la bellezza difficile. saggi e interventi sull’arte contemporanea (2008)

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SAGGI

STEFANO CHIODI

LA BELLEZZA DIFFICILESaggi e interventi sull’arte contemporanea

Le Lettere

In copertina: Lorenzo Scotto di Luzio, Senza titolo, 2007, capelli su carta,cm. 32 x 42 cm. Courtesy Emilio Mazzoli, Modena.

Copyright © 2008 by Casa Editrice Le Lettere - FirenzeISBN 88 6087 184 0www.lelettere.it

Senza intuire in qualche modo la vita del dettaglio attraverso la struttura,ogni aspirazione alla bellezza rimane pura fantasia. Struttura e dettaglio

sono sempre, in definitiva, carichi di storicità. È compito della criticafilosofica mostrare che la funzione della forma artistica è appunto questa:trasformare i dati storici che stanno alla base di ogni opera significativa in

contenuti di verità. Questa metamorfosi dei dati di fatto in contenuti diverità fa sì che l’affievolirsi, decennio dopo decennio, del fascino originario

dell’opera, diventi il germe di una nuova nascita, in cui ogni bellezzaeffimera viene completamente a cadere e l’opera si afferma come rovina.

Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco

«Beauty is difficult». Scrive Ezra Pound nei Pisan Cantos cheAubrey Beardley aveva risposto al poeta Yeats, curioso di saperecome mai non avesse continuato a disegnare alla maniera preraf-faellita: «So very difficult, Yeats, beauty so difficult». A chi glidomandava perché non creasse qualcosa di nuovo, anziché limi-tarsi a riprodurre confezioni di pagliette d’acciaio, Andy Warholrispondeva invece senza battere ciglio: «because it’s easier». Eccosarcasticamente riassunto un nucleo elementare di differenza tramodernità e postmodernità: la bellezza è difficile, sottintendendodifficile fabbricarla e difficile decifrarla, intenderla; oppure no, labellezza è la cosa più facile del mondo, è già qui tra noi, pronta daconsumare. Anzi, non è neppure più veramente bellezza, ma soloil suo fantasma, svuotato dei tratti indecifrabili, delle difficoltà chel’hanno secolarmente contrassegnata. E così evapora anche l’op-posizione tra la difficoltà del nuovo, dell’autentico, e la facilità delripetitivo, l’inautentico per definizione. E tuttavia è più verosimilepensare di essere in presenza qui, più che di uno spartiacque, di unballetto dialettico: perché la difficoltà torna nel momento stesso incui ci accingiamo a liquidare l’estetica insieme al suo ingombrantecorteo di problemi irrisolti, torna sotto forma di oscurità, di puntodi domanda che accompagna e segna il nostro esercizio di spetta-tori o di interpreti. Staccato dal suo liscio involucro sensoriale, daldominio del gradevole, dell’appagante, oggi regno incontrastatodell’immaginario pubblicitario, il “bello” appare tanto il fossile diun’epoca remota, un misterioso minerale, un meteorite dotato diinquietanti proprietà, un puntatore ambiguo, bifronte, quanto l’in-ciampo delle teorie che ne prevedono l’indefettibile eliminazione,

INTRODUZIONE

l’elemento di disturbo, e anche il germe di una diversa articola-zione del senso: lo schermo argenteo su cui Warhol iscrive l’e-strema reificazione, quella della morte, può diventare così lasuperficie impressionabile su cui si proiettano il nostro smarri-mento e la nostra meraviglia.

Sappiamo da tempo del resto che una volta divelte la Storia ela Natura dai loro piedistalli per sostituirvi il conflitto senza treguatra principi integralmente mondani, la dimensione dominante del-l’esperienza è divenuta il simulacro, la forma della derealizzazionedell’umano, di un’incessante simulazione che produce ormai la real-tà anziché esserne come credevamo solo un mascheramento. Leassiologie tradizionali hanno a loro volta perso consistenza e nonsono più pensabili fatti artistici neutri, puramente profani o, al con-trario, puramente estetici: ogni cosa sembra venire in luce portan-do con sé la compromissione, a prima vista difficilmentepercepibile, di ogni suo potenziale valore d’uso, presentandosi inuna sorta di precomprensione che abbraccia e denatura quell’oriz-zonte puro, quello spazio non ancora gravato dalla cultura versocui tendevano le avanguardie e i progetti utopici della modernità.Una condizione questa in cui viene assestato un colpo mortale almodello critico ermeneutico, alla sua prolissa ricerca di connessio-ni tra “dentro” e “fuori” l’opera, tra questa e lo sfondo da cuiavrebbe dovuto trarre alimento. Tutto è fuori, oggi. Ed è propriodalla modernità che ereditiamo, allargandola, la frattura con il pas-sato, con la tradizione, rendendo semmai più radicale quella con-dizione in cui la cultura non può che apparire – come agli occhidel benjaminiano angelo della storia – un cumulo di macerie illu-minate dalla luce obliqua in cui rovina preventivamente ogni super-ficiale “bellezza”. In questo tempo l’arte visiva non può chemisurare l’irrealizzabilità del suo antico compito: portare a matu-razione il percepibile, organizzare, nella forma di un’esperienzacondivisibile, l’intensificazione e il distanziamento delle cose: farespazio, fare tempo. Osservata da uno sguardo malinconico – postu-mo, come impone la nostra generica condizione di sopravvissutialla fine dell’utopia – non solo l’arte, ma la realtà intera si trasformacosì in una sterminata allegoria, come se da esso fosse defluita la vitae ogni cosa fosse consegnata a un inaridimento, a un’ontologica arbi-trarietà. Per questo la sola epifania che ci sia oggi concessa, come

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ha scritto Giorgio Agamben, è l’estraniazione, l’esperienza para-dossale del «dissolversi della trasmissibilità dell’esperienza».

Ma l’arte mette in disordine la vita. E dell’arte nostra contem-poranea potremmo anche dire, parafrasando una massima di Goe-the, che se non c’è via più sicura per evadere dal mondo, non vi èneppure mezzo più certo per farvi ritorno. Così, se nelle esperien-ze più recenti si avverte sempre un che di teatrale, di simulato, dirinviato in anticipo, una maniera di fare tongue in cheek fatta appo-sta per irritare i nostalgici della bella forma, essa ci richiede coninsistenza un secondo sguardo, proprio perché si presenta adden-sata in una forma che tanto più tende a rimuoverci, a eclissarci nelladura oggettività dei processi di scambio, quanto altrettanto costan-temente implica, chiede, pretende partecipazione e consapevolez-za. Ed ecco allora l’arte prendere sempre più ai nostri giorni ilcarattere di un dramma grottesco, futile e intensissimo, terribile,vacuo e crudele, arido e passionale al tempo stesso, impegnatacom’è in una sfida a emulare l’intima contraddittorietà dell’esi-stenza in quella che è insieme la sua garanzia di verità e la sua piùabile falsificazione. Le cose non sono come appaiono, ci dicono gliartisti, e l’apparire stesso è anzi intriso di quella responsabilità,impersonale ma non astratta, attraverso cui si produce il senso inmovimento dell’esperienza umana. Il legame tra arte e piacere este-tico si è dissolto nella fiamma fredda della tarda modernità; manella vera opera d’arte, per citare ancora Benjamin, il piacere sarendersi impalpabile, vivere per un istante, scomparire, rinnovar-si. In questo forse la bellezza appare uno schema in grado di orga-nizzare la convenzionalità del mondo, di manifestarne l’arbitrio ela ricchezza, la storicità e il tragico, la profondità filosofica e il bri-vido carnale. Per questo ancora, per noi oggi, la bellezza può tor-nare a essere difficile.

I testi riuniti questo libro, tutti pensati o scritti tra il 2001 e il2008, rappresentano una selezione significativa di un lavoro “mili-tante”, come si sarebbe detto un tempo, sin qui disseminato in cata-loghi, antologie, giornali, riviste, che oltre l’esperienza artisticacontemporanea ha via via toccato temi e nodi teorici, retroceden-do a volte nei territori della storia, cercando di tradurre in praticaquel compito ideale della critica che consiste nell’acquisire «il senso

INTRODUZIONE IX

generale di una dominante culturale», senza il quale, ha scritto Fre-dric Jameson, «si ricade in una visione della storia presente comepura eterogeneità, differenza casuale, coesistenza di una moltitu-dine di forze diverse, la cui efficacia è indecidibile». Alcuni di que-sti scritti conservano la traccia vivida di un incontro con un artista,altri riportano l’eco di una scoperta o di un viaggio, altri ancorariflettono interrogativi e questioni che oltrepassano di gran lungalo spazio modesto a loro disposizione. Nel loro complesso essi rap-presentano un inventario fedele degli interessi, delle predilezioni edelle insistenze del mio percorso, qui condensato in forma piùmaneggevole. Preparando i testi per la pubblicazione, mi è sem-brato di cogliere al loro interno un elemento comune, forse soloadesso così evidente, un carattere di urgenza, una tonalità affilata,dura anche, qualcosa su cui mi è difficile riflettere senza fare ricor-so allo scenario più largo oltre i confini del mondo artistico, allavicenda di questi anni convulsi: penso alle contraddizioni semprepiù esasperate tra le narrazioni dominanti e le condizioni reali, trai miracoli della tecnologia, la sua appagante facilità, e i reiteratiarretramenti politici, alla complicità inconfessabile tra guerra e con-sumo, come pure, alla scala che più direttamente riguarda l’arte,all’acutizzarsi dei processi di deterritorializzazione che ci conse-gnano oggi un mondo globalizzato nel segno univoco del mercato.Un mondo che si è fatto insieme sempre più polarizzato e omoge-neo, più minaccioso anche, e dal quale sembra espunta in appa-renza ogni idea di cambiamento, di costruzione di un futurodiverso, sostituita da quello che sempre Jameson chiama il «pre-sente perpetuo», una condizione apparentemente immemoriale eciononostante inquieta, ossessionata dalle proprie ombre. Il perio-do senza nome apertosi all’indomani dell’attentato alle TwinTowers si è imposto al pensiero e all’azione dei contemporaneicome un tempo della severità e del pericolo, e anche di una neces-saria consapevolezza: anche se continuiamo ad aggirarci attraversoi convulsi trionfi della società spettacolare, a rimanere avviluppatinella sua trama scintillante, nel vortice di una jouissance obbliga-toria e infinitamente rinviata, sappiamo di essere giunti in qualchemodo a un appuntamento decisivo. In questo scenario l’arte restal’esperienza in cui ricercare i segni di una diversa comprensibilitàdel mondo e di una sua possibile trasformazione.

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INTRODUZIONE XI

Ringraziamenti

Non sarebbe stato possibile pubblicare questo volume senza le discussioni, gli incon-tri, le sollecitazioni che ne hanno in ogni momento accompagnato e incoraggiato lastesura. Vorrei esprimere la mia riconoscenza anzitutto agli artisti per avermi con-sentito di entrare nei loro laboratori creativi, accettando di confrontare con me ideee visioni. Molti dei testi raccolti in queste pagine sono stati inizialmente redatti perpagine di giornali e riviste: ho trovato interlocutori sensibili ed esigenti in FrancescaBorrelli de «il manifesto», Roberto Andreotti e Federico De Melis di «Alias», Wal-ter Pedullà de «il Caffè illustrato». Sono grato alle istituzioni e ai musei con cui hocollaborato in questi anni, e in particolare al MAXXI, Museo nazionale delle arti delXXI secolo di Roma, e al MADRE, Museo d’arte contemporanea Donnaregina di Napo-li. L’Accademia di Belle Arti di Macerata ha fornito un supporto determinante allamia attività di ricerca e i corsi che vi ho tenuto dal 2001 a oggi hanno rappresentatoun insostituibile momento di verifica per le idee presentate in queste pagine. Traquanti hanno seguito e appoggiato il mio percorso, un sentito ringraziamento va aFranco Cordelli, Gabriele Guercio, Anna Mattirolo, Arturo Mazzarella, Maria Gra-zia Messina, Bartolomeo Pietromarchi, Lucia Tozzi. Cristiano Peddis e AdrienneDrake hanno dato un prezioso contributo alla trascrizione delle interviste e sonograto a Marilena Renda per aver accettato di rileggere il manoscritto. I suggerimen-ti, le idee, gli incitamenti di Marco Belpoliti, Andrea Cortellessa, Daniele Giglioli eGabriele Pedullà sono risultati determinanti in ogni fase del mio lavoro. La sensibi-lità e la comprensione di Elisabetta sono stati per me un sostegno e uno stimolo indi-spensabili. A lei dedico questo libro.

ARTISTI

Maurizio Cattelan, Una domenica a Rivara, 1992

È ormai ovvio che niente più di ciò che concerne l’arte è ovvio né nell’arte stessa nénel suo rapporto col tutto; ovvio non è più nemmeno il suo diritto all’esistenza.

Theodor W. Adorno, Teoria estetica

Il principio del feticismo della merce, il dominio della società attraverso «cose sopra-sensibili benché sensibili», si compie in termini assoluti nello spettacolo, in cui il

modo sensibile si trova sostituito da una selezione di immagini che esiste al di sopradi esso e che si fa al tempo stesso riconoscere come il sensibile per eccellenza.

Guy Debord, La società dello spettacolo

Mi raccontava qualche anno fa un artista lo stravagante apologo diuna mosca curiosa che salita per sbaglio su un treno in partenza siera ritrovata, senza accorgersi quasi, in una città sconosciuta. Smar-ritasi in un batter d’occhio, trascinata via, quel poco tempo dis-tratto era diventato per lei un salto da vertigini in uno spazioinvalicabile, definitivo1. È una storiella bizzarra e in fondo crude-le, perturbante come l’incubo in cui ci si perde in un posto troppolontano e non si riesce a tornare. Ma quella fuga involontaria espri-me stranamente bene, col suo tratto beckettiano insieme spaesan-te e grottesco, un fatale fraintendimento che potrebbe benissimoessere il nostro, un sentirsi perduti in un mondo rigurgitante diseducenti dispositivi di oblio che ci incitano a una morbida passi-vità; un mondo assoggettato alle imperiose seduzioni della falsa tra-sparenza, dell’evaporazione spettacolare, dove l’errore, il passofalso, il fallimento, rappresentano l’estrema, futile possibilità difuga. Forse il treno su cui siamo saliti è davvero proprio quello del

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racconto famoso di Dürrenmatt, lanciato a corsa folle in una galle-ria interminabile, e senza nessuno ai comandi2.

Ma chissà, la mosca sul treno potrebbe anche essere lontana dis-cendente di quella a cui Wittgenstein, per virtù di filosofia, inten-deva mostrare la via d’uscita dalla bottiglia, allieva esemplare di quelprogetto straordinario, vera gemma del moderno, con cui si punta-va a rendere trasparente il cuore stesso del linguaggio, l’essereinsomma. Di quella lezione la nostra mosca, erede degenere comecapita spesso, ha disimparato tutto: è rimasta senza spiegazioni, sen-za domande, senza teorie. Imprevidente e testarda, si affida sempreall’impulso del momento. Immatura, è semmai ancor più regredita.E però proprio la sua fuga non del tutto involontaria e soprattuttoquel suo cercare oscuramente un varco, un’alterazione possibile delfuturo, la possibilità di ricominciare, di reinventarsi da qualche altraparte, mi fa pensare in fondo alla condizione degli artisti italiani inquesti ultimi vent’anni, al loro desiderio di partire, di andarsene inun altro posto, di ricominciare, strappandosi a un abbraccio fattositroppo stretto, a una stagnazione impenetrabile e senza rimedio. Odi farlo magari senza allontanarsi affatto, semplicemente staccandola presa, autoesiliandosi in un paese immaginario, quello dell’arteappunto, con l’unico obbligo di saper afferrare al volo le occasioni,stretti in un luogo interiore, senza rapporti o quasi con l’esterno.Adattarsi e sopravvivere, comunque, e necessariamente da soli.

Ma sopravvivere a cosa? Anzitutto alla catastrofe figurale e poli-tica del nuovo, al trionfo dei simulacri e dell’immaginario, allamediatizzazione universale, al riverbero frenetico di un desideriodi possesso perennemente insoddisfatto. Questo è il contesto in cuisi verifica un collasso culturale che mina l’ambizione dell’arte visi-va di rappresentare il momento della verità delle immagini e dis-perde il suo patrimonio di esperienza. Che ne è della meravigliosagenealogia delle immagini, di quella civiltà, si sarebbe detto un tem-po, in cui la messa in forma e comprensione del mondo apparivacome un fine tracciato nei volti, nelle carni, nei panni, nei sassi, neicieli inumani e profondi, nei vortici di materia, nelle crepe, neibuchi, nelle simmetrie indistruttibili e nei getti improvvisi? Ecco,è proprio tutto questo, prima ancora di addentrarci in più lucidedisamine, a essere irrimediabilmente passato. Teorizzata e solleci-tata da decenni, l’eclisse dell’immagine ha cause assai diverse da

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quelle ipotizzate nell’epoca del modernismo ottimisticamente trion-fante. Le immagini dell’arte sono diventate «effimere, ubique,inconsistenti, disponibili, senza valore, libere»3, non per abolizio-ne di limiti convenzionali e ormai inadattabili, non per “liberazio-ne” insomma, ma per la sfida mortale che le ha lanciato lariproducibilità fotografica prima e la “trasvalutazione dei valori”della società spettacolare poi. Ad essere revocato non è tanto il loroprestigio di oggetti irripetibili, quanto il loro valore di attestazionedi proprietà inconfutabili (la storia, il bello, ecc.), sostituito con ildesiderio perennemente inappagato, con il presente immemorialedell’icona pubblicitaria4.

In questo contesto che chiameremo, seguendo la diagnosi diFredric Jameson, postmodernismo, le tipiche armi dell’avanguardianovecentesca – lo choc, la rottura, lo scarto – diventano variabilirichieste dal sistema, infinitamente replicabili, e viene preventiva-mente azzerato il loro valore di opposizione, la capacità di rende-re visibili attraverso uno scarto imprevedibile i rapporti di forzareali, di creare un varco nel continuum autoritario dell’istituzionearte. Se negli anni sessanta il realismo traumatico di Andy Warhol,come lo chiama Hal Foster5, così come il minimalismo marcavanol’assunzione della serialità all’interno dell’arte, ciò avveniva nellalogica della ripetizione pura su cui Gilles Deleuze rifletteva in que-gli stessi anni, additando esplicitamente l’esempio dell’arte comemezzo per svelare e distanziare criticamente i meccanismi imma-nenti dell’epoca dei simulacri:

Il solo problema estetico è quello di inserire l’arte nella vita quotidia-na, giacché quanto più quest’ultima appare standardizzata, stereotipa-ta, sottoposta a una riproduzione accelerata di oggetti di consumo,tanto più l’arte deve aderirvi strappandole quella piccola differenza cheperaltro opera simultaneamente per altri livelli di ripetizione. Il suocompito è di far risuonare i due estremi delle serie abituali di consumocon la serie istintuale di distruzione e di morte, di congiungere il qua-dro della crudeltà con quello della stupidità, di scoprire sotto il consu-mo uno sbattere ebefrenico di mascella, e sotto le più ignobilidistruzioni della guerra, ancora e sempre dei processi di consumo, lemistificazioni che costituiscono l’essenza reale di questa civiltà, affin-ché per ultimo si esprima la Differenza6.

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Esprimere la Differenza significa insieme trasgredire l’ordinemodernista – le opposizioni estetiche alto/basso, unico/plurale, ori-ginale/copia – e mettere in discussione l’ordine sociale che lo sot-tende. Ma quarant’anni dopo le parole di Deleuze la serialità èdiventata uno fra i tanti mezzi a disposizione della macchina media-tica, la Differenza è stata opacizzata e la sua capacità trasgressiva,la sua «forza di ira», ridotta a zero. Se la violazione delle regolediviene a sua volta regola o attitudine sollecitata dall’industria cul-turale, dunque sottoposta alla prestabilita, rapida obsolescenza deifenomeni di consumo, dovremmo pessimisticamente concludere,seguendo la diagnosi della sociologa francese Nathalie Heinich, chequello dell’arte “contemporanea” è in realtà nient’altro che un cir-cuito perverso, basato sul «paradosso permissivo» (un tipico dou-ble bind, direbbero gli psicoanalisti) che ingiunge agli artisti dieseguire un ordine impossibile: “Trasgredite!”. In questa pro-spettiva sociologica non c’è via di scampo: l’arte è un «triplo gio-co», un copione ripetitivo – violazione dei limiti, reazione negativa,reintegrazione e istituzionalizzazione – in cui ogni attore (artisti,critica, pubblico) interpreta ogni volta un copione già scritto7. L’i-conoclastia, soprattutto a comando, non spaventa più, nessunoinsorge per innocue provocazioni presto riassorbite nel ritmoindifferente delle mode e del mercato. Resa innocua, l’arte è pri-gioniera di uno stato di indecisione patologica in cui tenta senzasuccesso di costituirsi come Altro mentre la merce si mostra comeunica possibile Opera.

Non c’è dunque alternativa? In molti sembrano pensarlo8. Lacrisi dell’immagine sembra del resto coincidere, come ci segnalanoda tempo le riflessioni di Slavoj Žižek9, con l’affermarsi del sistemadi valori, di pratiche e di consenso che le società postindustriali han-no elaborato nel corso dell’ultimo mezzo secolo; un sistema che haparadossalmente convertito all’edificazione di un immaginariomediatizzato quelle stesse tecniche – il montaggio, il ready made ecc.– inventate all’inizio del secolo come dispositivi di demistificazio-ne, di attacco alle convenzioni dell’arte. Questo sistema, e ciò valeper tutto il mondo globalizzato, non è più il Potere, l’Avversario,con cui misurarsi, ma il principio che nell’attuale fase storica si ponecome mediatore universale dei processi sociali e culturali. Lungi dal-l’essere una sovrastruttura che ostacola la creazione “pura” e si con-

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trappone alla sua autenticità con falsi valori, è diventato a tutti glieffetti la prova di esistenza, l’orizzonte del desiderio dell’arte.

