolo di ucciderlo di nuovo, ma Wapmekaprã dis-se al !glio ed al popolo che dovevano lasciarlo in pace, perché era solamente venuto a prendere ciò che era suo. Disse: “Sono venuto a prendere ciò che è mio, non sono venuto per te, adesso vado via con le mie cose e non tornerò più. Vado a vivere là nella foresta”. Wapmekaprã scomparve e non tornò perché non gli piaceva che lo avessero ucciso. Passato del tempo il popolo andò a cercarlo e scoprì dove si trovava. Il !glio radunò le donne della comunità per andare a prendere le cose del padre e portarle al villaggio, così tutte le donne si recarono dove Wapmekaprã abitava, e fu il !glio che le portò lì. Quando arrivarono alla sua capanna, Wapmekaprã disse: “Una donna di ogni famiglia deve entrare per scegliere ciò che vuole portare con sé”. Così loro entrarono nella sua capanna e scelsero qualcosa da portare via: alcune presero ornamenti piumari, stuoie, cesti, archi, frecce, mazze da guerra e uscirono dalla capanna. Altre presero maceti, coltelli, fucili e restarono dentro la casa. A quel pun-to giunse la sposa di Wapmekaprã che disse: “Ciao marito mio…”. Ma lui rispose: “Dov’è tuo marito? Qui c’è il tuo nemico” e prese il machete e la uccise tagliandola in due. Fatto ciò chiuse la porta della capanna a;nché nessuno potesse uscire. Dopo di che Wapmekaprã imbarcò tutte coloro che stavano dentro la sua capanna nella pro-pria canoa e le portò via. Tutti loro diventarono stranieri (kuben).

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Gli altri membri del popolo li cercarono ma loro non c’erano più. Erano già andati dall’altro lato del grande !ume».

Questo racconto riporta alcuni elementi signi!cativi per compren-dere la costruzione del non indigeno nell’esperienza locale: egli com-pie gesti antisociali, si allontana !sicamente dal resto dei compagni e produce nuovi beni. Come si può evincere egli si identi!ca con questi ultimi, che egli produce da solo, lontano dagli altri. Egli produce quindi, assieme con essi, anche una nuova forma di soggettività che si di"erenzia dalla sua precedente “mebengokricità”. La produzione materiale, quindi, e con essa le attività connesse, divengono processi legati alla produzione di persone, come detto anche in precedenza. Ovviamente questo non è l’unico contenuto del racconto, ma esso appare come il più rilevante perché permette di osservare come esista una associazione evidente tra il sapere, e potere, fare qualcosa e un speci!ca soggettività. Questo sapere o potere fa parte di quell’insieme di elementi propri di un soggetto speci!co, il suo kukradjá.

Un altro elemento che risulta chiaramente è che il kuben altro non è se non una trasformazione del mebengokré, aspetto questo particolarmente signi!cativo se posto in riferimento con quanto det-to più sopra a proposito della necessità di riprodurre un processo metamor!co come strumento di concretizzazione del mebengokré. Cohn ha già enfatizzato questo aspetto: «l’Altro sarà sempre, in qual-che maniera, una trasformazione dello Stesso, nel passato o nel futu-ro, un ex-io o un divenire-io» (Cohn 2005, p. 38).

Si può facilmente vedere come viene sottolineata la corretta socia-lità di un individuo, la quale si oggettiva nelle relazioni di questi con gli altri soggetti. È a seguito di un atto antisociale, l’uccisione appa-rentemente inspiegabile della !glia, che Wapmekaprã è costretto a fuggire dal villaggio e dalla comunità, la violenza che gli altri membri del gruppo usano contro di lui tentando più volte di eliminarlo !-sicamente non è che la conseguenza di un precedente gesto che egli compie. Da ciò si può evidenziare come il mito esprima una speci!ca visione della socialità nel proprio discorso: l’uomo è tale se riesce a vivere in comunione con gli altri attraverso speci!che modalità rela-zionali e qui c’è subito un primo punto di ri7essione sulla di"erenza del kuben. Questi è presentato come un essere antisociale, non in grado di vivere collettivamente secondo quelle che sono le corrette modalità e per questo diviene meno “umano”. Come detto più sopra,

