la geometria degli anfiteatri romani

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PREMESSA

CAPITOLO I

1. ARCHITETTURA ROMANA: CARATTERISTICHE

GENERALI

1.1 CONSIDERAZIONI SUL MODUS AEDIFICANDI ANTICO: SISTEMA NON

SPINGENTE, SISTEMA SPINGENTE. IL SISTEMA NON SPINGENTE (SISTEMA

TRILITICO)

1.1.2 Pseudoarco e pseudovolta (sistema non spingente)

1.1.3 Il sistema spingente (sistema arcuato)

2. L’ARCO: STATICA, STRUTTURA, STORIA

2.1 STRUTTURA DELL’ARCO

2.2 ORIGINE DELLA STRUTTURA ARCUATA

CAPITOLO II

3. UTILIZZO DELL’ARCO NELL’ARCHITETTURA ROMANA

D’ETA’ REPUBBLICANA

4. ORIGINE E DEFINIZIONE DEL TERMINE ANFITEATRO

4.1 ANFITEATRO: LESSICO DELLE VARIE PARTI

4.2 ORIGINE DEI LUDI GLADIATORII E DELLE VENATIONES

4.2.1 L’ipotesi Etrusca

4.2.2 La gladiatura nella Roma repubblicana

4.2.3 La venatio

4.2.4 Damnatio ad bestias

5. GENESI DELLA FORMA ANFITEATRALE

5.1 LUDUS-FORUM-AMPHITHEATRUM

5.1.1 Aspetti del Forum Romanum dalla fine del IV al II secolo a.C.

6. LO SCHEMA GEOMETRICO DEGLI ANFITEATRI: ELLISSE

O OVALE?

6.1 IL TRACCIAMENTO DELL’OVALE

7. LA GEOMETRIA DELL’OVALE E IL TRIANGOLO

PITAGORICO

7.1 PRIMO SCHEMA: TRIANGOLO PITAGORICO RETTANGOLO CON I LATI DI

3:4:5;

7.2 SECONDO SCHEMA: TRIANGOLO RADICALE

CAPITOLO III

8. L’ANFITEATRO: UN’INVENZIONE CAMPANA?

9. L’ANFITEATRO REPUBBLICANO DI CAPUA (METÀ II

SECOLO A.C.)

9.1 FASI DEL RILIEVO

9.1.2 Ricostruzione geometrica dell’anfiteatro di Capua

10. L’ANFITEATRO REPUBBLICANO DI CUMA (FINE II

SECOLO A.C.)

10.1 RICOSTRUZIONE GEOMETRICA DELL’ANFITEATRO DI CUMA

11 L’ANFITEATRO MINORE DI POZZUOLI (METÀ I SECOLO

A.C.-ETÀ AUGUSTEA)

11.1 RILIEVO DELL’ANFITEATRO MINORE PUTEOLANO

11.1.1 Ricostruzione geometrica dell’anfiteatro di Pozzuoli

12. L’ANFITEATRO DI POMPEI (75 A.C.)

12.1 RICOSTRUZIONE GEOMETRICA DELL’ANFITEATRO DI POMPEI

CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA GENERALE

BIBLIOGRAFIA SPECIFICA

CAPUA:

CUMA:

POZZUOLI:

POMPEI (ANFITEATRO):

Napoli, Università degli studi di Napoli “Federico II”, tesi discussa il17luglio 2012

Premessa

Il presente lavoro di tesi vorrebbe risolversi in un piccolo sguardo sul fe-

nomeno degli anfiteatri monumenti esclusivi e specifici del mondo roma-

no; in modo particolare lo sguardo è rivolto a tre dei più antichi anfiteatri di

tutta la romanità: il più antico anfiteatro di S. Maria Capua Vetere ( metà II

secolo a.C.), l’anfiteatro di Cuma (fine II secolo a.C.), Pozzuoli minore (fi-

ne I secolo a.C.-età augustea), Pompei (75/70 a.C.).

Di questi tre edifici verrà fornita documentazione grafica costituita da dise-

gni, fotografie, mappe e quant’altro sia funzionale alla documentazione de-

gli edifici in sé e dello stato di conservazione degli stessi lì dove esso sia

tangibile e ragionevole (Pozzuoli minore, Cuma).

Il tutto è introdotto da un piccolo prologo sui caratteri generali

dell’architettura romana con particolare accento sull’utilizzo da parte dei

Romani del sistema dinamico spingente, vero e proprio valore aggiunto di

tutta l’architettura antica.

Analizzando in maniera molto sommaria la differenza tra sistema dinamico

spingente (adottato dai Romani) e sistema non spingente (adottato prima

dei Romani, come ad es. nell’architettura greca) si fa un breve, sintetico

excursus sull’applicazione in campo architettonico di tutti e due i sistemi.

Dopo aver analizzato la statica, la struttura e la storia dell’arco si pongono

le basi per definirne il suo utilizzo nell’ambito dell’architettura civile ro-

mana, in particolare quella ludica.

Il ludus (il gioco) è la componente che definisce la qualità degli anfiteatri;

essi, oltre ad essere mirabili costruzioni di ingegneria edile, sono soprattut-

to spazi creati per il divertimento del popolo.

Si fa un piccolo cenno sull’origine dei ludi gladiatorii, con particolare rife-

rimento alle pitture campane che per prime raffigurano combattimenti gla-

diatori in un contesto legato al mondo funerario, e ne comprovano in qual-

che modo la loro origine in territorio campano prima che altrove.

Il fulcro di tutto il lavoro parte dalla considerazione delle cause cui è scatu-

rita la nascita di questi particolari edifici, se ne riportano le fonti che per

prime li attestano, e le evidenze archeologiche che ne comprovano la vali-

dità.

La seconda parte del lavoro definisce in maniera più particolare lo schema

geometrico di questi edifici in relazione alla loro particolare evoluzione;

tenteremo di risalire a quello che dovrebbe essere lo schema progettuale di

questi edifici applicato nella fase di progettazione e, in secondo luogo, di

esecuzione degli stessi.

CAPITOLO I

1. ARCHITETTURA ROMANA: Caratteristiche generali

Nel 1929 Le Corbusier in una conferenza tenuta a Buenos Aires dis-

se:”Oggi mi si taccia di rivoluzionario.

Eppure io confesso di aver avuto un solo maestro: il passato.

Una sola disciplina: lo studio del passato”.

Ciò che hanno in comune l’architettura romana e quella del Bauhaus di cui

Le Corbusier è uno dei più insigni rappresentanti e fautori è l’aver concepi-

to l’edificio e lo spazio come un qualcosa di strettamente funzionale ai bi-

sogni dell’uomo.

Razionalismo e funzionalismo propri del Bauhaus e di tutta quanta

l’architettura postmoderna si ritrovano ante-litteram nell’architettura roma-

na con un solo scopo pratico e contingente:“servire, innanzitutto, con spe-

ciali edifici come le terme, i fori, le basiliche, i circhi e gli anfiteatri, al go-

dimento e al benessere del cittadino romano”.1

L’architettura romana meglio qualificata da Le Corbusier come “architet-

tura organica”, è stata per molto tempo (ancora oggi è una questione molto

dibattuta tra gli studiosi) legata concettualmente e storicamente

all’architettura greca a causa di un certo tipo di storiografia che le ha rico-

nosciuto un carattere di unicità ed originalità solo dopo molto tempo.

Ad un esame più attento ed approfondito della questione i caratteri pecu-

liari e specifici del costruire romano erano già presenti nell’ingegno latino,

frutto di una lunga consuetudine ereditata in parte dalla componente greca

ma certamente anche dagli Etruschi e dalle altre popolazioni italiche.

E’ innegabile che il rapporto con la Grecia domini tutta la prima fase

dell’architettura e dell’arte romana in un momento in cui non esisteva uno

spirito cosciente capace di esprimere energie sue proprie ma doveva ne-

1COZZO 1928,pp.10-12;

cessariamente appoggiarsi a stilemi e linguaggi già presenti nella cultura el-

lenistica.

Lo studio specifico dell’architettura romana, nell’insieme vastissimo delle

sue modalità e tecniche, è imprescindibile dal considerare che “il costrui-

re” per i romani parte da un’esigenza pratica strettamente legata

all’evoluzione politica e sociale di una comunità che, a differenza di quella

greca, rimane saldamente ancorata al concetto di “utilitas” nel senso più

specifico del termine.

Come per lo sviluppo dell’architettura greca e dei vari stili architettonici si

è dovuto attraversare un periodo di parecchi secoli per giungere alla sua più

alta manifestazione sotto Pericle, così conviene supporre che il concetto di

grandiosità spaziale trasmesso dai Romani avesse avuto una continuità di

svolgimento fino a raggiungere i risultati più eclatanti nell’età imperiale,

indipendentemente da ogni influsso della civiltà e degli usi greci affermati-

si poi a Roma.2

L’arte e l’architettura greca sembrano essere legate ad un principio di carat-

tere etico ed estetico, principio di eterna ricerca e materializzazione di

un’essenza divina e divinizzante che esula, in parte, il concreto “vede-

re/guardare/realizzare” e ci catapulta in una prospettiva di eterno trascen-

dere.

Il motore dell’arte greca è sempre oltre l’oggetto, al di là della statua e

dell’immagine che rappresenta, è volontà motrice assetata di perfezione,

equilibrio, estasi (hybris) contenuta.

I Greci furono dotati della più alta sensibilità artistica, ma non riuscirono ad

applicare in ambito costruttivo i grandiosi concetti di massa come fecero i

Romani: “…nulla potrà dare la sensazione piena ed immediata della loro

grandezza quanto il contemplare dall’alto della Velia, da una parte il Co-

losseo, dall’altra le arcate della basilica di Massenzio, in una giornata di

2 COZZO 1928, p.11:

sole, nell’ora in cui la luce investe le fabbriche, spoglie di ogni ornamento,

rivelando il ritmo alterno dei pieni e dei vuoti, delle linee diritte e ricur-

ve”3.

Nel costruire romano l’uso ritmico e proporzionale della volta e dell’arco,

rispetto alla ristrettezza e linearità del sistema trilitico (basato sull’uso qua-

si esclusivo della colonna e dell’architrave) apriva un orizzonte illimitato di

sperimentazioni e soluzioni costruttive.

L’arte e l’architettura romana privilegiano l’uomo-individuo e la sua capa-

cità di fruire degli enormi spazi cucitigli addosso dagli ingegneri-architetti

romani, ma soprattutto l’arte di costruire per i Romani è espressione di una

volontà politica forte e condivisa, è la parte più maestosa e tangibile della

Res Publica.

In sostanza possiamo qui elencare quattro punti focali che contraddistin-

guono i fondamenti del costruire per i Romani:

• grande potenza politica, militare e finanziaria dello stato centrale;

• iniziativa speculativa privata che si serve dell’arte e della religione

per esprimere i mezzi e non gli scopi della vita stessa;

• grande efficienza dei mezzi tecnici, massiccia organizzazione del la-

voro servile, elevata e coraggiosa intuizione degli architetti, progres-

sivo e graduale perfezionamento della tecnica esecutiva;

• sviluppo capillare e progressivo dei servizi pubblici;

Ibidem;

Tra tutte le arti figurative l’architettura è quella che riesce meglio ad espri-

mere le esigenze di una determinata classe politica e le relative possibilità

economiche di cui essa dispone; in particolare il rapporto“statalista” che

intercorre tra le opere pubbliche e la classe che le commissiona diventa

molto forte nella società romana tanto che in età imperiale la potenza e la

fama degli imperatori sarà direttamente proporzionale alle vestigia e al vol-

to di Roma.

In particolare i Romani sentirono tantissimo il problema cardine di ogni co-

struzione razionale: lo spazio.

Progetteranno lo spazio urbanistico secondo la schema razionale delle ago-

rai e stoai ellenistiche, considerando anche il dato storico secondo cui mol-

te agorai greche saranno ultimate qualche secolo dopo l’occupazione ro-

mana (agorà Sud di Mileto 195,45 X 163, 50, iniziata nel IV secolo a.C.,

sarà ultimata solo dopo il II secolo d.C.); assumeranno le forme lineari gre-

che per l’esterno dei loro edifici, mentre all’interno creeranno ambienti

sempre più ricchi di rapporti spaziali; gli ampi volumi che circolano

nell’architettura ellenistica all’esterno, nei rapporti tra i vari edifici e le loro

parti appaiono in quella romana trasferiti all’interno.

Fondamentale per questa tendenza è la copertura a volta; la volta non è

nient’altro che una proiezione infinita di archi.

L’impiego dell’arco, presente in moltissime culture antiche (egiziana, babi-

lonese, micenea, etrusca) ebbe presso i Romani un utilizzo coerente e con-

sapevole rispetto agli antichi contesti in cui era nato; esso costituisce perciò

l’elemento distintivo e caratterizzante di tutta l’architettura romana.

I Romani adottarono l’arco dai vicini Etruschi che lo avevano già impiega-

to nella costruzione di alcune monumentali porte d’ingresso alle città come

Perugia e Falerii Novii; prima di loro altre popolazioni dimostrano di esse-

re a conoscenza di questo elemento costruttivo, ma lo usano con qualche

differenza rispetto alla sua più intima natura.

Quando gli Egizi usano la copertura voltata, per esempio a Tebe nei ma-

gazzini del Ramesseum del XIII secolo a.C., la usano inclinando gli archi in

mattoni formanti le volte così da far agire soltanto la forza-peso che grava

sugli spessori di sostegno retrostanti: in questo modo si annullano tutte le

componenti dinamiche “ spingenti”.4

Allo stesso modo i Babilonesi utilizzano le coperture a botte nei magazzini

del VI secolo a.C. di ampiezza (luce) molto limitata; la messa in opera ve-

niva fatta ponendo i blocchi su piani progressivamente aggettanti evitando

di generare spinte oblique tali da far rovesciare l’intera costruzione; in que-

sto modo si applica la statica del sistema trilitico secondo cui l’elemento o-

rizzontale genera sui piedritti spinte molto vicine alla verticale; queste spin-

te venivano assorbite senza problemi dalle massicce murature della cinta

difensiva di Babilonia.

Lo stesso sistema è sfruttato nell’architettura micenea utilizzando i passag-

gi coperti con archi ad aggetto (a sesto acuto) che sono visibili nelle mura

di Tirinto e Micene, come anche nell’architettura funeraria delle tholoi. Il

punto fondamentale da considerare, che verrà meglio chiarito qui di segui-

to, è che nessuno di questi popoli riuscì ad utilizzare l’arco nella sua più

profonda essenza (in realtà i sistemi di copertura che utilizzarono sia gli

Egiziani che i Babilonesi, non si basano su degli archi veri e propri, ma su

degli “pseudoarchi”o“pseudovolte” per la natura delle spinte che si origi-

nano dal tipo di copertura utilizzato).

Solo gli ingegneri romani riuscirono a risolvere il problema del“sistema

spingente”, facendone un punto riconoscibile ed essenziale della loro archi-

tettura tanto da arrivare a costruire volte gigantesche (volta del Pantheon;

tempio di Diana a Baia), e a superare le contemporanee esperienze di stati-

ca e di tecnica del costruire (tempio di Venere a Baia con il primo tamburo

finestrato completamente libero).

4 CHOISY 1899, p. 17;

“Tra tutte le forme di ar-

chitettura che da cinquemi-

la anni a questa parte han-

no visto la luce, quella dei

Romani è senza dubbio la

piùsorprendentemente ric-

ca, sia nelle tecniche, sia

nei programmi, e proprio

per questo quella che sen-

tiamo più vicina a noi…”.5

Tempio di Diana a Baia, fo-

to in albumina, Giovanni Lattanzi, 1880; (fonte web)

ADAM 2008, p.13-15 ;

1.1 Considerazioni sul modus aedificandi antico: sistema non spingen-

te, sistema spingente. Il sistema non spingente (sistema trilitico)

Uno dei motivi principali per cui l’architettura greca in primis e le altre

forme di edilizia antica non riuscirono mai ad eguagliare o quantomeno ad

avvicinarsi alla grandiosità delle strutture romane, fu innanzitutto e sopra

ogni congettura, l’adozione da parte dei romani del “sistema dinamico

spingente”, o, per dirla con parole più semplici, del sistema basato sull’uso

dell’arco e della volta.

Da un punto di vista pratico tutta quanta l’architettura antica è frutto del

rapporto simbiotico tra sistema costruttivo-materiale utilizzato.6

Ogni sistema costruttivo si basa sull’esistenza di organismi architettonici

(solidi geometrici) alla continua ricerca di equilibrio; per definizione

l’equilibrio statico si ottiene quando le reazioni vincolari e i carichi si an-

nullano a vicenda creando un sistema a risultante nulla.

I vincoli (reazioni vincolari) sono delle forze di reazione ai carichi che

permettono alla struttura di rimanere in equilibrio; per semplificare diciamo

che esistono vincoli semplici, doppi e tripli.

I carichi o sollecitazioni sono una serie misurabile di forze che per loro na-

tura si dividono in statici (sono fissi perché interni alla costruzione stessa,

come ad es. il peso stesso della struttura), permanenti (pavimenti, copertu-

re ecc…) o accidentali (sono carichi gravanti sulla struttura in modo non

permanente); i carichi dinamici sono carichi cui può variare l’intensità (a-

zione sismica o di qualsiasi agente atmosferico).7

6GIULIANI 2008, p.73-74;7Ivi, pp.80-82;

La considerazione più importante da fare dopo tutto questo excursus è che

ogni solido geometrico soggetto a carichi, forze e sollecitazioni tende a de-

formarsi.

Un tronco orizzontale poggiato alle estremità su due elementi che lo sor-

reggono senza essere legati alla struttura da alcun tipo di vincolo se non il

semplice appoggio, è soggetto a pressoflessione (una forza assiale di com-

pressione e un momento flettente).8

Se un solido geometrico è soggetto a pressoflessione lavora sia a compres-

sione che a trazione.

La compressione è uno degli sforzi elementari cui può essere sottoposto un

corpo, insieme alla trazione, alla flessione, al taglio e alla torsione; in par-

ticolare essa si manifesta come l’elongazione del solido per avvicinamento

delle singole sezioni; nella trazione avviene il fenomeno opposto, per cui si

ha l’elongazione del solido per allontanamento delle singole sezioni.

Un architrave di pietra caricato su due estremità anche se apparentemente

non si deforma, nella realtà si deforma pochissimo e al suo interno si crea-

no tre fasce di tensione: una zona in compressione che grava sulla sezione

superiore della traversa; una asse neutro che si trova in mezzo; una zona

in trazione che grava sulla sezione inferiore della traversa.

Il sistema di scarico dei solidi soggetti a pressoflessione fa capo a tutte le

strutture architettoniche non spingenti (sistema trilitico), tra queste la

forma più elementare è quella del colonnato architravato così diffuso

nell’architettura greca.

La sollecitazione per queste strutture risulta, come si è detto, a compressio-

ne per gli elementi verticali (ritti, pilastri, piedritti), e a pressoflessione per

quelli orizzontali (architravi, pareti ecc.).

8 Ivi, pp.85-87;

Nell’edilizia antica l’architrave, nel senso della lunghezza, era composto di

un solo pezzo di materiale più o meno elastico (legno o pietra da taglio)

mentre i piedritti potevano essere realizzati con vari elementi anche di dif-

ferenti materiali (conci di pietra, tufo, legno ecc..).

L’architrave sopporta il peso proprio e quello di parte della struttura sopra-

stante (composta da fregio e cornice, costituendo con l’architrave un insie-

me che, in architettura, definiamo “trabeazione”), e lo convoglia, con an-

damento pressoché verticale, sui piedritti e sulle fondazioni che provvedo-

no a ripartirlo sul piano fondale.

L’esistenza di tensioni e forze all’interno di un organismo architettonico

rimanda a quell’equazione cui abbiamo accennato prima, secondo la quale

ad ogni sistema costruttivo va associato un certo tipo di materiale; da qui ne

consegue che maggiore è la complessità dell’organismo architettonico

(l’aumentare dell’altezza delle fabbriche, necessità di coprire luci più am-

pie, ecc..), maggiore è l’importanza nella scelta dei materiali.

Questo tipo di approccio strutturale ci permette di comprendere (dal punto

di vista dell’archeologo) le scelte che erano a monte del processo costrutti-

vo antico in relazione all’utilizzo di alcuni materiali rispetto ad altri; non è

un caso se i primi templi della grecità furono costruiti in legno (Lefkandì in

Eubea, inizi VIII secolo a.C.; Heraion di Samo, 750 a.C.).

Quasi tutti i materiali da costruzione antichi lavoravano molto bene a com-

pressione ma poco a trazione; da questo discorso vengono esclusi legno e

ferro9 (Il cemento armato ha rivoluzionato il modo di costruire moderno

proprio perché ha unito alle proprietà del calcestruzzo quelle dell’acciaio

fornendo così un prodotto resistente sia alla compressione che alla trazio-

ne).

Il legno venne usato nella costruzione dei primi edifici sacri greci, ma la

sua deformabilità e la sua deperibilità non ne assicuravano un impiego du-

9GIULIANI 2008, pp. 90-93;

raturo, d’altra parte il legno era soggetto a manutenzione continua che inci-

deva moltissimo sui costi di mantenimento dell’edificio; il ferro era in quel

periodo ancora poco diffuso, molto costoso, e arrugginiva.