Ma occorre andare ancora più a fondo in questo ragionamen-to per comprendere come la disgregazione imposta dalla logicaspettacolare, e la contestuale trasformazione dell’arte in bene dilusso, abbiano determinato non tanto lo smascheramento della sup-posta “falsità” dell’arte contemporanea rispetto a una inalterabiletradizione, ma il tracollo (del resto già teorizzato sin dagli anni cin-quanta del Novecento) di un intero sistema di prassi e di idee, diabitudini percettive e di aspettative che dalla grande epopearomantica si erano poi trasmesse al secolo modernista. La trasfor-mazione complessiva della cultura nelle società postindustriali haeroso il basamento di questa tradizione – l’idea di “gusto”, di qua-lità estetica, opposta alla banalità del kitsch, l’inautentico per defi-nizione secondo Clement Greenberg – e reso impietosamenteobsolete le pietre di paragone del suo implicito idealismo: l’auto-nomia e il disinteresse. Ciò che dava unità e sostanza alla missionecosmico-storica dell’artista d’avanguardia – la ricerca di una sog-gettività e di un’originalità incondizionate, l’apertura utopica, l’e-sigenza etica, lo stato di “veglia” – è oggi esposto, banalizzato,consumato e subito sostituito dal presente immemoriale delle ico-ne pubblicitarie. Demolito retroattivamente il suo mito (che peròsopravvive nella forma reificata del Museo e dei suoi milioni di visi-tatori), l’arte non può più alimentare l’autoillusione di un dialogodiretto con la Storia, e rischia anzi di dissolversi nell’universoimmateriale, senza confini, dei media e dello spettacolo, nell’im-maginario come fondamento e trasvalutazione al tempo stesso diogni valore, riducendosi al ruolo di irrilevante comparsa nello sce-nario culturale circostante, a mero fenomeno di marketing asservi-to a quel regime di manipolazione permanente in cui tutto –informazione, identità, corpo, pensiero – deve essere sistematica-mente reso accessibile per un immediato consumo, smaterializza-to secondo quel disegno tecnocratico e fondamentalmente gnosticoche innerva l’ideologia neoconservatrice dominante. Non a caso ilprimo teorico dello spettacolo, Guy Debord, poneva in esergo delsuo celebre testo una frase di Ludwig Feuerbach che si adatta mol-to bene alla situazione che andiamo descrivendo: «Il nostro tempopreferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresen-

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tazione alla realtà, l’apparenza all’essere. Ciò che per esso è sacronon è che illusione, ma ciò che è profano è la verità.»10

È necessario a questo punto controbattere alla semplicisticadoxa che dell’arte più recente riesce a scorgere solo i sintomimacroscopici – la vocazione commerciale, il conformismo mon-dano, lo star system ecc. – ma non il suo movimento interno, loscenario più complesso che la alimenta, le tensioni che la percor-rono. La svalutazione del presente va riconosciuta per ciò che èsempre, vale a dire una forma di reazione nostalgica e idealizzan-te che sottrae verità al passato perché lo riduce a mera archeolo-

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Diego Perrone, Vicino a Torino muore un cane vecchio, 2003

gia, e nel caso in questione a una versione camp o santificata dellastoria dell’arte, inconsistente ed effimera. Oggi è in gioco moltodi più del sacrosanto diritto alla “bellezza”, ridotta beninteso epreventivamente alla misura del joli piuttosto che mantenuta inquella del beau. Se l’artista, come notava Hans Bel ting nel 198311,non può più godere del distacco dall’arte del passato garantito dal-la “rottura” inaugurale e dal carattere evolutivo del mo dellomodernista, se non sta più sulla punta affilata dell’epoca, ciò nonsi traduce soltanto in una “perdita” ma anche nell’acquisizione diuna nuova potenzialità. In discussione non è più solo la gerarchiadel Museo ma la stessa istituzione arte, la pertinenza di un campodi possibilità precostituite, inteso come sistema di attese social-mente stabilizzate, come spazio di senso. L’effetto di frustrazionee smarrimento connesso alla fine della “tradizione del nuovo” edel suo investimento liberatorio, si può trasformare in una chan-ce per aprire in modo dialettico, nel corpo stesso delle opere, imodi della loro produzione e del loro consumo, connettendo inmodo inatteso la loro inammissibile pretesa poetica alla rovina delsistema di attese su cui si fonda.

Se ci seducono, le immagini possono anche renderci diffidentidi ogni illusoria pienezza, presentandosi di fronte a noi con unarichiesta di reciprocità: non solo attirando gli sguardi ma metten-doli in discussione, sollecitando chi le guarda a un distanziamentoda sé, attirandolo in un vuoto dove risuona un pericolo. Due esem-pi di questa attitudine possiamo trarli dal paesaggio attuale del-l’arte in Italia. Il primo è un’animazione digitale di Diego Perrone,Vicino a Torino muore un cane vecchio (2003), in cui viene presen-tata con atroce immediatezza, pure del tutto simulata al computer,la morte solitaria di un animale. Di fronte alla fissità senza scampodelle immagini – un cane agonizza e muore in un bosco – la rea-zione non può che essere anzitutto emotiva. Sembra non ci sia daaggiungere altro, se non rilevare l’impressionante realismo dell’a-nimazione e della colonna sonora. Almeno in un primo tempo.Perché il tema di questo lavoro non è tanto, non solo, la morte,ma appunto anche la rappresentazione del morire, la violazione del-la sua sacralità solitaria, condotta in nome di una volontà di sape-re, e vedere, senza limiti. Una volontà di questo genere la si ritrovain quegli artisti contemporanei – ad esempio in Stan Brackage

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(penso al suo film The Act of Seeing With One’s Own Eyes, 1971),nella serie The Morgue (1992) di Andres Serrano, e soprattutto nelcorpus del lavoro di Damien Hirst – che si sono trasformati inimperturbabili indagatori del corpo morto e del suo disfacimento,oltre naturalmente a rappresentare un tema ricorrente lungo tuttoil corso dell’arte occidentale. Ma mettendo in scena la terribile ago-nia di un cane, Perrone la sottrae alla sua condizione assoluta,obbligando lo spettatore a concentrarsi per così dire non sul risul-tato ma sul processo, con una sorta di crudele rovesciamento del-l’ars moriendi medioevale che fornisce della morte un ritrattotecnicamente pornografico, e cioè frontale e immediato, tutto con-centrato sui dettagli, senza moventi, senza sviluppi, e con un fina-le obbligato. In questo procedimento l’immagine insostenibile,l’istante del transito, l’irrappresentabile per definizione, entrano inuna zona di insensibilità, di saturazione, e vengono destituiti nel-l’istante stesso in cui appaiono sullo schermo. L’effetto di paradossonasce quando ciò che dovrebbe estrarci da un flusso indifferente,da una neutralità statica di osservatori casuali, e cioè il contatto visi-vo con la Fine, con una sorta di epifania al contrario, finisce inve-ce per obbligarci a riflettere anche sulle condizioni dell’illusioneche ci viene proposta, dove la massima naturalità equivale al mas-simo dell’artificio. Questa specifica morte non c’insegna nulla, nonci fornisce nessuna catarsi, nessuna elevazione creaturale, ma soloun fascio di luce cruda, potente e inutile.

Ai margini della città, o in un suo interstizio, si sono invece are-nate le creature mezzo umane e mezzo meccaniche (motomen lichiama l’artista), i relitti ormai inutili di esperimenti falliti, di cuiElisabetta Benassi ha narrato il destino nella videoproiezione Tut-ti morimmo a stento (2004). In apertura una parabola, la storia ama-ra e terribile illustrata nel celebre quadro di Bruegel il Vecchio: seiviandanti ciechi che precipitano fiduciosi l’uno dietro l’altro sullosfondo di un paesaggio indifferente. Ma il quadro è solo un posterappeso in un ufficio, mise en abyme di un’illusione ancora più tena-ce: promette di disilluderci, ma ci inganna ancora più ostinata-mente. Così come un’umanità accecata nulla impara dai proprierrori, i motomen ormai inservibili giacciono inermi, in attesa che sicompia la loro sorte: essere smembrati, ridotti a grumi informi dimetallo come le carcasse di automobili che torreggiano nel campo

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di demolizione tutto intorno, incessantemente manipolate da esse-ri bestiali, carnefici senza faccia né coscienza. L’utopia, la sfida fidu-ciosa al tempo e alla morte, il progetto di un uomo nuovo,presentato con i suoi desolanti fallimenti – anonimi incidenti di per-corso che solo un numero distingue gli uni dagli altri –, viene cosìmessa a contatto col suo rovescio corroso, spento, stagnante, e per-ciò nascosto, sepolto come un segreto inconfessabile che tornacome uno spettro inquietante, ritmato dal ritmo cantilenante e sem-pre uguale della colonna sonora. Solo la grande macchina delladistruzione gira senza sosta, mai sazia, mai soddisfatta del lavoro

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Elisabetta Benassi, Tutti morimmo a stento, 2004

compiuto, sotto l’occhio indifferente di un corvo nero, parente piùdella creatura demoniaca di Poe che del saccente uccello pasolini-nano di Uccellacci e uccellini. Il circolo vizioso dell’illusione che siautoalimenta delle sue stesse disfatte, un tema che torna anche inaltre opere di Elisabetta Benassi, è esposto qui con l’evidenza deldocumentario e il respiro epico di una ballata popolare. I moto-men, la parabola dei ciechi, la polvere e la ruggine, i rottami acca-tastati, i macchinari che trasportano, scompongono, pressano, ilcorvo: tutto è allegoria di una cecità ancora più definitiva, di undispendio che ha già prosciugato ogni risorsa e a cui nemmeno ilmondo intero sarà sufficiente. La ripetizione è penetrata da tempoin questo universo e l’ha totalmente posseduto; ciò che ne resta,ciò che vediamo, è il residuo entropico, la deiezione, lo stato penul-timo, oltre il quale non c’è uniformità grigia e uniforme.

Quella concessa allo spettatore è in entrambi i casi una catarsifittizia, dove la rivelazione coincide col massimo del maschera-mento, e il realismo con la sua polverizzazione nel paradosso di unincontro mancato in anticipo. E in effetti, mentre apparentementeesibiscono a loro modo l’unicità, la “terminalità” tragica della Fine,il negativo assoluto della morte, entrambi i video le permettono divolatilizzarsi nella ripetizione compulsiva, in un loop circolare e sar-casticamente infinito di agonie e resurrezioni, di tentativi e falli-menti, un ciclo demoniaco da cui è impossibile uscire, o meglio dacui, derisoriamente, è possibile uscire e rientrare a volontà, comeuno spettatore annoiato che si alzi durante una proiezione. Ma sela ripetizione dunque smonta la morte, sostituendolo, come nel foo-tage compulsivamente ritrasmesso delle Twin Towers in fiammel’11 settembre 2001, con il suo fantasma, la fa riapparire anchecome un assenza che punge, che lacera la trama compatta dell’im-magine e ne espone il rovescio abissale.

Arte in Italia, ho scritto prima a proposito di questi due esem-pi. Del resto, nell’epoca che ha generato un ordine dell’immagina-rio che sembra avere il potere di assimilare, obliterandole, tutti le“vecchie” differenze storiche e antropologiche (e della suppostaequivalenza di tutti i paradigmi), come potremmo ancora parlare,tanto più per quanto riguarda l’arte visiva, di una specificità italia-na, se non come chiusura provinciale, difesa di una piccola isola

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rimasta chissà come miracolosamente separata dall’arcipelago dicui pure fa parte? Aggiungo ancora: non è possibile valutare criti-camente l’arte prodotta in Italia se non abbracciando con lo sguar-do l’intera estensione della visual culture contemporanea, e perconverso solo in questa prospettiva è possibile far emergere, se vene sono, le peculiarità dei suoi protagonisti. D’altro canto, l’artecontemporanea non può essere pensata semplicemente comel’“adesso” dell’arte, ma piuttosto, ha scritto Giorgio Agamben12, inuna relazione sfasata e anacronica col suo tempo, come una dina-mica di trasformazione e opposizione che interagisce, contribuen-do a definirlo, col complesso dell’esperienza, con la lingua e lamemoria, con la moda e l’inattuale, col buio della storia e la suaintermittente promessa di luce. È a questa dimensione problema-tica che mi riferisco parlando in queste pagine di “arte contempo-ranea italiana”, un’espressione né meramente geografica nétantomeno commemorativa di generiche e dubbie “radici”; ciò chemi interessa è cogliere la concretezza di un’identità culturale nelmomento in cui questa appare in concreto pericolo, per ritrovarvinon tanto i sintomi di una continuità quanto piuttosto gli elemen-ti indispensabili alla sua trasformazione.

Ragionare su questa dimensione vuol dire dunque necessaria-mente porre le vicende artistiche in attrito con una più lunga dura-ta storica e politica, e in particolare, nel passato prossimo, con ilcomplicato nodo della transizione italiana all’epoca postmoderna.Di quell’ampio panorama di diagnosi e smottamenti teorici chehanno scosso nel corso degli anni ottanta e novanta le pratiche crea-tive e l’esercizio della critica, la sfera politica e quella soggettiva, lacultura italiana nel suo complesso, e artistica in particolare, si è ineffetti dimostrata solo parzialmente ricettiva, non riuscendo sem-pre a coglierne con tempestività il potenziale di trasformazione cul-turale e sociale e riducendo volentieri la sua portata a formulesuperficiali, a etichette disimpegnate: insomma il “postmoderno”13

come sinonimo di pastiche, di cattivo gusto e ostentazione frivola.Ma ben oltre i “ritorni” e i “prelievi” che ne avevano caratterizza-to il clima espressivo nei primi anni ottanta, il postmodernismo siè a lungo termine affermato in campo artistico soprattutto comeuna strategia di critica e sistematica decostruzione che mirava a faremergere l’elemento autoritario dei procedimenti di creazione e

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decodifica, a smitizzare le istituzioni (il museo, la galleria ecc.), indi-viduando quindi nell’artista un catalizzatore e attivatore consape-vole più che un ineffabile “creatore”. In Italia, al contrario, troppospesso il discorso pubblico intorno alle arti si è ritrovato in unaposizione di isolamento, di intransitività, slegato dalla responsabi-lità di individuare e praticare una distanza critica rispetto alle pre-scrizioni dell’istituzione, di sottrarsi alla propria ininfluentestrumentalità (certo in questo non agevolato da una struttura acca-demica ed editoriale diffidente quanto non apertamente ostile).Forse anche per questo l’identità italiana è vissuta oggi dagli artistipiù giovani più come un impaccio, un fattore di ritardo, come qual-cosa di inutilizzabile, con una sua nobiltà un po’ appassita, di cer-to non competitiva, non adeguata ai tempi: essa appare come unblocco, una zavorra, anziché una risorsa.

Ma se questa diagnosi è almeno in parte corretta, quali sono lecause di un simile faticoso adattamento? Il punto problematico è

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Letizia Battaglia, La costa a est di Palermo, da Atlante italiano, 2002

senz’altro un’identità italiana percepita soprattutto come tradizio-ne, anzi come grande tradizione, che chiede assai cattolicamentesolo di essere accolta, che tollera ogni genere di infedeltà, di stru-mentalizzazione, di tradimento, purché resti sul fondo compatta eindiscutibile come un dato di natura. Aveva ragione Pier PaoloPasolini a prevedere con largo anticipo dove sarebbe giunta l’evo-luzione che aveva strappato l’Italia alla sua secolare culla rurale perproiettarla nel mondo della tecnica, della competizione, dellacoscienza secolare. Omologazione avrebbe chiamato la forza irresi-stibile che uniformava il paesaggio, la lingua, i sogni, i desideri, leidentità. Ma aveva anche torto Pasolini nel ritenere il destino ita-liano obbligatoriamente coincidente con la difesa del nobile idea-le classico di un accordo tra natura e umanità, contro il nemicorappresentato dalla “civiltà dei consumi”: difesa estetica primaancora che politica, come appare chiaro ad esempio dalle sue vee-menti messe in guardia contro la banalità delle mode giovanili.

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Gabriele Basilico, Stretto di Messina, da Atlante italiano, 2002

L’equivoco nostalgico, la vocazione sentimentale e vitalistica di que-sto pensiero è stata messa a nudo, prima ancora che per via critica,dal radicale rimescolamento sociale che ha mutato dalla fine deglianni sessanta in avanti la cultura e la stessa antropologia nazionali,fornendo ai decenni successivi, e a noi oggi, un’idea difforme diidentità italiana, in cui si era aperta irrimediabilmente una frattu-ra, una reciproca incomprensione, tra il presente e la “forza del pas-sato”. La corrispondenza tra etica ed estetica, tra giustizia ebellezza, la continuità ideale che connetteva Caravaggio a Sironi,Piero a Burri, in cui si manifestava il fondo resistente dell’identitàitaliana – il Duecento giottesco, il Quattrocento di pietra e legno diquercia di Masaccio e Mantegna –, non avrebbe resistito all’incen-dio iconoclasta del ’68 e si sarebbe poi dissolta in un lunghissimoe malinconico crepuscolo, come pure nei sussulti contradditori eviolenti che avrebbero percorso gli anni settanta14. Il paesaggio del-l’Italia postmoderna sarebbe stato quello confuso, sgraziato, peri-ferico, ritratto nelle fotografie di Luigi Ghirri o di GabrieleBasilico, non più quello incantato e senza tempo, sospeso in uneterno meriggio “tonale” tra Corot e de Chirico, di un’eterna e ras-sicurante Arcadia – sempre più difficile da immaginare però, dopodecenni di inarrestabile devastazione paesaggistica e di convulsaespansione urbana – beffardamente reincarnatasi nelle ricreazioniartificiali della pubblicità15. Tutto questo aiuta a capire anche ilvalore molto particolare, squisitamente politico direi, che la storiadell’arte ha avuto in Italia in quanto momento tettonico dell’iden-tità nazionale: la “storia dell’arte” è stata in qualche modo un mito,anzi un’ideologia specificamente italiana, un fattore di cittadinan-za in un paese cronicamente frammentato, come del resto seguitaad attestare un’ancora vivace tradizione. Il sentimento della luce edello spazio, la «pienezza di visione», la continuità poetica e for-male su cui tra anni cinquanta e sessanta si esercitavano CesareBrandi e Francesco Arcangeli, le aperture ai nuovi linguaggi di Car-lo Ludovico Ragghianti, la militanza modernista di Giulio CarloArgan, erano modi diversi e contrastanti per interpretare e orien-tare la problematica modernità italiana, per darle sostanza e for-giarne la resistenza interna di fronte a quelle che venivano giàchiaramente percepite come latenti forze disgregatrici insediate alsuo interno. Ma nella caotica Italia non più antica e umile di cui il

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fascismo e la guerra avevano scoperchiato il negativo, lo strato vio-lento, astorico e anarchico, ma anche fatto intravedere un possibi-le percorso di rinascita, l’Italia dell’emigrazione interna,dell’industrializzazione e dell’inurbamento, dei conflitti sociali, delcattolicesimo miracolista e della secolarizzazione, del divertimentodi massa, del disagio esistenziale, della censura e dello sperdimen-to sensuale, in cui si muovono gli inquieti personaggi di Visconti,Fellini o Antonioni, l’Italia del consumismo e della televisioneritratta da Paolo Volponi in Corporale e su cui, da fronti diversi, siappuntavano le riflessioni di Umberto Eco e del Pasolini luteranoe corsaro, è stata spezzata in via definitiva quell’unità idealistica cheassegnava all’arte il compito di rispecchiare una certa idea di per-manenza, impastata di resistenza e tensione al futuro.

Occorrevano una nuova consapevolezza, un nuovo paradigma.Da questo punto di vista l’esperienza dell’Arte povera ha rap-presentato per l’identità artistica del nostro paese uno spartiac-que fondamentale, con la sua radicale volontà di superamentodella contrapposizione fra tradizione e rottura sperimentale e lasua originale e idiosincratica sintesi tra consapevolezza politica efecondità poetica. Opponendosi alla koiné tardo modernista e alsuo geloso ideale di autonomia estetica, «corrompendo la tecno-logia con l’obsolescenza e investendo l’aspetto artigianale di unnuovo senso di purificazione»16, l’Arte povera attaccava la razio-nalità produttiva e i modelli culturali della società di massa dauna prospettiva decentrata e consapevolmente sovversiva, al cuiinterno si confrontavano e ricombinavano originalmente l’anti-modernismo di de Chirico e l’ironia cosmica di Piero Manzoni,concezioni futuriste e antidesign, Burri e Marcuse, indagine con-cettuale e mitologie arcaiche. In questo modo gli artisti “poveri-sti” riaprivano un canale di comunicazione sia con la vicendaprofonda della cultura italiana – il nesso, francescano e rivolu-zionario, tra “povertà” e “autenticità”, la relazione identitaria conla terra – che con la sua peculiare modernità, con le sue avan-guardie, il suo sperimentalismo, la sua tradizione politica liberta-ria, tracciando al tempo stesso una coerente traiettoria diallontanamento il cui obiettivo dichiarato era di penetrare nelloscenario ormai definitivamente internazionale, “transatlantico”,dell’esperienza artistica contemporanea17.

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È ormai un luogo comune rilevare come la caduta dei progetti,del «paradigma evolutivo» modernista, come lo chiama Jameson18,delle narrazioni utopiche che promettevano di ridisegnare il corsodella storia, l’esistenza pubblica e quella privata, i modelli temporalie la soggettività, e che proprio nell’arte avevano sempre identifica-to un potente fattore di trasformazione, abbia lasciato un terrenoingombro di macerie, di “mezzi senza fine”, di nodi irrisolti e nostal-gie prepotenti, uno sconfinato e ideale campo d’azione per la “ragio-ne cinica” e la sua opera di liquidazione degli assetti istituzionalidella modernità. In questo nuovo contesto, quasi trent’anni fa, laTransavanguardia aveva cercato una difficoltosa mediazione tra l’e-redità sperimentale modernista, il retaggio classico italiano e unaallora inedita condizione deideologizzata, cui si proponeva di anda-re incontro con una visione non conflittuale, “strabica”, “dolce”,per usare due termini cari al suo teorico Achille Bonito Oliva. Maper gli artisti emersi alla fine degli anni ottanta o nel corso del decen-nio successivo il concetto stesso di “tradizione” appare lontano,impervio, inutilizzabile. L’affermarsi di un sistema artistico globa-lizzato e ultracompetitivo, modellato su quello finanziario, in cui le“origini” hanno scarso peso e gli aspetti economici e di immagineesercitano, come in qualsiasi campo del resto, un predominio di fat-to, la debolezza di un paese culturalmente colonizzato e subalter-no19, sono tutte probabili concause di quella che appare ormai comeuna cesura irreversibile. Rescisso il cordone ombelicale che nelNovecento aveva messo in rapporto dialettico, anche per vie segre-te e non sempre evidenti, l’opera degli artisti alla dinamica sociale epolitica profonda del proprio tempo, le esperienze artistiche italia-ne si sono ritrovate in un vuoto teorico e pragmatico nel quale né lemitologie private, né la montante sentimentalità, né il gioco intellet-tuale potevano restituire forza e capacità di trasformazione.

In una dimensione definitivamente orizzontale come quella chesi è imposta nell’ultimo trentennio unici punti di riferimento appaio-no le prosaiche strutture della società di massa, gli spazi dispersi del-le periferie urbane, i rituali del consumo, la morbida invadenza dellatelevisione e delle forme opportunistiche dell’industria culturale,con la sua incessante offerta di narrazioni e identità intercambiabi-li. L’impatto della seducente spettacolarità televisiva ha costituitoun potente fattore di decomposizione dell’identità culturale e poli-

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tica del paese, segnata da un rapidissimo aggancio alle forme socia-li ed economiche del tardo capitalismo e accompagnata da una bru-tale operazione di riscrittura del passato strumentale allaconvenienza politica del padrone del momento, tanto che un’inte-ra eredità storica, linguistica, figurativa complessa e stratificata sitrova oggi ridotta a una sorta di deposito di cliché e mitologie pron-

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Maurizio Cattelan, Bidibibodibiboo, 1996

te all’uso di un pubblico stordito senza alternative20. Il crudo ritrat-to della wasteland siciliana offerto dai filmmaker Ciprì & Maresco,con le disfatte periferie popolate da personaggi animalmente rasse-gnati alla propria condizione – uno stagnante deserto antropologi-co ancor prima che politico –, tratteggia con vigore grottesco il verovolto della condizione italiana degli ultimi decenni.