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infatti, una persona deve venire inserita all’interno della collettività attraverso diversi legami, rituali, di parentela, di amicizia formale, di consanguineità o a;nità, ecc., che la rendono pienamente descrivi-bile come essere umano e che vengono oggettivati in speci!ci beni o prerogative. Non realizzando questi vincoli, Wapmekaprã esce dalla sfera della socialità propriamente mebengokré per andare a fare parte di una nuova forma di socialità, esplicitata attraverso lo spostamento e la separazione !sica, egli si reca a vivere nella foresta da solo.

Questo, però, non vuol dire però che egli esca dalla sfera dell’uma-no, egli continua ad essere una persona, solo che assume una moda-lità di costruire le relazioni che si di"erenzia da quella propriamente mebengokré. Questa alterità che si viene a creare a seguito della sepa-razione di Wapmekaprã dal resto del gruppo si basa, comunque, su un presupposto di somiglianza, non si tratta di qualcuno o qualcosa che viene dall’esterno e quindi irrimediabilmente separato, è invece la scissione di una parte del gruppo che da’ origine alla diversità, permet-tendo così una comunicazione tra le parti. Non è per caso, infatti, che tutti i momenti di massima tensione drammatica del mito si risolvano attraverso il dialogo, ma questo rapporto che all’inizio è possibile tra le parti poi diviene irrimediabilmente impossibile, dato che sempre tutto si risolve in atti violenti. La di"erenza tra Wapmekaprã e gli altri membri della comunità viene enfatizzata in varie forme, innanzitutto egli è in grado di sopravvivere alla morte e questa immortalità lo ren-de diverso dal resto del genere umano, ma oltre a questa capacità non umana egli si distingue per una disposizione asociale, per una rottura della possibilità relazionale, l’atto omicida dell’inizio del racconto.

Oltre a ciò, è da evidenziare come la di"erenza tra Wapmekaprã e gli altri mebengokré sia più marcata ancora in seguito alla capacità del primo di “produrre” oggetti che gli altri non hanno la capacità di “produrre”, e di farlo in maniera autonoma. Gli oggetti che egli riesce a produrre, i suoi kukradja, lo rendono fatalmente diverso, straniero, “altro”, kuben. La di"erenziazione di Wapmekaprã passa, quindi, attraverso l’instaurarsi di una concorrente forma di socialità, marcata dall’impossibilità di mantenere una comunicazione “paci-!ca” con i mebengokré, ma allo stesso tempo essa viene oggettivata dalla produzione dei nuovi beni. Come enfatizza Cohn:

«Wagmekaprã si rivela così l’Altro irriducibile, con il quale non sarà più possibile stabilire relazioni, e la cui produzione materiale e di

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persone, rinforzerà sempre più la separazione, e incomunicabile co-me è, non bene!cerà i mebengokré» (Cohn 2005, p. 42).

Il fatto che i beni vengano prodotti da Wapmekaprãn quando questi si trova già al di fuori della comunione mebengokré implica una distanza che rimanda a quanto detto in precedenza. Prendendo in prestito una ri7essione di Gordon (2006), si può dire che il pro-blema per i mebengokré è come ottenere questi beni senza per que-sto trasformare la propria socialità in qualcosa d’altro, nella socialità kuben di Wapmekaprã. I beni esogeni, e le capacità di produrli, por-tano con loro il pericolo di trasformare i mebengokré in un processo di kubenizzazione che rischia di far perdere loro le caratteristiche dell’essere mebengokré. In questo senso, un suggerimento di Stra-thern può risultare molto utile per comprendere l’importanza dei beni nella ricostruzione mitica dell’origine del kuben:

«Se l’ideologia del dono suppone che il lavoro produce relazione tra persone, allora la controcritica potrebbe puntualizzare che mentre le relazioni sono sostenute attraverso la mediazione delle cose, queste cose hanno un’esistenza indipendente e un carattere che determi-nerà anche il modo in cui sono strutturati i rapporti. Ma, come vedremo, ciò che è cruciale non è la loro materialità in quanto tale (la “ragione pratica” di Sahlins), ma il fatto che loro abbiano una so-stanza che può essere consumata/utilizzata. È la forma speci!ca del-la !gura che prendono quello che conta» (Strathern 1988, p. 176).