L’arco impiegato dai Romani forniva una soluzione duratura ed economica

al problema della scelta dei materiali; questo elemento permetteva di sfrut-

tare appieno tutti i materiali da costruzione in quanto l’arco lavora in

condizioni ottimali quando è in compressione ed è in compressione quando

è ben costruito.

Questa è la più grande intuizione che gli ingegneri romani abbiano mai a-

vuto: aver capito le esigenze della nuova struttura ed averle sfruttate pie-

namente liberandosi dalle ristrettezze del sistema trilitico.

1.1.2 Pseudoarco e pseudovolta (sistema non spingente)

L’arco non è semplicemente inteso come una struttura curva che poggia su

due elementi verticali detti piedritti; secondo questa definizione il sistema

di copertura a volta con struttura obliqua o ogivale che si ritrova applicato

nella costruzione di alcuni magazzini dei palazzi imperiali egiziani o babi-

lonesi, così come anche il sistema di copertura delle tholoi micenee, do-

vrebbe assimilarsi al sistema arcuato ma la statica di queste strutture appar-

tiene al sistema trilitico.

L’uso dello pseudoarco o arco a mensola è presente in tutte le culture anti-

che per la grande semplicità di costruzione; in qualche caso quando lo

pseudoarco è di luce (ampiezza) molto ridotta si ha quasi l’impressione che

si tratti di un architrave di grossa sezione scavato ad arco nella parte infe-

riore.

Lo scarico delle forze rimane prevalentemente verticale.

Esistono dei particolari casi in cui a causa di diverse fratture si verifica il

passaggio dal sistema di scarico trilitico a quello arcuato10, ma sono ovvia-

mente considerati casi limite.

La pseudovolta risulta appartenere allo stesso modo al sistema non spin-

gente, si tratta perlopiù di volte a struttura obliqua, fortemente inclinata,

che si appoggiano ad un muro di testa scaricando tutte le spinte in risultanti

prossime alla verticale.

La pseudocupola (a profilo ogivale) ha lo stesso comportamento statico

dello pseudoarco.

Auguste Choisy nella sua opera “Histoire de l’architecture” descrive be-

nissimo il modus aedificandi di alcuni ambienti egiziani coperti con (pseu-

do) volta a botte, (oppure con pseudo) cupola.

Egli descrive l’impiego di mattoni d’argilla essiccata per la costruzione di

(pseudo)volte senza l’impiego della centina, necessità dettata dalla cronica

mancanza di legno nel paese che induceva ad utilizzare il poco legno im-

portato dalla Siria e dall’Asia minore per costruzioni più importanti.

Tra i sistemi voltati che troviamo impiegati nelle costruzioni egiziane sin

dai tempi più antichi lo Choisy ne considera in particolare due, impiegate

sia nell’architettura funeraria che nell’architettura domestica; la cupola

(voute sphérique avec le profile d’une ogive), e la volta a botte (voute en

berceau).

La dome (la cupola): per la costruzione della cupola o volta sferica gli ar-

chitetti egiziani sovrapponevano i mattoni d’argilla cruda a forma di anelli

o di cerchi concentrici di diametro decrescente progressivamente aggettan-

ti l’uno sull’altro in modo tale da chiudere tutta la costruzione con un solo

blocco.

10 GIULIANI 2008, pp.97-98;

Ogni assisa non cadeva a piombo sulle precedenti e si reggeva per attrito

per cui non c’era alcun bisogno di supporti ausiliari.11

Il sistema di costruzione molto ardimentoso per l’epoca si risolveva in real-

tà seguendo la statica del sistema trilitico; l’arco a sesto acuto o ogivale ha

delle spinte statiche che si avvicinano moltissimo ad una verticale.

Per questo motivo è ovvio che costruzioni come queste non rientrano nel

novero delle strutture spingenti come la volta a botte propriamente detta e

la cupola.

Una volta che ogni assisa era completata costituiva un anello indeformabile

pronto a ricevere immediatamente una nuova assisa, e la messa in opera è

tanto più semplificata quanto più l’ogiva si eleva in altezza (et la pose des

briques est d’autant plus facile que le surhaussement de l’ogive est plus

accentuè….); alcune volte la sicurezza della struttura era affidata ad un pi-

lastro centrale che reggeva il blocco di sommità.12

Berceau (volta a botte): un altro tipo di copertura utilizzato dagli Egiziani

era la volta a botte messa in opera sempre senza

centina lignea e costruita procedendo per progressive tranches verticali, in-

vece che per assise convergenti. La volta a botte, fortemente inclinata si

appoggiava quasi sempre ad un muro di testa (portante)13. E’ ovvio che

non si trattava di una vera volta a botte come noi oggi la intendiamo in

quanto era a profilo inclinato e poggiava su un muro di fondo.

Contro questo muro vengono fissati due mattoni (aa’) d’argilla cruda attra-

verso la malta (gli antichi Egizi già conoscevano le proprietà di questo e-

lemento da costruzione, era malta di gesso); grazie all’aderenza della malta

e alla sottigliezza dei mattoni, questa tranche si mette in opera senza alcun

supporto ausiliario.

11 CHOISY 1899, p.20;12 DI LUGGO 2009, p.17;13 CHOISY 1899, p. 21;

Si passa all’esecuzione di una seconda tranche A’’; questa tranche è saldata

alla tranche A’ così come quest’ultima è saldata al muro di testa; si potreb-

be concludere che la maggior parte delle spinte statiche scaricano e si ad-

dossano al muro di testa, considerando anche il fatto che la volta si allunga

progressivamente; potrebbe essere necessario costruire un piccolo archetto

di fronte al muro di testa, e la volta può essere costruita senza centina.

Come esempi di volte a botte a struttura obliqua sono da citare le volte dei

magazzini del Ramesseum (XVIII dinastia) o l’interno delle tombe pirami-

di-mastabe di Abydos.14

schemi di volte a struttura obliqua egiziani (foto da L. Crema, Manuale di storia

dell’architettura antica, ed. Bignami, p.34)

1.1.3 Il sistema spingente (sistema arcuato)

Abbiamo già accennato al fatto che le ristrettezze del sistema trilitico com-

promettevano vari livelli della tecnica del costruire in quanto incidevano

sia sulla scelta dei materiali da utilizzare sia sulla capacità del sistema ar-

chitravato di coprire ampi spazi (luci); lì dove un solo blocco di pietra di

una data sezione posto come architrave non riusciva a superare in via ipote-

CREMA 1973, pp. 33-35;

tica i 5 metri di lunghezza, una serie di piccoli blocchi dello stesso materia-

le tagliati a cuneo e disposti ad arco, copriva in maniera agevole uno spazio

anche doppio.15

Il sistema spingente comprende tutte le strutture capaci di scaricare pesi

con risultanti molto diverse dalla verticale, in particolare il sistema arcuato,

che si basa sulla solidarietà di tanti elementi mediante la semplice forma

del cuneo, permette di ottenere una successione continua in cui gli sforzi

inclinati non chiamano in causa forze di trazione. Il sistema di scarico delle

forze sugli elementi di sostegno (piedritti e muratura di rinfianco) avviene

secondo direzioni inclinate. Tutti gli elementi lavorano per mutuo contra-

sto.16

La spinta obliqua sui piedritti tende a rovesciare la struttura ed è propor-

zionale all’inclinazione dei singoli elementi (conci).

Se si aumenta il numero degli elementi (conci) disponendoli lungo un asse

curvilineo si ottiene una struttura spingente (ad arco) sottoposta in ogni se-

zione a compressione semplice.17

In particolare la sezione dell’arco in un punto preciso (il terzo medio) viene

sollecitata anche a trazione: questo dimostra perché molto spesso le fratture

avvengono in corrispondenza del giunto in chiave.

2. L’ARCO: STATICA, STRUTTURA, STORIA

“L'arco è una costruzione nata da due debolezze dalla cui unione risulta una grande forza” Le-

onardo da Vinci.

L’arco in architettura è una costruzione in pietra, mattoni o cemento arma-

to a forma curva che poggia su due elementi verticali detti piedritti.

GIULIANI 2008, op. cit., p.100;16 Idem, p.102;17 DI LUGGO 2009, op. cit., slide 6;

La curva dell’arco è formata da conci cuneiformi o da laterizio legato con

malta e copre uno spazio più o meno ampio detto luce dell’arco.

Una condizione necessaria, affinché si possa parlare di arco, deve essere

soddisfatta dal punto di vista statico: occorre che gli elementi che formano

la curva dell’arco siano disposti radialmente rispetto al centro dell’arco e

che il rinvio dei carichi sui piedritti abbia andamento diverso dalla verticale

e diretto verso l’esterno (altrimenti ricadremmo nel caso dello pseudoarco);

in pratica la risultante delle spinte statiche tra un concio e l’altro deve avere

andamento obliquo18.

La statica dell’arco è costituita come ogni solido geometrico da un nucleo

d’inerzia che è la parte della sezione in cui ricadono o si concentrano le

forze; il rapporto tra nucleo d’inerzia e sezione è direttamente proporziona-

le, perciò si spiega come sia sufficiente aumentare l’uno per accrescere

l’altro; questo concetto elementare riguarda anche i piedritti e permette di

capire tanti interventi di consolidamento antichi effettuati su strutture disse-

state (l’acquedotto di Claudio)19; i Romani erano a conoscenza di questi

principi, con la sola differenza rispetto ai moderni che l’applicazione avve-

niva in modo prettamente empirico, lontano da qualsiasi concettualizzazio-

ne.

In ambito statico è molto importante distinguere tra arco a conci cuneiformi

e arco in muratura (laterizio).

L’arco a conci cuneiformi tagliati in forma trapezoidale può essere posto in

essere senza l’utilizzo di malta, in quanto la forma stessa dei conci attraver-

so un profilo ad angolo che ne impedisce la caduta (“ ..i primi costruttori

che utilizzarono le volte si resero conto che l’appoggio del concio sul suo

lato largo tendeva ad allontanare i conci vicini per seguire il proprio mo-

GIULIANI 2008 p.100;19 Idem., p.102;

vimento di caduta20….”) determina, insieme alla forza di gravità, la stabili-

tà dell’arco.

L’arco in laterizio, caratteristico dell’ingegno latino, si associa ad un altro

elemento peculiare dell’architettura romana: l’opus caementicium.

La malta di sabbia e calce, conosciuta sin dai tempi degli Egizi e dei Babi-

lonesi, è stata introdotta in Europa dai Romani.21

Secondo l’autorevole voce di Auguste Choisy dovevano esistere delle mal-

te romane più che scadenti, “ à Rome, leur consistance s’explique par

l’emploi de sables volcaniques ou pouzzolanes; dans le plupart des cas elle

parait etre simplement le fait d’un durcissement séculaire”.22

A partire dalla fine del III secolo a.C. le murature in opus caementicium

permetteranno agli architetti Romani di sfruttare tutti i tipi di pietra e di

materiali, sperimentando infiniti modi di taglio dei conci, di messa in opera

e di paramento, soprattutto grazie all’aggiunta23di sabbia vulcanica, la poz-

zolana, diffusissima nella zona dei Campi Flegrei, di cui Vitruvio (II, 6, 1)

descriverà le doti straordinarie qualche secolo dopo, dicendo:”Est etiam

genus pulveris, quod efficit naturaliter res admirandas. Nascitur in regio-

nibus Baianis in agris municipiorum, quae sunt circa Vesuvium montem.

Quod conmixtum cum calce et caemento non modo ceteris aedificiis prae-

stat firmitates, sed etiam moles cum struuntur in mari, sub aqua solide-

scunt”.

Grazie all’impiego di una mistura di calce, pozzolana e pietrisco di scarto

gli effetti dovuti alle spinte laterali non scomparivano ma venivano assorbi-

ti in modo considerevole dalla capacità di coesione del legante.

20 ADAM 2008, op. cit., p.181;21 CHOISY 1899, op. cit., p.520;22CHOISY 1899, op.cit, p. 521;23 ADAM 2008 op. cit. p. 137;

Questo tipo di volte venivano messe in opera con la centina, un robusto

supporto in legno che ripeteva esattamente il profilo della curva da realiz-

zare24.

Essa era composta da due archi di cerchio collegati alla base da un elemen-

to semicilindrico detto sottostruttura; la centina poteva poggiare diretta-

mente a terra o nel punto d’innesto della volta; tale soluzione prevedeva un

consistente risparmio di legno e di tempo e fu quella adottata dai Romani;

il sistema fu adoperato nella messa in opera di costruzioni monumentali

quali gli anfiteatri o le opere idrauliche come il Pont du Gard (15 d.C.) o

l’imponente acquedotto di Metz (Divodurum).

2.1 Struttura dell’arco

E’ opportuno delineare le varie parti in cui un arco si struttura, stabilendo

in maniera sintetica le componenti invariabili dell’elemento arcuato e gli

elementi che, a seconda della loro forma e dimensione classificano l’arco.25

Il concio di chiave, è quel concio che in un arco regolare troviamo in posi-

zione centrale.

I conci d’imposta sono quelli che terminano l’arco e trasmettono la risul-

tante delle spinte alla struttura; queste spinte verranno convogliate a terra

attraverso due elementi verticali detti piedritti.

Per evitare che i conci si dissestino tra di loro a causa del peso, la muratura

viene equilibrata attraverso elementi chiamati rinfianchi dell’arco.

La superficie interna dell’arco è detta intradosso o imbotte, quella esterna

estradosso; la parte frontale della curva che può essere in muratura o in

conci è detta ghiera o archivolto.

24 ADAM 2008, op. cit., pp. 189-191;25 DI LUGGO 2009 slide 12;

La distanza tra i conci d’imposta è detta

luce; l’altezza del concio in chiave dal pi-

ano d’imposta è detta freccia o monta.

La porzione compresa tra il piano

d’imposta ed un angolo di 30° è detta re-

ne dell’arco, e ne supporta le eventuali

spinte orizzontali.26

Per concludere, in base all’andamento dell’intradosso, che è detto sesto,

l’arco può essere:

arco a tutto sesto: l’intradosso è un semicerchio con il

centro sul piano d’imposta (la freccia è metà della luce

F = L/2);

arco a sesto acuto: l’intradosso è un ogiva o un semiellisse

(la freccia è maggiore di metà della luce F>L/2);

26 Idem

a sesto ribassato: l’intradosso ha profilo semicircola-

re con il centro situato al di sotto del piano d’imposta

(la freccia è minore della metà della luce F<L/2);

policentrico: la curva dell’intradosso è

l’unione di più porzioni di arco;

arco rampante: i piani d’imposta si trovano a quote dif-

ferenti.

2.2 Origine della struttura arcuata

L’origine dell’arco è sempre stata una questione molto dibattuta tra gli stu-

diosi.

In particolare si è cercato di capire quale popolo per primo avesse impiega-

to l’elemento arcuato per ricreare una ritmica spaziale tra pieni e vuoti.

Le fonti citano un greco come inventore dell’arco.

Secondo Seneca (Epist. 90, 32) ad inventare l’arco fu Democrito di Abdera,

contemporaneo di Socrate, il quale, si dice, avesse inventato l’arco formato

da più blocchi tagliati in curva e tenuti uniti da un unico blocco posto in

mezzo.

Stando alle fonti per i Romani gli inventori dell’arco non furono gli Etru-

schi, da cui certo mutuarono moltissime tecniche costruttive, ma i Greci.

Secondo Jean Pierre Adam bisognerebbe ricercare dei confronti nel mondo

greco volgendo lo sguardo in particolare alle colonie di Magna Grecia per

tentare di corroborare attraverso testimonianze archeologiche la veridicità

delle notizie tramandate dalle fonti.

Due sono gli esempi che possono essere citati in merito all’utilizzo

dell’elemento arcuato presso i Greci: la porta orientale della possente cinta

muraria di Poseidonia/Paestum, detta porta Sirena, e la celebre Porta Rosa

ad Elea/Velia, la prima datata alla fase della colonia latina (273 a.C.)27, la

seconda alla metà del IV secolo di sicura attribuzione greca.28

La porta Sirena è coperta da una volta a tutto sesto e scavi più approfonditi

potrebbero confermare l’ipotesi che si tratti di una costruzione che rientra

in un periodo post 273 a.C., e potrebbe, quindi essere annoverata come una

costruzione romana, o almeno lucano-romana.

La Porta Rosa, scoperta e studiata da Mario Napoli nel 1972, doveva servi-

re da collegamento e cerniera tra i due crinali, l’acropoli ed il crinale est.

Nonostante abbiano funzioni differenti, le due porte sembrano essere tra gli

esempi più antichi di utilizzo dell’arco presso presso i Greci e i Romani29.

Le suddette testimonianze archeologiche potrebbero far supporre che

l’aneddoto riportato da Seneca circa l’impiego dell’arco a conci radiali a-

vesse ragione del fatto che i Romani abbiano acquisito la tecnica dell’arco

a conci presso i Greci e non presso i loro vicini, gli Etruschi.

Ad una più attenta analisi della questione, l’arco è un elemento architetto-

nico utilizzato dai Greci in maniera poco diffusa rispetto alle testimonianze

evidenti.

27 ADAM 2008, p. 175;28 GRECO 2008, p.19;29 ADAM 2008,.176;

Ci si potrebbe ricollegare ad un’ipotesi molto più affascinante, per di più

supportata anche da evidenze archeologiche, che vede nell’arco il fine di

una ricerca ritmico-spaziale che si sviluppa parallelamente alla storia

dell’uomo.

L’elemento arcuato è senza dubbio insito nella sperimentazione architetto-

nica e costruttiva di tutti i popoli antichi, nello stesso atto creativo del genio

artistico che affonda le radici in mondi e sensibilità molto spesso ignoti o

difficilmente comprensibili dal freddo e scientifico raziocinio di uno stu-

dioso del passato.

Pretendere di ritrovare un’origine univoca e unidirezionale dell’arco sem-

bra essere un’impresa ardua e difficile.

Secondo l’opinione del Pallottino, l’origine delle forme spaziali curve sa-

rebbe da indagare nell’intima e silenziosa storia dell’evoluzione umana,

cercando l’ispirazione del principio arcuato nelle architetture “preistori-

che”, intese già come esperimenti di ricerca di uno spazio nella materia pla-

smabile.30

Secondo lo studioso, che riprende l’opinione del Kaschnitz-Weinberg31, le

tombe rupestri della preistoria mediterranea sarebbero la radice pura di tut-

te le successive forme di architettura spaziale, tra cui quella egizia, babilo-

nese, greca, etrusco-italica ed infine romana.

E’ comunque innegabile che l’impulso primordiale di una ricerca dello

spazio come elemento positivo costruito intorno all’uomo possa essere di

origine eurasiatica32; secondo il Pallottino che cita il Kaschnitz: “queste co-

stanti mediterranee non sarebbero che la materia della sintesi italico-

romana, la cui realizzazione non avrebbe mai potuto aver luogo senza

l’elemento catalizzatore di correnti attive di origine eurasica, che si espli-

cano in due fondamentali tendenze formali: una razionale-statica di origi-

30 PALLOTTINO 1949, p. 197;31KASCHNITZ-WEINBERG 1948, p.96;32 PALLOTTINO 1949, p. 201;

ne occidentale (ritmo,serie, partizione); un’altra irrazionale-dinamica di

origine orientale (movimento curvilineo, sviluppo illimitato nello spazio)”.

Il Lugli sembra essere dello stesso parere33 e tenta di risalire ai primi esem-

pi di costruzioni arcuate (arco ad ogiva, arco monolitico) presenti in territo-

rio italico elencando vari prototipi di coperture ogivali e pseudovoltate di

difficile datazione. L’opinione che sembra trasparire da questo interessante

studio è quella secondo cui l’arco a conci si sia originato da un progressivo

affinamento di una tecnica di copertura introdotta in Italia dagli Etruschi,

nel periodo in cui fiorisce la civiltà orientalizzante (ingresso tomba Regoli-

ni-Galassi, porta dell’acropoli di Circei, ecc..), e diffusasi sino all’estremo

limite della civiltà etrusca nell’Italia meridionale (tomba a tholos di Cuma

III secolo a.C.);

Secondo l’opinione del Lugli, dunque, l’elemento arcuato è una sperimen-

tazione prerogativa degli Etruschi, da cui i Romani seppero trarre un ele-

mento architettonico-spaziale con mirabili funzionalità costruttive.

33 LUGLI 1952, p. 20;

CAPITOLO II

3. UTILIZZO DELL’ARCO NELL’ARCHITETTURA ROMANA

D’ETA’ REPUBBLICANA

Come abbiamo potuto sin qui accennare la rivoluzione del

l’ impiego dell’arco in muratura è stata uno dei più importanti volani

di sviluppo dell’architettura romana sin dal III secolo a.C.

Citando una bellissima frase di Pietro Scurati Manzoni34: “come per

tutte le civiltà primitive anche presso i Romani il cerchio ha rappre-

sentato la grandezza universale. Dopo avere separato i cieli, le acque

e la terra, prima cura del Dio fu quella di plasmare la terra a forma

di grande sfera, perché fosse uguale in tutte le direzioni”. Così Ovi-

dio nelle Metamorfosi. Nel Pantheon la sfera è assunta a simbolo del

cosmo”.

Le mura delle città etrusche di Perugia e Falerii Novi hanno porte

monumentali coronate da un arco; se Perugia è una città di fondazio-

ne etrusca, diversa è la situazione per quanto riguarda Falerii Novi, in

quanto questa è stata costruita dai Romani, forse con l’aiuto di inge-

gneri etruschi, per accogliere gli abitanti di Falerii Veteres, assediata

e distrutta dai Romani intorno al 241 a.C.35

Abbiamo accennato alla possibilità che la Porta Sirena a Paestum sia

riferibile al periodo della conquista latina; possiamo considerare la

data del 273 a.C. come termine post quem per l’effettivo impiego del-

le strutture voltate nell’edilizia romana.