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Ciprì e Maresco, Cinico TV, RAI Tre, 1991-96, videostill

In questo panorama, l’opera di Maurizio Cattelan rappresentaun punto di passaggio obbligato per comprendere alcuni caratteridell’arte e della stessa identità dell’artista nell’epoca postmoderna.L’uso sistematico di un umorismo caustico e abissale, la program-matica mescolanza di “testi” e piani espressivi, lo “stile” al tempostesso impersonale e inconfondibile, la capacità di sollecitare pun-ti sensibili o controversi con una consumata tecnica della provoca-zione, la stessa efficacia e immediatezza comunicativa delle sueimmagini, hanno definito i caratteri di una notorietà, coltivata delresto con grande destrezza, che ormai da un quindicennio ha oltre-passato i confini italiani per divenire un vero e proprio caso nelpanorama artistico contemporaneo. Molto è stato scritto sulla capa-cità di Cattelan di tenere assieme, con apparente e aforistica non-curanza, umorismo nero e provocazione, sguardo sulla vicendastorica e sull’attualità, ritraendo in modo distaccato una condizio-ne dimidiata, di mancato inveramento in cui non è più possibiledistinguere preventivamente, pena il ridicolo, desiderio e immagi-nario, offerta e spreco, concentrazione e insensatezza, autenticitàe inganno. È una visione malinconica in cui confluiscono il luttoper un oggetto inappropriabile – che sarebbe poi l’eccezione rap-presentata dall’arte, la sua irriducibilità – e la percezione di un dis-sidio non più componibile, che mina in partenza ogni volontà divarcare la soglia, di sfidare l’assenza d’opera o la sua destituzione.L’opera di Cattelan veicola un senso di spaesamento, di fonda-mentale derealizzazione che colpisce ogni “volontà d’arte”, comesi sarebbe detto un tempo, proprio nel momento in cui, ed è unparadosso, quest’ultima “si autorizza”, afferma il proprio diritto aesistere e produce, di fatto, immagini dense, taglienti, memorabili(penso ad esempio alle sue “sculture” dal realismo allucinatorio, ilpiccolo Hitler malvagio/innocente di Him, ad esempio, o alla for-za allegorica degli animali impagliati, come lo scoiattolo suicida diBidibibodibiboo), che costituiscono una sorta di arresto, di still fra-me, nel moto inflazionario delle immagini contemporanee. Valgaper tutti l’esempio del fantoccio-autoritratto, appeso a un attacca-panni e rivestito del celebre abito di feltro grigio di Joseph Beuys,intitolato La rivoluzione siamo noi (2000) come il celebre posterrealizzato nel 1971 in Italia dall’artista tedesco. Col suo tipico pigliobeffardo, Cattelan ci parla qui di un artista non più in marcia ver-

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so il futuro, ora che la sua missione eroica si è rivelata un vicolo cie-co, uno stereotipo inutilizzabile come un vecchio vestito, ma cheproprio per questo, imprevedibilmente, come accade a Totò eNinetto Davoli, marionette parlanti nel pasoliniano Cosa sono lenuvole, rivela tutta la sua infelice grandezza, l’intensità e la dismi-sura di quell’aspirazione: Samuel Beckett non ha scritto d’altrondeche essere un artista significa fallire come nessun altro osa fallire?Per questo il lavoro di Cattelan ci è indispensabile per compren-dere come si è trasformata la fisionomia dell’artista nell’epoca del-la perdita delle illusioni; un artista sempre più showman cheshaman, secondo l’espressione di Alighiero Boetti, ma che nonrinuncia, proprio mentre è impegnato nella propria autoliquida-zione, a scommettere su una imprevedibile diversione, ovvero sul-la propria capacità di attraversare il fantasma.

Su questo sfondo problematico, tra anni novanta e duemilauna nuova generazione di artisti ha affrontato in Italia la relazio-ne tra immaginario mediatico e produzione artistica, utilizzandol’immagine elettronica, medium strabico per definizione, peresplorare la condizione dell’immagine nell’epoca dei simulacri.Un’opera che interroga in modo più che esplicito la natura ambi-gua della comunicazione televisiva è Comizi di non amore, il rea-lity show messo in scena da Francesco Vezzoli nel 2004, un tourde force di mimetismo e ambiguità espressiva messo al servizio diun interesse, di una fascinazione per i meccanismi della notorie-tà e del consenso che è una delle componenti ricorrenti nel suopercorso. Dietro il trionfo della scenografia kitsch, agli ammic-camenti al gusto camp, agli esibizionismi inflessibilmente conta-bilizzati, alla stessa celebrazione dell’effimero, l’operazione diVezzoli finisce in effetti per rivelarsi un gioco di specchi del desi-derio di autoinganno e del voyeurismo su cui la comunicazionetelevisiva e il sottogenere reality TV fondano in particolare la loropotenza fantasmagorica e seduttiva. L’intreccio è semplice: tremature dive e una giovane sconosciuta sono la posta in palio diuna sguaiata gara di seduzione maschile da concludere per le spic-ce sotto l’occhio vigile di un’impeccabile presentatrice. Proietta-to a grande dimensione, con i suoi jingle assordanti, la suaostentata volgarità, il video trasmette uno strano disagio, il sensodi un vuoto, una nausea che si insinua dietro i gesti e dialoghi ste-

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reotipati. Viene in mente il tardo Fellini di Ginger e Fred, e la suaazzeccata prefigurazione di un mostruoso mondo televisivo paral-lelo, onnivoro, invincibile. Accuratamente realizzato da speciali-sti del “settore”, il vero-finto show si rivela alla fine un modo perattirare in trappola l’aggressivo conformismo del pubblico divolontari, forse più “moderni” ma certo non più evoluti dei pas-santi che Pier Paolo Pasolini aveva provocato sui temi dell’iden-tità e della libertà sessuale nel suo documentario Comizi d’amore.Sembra quasi di sentire l’eco delle parole di Alberto Arbasino inUn paese senza, quando, nel descrivere col suo abituale piglioimpertinente la delusione di Pasolini, constatava che invece didare libero corso alla «leggendaria bisessualità» dei giovanimaschi italiani,

l’età permissiva succeduta alle campagne e battaglie contro ogni repres-sione ha come conseguenza non già una allegra sessualità liberata e poli-morfa, ma (siccome Peynet batte Marcuse) un anticipo di dieci anni inmedia nell’età di formazione e “chiusura” definitiva della coppietta pic-colo-borghese fissata sui “valori” del Bacetto e del Nido21.

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Francesco Vezzoli, Cominzi di non amore, 2004

Il carattere secco, irritante, senza concessioni, del lavoro diVezzoli è un tratto comune anche ad altri artisti italiani dellagenerazione più recente, a segnalare una volontà di precisione, diobiettività distaccata, tradotta, come in questo caso, in un ironi-co rovesciamento di prospettiva, oppure, in altri, puntando inve-ce a decostruire il “testo” mediatico, a trasferire sulla suasuperficie la logica che lo governa in profondità. Un esempio inquesto senso è il film di Rä di Martino, Not360, che tematizzaun’irrimediabile sfasatura tra narrazione e mondo, tra perfezio-ne del dispositivo ed entropia della comunicazione, manifestatasotto forma di accumulazione disordinata di frammenti, di pia-ni e frame concettuali. Siamo trasportati in un indeterminato sce-nario naturale (una mossa brughiera, un bosco sullo sfondo) un“qui” dove un gruppo di uomini e donne si offre alla camera in

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Rä di Martino, Not360, 2002.

una serie di improvvise e per il resto del tutto immotivate accen-sioni: litigano tra di loro o accennano un monologo, ripetonoShakespeare a memoria, cantano, si arrabbiano, ricevono telefo-nate, il tutto sotto l’occhio impassibile di una cinepresa che pro-segue imperterrita la sua panoramica (quasi, appunto) a 360gradi, l’intero irraggiungibile a cui tende tutta l’operazione. Sista girando un film. È un modo non certo nuovo per rifletteresulle possibilità della finzione e la sublime ironia dell’imitare, maquesta particolare versione di “film nel film” spinge forse un po’più avanti il limite: tutto è veramente allegoria, altro, ombra,deformazione, caricatura. «Cosa dici?», «cito», è la risposta per-fetta, inattaccabile, definitiva come l’abisso in cui già si era get-tato lo scrivano Bartleby di Herman Melville, quando siintestardiva ad avere «preferenza di no». Il sospetto si fa prestostrada: nulla è spontaneo, diretto, motivato. Forse è una tatticadi sopravvivenza, è come insomma parlare in terza persona pernon ammettere che si sta parlando di se stessi, rifiutare ogniresponsabilità, fuggire, nascondersi. Ecco allora che anche latenue giustificazione concettuale di tutta l’operazione (smasche-rare i sottintesi, le rimozioni di ogni rappresentazione – far riflet-tere insomma sulla shakespeariana «wooden O» prima ancoradei campi di Francia che è chiamata virtualmente a contenere)diventa soprattutto un modo per far precipitare la rappresenta-zione verso il suo margine oscuro, per accelerare l’obiettiva cata-strofe che attende i personaggi. E da capo allora, ancora eancora, Not360 mima la natura ciecamente ripetitiva dell’esi-stenza umana. Neppure i gesti perentori di un’affannata registariescono a soccorrerci: «action!», grida, ma non succede nulla.Interrompe allora gli attori, li apostrofa violentemente, e loro,imperterriti, continuano come se niente fosse. E ricomincia.

Col suo ammiccare agli elementi tipici del racconto fantascien-tifico, il video di Simone Berti L’annusatore di matematica (2002)gioca in modo ancor più ironicamente esplicito sulla sovrapposi-zione tra generi e medium. È la breve epopea, dai toni apertamen-te umoristici, di un viaggiatore in astronave, della sua discesa su unpianeta sconosciuto dove vive un animale che “annusa”, appunto,formule matematiche, del suo tentativo di partenza, dell’umilianteschianto al suolo della sua astronave. Elemento chiave del racconto

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è proprio l’improbabile ordigno su cui viaggia il protagonista,assemblato con materiali di fortuna e parente stretto dei tutorimetallici, dei trampoli, delle armature e dei contenitori che com-paiono spesso nei quadri e nelle fotografie di Berti, a segnalareinsieme una condizione di imperfezione, di inadeguatezza, e al tem-po stesso la necessità di un’interfaccia, di una struttura che medi,che renda sopportabile la relazione col mondo, come accadeva nel-l’installazione-performance realizzata a Gand nel 2000, con i suoienormi «espositori per uomini».

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Simone Berti, Senza titolo, 2000

È un tratto costitutivo del nostro tempo l’impossibilità di iso-lare, astrarre, depurare le qualità dalle mancanze, le luci dalleombre. La dialettica di differenze in cui si disegna l’ambiguità delmondo, la desolazione morale della tecnica e la perturbante cor-poreità di ogni idea, è nell’arte visiva contemporanea un datogenetico, l’orizzonte interno dell’opera. Ma desublimare le imma-gini, impedirne la deriva nei cieli dell’estetica ancorandole a ciòche esse non possono esporre, vuol dire anche esplorare unpotenziale di resistenza che ricomprende il limite e la dispersio-ne, il piano della storia dentro quello della psiche, l’annienta-mento nell’atto di costruire. E se ogni immagine è costretta amisurarsi in partenza con la propria potenziale scomparsa o conil parossismo della sua inflazione spettacolare, in essa può si puòanche tracciare un precario percorso di rammendatura: il mondovolatilizzato vi torna come allegoria. Così, dopo la chiusura del-l’orizzonte utopico, proprio l’allegoria – la modalità malinconicaper eccellenza secondo Walter Benjamin22 – diventa per gli artistiuna condizione germinativa, una risorsa, ancorché volatile edenigmatica. Proprio perché ratifica la paralisi e il distacco, l’alle-goria è per gli artisti uno strumento per aprire i possibili, i poten-ziali inesplorati delle opere, rendendo percorribile un interospazio di esperienza, una prospettiva temporale allargata oltre l’o-rizzonte dell’inalterabile presente dei media. È un programma dilavoro per convertire le macerie, i resti a prima vista improdutti-vi, in materiale di costruzione poetica, ed è anche, nella specificasituazione italiana, una strategia possibile per ripristinare quellacaratteristica profondità di campo, quella valenza politica e civi-le che fino agli anni settanta ha costituito, come si diceva, un trat-to fondamentale della nostra cultura artistica e intellettuale. Al dilà del tramonto del concetto di “militanza”, e in uno spazio cul-turale radicalmente mutato, agli artisti di oggi resta aperta la pos-sibilità di trasformare i significanti in strumenti per incidere nellospessore cieco dell’esperienza storica, per trasgredire precisa-mente la sua qualità di passato e rimettere invece in circolo la sualatente energia, per formulare, in forma di immagini esemplar-mente efficaci, domande che investono insieme l’identità del sog-getto e le sue relazioni con l’esperienza collettiva, lo spaziocondiviso e quello sempre inafferrabile dell’inconscio.

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Per un gruppo di artisti attivi in Italia dalla fine degli anniottanta in avanti questo processo di riapertura si è attuato soprat-tutto come investimento nel valore “relazionale” dell’opera, nel-la capacità di iniettare all’interno dell’operazione artistica ilpensiero, la presenza reale dell’Altro, avendo sullo sfondo la ten-denza generale all’erosione dei confini tra discipline – tra arti visi-ve, architettura, scienze sociali, ad esempio – e la costellazione diposizioni vicine alla institutional critique che caratterizzavano ildibattito teorico internazionale. L’uscita dalla temperie neoe-spressionista si manifestava per questi artisti anzitutto comevolontà di frapporre una distanza critica tra autore e opera, un“raffreddamento” che ratificava la (postmoderna) perdita di cen-tralità e autonomia delle opere approfondendo le loro intercon-nessioni psichiche, politiche e sociali, l’analisi e la decostruzionedei loro procedimenti produttivi. Questa è ad esempio la stradaseguita da Cesare Pietroiusti, con il suo interpellare di volta involta il territorio, il substrato antropologico, la memoria colletti-va, in quella che potremmo definire una programmatica destabi-lizzazione delle attese, degli abiti percettivi sui quali si fonda ilcomune sentimento di appartenenza al mondo. Le sue perfor-mance rappresentano altrettante tappe di questo processo di indi-viduazione e classificazione delle relazioni percettive, linguisticheed economiche attraverso le quali l’opera d’arte acquista i suoisignificati. Di recente l’attenzione di Pietroiusti si è concentratasul valore economico dell’opera-merce e sul denaro come com-ponente feticistica essenziale nel mondo dell’arte. Ne sono unesempio due azioni realizzate nel 2007: nella prima, Money-Wat-ching, un negozio viene utilizzato per “vendere” banconote, paga-bili con il tempo dello sguardo dell’acquirente, dieci o ventiminuti a seconda dei tagli. Nella seconda, Enriching Food, l’arti-sta, per l’occasione trasformato in cuoco, prepara il cibo per gliavventori di un ristorante la cui unica particolarità consiste nelfatto che per ogni piatto interamente consumato, il cliente, inve-ce di pagare, riceve il denaro corrispondente al suo prezzo. Ledue azioni non sono semplicemente denunce della falsa equazio-ne valore=denaro; piuttosto, focalizzando l’attenzione del pub-blico sulla propria partecipazione, o soggezione, alle regole delgioco, Pietroiusti sottolinea l’importanza decisiva delle operazio-

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ni che convertono incessantemente – in arte come in ogni altraattività umana – il materiale in simbolico e viceversa, rendendosensibile il complesso feedback che si stabilisce all’interno deltriangolo artista-opera-spettatore.

Per un altro artista della stessa generazione, Luca Vitone, èinvece lo stesso processo formativo dell’immagine a trovarsi espli-citamente affidato all’ambiente, come nel caso della sua installa-zione Roma, una serie di tele di lino trasformate in filtri su cui lacittà ha deposto le scorie del suo metabolismo, la sua bava letaleche macchia e corrode: esposte all’aria aperta le tele hanno “respi-rato” per mesi l’atmosfera, imbevendosi dei giorni e delle notti. Ciòche viene fissato sulla superficie è insomma una sorta di immaginefotografica a lunghissima esposizione, un tempo che corrisponde e

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Cesare Pietroiusti, Money-Watching, performance, 2007

si contrappone al tempo astratto dell’ispirazione e dell’esecuzione:alla condizione provvisoriamente onnisciente del pittore subentraquella più esposta alla casualità dell’antropologo della durata. Ecosì i quadri monocromi diventano al tempo stesso l’impronta, l’in-dice di un tempo e di un luogo determinati, l’autoritratto allegori-co della pittura, la descrizione di un territorio e l’epopea di

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Luca Vitone, Io, Roma (Via del Porto Fluviale), 2005

un’identità, osservati da una posizione defilata, sospesa, che abitalo scarto tra modello ideale e risultato concreto. Ricondotta al pro-prio dato letterale, il contrasto e l’integrazione tra pigmento e sup-porto, tra sterile pulito e sporco fecondo, la pittura, privata deltocco, della mano, dello stile, è qui obbligata a rimettere in movi-mento il suo potenziale, a farsi ancora una volta epicentro di unacondensazione, di una piega nell’indifferenza, di uno spostamentoimprevisto del visibile.

Uno dei caratteri più rilevanti del panorama artistico di que-sti anni è la decisa apertura all’immagine e al linguaggio cinema-tografico23, una prassi certamente non estranea alla diffusione deinuovi supporti digitali – capaci di rendere accessibile all’istante la“cineteca ideale” sognata da intere generazioni di cinéphiles – eche ha sullo sfondo l’estetica della “post produzione”, quella par-ticolare modalità di selezione, montaggio, reinterpretazione diopere esistenti di cui Nicolas Bourriaud ha definito i contorni inun saggio recente24. Nelle sue diverse modalità il fenomeno puòessere ricondotto a quella dimensione «postmediale» di cui ha par-lato Rosalind Krauss25, e all’idea di obsolescenza, quella partico-lare condizione “fuori moda” che apre una forma espressiva allapossibilità di essere rifondata come medium, vale a dire come uninsieme di regole e convenzioni, come uno «spazio disciplinato dipossibilità» in cui l’artista può operare. È un’idea assai vicinaall’intuizione di Benjamin26, per il quale nel momento in cui unostrumento diventa obsoleto «libera, cioè contiene e rende possi-bile, prefigurandolo, qualcosa che balza addirittura al di là del suonaturale sviluppo storico». Proprio in questa tensione “profetica”crescono allora «la possibilità della reinvenzione e il germe dia-lettico del rinnovamento»27.

Mainstream, sperimentale o amatoriale, il cinema è dunquediventato per gli artisti di volta in volta un materiale cui attingere(interi piani sequenza, rulli di found footage, snippets, filmini insuper 8), una grammatica da smontare e rimontare all’interno nonpiù della sala cinematografica ma dello spazio espositivo, un cam-po estetico da rivisitare e un archivio da “campionare”, anche comeforma di resistenza alla sempre più indifferente omologazione spet-tacolare e commerciale della produzione filmica contemporanea.In Italia, all’ambito del reportage e del film d’inchiesta guardano ad

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esempio i film dei fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio, conuna serie di cortometraggi in cui si combinano uno sguardo acutosulla condizione urbana nell’Italia di oggi e una ricerca di ritmi eforme narrative originali. La materia prima dei loro film è costitui-ta da storie “vere” di immigrazione e diversità, come ad esempio inMio fratello Yang (2004) o Zakaria (2005), interpretate dai loro stes-si protagonisti e rese in grammatica filmica essenziale, quasi in“presa diretta”. Sono storie dalle traiettorie aperte che puntano,come affermano i De Serio, a «costruire e restituire un immaginario“visibile” che attinge a storie e vissuti “invisibili”»28, sullo sfondo di

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Gianluca e Massimiliano De Serio, Zakaria, 2005, film still.

città percepite come luoghi del mutamento, dell’instabilità: una gio-vane cinese assume il nome di una coetanea scomparsa, un bambi-no arabo scopre in Italia la sua cultura ancestrale. Ciò chescopriamo è una stratificazione di frammenti emotivi, di lingue, diatteggiamenti, esperienze, identità, che non arrivano mai a profi-larsi nettamente e continuano a proporsi come problemi insoluti:non è difficile capire perché il primo piano, con la sua frontalitàdensa ed enigmatica (da Warhol a Wong Kar-wai), ne sia il bari-centro figurativo. In un delicato bilico tra cinema e pittura, l’ope-ra dei fratelli De Serio fa proprio uno spazio interstiziale in cui

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l’immagine appare come traccia e come apertura, come attestazio-ne e come allontanamento, mentre lo spettatore è trattenuto nellostretto spazio tra contemplazione e coinvolgimento.

Più ellittica e concettualmente densa è invece la relazione conl’ambito cinematografico del gruppo ZimmerFrei (Anna deManincor, Anna Rispoli, Massimo Carozzi) la cui opera integraspesso elementi performativi ad altri di tono più narrativo. Pano-rama_Roma (2004), ad esempio, è un video basato su una sottilemanipolazione delle unità aristoteliche di luogo e d’azione: gira-

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ZimmerFrei, Panorana Roma, 2004, video still.

to al centro di piazza del Popolo a Roma, mostra l’inverosimileunione di due temporalità, di due universi non comunicanti. Ilprimo, tumultuoso, è il ciclo della luce e del buio, del vento, del-le nuvole nel cielo e delle ombre che sussultano e filano via, comei corpi che le proiettano a terra, in un’irresistibile accelerazioneche consuma letteralmente i movimenti e li trasforma in uno scia-me di bagliori fluttuanti. Il secondo: un tempo quasi come ilnostro – ma precipitato dentro il primo – e in apparenza visiva-mente coerente: gesti banali – toccare, abbracciare, camminare,baciare, indicare – alla giusta velocità. Sdoppiando il tempo, emostrandocene la simultaneità, il film interroga e sfida la strutturadella durata, l’elemento fondamentale dell’immagine cinematica,perché “rappresenta” un’azione che ha luogo, deleuzianamente,non nello spazio ma nel tempo, non nel luogo dei fenomeni manella sfera immateriale del pensiero e dell’immaginazione. InPanorama_Roma il tempo non è dunque mostrato come sequen-za di intervalli, come cronologia, e lo spettatore non osservaimmagini che riecheggiano la propria esperienza, ma qualcosa diradicalmente differente, qualcosa che si approssima a un proces-so puramente mentale. Per gli ZimmerFrei si tratta in altre paro-le di sfidare l’aspettativa più tenace generata dal cinema perattraversare il confine tra necessità e possibilità: i corpi dei per-former appaiono sospesi in un presente dilatato, quasi fosseroavvolti in una specie di sfera trasparente o come se provenisseroda un universo parallelo, e i loro gesti, per quanto ordinari, acqui-stano così l’evidenza e l’intensità di immagini della memoria.