E continua:

«Le relazioni sono oggettivate da persone e cose separabili o scindi-bili le une dalle altre, e questa condizione di separazione è nota, a sua volta, dalla relazione che ne deriva. In questo senso, la possibili-tà di produrre o creare relazioni, di intraprendere qualche azione nei loro confronti, è di per sé una condizione di separazione e distacco» (Idem, p. 178).

In questo senso, gli speci!ci beni che Wapmekaprã produce nella propria capanna una volta allontanato dal villaggio, fucili, maceti, ecc., modelleranno le relazioni che essi potranno mediare causando una irreversibile separazione tra mebengokré e kuben proprio attra-verso il di"erente esplicitarsi delle relazioni che hanno una loro og-gettivazione in tali beni. Si comprende quindi che la di"erenza posta

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da questa narrazione risiede in maniera parallela e concomitante tan-to nella relazionalità di"erente che viene esplicitata, quanto nei beni che la oggettivano. Così, Wapmekaprã appare come “Altro” non solo per il suo comportamento ma anche per i suoi beni, il suo kukradja, che fa di lui un soggetto già non più mebengokré. In questa maniera si evidenzia ciò che Turner (1995) de!nisce come il “corpo sociale”, il quale si espliciterebbe nella comunicazione, che secondo questo autore plasmerebbe la socialità mebengokré in quanto determina ed è determinata da valori e signi!cati che trascendono la quotidianità e permetterebbe la socializzazione del corpo !sico. In questo senso egli a"erma che:

«Corpo sociale e soggetto incorporato, congiuntamente costruiti come processi attivi di appropriazione, partecipano all’organizza-zione della (ri)produzione sociale e di ri7esso assumono il modello di questa organizzazione. Il soggetto incarnato svolge pertanto una duplice funzione nell’attività produttiva: sia come produttore che come prodotto, agente e oggetto» (Turner 1995, p. 166).

Da queste considerazioni è possibile osservare come le de!nizioni dei non indigeni che ho presentato più sopra rimettono, attraverso la descrizione di speci!che attività o qualità, alla formazione di sog-gettività in maniera ri7essiva. Da una parte il mito di Wapmekaprã viene riattualizzato attraverso la sua applicazione ai vari non indigeni con i quali i mebengokré interagiscono nella loro quotidianità, il che determina che quelli vengano ad essere il risultato di una azione clas-si!catrice che a"onda le proprie radici nell’ontologia mebengokré. Dall’altra parte, il fatto che i kuben si presentino come portatori di proprie e individuali caratteristiche, come attività o pratiche, ma an-che come collocazione sociale, permette di confermare tale processo di classi!cazione. In questo modo il soggetto kuben viene a trovarsi nel punto di congiunzione di due movimenti opposti: da una parte quello che porta dal mito alla classi!cazione, dall’altra quello che al contrario e contemporaneamente riattualizza il mito.

Ri7essioni sull’alterità

Questo rapido panorama che ho voluto presentare, pur nel suo necessario sguardo d’insieme, risulta particolarmente interessante se

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visto attraverso una lente che permetta di evidenziare come il proces-so trasformativo, dato attraverso la costante acquisizione di elemen-ti dall’esterno, si situi alla base del processo di individualizzazione e soggettivazione del corretto modo di essere mebengokré. Questo processo, però, credo valga la pena di sottolinearlo, non comprende solamente agenti “umani”, ma coinvolge ogni attore presente nel mondo, agenti atmosferici e oggetti inclusi, ad esempio. Già Vivei-ros de Castro e Descola, con le loro diverse accezioni ed enfasi, han-no messo in risalto come, nelle ontologie amazzoniche, per usare parole di Viveiros de Castro:

«le relazioni tra gli umani e ciò che noi chiameremo natura assumono i tratti di quelle che noi de!niremmo relazioni sociali, basate su uno statuto di persona potenzialmente condiviso [...] la forma dell’Altro in questo caso è la persona» (Viveiros de Castro 2000, p. 48-49).