Esempio importante di impiego dell’arco in strutture di grandi dimen-

sioni è considerata sicuramente la facciata del Tempio della Fortuna

Primigenia a Palestrina (fine II secolo a.C.), articolato su sei terrazze,

la quinta delle quali costituita da portici colonnati e completamente

34 MANZONI. 1991, p.16;35ADAM 2008, p.174;

ritmata da fornici, insieme all’imponente portico che cinge il com-

plesso templare del santuario di Ercole Vincitore a Tivoli (metà II se-

colo a.C.), costituiscono ad oggi gli esempi più antichi dell’impiego

dell’arco in strutture di grandi dimensioni.

D’altrocanto l’impiego dell’arco in muratura come elemento musicale

e ritmico che iniziava ad essere applicato non solo in fondazione ma

anche per l’abbellimento di moltissime facciate di edifici pubblici

romani vivrà il suo periodo di splendore soprattutto in età sillana.

L’evoluzione dell’impiego dell’arco in muratura culmina nella co-

struzione del più interessante complesso del Tabularium (78 a.C.),

l’archivio di Stato della Roma repubblicana ricostruito da Quinto Lu-

tazio Catulo, la cui facciata è costituita completamente da elementi

arcuati.

L’impiego dell’arco nell’edilizia pubblica è uno degli elementi fon-

damentali per comprendere l’evoluzione urbanistica della città di

Roma, che raggiunge l’acme nella costruzione di uno dei più grandi

anfiteatri d’età imperiale, il Colosseo, in cui sono ancora ben visibili

tre ordini di arcate a sostegno della cavea.

L’impiego della struttura arcuata ha permesso la realizzazione di

grandi edifici pubblici, come gli anfiteatri, manifestazioni caratteri-

stiche del mondo romano di cui tenteremo di spiegare la genesi,

l’evoluzione, e soprattutto la ricostruzione del loro intimo schema ge-

ometrico nei capitoli che seguono.

4. ORIGINE E DEFINIZIONE DEL TERMINE ANFITEATRO

Da un punto di vista prettamente filologico la parola anfiteatro compare per

la prima volta in età imperiale, molto dopo l’apparizione dell’edificio stes-

so, in Vitruvio (I, 7, V,1, 1-2) e nelle Res Gestae Divi Augusti (IV, 41).

Da un punto di vista sintattico il termine (αμφιθεατρον) sembra avere in

origine valore di aggettivo, va quindi completato con il

sostantivo οικοδομημα (edificio, costruzione). Secondo G. Forni36

l’edificio non va inteso come un doppio teatro, come lo intesero Ovidio

(Met. XI, 25): “structum utrimque theatrum……” o Isidoro di Siviglia (Or.

XV, 2; XVIII, 2), ma più che altro come una costruzione destinata agli

spettatori a coloro che ammirano (θεαομαι, guardo, osservo, sono spettato-

re) quindi è uno spazio per guardare (θεατρον) che corre tutt’intorno

(αμφι) all’arena37.

E’ presumibile che soltanto al principio del I secolo a.C., come conseguen-

za del rivolgimento sociale dovuto alle guerre civili di poco precedenti la

dittatura sillana (82-79 a.C.), e in seguito alla fondazione di numerosi colo-

nie di veterani, sia sorto il bisogno di creare uno spazio permanente per le

lotte gladiatorie, anche se in Campania il fenomeno è molto precoce; i pri-

mi anfiteatri campani si datano a partire dalla metà del II secolo a.C., si

tratta di strutture costruite secondo la logica dei teatri greci, cioè su terra-

pieno (amphiteatrum terra exaggeratum) ed adagiate da un lato su pendio

(in montibus 38).

I testi anteriori all’età imperiale, come si evince dall’iscrizione dedicatoria

dell’anfiteatro di Pompei (C.I.L., I, 1246), datata al 75-70 a.C. designano

36 EAA 1958, p. 388;37 Ivi, p. 374;38 JOHANNOWSKY 1976, p.272;

l’edificio con il nome di spectacula39che può indicare sia il luogo della

spettacolo sia i posti a sedere riservati agli spettatori.

L’anfiteatro di Statilio Tauro, il primo anfiteatro stabile della città di Roma,

inaugurato nel 29 a.C., è definito col nome di amphiteatra. L’uso sistemati-

co del plurale fino alla prima età imperiale sembrerebbe ispirarsi ad

un’erronea interpretazione della struttura che veniva forse concepita come

l’effettiva unione di due teatri, anche in relazione all’esperimento di Curio-

ne che nel 53 o nel 52 a.C., accostò due teatri dalla parte della cavea.40

Il termine di amphiteatrum, al singolare, compare per la prima volta a Lu-

cera in un’iscrizione dedicatoria dell’anfiteatro della città databile al 2 a.C.;

da questo momento verrà impiegato a più riprese, fino a che il suo uso cor-

rente non s’imporrà con gli inizi del II sec. d.C.41

Il termine viene usato per definire quegli edifici a pianta ovale/ellittica di

creazione romana che si sviluppano a partire dalla fine del II sec a.C. rag-

giungono un aspetto monumentale durante l’età imperiale e ospitano i

combattimenti di gladiatori (munera) e di animali (venationes).

4.1 Anfiteatro: lessico delle varie parti.

Il centro dell’anfiteatro è costituito da un’area pianeggiante a forma ovale

coperta di sabbia e chiamata per l’appunto arena. Nell’arena si affrontava-

no schiere di gladiatori e bestie feroci; per accedervi c’erano due entrate,

una porta a N detta Porta Triumphalis da cui entrava la processione inau-

gurale che dava inizio ai ludi, a S un’altra porta (Porta Libitinensis) veniva

utilizzata per portare fuori i cadaveri.

Gli anfiteatri monumentali d’età imperiale sono dotati di sotterranei in cui

venivano alloggiate le macchine per le scenografie o montacarichi con gla-

39 EAA 1970, p. 233; 40 Ivi, p. 235;41 Ivi, p. 234;

diatori e belve; gli anfiteatri d’età repubblicana sono spesso sprovvisti di

sotterranei.

Così come per i teatri, attorno all’arena erano le gradinate in legno o in mu-

ratura dove prendevano posto gli spettatori (cavea).

La cavea per la pericolosità dei giochi era sopraelevata e distinta dall’arena

tramite un muro detto podium. La parte superiore del podium protetta verso

l’arena da un muro di transenna (balteus) era riservata alle famiglie più in

vista della città, in quanto i posti vicini all’arena erano i più ambiti per

l’ottima visuale che offrivano; sul balteus venivano montate sedie pieghe-

voli (sellae).

Al centro di uno dei lati lunghi del podium era ricavata una tribuna speciale

riservata alle autorità (suggestum o pulvinar).

Il resto della cavea era diviso in elementi strutturali: vomitoria erano i cor-

ridoi d’accesso (gli ingressi) che modulavano l’afflusso ed il deflusso ordi-

nato degli spettatori, distinti a seconda delle categorie di censo ed apparte-

nenza; i settori orizzontali (maeniana) erano divisi da anelli detti praecin-

ctiones, i settori verticali (cunei) erano delimitati e suddivisi da scalae.

La cavea era divisa in ima cavea (più bassa e vicina allo spettacolo), media

e summa cavea (progressivamente più distanti); i posti più ambiti erano

quelli in ima cavea, per questo le classi sociali erano ripartite nell’edificio

con un ordine decrescente.

In cima alla cavea era frequentemente un portico (porticus in summa cave-

a), a volte occupato da ulteriori gradinate lignee.42

42 SORICELLI, STANCO 2009, p.94;

4.2 Origine dei ludi gladiatorii e delle venationes

E’ importante, ai fini del presente studio considerare l’origine dei ludi gla-

diatori soprattutto per quanto riguarda un loro eventuale legame con la terra

che per prima li ha generati: la Campania.

Non è un dato trascurabile il fatto che i più antichi anfiteatri romani com-

paiano proprio in Campania in particolare nelle zone in cui era molto forte

la presenza osco-sannita (Pompei, Cuma) o etrusca (Capua).

In merito a ciò sono due sono le ipotesi che si sono avvicendate nel corso

del XIX e XX secolo; l’una prende in considerazione un’origine Osco-

Sannita dei ludi gladiatorii, l’altra propende per un’origine Etrusca.43

La prima sostenuta da G. Ville44, si basa sulla considerazione che i ludi

gladiatori si siano sviluppati per la prima volta in Campania intorno al IV

secolo a.C., a partire dai ludi funebres, dopodiché “la gladiature n’aurait

été qu’ensuite adopteè en Etrurie et de là, transmise à Rome…”45.

La loro correlazione con il mondo dei morti e con la sfera funeraria è stata

comprovata dalla presenza di rappresentazioni di giochi, combattimenti e

banchetti in alcune tombe lucane di IV secolo, rinvenute a Capua, Paestum,

Albanella, Altavilla46.

In particolare da alcune tombe dipinte di Paestum (databili tra il 370 e il

340 a.C.), si nota la presenza di alcuni caratteri imprescindibili dal concetto

stesso di gladiatura, come ha notato Ville nel suo ampio studio sul fenome-

no.

Nelle pitture lucane di Paestum si nota la presenza ricorrente di guerrieri

affrontati rappresentati nell’atto di combattere, elemento che più di tutti ca-

ratterizza l’essenza dei ludi gladiatorii (il combattimento, lo scontro brutale

43 WELCH 2007, p.11;44 VILLE 1981, pp.1-5, HEURGON 1970, 431-432;45 GOLVIN 1988, p.11;46 HEURGON 1970, p. 107, 118, 121, 123;

che porta alla morte di uno dei due combattenti) come dimostra

l’affermazione di J.P. Thuillier “..une scène de gladiature vèritable, oppo-

sant deux hommes armés, semblablement ou différentement: rien ne

s’opposait pourtant à l’association des chevaux, des athlètes, et des gladia-

teurs comme le montrent bien les peintures tombales de Paestum…”47.

A partire dalla fine del III secolo a.C. i ludi funebres avrebbero conosciuto

una fase di laicizzazione e professionalizzazione, i giochi in onore del de-

funto divennero un pretesto per organizzare spettacoli veri e propri posti in

essere da combattenti professionisti per soddisfare le esigenze di un pubbli-

co sempre più numeroso che iniziava ad avere bisogno di uno spazio ap-

propriato per poter assistere ai giochi.

Testimonianza di questa progressiva laicizzazione è presente in un passo di

Livio (IX, 40, 17) in cui racconta che i Campani dopo la vittoria sui Sanniti

nel 308 a.C. non esitarono a fare combattere dei gladiatori durante i loro

banchetti, vestendoli con le armi e la armature sannitiche:”…Campani ab

superbia et odio Samnitium gladiatores, quod spectaculum inter epulas e-

rat, eo ornatu armarunt Samnitiumque nomine compellarunt”( si nota co-

me la specificazione inter epulas denoti un utilizzo dei ludi in ambito con-

viviale, cioè durante i banchetti), anche K. Welch riporta un passo interes-

sante di Silius Italicus (Punica 11, 51-4), riguardo l’abitudine dei Campani

di organizzare spettacoli gladiatori durante i banchetti; abitudine che di

tanto in tanto creava qualche inconveniente che sembrava non scandalizza-

re più di tanto il pubblico partecipante, come dimostra il passo prima citato

di Silius Italicus: “Quin etiam exhilarare viris convivia caede / mos olim, et

miscere epulis spectacula dira / certantum ferro, saepe et super ipsa ca-

dentum / pocula resperis non parco sanguine mensis”.

Nondimeno i ludi gladiatorii continuarono per lungo tempo a conservare il

loro carattere “privato” legato alla generosità di un particolare donatore; il

THUILLIER 1987, p. 138;

termine munus si riferisce al concetto di “dono” elargito alla popolazione,

con il termine ludi, invece, si definiscono quei giochi puramente spettacola-

ri.

4.2.1 L’ipotesi Etrusca

L’altra ipotesi sull’origine della gladiatura prende in considerazione come

possibile candidata l’Etruria.

Anche in questo caso le evidenze più importanti provengono dal mondo fu-

nerario, in particolare dalla enorme quantità di tombe etrusche dipinte data-

bili tra il 540 e il 430 a.C.48

Oltre alle testimonianze archeologiche le fonti citano, (Ateneo nei Deipno-

sofisti (IV, 153) facendo eloquire Nicola di Damasco):

”τασ τϖν μονομαχϖν θεασ ου μονον εν πανηγυρεσι και θεατροισ επ

οιουντο Ρϖμαιοι, παρα Τυρρηνϖν παραλαβοντεσ το ετοσ αλλα καν

ταισ εστιασεσιν........”49 (I Romani misero in scena combattimenti gla-

diatori non solamente durante le loro feste o nei loro teatri, prendendo in

prestito l’usanza dagli Etruschi, ma anche durante i loro banchetti).

In sostanza, però, la frase chiarifica solo che i Romani adottarono questa

tecnica dagli Etruschi, e questo non può assurgere a prova inconfutabile

dell’origine Etrusca dei ludi gladiatori.

L’ipotesi di Ville ha fatto giustizia circa l’origine etrusca dei munera, in

quanto la grande quantità di tombe dipinte provenienti da Tarquinia e da

Chiusi presentano un materiale iconografico profondamente diverso dalla

tombe già citate di Paestum.

48 Golvin sembra non essere d’accordo con questa ipotesi espressa dalla Welch, infatti lo stu-dioso citando G. Ville, afferma che le raffigurazioni tombali non rappresentano giochi gladiato-rii, in quanto la gladiatura sarà importata in Etruria dalla Campania solo all’inizio del III secolo:“Ce ne que vers la fin du IV ou au début du III siècle avant Jésus Christ, que la gladiature dutetre adopteè en Etrurie…” (Golvin, op. cit., p.16);49 VILLE 1981, op.cit, p.7;

La maggior parte dei dipinti raffigura competizioni ippiche e atletiche, o

danze, o differenti esercizi circensi, mai si presenta allo sguardo una scena

di guerrieri affrontati che combattono.

Manca nelle pitture etrusche la sostanza dei ludi gladiatorii fondati sulla

spettacolarizzazione di un duello marziale e violento, in pratica sulla spet-

tacolarizzazione della morte; l’elemento sportivo, della competizione ago-

nistica è, di certo, l’elemento iconografico che traspare con maggior facili-

tà dall’interpretazione delle pitture etrusche.

Nel saggio già citato di J. P. Thuillier, lo studioso spiega con dovizia di

particolari come il celebre gioco del Phersu, rappresentato chiaramente nel-

la tomba tarquiniese degli Auguri (540-530 a.C.), non può essere conside-

rato un antecedente dei ludi gladiatorii.

Il gruppo del Phersu è caratterizzato, nella parte conclusiva della parete de-

stra della tomba, da un individuo mascherato (il Phersu) che aizza un cane

da lui tenuto al guinzaglio contro un uomo vestito con corto perizoma e con

un cappuccio sulla testa il quale tenta di difendersi dal cane tramite un ba-

stone nodoso; l’altra parete lunga, mal conservata, contiene un auleta (suo-

natore di flauto), due pugilatori e un altro Phersu che danza o che fugge.

Thuillier elenca alcune interpretazioni, antiche e moderne, riguardo

l’analisi del gioco del Phersu.

Secondo queste interpretazioni il gioco del Phersu rappresenterebbe una

sorta di sacrificio umano “exécuté à l’aide d’une bete féroce”.

Seguendo l’analisi particolareggiata dei dettagli il sistema d’attacco da par-

te di un cane, è un motivo d’origine orientale (attestato in Egitto e in Li-

dia)50; secondo Thuillier questo elemento, da solo, non prova l’origine o-

rientale di tutto quanto il rito.

50 THUILLIER 1970, op. cit., p. 138, nota n. 20;

Altre teorie interessanti sono rispettivamente espresse da Y. Bomati e D.

Rebuffat51, sempre all’interno del saggio di Thuillier.

Per Y. Bomati la pittura rappresenta un rito di messa a morte dell’individuo

incappucciato, un sacrificio umano propiziatorio destinato a purificare

l’anima del defunto; il secondo Phersu dipinto sulla parete opposta “danse-

rait dans l’outretombe dionysiaque52 ”.

Secondo l’opinione di D. Rebuffat (rispetto a ciò che lo stesso Thuillier ri-

porta nel suo saggio), si tratta della rappresentazione da parte di due attori

di un dramma sacro, una sorta di mistero improntato alla religione iniziati-

ca greca, che richiama in qualche modo il mito di Eracle disceso negli Infe-

ri per catturare il cane Cerbero. Questa interpretazione è stata raramente ac-

cettata (il cane Cerbero nella mitologia ha tre teste non una sola), soprattut-

to rispetto all’assenza di questo motivo mitologico-iconografico nelle altre

pitture. Secondo Thuillier il Phersu doveva rifarsi ad un sacrificio umano,

legato a determinate pratiche di purificazione; “ le jeu du phersu n’est pas

une scène de gladiature, et ne peut servir de fondement à l’hypothèse qui

fait des Etrusques les inventeurs de la gladiature”. Analizzando la Tomba

delle Bighe di Tarquinia, notiamo che compaiono i primi elementi di un in-

quadramento scenico, caratterizzato da spalti in legno che circondano (nel

limite delle possibilità di quella che è una visione priva di prospettiva),

un’arena centrale.

Una delle pareti della tomba mostra un’interessante veduta d’insieme delle

gradinate su cui sedevano gli spettatori che assistevano ai giochi.

Esse mostrano lo svolgimento di giochi atletici ad un pubblico assiso su

delle panche di legno supportate da una sorta di sostruzione.

Si nota una differenza di quota e di posizionamento tra il piano del suolo e

la sopraelevazione in legno su cui siede il pubblico; questo dislivello se da

51 Idem, p. 138, nota n. 22, 23, 24;Idem, p. 138

una parte diminuisce lo spazio destinato ai giochi, dall’altra rende lo spetta-

tore padrone del quadro visivo e di tutta l’azione che si svolge intorno.

Tutta la composizione generale attira l’attenzione in quanto, nonostante la

visione schiacciata della pittura, sembra che i combattenti occupino la parte

centrale mentre le tribune con gli spettatori sono collocati ai lati; questa di-

sposizione più che sembrare fortuita, potrebbe richiamare qualche spazio

simile già in uso nella realtà (la disposizione della cavea nei teatri e nei

bouleteria greci).

E’ realistico pensare che l’artista abbia voluto rappresentare lo svolgimento

dei giochi nella parte centrale della composizione, collocando, quindi, gli

atleti nel bel mezzo della pittura, e viceversa, abbia voluto collocare le tri-

bune, così come nella realtà, da una parte e dall’altra dell’”arena”.

Nell’ambito di queste pitture sono già presenti due elementi principali

dell’anfiteatro:

• uno spazio centrale destinato ai giochi (arena);

• una serie di gradinate sopraelevate disposte ai margini dello spazio libero

centrale (cavea);

Secondo Golvin questi palchetti semovibili di legno si possono ricondurre a

delle strutture teatrali italiche utilizzate tra la fine del IV e gli inizi del III

secolo a.C., soprattutto in Italia meridionale.

Queste strutture si riferiscono, secondo una lettura più accurata, al teatro

dei phlyakes, una sorta di saltimbanchi rappresentanti di un tipo di genere

potremmo dire “tragicomico”; questa considerazione non è, comunque, suf-

ficiente a dimostrare un eventuale collegamento tra questi edifici molto an-

tichi e i futuri anfiteatri53.

L’unica possibilità sembra quella di ricercare la loro origine altrove vol-

gendo lo sguardo su Roma.

4.2.2 La gladiatura nella Roma repubblicana

Fino a questo momento non è stato possibile risolvere o risalire a quella che

poteva essere un’ipotesi certa e coerente sull’origine della gladiatura; nono-

stante ciò sarà molto importante considerare le modalità con cui questa è

stata introdotta a Roma, che diventa la chiave per comprendere

l’evoluzione delle prime forme anfiteatrali.

Secondo le fonti, i primi munera si svolgono a Roma nel 264 a.C., donati

da Marcus e Decimus Brutus per onorare la memoria del padre Decimus

Junius Brutus Pera (Livio, Epit.,16:” Decimus Iunius Brutus munus gladia-

torum in honorem defuncti patris primus edidit”).

Dallo storico Valerio Massimo (II, 4, 7) veniamo a conoscenza del fatto

che questi primi ludi si svolgevano nel Forum Boarium (il luogo della Ro-

ma repubblicana dove si svolgeva quotidianamente la compravendita del

bestiame):” Nam gladiatorium munus primum Romae datum est in foro bo-

ario Ap. Claudio, Q. Fulvio consulibus: dederunt M. et D. filii Bruti Perae,

funebri memoria patris cineris honorando…”.

Servio (Ad Aen., III, 67, 10/14) c’informa che i combattenti erano dei pri-

gionieri di guerra (probabilmente in riferimento alla presa di Volsinii, in-

torno al 264 a.C.)