L’insieme di personalità, temi e relazioni che abbiamo cercatodi esplorare offre un ritratto parziale ma non arbitrario dello statoattuale della ricerca artistica in Italia. Un complesso di esperienzeche non possiamo tenere separato da una evoluzione spettacolareche coinvolge la nostra epoca e coinvolge direttamente il senso del-la ricerca visiva, le sue strategie, i suoi meccanismi linguistici ecomunicativi, i modi della sua fruizione, ma al cui interno è non-dimeno possibile immaginare uno spazio di resistenza, di proget-tazione e differenza, e segnalare la nostra perdita di presa sullarealtà attraverso una sistematica demolizione degli inganni del-l’immaginario. Ciò che l’arte ci chiede oggi è in effetti di non col-

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tivare un’improduttiva equazione sociologica, di non schiacciare ilnostro giudizio nell’alternativa disperante tra un’omologazione sen-za vie d’uscita e un impossibile ritorno al passato; è necessario inve-ce far parlare le opere, scuoterne la falsa quiete se necessario,cogliere il loro potenziale dialettico, usarle per allargare la com-prensione del nostro presente, mettendo precisamente in discus-sione la nostra posizione di spettatori insieme a quella degli artisti,esaminando e distinguendo gli usi concreti dei linguaggi, renden-do pertinenti, dentro le condizioni sociali della sua circolazione, imodi specifici, originari, idiosincratici, con cui ogni opera d’arteinterroga e conquista i modi del suo apparire.

Si tratta di un passaggio tanto più indispensabile in Italia, dove,come si è cercato di mostrare, particolari condizioni storiche, cul-turali e politiche hanno favorito negli ultimi decenni una sorta didistacco, di diffidenza preventiva che ha avuto come conseguenzasolo un artificiale isolamento degli artisti, limitando o di fattoannullando nel nostro orizzonte culturale la portata critica e il pesoesperienziale del loro lavoro. Di fronte a questa sorta di blocco, diafasia che rende difficile nel nostro paese ricostruire una prospet-tiva condivisa capace di tenere insieme presente e passato, si puòricordare che la “storia dell’arte” può riprendere a produrre sen-so, può reiniziare, solo se supera l’astratta contrapposizione trapura storia, incapace di tradurre la sua interpretazione del passatoin un ancoraggio nel presente, e pura critica, incapace di tradurrela sua interpretazione del presente in un ancoraggio nel passato29.È tempo ormai per la cultura italiana di ritrovare quella produtti-va relazione con le ricerche artistiche più innovative che ha costi-tuito una delle modalità fondamentali della sua vicenda moderna.

L’arte, ha scritto Susan Sontag, deve essere vera e non solo inte-ressante, ma la sua verità è alla fine il risultato, più che di un natu-rale sincronismo, di uno scontro con le aspettative, le strutture, imodi della sensibilità e del giudizio. Anche nella dimensione spet-tacolare che ci avvolge, è dunque la qualità anacronica dell’opera,il suo montare dialetticamente la novità e il passato, ciò che appa-re e ciò che non è ancora visibile, a renderla “attuale”. L’arte ci par-la da dentro un presente che è a sua volta il risultato di una breccia,di una conquista provvisoria, e la sua qualità, la sua intensità, il suovalore per noi sta proprio in quello spazio di libertà che l’artista

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rivendica per sé. Uno spazio estetico quanto politico, proprio per-ché ci segnala la possibilità di un’azione che incrina la superficiespecchiante dell’immaginario. Quella che ci offrono gli artisti dioggi è dunque una possibilità di leggere contropelo il mondo dal-l’interno di un genere particolare di azione ristretta, per usare l’e-spressione coniata da Stéphane Mallarmé30, una disciplina vigile,esigente, che renda selvatici i linguaggi e faccia affiorare il latonascosto, tempera le pretese dell’estetica con le incertezze dellaparola, della materia, del corpo, con l’azione disgregatrice e ispes-sente del tempo. Come ha scritto Walter Benjamin, la storia del-l’arte è una storia di profezie e «nulla è più sfuggente dell’oscura enebulosa dimensione propria di quei rinvii al futuro che le profe-zie […] hanno messo in luce nel corso dei secoli»31: la mosca èancora sul treno, e come il viaggiatore dell’Action restreinte, e noitutti, percorre «una galleria – l’epoca» al cui termine non sa se tro-verà un grande edificio «di alto vetro»32 o ancora buio.

NOTE

Una versione più breve di questo testo è apparsa nel catalogo della mostraApocalittici e integrati. Utopia nell’arte italiana di oggi, MAXXI – Museo Nazionaledella Arti del XXI secolo, catalogo a cura di Anna Mattirolo, Electa, Milano 2007,pp. 16-25.

1 Cfr. l’intervista a Diego Perrone, in Stefano Chiodi, Una sensibile differenza, Fazi,Roma 2006, p. 223.2 Friedrich Dürrenmatt, Der Tunnel (1952-78) [trad. it. in Racconti, Feltrinelli,Milano 2003. pp. 90-98].

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3 J. Berger, [trad. it Questione di sguardi, Il Saggiatore, Milano 1998, p. 34.]4 Cfr. quanto sostiene sull’argomento Boris Groys in Du Nouveau, Jacqueline Cham-bon, Nîmes 1995, pp. 36-39.5 Cfr. The Return of The Real. The Avant-Garde at the End of the Century, The MITPress, Cambridge-London 1996 [trad. it. Il ritorno del reale, Postmedia Books,Milano 2006].6 Gilles Deleuze, Différence et répétition, Presses Universitaires de France, Paris1968 [trad. it. Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, p. 375]7 Nathalie Heinich, Le triple jeu de l’art contemporain, Minuit, Paris 1998, p. 338 esgg. Sulla trasformazione dell’arte contemporanea in “genere” la studiosa è torna-ta in una sua recente conferenza italiana raccolta in Del Contemporaneo. Saggi suarte e tempo, a cura di Federico Ferrari, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 53-76.La posizione della Heinich presenta un limite comune a molte riflessioni sociologi-che sull’arte attuale; valga come esempio il volume di Alessandro Dal Lago e Sere-na Giordano, Mercanti d’aura, Il Mulino, Bologna 2006, vale a dire il considerare inpartenza non pertinente ciò che dell’arte rappresenta invece il proprio in quantoattività “aprente” la Differenza, la soglia differenziale che precisamente scuote erimette in movimento le strutture convenzionali, estetiche e sociali.8 Si veda ad esempio quanto scrive su questa tematica Marco Senaldi in Enjoy! Ilgodimento estetico, Meltemi, Roma 2003, pp. 15-33.9 Nella sua produzione dedicata a questi temi si veda in particolare di Slavoj Žižek,The Plague of Fantasies, Verso, London 1997 [trad. it. L’epidemia dell’immaginario,Meltemi, Roma 2004].1 Guy Debord, La Société du spectacle, Buchet/Chastel, Paris 1967 [trad. it. La societàdello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 3]11 Hans Belting, Das Ende der Kunstgeschichte? Deutscher Kunstverlag, Monaco1983 [trad. it. La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, Einaudi, Torino 1990]12 Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008, p. 9 epassim.13 La sovrapposizione terminologica tra “postmoderno” e “postmodernismo” nelcontesto italiano evidenzia efficacemente questa deriva. Cfr. quanto scrive inproposito Massimiliano Manganelli in Fredric Jameson, Postmodernismo, o la logi-ca culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007, pp. X-XI.14 Un quadro sinottico della cultura e della società italiana tra il 1968 e l’80 è offer-to dal volume di Marco Belpoliti, Gianni Canova e Stefano Chiodi (a cura di),annisettanta, Skira, Milano 2007.15 La reinvenzione televisiva e pubblicitaria del paesaggio nell’Italia contemporaneaè esaminata nel libro-reportage di Cristiano De Majo e Fabio Viola, Italia 2. Viag-gio nel paese che abbiamo inventato, Minimum Fax, Roma 2008.16 Hal Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois, Benjamin Buchloh, Art Since 1900:Modernism, Antimodernism, Postmodernism, Thames & Hudson, London 2004[trad. it. Arte dal 1900. Modernismo, antimodernismo, postmodernismo, Zanichelli,Bologna 2006, p. 509].

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17 Su questi temi cfr. ad esempio il catalogo della mostra Zero to Infinity: Arte Povera1962-1972, Walker Art Center, Minneapolis, e Tate Modern, London, 2001-02, checostituisce dei più recenti tentativi di riflessione complessiva sull’Arte povera.All’arte italiana del secondo dopoguerra e all’Arte povera in particolare la rivista«October» ha di recente dedicato il suo numero 124. 18 Fredric Jameson, Postmodernism [trad. it. cit., p. 326].19 Cfr. anche il forum ospitato sulle pagine di «Work», VI, n. 21, inverno 2007-08,pp. 4-12.20 Il pamphlet di Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino 2004, èricco di esempi in questo senso.21 Alberto Arbasino, Un paese senza, Garzanti, Milano 1980, p. 196.22 Cfr. Susan Sontag, Under the Sign of Saturn, Farrar, Straus & Giroux, New York1980 [trad. it Sotto il segno di Saturno, Einaudi, Torino 1982, p. 102]23 Un sguardo d’insieme sulla tematica e i suoi protagonisti è offerto dal recente vol-ume di Maria Rosa Sossai, Film d’artista, Silvana Editoriale, Milano 2008.24 Nicolas Bourriaud, Postproduction. La culture comme scénario: comment l’artreprogramme le monde contemporain, Les Presses du réel, Dijon 2003 [trad. it. Post-production, Postmediabooks, Milano 2004].25 Si vedano Rosalind Krauss, Reinventare il medium, a cura di Elio Grazioli, BrunoMondadori, Milano 2005 e Id., L’arte nell’epoca postmediale, Postmediabooks,Milano 2005.26 Cfr. ad esempio, per il caso dei “panorami”, Walter Benjamin, I “passages” di Pari-gi, Einaudi, Torino 2000, pp. 8-9.27 Elio Grazioli, Prefazione, in Reinventare il medium cit., p. XIV.28 Ilaria Gianni, Intervista a Gianluca e Massimiliano De Serio, in Hero Cycle, a curadi Ilaria Gianni, catalogo dell’esposizione alla Fondazione Adriano Olivetti, Pro-duzioni Nero, Roma 2006.29 Cfr. Georges Didi-Huberman, Devant le temps, Paris, Minuit 2000 [trad. it. Sto-ria dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 86].30 Stéphane Mallarmé, Quant au livre. L’action restreinte, in Œuvres complètes, II,Bibliothèque de la Pléïade, Paris 1999 [trad. it. Poesia e Prosa, a cura di CosimoOrtesta, Guanda, Milano 1982, pp. 242-50].31 Walter Benjamin, Appendice a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica(1936), in Opere Complete, VI, Scritti 1934-1937, Torino, Einaudi 2004, p. 311.32 Stéphane Mallarmé, Quant au livre. L’action restreinte, [trad. it. cit., p. 248].

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Gilbert & George, We Step into the Responsibility Suits of Our Art, 1971

GLI ABITI NUOVI DELL’ARTISTA

Cosa fa oggi di un artista un artista? La vecchia domanda, unpo’ sconveniente, o ingenua, se si vuole, ha una altrettanto vec-chia (e giusta, anzi obbligatoria) risposta: è la storia dell’arte,nella sua durata, nei suoi diversi distretti e demarcazioni, a dir-ci chi sono, o meglio cosa fanno gli artisti. Ma soprattutto, sipotrebbe obiettare, in che modo e perché oggi parlare ancoradell’artista, dal momento che il “bello” e lo choc, già preroga-tive del suo mestiere, vengono così copiosamente elargiti dal-l’immaginario di massa, sebbene ridotti a schermo dellastagnazione e del vuoto, a esche per il ciclo senza fine deldesiderio, dell’appagamento e della frustrazione? La crisi delsoggetto moderno e il trionfo della ragione cinica non avevanofatto giustizia della sua arciromantica mitologia, relegandola nel-la discarica delle idee morte o al limite trasformandola in car-riera da superstar? E perciò, ci potremmo chiedere tornando allarozza lettera della domanda iniziale, che artista richiede, postu-la, pretende l’arte di questi decenni? Per cercare di rispondere,si potrà precisare in via preliminare che la questione dell’iden-tità dell’artista, insieme soggettiva e sociale, politica e psichica,porta ovviamente con sé, oggi come ieri, e oltre l’orizzonte del-le arti visive, le problematiche e i conflitti dei multipli Io di unautore, del suo rispecchiarsi e distanziarsi e perdersi a un tem-po nella prospettiva del lavoro, del singolare tentativo di man-tenere aperto uno spazio di possibilità da esplorare di fronteall’implacabile oggettività dei processi di scambio, alla incom-bente consapevolezza che la meta del percorso, l’opera, è l’e-nigmatico punto di inizio di un ulteriore spossessamento.

D’altro canto, nell’età postmoderna il punto cruciale non potràpiù essere quello, mo derno, del rap porto con la tecnica additatoda Walter Benjamin, ma la con sta tazione che il nuovo, il reale, l’e-spe rienza passano a priori at traverso le griglie della comu nicazione,e che per tanto non esistono più, in senso stretto, né nuovo, né rea-le, né espe rienza, ma una rete di “simulazioni”, di codici privi difinalità, un mondo rovesciato dove «il vero è un momento del fal-so»1. In questo nuovo e già decrepito scenario, una prospettiva diindagine intorno alla mutata fisionomia dell’artista potrebbe esse-re allora basata sulla raccolta di indizi significativi dispersi in ope-re diventate ubique, intercambiabili, effimere, inflazionarie, ditracce significative nelle quali affiori, tematizzato, incorporato anzi,il groviglio dell’identità, facendone un luogo pensabile, il presup-posto di un’individuazione che riguardi magari, fatto inatteso, tut-ti e anche noi. Qualcosa – un habitus o magari anche un sempliceabito – che ci aiuti a tracciare un sommario identikit dell’artistanostro simile, una trama sottile che si opponga alla sua liquidazio-ne, sebbene l’arte stessa ci segnali da tempo ormai e drammatica-mente la sua perdita di potere, la sua contagiosa incapacità dicomprendere la vicenda umana.

Si potrebbe anzi iniziare proprio dagli abiti. Ecco subito un pri-mo ritrovamento: We Step into the Responsibility Suits of Our Art(“Indossiamo i vestiti della responsabilità della nostra arte”), leg-giamo sotto un grande disegno a carboncino su cui si scorgono,quasi a grandezza naturale, due figure maschili impeccabilmenteabbigliate in giacca e cravatta: sullo sfondo, appena accennati, sago-me di alberi, rami, foglie, un prato. È la terza stazione di un ciclodi ventitre immagini dal titolo singolare, The General Jungle orCarrying on Sculpting (“La giungla generale, ovvero continuando ascolpire”), eseguito nel 1971 dal duo artistico britannico Gilbert& George2. Nella “giornata” che li vedrà inoltrarsi come dandy vit-toriani in una Londra ridotta a sfondo di un parco – scenario ingan-nevole che volge in ironia il sublime naturale evocato daWordsworth e Coleridge – i due artisti si pongono solenni interro-gativi sulla loro condizione, sull’arte e sul tempo, fanno osserva-zioni beffarde su se stessi e sul mondo, inoltrandosi inun’educatissima “giungla” dove «la grandezza si compone a colpidi pennello», indossando i panni di una normalità necessaria a

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ritualizzare l’orrore e i finti piaceri della vita quotidiana. In queglistessi primi anni settanta Gilbert & George si esibiscono cantandoper ore, per giornate intere, Underneath the Arches (una canzonepopolare inglese che narra le avventure di due vagabondi), issati suun tavolino, la faccia, le mani, gli abiti ricoperti di uno strato dibrillante cerone metallizzato. In The Singing Sculpture, la loro per-formance più famosa, il duo britannico celebra senza pompa la suatrasformazione in “opera d’arte”, ripetendo a volontà di fronte alpubblico l’improbabile miracolo di una (auto)ironica metamorfo-si. Il loro salto, o la loro caduta, a seconda dei punti di vista, ciimpone di ripensare appunto la relazione tra opera e artista all’in-terno di una cornice ormai radicalmente nuova ma che pure con-serva, proprio come il cerone sulla pelle, qualche traccia della suaantica doratura. La loro coincidenza potrà apparire allora come ilcoronamento di una lunga evoluzione – l’arte che va verso la vita,l’opera che si identifica nell’artista – o il suo grottesco rovescia-mento, la catastrofe terminale dopo la quale c’è lavoro soltanto pergli studiosi di rovine.

Più o meno quarant’anni fa, tra Europa e America, un piccologruppo di artisti – tra i quali, in Europa, Marcel Broodthaers eDaniel Buren e in America Michael Asher e Hans Haacke – iniziòa concentrarsi, anziché direttamente sul “fare”, sulle condizioni, lestrutture, le convenzioni, i protocolli dell’arte, spostando dunqueil punto focale delle loro ricerche dal quadro alla cornice, dal pro-dotto finito alle condizioni di produzione. In questo modo per iprimi rappresentanti di una tendenza che all’inizio degli anninovanta sarebbe stata battezzata institutional critique3, l’arte cessa-va di costituire una tradizione primariamente formale per trasfor-marsi in un metareferente, in un campo epistemologico; uno“spazio di possibilità”, come dice Pierre Bourdieu, in cui non è piùpossibile coltivare illusioni circa l’autonomia nei confronti del siste-ma linguistico e sociale che assevera il valore (anche di scambio)dei suoi prodotti. È da una prospettiva vicina a questa che in que-gli stessi anni si rimproverava alle immagini la pigra disponibilità aessere per l’appunto solo “immagini”, entità puramente ottiche,forzandone la compromissione con il corpo, facendo emergere i limi-ti del regime dello sguardo, violandone la purezza e la supposta neu-tralità di genere. Se dismette violentemente i suoi caratteri estetici

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tradizionali – la fattura, il mestiere, l’aspetto “ben fatto”, “colto”,“profondo” ecc. – l’arte più vicina a noi investe in effetti le moda-lità con cui le immagini – tutte le immagini – vengono costruite efruite, la parte rimossa del loro apparire, il non detto che tormen-ta la loro ambizione a emanciparsi, il fondo disumano che le tor-menta. Tutto questo significa altresì che oggi per un artista fare

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Joseph Beuys, Filzanzug Nr. 92,1970

anziché avere la forma dell’immediatezza naturale, come dicevaHegel, equivale a ripensare l’esperienza dell’arte in termini con-flittuali, come incontro con un’alterità, con un avversario già inse-diato nello studio, nel taccuino di schizzi, nella macchinafotografica, nell’occhio e nella mano: con l’idea cioè che sin dallasua prima vaga manifestazione mentale ogni opera è già compro-messa e irrimediabilmente profanata. Si cerca così in altre paroledi contraddire il “disinteresse” senza corpo dello spettatore kan-tiano, riconvocandone le componenti perturbanti, sviluppando unarelazione tra Io e mondo come smentita e impossibilità, come eva-porazione dei ruoli prestabiliti, come frammentazione e abbassa-mento e catastrofe del senso: non casualmente oggi sono più spessole artiste, Cindy Sherman o Sarah Lucas, per fare solo due esempi,con la loro diversità, i travestimenti inquietanti, gli sdoppiamenti,le rifrazioni incongrue, la sottile oscenità dei loro lavori, a portarea fondo la sfida ai marchi psichici e corporei di un’identità peren-nemente smontata e ricomposta.

Quali abiti per l’artista allora? Quelli del maestro della perdi-ta, il visionario e il grande illusionista, lo sciamano e l’imbonitore,Joseph Beuys, l’artista che più caparbiamente, nel corso di un tren-tennio, si è interrogato sulla finis Europae, sul tramonto delle uto-pie, sulle conseguenze della guerra e del progresso capitalista. Perricucire lo strappo, sanare la piaga inguaribile, ricercare un’alter-nativa all’alienazione, occorre riabilitare se stessi, predica Beuys,ricongiungere le metà divise – l’Europa e l’Asia, l’io razionale e l’e-nergia animale; indossando nel 1970 un abito di feltro grigio per lasua Action the Dead Mouse nei sotterranei della Kunstakademie diDüsseldorf, Beuys si trasformava nell’operaio-massa e nel soldato,nel protagonista e nella vittima delle grandi tragedie sociali moder-ne, nello schiavo anonimo di una Metropolis cresciuta sino a rico-prire tutto il globo. L’abito borghese per eccellenza era tramutatonella tuta del rivoluzionario, in una “scultura sociale” confeziona-ta in quello stesso feltro accumulatore di energie cosmiche chesecondo il mito aveva coperto e guarito l’artista tedesco dalle feri-te della guerra.

Ma ecco un fantoccio pendere da un attaccapanni di metallo,vestito con lo stesso abito di feltro, scalzo, la statura di un bambi-no. Il corpo appeso fa venire in mente le marionette del cortome-

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traggio di Pier Paolo Pasolini Cosa sono le nuvole, in cui Totòimpersonava uno Jago verde d’invidia e Ninetto Davoli il Moro diVenezia; ma se nell’apologo pasoliniano i “pupi” venivano assalitie condannati all’immondezzaio da un pubblico indignato per lacrudeltà insensata dell’Otello, qui siamo più modestamente alcospetto di una messa in scena con un solo attore, l’artista Mauri-

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Joseph Beuys, LaRivoluzione siamoNoi, 1971

zio Cattelan. Come sull’autobiografica trota dipinta in esilio daGustave Courbet, ci piacerebbe leggere sulle sue labbra: in vincu-lis faciebam. Ma qui il nostro ha altri progetti. La rivoluzione siamonoi ci propone tutta una serie di permutazioni beffarde: l’abitosmesso dal visionario e indossato dal reietto, o dal cinico liquida-tore, o dal ladro di sogni, se si preferisce. Con un corollario sco-

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Maurizio Cattelan,La rivoluzione siamonoi, 2004

raggiante: l’artista non è più in marcia verso il futuro, ma restaappeso, prigioniero, inutile. Se Beuys poteva affermare che «chiun-que è un artista», per Cattelan la sua stessa identità rappresenta unproblema: «non sono veramente un artista», continua a ripetere.La missione degli eroi dell’arte moderna diventa resa dei conti amo-rale, e il loro anelito alla redenzione, alla rinascita, viene ridotto astereotipo inservibile, a parola vuota. Cattelan si appropria dell’i-cona, ma le cambia contesto e finalità, e ciò facendo la mostra comeuna spoglia, un talismano inquietante, una figura della frustrazione.

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Marcel Duchamp, Tonsure, 1919, fotografia di Man Ray

Alla fine però ciò che più colpisce nella sua opera è la suatonalità inequivocabilmente malinconica, che appare come unaconsapevolezza della perdita e dell’assenza, come un autenticodolore dell’intelligenza anziché un’espressione dell’estro provo-catorio (o del cinismo) che tante volte gli si attribuisce. Non c’èper Cattelan – e forse per nessuno ai nostri tempi – una pienezzada contrapporre al vuoto. È possibile semmai un tentativo estre-mo, pregiudicato in partenza, di riattraversare il limite, di riani-mare metafore morte. Di celebrare in definitiva il funeraledell’Arte con un’ultima mirabile apologia. Malinconia insommacome lutto per un oggetto inappropriabile, come sentimento del-la fine e del non più possibile reinizio, percezione troppo acutadello scacco e della paralisi e insieme della necessità di procede-re al di là, di varcare la soglia e sfidare l’assenza dell’opera conun’opera che convoca la sua stessa destituzione. Come lo scriva-no Bartleby di Melville, Cattelan si accampa in una terra di mez-zo, in una zona di indistinzione, di ambiguità.