Questa ri7essione permette di evidenziare come il processo tra-sformativo attraverso la costante acquisizione dall’esterno che de-termina la soggettività mebengokré riguardi un insieme di soggetti che agiscono di"erenziandosi costantemente. In questo senso, per osservare l’appropriazione di una tecnica dei kuben si deve partire dal presupposto che questo kuben partecipa di una soggettività ba-sata su un processo di costante a"ermazione di di"erenza, così come quella mebengokré, in un processo di reciproca approssimazione e risemantizzazione. Allo stesso modo il divenire uccello non è farsi simile a lui, ma mantenere un fondo di di"erenza ineliminabile che Lévi-Strauss aveva già dimostrato caratterizzare il “dualismo in per-petuo disequilibrio” che starebbe alla base della “apertura all’altro” (Lévi-Strauss 1991) dei popoli amerindi.

L’enfasi riposta sulla “estetica”, qui intesa come l’apparenza che racchiude ed oggettiva l’esplicitazione della corretta maniera di es-sere mebengokré, attraverso l’uso degli ornamenti corporali come degli indumenti o il compiere pratiche, credo sia quindi parte di un più ampio panorama relazionale al cui interno trovano posto le diverse espressioni della soggettività. In questo senso, sembra che i mebengokré seguano la proposta latouriana secondo cui:

«sotto la stessa «realtà esterna», la nozione di natura fonde due diverse funzioni contemporaneamente: da un lato, la molteplicità degli es-

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seri che compongono il mondo, dall’altro, l’unità di coloro che sono riuniti in un unico complesso indiscutibile» (Latour 2005, p. 254).

Detto altrimenti, questa idea permette di osservare una visione molte-plice: da una parte una “molteplicità degli esseri”, ossia una molteplicità delle forme che concretamente popolano il mondo, dall’altra un’unione in un “unico complesso”. I mebengokré e i kuben compiono azioni, la di"erenza tra queste è ciò che sottolinea come essi siano di"erenti.

Ciò risulta evidente anche da un altro esempio: durante la mia terza permanenza al villaggio di Mrõtidjam, nel 2009, stavo scen-dendo in canoa il !ume Bakajá con alcuni ragazzi. Ad un certo pun-to uno di loro mi raccontò che aveva dovuto cambiare nome perché gli era caduta la carta d’identità nel !ume e il pesce che la aveva trovata ora stava usando il suo vecchio nome. Questa spiegazione ri-sulta specialmente interessante se si prendono in considerazione due elementi: il primo è l’importanza del nome nel processo di soggetti-vazione mebengokré, il secondo è che i nomi sarebbero stati acqui-siti nel tempo mitico proprio dai pesci. Ossia, questo avvenimento e la sua spiegazione dimostrano chiaramente come la quotidianità mebengokré debba fare costantemente i conti con questo processo trasformativo sempre in potenza. Ma questo ha delle implicazioni interessanti per la ri7essione sull’alterità.

Queste due dimensioni, la molteplicità e l’unicità, appaiono ca-ratterizzare quanto detto in precedenza a riguardo della metamorfosi in uccelli, giaguari o pesci, ossia, esse appaiono caratterizzare quella che è la dinamica della possibilità di umanizzazione dei soggetti. Una molteplicità che è costituita dalle potenzialità che determinano lo sfondo da cui erigere l’unicità del soggetto. In questo senso, tra-sformarsi in kuben non è molto diverso dal trasformarsi in giaguaro o uccello, entrambe costituiscono maniere di porre in evidenza le corrette modalità relazionali attraverso cui l’essere umano esiste in quanto tale. Il fatto che questo processo debba essere costantemente riattualizzato ne conferma l’e;cacia, senza che questo mai determini una metamorfosi de!nitiva nell’altro, ma è possibile osservare come i diversi esseri che costituiscono l’esperienza mebengokré in realtà incidano tutti su uno stesso dominio dato dalla realtà concreta cui essi fanno riferimento, e le diverse competenze, pratiche ma anche estetiche o !siche, richiamano l’idea di una diversità di potenzialità rese e"ettive da ognuno di essi.