53 “Le thèatre de bois des phlyakes ne peut donc etre considéré comme l’ancetre du theatre ro-main, mais comme le lieu destine à des representations d’un genre particulier , “l’hilaro-tragédie”, à une époque bien determine (dans le courant du IV siècle et jusqu’a la moitié du IIsiècle av. J. C., op. cit., nota n. 19, p. 17;

Come si può facilmente notare le prime manifestazioni dei ludi gladiatori

sono strettamente legati all’ambito funerario ma finiranno per subire una

progressiva laicizzazione per tutto il III e per parte del II secolo a.C., così

come abbiamo precedentemente evidenziato per la Campania.

Ancora Livio (XXIII, 39, 15) ci parla di un combattimento databile al 216

a.C., organizzato da Lucio, Marco e Quinto Lepido, per onorare la memoria

del defunto padre M. Aemilio Lepido, che fu console due volte e augure; i

giochi si svolsero per tre giorni consecutivi e vi presero parte circa 22 cop-

pie di gladiatori nel Foro (“ Et mortuo M. Aemilio Lepido, qui consul et au-

gur fuerat, filii tres, Lucius, Marcus, Quintus, ludos funebres per triduum

et gladiatorum paria duo et viginti in Foro dederunt”)

In questa occasione Livio parla del Forum Romanum, che sarà la location

principale in cui si svolgeranno i giochi per tutto il III secolo a.C., almeno

per quanto riguarda la città di Roma.

Livio menziona altri giochi nel 201 a.C. (in onore di Valerio Leviano), nel

183 a.C. (in onore di Publio Licinio Crasso) e nel 174 a.C. (in onore di Tito

Flaminio).54

Rispetto alle notizie che Livio ci riporta saremmo inclini a pensare che i

giochi fossero poco frequenti durante l’età repubblicana, in realtà la lettera-

tura non rispecchia il graduale evolversi dei munera così come dovette es-

sere nella realtà; dalle poche notizie superstiti possiamo quantomeno consi-

derare che dalla data dei primi munera attestati dalle fonti (264 a.C.) il nu-

mero di gladiatori che partecipano aumenta, da tre paia nel 264, a 74 paia

nell’anno 17455.

La crescita esponenziale del numero dei gladiatori proporzionale al suc-

cesso dei giochi e al numero degli spettatori che vi prendevano parte cul-

mina in un aneddoto riportato da Ville e datato al 160 a.C.

54 WELCH 2007, p. 20;55 In questo senso l’opera omnia della gladiatura in Occidente è quella di G. Ville, già preceden-temente citata;

Gli spettatori che stavano assistendo alla rappresentazione dell’Hecyra di

Terenzio (pref. 2, 39-43) venendo a conoscenza che gli era stato donato un

munus, si lanciarono fuori dal teatro e la pièce fu interrotta brutalmente.56

Ben si comprende da questo avvenimento come i ludi avessero già acquisi-

to un grande favore di pubblico, e come, da questo momento in poi, venis-

sero utilizzati per scopi prettamente politici.

Ancora Livio (XLI, 20, 10) ci informa che la “moda” dei giochi gladiatori

era arrivata fino in Siria, infatti, Antioco IV Epifano organizza uno spetta-

colo sontuoso e mirabile in cui si nota un chiaro influsso dei costumi greci

insieme alla presenza di combattimenti gladiatori; questo passaggio in Li-

vio dimostra come già alla metà del II secolo a.C. i munera erano conside-

rati una caratteristica sostanziale del mondo romano; l’interesse di Antioco

IV per i munera può essere spiegato all’indomani della sua permanenza a

Roma come ostaggio dopo la pace di Apamea tra il 188 e il 176 a.C.57

Sembra evidente che i giochi permeano profondamente la vita e la cultura

romana fino a diventare un elemento di riconoscimento etnico-culturale, un

mezzo di diffusione dell’immagine di un popolo.

Gli organizzatori degli spettacoli, coloro che “donavano” (editores) i gio-

chi, potevano sfruttare il gusto del pubblico a favore delle loro carriere; la

fama di questi giochi divenne così incontenibile che nel 105 a.C. il Senato

romano li rende prerogativa dello Stato58 in relazione alla volontà di laiciz-

zare i giochi rendendoli, in questo modo, una prerogativa di Stato, non più

alla mercè dei privati.

56 VILLE 1981, op. cit., p.4457 WELCH 2007, p. 21;58 Idem, p. 22;

4.2.3 La venatio

Oltre ai ludi gladiatorii è opportuno accennare all’esistenza di altre perfor-

mances che si svolgevano negli anfiteatri soprattutto durante l’età imperia-

le: la spettacolarizzazione della caccia (venatio), la pubblica esecuzione di

captivi, schiavi o ladroni attraverso la crocifissione, l’esecuzione degli stes-

si da parte di bestie feroci (damnatio ad bestias), i combattimenti tra bestie

feroci.

La prima testimonianza in assoluto di una venatio riguarda una pittura tom-

bale osca di Alife, (dove è ubicato uno dei primissimi anfiteatri in pietra di

tutta la romanità, che concorre insieme a quello di Pompei per antichità),

databile al IV secolo a.C59, oggi perduta, di cui non esiste alcuna riprodu-

zione. La sola descrizione di un documento isolato non può corroborare la

validità di un’ipotesi scientifica, si esclude, a priori e fino a prova contraria

l’eventuale origine campana anche della venatio.

La prima testimonianza a Roma di una venatio corrisponde

all’importazione di animali esotici nel corso delle guerre puniche, animali

importati soprattutto dall’Africa (nel 275 a.C. furono portati da Pirro in Ita-

lia meridionale). Secondo Plinio (N. H., VIII, 6, 17) nel 252 a.C. furono

presentati al pubblico 142 elefanti che L. Metello aveva portato dalla Sici-

lia. Il luogo in cui furono presentati questi animali esotici non fu un anfitea-

tro, d’altronde Roma non ne possedeva nessuno a quell’epoca, ma il Circo

Massimo; fino alla metà del I secolo a.C., infatti, la venatio non era consi-

derata parte dei giochi gladiatori ma parte di feste pubbliche (ludi), che si

svolgevano, appunto, nel Circo Massimo60. La prima caccia vera e propria

59 G. Ville, op. cit., p. 51, riporta la descrizione di F. Weege (JDAI, 1909, n.45, p.135), il qualeè a conoscenza della pittura in maniera indiretta;60 la prima installazione di questo grande ippodromo sarebbe stata opera di Tarquinio Prisco. Aisedili di legno si sarebbero sostituite progressivamente gradinate in muratura. Nel 329 a.C. fu-rono costruiti sul lato corto settentrionale i carceres, le gabbie di partenza per i carri, che erano

su larga scala fu organizzata da M. Fulvius Nobilior in cui presero parte le-

oni e pantere; Nobiliore dedicò questo evento a Giove Optimo Massimo,

dopo la presa di Ambracia.61

Nel 170 a.C. il Senato romano proibisce le importazioni di animali esotici

in Italia, al fine di evitare che i magistrati e le alte cariche pubbliche usasse-

ro codesti spettacoli per “comprare” il consenso politico del pubblico; con-

tro questo senato consulto, Cn. Aufidius, tribuno della plebe, fece votare un

plebiscito che permetteva l’importazione di animali solo per fini ludici;

l’aneddoto raccontato da Plinio (N.H., VIII, 17, 64) dimostra quanto grande

fosse la popolarità di questi giochi tra il pubblico.

4.2.4 Damnatio ad bestias

Cosi come la venatio, anche la pubblica esecuzione di captivi, o criminali

da parte di bestie feroci (damnatio ad bestias), divenne parte integrante

dell’intrattenimento ludico negli anfiteatri in età imperiale.

In età repubblicana, invece, tutti gli esempi di damnatio sono correlati al

mondo militare.

In sostanza anche la prima apparizione della venatio era legata a vittorie

militari o a guerre, usata come strumento di celebrazione di vittorie, come

vessillo di superiorità e supremazia.

La prima damnatio attestata dalle fonti è datata al 168 a.C. quando L. Emi-

lio Paolo vincitore di Pidna (assoggettatore di tutta quanta la Grecia), deci-

de di far schiacciare da due elefanti i disertori dell’esercito romano di e-

di legno dipinto. Forse negli stessi anni fu costruita la spina, entro la quale venne canalizzato ilcorso d’acqua che traversava la valle, in direzione del Tevere. I carceres in muratura sarannocostruiti nel 174 a.C. Il secondo circo di Roma fu il Circo Flaminio, costruito nel 220 a.C., F. Coarelli, Guida archeologica di Roma 1980, p.292 ss.;61 K. Welch, op. cit., p. 23;

strazione straniera; secondo lo storico Valerio Massimo (II, 7, 14)

l’accaduto doveva essere considerata una punizione militare esemplare.

Così fu anche per Scipione Emiliano, che nel 146 a.C. organizza dei giochi

per celebrare la conquista della Macedonia e durante le celebrazioni fa tru-

cidare da bestie feroci i disertori del suo esercito.

Sembra proprio che la damnatio nasca come punizione della diserzione mi-

litare, e subisca, così come avviene per i munera e le venationes, una pro-

gressiva laicizzazione e spettacolarizzazione fino a diventare uno strumento

di identificazione etnico-culturale, oltre che un efficace mezzo per guada-

gnarsi il favore del popolo.

Possiamo notare, dopo questo breve excursus riguardo l’origine e la forma

di munera e venationes, come una “amphiteatre mentality”, citando la

Welch62, permeava la cultura romana sia nel periodo repubblicano che in

quello imperiale.

E’ opportuno porre l’accento soprattutto sulla fase di sviluppo dei giochi

legata in maniera indissolubile ad un periodo di intensa espansione militare

di Roma ai danni delle popolazioni vicine (Sanniti), e non (Cartaginesi),

ossia la media età repubblicana (III-II sec. a.C.), in cui la forma anfiteatra-

le affonda le sue radici; se si vuole ben capire come nasce e si sviluppa la

forma architettonica in questione non si può assolutamente prescindere dal

periodo storico e dalle condizioni socio-politiche in cui essa ha origine,

quello della Roma Repubblicana.

62 WELCH 2007, op. cit., p.28;

5. Genesi della forma anfiteatrale

La genesi di un edificio o di una nuova forma architettonica è legata in ma-

niera indissolubile alla società che la genera.

L’architettura è riflesso materiale e strutturale dei bisogni e delle esigenze

degli uomini; questo inciso è particolarmente vero per la tipologia degli an-

fiteatri i quali, sconosciuti al mondo ellenico, furono costruiti per far fronte

allo sviluppo esponenziale di munera e venationes, sviluppo che interessa,

in particolare, il territorio campano da cui provengono le prime testimo-

nianze di anfiteatri stabili in muratura (Cuma, Capua, Pozzuoli, Pompei ).

In relazione alla volontà di stabilire una vera e propria genesi di questa

nuova forma architettonica tentiamo di risalire al prototipo geometrico cui

dovrebbe trarre origine la forma anfiteatrale, che sembra essere nella sua

intrinseca geometria profondamente peculiare.

Facendo riferimento alle scarse notizie di Vitruvio riguardo gli anfiteatri,

si nota che esiste una simbiosi interessante tra munera e primissimi luoghi

adibiti al loro svolgimento, cioè, i fori.

Le fonti che abbiamo citato in relazione all’origine e sviluppo di munera e

venationes forniscono notizie fondamentali riguardo i “loci” che nella pri-

ma età repubblicana venivano usati come spazi concepiti e in qualche modo

subordinati allo svolgimento degli stessi.

In particolare dallo storico Valerio Massimo (II, 4, 7), e da Livio (XXIII,

39, 15), veniamo a conoscenza del fatto che a Roma i primi munera di cui

abbiamo notizia, si svolgono nel Foro Boario (264 a.C.) e nel Foro Roma-

no (216 a.C.).

Da Vitruvio (V, 1,1-2) apprendiamo che la forma dei fori italici, distinti da

quelli greci a pianta quadrata, è profondamente condizionata dalla tradizio-

ne di celebrare al loro interno spettacoli gladiatori: “ Italiae vero urbibus

non eadem est ratione faciendum, ideo quod a maioribus consuetudo tradi-

ta est gladiatoria munera in foro dari. Igitur circum spectacula spatiosiora

intercolumnia distribuantur circaque in porticibus argentariae tabernae

maenianaque superioribus coaxationibus conlocentur, quae ad usum et ad

vectigalia publica recte erunt disposita”.

Nella prima parte del passo, Vitruvio indica la dimensione degli interco-

lumni dei loggiati che devono essere più ampi rispetto a quelli greci (il rap-

porto deve essere quello di 2:3), insieme ad alcune indicazioni riguardo la

funzione commerciale del Foro, come luogo di tabernae e maeniana, cioè

terrazzini, concepiti probabilmente come posti privilegiati da cui godersi lo

spettacolo (antenati del maenianum summum, per intenderci). In termini di

chiarezza storico-filologica è d’obbligo considerare l’inciso entro cui Vi-

truvio definisce questa prassi come un qualcosa che non affonda le radici

nel tempo a lui contemporaneo (di certo l’uso del foro come cornice dei lu-

di gladiatorii è attestato dallo stesso Vitruvio anche ben oltre la data di fon-

dazione dell’anfiteatro di Pompei, nello stesso foro di Pompei)63, ma si rife-

risce ad un modo di fare tramandato da consuetudini e realtà di fatto molto

più antiche (…”a maioribus consuetudo tradita..”).

Il dato più importante da considerare nel passo vitruviano è la forma o-

blunga del foro italico (tra l’altro l’unico dato planimetrico che ci fornisce)

profondamente influenzata dallo svolgimento dei munera (V, 1, 2): “Lati-

tudo autem ita finiatur uti, longitudo in tres partes cum divisa fuerit , ex his

duae partes ei dentur; ita enim erit oblonga eius formatio et ad spectaculo-

rum rationem utilis dispositio”.

La forma oblunga avrebbe permesso il dispiegamento della pompa sull’asse

maggiore, e, contemporaneamente, ottimizzato la visuale degli spettatori.

63 Anche nelle Res Gestae (22, 3) è attestata la consuetudine, protrattasi evidentemente sinoall’età augustea, di organizzare i munera non solo ed esclusivamente negli anfiteatri, ma anchenel foro o nel circo: “….venationes bestiarum Africanarum…..in circo, aut in foro aut in am-phiteatris…”

In particolare il modello del foro di tipo latino diventa un imperativo cate-

gorico anche nelle città di origine greca entrate ormai nell’orbita romana; la

romanizzazione aveva portato con sé una tradizione antica, esclusiva, un

modello di autoidentificazione del carattere “latino”, cioè, il munus gladia-

torium cui era associata anche la venatio.

Nel saggio di G. Tosi (2003), la studiosa cita alcuni esempi di città greche

costrette ad uniformarsi a questa tradizione romana, tra tutti riporto i due

più interessanti: “Pompei per la presenza di un Teatro “alla greca”, un

Foro di tipo latino, un Anfiteatro; Paestum per la cancellazione dell’agorà

sostituita dal forum e la costruzione di un Anfiteatro…..” 64.

Si nota come l’influenza romana non fosse solo meramente politico-

istituzionale ma finiva per condizionare nei casi come quelli appena citati

anche i luoghi simbolo dell’identità etnico-sociale delle popolazioni assog-

gettate.

Vitruvio cita nuovamente i fori italici come sede “istituzionale” per i mune-

ra nella prefazione del libro X (sezione 3), afferma che venivano insieme ai

ludi scaenici rappresentati in strutture provvisorie soggette agli stessi costi

eccessivi e non preventivati delle costruzioni edificate: “Nec solum id vi-

tium in aedificiis, sed etiam in muneribus quae a magistratibus foro gladia-

torum scaenisque ludorum dantur , quibus nec mora neque expectatio con-

ceditur, sed necessitas finito tempore perficere cogit, id est sedes spectacu-

lorum velorumque inductiones (sunt) et ea omnia quae scenici moribus per

machinationem ad spectationes populo comparantur”.

Il leitmotiv su cui Vitruvio pone l’accento ogni qualvolta parla dei munera

o delle venationes è riferito alla consuetudo plurisecolare su cui si fonda la

legittimazione dei giochi; come afferma la stessa Tosi nel saggio preceden-

temente citato65, “ la consapevolezza del ruolo della consuetudo doveva es-

TOSI 2003, p. 700;Ivi, p. 716;

sere profonda ed è probabile che nel tempo in cui visse Vitruvio, nell’età

cesariana e nella prima età augustea, i munera cesariani in foro, fossero

quelli più vicini alla memoria”.

Da questa affermazione si possono trarre due conclusioni, l’una secondo

cui dovette essere talmente forte la valenza di questa consuetudo, (rilevante

doveva essere anche l’enorme peso politico da essa ricoperto, vista la fre-

quenza con cui viene citata dall’autore), da permettere di organizzare mu-

nera nel foro avendo a disposizione un anfiteatro stabile come quello di

Statilio Tauro costruito nel 29 a.C.; la seconda fa riferimento al probabile “

silenzio” vitruviano rispetto alla costruzione degli anfiteatri che compaiono

nel trattato prima con il nome di amphiteatra (I, 7, 1) il cui concetto basila-

re (uno spazio per chi guarda che gira intorno all’arena, o ad uno spazio

centrale) viene espresso nel libro V (1, 1-2) col neologismo di circum spec-

tacula, che sembra essere una assimilazione, o meglio una concettualizza-

zione del primo.

Ponendo per dato certo66 che Vitruvio fosse a conoscenza dell’aedificatio

in montibus et exaggeratum dei più antichi anfiteatri campani (Pompei,

Cuma, Capua, Pozzuoli), sembra ancora più inverosimile la sua reticenza a

stabilire norme precise sull’aedificatio di questi particolari edifici; pare, in-

vece, molto più verosimile che Vitruvio abbia sentito il bisogno di riferirsi

ad una struttura ormai consolidata e compiuta (l’anfiteatro di Statilio Tauro

a Roma non poteva entrare, per ragioni temporali, a buon diritto in questa

categoria), che a Roma non esisteva ancora (molto più agevole sarà invece

il confronto della tipologia teatrale con il teatro di Pompeo costruito nel 55

a.C.), tale da indurre Vitruvio stesso a “registrare” la realtà dei fatti a lui

contemporanea, considerando il foro italico come sede preferita dei munera

al tempo di Cesare e di Augusto, tradizione destinata a continuare a Roma

per lungo tempo, ipotizzando una realtà diversa nel caso in cui Vitruvio si

66 DELORME 1960;

fosse trovato di fronte all’Anfiteatro Flavio, senza dubbio una delle costru-

zioni più monumentali di tutta la romanità, concludendo con

un’affermazione chiarificatrice della Tosi: “Credo che soltanto un monu-

mento siffatto (il Colosseo) avrebbe indotto Vitruvio a proporre un modello

anfiteatrale analogo a quello teatrale latino, che a suo tempo dissi “medi-

tato all’ombra del Teatro di Pompeo”67.

5.1 Ludus-Forum-Amphitheatrum

Il titolo dovrebbe in qualche modo sintetizzare le premesse sin qui elencate

e portare ad una sintesi finale a partire dall’elemento che Vitruvio definisce

sede istituzionale dei munera, cioè il foro di tipo “latino”.

In qualche modo la funzione “ludica” secondo le fonti sembra aver condi-

zionato la forma, e in parte, l’essenza stessa del Forum latino, prototipo

della forma anfiteatrale.

Vitruvio fornisce anche un unico dato planimetrico riguardo la forma del

foro, che deve essere “oblungo” rispetto alla canonica forma quadrata delle

agorai greche; la forma del foro è strettamente legata alla consuetudine di

svolgere al suo interno giochi e spettacoli gladiatori, come la tradizione

prevedeva.

Rispetto a tutti gli altri edifici per spettacoli (circo, stadio, odeo, teatro) la

cui genesi è abbastanza chiara e ricostruibile attraverso fasi storico-

costruttive alquanto definite (sul finire del III secolo a.C. Roma disponeva

già di due impianti circensi, il Circo Massimo e il Circo Flaminio, che co-

stituivano un modello già codificato per l’edificazione di edifici successivi;

non può dirsi la medesima cosa per quanto riguarda gli edifici anfiteatrali),

la genesi della forma anfiteatrale sembra essere meno lineare in quanto

TOSI 2003, op. cit., pp. 719-720;

mancano notizie e documentazioni riguardo la fase di passaggio dagli ap-

prestamenti temporanei del Forum Romanum, alla canonica pianta ova-

le/ellittica degli edifici stabili in muratura.

Secondo un processo di adattamento ed evoluzione F. Coarelli e J. C. Gol-

vin ritengono che i primi apprestamenti del Forum Romanum prefigurino

la forma anfiteatrale (K. Welch si basa su una struttura temporanea ovale

come punto d’arrivo da una struttura poligonale)68; questo studio interessa

le primissime costruzioni di tal genere (Cuma, Capua, Pozzuoli) che sem-

brano essere di molto più antiche dell’anfiteatro di Pompei, da sempre rite-

nuto uno degli esempi più vetusti del genere.

Secondo Golvin queste prime costruzioni sono frutto di un’evoluzione mol-

to più antica e lunga; il principio di questa evoluzione sembra discendere

dagli apprestamenti lignei del Forum Romanum, elevati a prototipo della

forma anfiteatrale.