«Je est un autre». Se per il Rimbaud della lettre du Voyant pri-mo dovere del poeta è conseguire un’integra, intransigente cono-scenza di sé, questa potrà essere paradossalmente fondata solo suldisconoscimento e sulla messa a distanza proprio di quell’Io cheappare nell’immediatezza del riflesso nello specchio, mediatoreimpassibile e senza memoria di ogni autoriconoscimento. Un Ioora separato ed enigmatico, uno straniero che ci osserva con sfron-tatezza e il cui volto di Narciso rinvia ai nostri occhi la coscienzadi una frattura irrimediabile, di una solitudine ancor più viva, orache i capisaldi umanistici – il soggetto, la natura, la fede, la sto-ria – si ritraggono in un’ombra da cui irrompe la folla anonimadelle città, la massa dei lavoratori vincolati ai compiti infinita-mente ripetitivi della fabbrica, i passanti trafelati e senza meta.“Chi sono io?”. L’antica domanda si tramuta in un interrogativosenza risposta: “chi è quello?”, occorrerà dire d’ora in avanti. Unultimo sguardo in quello stesso specchio ci rivelerà forse la veranatura dell’enigma, l’abisso terrificante dove si annida la pro-messa sempre mantenuta, dove il brillio della candela rivela ilteschio sotto la pelle, come nell’autoritratto di James Ensor del1889, o si trasforma nella fiamma infernale che avvolge il corpo

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di Edvard Munch nella sua allucinata autorappresentazione del1895. Io è un altro, appunto.

Lo specchio, come più tardi l’obiettivo fotografico, è del restolo strumento segreto di ogni autoritratto, il mediatore invisibile dicui prendiamo il posto osservando le fattezze del pittore. Ma la sto-ria del rispecchiamento è storia di una disintegrazione, di una rimo-zione e di un irreversibile allontanamento, come ci ricorda AlbertoBoatto4. La questione dell’autoritratto è ovviamente inseparabile daquella ben più vasta dell’identità dell’uomo moderno, dalla suadomanda sul significato della vita, sul destino, e sulla morte. Parti-to nel suo lungo percorso dalla serena affermazione della soggetti-vità, nell’età dello smarrimento e dell’angoscia l’autoritratto sirovescia nel suo opposto: “non so più chi sono”, ci dichiara. Sospe-so sull’abisso di una irrimediabile solitudine, il volto dell’artista èl’epicentro di energie psichiche e figurali contrastanti, centrifughe.Sta immerso in un cosmo percorso da energie oscure e insondabilinegli autoritratti di van Gogh, si ritrae di fronte al proprio disfarsi,come in quello impressionante della finlandese Helene Schjerfbecko si costruisce un’ulteriore maschera in cui si riassumono e rove-sciano i caratteri convenzionali dell’arte e dell’artista, come nel casodegli Untitled Film Stills di Cindy Sherman. Occorrerà in ogni casosempre tenere presente che nella sua natura più intima e terribilel’autoritratto rappresenta una scommessa contro il tempo, una sor-ta di polizza contro la morte, redatta e controfirmata dall’artista stes-so. E naturalmente questa puntata è in partenza e per sempreperdente: di qui la malinconia come condizione ineliminabile diogni autoritratto, come suo destino in quanto immagine irrealizza-bile: quella di una persistenza oltre il tempo della vita, avanzo emonumentum, ponte gettato sul baratro del tempo futuro, magaricon il distacco dandistico e l’ironica intelligenza di MarcelDuchamp, che si rappresenta alternativamente come un fuorileggericercato, un iniziato con la tonsura a forma di stella o nelle vestidell’essere androgino e fatale Rrose Sélavy, ma è anche la superficieliscia e in apparenza inscalfibile delle polaroid di Andy Warhol entravesti. Tutte queste facce insieme, senza più scampo.

La superficie incontra la profondità, ne prende il posto. Malin-conia è impossibilità della scelta, paralisi dell’azione, turgore deldesiderio, svuotamento, lucidità, indifferenza. Malinconia come la

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condizione in qualche modo obbligata del tempo postumo cheattraversiamo, la sua risorsa segreta, ancorché enigmatica e soc-combente, nella quale l’artista si avvolge e si immobilizza. Comeuna seconda pelle, o un nascondiglio. Un altro artista italiano, Die-go Perrone, ci offre l’ultimo capitolo di questa mini saga dell’artistacontemporaneo: il suo video Totò nudo (2005) è interpretato da unsimulacro digitale cui viene chiesto di compiere l’ultimo atto, l’u-scita di scena definitiva. Il vecchio attore (il vecchio artista) si spo-

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Diego Perrone, Totò nudo, 2005, video still.

glia lentamente e rimane nudo e solo in un paesaggio spettrale.Come il servo Firs nel Giardino dei ciliegi, anche lui potrebbe escla-mare: “La vita è passata e io è come se non l’avessi vissuta”.

In uno dei suoi ultimi saggi, Susan Sontag era tornata su untema centrale del suo percorso intellettuale, la relazione tra este-tica ed etica, mostrando come nel suo inesorabile scivolare dallaricerca del bello a quella dell’“interessante”, il discorso sull’arte sifosse inconsapevolmente esemplato sull’indifferenza morale e poli-tica caratteristica dell’ideologia consumistica: più cose, o più ope-re, cadono nella categoria dell’interessante, più il mercato si

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Gino De Dominicis, Il tempo, lo spazio, lo sbaglio, 1970

espande, e più prospera un’idea di esperienza sostanzialmentevuota, inoffensiva, priva di conseguenze, il cui limite è solo lanoia5. Con tutte le sue incrostazioni idealistiche, il concetto di bel-lo non può essere separato da una componente di necessità, di ine-vitabilità, dice la Sontag. C’è qualcosa di violento, di spossessante,di imperioso, nella bellezza, qualcosa che richiama un’origineoscura, l’ombra di un distacco, un dolore, un’impotenza rabbiosae urgente, e l’arte che si fa carico di quest’ombra non può, peressere vera, essere solo “interessante”. I lavori di cui abbiamo par-lato lasciano affiorare una meditazione di tonalità epica su una

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condizione, la nostra, geneticamente predisposta al dubbio e allacatastrofe, un’interpretazione figurale del dissidio che si annidanel cuore della nostra epoca, un’indicazione elusiva e turbata del-l’impossibilità di un ritorno, dell’inutilità della conquista, dellavanità, in una parola, dei nostri gesti più carichi di intenzione. Ècome se l’artista contemporaneo operasse di continuo una desti-tuzione, un’evasione dai suoi supposti doveri in nome di una mis-sione ancora più elevata, che pure resta sostanzialmente inevasa,e insieme, come il desdichado, il “diseredato” di Gérard de Nerval,denunciasse la perdita di un territorio innominabile, l’orizzontesegreto dei nostri desideri (Kristeva).

Gli artisti impongono così agli spettatori un frenetico sposta-mento di piani, una collisione tra un passato mitico (l’arte stessa,la nostra testarda attesa del “miracolo”) e un opaco presentemostrato in definitiva come atto mancato, arretramento o collas-so. Ma offrono loro, a dispetto di tutto, anche una smodata riven-dicazione della libertà di azione, dell’anarchia feconda delloslancio creativo, in un’estrema e già consumata rianimazione del-l’utopia romantica. È come se l’artista indossasse i panni del fool,giocando a fare in modo che la maschera sia indistinguibile dallarealtà, e allo stesso tempo disponendo le sue mosse in modo taleda consentire due letture opposte, costruttiva l’una quanto l’altraè nihilista. La sua opera potrà forse apparire allora non tanto comel’espressione di una singolarità, di una posizione alla lunga inso-stenibile, ma come dimostrazione in vivo dell’ineliminabile ambi-valenza, della dissipazione entropica dell’esperienza umana: unarisposta della volontà alla sconfitta della volontà.

Siamo all’epilogo: sul pavimento, disteso sul dorso, uno sche-letro umano; nella mano destra stringe il guinzaglio di un cane,anche lui scheletrito, disteso al suo fianco come in un’allegoriafunebre del medioevo. Ai piedi indossa dei pattini a rotelle, undito regge in equilibrio un’asta verticale dorata6. Non c’è più abi-to, non c’è più corpo, identità, vita. Il tempo, lo spazio, lo sbaglio,titolo memorabile di quest’opera di Gino De Dominicis, è l’ulti-mo autoritratto, la parola FINE sullo schermo: condannato a erra-re, a inseguire, a correre dietro anzi all’illusione di immortalità,l’artista, ma in effetti ogni uomo, incontra il muro invalicabile,l’orizzontalità assoluta su cui si innalza, simile a una scommessa

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metafisica sull’infinito, il vessillo del tempo vincitore7. L’artista,come un troppo umano demiurgo, gioca con la sua creazione, sfi-dando le imperscrutabili leggi della natura, l’entropia, il tempo ela morte. Una sfida pericolosa, perché contempla l’autodistru-zione e spinge verso l’insensatezza. La conquista sarà in ogni casoparziale e fuggevole, l’illuminazione imperfetta, la salvezza riman-data: anche perché, come recita il sublime anatema di Søren Kier-kegaard, arte è avere nostalgia di casa, stando a casa.

NOTE

1 Guy Debord, La Société du Spectacle, Buchet/Chastel, Paris 1967 [trad. it. La societàdello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 55]2 Tutta la serie fa parte ora della collezione del MAXXI - Museo delle arti del XXIsecolo, Roma.3 L’espressione è attribuita all’artista Andrea Fraser, che la utilizza in un suo scritto del1985, o in alternativa al saggio di Benjamin H.D. Buchloh, From the Aesthetics ofAdministration to Institutional Critique, in L’art conceptuel, une perspective, Musée d’artmoderne de la Ville de Paris, Paris 1990. Cfr. sulla questione Isabelle Graw, BeyondInstitutional Critique, in John C. Welchman (a cura di), Institutional Critique and after,JRP Ringier, Zürich 2006, pp. 137-48.4 Alberto Boatto, Narciso infranto. L’autoritratto moderno da Goya a Warhol, Laterza,Roma-Bari 2005.5 Susan Sontag, An Argument about Beauty, in At the Same Time, New York 2007 [trad.it. Nello stesso tempo. Saggi di letteratura e politica, Mondadori, Milano 2008, p. 10].6 Assente nella versione illustrata.7 Sul rapporto tra tempo e opera in De Dominicis cfr. Gabriele Guercio, Arte visiva eimmortalità del corpo, in Id. (a cura di), De Dominicis. Raccolta di scritti sull’opera del-l’artista, Allemandi, Torino 2003, pp. 165-99. Cfr. anche Laura Cherubini, Oggettovivente perfetto, in Andrea Bellini e Laura Cherubini (a cura di), Gino De Dominicis,Flash Art, Milano 2007, pp. 33-57.

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Bruce Nauman, Slow Angle Walk (Beckett Walk), 1968, video still

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L’uomo si sposta lentamente su un pavimento grigio, le gamberigide come aste di un compasso, seguendo uno schema invisibi-le tracciato sul pavimento. Le mani dietro la schiena, il torso incli-nato, stende una gamba all’indietro, la porta in avanti, la fa caderecon un suono sordo e ricomincia con l’altra, in sequenza. Lavideocamera che riprende la scena è poggiata su un lato, sicché ilpavimento (e il corpo dell’uomo) si presentano ribaltati ad ango-lo retto rispetto alla loro posizione abituale. Chi cammina è l’ar-tista americano Bruce Nauman, catturato in un video della duratadi circa un’ora. È il 1968: con Slow Angle Walk Samuel Beckettentra sulla scena dell’arte visiva in modo imprevedibile: citato,ma non attraverso l’ectoplasmatica desolazione delle sue scene, oil tessuto sublimemente consunto dei suoi monologhi, ma in unamodalità che sarebbe divenuta una tipica strategia postmoderni-sta,il reenactment, e cioè una rilettura/riproposizione compiutacon mezzi strettamente letterali (il corpo per il corpo) e trasferi-ta (o straniata) dal suo contesto originario (la pagina, la scena)per essere rimessa in circolo in un campo dell’arte ormai espan-so oltre i suoi tradizionali confini. In questo cogliendo certo unpotenziale già presente nello stesso Beckett, specie nella sua pro-duzione più tarda, con la sua spazialità visionaria, il suo costanteorbitare intorno a un corpo-in-situazione, prigioniero, chiuso instrutture, in contenitori, in volumi refrattari, duri, apparente-mente indistruttibili (penso ad esempio al gigantesco e misterio-so cilindro in Le Dépeupleur o al bianco loculo verticale «unmetro per due» della straordinaria partitura-performance diBing), in cui il dramma viene ridotto alla misura di un attrito leta-

le tra la vita umana e la durezza inscalfibile del mondo. Letteralevuol dire in questo caso anche “non interpretato”, lasciato allostato primario di un prelievo, o meglio di un “trasporto” antiem-patico che (in modo analogo al ready-made duchampiano) modi-fica la leggibilità dell’originale senza intaccarne la sostanza, chelo svia, lo “perverte” se si vuole. Inscritto sulla soglia tra esteticoe reale, tra astratto e concreto, Beckett diviene il nome di una fun-zione, la formula di un catalizzatore utile a corrodere e ridurre alnudo osso la struttura di ogni linguaggio, a trasformarlo in unalingua straniera che si oppone al suo potenziale allusivo, croma-tico, emotivo. Ciò che fa Nauman, qui e in altri luoghi della suaopera (come nella complessa video installazione Clown Torturedel 1987, ad esempio), è insomma inaugurare una usabilità, un’in-tertestualità di Beckett nell’arte, se posso dire così, che è insiemeinvenzione di un metodo e premessa per l’accensione di un poten-ziale visivo latente, qualcosa di simile a un potere di illuminazio-ne infiltrato però dalla consapevolezza, derivata da Wittgenstein(altra fonte essenziale per Nauman), che all’uomo moderno è con-cesso, al massimo, trasformare un non senso occulto in non sen-so palese.

Possiamo ora forse comprendere meglio il senso della labo-riosa sequenza eseguita da Nauman nella sua video performan-ce, i cui movimenti ossessivamente precisi e frustranti, sonoparagonabili a una “lettura”, a un’intepretazione corporea diquelle pagine di Molloy in cui il protagonista si muove sullestampelle con estenuante lentezza («Car je ne savais plus surquel pied me poser, entre mes voltiges [...]. La jambe déjà rai-de, suivez-moi bien, elle me faisait mal, c’est une affaire enten-due, et c’était l’autre qui normalement me servait de pivot, oude pilier»1, leggiamo a un certo punto). Il corpo è insomma cat-turato in una cinematica spietata, in una sorta di dispositivo can-nibale che sembra contenere la garanzia di una sicura rovina peril suo attore, che è qui poi l’artista-Nauman in persona, l’indi-viduo e la sua maschera pubblica fusi in un nuovo, equivocoagglomerato, stretto in una spirale di sfinimento masturbatorioche torna in altre video performance di quegli stessi anni, comeBouncing in the Corner, No. 1 (1968). Siamo convocati sulla sce-na privata dell’atelier (il mitico grembo materno dell’arte) per

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assistere alla trasformazione dell’artista in super-marionettapronta a recitare il congedo de L’Innommable – «Il faut conti-nuer, je ne peux pas continuer, je vais continuer.»

Non la citazione, il calco o il prelievo ma proprio l’uso, la stra-tegia di attivazione di Beckett annunciata da Nauman appare un

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Diego Perrone, Come suggestionati da quello che dietro di loro rimane fermo, 2002

protocollo di lettura estremamente fecondo nei confronti dell’o-pera del grande irlandese entro le nuove coordinate espanse del-l’arte visiva in epoca postmoderna. Un protocollo che trasferisce alivello della metodologia di lavoro e degli strumenti riflessivi del-l’artista, l’inflazione del senso e il fessurarsi dell’identità della poe-tica beckettiana, che gioca contro l’attesa di un’apparizione, controla pretesa dell’arte di costituirsi come mondo a parte, regolato daferree quanto ambigue esigenze di forma, contro lo stesso mito del-l’artista e a favore, sempre in maniera problematica, di una diver-sa e non più umanisticamente orientata esplorazione della conditionhumaine tutta giocata sul versante del consumarsi dell’abilità, del-l’inciampo, del disordine, della ripetizione, della messa a repenta-glio del corpo e dell’identità2. Sono questi altrettanti momenti diun processo che denatura i processi di creazione e di interpreta-zione, li riduce a pretese insensate, mostrando sotto e attraverso ilvuoto che incombe su di esse. E certamente non è un caso che que-sta modalità-Beckett, se possiamo dire così, si riattivi oggi in Italiain una temperie culturale in cui la durezza, la conflittualità non pla-cabile della storia, il tragico e il ridicolo della vita, si insinuano conmaligna efficienza in un mondo artistico in cui la vecchia alterna-tiva tra impegno ed evasione ha perso definitivamente significato,in cui l’aspirazione all’autenticità è consumata dalla seduzione delglamour e l’esperienza creativa si presenta nei termini di una cri-stallizzazione dialettica, di una necessaria “convivenza” di oppostiinconciliabili. Di questo “ritorno” di Beckett, nei termini di unrecupero critico consapevole (e dunque problematico) e non di unascontata filiazione formale, sono un esempio i lavori del duo paler-mitano Ciprì & Maresco – autori, con la serie Cinico TV e i filmsuccessivi, di resoconti straordinariamente corrosivi della condi-zione dell’Italia contemporanea animati da una visione tragico-grottesca in cui domina un profondo senso di sperdimento, diparalisi e atonia – e quelli di artisti più giovani, nati negli anni set-tanta, come Domenico Mangano, Diego Perrone e Rä di Martino,che forniscono, beninteso da punti di vista molto diversi, un’ulte-riore misura dell’attualità e dell’urgenza della “questione” becket-tiana nello scenario dell’arte italiana dei nostri giorni.

Diego Perrone osserva Beckett quasi al ralenti, scorrendonecon lentezza le pagine alla ricerca del dettaglio sfuggito a un pri-

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mo esame sommario. Il suo percorso si è subito fissato in unacifra molto rarefatta in cui a diverse riprese affiora una perso-nale implementazione della strategia beckettiana di abbassa-mento e dissipazione. Si prenda ad esempio La periferia va inbattaglia, un video del 1998: un’inquadratura fissa ci mostra unacoppia di anziani, forse assopiti; davanti a loro, a lentissimaandatura, passa una tartaruga. La lentezza del tempo e l’annun-cio della morte, ma in modo asciugato, domestico, senza retori-ca, possiede una spoglia e bizzarra essenzialità in cui l’immagineresta immediata, realistica, cruda anche nella sua approssima-zione tecnica, e si oppone alla sua stessa risonanza. Questo

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Diego Perrone, I pensatori di buchi, 2002

carattere è ancora più evidente nel magnetismo fossile che ema-na da Come suggestionati da quello che dietro di loro rimane fer-mo (2000), una serie di fotografie in cui dei vecchi (ancora deivecchi) stringono impassibili tra le mani grandi corna di cervi,antilopi o alci. Immagini nitide e amare che come in una spira-le incorporano via via il tempo vissuto, la memoria e la morte esi allargano a disegnare in filigrana dei destini singolari (e mol-to italiani del resto) insieme arcaici e moderni: incontro impos-

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Domenico Mangano, La storia di Mimmo, 2001, video still

sibile tra due ritmi della vicenda umana, tra la dimensioneimmemoriale della durata, della lentezza e dell’accumulo e quel-la crudele e stupida del peso, della dismisura, dell’ingombro.Come concrezioni minerali depositate sulla materia vivente, lerughe sulle facce e sulle mani dei vecchi equivalgono alle callo-sità delle corna: alla fine i grandi trofei cadranno anch’essi, equel precarissimo equilibrio sarà travolto.

Ma è soprattutto nella serie di grandi fotografie I pensatori dibuchi (2002) che Perrone si riconnette al mondo beckettiano, allesue figure e iconografie, certamente, ma ancor più alla sua “tona-lità”, alla sua capacità di materializzare situazioni intollerabili e sen-za via d’uscita: scava a mano nell’orto di casa un certo numero dibuche profonde qualche metro, le fa fotografare, e aggiunge poinelle immagini finali delle figure maschili, solitarie, colte in posespaesate o incongrue (uno siede esausto sul bordo di un buco, unaltro si esibisce nudo in una figura yoga, un altro ancora sta percompiere una capriola o un tuffo e così via). Sono immagini di qua-lità pittorica, dense di richiami e allegorie (la terra smossa, brucia-ta e devastata, i grandi fori nel terreno), di memorie nell’arterecente (dai lavori poveristi in terra di Giuseppe Penone alle cavi-tà “cosmiche” scavate da Anish Kapoor), in cui i buchi equivalgo-no a figure del vuoto e della frustrazione, a luoghi di un inspiegabileesilio: i pensatori del nulla si affacciano a malapena alla luce perpoi tornare immancabilmente nell’oscurità (cfr. Play: “W1: Dyingfor dark – and the darker the worse. Strange.”). Tutto qui. Macome Winnie in Happy Days, gli antieroi di Perrone chiedono spa-smodicamente di “durare”, di continuare a meditare sulla stranez-za del loro caso, a danzare insomma sull’orlo del vuoto che sta peringhiottirli. Resistono. Posti all’incrocio di potenti flussi psichici efigurativi, tutti questi lavori lasciano così affiorare una meditazio-ne oscuramente epica su un’umanità di continuo insidiata dal fal-limento, dal dubbio e dall’enigma. L’immaginario eccedente esingolare, la qualità incalzante e diretta delle immagini, il forteimpatto emotivo delle “storie” di Perrone, diventano così altret-tanti elementi di un’interpretazione figurale del dissidio che si anni-da nel cuore della nostra epoca, un’indicazione elusiva e turbatadell’impossibilità di un ritorno, dell’inutilità della conquista, dellavanità, in una parola, dei gesti più carichi di volontà.