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Per concludere questa ri7essione, voglio proporre che questa idea di una soggettività in continua formazione a partire da relazioni che la compongono come parti mobili che devono essere ria"ermate at-traverso la loro oggettivazione in pratiche speci!che che modellano l’individuo, rimanda alla ri7essione di Ingold, secondo cui è neces-sario giungere ad:

«una concezione dell’umanità non come una entità composita di parti separabili, ma complementari, come corpo, mente e cultura, quanto piuttosto come il luogo singolare di crescita creativa all’interno di una campo di relazioni in continua evoluzione» (Ingold 2000, pp. 4-5).

Il soggetto e il mondo che lo circonda non devono essere pensati come dicotomici, quanto piuttosto come intersecantisi, già che essi si vengono a costituire a vicenda, in un continuo movimento di rise-mantizzazione di entrambi e così è possibile pensare alla singolarità di ogni essere umano come determinata dalla speci!ca modalità di entrare in risonanza con gli altri esseri, di aprire reti comunicative, di oggettivare in qualche maniera relazioni speci!che. Le trasformazio-ni, sia quelle che appaiono nei rituali o nei miti, sia quelle derivanti dall’acquisizione di elementi non indigeni, permettono di oggetti-vare queste relazioni proprio perché mettono in evidenza come sia attraverso esse che il soggetto può assumere la propria forma.

In!ne, il mebengoké, il kuben e gli altri esseri che compongono l’esperienza quotidiana locale, appaiono, comunque, tutti rimanda-re in ultima istanza ad una stessa idea di mebengokricità, facendo così apparire l’Altro come una forma speci!ca dello Stesso. L’origine delle diverse soggettività, siano esse appartenenti all’universo della mebengokricità, della “animalità”, o altro, nel mito vengono sempre spiegate, infatti, a partire da una origine umana, ossia la pioggia sarebbe un mebengokré arrabbiato che vola in cielo, i pesci donne mebengokré che litigano con i mariti e decidono di andare a vivere nel !ume, i kuben kakrit, i quasi stranieri, i !gli di unioni sessuali tra donne mebengokré e serpenti (Bollettin, 2011).

Questo concetto appare come molto simile all’idea deleuziana secondo cui la perdita dell’identità, costituendo un “non-senso” diverrebbe un inizio, ossia costituirebbe la possibilità per un altro pensiero di agire e di svilupparsi, cioè questo “non-senso” ci permet-terebbe di agire nel mondo reale (Deleuze 2005). Ciò determina che

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la potenzialità trasformativa che sottende il movimento di de!nizio-ne delle di"erenti forme che il soggetto può esplicitare appare come una sorta di spinta alla costante di"erenziazione interna ed esterna, in un movimento di creazione costante di di"erenza !nalizzato, in questo caso, alla messa in movimento di relazioni all’esterno, allo stesso modo in cui la formazione delle di"erenziazioni “interne” ge-nera il processo di socialità “interno”.

In questo quadro, il processo di classi!cazione del kuben si in-serisce in un più ampio movimento di produzione di soggettività che necessariamente devono essere tenute separate. Come ho detto più sopra, il non indigeno viene descritto a partire dalla proprie at-tività, il che determina che sia l’agentività esplicitata in queste che ne determina la speci!cità. Ma questo pone un problema: i meben-gokré si appropriano delle pratiche non indigene. Appropriarsi del saper fare del non indigeno non signi!ca automaticamente divenire kuben, perché in questa maniera verrebbe meno il fondo di di"e-renza che sottende l’organizzazione ontologica a"ermata nel mito. Ciò determina che la soggettività venga resa esplicita da un processo di incorporazione di relazioni, prerogative, capacità che formano e oggettivano di"erenze che concorrono a mantenere in movimento il processo di costante a"ermazione della speci!ca maniera di essere mebengokré.

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