Riprendendo alla lettera l’affermazione di Vitruvio sulla forma oblunga dei

fori latini, rispetto alla consuetudine di svolgere all’interno dei fori spetta-

coli di gladiatori, Golvin afferma che a partire dal III secolo a.C., quando i

giochi gladiatori iniziano la loro fase di sviluppo esponenziale dobbiamo

presumere che tutti gli spettacoli si svolgessero nel Forum Romanum (no-

nostante le fonti antiche ci riportino solo notizie scarse); Golvin afferma

addirittura che, nonostante le fonti ci riportino come data più antica quella

del 216 a.C., nel 338 a.C. il censore Caius Maenius ordina la costruzione di

balconate in legno al di sopra delle tabernae che circondavano lo spazio del

Foro, con lo scopo preciso di migliorare la visuale degli spettatori durante

lo svolgimento dei giochi69.

68 COARELLI 1985, 222 ss: GOLVIN 1988, 298-313; WELCH 2007, p. 35;69 In questo caso Golvin non specifica se si tratta del Foro Romano o del Foro Boario, si presu-me si riferisca al Foro Romano;

Questa è sicuramente una delle più antiche testimonianze sullo svolgimento

dei giochi gladiatori in un epoca così antica70; tra l’altro queste balconate

verranno chiamate maeniana proprio dal nome del censore Caius Maenius.

Abbiamo pochissime notizie del luogo in cui si svolgevano i giochi in ori-

gine (IV secolo a.C.), ma ipotizziamo che in quest’epoca gli spettacoli fos-

sero ridotti e limitati. Lo spazio del combattimento doveva essere molto ri-

stretto (tale da contenere al massimo qualche paio di gladiatori), situato in

prossimità della tomba dell’eroe “pour lequel le sang était répandu”71.

E’ ovvio che per l’esiguità dei combattimenti bastava un piano rettilineo

poco esteso su cui si potevano erigere delle palizzate o una barriera di le-

gno temporanea.

Nel corso della media età repubblicana (durante III secolo a.C.), quando i

munera e le venationes diventano un vero e proprio spettacolo si preferisce

utilizzare lo spazio del Foro come “edificio” ante litteram per lo svolgimen-

to di spettacoli più grandi e più importanti; d’altronde nessun altro luogo

sarebbe stato adatto ad ospitare giochi gladiatori come quello in cui la folla

si radunava naturalmente; il Foro era il cuore pulsante il centro di gravità

permanente della città; afferma Golvin:” les places publiques existantes

avaient pour avantage essentiel leur grande commodité en tant qu’espace

disponible et propice au rassemblement de la foule et que les premiers

combats étant très commemoratifs, le cadre solennel du forum convenait

très bien au déroulement de munera funèbres”. Comparando le caratteristi-

che del Forum Romanum con i Fori di altre città d’Italia d’età repubblica-

na si potrebbe risalire a quegli spazi che sembrano prefigurare la forma de-

gli anfiteatri apparsi in Campania a partire dalla fine del II e agli inizi del I

secolo a.C.

70 GOLVIN 1988, op. cit., p.19;71 Ibidem, p.301

5.1.1 Aspetti del Forum Romanum dalla fine del IV al II secolo a.C.

Ai fini del presente studio occorre considerare a grandi linee la topografia

del Forum Romanum solo per quel che riguarda gli edifici situati al limite

del Foro.

Possiamo affermare con un buon margine di sicurezza che subito dopo la

cacciata dei Tarquini (509 a.C.) l’attività edilizia nel Foro, a discapito della

situazione politica, non subisce alcuna battuta d’arresto; questo è dimostra-

to dalla costruzione di due importanti santuari (i primi ad essere costruiti

dopo il monumentale Tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio,

datato alla fine del VI secolo a.C.), il Tempio di Saturno (498 a.C.), che

chiude insieme al Comizio il Foro a NO e il Tempio dei Dioscuri (484 a.C.)

che chiude il Foro a Sud.

Per tutto il V secolo a.C. l’attività edilizia nel Foro sembra ricevere una

battuta d’arresto, pare, infatti, che una forma di recessione investa a tutti i

livelli l’intera città.72

Nel 390 a.C. la città viene saccheggiata dai Galli di Brenno, le cui testimo-

nianze archeologiche sembrano ridimensionare di molto il fenomeno; al

saccheggio seguì un incendio.

La costruzione del Tempio della Concordia

(367 a.C.), da parte di Camillo, sembra cele-

brare (il nome lo indica senza dubbio) la fine

delle lotte tra patrizi e plebei, conclusesi

proprio quell’anno con la promulgazione

delle Leggi Liciniae Sextiae 73.

Nel 338 a.C. (avvenimento molto importante

ai fini del presente studio), il censore Caius Maenius fa erigere la colonna

72 COARELLI 1980, p.53;73 Ivi, p.75;

Maenia (che ha una collocazione ancora dubbia, nonostante il Coarelli ab-

bia chiarito che era una sola colonna posta a sud del carcer e a ovest del

Comitium) e, in prossimità del Foro fa costruire delle balconate di legno

sopraelevate da cui godersi meglio lo svolgimento dei giochi gladiatori.

(Fest., p.120 L.: “Maeniana appellata sunt a Maenio censore, qui primus

in foro ultra columnas tigna proiecit, quo ampliarentur superiora specta-

cula”)74; sappiamo, inoltre, che i due lati lunghi della piazza furono circon-

dati da tabernae e tutta la superficie della medesima fu lastricata, lo spazio

era chiuso ad est dalla cosiddetta Regia.75

In questo spazio circondato di tabernae e sormontato di balconate lignee

dovettero svolgersi i primi giochi del 216 a.C. nel corso dei quali si affron-

tarono 22 paia di gladiatori proprio nel Forum Romanum.

Lo spazio destinato così descritto sembra rassomigliare alla forma oblunga

citata da Vitruvio (V, 1, 2) propria dei fori italici; lo spazio adibito ai com-

battimenti avrebbe, secondo Golvin, la forma di un rettangolo avente un

centinaio di metri di lunghezza e una cinquantina di metri di larghezza.

Il grande sviluppo edilizio del Foro avviene più tardi, in stretto rapporto

con le vicende socio-politiche della città, dopo la fine delle guerre puniche

che avevano dato a Roma il dominio incontrastato del Mediterraneo.

Alla crescita politico-militare si associa un vigore edilizio che investe in-

nanzitutto il foro; rispetto alle notizie riferibili a questo fervore riusciamo

anche a comprendere come lo spazio del Foro sia stato da sempre utilizzato

come locus publicus cui poter assistere ai munera.

74 in relazione alo sviluppo del Comitium Coarelli afferma che la forma dello stesso e degli edi-fici circostanti sembra essere stata adatta ad ospitare spettacoli gladiatori molto antichi, presu-mibilmente ancora prima del loro svolgimento degli stessi nel Forum Romanum. L’autore cita:“ Non è escluso che il Comizio abbia potuto servire anche per alcuni dei più antichi spettacoligladiatorii: è possibile che dalla sua forma si sia tratta l’idea dell’anfiteatro”. vd. Coarelli, op. cit., p. 62; c’è da dire che la forma circolare del Comizio non era adatta allo svolgimento deglispettacoli gladiatorii, i quali necessitavano di una forma oblunga, ma non si può escluderel’ipotesi del Coarelli sopracitata75 COARELLI 1980, op. cit., pp. 87-88;

In particolare, secondo la ricostruzione del Coarelli le tribune dei Rostra

costituivano il posto d’onore dei magistrati che assistevano agli spettacoli

gladiatorii; in tutto questo gioca un ruolo fondamentale la colonna Maenia,

che sembra corrispondere all’entrata ufficiale dei magistrati che si dirige-

vano verso le tribune a loro riservate.76

Secondo Golvin la disposizione delle tribune dei Rostra sembra precedere

la funzione della loggia d’onore degli anfiteatri77.

Tra l’altro i magistrati potevano far costruire tutt’intorno allo spazio del Fo-

ro tribune in legno che fittavano al pubblico, tra cui dovevano esistere an-

che dei posti riservati a famiglie privilegiate.78

La piazza del Foro doveva essere occupata, nel momento in cui si svolge-

vano gli spettacoli, da un insieme di tribune di legno costruite davanti agli

edifici che delimitavano la piazza stessa, sarebbe a dire gli antichi templi o

le basiliche realizzate nel corso del II secolo a.C.

Nel 179 a.C. fu costruita a N del Forum, la Basilica Fulvia Aemilia, nel

170 a sud la Basilica Sempronia, i principali edifici già citati esistevano da

tempo: a est la Regia, più a sud il Tempio dei Dioscuri, a O il Tempio della

Concordia, e in prossimità di questo il Tempio di Saturno.

La parte occidentale era occupata, come abbiamo detto, dal Comitium, dalla

colonna Maenia e a sud di questa qualche edicola.

Le tribune che costeggiavano il lato N della piazza dovevano arrivare al

Comitium e ricoprire tutto il lato sud-ovest, dal momento che le tribune dei

Rostra venivano lasciate di proposito a cielo aperto, per costituire, come

già detto, una loggia d’onore.

Secondo Golvin e la Welch lo spazio per gli spettacoli era tutto costellato

di tribune lignee da cui si assisteva ai munera.

76 COARELLI 1992, p.52;77 GOLVIN 1988, op. cit., p. 20;78 Ivi, p.20; VILLE 1981, p. 45; nota n. 117;

La forma dello spazio gladiatorio, che potrebbe essere definito come

un’arena “ante litteram”, non è circolare come alcuni autori antichi affer-

mano (Pultarco, Vita C. Gracco, 12, 10), bensì ovale per adattarsi meglio al

perimetro irregolare della piazza, secondo la Welch si tratta di: “a trunca-

ted stadium with straight, parallel sides..”79.

Sembra un dato incontrovertibile il fatto che la forma degli anfiteatri si sia

originata da un progressivo adattamento degli spazi rettangolari, nel conte-

sto dei fori civici.

L’evoluzione risponde a criteri strettamente funzionali.

Negli spazi rettangolari l’azione risulta essere “intrappolata” negli angoli,

questi sono molto distanziati rispetto agli spettatori; tagliando o smussando

gli angoli si arriva naturalmente alla forma più morbida dell’ellisse/ovale,

che potrebbe definirsi come un cerchio allungato, o come un cerchio con

tendenza alla linearità;80tale forma sembra essere un buon compromesso tra

ciò che veniva rappresentato all’interno, ossia spettacoli (arena centrica) e

processioni, in particolare il dispiegamento della pompa (linearità).

Nella fase iniziale di questa evoluzione i lati lunghi dell’ellisse/ovale erano

rappresentati dalle due basiliche che chiudevano il foro, a N la Basilica

Aemilia, e a S la Sempronia, il tutto circondato da tribune lignee, e dalle

logge d’onore dei Rostra naturalmente circolari.

La forma oltre a giustificare la funzione serviva anche per adattarsi natu-

ralmente allo spazio trapezoidale del Foro; non è un caso se, secoli dopo,

Michelangelo impiega la medesima forma per la pavimentazione e riquali-

ficazione della piazza del Campidoglio, con la precisa volontà di risolvere

il conflitto formale tra spazio irregolare del Campidoglio e spazio geome-

tricamente definito81.

79 WELCH 2007, p.48;80 WIlSON JONES 1993, p. 39281 Idem, p.392;

6. Lo schema geometrico degli anfiteatri: ellisse o ovale?

Esiste tra gli studiosi un’accesa querelle circa la definizione di uno schema

geometrico univoco che possa essere applicato al disegno e alla forma degli

anfiteatri romani.

Architetti ed archeologi tra i più illustri hanno da sempre tentato di svelare

l’arcano arrivando ora a risultati più tangibili ora a formulazione di sole e

traballanti ipotesi.

Secondo Golvin, la cui teoria viene ripresa e analizzata da Mark Wilson

Jones, la forma di alcuni anfiteatri romani si origina da un ovale, in partico-

lare da un ovale a 4 centri.

L’ovale è una forma composta, molto vicina all’ellisse tanto che la diffe-

renza tra un’ellisse e un ovale è davvero minima e si manifesta nella diver-

sa costruzione delle due curve; l’ovale è formato da archi di cerchio di

raggio differente che si incontrano nei punti dove questi stessi archi condi-

vidono la stessa tangente.

L’ovale più semplice è quello a 4 centri posizionati sui due assi, due

sull’asse maggiore, due sull’asse minore.

Il numero maggiore di archi di circonferenza e di punti focali rispondono

tutti allo stesso principio sopra esposto (gli archi hanno raggi differenti e

s’incontrano nel punto in cui tutti condividono la stessa tangente); più il

numero di fuochi aumenta più la forma chiusa dell’ovale richiama quella di

un ellisse.82

L’ellisse è, invece, una curva chiusa tale che la somma delle distanze da

due punti fissi posti sull’asse maggiore detti fuochi è costante.

82 WILSON JONES 1993, p. 394;

ellisse: la distanza F1M e F2M è costante;

ovale generato da 4 archi di cerchio e 4

punti focali;

ovale generato da 8 punti focali con 4

archi di cerchio assiali e 4 archi di cer-

chio intermedi;

anfiteatro di Salone (ex Jugoslavia)

disegno della curva generatrice

dell’anfiteatro studiata dal Dyggve; la

figura è un ovale a 12 centri ;

La proprietà dell’equidistanza dei punti dai fuochi fu scoperta per la prima

volta nel III secolo a.C. da Apollonio di Perge; nel suo trattato sulle coni-

che Apollonio stabilisce che l’ellisse deriva (proprietà valida tutt’oggi)

dall’intersezione di un cono con un piano inclinato, e stabilisce anche che

la somma delle distanze tra i fuochi e qualsiasi punto sull’ellisse è costan-

te. Se il piano ha un’inclinazione di 90° rispetto all’asse della conica

l’intersezione darà luogo ad una circonferenza83.

Esiste anche un metodo molto semplice e veloce per tracciare il perimetro

dell’ellisse sul terreno avendo a disposizione due pioli una corda e un pun-

teruolo; tale metodo, conosciuto di certo anche dagli antichi romani, è detto

“metodo del giardiniere”84(è chiamato così perché viene tutt’oggi usato dai

giardinieri per tracciare il perimetro ellittico delle aiuole).

Esso consiste nel piantare a terra i due pioli tale che la distanza sia prossi-

ma alla misura dell’asse maggiore (se si vuole un ellisse molto schiacciata),

oppure a breve distanza l’uno dall’altro se si vuole ottenere un’ellisse meno

eccentrica, ossia più tondeggiante.

Ai due pioli si lega la cordicella in modo tale che la parte libera risulti pari

alla lunghezza dell’asse maggiore; con il punteruolo si tende la funicella e

lo si lascia scorrere sul terreno badando che entrambi i lati della corda fis-

83 WILSON JONES 1993, p. 395;84 GOLVIN 1988, p. 388;

sati ai pioli siano ben tesi; il punteruolo segnerà a terra vari punti, tale che

la somma delle distanze di ognuno di questi punti dai pioli risulta essere

costante e coincide con la parte libera della funicella.

Nonostante la facilità d’applicazione di questo metodo, la maggior parte

degli studiosi ritiene che gli anfiteatri romani si costruiscano su ovale a 4 o

a 8 centri; tra le due figure (a parte l’esempio sopra citato del Dyggve), si

propende per l’ovale a 4 centri, dal punto di vista geometrico il più sempli-

ce.

Mark Wilson Jones sulla questione chiosa: ”Most, if not all, of the monu-

mental amphitheatres examined here (Colosseo, Pola, Verona, Pozzuoli,

Capua, Nimes, ecc…) are likely to be oval”85.

Non tutti gli anfiteatri romani sono generati da un ovale, alcun di questi

sembrano essere stati generati da una curva ellittica: Carnutum, Micia, Ve-

tera, Saintes, Lambaesis.

A ben vedere tutti gli edifici sopra citati, azzardando una comparazione con

quelli più monumentali d’età imperiale hanno una struttura relativamente

semplice, e sono spesso collocati in territori di frontiera.86

Un altro dato geometrico da considerare è quello secondo cui ellissi di dif-

ferente grandezza che hanno in comune gli stessi punti focali non risultano

essere parallele; la distanza tra le due oscilla tra un minimo sull’asse mag-

giore e un massimo sull’asse minore. Tracciare due ellissi partendo dagli

stessi fuochi provoca non pochi problemi, tra cui la variazione progressiva

della pendenza della cavea, che causa, a sua volta, un aumento della lar-

ghezza degli anelli anche se minimo ed impercettibile.

Questo discorso sembra applicabile all’anfiteatro militare di Carnutum, in

cui la cavea oscilla in altezza rendendo incostante la pendenza e la larghez-

za delle praecinctiones.87

85 WILSON JONES 1993 p. 396;86WILSON JONES 1993, p. 398;

Nella maggior parte degli anfiteatri la distanza tra l’arena ed il perimetro

esterno è costante; tale costanza è comprovata dalla perfetta concentricità

degli anelli della cavea.88

Secondo tali considerazioni si tende a preferire l’ovale all’ellisse anche in

relazione a comprovati dati planimetrici; Wilson Jones nell’ambito del suo

studio (che riguarda gli anfiteatri costruiti in età imperiale: Pola, Verona,

Roma, Pozzuoli, Nimes, Arles, Capua, Salona, Italica, El-Jem) ha verifica-

to che in tutti i casi studiati gli anelli della cavea sono perfettamente con-

centrici (nel Colosseo lo scarto è di soli 4 cm); la forma di questi ultimi non

può non essere che un ovale.

L’uso dell’ovale è comprovato anche da altri studiosi secondo i quali il di-

segno di un ovale risulta essere molto più semplificato rispetto a quello

dell’ellisse, considerando anche che gli architetti romani non erano pro-

priamente cervellotici ma preferivano di gran lunga la concretezza, la fun-

zionalità e la semplicità delle forme.

a) disegno di due ellissi utiliz-

zando due soli punti focali;

come si nota il perimetro e-

sterno non è parallelo; (fonte:

Mark Wilson Jones, Desi-

gning Amphitheatres, 1993, p.

397;

87 Ivi, p. 399;88 Ivi, p.400;

b) planimetria del Colosseo

con applicazione dello

schema geometrico ovale a

4 centri (gli assi dei fornici

convergono nei 4 punti fo-

cali); scala 1:100; (fonte: M.

Docci, “La forma del Colosseo: dieci anni di ricerche. Il dialogo con i

gromatici romani”, in, Disegnare idee ed immagini, n.18/19, 1998)

c) anfiteatro Flavio di Poz-

zuoli; schema geometrico

ovale a 4 centri, scala

1:2000 (fonte: Mark Wil-

son Jones, Designing Am-

phitheatres, 1993, p. 400)

Nel 1998 M. Docci insieme ad un’equipe del Dipartimento di Progettazione

e Rilievo dell’Università di Roma “La Sapienza” ha condotto uno studio

molto approfondito sulla forma geometrica del Colosseo, constatando che

si tratta di un’ovale a 4 centri89.

Dopo aver effettuato un rilievo topografico accurato i ricercatori si sono

accorti di una circostanza particolare; (il rilievo si limita alla sola ricostru-

zione di una pianta, in riferimento al primo ordine di arcate della struttura).

Prendendo in esame i dati metrici del rilievo essi hanno constatato che gli

assi di tutti i fornici che ritmano il perimetro esterno del Colosseo conver-

89 DOCCI 1999, p. 25

gono in 4 punti rispettivamente due sull’asse maggiore e due sull’asse mi-

nore; questi punti sembrerebbero essere i centri dei quattro archi di circon-

ferenza che formano il perimetro esterno del Colosseo.

Molti argomenti concorrono a confutare l’ipotesi dell’ellisse che altri stu-

diosi hanno sostenuto nel medesimo studio .

1) Se si trattasse davvero di un’ellisse non si spiega come mai gli 80 assi dei

fornici convergano, con uno scarto davvero irrisorio, in 4 precisi punti ec-

cetto gli assi di 4 fornici che convergono in altri punti situati sull’asse mag-

giore e sull’asse minore dell’anfiteatro.

2) La larghezza dei deambulatori misurata secondo la direzione degli assi dei

setti appare costante per tutte le parti dell’anfiteatro. Sappiamo che ellissi

aventi in comune gli assi dei setti non sono equidistanti rispetto alla dire-

zione stessa dei setti. Una regola della costruzione dell’ellisse non permette

di costruire due ellissi parallele avendo gli stessi fuochi.

3) Sui pilastri esterni dei setti murari, in prossimità della loro base sul pavi-

mento ci sono delle incisioni (tracciamenti), paralleli agli assi dei setti.

Queste incisioni sono d’epoca romana e costituiscono i tracciati di cantiere;

la loro direzione è allineata con i 4 centri individuati dal rilievo.

4) I cateti dei quattro triangoli rettangoli che individuano i centri dei 4 archi

di circonferenza sono molto prossimi al rapporto dei cateti del triangolo sa-

cro o triangolo pitagorico ossia 3:4:5.

Lo schema del triangolo sacro era secondo i mensores aedificiorum lo

schema di cui i romani si servivano per il tracciamento dell’arena degli an-

fiteatri.

Il discorso riguardo gli agrimensori romani è molto importante da conside-

rare in quanto i loro scritti raccolti sotto il nome di Gromatici Veteres costi-

tuiscono la controprova filologica delle ipotesi formulate fino a questo

momento.

In particolare Balbo, agrimensore di Traiano, uno degli agrimensori più

famosi del mondo romano, intorno al 100 d.C. afferma che l’arena degli an-

fiteatri è costruita su 4 archi di cerchio: “ex pluribus circulis forma sine an-

gulo ut harenae ex quattuor circulis”.90

Tra le altre considerazioni, a sostegno dell’ipotesi che si tratti di un ovale

concorrono anche gli andamenti dei setti murari che convergono prevalen-

temente nei 4 centri individuati anche se i setti non possono essere conside-

rati dati attendibili visto lo stato di degrado e la diversa qualità delle mura-

ture usate dalle quattro imprese che hanno lavorato all’edificazione del Co-

losseo.91

Tra le varie ipotesi considerate quelle che propendono per la forma ovoida-

le sono di sicuro molteplici.