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La passività, l’inerzia spinta fin quasi alla catatonia, declinatanei suoi accenti più comici e grotteschi, è tratto comune anche aipersonaggi dei film e degli sketch di Ciprì & Maresco, la cui appa-rizione, alla fine degli anni ottanta, ha segnato uno dei pochimomenti qualitativamente rilevanti nello scialbo paesaggio cine-matografico e televisivo italiano dell’ultimo quindicennio. Lo sce-nario tipico dei due autori siciliani è una periferia urbana giuntaal grado ultimo di degrado e disfacimento, fotografata in un fune-bre bianco e nero, e popolata da individui anch’essi decaduti equasi animalmente rassegnati alla propria condizione, le cuipoche reazioni vitali si concentrano per lo più nelle affini giuri-sdizioni del cibo e del sesso, entrambe voracemente praticate. Ci

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Rä di Martino, La camera, 2006, film still

vengono incontro interpellati poliziescamente col solo cognomeda una voce fuori campo, da un Intervistatore che chiede, intima,blandisce, minaccia, gode delle risposte smozzicate, del ridicoloche emana dai loro corpi deformi, troppo grassi o troppo magri,dalla vecchiezza decrepita di alcuni, dalla laidezza di altri. Maquesta sottoumanità che vaga tra resti scomposti di architetturecoperte di spazzatura, rifiuto anch’essa (Giordano, il “topo difogna”, l’orrido Paviglianiti), mostra una sorprendente capacità diadattamento, una resistenza insospettabile alla cancellazione chela minaccia. Gli uomini di Cinico TV (la donna, invocata o temu-ta, è disperatamente assente dall’orizzonte di Ciprì & Maresco)si dimostrano straordinariamente attaccati alla vita pur essendo-ne stati respinti, capaci di orgogli inaspettati, di un esilarante otti-mismo. La Sicilia come «paese guasto», metafora di tutta unanazione e di un’intera epoca, ci appare così come un’autenticapatria beckettiana, decaduta quel tanto che basta ad appaesarla alatitudini più familiari, ma non per questo meno atroce e ultima-tiva, specchio del collasso delle idealità moderne, delle utopiesociali (ed estetiche) tutte egualmente (e cinicamente, verrebbeda dire) denaturate e ridicolizzate; l’uso del bianco e nero e deldialetto rinnova gli stilemi neorealisti ma ne profila al contempouna versione capovolta e oltraggiosa, così come la rivisitazione ditipici motivi pasoliniani si risolve in uno stravolgimento del lorosignificato morale, mentre la comicità sguaiata e irresistibile deidialoghi sembra dissolvere in anticipo qualsiasi speranza di riscat-to. Si ride e ci si dispera, ancora e ancora, mentre la Storia sven-de la sua impostura, indistinguibile, come sempre del resto, dalsogno raccontato da un folle.

Non lontana da questa sensibilità, l’opera di Domenico Man-gano accumula interni di case, vestiti, soprammobili, cibi, letti,fotografie, automobili: un campionario vasto, disordinato e casua-le entro cui si muove, dorme, mangia, canta e si ubriaca un’uma-nità minore, periferica o marginale, che parla in dialetto, o inlingue sconosciute, che ride, si racconta, sogna, piange, impreca.Un’umanità che si offre a uno sguardo paziente, concentrato, pre-ciso e allo stesso tempo assente, annullato in una prossimità tan-to consapevole da trasformarsi in oggettività essenziale. Così Lastoria di Mimmo, ritratto in cui la pietas si fonde a una comicità

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stralunata e involontaria, o i profili collettivi di Encastrolo o Mera-no 2000, in cui il piano assente, la prospettiva lontana della sto-ria è riconvocata in un’atmosfera da festa passata. C’è una misuracomune insieme di stile, di atteggiamento, di sensibilità, in tuttiquesti lavori, un tono grottesco triste, una disposizione buffone-scamente amara, un beckettismo inconsapevole ritrovato non sulpalcoscenico ma nella strada. I personaggi di Mangano non met-tono in scena una vita, non posano per l’obiettivo, non si costrui-scono un passato. Più che aprirsi, vengono aperti, estratti quasi aforza da mondi chiusi. Senza cinismo, e senza pietà: non servi-ranno a illustrare nessun caso, nessuna tesi. Più di ogni altra cosa,a Mangano interessa la mescolanza degli estremi, la fusione deltragico e del comico, del lieve e del grave, del viscerale e del grot-tesco: far sì che le storie trasmettano una sostanza caotica e sin-golarmente umana, autentica quanto può esserlo una creazioned’arte costitutivamente ambigua e provvisoriamente vera.

Con il lavoro di Rä di Martino il richiamo a Beckett si fa inqualche modo più sistemico e consapevole, anche in assenza diun riferimento testuale esplicito. Il meccanismo sembra operareanzitutto a basso livello, allo stadio, diciamo così, di quella defi-nitiva convocazione che nelle pièce beckettiane stabilisce una vol-ta per tutte le coordinate fisiche, spaziali ed emotive dellarappresentazione: una specie di chiamata, un appello che ha riuni-to dei personaggi in un certo spazio e in un certo tempo, prontia giocare una partita decisiva per il loro destino. La tensione, anzila dissociazione violenta tra parola e immagine è così il motivoguida di un video, The Dancing Kid (2005-08), in cui si affrontala definitiva compromissione dell’unità psichica e affettiva delprotagonista, abbandonato nel deserto come un naufrago conpochi patetici resti della sua vita precedente. L’elemento figura-tivo dominante nella doppia proiezione con cui è presentato illavoro è qui l’orizzonte “alto”, e la terra bassa di conseguenza, ecioè l’accorto posizionamento del punto di vista, della cinepresa,leggermente al di sotto della posizione ideale, di quell’asse seman-tico-spaziale che ci consentirebbe di dominare con lo sguardo lascena fino all’orizzonte o di scrutare magari in fondo ai loro occhil’anima dei personaggi. Il naufrago, chiamiamolo così, è osserva-to mentre reinterpreta (ancora un reenactment dunque) brani di

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un film famoso, Johnny Guitar di Nicholas Ray, l’anti-western perantonomasia, col suo antinaturalismo, il pathos “barocco”, l’am-biguità sessuale, i riferimenti extrafilmici alla “caccia alle streghe”maccartista. Il film con Joan Crawford al centro di una straordi-naria fantasmagoria di seduzione, tradimento e vendetta in cui icowboy, come scrisse François Truffaut, «muoiono con la graziadi ballerine», diventa la superficie mobile su cui iscrivere unariflessione sui limiti e le reciproche interferenze tra verità e fin-zione. La frase-firma di Johnny («I am a stranger here myself»)diventa la divisa del protagonista, alle prese, nel suo solitariodeserto domestico, con l’impulso irresistibile a ripetere l’unicacosa che ricorda della sua vita precedente: paradossalmente (manon troppo) un melodramma estremo e visionario. Se la superfi-

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Rä di Martino, Dancing Kid 2006-08, film still

cie smaterializzata della proiezione è il “luogo comune” tra videoe cinema, essa diventa qui il piano su cui verificare le possibilitàdel mezzo digitale, il suo spazio di significazione, il suo poterecritico nei confronti del medium cinematografico. La schizofreniadel naufrago è allegoria di questa condizione: da una parte l’esi-lio, la separatezza, dall’altra il desiderio di riprendere una comu-nicazione interrotta, di ritrovarsi in un’identità che si riveleràforse, a sua volta, solo un gioco di specchi. E torna in questa inca-pacità di misurare la distanza tra la condizione reale e quellaimmaginaria l’esempio di tanti personaggi del teatro di Beckett,con la loro apparente inconsapevolezza (ancora Winnie o il ter-zetto di Play), la loro umanissima e vulnerabile speranza (Vladi-mir, Estragon), il loro toccante, ancorché irragionevoleattaccamento alla vita.

Atteggiamento insensato che ritroviamo nella coppia prota-gonista di un altro lavoro recente di Rä di Martino, La camera.Siamo ancora una volta su un prato, l’orizzonte alto, sullo sfon-do un cielo nuvoloso, più vicino una semplice struttura, una“scatola” prospettica (una camera, appunto, o anche un palco-scenico). I due interpreti si alternano con voce insolitamente ato-na nel racconto di microesperienze, schegge di ricordi privati cheaffiorano caoticamente alternati a fredde comunicazioni giorna-listiche. Capiamo poco alla volta che gli attori ripetono parolaper parola – verbatim play è il termine tecnico – e con il minimocoinvolgimento emotivo ciò che ascoltano nei piccoli auricolariche portano addosso. Sono “parlati” cioè da voci sottili che scan-discono nelle loro teste un montaggio di ricordi giovanili, pernulla riscattati da qualche sovrappiù di stile o di senso: registra-zioni crude, intrise di immaginario televisivo, del suo linguaggio,dei suoi miti. L’annullamento della volontà, l’adesione a schemiinsignificanti e dispersi, la mancanza di immediatezza, la com-plicità inconfessata sono naturalmente mezzi a doppio taglio:proteggono e distolgono, ma anche acuiscono la distanza, scava-no più profondamente il vuoto, consumano. La coppia di eterniadolescenti che si esibisce sullo schermo appare così sinistra-mente bloccata in una infinita ripetizione, in un circolo viziosoche consuma le loro esistenze. Il loro è un mondo scheletrito,residuale, incomunicabile, appena increspato da un residuo di

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sensazione. E per quanto questo distacco sembri irrimediabile, idue personaggi appaiono possedere una disorientante umanità,con le loro sorprese e i loro entusiasmi: sono vulnerabili, nonsanno dove andare, si pongono domande, ma anche innegabil-mente esistono, lottano per trattenere il loro passato mentreattendono con sgomento il futuro. Forse risuona nei loro auri-colari l’eco delle parole di Beckett, che così nei Three dialoguesfamosamente descriveva il vecchio enigma dell’arte: «There isnothing to express, nothing with which to express, nothing fromwhich to express, no power to express, no desire to express,together with the obligation to express»3.

NOTE

Una diversa versione di questo testo è apparsa in Giancarlo Alfano e Andrea Cor-tellessa (a cura di), Tegole dal cielo. L’“effetto Beckett” nella cultura italiana, EDUP,Roma 2006, pp. 197-205.

1 Samuel Beckett, Molloy, Minuit, Paris 1982, p. 103 [trad. it. «Non sapevo più su chepiede poggiarmi, tra le mie giravolte. La gamba già rigida, seguitemi bene, mi face-va già male, è un dato di fatto, ed era l’altra che di norma mi serviva da perno, o dasostegno», in Trilogia, Einaudi Torino 1996, p. 109]. Sui rapporti tra Nauman e Bec-kett, cfr. Ingrid Schaffner, Circling Oblivion/Bruce Nauman through Samuel Beckett,in Robert C. Morgan (a cura di), Bruce Nauman, The John Hopkins University Press,Baltimore-London 2002, pp. 163-73.2 Una recente lettura delle implicazioni tra arte ed etica nell’opera di Beckett è inLee Oser, The Ethics of Modernism: Moral Ideas in Yeats, Eliot, Joyce, Woolf, andBeckett, Cambridge University Press, Cambridge 2007, in particolare pp. 109-11.3 Samuel Beckett Three Dialogues (with Georges Duthuit), in Id. Disjecta: Miscella-neous Writings and a Dramatic Fragment, a cura di Ruby Cohn, John Calder London1983, p. 17 [trad. it. «Non c’è nulla da esprimere, nulla con cui esprimere, nulla dacui esprimere, nessun potere di esprimere, nessun desiderio di esprimere, insiemecon l’obbligo di esprimere», in Disjecta. Scritti sparsi e un frammento drammatico, acura di Aldo Tagliaferri, E.G.E.A., Milano 1991, p. 197].

LA TERRA VISTA DALLA LUNA 69

VITE PARALLELE: FRANCIS BACON, DAMIEN HIRST

As flies to wanton boys, are we to the gods; They kill us for their sport.

Shakespeare, King Lear

Immagino un uomo solo. Di fronte alla gabbia di vetro nello spa-zio bianco, dritto in una luce fredda, impeccabile, senza ombre. Lovedo: la faccia un po’ gonfia di vecchio bambino, un impermeabi-le, o il famoso giubbotto di pelle. Silenzio. («Mentre era lì mi chia-ma Jenny [Blyth] dalla galleria e dice, “Non so se ti interessa, maFrancis Bacon è qui, se ne sta da un’ora di fronte al tuo lavoro”»).Guarda dentro la grande scatola trasparente posata sul pavimentogrigio. Tagliata a metà: da un lato, un cubo bianco, anonimo, dal-l’altro, a terra, una testa di vacca in una pozza di sangue rappreso,e appesa in alto una trappola elettrica per insetti, bagliore azzurroche saluta ogni sua vittima con un piccolo lampo e uno schioccoferoce. E poco altro. E poi mosche, mosche, mosche nere che vola-no, che strisciano, che si avventano e si posano. Nascono, copula-no, depongono uova, muoiono, proprio di fronte a chi guarda. Sifa in tempo ad afferrare quasi con un unico sguardo l’intero ciclodella vita e della morte («[La lettera] dice così: “Ciao ecc. ecc. nonmi sento molto bene ecc. ecc. mi ha fatto piacere vederti l’altrogiorno. Sono appena stato alla Saatchi Gallery, ho visto la mostradei nuovi artisti inglesi. Un po’ da far rabbrividire ecc. ecc. C’è unpezzo di quel nuovo artista – non penso citi il mio nome – con den-tro una testa di mucca e una macchina ammazzainsetti e un saccodi mosche che volano. Niente male”»). Penso alla vetrina: un po’museo, un po’ laboratorio, un po’ film di fantascienza, trasparente

Lo studio di Francis Bacon nel 1992, particolare

come un’utopia morale, una moderna casa di vetro ridotta a unascala appena più maneggevole, e pur sempre una nostra possibilecasa. O un mausoleo cui siano stati rubati i cieli e le allegorie tra-dizionali. I suoi contrasti, sempre a due a due, come in un manua-le di simboli: il vetro e il ferro fuori, trasparente e nero, e il trofeoputrescente dentro, la regolarità letale della griglia elettrificata e ilbrulichio osceno della vita, il pulito e lo sporco, l’organico e l’i-norganico, l’artificiale e il biologico, e via dicendo. Ecco a voi undistillato tossico di allegorie prodotto dall’ennesima macchina celi-be. E più in astratto, ma senza obbligo, il secco poema tragico esenza tempo della nascita, dell’attrazione e del sesso, del generaree del decadere, del vivere e del morire. Un Ecclesiaste da esposi-zione (e da collezione), trascritto in un esperimento da museo del-la scienza: una mosca morta guasta l’unguento del profumiere…Un Soutine disinfettato, con i guanti di gomma e la mascherina. Eanche un Joseph Cornell luttuoso: ma più nulla della sua levità edel gioco, del merveilleux surrealista. Nel millenovecentonovanta-due. Il titolo: A Thousand Years.

Avrei voluto idearla io questa scena. E anche l’accostamentoche si leggerà in queste vite parallele. E invece da molto tempoormai Damien Hirst è il designato erede ufficiale di FrancisBacon. Al punto che Hirst stesso ha cercato in tutti i modi di darcredito alla voce (ad esempio installandosi al Colony Room, ildrinking den frequentato da Bacon, il rifugio di tutti gli eccentricidella Londra dell’ultimo mezzo secolo), oppure di smentirla dapar suo, con le pose da cinico o da imperdonabile buffone. (Equindi non di filiazione, di eredità mi interesserà parlare. Ineffetti la questione deve essere posta diversamente, così: l’operadi Hirst è ciò che per noi oggi interpreta l’opera di Bacon, è lasua via di accesso, è la possibilità dialettica di non essere solo pit-tura, o ancor peggio “buona” pittura: è la sua provvisoria garan-zia di verità). Ricapitoliamo: ecco Hirst il manipolatore, l’enfantprodige tramutato in scaltro piazzista, l’impudente protegé delsistema, la star arrogante e insaziabile (dal «Daily Mail», 1999:«Per mille anni l’arte è stata una delle grandi forze civilizzatrici.Oggi delle mucche in salamoia minacciano di trasformarci tuttiin barbari.»). Paragone facile e indigesto al tempo stesso, ancheperché abbiamo incontrato troppe volte le mucche tagliate a

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metà e i quadri a campiture uniformi perché si possa resisterecon successo alla tentazione di archiviarli tra i casi risolti. Nullatra i due artisti potrebbe del resto apparire più diverso (o trop-po banalmente simile): da una parte la lotta di una vita con latela e il colore, la disperazione solitaria, la tensione al limite del-l’autodistruzione per forzare, per portare un po’ più avanti illimite, per attingere a tutte le risorse della casualità; dall’altra lapianificazione dell’effetto, l’apparente indifferenza al lavoro, l’i-strionismo del giovane “hooligan di Soho” che demolisce bar estanze d’albergo – e che però, dopo aver evidentemente rifuso idanni, e troppo spesso per essere una coincidenza, si fa ritrarrein fotografia con la bocca spalancata deformata dall’urlo, il tra-demark di Bacon («Si può dire che un grido sia un’immagine diorrore ma io [sono] in realtà interessato a dipingere il grido piùche l’orrore.»): si veda in proposito il risvolto del suo enormelibro-resumé del 1997. E che pubblica perdipiù un volume diinterviste esplicitamente calcato sul modello di quelle celebri diBacon: per affiancarlo, per sovrapporsi, per cancellarlo? (E iointanto certo di trovare nell’italico idioma forme abbastanzaruvide, dirette, quotidiane e suggestive, per rendere la mobilità,le inconfondibili sprezzature, lo stile che rende così affascinantie vivi i due libri). Il sovrano disprezzo della mondanità e la spa-smodica ricerca dell’esposizione, il culto dell’irregolarità e ilcompromesso permanente della celebrità da copertina. In fon-do, si direbbe, l’autentico contro l’impostura, l’Arte contro nonsi sa bene cosa.

E però mi chiedo cosa abbia potuto pensare Bacon di fronte aA Thousand Years quel giorno. L’avrà dentro sé paragonata a unacrocefissione, lui che aveva parlato degli animali portati a morireal macello, dell’odore della morte, del terrore delle bestie? («Noisiamo carne, siamo potenziali carcasse. Ogni volta che entro in unamacelleria mi stupisco di non essere lì io al posto dell’animale.»).[Ma qui la testa in decomposizione non puzza: è finta, è un attrez-zo di scena]. Avrebbe potuto forse considerare che un’opera comequella realizzava letteralmente l’aspirazione che era stata la sua adannullare ogni descrizione, ogni aneddoto, a usare l’immaginecome un dispositivo capace di «toccare direttamente il sistema ner-voso»? Oppure a respingerla come un inane tentativo di emulare

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la potenza della sua pittura? O al contrario farsi attrarre dall’in-concepibile unione tra l’ordine geometrico-industriale della teca ela straziante epopea della vita al suo interno? O ancora, più diret-tamente, mettere a registro l’ingannevole trasparenza del vetro e ildisordine cieco dell’entropia (Hirst: «Il contenitore di ferro e vetroderiva dalla paura che nella vita tutto è così fragile… volevo fare

Francis Bacon, Self -Portrait, 1973

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una scultura in cui fosse racchiusa la fragilità. Dove sarebbe potu-ta esistere in uno spazio suo»)?

Ecco un primo, singolare denominatore: il vetro. Liscio e spec-chiante come le vetrine dei passages parigini di Benjamin, con l’im-magine riflessa dello spettatore sovrapposta a quella delle merci invendita, come i quadri stessi di Bacon («Mi piace la distanza che il

Damien Hirst, Self-Portrait as Surgeon, 2006

vetro instaura fra ciò che è stato fatto e l’osservatore. Mi piace, percosì dire, che l’oggetto sia posto quanto più lontano possibile»). Iquadri (e le gabbie) sono forse la vetrina ideale in cui specchiare,cioè in cui fondere per speculum, la merce più rara – il nostro cor-po vivo – e il museo, il teatro delle illusioni dove tutto è possibile,celando per paradosso l’arte, l’opera, rendendola irraggiungibile,velandone la vista. E vetro di certo anche come segregazione, comemisura preventiva, come perenne quarantena. Per tutti e due: lagabbia dipinta di Bacon e quella tridimensionale di Hirst. Vediamoallora in dettaglio: qualunque sia il suo stato, la sua centralità o lasua emarginazione figurale, l’attività o la passività della sua condi-zione, la figura appare in effetti nei quadri di Bacon sempre isola-ta, e come recisi gli illusori rapporti dell’immagine col resto delmondo. («La forma illustrativa rivela immediatamente, attraversol’intelletto, che cosa rappresenta, mentre la forma non illustrativapassa prima per la sensazione, e solo in un secondo momento, len-tamente riporta alla realtà»). Come nei monumentali Baigneur diCézanne, isolare la figura è il primo passo per abolire il rapportoillustrativo tra immagine e oggetto, per concentrarla nella sua fis-sità, per trasportarla dal piano simbolico alla sordità imperturbabiledella cosa, per operare una specie di fossilizzazione coatta e inve-rosimilmente accelerata. Non diversamente per Hirst [anche seovviamente in tre dimensioni; ma la sua scultura è un’occupazione,un accamparsi dell’immagine sullo spazio in termini sostanzialmentepittorici]: ecco il suo enorme squalo morto, galleggiante in forma-lina dentro una gabbia-acquario di sei metri per due. Minimalismogotico, è stato detto, mentre il titolo, The Physical Impossibility ofDeath in the Mind of Someone Living, ci offre un memento ade-guato per la nostra epoca, un truismo crudele che suona come unoschiaffo alla perenne ingenuità dello spettatore. Ma il prigioniero,lancinante da vedere per me come un condannato a morte avviatoall’esecuzione, è anche l’irruzione di una potente insensatezza, è labellezza come spasmo e come gesto inutile e grandioso, come spre-co. Il grande cadavere nuota per sempre libero e per sempre soli-tario nel suo personale ironico oceano di formalina (Hirst: «Sembravivo quando è morto e morto quando è vivo… E questo potrebbeavere a che fare con un ossessione di far sì che il morto viva e il vivoviva per sempre»).

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Ma dietro il vetro non c’è proprio nulla alla fine, a parte la con-statazione di un destino beffardo? Nulla che riscatti la perdita, ilbuio, il distacco? Nulla, solo affanno affanno affanno. La nuda vitaridotta all’ammasso di niente, al non valore, al non. La reificazionefinale della carne nel cadavere. Nelle ossessioni parallele di Bacon eHirst per la morte – per una morte dichiarata, esatta, concepibilenella specie della rigidità cadaverica, della spoglia scomposta, aper-ta, gettata, della testa tagliata, del corpo sezionato o squartato – leg-go più di una disperazione individuale, più di una lucidità spinta allimite estremo (Bacon: «Penso che la vita sia priva di senso … creia-mo certi atteggiamenti che le danno un significato mentre esistiamo,sebbene in se stessi essi siano privi di significato») o di una rivoltacontro l’insopportabile sordità del morto (Hirst: «Non c’è la morte.Nella vita non vediamo cadaveri e quindi pensiamo che quella sia lamorte… Invece quando vai all’obitorio e li guardi ti accorgi che nonsono persone. Sono solo oggetti… Non c’è la morte. È da un’altraparte»). Leggo invece un progetto di radicale annientamento, che siattua sotto i nostri occhi come una lenta reazione chimica, un pianodi sistematico sabotaggio dell’unità organica del corpo umano, del-la sintesi platonico-cristiana di soma e pneuma, dell’impasto di mate-ria e soffio lievitato dalla forza dell’illusione, che cede il passo neiquadri roventi del vecchio e nei gelidi teatri anatomici del giovaneall’opera di uno scalpello affilato e indifferente, a una volontà di vio-lare l’epidermide per scendere nelle regioni infere, sino ai visceri ealle latenti putrescenze del corpo, sino a rivelare la vera natura dellacarne umana: carne macellata, viande. Quel corpo celebrato dall’u-manesimo cristiano come modello architettonico del creato, comearmonia in atto, come misura aurea del cosmo, il corpo vitruviano eleonardesco insomma, è ora penetrato da raggi invisibili che ne rile-vano ogni anfratto, ogni porosità, da una forza di dissoluzione chenon arretra di fronte all’orrore, anzi lo espone, ne fa la sua miserabileconquista.