Abbiamo accennato che Balbo nel 100 d.C. scriveva che le arene venivano

tracciate costruendo 4 archi di circonferenza.

Gli assi degli 80 fornici del piano terra del Colosseo convergono in 4 punti

(elemento per cui il parallelismo con le fonti non può essere sottovalutato).

Questi 4 punti corrispondono ai vertici di una figura romboide composta da

4 triangoli rettangoli giustapposti con i lati correlati da un rapporto molto

vicino a quello del triangolo pitagorico di 3:4:5 già usato nell’antico Egitto

e conosciuto anche dagli agrimensori romani.

Abbiamo già sottolineato che 4 assi dei 4 fornici (nella figura i fornici in

questione sono individuati dai numeri 29, 48, 66, 10) di raccordo non con-

90 AA VV 1848;91 DOCCI 1999, p. 27;

vergono nei 4 centri ma in punti diversi sull’asse maggiore e sull’asse mi-

nore.

Secondo M. Docci questa circostanza non può essere né casuale né attribu-

ibile ad un errore metrico, perché l’andamento di questi 4 assi si presenta

identico anche nell’anfiteatro d’età imperiale di Capua; l’arena

dell’anfiteatro di Capua, nonostante le dimensioni di tutto il complesso sia-

no leggermente inferiori a quelle del Colosseo, presenta le sue stesse di-

mensioni come se gli agrimensori romani avessero utilizzato lo stesso pro-

cedimento per costruire le due arene.

Il tutto fa propendere per l’adozione di uno schema geometrico ovale per il

progetto e la successiva realizzazione del Colosseo.

La medesima ipotesi, per Mark Wilson Jones è applicabile ad una decina di

anfiteatri d’età imperiale.

Nel presente studio tentiamo di ricostruire lo stesso schema geometrico di

4 anfiteatri campani d’età repubblicana: Capua, Cuma, Pozzuoli, Pompei.

Le quattro aree di convergenza degli assi dei fornici. Le linee in arancione rappresen-

tano i 4 fornici che convergono in punti più centrali sull’asse maggiore.

6.1 Il tracciamento dell’ovale

Nella parte conclusiva del suo articolo M. Docci individua un procedimen-

to che permetteva di tracciare un ovale a 4 centri attraverso l’utilizzo della

groma.

Il tracciamento di un quarto del perimetro del centro della circonferenza

maggiore è noto agli antichi greci (il cosiddetto teorema di Talete) e de-

scritto anche dagli agrimensori romani nei già citati scritti dei Gromatici

Veteres; questo metodo segue la procedura della variatio fluminis.

Con l’impiego di una groma, posizionandosi al centro del cerchio di raggio

maggiore, si costruisce un allineamento parallelo all’asse maggiore; su

questo allineamento si stacca uno dei raggi della prima circonferenza.

Dal centro in direzione opposta al raggio si riporta in scala (ad esempio

1:10) il raggio, dal suo estremo, con la groma si proietta questo punto orto-

gonalmente alla direzione parallela all’asse maggiore e si trova un punto A,

a sinistra del centro.

La distanza tra A ed il centro si riporta sulla destra maggiorata di dieci vol-

te e si ottiene il punto B. Con la groma si costruisce una retta perpendicola-

re fino ad intersecare l’allineamento del raggio. Il punto d’intersezione co-

stituisce un punto della nostra circonferenza.

Ripetendo più volte l’operazione si trovano una serie di punti che raccorda-

ti tra di loro costituiscono una parte del perimetro dell’impianto.

Utilizzando lo stesso procedimento spostando la groma nel centro di raggio

minore si ottiene il secondo arco di circonferenza che definisce l’ultima

parte del perimetro del quarto di ovale.

Rappresentazione del funzionamento

della groma (disegno G. Moscara)92

Rappresentazione della

variatio fluminis

(disegno di G. Mosca-

ra)

92 DOCCI 1999 pp. 29, 30;

7. La geometria dell’ovale e il triangolo pitagorico

Il passo successivo riguarda l’aspetto forse più complesso di tutta la que-

stione: comprendere come l’ovale viene specificato nella sua intima geo-

metria progettuale.

Non esiste una sola ed univoca soluzione utile a comprendere la fase “idea-

tiva” i rapporti logici e razionali che sottendono alla geometria di un ovale

le forze che ne regolano la proporzionalità e la validità geometrica.

Sembra che tutte le soluzioni appetibili ed applicabili possano essere ri-

strette a due sole; esistono due “ratio” principali che sottendono al progetto

di un ovale e nell’antichità sembra venissero usati in particolare due proce-

dimenti.

Queste due ratio giustificano il rapporto che intercorre tra la larghezza tota-

le e la lunghezza totale dell’anfiteatro, ossia la larghezza e lunghezza totale

del perimetro esterno.

La prima individuata dagli studiosi è tale che il rapporto tra la larghezza to-

tale e la lunghezza è di 5:3 (1,666), la seconda si basa, invece, sul rapporto

di :1 (1,732).

Nonostante l’enorme varietà di soluzioni progettuali individuate

nell’ambito di uno studio applicato ad un range di sette anfiteatri posti in

territori di confine, in particolare tra il Reno ed il Danubio93, gli architetti

responsabili della progettazione dei più grandi e monumentali anfiteatri di

tutta la romanità hanno ristretto le possibilità progettuali a due sole “ratio”,

che stabiliscono un rapporto tra la lunghezza e la larghezza totali del peri-

metro esterno di 1, 6 (5:3), o di 1,8 ( :1= 1,732).

Golvin per primo stabilisce che la forma dell’arena è intimamente collegata

alla posizione dei due punti focali posti sull’asse maggiore; i punti focali si

individuano tramite la costruzione di un triangolo particolare “il triangolo

93 GOLVIN 1988, tab.29-30;

pitagorico” o “triangolo focale” un semplice triangolo rettangolo, o il tri-

angolo equilatero, entrambi ben noti nell’antichità perché elementi basilari

della matematica pura, le cui proprietà erano già state scoperte da Euclide.

Tale triangolo si basa sul rapporto di 3:4:5 che esiste tra i suoi lati.

Il rapporto tra i lati di 3:4:5 deriva dal teorema di Pitagora, da cui discende

che ad ogni triangolo rettangolo con lati interi (formati da numeri naturali

interi) corrisponde una terna pitagorica; ne consegue che una terna pitago-

rica è una serie di tre numeri naturali interi a, b, c tale che a2 + b2 =c2.

Un’altra proprietà individuata dagli studiosi (Golvin e Mark Wilson Jones)

è quella che mette in relazione la larghezza dell’arena e la distanza tra i

punti focali posti sull’asse maggiore.

I due più famosi sistemi di costruzione dell’ovale attraverso l’utilizzo del

triangolo rettangolo o equilatero possono essere riassunti in due schemi

principali: “triangolo pitagorico con lo schema del cerchio inscritto”, in

breve detto “Inscritto Pitagorico” che permette la costruzione di un peri-

metro esterno (ossia le dimensioni della cavea) con proporzioni di 5:3.

La seconda combinazione si esplica come un:” triangolo equilatero con lo

schema di un cerchio inscritto”, in breve “Inscritto Equilatero” con pro-

porzioni totali dell’arena pari a :1.

La popolarità ed il costante utilizzo di questi due schemi nell’antichità si

spiega sia per la loro eleganza geometrica sia per la facilità con cui vengo-

no costruiti.

Mark Wilson Jones rispetto ai sopracitati schemi afferma:” rounder forms

are static while longer ones suffer from abrupt changes curvature. The 5:3

and the :1 proportions offered a judicious balance, and were probably

also considered the best from a functional point of view”94

Non bisogna dimenticare che la teoria solo in rarissimi casi si affianca e

supporta la realtà dei fatti; la costruzione di un edificio da parte di più mae-

94 WILSON JONES 1993, p.403;

stranze non sempre permette la totale assimilazione della teoria alla pratica,

per cui potrebbe accadere (come in realtà accade) che le proporzioni reali si

discostino dalle regole astratte che la teoria universalizza.

Se Mark Wilson Jones e Jean Claude Golvin applicano lo schema

dell’ovale a 4 centri costruito in base ad un triangolo rettangolo con i lati in

rapporto di 3:4:5 agli anfiteatri d’età imperiale (Colosseo, Verona, Pola,

Pozzuoli ecc….), in un periodo storico in cui lo schema progettuale e la

forma stessa degli anfiteatri era entrata a far parte non solo

dell’immaginario collettivo romano da un punto di vista culturale ma anche

e soprattutto da un punto di vista progettuale/attuativo, noi tentiamo di ap-

plicare entrambi gli schemi geometrici (dell’ovale e dell’ellisse) ai più anti-

chi anfiteatri d’età repubblicana, costruiti tutti in ambiente campano, pur-

troppo non completamente scavati, di cui disponiamo, almeno per la mag-

gior parte, di comprovati dati planimetrici; questi sono gli anfiteatri di Ca-

pua, Cuma Pozzuoli e Pompei; i primi datati tra la fine del II secolo a.C. e

il I secolo a.C., l’ultimo di sicura datazione corrispondente al 75/70 a.C.

7.1 Primo schema: triangolo pitagorico rettangolo con i lati di 3:4:5;

DETERMINARE LA RELAZIONE TRA I

PUNTI FOCALI: disegnare un triango-

lo con i lati nel rapporto di 3:4:5; si

ottiene un triangolo di 90° in O, si

proiettano l’asse maggiore (x-x’) e

l’asse minore (y-y’)

SVILUPPO DEI QUATTRO SETTORI: si ri-

flette il punto A rispetto all’asse minore e

si ottiene A’; si ripete lo stesso procedi-

mento per B e B’; si proiettano le linee da

B attraverso e oltrepassando A e A’; lo stesso procedimento si ripete per

B’; si ottengono così i limiti dei quattro settori dell’ovale

FORMARE IL PERIMETRO DELL’ARENA:

costruire un cerchio che abbia per diame-

tro la distanza tra A e A’ (che corrispon-

de alla larghezza dell’arena), e segnare i

punti C e C’ in cui la circonferenza inter-

seca l’asse minore (y-y’); puntare il com-

passo in B e disegnare un arco di circonferenza in C’ per tutta la

larghezza del settore, ripetere il procedimento per per B’; con il

compasso in A terminare gli archi di circonferenza (d1;d2) e chiu-

dere l’ovale della cavea; ripetere con il compasso puntato in A’.

Si procede nella stessa maniera per

il punto C; prima bisogna definire la

larghezza della cavea in relazione

alle dimensioni dell’arena. A Capua

la larghezza della cavea (E-C) è u-

guale a quella dell’arena (C-C’)

(tutte le immagini sopraindicate e successive di questi 2 paragrafi sono ricavate da JO-

NES M. W. 1993, Designing amphitheatres, in, Mitteilungen des Deutschen Archailo-

gischen Instituts, Romische abteilung, 100, pp.1- 411).

7.2 Secondo schema: triangolo radicale

Si disegna una linea retta (x-x’) che

rappresenta l’asse maggiore; la posi-

zione dei punti focali (A –A’) andrà a

costituire la larghezza dell’arena; con il compasso centrare in A e disegnare

un arco di circonferenza attraverso A’; fare la stessa cosa per A’; gli archi

di circonferenza si intersecano in B e B’ ( futuri punti focali); ABA’ e

AB’A’ formano due triangoli equilateri

Si disegna una linea che congiunge B e B’

per il tracciamento dell’asse minore (y-y’);

si proiettano delle linee che vanno da B ad A

ed al di là di A e A’; si definiscono, così, i

limiti dei 4 settori

Si traccia una circonferenza marcando i

punti C e C’ lì dove questi intersecano

l’asse minore; puntando il compasso in B

si disegna un arco di circonferenza attra-

verso C’per la larghezza del settore; si ripete puntando il compasso in

B’; puntando il compasso in A si congiungono e si chiudono gli archi

iniziali; si ripete lo stesso procedimento per A’

Si procede allo stesso modo del passaggio prece-

dente per stabilire la larghezza della cavea in rela-

zione alla larghezza dell’arena; a Pozzuoli e a Ve-

rona la larghezza della cavea (H-G) è uguale alla

metà della lunghezza della cavea (1/2 G-G)

CAPITOLO III

8. L’anfiteatro: un’invenzione campana?

Golvin e Johannowski sono stati i primi tra gli studiosi a mettere in eviden-

za la possibilità di una correlazione tra l’apparizione dei primi anfiteatri in

muratura e il territorio dove questi sono apparsi per la prima volta: la Cam-

pania.

Secondo W. Johannowsky “l’anfiteatro è invece da considerare una inven-

zione campana, come il velario”95; l’affermazione (in particolare sull’uso

del velario) è ripresa dall’opera di Valerio Massimo “Factorum et dicto-

rum memorabilium libri IX”, opera erudita a carattere divulgativo con con-

tenuti retorico-morali scritta sotto il regno di Tiberio (14 d.C.-37 d.C.), in

cui al libro II (4, 6) si cita:” religionem ludorum crescentibus opibus secuta

lautitia est; eius instinctu Q. Catulus Campanam imitatus luxuriam primus

spectantium consessum velorum umbraculis texit.”

E’ fuor di dubbio che i primi esempi di edifici per spettacoli a carattere

pubblico, in questo caso gli anfiteatri, si manifestino negli esempi più anti-

chi di Capua (metà II secolo a.C.-età graccana), Cuma (fine II secolo a.C.),

Pozzuoli (fine I secolo-età augustea), Avella (87 a.C.), Pompei (75 a.C.).

E’opportuno considerare da un punto di vista socio-economico le concause

che hanno favorito la sperimentazione edilizia della tipologia in questo ter-

ritorio più che in altri.

La situazione in Campania nel periodo che segue la guerra annibalica è in-

teressante soprattutto nella misura in cui alcune colonie avevano già ricevu-

to la civitas sine suffragio (Cuma 334 a.C.) in un periodo di molto anteriore

alla guerra sociale, la successiva guerra civile e le proscrizioni sillane; Cu-

ma era entrata a far parte dell’orbita romana nel 334 dopo essersi alleata

con Roma contro i Sanniti, causale che denota un lento e progressivo as-

95 JOHANNOWSKY 1976, p.272;

sorbimento della classe dirigente osca (in cui è ancora molto forte il sub-

strato ellenico) in quella romana.

Nel 211 a.C. Capua si arrende definitivamente ai Romani, dopo aver perso

fiducia nel condottiero Annibale e nel suo esercito, viene dedotta a sempli-

ce pagus come punizione per aver sfidato Roma.

A partire dal 210 a.C. entrambe le città entrano a far parte della giurisdizio-

ne dei quattouviri praefecti (iure dicundo) Capuam Cumas, magistrati mi-

nori nominati direttamente dal praetor cui era affidata l’amministrazione

della giustizia nelle due città in quanto le ingenti ricchezze di questi due

centri rendevano necessario un più diretto controllo governativo.

Nonostante i rapporti con Roma sembravano essersi incrinati, Capua nel

tardo II secolo diventa di nuovo il centro più importante della Campania in-

terna, come dimostrano la ripresa dell’edilizia pubblica, privata e l’inizio

di una serie di stele funerarie. La situazione economica tende a progredire

(questo si nota soprattutto in età sillana ed augustea) nel periodo delle de-

duzioni coloniali grazie all’immissione di grandi masse di schiavi utilizzati

soprattutto nei latifondi, nelle industrie artigianali e di certo anche

nell’edilizia, stravolgendo completamente il sistema di produzione.

Nell’architettura e nell’edilizia il periodo successivo alla guerra annibalica

è caratterizzato dall’affermazione nelle murature e nelle volte, dell’opus

caementicium, un composto di pietre di piccole dimensioni, malta di calce,

sabbia (in questi territori la sabbia più usata era la pozzolana) che rendeva

la muratura solida come fosse stato un monolite; tale tecnica apre la strada

a prospettive costruttive assolutamente nuove. A partire dal II secolo a.C. si

diffonde una tecnica muraria tale che il nucleo del muro è costituito da o-

pus caementicium come sopra descritto, mentre la facciavista è costituita da

un paramento in opus incertum, che mette in opera pietre piuttosto piccole

ed informi, molto spesso tufelli grossolanamente sbozzati di forma irrego-

lare.

Non è un caso se le due costruzioni più antiche in cui è applicato l’uso

dell’incertum sono da collocarsi proprio in Campania; le terme Stabiane di

Pompei ( II secolo a.C.), le terme centrali d’età repubblicana (cd. sepolcro

della Sibilla) di Cuma.

Come si può notare la costruzione di questi due edifici precede, anche se di

poco, la costruzione della Porticus Aemilia a Roma (174 a.C.) che rappre-

senta il primo esempio del genere nella capitale. Possiamo supporre che lo

sviluppo edilizio e la grande quantità di mano d’opera che queste città ave-

vano a disposizione doveva essere esponenziale rispetto agli altri territori

conquistati dai romani. La rivoluzione edilizia legata all’uso della malta e

dell’opera cementizia come originario nucleo costitutivo dei setti murari

non può essere compresa da sola ma deve essere inquadrata in un più am-

pio palcoscenico storico in cui il cambiamento del modo di produzione, la

standardizzazione del lavoro e l’immissione sul mercato di una gran quanti-

tà di schiavi sono tutti elementi che concorrono a dipingere lo stesso qua-

dro.

Lo stesso Johannowsky riguardo la situazione di Capua dice:”il fatto stesso

che a Capua assuma una certa rilevanza l’uso di schiavi come gladiatori

prima che altrove (a giudicare dalle scarne notizie che ci sono pervenute) e

che vi inizi, nel 67 a.C., la rivolta di Spartaco, fa pensare che vi sia stato

un surplus di schiavi e che quindi la città sia stata fra i centri più impor-

tanti del commercio di schiavi, cosa che avrà senz’altro facilitato

l’esecuzione di opere pubbliche e di infrastrutture.”96

Oltre alle suddette causali bisogna porre l’accento su un considerevole pro-

cesso di “inurbamento” che portava moltissimi contadini a trasferirsi dalle

campagne in città sedi di importanti attività industriali e commerciali, quali

96 JOHANNOWSKY 1989, p.66;

erano a quel tempo Capua, Cuma, Puteoli, Teanum Sidicinum, un po’ meno

Neapolis97.

L’impulso commerciale e la ripresa economica di queste città, oltre al fatto

di avere una storia e delle tradizioni da non sottovalutare, è dovuta

all’attività dei “negotiatores”, mercanti appartenenti alla classe dirigente

romana che sulla scia del dominio romano in questi territori fondano fio-

renti attività commerciali nel Mediterraneo orientale riuscendo in qualche

caso a monopolizzare i traffici con l’Italia.

Puteoli è assoggettata a Roma con la fine delle guerre sannitiche (338 a.C.);

durante la guerra annibalica mostra già di avere delle caratteristiche strate-

giche importanti sfruttate dai romani che la presidiarono con una guarni-

gione di 6000 uomini; tutti i tentativi di Annibale di impossessarsi della

piazzaforte risultarono vani98. Nel 194 a.C. diventa colonia romana a tutti

gli effetti, il latino lingua ufficiale degli atti pubblici; nel corso del II secolo

a.C. Puteoli va assumendo, come porto principale di Roma e centro eco-

nomico di un’area prediletta dall’oligarchia dominante per i propri ozi e

speculazioni, quel carattere di megalopoli che ebbe in età imperiale.

La posizione di queste città, l’ondata di progresso e di floridezza economi-

ca che le invase fu conseguenza della loro posizione: la Via Appia che

collegava Roma con Brindisi (il porto più importante di tutta l’area greca

ed orientale) passando per Capua, la Via Latina che si innestava a Casili-

num, la Via Popilia che si innestava poco ad E di Capua, e la Via consularis

Puteolis-Capuam, che collegava Capua a Puteoli, la via Puteolis-Neapolim.

Johannowsky c’informa del fatto che importanti e di un certo rilievo erano

le attività portuali e commerciali di città sopracitate tra cui si distinguono,

in particolare Pompei, Cuma, Sinuessa.99

97JOHANNOWSKY 1976, p.267;98 BELOCH 1890, p.109;99 JOHANNOWSKY 1976, p.269

Percorsi della Via Appia. In rosso l'Appia Antica, in blu l'Appia Traiana (fonte web)

Alla fine di questo piccolo excursus riguardo la situazione di alcuni centri

campani sulla fine del II secolo a.C. si vuole mettere in evidenza l’avanzato

clima di produttività e floridezza economica che permette la ripresa delle

attività culturale e di evergetismo pubblico in generale.

Gli edifici per spettacoli costruiti in alcuni dei più importanti centri econo-

mici della Campania soggetti addirittura ad una giurisdizione diversa ri-

spetto agli altri municipia romani denota un particolare atteggiamento oltre

che di natura culturale, soprattutto di natura politica.

Si è già messo in evidenza la vetustà dei ludi gladiatorii campani rispetto

alla tradizione sia etrusca che romana, così come evidenziato dallo studio

di G. Ville e di altri autori tra cui Golvin e Thuillier.