È il corpo senza organi di Artaud, un corpo intenso, intensivo,ha scritto Gilles Deleuze, che vive in uno stato indeterminato, poli-forme: un grumo di carne percorso da una corrente di sensazionied emozioni che di volta in volta ne trasforma gli organi, ne rime-scola le gerarchie interne. Se bocca e ano si confondono in Bacon inun unico orifizio, se la faccia si ritrae nella testa, la pelle si rovescia

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sui visceri, per Hirst la conclusione obbligata è l’annientamentostupido, è la metamorosi dei cadaveri in manichini disarticolati , èla grottesca testa tagliata accanto alla quale si fanno smorfie e ci sifa fotografare (With Dead Head, 1991), sono le scatole di medici-nali riposte in impeccabili armadietti, col loro ordine scrupoloso espietato, allegorie di un male non meno insensato perché nomina-bile. Non più insomma il corpo organico celebrato dai filosofi e daiteologi, e per implicita ammissione anche dagli artisti, né il corpoelettrico cantato da Walt Whitman, ma piuttosto quello degli ana-tomisti, dei patologi che lo sezionano nei sotterranei delle morgue,degli infermieri che lo manipolano nei freddi depositi densi divapori disinfettanti dove si consuma l’ultimo oltraggio all’adam pri-migenio, dei solerti imbalsamatori e infine dei genetisti del piano disopra, che con un solo incolpevole gesto lo consegnano all’atavi-smo più spietato, al miraggio di una demiurgica manipolazione ealla indecifrabile irresponsabilità del vivente. Sui tavoli di marmodove quasi due secoli prima li aveva visti e per primo dipinti Géri-

Damien Hirst, A Thousand Years, 1990

cault, giacciono ora le membra sezionate del decaduto re del crea-to, cremate, frantumate, polverizzate, dissolte. Un’esistenza chiusain alto da un impenetrabile cielo d’acciaio e in basso da una terrabrulla e arsa: questa è la dimensione tragica di Bacon e questo è ilnudo palcoscenico offerto da Hirst, dove il corpo, come scriveJean-Luc Nancy, è «l’atto stesso dell’esistere, l’essere». L’unica esi-stenza possibile in un mondo ovviamente ipercivilizzato e iperme-tropolitano, il nostro insomma, popolato da individui nelle cuiarterie scorre una mistura di alcool, droga e denaro, un mondo sucui regna il misticismo della medicina, e in cui, non sorprendente-mente, benché ci sia molto sesso, è assente ogni erotismo. Siamolontani dallo splendore pagano di Flesh, l’inno alla bellezza fisicacomposto da Andy Warhol e Paul Morissey nel 1968 come invo-cazione a un dio miracolosamente ritrovato. Lì c’era meraviglia,trepidazione, desiderio così intenso da tramutarsi in spasimo, lanostalgia terribile del contatto e della carezza che la macchina dapresa cercava affannosamente di rinnovare, tutto l’estetismo dol-cemente decadente della pop art, il suo innamoramento della super-ficie delle cose e della vita. Anziché lo sconvolgimento erotico,l’estroversione del desiderio, Bacon e Hirst rendono invece cor-poreo «uno stupore (se non uno sgomento) di fronte a ciò che sia-mo, ciò che siamo materialmente, fisicamente», come scrive MilanKundera. È il tipo di stupore (ma dovrei dire piuttosto: di orrorerallentato) da cui ci si sente assalire leggendo il capitolo diciotto diThe Innocent (in italiano Lettera a Berlino) di Ian McEwan, con lalenta, minuziosa, insopportabile dissezione del corpo di Otto, i det-tagli, disgustosi benché raffreddati, e offerti con l’imparzialità diuna foto giudiziaria, della ricostruzione della scena di un delitto (acui manca però il veleno che stilla da ogni descrizione di un corpoviolentemente morto: la qualità retrospettiva e segretamente festan-te degli sguardi). Questo teatro di sontuoso, recitato orrore, perrubare la parola a Manganelli, è in effetti stranamente atono, privodi forza, sbiadito come un catalogo senza illustrazioni o un anoni-mo referto di polizia. Il periodare di McEwan è breve, spezzato,come le azioni, come i pezzi via via segati dal corpo; i dettagli sonogrezzi, incongrui, atroci («Il moncherino sanguinava copiosamen-te… Il sangue colava lungo le gambe del tavolo…. Gli occhiali era-no pieni di spruzzi… Lei disse: vado a lavarmi un po’. – Non ha

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senso, – replicò lui – puoi farlo dopo. Riprese la sega»). Questaliquefazione espressiva ha l’effetto di una lente d’ingrandimentoposata su una fotografia: esaspera i dettagli e fa perdere di vista l’in-sieme. È in effetti una forma di miopia volontaria, di indolenza, dianestesia rispetto alla brutalità dei fatti di sapore molto hirstiano,verrebbe da dire: la sepoltura della madre nel Giardino di cementone è un altro esempio, con il suo susseguirsi allucinatorio di gesti

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Damien Hirst,The Tranquility of Solitude (for George Dyer), 2006

meccanici, totalmente sciolti, “sollevati” da ogni autoconsapevo-lezza. Un’oggettività, un automatismo che in fondo nega la sua stes-sa origine realistica: il suo carattere specifico è la fissità, lamancanza di spinta, la pesantezza e l’inerzia, direi in fondo l’incu-rabile infantilismo morale, lo spessore opaco che nessuna forzaumana o storica sembra in grado di sondare perché propriamenteinsensibile. Questo abbandono, o ancor meglio questo “essereabbandonati”, è anche ciò che in Bacon e Hirst rappresenta la taraineliminabile di ogni vita e rivela l’aspetto propriamente antiesi-stenzialista del loro lavoro. L’esterno conta più dell’interno. Il pre-sente più di un improbabile “altrove”. Per Bacon, perchél’esposizione delle interiora, il vomitare, lo strisciare o l’accoppiar-si frenetico valgono come indicatori della volontà di ridurre la pro-fondità alla superficie, di violarne la continuità, di impedire l’uscitae la salvezza a buon mercato. Per Hirst, perché la sua verità di“cosa” è finalmente rilevata nel corpo stesso, con l’esposizione del-le protesi, dei medicamenti, dei giocattoli e dei ferri chirurgici chelo illudono e lo rassicurano. Così, per questi due bevitori astemi,l’ebbrezza è nemica del giudizio, l’entusiasmo della comprensione:occorre lucidità non nella vita ma nell’arte, perché solo nell’artepuò avvenire l’incorporazione della verità sepolta nell’impalcaturadelle ossa, nella polpa dei muscoli, nella fragile tessitura della pel-le. La lezione morale è esplicita: occorre trasformare ogni segno,ogni immagine, ogni procedimento formale in un’affilata lama dicoltello con cui procedere a scalcare accuratamente lo scheletrodella coscienza dal grasso delle idee, dalle esalazioni del romanti-cismo perenne che l’hanno impregnato.

Quel che accomuna Bacon e Hirst è in definitiva una troppoacuta percezione dell’essenziale: aborriscono l’aneddotico, l’illu-strazione fine a se stessa, l’effetto. Detestano tutto quanto vi è in artedi patetico, superficiale, sentimentale, perché concepiscono l’im-magine come terreno di una lotta spietata. La narrazione è ai loroocchi il naturale nemico del potere dell’occhio, e se amano entram-bi la fotografia, l’esattezza impietosa della fotografia, la sua preci-sione, ne condannano però la pretesa egemonica (Deleuze: «[Lafotografia] non è dannosa semplicemente perché figurativa, ma per-ché pretende di regnare sulla vista, dunque sulla pittura»), perché lavera posta in gioco è oltrepassare il realismo naturale, mettere a pun-

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to un metodo che consenta di operare sulla lettera dell’immagine,sui suoi poteri di mobilitazione nervosa. Quale metodo? La violen-za. Intesa qui non come dramma in atto, come tormento dell’animao del corpo, ma come pura forza dissolvente, come maligna inge-gneria che sembra insieme sospenderci dall’esistenza e annegarci alsuo interno (Bacon: «La violenza della pittura… ha a che vederecon il tentativo di ricreare la violenza della realtà stessa»). E questoperché, a dispetto delle nostre riserve morali, la violenza esercitasempre un’attrazione, la sua azione è sempre perversamente insi-nuante. Ciò che vuole Bacon quando dice che i suoi quadri devonocolpire il sistema nervoso, ciò che fa Hirst quando dice di «usare laviolenza per comunicare», è adoperare il codice della violenza, lastrategia e il potere perturbante della violenza, per sottrarre questaterribile, ineliminabile possibilità del mondo all’indistinzione, allamancanza di immagine, di immaginazione. Dalla profetica biforca-zione moderna tra «grande astrazione» e «grande realismo» teoriz-zata da Kandinskij, Bacon e Hirst procedono dunque risolutamentenella seconda direzione, cioè verso un’immagine, una Figura (anco-ra Deleuze), che si impone nella sua interezza come matter of fact,cioè alla lettera come “dato di fatto”, sordo, pesante, assillante. Insenso contrario alla fittizia neutralità, alla intercambiabilità dell’i-cona nella cultura di massa, all’abolizione del suo valore ontologi-co, l’imperativo per entrambi diventa non perdere di vista il puntoin cui l’immagine tocca il reale, il fatto che essa si costituisce dialet-ticamente come qualcosa che monta e smonta il mondo, che ci scon-certa, ci disgusta, ci fa precipitare in basso, ci mette a contatto conla nostra sostanza dimenticata, ci impedisce le risposte vaghe, lecomode dimenticanze, le consolazioni.

Se Bacon e Hirst tornano costantemente in questi luoghi deso-lati è anche perché la loro opera è il sintomo di una sorta di anchi-losi temporale, di eterno ritorno che ripercorre ossessivamente glistessi solchi, che rinforza il suo instabile nucleo, e non può stac-carsene. Qui si incontra l’invariabilità dei destini, l’enigma dellapermanenza umana, estratta sino a produrre, come risultato fina-le, solo l’evidenza patetica e incontestabile del corpo. Entrambihanno guardato alla vita dalla prospettiva dell’intollerabile, delladecrepitezza di ogni inganno: sono nati vecchi, maledetti dalla forza,dalla precocità della loro intuizione fondamentale. Hanno compiuto

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il passo finale per primo: cosa aggiungere dopo la rivelazione delgrido e della carne macellata, cosa dopo aver costruito la macchi-na della vita e della morte? E così, in qualche modo, sono soprav-vissuti a se stessi. La loro intera opera è in fondo come la postilla aquesta devastazione, all’inarrestabile senescenza e impotenza diogni pensiero, atto, desiderio. Ma hanno anche costruito specchidelicatissimi e fedeli, e ce li hanno posti di fronte. E lì il nostroriflesso seguita a trattenerci sulla soglia di un’ultima insopportabi-le rivelazione, mentre ci ricorda, semplicemente mostrandocela, l’e-stensione della nostra compiutezza, e il nostro vero posto: ildominio incontrastato dell’oggettività. Dove l’umano inciampa e siabolisce, corre e si batte. L’arte sarà alla fine per Bacon e Hirstsolo lo spazio di una possibile presenza, un flusso nervoso tratte-nuto, stranamente sospeso, un’arte atea che reclama per sé ilmistero e la potenza della grande arte religiosa. Un pezzetto diterra asciutta in un campo alluvionato, dove liberi e disperatiguardiamo, annusiamo, succhiamo, tocchiamo, mangiamo, fot-tiamo. Scherziamo con le nostre illusioni. E soprattutto sentiamo.Da lì potremmo domandare: dov’è, morte, il tuo pungiglione?

Questo testo è stato pubblicato la prima volta ne «Il Caffè illustrato», n. 25-26 (2005).

Le parole degli artisti sono tratte dai volumi di interviste curati rispettivamente da DavidSylvester, Interviews with Francis Bacon, Thames and Hudson, London 1993 (trad. it.Interviste a Francis Bacon, Skira, Milano 2003) e da Gordon Burn, On the way to work,Universe, New York 2002 (trad. it. Manuale per giovani artisti, Postmedia Books, Mila-no 2004). Le traduzioni italiane sono state in diversi casi emendate sugli originali. Peraltri riferimenti: Damien Hirst I want to spend the rest of my life everywhere, with every-one, one to one, always, forever, now, Booth-Clibborn Editions, London 1997. Per labiografia di Bacon si veda Michael Peppiatt, Francis Bacon. Anatomy of an Enigma, Wei-delfeld & Nicholson, London 1996. La mosca biblica è in Ecclesiaste, 10, 1. GillesDeleuze è autore di Francis Bacon. Logique de la sensation, La Différence, Paris 1981[trad. it. Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995]. Di MilanKundera il riferimento è a Le geste brutal du peintre, in Francis Bacon. Portraits et auto-portraits, Les Belles Lettres, Paris 1996 (trad. it. Il gesto brutale del pittore, «la Repub-blica», 6 febbraio 1997, pp. 34-35). I romanzi di Ian McEwan Lettera a Berlino e Ilgiardino di cemento sono pubblicati da Einaudi. La definizione di Jean-Luc Nancy ètratta da Corpus, Éditions Métailié, Paris 2000 [trad. it. Corpus, Cronopio, Napoli 2001].La frase finale è di San Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 55.

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Lorenzo Scotto di Luzio, Senza titolo, 2005

IL TEMPO CHE RESTA: LORENZO SCOTTO DI LUZIO

Un grande teschio-mongolfiera si libra al crepuscolo sul golfo diNapoli. L’immagine ha insieme l’aria sinistra di un presagio e ilfascino enigmatico di certe stampe di Hokusai popolate di gigan-teschi fantasmi, o delle creature di Kubin e Redon, mostri malin-conici che vagano solitari ai margini della notte. Ma nella grandefotografia si avverte anche un’inquietudine più prossima a noi, ilsenso di una minaccia imminente, come se il vessillo fantasma fos-se stato inalberato per metterci in guardia, a mo’ di avvertimento.E forse, più in fondo, per Lorenzo Scotto di Luzio questa immagi-ne così singolare è anche un modo per fare i conti con la propriacittà, con la sua mitologia e il suo quotidiano, con quel nodo tor-mentato di ripulsa e affezione che rende così aggrovigliata la rela-zione con i luoghi natali. Ma il teschio è destinato a volare ben oltrei confini del golfo, come un segnale sinistro, un’insegna appropriataper un’epoca sin troppo vulnerabile, esposta a una forza rabbiosache fornisce nutrimento alle sue paure e combustibile al famelicodesiderio di rivalsa che ossessiona le sue scelte politiche. Il terrore,dunque. Come dire l’atto spogliato di ogni finalità apparente, sot-tratto alla sua dimensione umana e razionale, puro gesto e puranegatività. Si fanno saltare in aria, muoiono nell’aereo dirottato,sgozzano con ferocia i loro ostaggi. Cosa vogliono? Chi sono? Per-ché? Da sette anni il nostro mondo ha incontrato l’avversario idea-le, uno specchio nel quale riflettere l’ansiosa oscurità di unacontinua emergenza, un’occasione per dare sostanza ai fantasmi eal tempo stesso per rimuovere una volta di più i conflitti reali, perricacciare in fondo l’insostenibile, la parte maledetta della storia,quel magma di volontà di potenza e istinto di morte che questa fase

della modernità sembra destinata a realizzare in tutto il suo poten-ziale. Sbucato dal nulla, il terrorista, l’eroe negativo di un gesto sen-za finalità, è la figura emblematica di questo presente.

Ma l’emergenza ha bisogno di essere alimentata: a questo pen-sa una struttura invisibile e ubiqua, l’industria della notizia, dellanovità spettacolare a getto continuo, che innerva il mondo con-temporaneo tanto nella sua parte in apparenza vincente che in quel-la abitata dai perdenti, dagli outcast di turno. A tal punto è giuntal’impregnazione, come spiega Daniele Giglioli1, che il modo di desi-derare, di sperare e temere dei carnefici è singolarmente identico aquello delle loro vittime (e dunque dei loro spettatori): l’immagi-nario che guida il terrorista nel realizzare la sua azione sconvolgente

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Lorenzo Scotto di Luzio, Senza titolo, 2007

è già «interamente socializzato e alla lettera pre-visto». L’attentatoalle due torri, con la sua immensa risonanza nei media, appare allo-ra non come l’atto sublime di negazione assoluta, l’opera d’artecosmica di cui all’epoca parlò in toni estatici Karlheinz Stockhau-sen, ma piuttosto come una mera contrapposizione di simulacri,un’accettazione passiva, la ratifica di una subalternità di fatto alleregole del dominio spettacolare.

Se vogliamo interrogare il terrore è dunque necessario tenereassieme la sua prassi e la sua estetica, la sua capacità di mobilitareemotivamente, di elaborare segni e simboli, di generare uno spa-zio di senso, di costruire l’illusione di un’identità. Ma anche sco-prire il suo doppio gioco, la sua impotenza ad alimentare unadifferenza reale, smascherare la sua implicita dipendenza dall’im-maginario mediatico, la sua incapacità di immaginare il diverso, ilnon assimilato, il resistente. Perché un effetto forse meno visibilema sostanziale del doppio regime del terrore – la fede nel gestoassoluto, l’affermazione autistica di una “purificazione” per viadi morte, da una parte, e la sua iterazione spettacolare, il suo esse-re in simbiosi col mondo che aspira a distruggere – è l’emargina-zione di quegli ambiti di esperienza, di progettazione di possibiliforme di vita, tra i quali c’è quello che qui ci interessa maggior-mente, e cioè l’arte. Ciò che il terrore smonta in effetti è non solol’uso che l’arte ha fatto dello choc, le forma basilare dell’esteticadell’avanguardia, l’esperienza nuova, “unica”, divenuta ormairipetibile e inflazionaria, depontenziata nel cliché e riconvertitain componente strutturale dello stimolo a consumare. Il terrore el’immaginario mediatizzato cui è oscenamente congiunto tendo-no a impadronirsi di tutto lo spazio, a chiudere preventivamentela possibilità di una percezione e dunque di un’esperienza delladifferenza.

Ma l’arte richiede un contesto dove esercitare il proprio pote-re allusivo. Uno spazio di possibilità. Nonostante l’esaltazione este-tica di cui sono intrisi i suoi gesti (e con cui è spesso interpretato),tra le conseguenze culturali del terrore c’è oggi un attacco mortaleall’arte appunto come possibilità di esperienza plurale, come incri-natura sulla corazza dell’immaginario, come movimento in dire-zione di una diversa costituzione dell’umano. E non solo perchédirettamente l’ideologia terrorista ha sempre e ovunque preso

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direttamente di mira le arti in nome della propria superiore “purez-za”, di una radicale condanna nei confronti di ciò che non pare giu-stificabile in nessuna prospettiva apocalittica, ma più propriamente– e nella situazione specifica di questi anni – perché l’arte resiste alsignificato, a una “spiegazione” finale, perché addita una fuoriu-scita dal tempo, dal desiderio e da se stessi, perché tende invaria-bilmente ad allentare la catena del risentimento, a inquinare l’odio.Perché alla fine l’arte, come la filosofia, è una forza capace di met-ter di fronte l’uomo contemporaneo alla responsabilità di un maledi cui, come scrive Odo Marquard, sa di essere diventato il soloautore e di cui deve chiedere giustizia solo a se stesso, senza scap-patoie metafisiche, senza risarcimenti.

Nello spazio politico post-11 settembre 2001 diviene essenzia-le mettere in discussione la dittatura della ripetizione, il feticismodello choc, elaborare la potenza del terrore in modo da intralciar-ne l’immediata omologazione nell’immaginario mediatico, con-trassegnare la sua azione come un’interruzione traumatica nellacatena significante, una forma di schizofrenia in cui sopravvive solo

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il puro presente, il puro significante materiale dell’azione. Questaè l’esigenza di risignificazione che l’arte deve affrontare. Ed è que-sto il problema che fa da sfondo alle opere recenti di Lorenzo Scot-to di Luzio: in che modo può l’arte penetrare nel recinto delterrore, percorrerlo con gli occhi spalancati, violare la sua segre-tezza, esporlo? E come può interromperne il rituale paranoico?Qualunque sia la risposta, è evidente che il tentativo da solo rischiadi consumare la distanza che dà all’opera una tenue speranza disopravvivere all’invecchiamento subitaneo che è destino comunenell’epoca dello spettacolo. E sapendo anche che la soluzione potràsolo essere provvisoria e paradossale, perché richiederà comunqueche si accetti di falsificare, trasformandola in spettacolo, inevita-bilmente, un’esperienza del limite. Sapendo, per dirla con Beckett,di dover avanzare, non potendo avanzare, e continuando comun-que ad avanzare.