Le tombe lucane di Paestum l’iconografia dei guerrieri vestiti di armi san-

nite che si affrontano in un combattimento corpo a corpo vengono dipinti,

e per questo motivo riconosciuti e accettati nell’immaginario popolare co-

me facenti parte di una tradizione atavica in cui la memoria e il ricordo si

disperdono per lasciare posto ad una sorta di credenza “laica”; tutto questo

è poi convalidato dalla testimonianza di alcuni autori latini quali Livio e

Valerio Massimo che definiscono un’abitudine e un costume essenzialmen-

te campano quello di allietare i banchetti con spettacoli gladiatiorii; fattore

che unito alle caratteristiche di prosperità ed estrema importanza che alcuni

centri campani (Capua, Cuma, Pozzuoli, Pompei) avevano assunto durante

tutto il II secolo, concorre a formulare una timida ipotesi circa la creazione

di questi edifici stabili in territori lontani da Roma.

Ritengo sia probabile che l’enorme potere politico intrinseco alla natura

stessa dei giochi sia stato utilizzato (con la partecipazione congiunta di tutte

le concause sopracitate), da parte delle oligarchie locali (gli stessi negotia-

tores che avevano contribuito alla crescita economica e politica di questi

territori) come un mezzo per ingraziarsi il consenso popolare e mantenere

una sorta di controllo “culturale” sulle masse, metabolizzando e rendendo

costume “romano” una tradizione che sembra essere completamente autoc-

tona.

Roma ha operato nei confronti di questi centri secondo i dettami della sua

politica apparentemente non invasiva e rispettosa della diversità e unicità

dei popoli, appropriandosi dei più profondi valori etnici e culturali delle

popolazioni assoggettate per farne poi lo stendardo di una comune “roma-

nitas” .

Non dobbiamo dimenticare l’importanza che questi centri (soprattutto Ca-

pua e Cuma) avevano avuto per tutta l’età greca fino alla fine del V secolo

(poco prima della conquista lucana), ricordo di una forte identità culturale

molto difficile da gestire per i Romani, i quali preferirono mantenere il con-

trollo della popolazione attraverso l’utilizzo a scopi politici dei giochi gla-

diatori incorniciati in un spazio appropriato: l’anfiteatro.

Per correttezza e chiarezza d’informazione è opportuno riportare anche

l’ipotesi della Tosi che sembra vedere in Roma l’emanazione stessa della

forma anfiteatrale come conseguenza del controllo politico della capitale

sulle colonie e i municipia campani; lei stessa nel saggio già citato100 af-

ferma:” tuttavia a loro volta sia Capua sia le altre città campane non sono

100 TOSI 2003, p.658;

che un’emanazione del potere politico ed economico di Roma; è stato os-

servato infatti che l’aristocrazia Romana aveva il controllo delle scuole dei

gladiatori campani nel periodo in cui si costruivano i primi anfiteatri, a

dimostrazione che la tipologia venne, o direttamente dagli apprestamenti

nel Foro Romano oppure indirettamente da Roma attraverso i proprietari

di ludi e i veterani-coloni. Si tratta infatti di colonie militari o di città ro-

manizzate da tempo, da Pompei a Capua, Abella, Cales, Teanum, Cumae,

Puteoli, Telesia….”.

Tuttavia sembra non essere chiaro il motivo per il quale sia avvenuta

l’effettiva edificazione di anfiteatri in questi territori ben prima che a Ro-

ma, nonostante esistessero in questi centri dei fori oblunghi funzionali allo

svolgimento di spettacoli.

L’aristocrazia locale preferì far costruire degli edifici appositi, mentre Ro-

ma si dota di un anfiteatro stabile solo nel 29 a.C.

Non è sufficientemente spiegato il rapporto con la tradizione dei ludi, di i-

potetica ma probabile origine campana, non si spiega il perché le fonti (Va-

lerio Massimo II, 4, 6) considerino l’anfiteatro un’invenzione campana.

Lungi dal voler definire una problematica sicuramente complessa e ancora

aperta, ho tentato solo di spiegare e chiarificare il motivo per il quale questi

primissimi edifici vengono costruiti prima nelle colonie (in particolare in

alcuni territori campani) e poi a Roma, senza voler in alcun caso stabilire la

nascita della tipologia che di certo deriva dagli apprestamenti del Foro Ro-

mano, anche se come il Ville mette in evidenza, le fonti non riportano tutte

le notizie circa i ludi che si svolgevano dalla fine del IV secolo in poi ma

riportano una tradizione filtrata, forse, alla luce dell’imperialismo romano.

Cito, per concludere una frase di Pierre Gros:” in questo senso le prime

manifestazioni dell’anfiteatro devono essere considerate un deliberato atto

di romanizzazione, autentico manifesto monumentale che talvolta trasfor-

ma anche in modo brutale il clima delle città in cui viene introdotto”.101

9. L’anfiteatro repubblicano di Capua (metà II secolo a.C.)

Le notizie disponibili circa l’orientamento e l’effettiva ubicazione

dell’anfiteatro d’età repubblicana della città di Capua (odierna Santa Maria

Capua Vetere) hanno ricevuto un considerevole contributo all’indomani di

una serie di saggi preliminari eseguiti nel 2005 e lo scavo integrale che ne

ha messo in luce le strutture in fondazione, insieme ai lavori di risistema-

zione della piazza I Ottobre tra il 2007 e il 2008102.

Lo scavo ha confermato l’ipotesi di Johannowsky103 secondo cui

quest’ultimo doveva essere ubicato all’infuori della cinta muraria, in area

extraurbana.

I saggi preliminari effettuati nel corso del 2004/2005 nella parte nord-est

dello spazio non asfaltato hanno messo in evidenza resti di tombe di fine

VI-V a.C. tra le fondazioni del vecchio anfiteatro, scoperta che conferma

come quell’area in età arcaica e classica fosse extraurbana.104

Il complesso è stato interamente raso al suolo poco prima dell’ultimazione

dell’edificio d’età imperiale che lo sostituì nel II secolo d.C.; insieme

all’anfiteatro di Pozzuoli e quello di Cuma rappresenta uno dei più antichi

esempi che inaugura la complessa ed affascinante tipologia degli anfiteatri;

tra tutti quello di Capua è di sicuro l’esempio più antico della categoria.

Fu costruito all’esterno della cinta muraria in area suburbana questo ele-

mento permette di collocarne la data di fondazione ad un periodo anteriore

101 GROS 1996, pp. 43-49;102 SAMPAOLO 2010, p. 76 nota n. 6;103 JOHANNOWSKY 1989, p.67;104 SAMPAOLO 2010, p.75;

alla guerra sociale (91 a.C.) e alla guerra civile (83 a.C.), in quanto una sua

vicinanza alle mura avrebbe potuto compromettere la difesa della città.105

L’importanza della costruzione si riferisce anche a caratteristiche tecniche,

in quanto Johannowsky nello stesso saggio afferma che l’anfiteatro repub-

blicano di Capua è anche il primo edificio ad adottare la formula della ca-

vea ellittica e del terrapieno.106

Nel presente studio ho ipotizzato la forma della cavea non è ellittica ma o-

vale, in particolare la ricostruzione in Cad su rilievo effettuato dalla sotto-

scritta dimostra che la forma geometrica dell’anfiteatro di Capua è un ovale

a 4 centri, o meglio si avvicina molto ad esso.

Ulteriori dati hanno confermato l’ubicazione dell’anfiteatro al di fuori della

cinta muraria, anche se l’intero tracciato delle mura non è stato ancora

completamente individuato.

E’ stato infatti individuato a nord-est del piazzale un fossato largo circa 12

metri e profondo 6 , il fossato doveva trovarsi davanti la cinta muraria visto

che il terreno di riporto al suo interno era costituito da tritume di tufo,

frammenti laterizi e quello che più è importante da un numero non molto

elevato di frammenti ceramici databili tra il I secolo a.C. e non molto dopo

il II secolo d.C.

E’ stato individuato 100 m più a sud un altro fossato posto sullo stesso al-

lineamento (fig.1.A; 1.B)

105 JOHANNOWSKY 1989, p.67;

(V. Sampaolo- Il Mediterraneo e la storia, Napoli 2010, p.76)

Secondo la Sampaolo107la cinta muraria correva probabilmente sotto la

strada moderna presente sul lato est della piazza e fu munita di un fossato

fino alla fine del I sec. d.C. quando si diede avvio a lavori di riqualificazio-

ne e risistemazione della piazza ( che comprendono da una parte la demoli-

zione del vecchio anfiteatro in favore di quello nuovo la cui datazione sem-

bra essere stata recentemente attribuita all’età flavia piuttosto che a quella

adrianea108, insieme ad altri lavori di risistemazione riferibili ai danni pro-

vocati dal terremoto del 79 d.C. cui seguirono una serie di eventi tellurici i

cui effetti si sentirono diffusamente anche in questa regione), fino a poco

prima di questa data il vecchio anfiteatro era l’unica costruzione, secondo i

dati correnti, ad occupare lo spazio in questione.

Le murature in opera cementizia di tufo grigio e malta concorrono a con-

fermare l’ipotesi di Johannowsky e datare tutto il complesso ad età gracca-

na ossia intorno alla seconda metà del II secolo a.C., in parallelo al fervore

economico ed edilizio che aveva investito la città.

107 SAMPAOLO 2010, p.78;108 Idem, p. 81 nota n. 24

Per quanto riguarda i motivi della sua demolizione è stato messo in luce un

sostanziale livello di uniformità del taglio dei cunei unito all’uniformità dei

livelli di seppellimento del piano di calpestio; la data di questa operazione è

desumibile al di sotto del piano di calpestio in cui sono stati rinvenuti po-

chissimi frammenti ceramici databili alla fine del I secolo d.C. analoghi a

quelli rinvenuti nel fossato ad est della struttura; tale considerazione fa pre-

supporre che la demolizione ed il seppellimento dell’edificio dipendano da

un unico progetto di risistemazione di tutto lo spazio in questione riferibile

alla fine del I secolo d.C. secondo i motivi sopracitati.

9.1 Fasi del Rilievo

Il rilievo dell’anfiteatro di Capua è stato eseguito dalla scrivente con la col-

laborazione di aiuti esterni molto validi nel periodo di aprile- maggio 2012.

E’ stato utilizzato il metodo del rilievo diretto per trilaterazione con

l’impiego di rollina da 20 m, lenza, filo a piombo, livella a filo, paline me-

triche, paletti di legno di 70 cm, metro rigido.

Si è proceduto montando una lenza della lunghezza di 64 m in direzione

N/S parallela al piano stradale moderno ad una quota di – 3, 00 m dallo

stesso, in prossimità del basolo di cemento di 1,50 m circa di spessore che

divide il muro di contenimento in cemento armato di sostegno alla strada

moderna dall’anfiteatro.

Si è proceduto a trilaterale dalla lenza partendo dal primo cuneo in direzio-

ne N/S.

Procedendo in questo modo si è preferito trilaterale portando la lenza

all’interno di alcuni cunei e costruendo nuovi punti base per la trilaterazio-

ne, in quanto era poco agevole visualizzare e, quindi, misurare determinati

punti solo ed esclusivamente dalla lenza.

Si è proceduto in questo modo per la trilaterazione dei 15 cunei che costi-

tuiscono le fondazioni del primitivo edificio per spettacoli.

La sezione longitudinale di uno solo dei 15 ambienti (il n. 11 a partire da

N) mette in evidenza la messa in opera con ricorsi ben visibili e regolari

costituiti da opera cementizia in tufo grigio e malta, ciascuno di essi dello

spessore di circa 15 cm.

Le quote (a partire dalla nostra quota relativa, ossia il basolo di cemento cui

è agganciata la lenza a – 3, 00 m circa dal piano stradale moderno), metto-

no in evidenza un progressivo e chiaro dislivello di circa -1, 50 dalla nostra

quota zero.

In generale il dislivello per tutta quanta la porzione di curva conservata è di

circa -1, 55 cm dalla nostra quota zero.

Santa Maria Capua Vetere-rilievo

Santa Santa Maria Capua Vetere-caratterizzazione

Elaborazione ed edizione grafica a cura di Gianluca Ippolito

9.1.2 Ricostruzione geometrica dell’anfiteatro di Capua

Si è già affermato che la geometria possibile e più facilmente applicabi-

le al progetto e al disegno di una forma curva (quale quella

dell’anfiteatro) che interessa il progetto ed il disegno dell’arena e della

cavea degli anfiteatri sia presumibilmente un ovale a 4 centri.

Costruiamo l’ovale per definire la forma geometrica dell’anfiteatro di

Capua, considerando la sua costruzione secondo l’asse minore, quello

più facilmente ipotizzabile e ricostruibile secondo ciò che è emerso dal

rilievo.

Ipotizziamo che l’asse minore sia di (71) metri.

• Tracciamo l’asse minore AB di 71 metri; l’asse minore giace sulla

retta x-x’;

• Nel punto medio del segmento tracciamo la direzione dell’asse mag-

giore che giace sulla retta y-y’ed è ortogonale all’asse minore;

• Per costruire i due fuochi sull’asse maggiore tracciamo una circonfe-

renza di raggio OA passante per B; l’intersezione della circonferenza

con l’asse maggiore individua i due fuochi (D;E) tale che AB=DE;

• Come primo metodo applichiamo il triangolo con i lati in rapporto

3:4:5, secondo la costruzione del triangolo sacro;

• portiamo l’ipotenusa (lato con valore 5) nel punto E la estendiamo

fino al punto in cui interseca l’asse minore (x-x’); otteniamo così un

terzo fuoco il punto F;

• Specchio F rispetto all’asse maggiore e ottengo F’; ho ottenuto così i

4 fuochi dell’ovale;

• Specchio il triangolo FDF’ rispetto all’asse minore;

• L’estensione delle rette FC, F’C, F’D, FD delimitano i quattro settori

dell’ovale;

• Apro il compasso di FB punto in F traccio un arco di circonferenza

in B; ripeto l’operazione in F’; apro il compasso di F’A traccio un

arco di circonferenza in A; termino i settori aprendo il compasso di

CE punto in C e traccio un arco di circonferenza; ripeto l’operazione

per DG punto in D;

Ho ottenuto una quasi perfetta corrispondenza dell’ovale applicato al peri-

metro esterno rilevato.

Da notare che ripeto l’esperimento applicando al perimetro la costruzione

secondo il triangolo radicale con i lati in rapporto /2; ½; 1, ma la rico-

struzione non funziona come si nota dalla figura sottostante; lo stesso può

dirsi per quanto riguarda la costruzione secondo la forma ellittica; lo scarto,

anche se non è molto rilevante risulta essere di 50 cm tra ciò che è stato ri-

levato e la curva ipotetica tracciata in Cad; si propende, a questo punto per

la forma ovale.

Si può, quindi concludere che lo schema geometrico dell’anfiteatro di Ca-

pua si avvicini molto ad un ovale a 4 centri, e i suoi assi sono: asse minore

(71m), asse maggiore (125m).

Santa Maria Capua Vetere ricostruzione

Elaborazione ed edizione grafica a cura di Gianluca Ippolito

10. L’anfiteatro repubblicano di Cuma (fine II secolo a.C.)

L’anfiteatro di Cuma è stato da sempre ( il primo a riportarne le misu-

re fu il Paoli nella guida del 1768, in palmi napoletani), visibile e ri-

conoscibile attraverso la presenza fuori terra delle strutture di fonda-

zione dell’anello in summa cavea; tali strutture sono visibili a causa

del progressivo dilavamento del suolo per l’abbassamento del circo-

stante piano di calpestio, tale abbassamento è da ricondurre alle atti-

vità agricole e alle acque meteoriche che hanno contribuito a cambia-

re, nei secoli, l’aspetto di questo incantevole paesaggio.

Secondo Caputo109 la tecnica di costruzione dell’edifico era simile se

non uguale a quella utilizzata per la costruzione di moltissimi teatri

greci (cavea adagiata alle pendici dei monti e per l’altra parte su ter-

rapieno), ossia la tipologia del theatrum ex terra exaggeratum).

L’anfiteatro fu adagiato sul lato N alle pendici del Monte Grillo, men-

tre per il resto fu costruito su terrapieno.

La conoscenza e la visibilità delle rovine dell’anfiteatro di Cuma era-

no ben presenti sia al De Jorio (1830), che al Beloch (1890).

Il Beloch nella sua descrizione dell’anfiteatro evidenzia la presenza

sul lato nord a monte dell’anfiteatro la presenza di un tempietto d’età

romana con ingresso prospiciente l’anfiteatro; resti di frammenti ar-

chitettonici in terracotta dipinta, databili ad età greca, fanno presup-

porre l’esistenza al di sotto del tempietto romano di un precedente

tempio d’età greca.110

Come per l’anfiteatro di Capua, così quello di Cuma fu costruito in

un’area extraurbana a sud dell’abitato poco lontano dalla cosiddetta

109 CAPUTO 1996, p.168;110 CAPUTO 1996, p.169;

Croce di Cuma dove sorgeva una porta urbica visibile fino al secolo

scorso.111

E’, infatti, probabile che la topografia della città non prevedesse la

presenza di spazi adeguati ad ospitare l’edificio all’interno delle mu-

ra; non dimentichiamo che Cuma è uno dei primissimi territori in cui

si sperimenta la costruzione di questa nuova tipologia, per cui sembra

logico ipotizzare che si cercava di trovare soluzioni alternative mai

provate prima.

Le prime indagini sull’anfiteatro sono state eseguite tra il

1992/1993112.

Le file di archi su pilastri visibili a sud e ovest del complesso sono da

considerarsi, secondo le indagini condotte sotto la supervisione del

funzionario responsabile di zona Dott. Paolo Caputo, le fondazioni

dell’anello in summa cavea come precedentemente affermato.

Gli archi sono intervallati a N da muri pieni alternati a costoloni. Il

saggio 3 eseguito nel 1993 sul lato N del monumento a N del muro a

costoloni a causa di una frattura nel muro a valle ha evidenziato un

ampliamento del settore della summa cavea, con gli ultimi tre ordini

di gradinate e un muro di chiusura in reticolato113.

Con il progetto “Kyme II” 2000/2003 è stata messa in luce la porta li-

bitinensis a S del complesso, mentre resti della porta N erano già stati

precedentemente intercettati al piano terra della masseria di XVIII se-

colo.

Nel 2005/2006, nell’ambito del progetto “Kyme III”114 si è proceduto

ad indagare un settore della cavea e uno dell’arena.

111 CAPUTO 1993, p.130;112 CAPUTO 1993, p. 130;113 CAPUTO 2008, p. 721;114 NAVA 2007, p. 250:

E’ stato messo in luce un settore dell’ima cavea delimitata a monte da

un piano in cocciopesto collegato ai due vomitoria presenti ai lati del-

la porta Sud; la media cavea appare invece molto lacunosa, in quanto

appare completamente asportata a causa dei lavori agricoli; si conser-

vano tuttavia nella fascia più alta sei gradinate con rivestimento in

muratura poggiato direttamente sul terrapieno con scalette divisorie

dei cunea in trachite; le gradinate in summa cavea sono andate com-

pletamente perdute, rimangono solamente le strutture a pilastri ben

visibili che costituiscono le fondazioni in summa cavea precedente-

mente considerate.

Grazie alle indagini sopra esposte si è avuta, nel corso del tempo una

lettura più chiara delle fasi costruttive dell’edificio.

Nella prima fase assegnabile alla fine del II – inizi I secolo a.C., come

dimostra il rinvenimento di un frammento ceramico a vernice nera

nella malta cementizia di fondazione di uno dei costoloni della sum-

ma cavea115,l’edificio presentava due ingressi lungo l’asse maggiore.

Le gradinate messe in luce durante il progetto “Kyme III”, individua-

te sul lato N e sul lato S sono riferibili alla prima fase di costruzione

del monumento.

Una seconda fase potrebbe essere datata alla media età imperiale (ini-

zi I secolo d.C.); il muro del podio a recinzione dell’arena fu costruito

in opus vittatum, in posizione più avanzata rispetto al muro di fase

precedente, per consentire un ampliamento della cavea.116

Furono costruiti in questa fase due rampe di scale sui due lati della

porta S che permettevano, attraverso i vomitoria l’accesso alla cavea.

Di terza fase (tarda età imperiale) deve essere attribuita la realizza-

115 CAPUTO 1993, p. 130;116 CAPUTO 2008, p. 725;

zione di altri due ambienti a pianta quadrangolare, con probabile fun-

zione di servizio , inseriti a lato del passaggio della porta S.

L’abbandono dell’anfiteatro è collocabile ad età bizantina: in questa

fase l’edificio subì la pressoché completa spoliazione dei rivestimenti

e fu largamente saccheggiato del materiale edilizio. In particolare il

saggio 3 mette in evidenza sul lato a N un ampliamento delle gradina-

te a monte dell’anello in summa cavea; un secondo ampliamento (fine

I secolo d.C.) riguarda l’obliterazione delle gradinate di II fase in

funzione della costruzione di un muro di contenimento su cui doveva

sorgere probabilmente un piano attico (maenianum summum) portica-

to.

Entrambe le fasi di ampliamento possono essere ricondotte a momen-

ti importanti della storia cumana; il primo avvenuto sotto Augusto

quando Cuma viene ricompensata dell’aiuto prestato a Roma durante

le guerre civili, e gode, come tutto l’impero, dei benefici scaturiti dal-

la pax Augusta; il secondo è da mettere in relazioni con i benefici de-

rivanti dall’apertura della via Domitiana (95 d.C.)

10.1 Ricostruzione geometrica dell’anfiteatro di Cuma

Partiamo innanzitutto considerando il rilievo con la descrizione

delle relative fasi storiche così come pubblicato negli Atti Taranto

del 2008117.

Consideriamo l’anello interno costituito dalle fondazioni delle

gradinate in summa cavea, che, a dispetto di ciò che è stato pub-

blicato negli Atti Taranto del 2008 si ritiene essere il più antico118,

sia in relazione al frammento ceramico a vernice nera rinvenuto

117 CAPUTO 2008;118 CAPUTO 1994;

da Caputo negli scavi del 1993 (datato alla fine del II secolo

a.C.), sia perché ad una prima lettura delle strutture

dell’anfiteatro, l’anello delle fondazioni definisce un perimetro

più leggibile e più facilmente ricostruibile.

Sono stati rinvenuti dalla scrivente, nel corso di una ricognizione

all’anfiteatro nel mese di aprile 2012, alcuni frammenti di cera-

mica a vernice nera in corso di studio; uno di questi frammenti (5

in tutto) è stato rinvenuto nella malta cementizia del V costolone

del muro in direzione N/S.

Altri 2 frammenti erano incastonati nella malta del III costolone

sempre procedendo da N a S.

Dal rilievo di Atti Taranto procediamo in Cad a spegnere tutti i

layer che non si riferiscono all’anello di I fase.

Quello che otteniamo e l’andamento delle fondazioni in summa

cavea su cui applichiamo la ricostruzione secondo lo schema

dell’ovale a 4 centri, come abbiamo fatto per l’anfiteatro di Ca-

pua.

A dispetto di tutto la ricostruzione secondo la forma dell’ovale a

4 centri non corrisponde al tracciato vero e proprio dell’anello

considerato più antico, per cui si procede ad applicare la ricostru-

zione secondo la forma dell’ellisse.

L’ellisse è una figura geometrica piana tale che la somma della

distanze dei punti giacenti sulla curva è costante.

Il metodo geometrico per costruire un ellisse è leggermente più

complesso di quello dell’ovale; geometricamente si costruisce

considerando un segmento AB e un segmento CD a questo orto-

gonale passante per il suo punto medio.

In sostanza si disegna la direzione dell’asse minore passante per il

punto medio di AB e poi di estende il segmento.

Si procede a disegnare due circonferenze, una di diametro pari

all’asse maggiore, l’altra di diametro pari all’asse minore.

Si ottengono, rispetto ai due assi due circonferenze concentriche,

tali che la circonferenza di diametro inferiore intercetta due punti

sull’asse maggiore e definisce i 2 fuochi dell’ellisse.

Si divide la circonferenza maggiore in 12 parti uguali utilizzando

il compasso: con apertura pari al raggio della circonferenza mag-

giore si punta in A e si tracciano 4 archi di circonferenza, si punta

in B e se ne tracciano altri 4; la circonferenza sarà divisa in 12

parti uguali.

Si individuano i punti 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8; congiungendoli con il

centro O si otterranno i corrispettivi 1’, 2’, 3’, 4’, 5’, 6’, 7’, 8’,

sulla circonferenza minore; si procede ad individuare i punti per i

quali passerà l’ellisse; si tracciano le parallele per CD che passa-

no per la circonferenza maggiore e le perpendicolari per AB che

passano per quella minore; i punti da cui passerà l’ellisse sono le

intersezioni dei segmenti paralleli con quelli perpendicolari.

In Autocad la ricostruzione è molto più veloce e semplificata, in

quanto esiste nella barra a sinistra della schermata un comando “ellis-

se”.

Cliccando sul comando ellisse dobbiamo specificare il punto iniziale

e finale di almeno uno dei due assi (nel caso di Cuma sappiamo che

l’asse maggiore misura all’incirca 90 metri); dopodichè dobbiamo

specificare la distanza rispetto al secondo asse (stabiliamo in questo

modo l’eccentricità dell’ellisse), lontano dal punto medio del primo

asse, otteniamo un ellisse che, nel caso di Cuma è costruito su un asse

maggiore di 118 metri, e un asse minore di 89,50 metri.

Si può notare come le misure siano molto vicine alle misure reali (as-

se maggiore 90 metri secondo Golvin e Caputo); viene anche ribadita

l’ipotesi di Johannowsky secondo cui le dimensioni dell’anfiteatro di

Cuma erano inferiori a Capua.

Cuma ricostruzione

Elaborazione ed edizione grafica a cura di Gianluca Ippolito

11 L’anfiteatro minore di Pozzuoli (metà I secolo a.C.-età augustea)

La presenza di un secondo anfiteatro nella città di Puteoli costruito

ben prima di quello più famoso d’età flavia, fu sconosciuta ai mag-

giori scrittori di guide locali, come afferma Spinazzola che per primo

ne fornisce una puntuale descrizione all’indomani della scoperta dello

stesso avvenuta nel 1915 in seguito ai lavori di sbancamento per il

passaggio della ferrovia direttissima Roma-Napoli: “Gli scrittori lo-

cali, fra cui alcuni eccellentissimi, non ne fanno parola. Il Beloch non

ne ha notizia. Il Dubois ne dà finalmente una sommaria descrizione ,

ma ingannato della forma che, a veder suo, le rovine assumevano ad

oriente, deviò le sue giuste considerazioni generali nella errata con-

clusione che potesse trattarsi di un teatro”.; le fonti d’età imperiale

parlano dell’esistenza di questo edificio, in particolare Svetonio

(Aug., 44.1, “Spectandi confusissimum ac solutissimum morem corre-

xit ordinavitque, motus inuiria senatoris, quem Puteolis per celeber-

rimos ludos consessu frequenti nemo receperat.”), e Cassio Dione

(LXIII, 3) parlando dei ludi che si svolgevano a Puteoli sia sotto Au-

gusto che sotto Nerone.

Un’importante rappresentazione dell’edificio proviene da una fia-

schetta vitrea rinvenuta nelle miniere romane di Odemira, nel distret-

to di Alemtejo, Portogallo in data non specificata; né il Beloch né il

Dubois accordarono veridicità topografica a quella rappresentazione;

gli scavi dello Spinazzola danno ragione all’evidenza del Vaso

d‘Odemira.

L’identificazione dell’edificio avvenne solo nel 1915 in seguito ai la-

vori di sbancamento della ferrovia direttissima Roma-Napoli; fu in

questa occasione che lo Spinazzola ricostruì gli assi del monumento

identificato con la forma di un ellisse con le seguenti misure: asse

maggiore 130 m, asse minore 95, paragonato alle dimensioni del poco

più antico anfiteatro pompeiano; le indagini dello Spinazzola misero

in luce anche un piccolo tratto della cavea oggi completamente inter-

rato.119

Secondo quanto ipotizzato da Johannowsky120 l’edificio, come quelli

indagati fino a questo momento doveva trovarsi in area extraurbana al

di fuori del tracciato delle mura, in particolare si riferisce ad un lacer-

to di muro in opera incerta rinvenuto a S/O dell’anfiteatro, ora non

più visibili.121

Il monumento posto ad una distanza molto ravvicinata rispetto al foro

ed era costeggiato da due importanti vie di comunicazione, la via Pu-

teolis-Neapolim, il cui tratto iniziale corrispondente all’attuale Via

Vigna; al di sopra di questa s’innestava la via consularis Puteolis-

Capuam, fondamentale via di comunicazione con l’entroterra campa-

no.

Del monumento a sud di Via Solfatara completamente inglobate da

un’abitazione civile restano visibili solo tre delle nove arcate sostrut-

tive individuate da Caruso, Del Corso, Raiola Caruso, nel corso delle

loro indagini122, riempite di terreno e pietrisco in opera cementizia

prive di paramento, dovevano essere le arcate di contenimento della

cavea. Secondo le indagini di Caruso, Del Corso, Raiola Caruso123,

all’estremità sud dell’asse maggiore dell’ellisse/ovale, in prossimità

di un ingresso meridionale all’arena, in prossimità di Via Vigna si no-

ta la presenza di un’arcata molto ampia (larghezza 6 m), priva di pa-

ramento presenta sulla spalle dei tratti in quasi reticolato; procedendo

verso S/O, si nota un ulteriore corridoio che presenta una fodera in

119 SPINAZZOLA 1915, p.411. 120 JOHANNOWSKY 1952, p.10, 46;121 Idem, p.10;122 CARUSO, DEL CORSO, RAIOLA CARUSO 1980, p. 166;123 CARUSO, DEL CORSO, RAIOLA CARUSO 1980, p. 164 ss:

quasi reticolato, la cui volta a botte si trova ad una quota inferiore ri-

spetto alle arcate precedenti; il corridoio all’interno presenta una fo-

dera in reticolato che ne restringe la luce; da queste evidenze si dedu-

ce che l’anfiteatro ha attraversato due fasi costruttive, l’una di fonda-

zione, l’altra di restauro ed ampliamento.

Alla prima fase sono datate le arcate cieche con riempimento di pie-

trisco e terreno poste a sud della Via Solfatara, che presentano una

muratura in cementizio priva di paramento.

La seconda fase si riscontra nelle fodere di rattoppo del corridoio a

Sud vicino all’ingresso meridionale che presenta sia foderature in

quasi reticolato che in reticolato, da cui si desume un restauro e un

ampliamento dell’edificio conseguente all’ampliamento della cavea.

Il rinvenimento di una cornice in marmo lunense in prossimità della

summa cavea, datato in età severiana per l’uso del trapano nella deco-

razione, l’eccessivo eclettismo nella ricerca degli ornati, l’horror va-

cui124 testimonia lavori di abbellimento dell’edificio datati in

quell’epoca.

Datare il monumento non è una cosa agevole vista la presenza di ope-

re murarie di varia natura e datazione, e considerando la mancanza di

attestazioni epigrafiche e letterarie125

Dallo Spinazzola è stato riportato in luce a N del cavalcavia un setto-

re della cavea, attualmente sepolto e non più visibile sormontato da

un ambulacro in quasi reticolato coperto da una volta a botte che pre-

senta nella parte interna dei vomitoria che dovevano permettere

l’ingresso alla cavea da N. Al di sopra dell’ambulacro doveva aprirsi

un altro ordine di gradinate corrispondente al maenianum summum126.

All’estremità N il monumento è completamente interrato.

124 MANISCALCO 1994;125CARUSO, DEL CORSO, RAIOLA CARUSO 1980, p. 185;126Idem;

La datazione dell’edificio, come si può notare, non è assolutamente

agevole vista la difficoltà a datare le strutture solo ed esclusivamente

in base alla strutture murarie.

Le opinioni degli studiosi risultano essere quanto mai discordi.

La datazione proposta da Johannowsky è tra le più alte127 tale da data-

re le strutture più antiche all’età graccana, ma la differenza tra gli an-

fiteatri più antichi di Cuma e Capua sta proprio nella tecnica costrut-

tiva; l’anfiteatro di Pozzuoli è uno dei primi esempi di edificio co-

struito in parte su sostruzioni radiali a sostegno della cavea, mentre

negli esempi citati l’edificio era addossato su pendio e su terrapieno.

Il Maiuri128 insieme al Frederiksen lo data in età augustea; il Sommel-

la129pone la sua costruzione verso la metà del I secolo, e le strutture in

reticolato in piena età augustea.

L’anfiteatro privo di sotterranei, ma con una tecnica di costruzione su

arcate sostruttive sembra essere più recente rispetto a quelli di Cuma

e Capua.

Le strutture costruite con paramento in incertum possono essere con-

frontate con le strutture in opera incerta dell’anfiteatro di Pompei, che

sappiamo essere datato al 75 a.C.; La fase di fondazione si colloca al-

la prima metà del I secolo a.C.; le foderature in quasi reticolato vanno

collocate agli ultimi decenni dell’età repubblicana; un secondo inter-

vento testimoniato dall’uso del reticolato può agevolmente essere da-

tato all’età augustea; non sembra impossibile che l’anfiteatro di Poz-

zuoli possa essere di poco anteriore a quello di Pompei, considerata

la floridezza e l’importanza della città flegrea.130

127 JOHANNOWSKY 1971;128 MAIURI 1981; 129 SOMMELLA 1978;130 CARUSO, DEL CORSO, RAIOLA CARUSO 1980;

11.1 Rilievo dell’anfiteatro minore puteolano

Nel mese di ottobre- novembre 2011, grazie all’intervento della So-

printendenza archeologica di Napoli, nella persona di Alfredo Ce-

trangolo, tecnico dell’ufficio archeologico di Pozzuoli è stato possibi-

le effettuare dei rilievi nella parte immediatamente a sud della via

Solfatara, in prossimità di un’abitazione civile che ormai ingloba

completamente le arcate sostruttive di contenimento della cavea, visi-

bili a S del cavalcavia della ferrovia.

E’ stata montata una lenza di 20 m parallela ad un parapetto in ferro

che chiude un terrazzamento in cemento armato prospiciente le arcate

in questione. Il terrazzamento è ad una quota di + 1,70 circa dalla

strada moderna.

Delle nove arcate visibili in origine è stato possibile rilevarne solo 2 ;

della altre 5 è stato possibile rilevare solo lo spessore dei muri di so-

stegno degli archi.

Tal spessore è di ca. 0,90 cm fino alla VII arcata; per quello che è sta-

to possibile rilevare esso diminuisce ( ca. 0,55 cm) dalla VII alla IX

arcata; è presumibile che dalla VII arcata in poi la freccia delle volte

diminuisca.

Le 2 arcate in questione presentano riempimento di terreno e pietri-

sco, alla seconda è addossato un muro in mattoni moderno.

Sono arcate in cementizio prive di paramento costituite da malta e

blocchi di tufo giallo grossolanamente sbozzati, la prima delle quali

presenta in corrispondenza della chiave di volta una frattura causata

dalle vibrazioni dovute alla presenza della ferrovia subito a N di es-

sa.

Le arcate sono divise dalla ferrovia da un muro di contenimento in

cemento armato della lunghezza di 5 metri ca.

L’ampiezza delle arcate è di ca 3,60.

La sezione della seconda arcata visualizza l’andamento della volta a

forma di imbuto, tale da contenere la pendenza e il peso delle gradi-

nate.

Purtroppo non si riesce a stabilire l’esatta pendenza delle volte a cau-

sa della presenza del riempimento di terreno all’interno di esse che ne

ostacola il rilievo.

Rispetto alla documentazione stilata in precedenza ( Sommella; Caru-

so, Raiola, Del Corso), non sono più visibili le arcate di contenimento

del terreno che dovevano cingere l’arena, né è più visibile l’ingresso

meridionale nei pressi di Via Vigna; il corridoio voltato con foderatu-

re in quasi reticolato posto nelle immediate vicinanze dell’ingrezzo

meridionale è stato completamente tompagnato da un garage moder-

no.

Da Via Vigna sono visibili ( a S del complesso) solo i resti di un

ambiente a più piani ortogonale alla via stessa che era in parte inglo-

bato nell’ellisse dell’anfiteatro.

Ciò che emerge dal rilievo e dal sopralluogo è uno stato di completo

abbandono del monumento che doveva apparire più leggibile e facil-

mente studiabile agli inizi degli anni ottanta.

11.1.1 Ricostruzione geometrica dell’anfiteatro di Pozzuoli

Come per Capua la ricostruzione dello schema geometrico

dell’anfiteatro puteolano, nonostante l’esiguità dei resti rilevati, sem-

bra corrispondere ad un ovale a 4 centri; in particolare si nota che la

costruzione che funziona si basa sul triangolo con i lati in rapporto di

3:4:5.

Il procedimento di ricostruzione è lo stesso utilizzato per Capua.

La misura degli assi è di 171,00 metri per l’asse maggiore e 102, 50

metri per l’asse minore.

Pozzuoli- rilievo

Elaborazione ed edizione grafica a cura di Gianluca Ippolito

Pozzuoli-ricostruzione (scala 1:500)

Pozzuoli-ricostruzione (scala 1:1000)

Elaborazione ed edizione grafica a cura di Gianluca Ippolito

12. L’anfiteatro di Pompei (75 a.C.)

L’anfiteatro della città di Pompei ha una sicura datazione in base ad

una famosa epigrafe (CIL, X, 852) che attesta la sua costruzione do-

vuta all’iniziativa privata dei duoviri quinquennales C. Quinctius

Valgus e Marcus Porcius, che avevano realizzato pochi anni prima

l’Odeion; l’importanza dell’edificio (designato ancora con il termine

di spectacula) è testimoniata dalla stessa epigrafe che cita: “ ...fecero

costruire a proprie spese l’edificio per gli spettacoli per l’onore della

colonia e lo destinarono in perpetuo ai coloni”.

L’edificio rientra ancora, per quanto riguarda tipologia e tecnica di

costruzione nel novero degli anfiteatri più antichi ed è sicuramente

uno degli esempi meglio conservati della tipologia.

La posizione decentrata dell’edificio permise da un lato la facile ac-

cessibilità al monumento attraverso Porta Nocera, dall’altro consentì

un notevole risparmio dei costi di costruzione , sfruttando per la so-

struzione della cavea un ampio tratto dell’antico agger delle mura, e

un ampio tratto costituito da terrapieno131.

La sostruzione dell’edificio è alleggerita da 62 arcate cieche , cui si

addossano due scalinate a doppia rampa e due scale semplici

all’angolo sud-ovest e nord-est; queste portano ad un anello superiore

esterno, dal quale, attraverso una serie di aperture ad arco, si poteva

raggiungere la summa cavea132. Gli accessi all’ima e alla media cavea

avvenivano tramite un corridoio che correva al di sotto della media

cavea.

Questi si aprono al centro del lato maggiore nord-ovest e nell’angolo

sud-est; entrambi sono voltati, pavimentati e con forte pendenza in

131 PESANDO GUIDOBALDI 2006132 Idem;

modo da colmare il dislivello tra il piano di campagna e quello

dell’arena, per la cui realizzazione venne rimossa una gran quantità di

terra.

L’ima cavea divisa in 18 cunei, comprende 5 file di gradini; la media

cavea 20 cunei e 12 file di gradini ed è separata dalle altre due da un

balteus. La summa cavea era divisa in 40 cunei di 18 gradini alla cui

sommità sono riconoscibili i resti di un muro in opera incerta, forse

un residuo di sistemazione di questa parte della cavea. Al di sopra

dell’anello superiore esterno sono riconoscibili i resti in opera vittata

di un ambulacro cui va riconosciuto il maenianum summum.

L’aspetto dell’anfiteatro all’epoca del celebre affresco della rissa tra

Nucerini e Pompeiani era alquanto diverso, in particolare il parapetto

dell’arena era decorato da pitture a soggetto gladiatorio, nell’affresco

risulta essere dipinto con un motivo a finto marmo.

12.1 Ricostruzione geometrica dell’anfiteatro di Pompei

Partendo dalla considerazione del rilievo effettuato con aereofoto-

grammetria si è applicato lo stesso procedimento per la ricostruzione

del solo perimetro esterno dell’anfiteatro di Pompei, per effettuare

una controprova della nostra ricerca.

Anche l’anfiteatro di Pompei, come quello di Cuma risulta essere rin-

tracciabile da un ellisse con asse maggiore di 131,00 metri e un asse

minore di 102, 00 metri.

Pompei ricostruzione

Elaborazione ed edizione grafica a cura di Gianluca Ippolito

Conclusioni

Alla luce delle ricerche fatte e dei dati acquisiti non possiamo propendere

per l’ipotesi dell’ellisse o per quella dell’ovale, vista la chiara parità negli

esperimenti.

La misura degli assi non sempre è compatibile con quella riportata da altra

letteratura ma lo scarto può essere considerato abbastanza ragionevole.

In particolare tutti e tre i procedimenti sono stati applicati a tutti gli esempi

in questione, la geometria ha dato ragione ora ad un metodo ora ad un altro.

Sappiamo da questa stessa letteratura che lo schema più semplice e veloce

da usare sia per la progettazione sia per il tracciamento in cantiere era quel-

lo dell’ovale a 4 centri sostenuto da maggior parte degli studiosi, ma la

controprova pratica, in questa sede, non ha riportato gli stessi risultati; ri-

cerche e scavi futuri potranno sicuramente chiarificare una problematica

tanto complessa quanto affascinante.

Sarebbe curioso ed interessante approfondire le indagini ampliandole an-

che ad altre costruzioni del genere presenti in area campana più o meno ri-

feribili allo stesso periodo (Avella, Paestum, o anche esempi extraterrito-

riali come Sutri) per tentare di trovare un filo conduttore comune che inte-

ressi sia la progettazione che la realizzazione di questi stupendi ed intri-

ganti edifici, testimonianza forte e maestosa degli antichi fasti delle nostra

terra.

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PESANDO, GUIDOBALDI 2006, Pompei, Oplontis, Ercolano; Stabiae,

Guide Archeologiche Laterza;

Ringraziamenti.

Il presente lavoro voglio dedicarlo a tutti.

Alla mia famiglia, agli amici, quelli veri, sicuramente non a quelli

che si spacciano per tali, a tutte le persone che ogni giorno, con

un sorriso, una parola, un incoraggiamento, mi rendono più con-

sapevole e felice.

Questo lavoro lo dedico a Gianluca Ippolito, amico vero e gran-

dissimo disegnatore.

Lo dedico a Simone Foresta per i suoi consigli instancabili e la

sua costante disponibilità verso di me.

Questo lavoro lo dedico a me, lo dedico agli studiosi ed agli ap-

passionati di archeologia, e che lo studio del passato possa ren-

derci persone migliori.

f.to

Dott.ssa Rosanna Salati

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