In un certo modo il problema di Scotto di Luzio è quello clas-sico di ogni arte di immagine quando si addentra in quel territo-rio oscuro in cui si fronteggiano paura, orrore, sgomento, il

Lorenzo Scotto di Luzio, Mondo fantastico, 2005, video still

territorio che un tempo si sarebbe detto del terribile e del sublime:costruire un dispositivo di illusioni convincenti, un diaframma suf-ficientemente sottile da permettere la comunicazione senza che lospazio dello spettatore sia totalmente invaso, mantenere un diapa-son emotivo e insieme l’indispensabile distanza. E tutto questoavendo alle spalle il secolo della fotografia e del cinema, ovvia-mente, come pure la consapevolezza post-Duchamp e post-War-hol della natura relazionale e convenzionale di ogni opera e di ogniicona, la denuncia critica dell’arte come “istituzione”, e natural-mente decenni di uso spettacolare dell’orrore e della violenza; inaltre parole, una condizione dell’immagine da cui è costitutiva-mente bandita ogni naturalità, come pure ogni fiducia ingenua,ogni aspettativa di redenzione. Questo carattere e questa consape-volezza sono visibili in un disegno animato del 2005, Mondo fan-tastico, che con immagini di raffinata ingenuità, cariche di violenzacaricaturale e colori psichedelici, delinea un mondo assurdo e sof-focante in via di franare verso una grottesca catastrofe, un mondoin cui la guerra è la condizione permanente, gli individui si disper-dono come atomi solitari in frenetico movimento e la storia somi-glia a “una trama di momenti senza tempo” destinati all’oblio.L’ironia amara, che pure è la cifra dominante nel percorso di Scot-to di Luzio, acquista in questa occasione una risonanza più grave,un’urgenza diversa come pure un’implicita valenza politica. Elo-quente in questo senso è del resto l’esplicita ispirazione al capola-voro modernista di T. S. Eliot, quei Four Quartets scritti negli anniterribili della seconda guerra mondiale come meditazioni visiona-rie sul tempo e l’eternità, sulla vita e sul destino collettivo: versiscritti tenendo a mente che «il genere umano / non può sopporta-re troppa realtà»2. Il mondo raffigurato da Scotto di Luzio, comequello del poeta americano, ci appare disseccato, percorso da bri-vidi mortiferi, disertato dallo spirito, ridicolo e squallido, mentremuove «pieno di voglia / sulle sue strade asfaltate»3; un mondodove la Morte in persona si traveste da autista di limousine por-tando verso il buio «i capitani, gli uomini di affari, gli eminenti let-terati, / i generosi patroni dell’arte, gli uomini di Stato e i governanti,/ gli esimi funzionari, i presidenti di molti comitati, / i capitani diindustria e i piccoli imprenditori»4. Tutti vanno nel buio, e «tutti noiandiamo con loro»5. È un mondo avvolto nelle tenebre e condan-

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nato al grottesco, complicato e puerile al tempo stesso, perversocome il macchinario che appare nei titoli di testa, con i suoi impro-babili ruotismi messi in moto dal perno immobile di una ruota dibicicletta, il «punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo néincorporeo»6, secondo l’immagine eliotiana. Immagini di un lungoincubo o di un agitato dormiveglia con la televisione accesa: qual-cuno riesce a fuggire e si ritrova in una carrozza della metropolita-na, proprio come nel secondo Quartetto, dove sale l’angoscia e«non resta che il crescente terrore di non aver nulla a cui pensa-re»7. O dove ci si libera di segreti inconfessabili togliendosi lamaschera per svuotarsi, vomitando come una bottiglia che si svuo-ta del suo contenuto. Al centro di questo lavoro si allarga uno spa-zio di incertezza, un deficit di realtà che risucchia ciò che vediamoin una zona grigia, che trasforma ogni movimento nell’affannosaricerca di una via d’uscita, sapendo bene però, come dice il versodi Eliot, quanto sia «freddo il senso e perduto il motivo dell’azio-ne»8. Dominano la ripetizione, il tic, l’esibizione crudele, il non-sense, in un mondo che scivola in una sempre più profondaestraneità a se stesso, generatore e vittima della propria irrealtà.Dall’occhio spalancato dello schermo televisivo si rovesciano sen-za posa slogan e ingiunzioni, bocche enfatiche che masticano mes-saggi, effigi ossessive del potente di turno. Niente sembra rimaneredella commozione mistica che pervade l’ultimo quartetto eliotia-no, nessuna ricomposizione o speranza o pietà, solo un accennovolutamente ambiguo: un randagio nero che alla fine, per furia oper noia, afferra al volo un uccello, sembra sul punto di ucciderloma poi, chissà perché, lo lascia andare.

Con il suo ingannevole aspetto da videogame a basso costo (l’a-nimazione è in effetti tutta realizzata digitalmente), con le sue incon-gruenze, i suoi salti bruschi, con la sua stessa amatorialità, MondoFantastico rappresenta una sorta di condensazione dei temi e delleossessioni che attraversano la fase più recente del lavoro di Loren-zo Scotto di Luzio. Sullo sfondo, o forse prima di tutto, c’è sicura-mente una visione disincantata, pessimistica, dell’arte e del ruolodell’artista che si estende allo sfondo in cui si iscrivono i suoi gesti.Anche qui, ma è un tratto the torna costantemente nei lavori di Scot-to di Luzio, il tono grave è contraddetto da una sottile vena beffar-da, da un’aria di canzonatura. La perdita di capacità tecnica,

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l’inciampo prevedibile ma non evitato (e l’immancabile effetto comi-co che ne deriva), sono del resto componenti rimaste sempre in pri-mo piano lungo tutto l’arco del percorso di Scotto di Luzio, almenosin da quella Ginnastica per artista (1995), campionario di studia-tissima goffaggine che soffocava sul nascere qualsiasi tentazioneall’automitologia del giovane artista a inizio carriera. In tutti questicasi, come nei più tipici processi di deskilling, l’abilità viene resainutilizzabile, anzi superflua, e l’artista non cerca più di nasconde-re i suoi limiti tecnici ma anzi li sottolinea, li esibisce, screditando l’il-lustre mitologia della sprezzatura, della mano che grazieall’esperienza acquista abilità e controllo. Ma l’esperienza, ci dice

Lorenzo Scotto di Luzio, LSdL interpreta Luigi Tenco, 2002

l’artista, non si deposita affatto, la memoria rimane corta, non siimpara dai propri sbagli e iniziare ogni volta daccapo e con mezzisempre precari appare una soluzione obbligata. Il dilettantismo, lacapacità di cambiar pelle, di reinventarsi, diventano essenziali,magari per trasformarsi in contegnosi indossatori di moda (Confe-zioni Taylor, 2001) o per spingersi in territori inusuali come la can-zone d’autore (Lorenzo Scotto di Luzio interpreta Luigi Tenco, 2002),tutti casi nei quali l’identità appare come un tenue residuo di fiam-ma sotto le ceneri della parodia, del riso, della malinconia, come unnucleo ormai intimamente fessurato, immerso com’è nell’inconsi-stenza di un mondo con cui pure si è costantemente obbligati aricercare un compromesso, una forma di possibile convivenza:«Vorrei provare a essere un’altra persona per vedere me stesso comemi vedono gli altri» cantava Tenco e canta ora Lorenzo Scotto,appunto. Oppure si sceglie al limite di passare all’azione, ridicolabeninteso, e si va in giro armati di fucile a piombini a sparare aipupazzi di Babbo Natale arrampicati sui balconi, innocui scherziche solo l’artista prende sul serio, ribellandosi alla loro falsità. Noncredo ci voglia granché per diventare un pagliaccio bugiardo, il titolodi questo video del 2007, può sembrare uno slogan moralizzante masi tratta in realtà di una confessione.

Se consideriamo questi lavori come altrettanti episodi di unadifficile ricerca di un adattamento alla realtà, come autoritratticifrati, la conclusione non appare troppo confortante; qualsiasi pro-getto si intraprenda, ci dice l’artista, l’esito è tutt’altro che quellodesiderato, e comunque congenitamente esposto alla dispersionecasuale, alla dimenticanza, all’errore. Una conferma ci viene daquelle strane personificazioni del disadattamento che sono gliassemblages dall’apparenza sospetta e di incerto funzionamento chespuntano a intervalli irregolari nel lavoro di Scotto di Luzio; capo-lavori di bricolage spicciolo, realizzati con qualsiasi cosa capiti sot-tomano, ennesime macchine celibi che mimano alla perfezionecomportamenti umani, dedite a comportamenti compulsivi, intos-sicati, autodistruttivi. Ecco così una galleria di tipi, di ritratti mora-li, li potremmo definire: Smoking & Drinking (2003), una specie dicatapulta che usa mozziconi di sigaretta come proiettili, compen-dio di vizi banali in cui affiorano le tracce imbarazzanti di un enne-simo fallimento; Cheek to Cheek (2003), un improbabile cannone

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che spara palle di carta sui visitatori; Bella mostra (1999), chepotremmo definire un dispositivo di gratificazione immediata perartisti nervosi, con la vocetta querula di un pollo di plastica cheripete instancabile “bella mostra! è davvero una bellissimamostra!”. O ancora, la recente installazione che trasporta nello spa-zio reale i meccanismi della sequenza di apertura di Mondo Fanta-stico, con un ingombrante apparecchio per fabbricare anelli di

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Lorenzo Scotto di Luzio, Smoking & Drinking, 2003

fumo collegato a un piccolo strumento di tortura puerile. In tuttiquesti casi si può avanzare una lettura su più livelli: primariamen-te culturale e psicologica, come abbiamo visto, con al centro il pro-blema dell’identità dell’artista e il suo processo di individuazione,ma anche più esplicitamente legata alla sua posizione sociale. Inquesta luce in particolare le macchine appaiono come rappresen-tazioni spiazzanti del ciclo perverso e insieme rassicurante dellaripetizione, del demoniaco va-e-vieni tra produrre-consumare-pro-durre, dell’effetto di dissipazione che impregna ogni campo del-l’esperienza contemporanea e che insidia fatalmente le ambizioni diautonomia dell’arte.

Qualcosa di simile avviene anche in un video recente comeWherever, Howerer, Whoever (2007), sia pure con un ancora piùdeciso spostamento sul registro comico-grottesco. Una sequenzarapidissima di primi piani del volto dell’artista si sussegue sulloschermo al ritmo ossessivo di suonerie elettroniche tutte diverse, aognuna delle quali corrisponde per una frazione di secondo, l’e-satta durata di una nota, una diversa espressione. L’effetto è tra-volgente: il volto si trasforma in quello di una marionetta impazzita,posseduta dall’unica folle necessità di seguire il ritmo, di non rima-nere indietro, in una sfida a ridicolizzare, a espellere ogni parven-za umana, un po’ come il personaggio di Italo Calvino, Fulgenzio,che moltiplicava le sue smorfie di fronte allo specchio in odio allasua faccia, in modo da “non esserci”. Ma la supermarionetta èovviamente anche un’ennesima maschera indossata dall’artista, anziè la maschera propria all’Artista, il vecchio guitto incapace di diredi no, sempre pronto al passo di danza, alla smorfia sorniona, maè anche uno strumento per infrangere il continuum illusorio delmedium, per mostrarlo nella sua saltellante incoerenza, come cao-tico flusso di bit privi di ogni significato.

La funzione di questa rete di metafore non è comunque diffi-cile da cogliere: catturare nel pieno dell’azione, come in un fermoimmagine, il lavorio ossessivo dell’entropia dentro e intorno allecose, la vanità delle costruzioni ideali, l’azione corrodente del tem-po. È una strategia di diminuzione, una riscrittura in termini strut-turalmente malinconici che l’artista compie del proprio spaziocreativo; malinconia da intendere qui come nozione dell’irrilevan-za della propria azione, come paradosso di un appuntamento man-

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cato in anticipo che pure continua, testardamente, a essere recla-mato. E anche come consapevolezza dell’interminabile elaborazio-ne del lutto per quel paradossale “oggetto perduto” che è l’operad’arte, della propria vulnerabilità morale e corporale, una sensibi-lità di cui Bruce Nauman, con i suoi clown ghignanti, i rituali osses-sivi, i dispositivi claustrofobici, è forse l’interprete più acuto. Mala condizione di scacco permanente delineata da Scotto di Luzionon relega la sua pratica nel genere della semplice testimonianza odell’autobiografia e neppure, cosa più importante, ne intacca ilpotenziale politico. Si potrebbe dire al contrario che è proprio l’ar-retramento irrimediabile della mitologia la condizione per una fuo-riuscita dal recinto magico dell’arte, per operare il “risveglio”dell’artista in uno spazio intessuto di relazioni complesse, di con-flitti reali: teatro dell’incontro non più solo metaforico con l’Altro.

Si può vedere proprio in questa luce, e in uno stretto legamecol discorso sullo spazio simbolico del terrore che si faceva prima,un altro lavoro recente di Scotto di Luzio, il video Tableauxvivants, che potremmo descrivere come un tentativo di riportarecon i mezzi dell’arte la violenza del campo del rappresentabile,dell’immaginabile anzi, ricostruendo i momenti culminanti di unplot atrocemente tipico – la presa e la successiva esecuzione diostaggi – e facendo svolgere l’azione all’interno dello stesso spa-zio nel quale ha avuto luogo la sua prima proiezione pubblica, ilmuseo Donnaregina di Napoli. Assistiamo allo svolgersi deglieventi da una posizione ideale, quasi fossimo nella stanza remotadove affluiscono le immagini raccolte da invisibili telecamere, alposto dei sorveglianti, al sicuro e ovviamente del tutto impoten-ti. Puri occhi, come si conviene al nostro status di voyeur. È daquesta posizione che possiamo controllare con un solo sguardol’ordinata routine di un qualsiasi giorno di apertura: le opere suimuri, il susseguirsi delle sale, i visitatori. Ma è un’illusione, dalprimo istante sappiamo che qualcosa sta per accadere. Ecco cheun gruppo di uomini armati e mascherati fa irruzione nel museo,percorre di corsa le sale. Sono vestiti di nero, hanno fisionomieanonime, non portano nessun segno o simbolo evidente, non par-lano, non fanno nulla che aiuti a dar loro una provenienza, a farintuire una motivazione. Uno a uno i visitatori sono rincorsi,afferrati, sbattuti a terra con violenza, legati e trascinati via, e infi-

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ne riuniti in un ambiente più grande, dove sono selvaggiamentepicchiati con calci, bastoni, manganelli. Poi, a un certo punto,l’atto finale: il gruppo di ostaggi è riunito in un angolo della sala,allineato contro un muro e fucilato sul posto da un improvvisatoplotone di esecuzione. È tutto. Ma la descrizione inganna, la nar-razione non è continua. La progressione, il climax dell’azione èinvece interrotto dall’interposizione di sequenze “arrestate”,“quadri viventi” appunto, ottenuti senza particolari artifici tec-nici: basta il semplice immobilizzarsi sul posto degli interpretimentre la macchina da presa continua le sue evoluzioni. L’effettoè singolare, straniante: i corpi tesi nello sforzo, le braccia alzate,le espressioni di terrore o ferocia, si fissano improvvisamente,

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Lorenzo Scotto di Luzio, Tableaux vivants, 2006, fotografia di scena

mantenendo però l’impatto, l’energia plastica dell’immagine inmovimento. Ciò che appare all’improvviso di fronte a noi è l’or-dine tridimensionale, scultoreo quasi, dello spazio e dei corpi chevi sono immersi, ciò che la corrente del movimento nascondevasotto il suo flusso. E anche quel che il tempo dell’azione, dellaviolenza, tendeva precisamente a elidere, a far scivolare nell’invi-sibilità, e cioè l’opera di astrazione, di distanziamento operataimplicitamente dal medium. Bloccare il tempo, fissare l’azione inuna esemplarità esterna al suo fluire, è dunque anche un modoper interrogare da un punto di vista imprevedibile la rappresen-tazione, sottrarla alla sua pseudonaturalità, restituendola alla suarealtà di costruzione direzionata, dotata di un passato, di una tra-dizione, di una consistenza linguistica, di uno spazio istituziona-le all’interno del quale essa prende senso. È in questo modod’altro canto che la memoria delle immagini, la loro profonditàstorica e la loro attualità insieme, può essere riattivata e riscatta-ta anche nella sua valenza politica. Ecco allora che che la pitturadi Goya e Caravaggio, il cinema di Ejzenštejn, di Kurosawa, diResnais (penso alla spettrale umanità di L’année dernière àMarienbad), per fare solo alcuni esempi, tornano nel video diScotto di Luzio più che come mere citazioni, come ancoraggimorali e memoriali, come fattori di ispessimento e propagazioneorizzontale del senso di ogni inquadratura.

Nel progettare e realizzare il suo video Scotto di Luzio ha segui-to senza dubbio una strategia estetica e concettuale tipicamentepostmoderna. Una modalità, definibile anche come staged authen-ticity, “verità artificiale” che ritroviamo esemplificata in modi diver-si: ad esempio nei video di Aernout Mik, con le loro minuziosericostituzioni ambientali e l’insistenza su luoghi e temi emblemati-ci della contemporaneità, dalle transazioni di borsa agli incidentistradali, dai confini scavalcati dagli emigranti alle discariche ai mar-gini delle città, o nei lavori fotografici di Jeff Wall, dove l’imme-diata leggibilità dell’immagine, la sua evidenza, serve in realtà adissimulare un gioco di specchi, una costituzione enigmatica, ladimensione inaccessibile e opaca che sussulta al loro interno. Pos-siamo cercare di comprendere a questo punto che tipo di espe-rienza ci propone lo strano ibrido di Tableaux vivants, con la sua

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costruzione a più strati in cui si mescolano i tratti del film di gene-re, del più perverso reality show, della performance teatrale e del-l’installazione iperrealistica almeno quanto quelli del raw footageritrasmesso all’istante da una vorace e onnipresente reality TV. Nonsi tratta intanto di un tentativo di inquadrare la violenza in un con-testo razionale, e neppure di rappresentarla in termini umanistici,vale a dire dalla parte delle vittime. Il video manca appunto total-mente dell’appello alla “compassione” dello spettatore, come purevi è assente ogni principio di straniamento didattico da parte deiprotagonisti, né tantomeno si può parlare di un cedimento allanatura orgiastica, al fascino sadico della crudeltà in azione: le arminon sparano, i colpi non lasciano segni, non scorre il sangue. Sia-mo piuttosto di fronte a una specie di esperimento in cui ciò chevediamo è consapevolmente preordinato in modo da privarci del-l’effetto catartico, dell’ultimo appiglio prima del nulla, per esporci,noi, al rischio concreto di perdere la presa, di subire come tutti ilfascino terribile della violenza: quella straordinaria suggestione ero-tica su cui argomenta un saggio di James Hillmann9, la forza invin-cibile e paradossale di un accecamento amoroso che ha comeoggetto la conquista del proprio annientamento. Esporre la nostradualità, mostrare insieme vittima e carnefice, per ottenere alla fineuna leggibilità morale del terrore come discontinuità, come sma-gliatura nel continuum dell’immaginario, come irruzione dell’in-sostenibilità del reale.

Ed è proprio l’arresto dell’azione, nella sua apparente, deso-lante evidenza, il tableau vivant appunto, ad acquistare un valorefondamentale. Per comprendere meglio perché occorre tornareper un momento alla prospettiva generale da cui siamo partiti: dauna parte il terrore come dittatura simbolica del puro presente,come radicale semplificazione della temporalità, come chiusurae negazione radicale dell’immagine, collocata senza rimedio den-tro l’orizzonte chiuso dello spettacolo, dall’altra la destituzionesimbolica che esso opera implicitamente nella prospettiva del-l’arte, di cui tenta di precludere l’essere plurale, lo spazio sinto-matico dell’immagine come montaggio di sguardi e tempi diversi.È precisamente questa capacità dialettica a far affiorare nell’im-magine gli strati della «memoria involontaria dell’umanità», gliscarti, i rifiuti della storia, i pezzi altrimenti invisibili del suo mec-

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canismo, a farne uno strumento per leggere “contropelo” lavicenda umana. L’esistenza di un’immagine, per riprendere unargomento di Georges Didi-Huberman, contraddice dunque l’i-dea di qualcosa di inimmaginabile nella violenza, ci riporta allasua sostanza storica, alla sua emergenza in un tempo che non saràpiù definitivamente passato. Non solo dunque l’immagine va con-cepita come momento critico nei confronti della realtà, comemontaggio di punti di vista, di interpretazioni, di memorie, che“giunge a leggibilità” nel tempo, ma va intesa anche come unosforzo per oltrepassare visivamente l’opposizione tra ciò che sipuò vedere e ciò che resta nascosto. Per questo l’immagine puòessere vera pur non essendo tutta la verità, e il reale può giunge-re a forare il suo schermo.

Ciò che osserviamo nel video di Lorenzo Scotto di Luzio èdunque un montaggio di tempi che è anche un accostamento distati incompatibili, un procedere a singhiozzo, a salti, una pulsa-zione che reimmette la temporalità nel campo visivo, che vi fairrompere traumaticamente l’entropia e la morte. Mostrando laripetizione al lavoro, immobilizzando i gesti, sospendendo la pre-tesa del terrore di azzerare il tempo, esibendo la sua meccanicain uno spazio divenuto denso, obbligandoci appunto a toccare lavera natura dell’immagine, il video ci mostra nel lampo arrestatodal fermo immagine l’elemento resistente del tempo, la durata,l’accumularsi vertiginoso di possibilità e di senso implicato inogni istante.

Ed è proprio questo spessore, questa durata, questo poten-ziale di immaginazione, a rimanere impigliato nei lavori che chiu-dono idealmente, in una sorta di rituale di rappacificazione, ilnostro percorso: i “mandala”, le spirali e i meandri geometriciottenuti con lunghi capelli femminili che Lorenzo Scotto di Luzioha realizzato armato visibilmente di infinita pazienza. E il tempodella dedizione, dell’uscita da sé, come un interminabile mantrarecitato con la testa e le mani, è la dimensione più intima dell’e-sperienza dell’artista, una via per ricongiungere vita e arte, persuturare e guarire, ma anche lo strumento indispensabile per radi-care un’opera nel tempo, per conferirle quella verità di testimo-nianza e di condivisione in cui ritrovare la traccia di unasingolarità umana.

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Stefano Chiodi: In che modo capisci quando un tuo lavoro, oltre aessere “fatto”, è veramente finito?Lorenzo Scotto di Luzio: Mi verrebbe di rispondere, quandocomincio a sentire un profondo sentimento di insofferenza, cioèquasi subito. Lavorare mi rende nervoso ed è molto frustrante pro-vare a tradurre un’idea in un lavoro che sicuramente non verrà fuo-ri come ce l’ho in testa: a volte arrivo a pensare che sarebbe meglionon sporcarsi le mani e lasciar perdere tutto. Tra il pensiero e lasua traduzione in segno c’è come una zona d’ombra, un’inevitabi-le menzogna, e quest’ombra rappresenta per me una specie di cruc-cio. In realtà niente stabilisce se un lavoro è finito o meno. C’è uninizio e poi infinite possibilità da coniugare. Se a un certo puntoquel che sto facendo comincia a non apparirmi più debole, se mifa capire la sua compiutezza, allora mi fermo. Si può pensare chesia finito, ma è un processo sempre aperto.

SC Quindi in realtà è sempre suscettibile di un ulteriore affinamen-to? Fino al momento in cui non è “pubblicato”, intendo.LSdL Sì. Una fotografia o una scultura sono solo la sedimentazio-ne di una serie di suggestioni, di informazioni che si ammassano inun certo arco di tempo a partire da un’ispirazione iniziale, da unalettura, da un film. Le cose possono andare avanti così, per accu-mulazione, ma a volte durante l’elaborazione compaiano elementiche finiscono col cambiare del tutto l’aspetto iniziale. Io tendo alavorare con cose semplici, con il corpo o con materiali facilmentereperibili, e c’è un momento in cui sembra che il problema si ridu-ca a una combinatoria degli elementi a disposizione, ad esempio

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UNA CONVERSAZIONE CON LORENZO SCOTTO DI LUZIO

una maschera o dei ritagli di giornale. Ci lavoro su, faccio delle foto,poi scopro che non mi convincono. Non è una questione di com-plessità, si tratta di capire cosa si vuol fare e la soluzione il più del-le volte è più semplice di quanto si creda. Io la vedo un po’ inquesto modo: probabilmente più le suggestioni si sedimentano, piùil lavoro risulta ricco e stratificato; ma poi bisogna liberarsi di tut-to questo ed esprimersi in modo diretto. È in definitiva quel checonta di più. Ad esempio, avevo letto un romanzo di Saramago,Cecità, e volevo fare un lavoro sul “vedere”. Allora ho ritagliatodegli occhi di carta dalle pagine di un rotocalco e li ho incollati die-tro la testa, sui capelli; alla fine sembra il ritratto di un animale.

SC A proposito di sguardo, si è sempre detto che l’arte richiede untempo lungo di osservazione, una capacità di concentrazione. È unarichiesta sempre valida nell’epoca delle immagini velocissime dei nuo-vi media e della pubblicità? Abbiamo ancora il tempo di “resistere”davanti a un’opera?LSdL È chiaro che un’immagine rimane un’immagine e in quantotale non può che sovrapporsi all’uso che ne fa la pubblicità. Ogginon si può ragionare sull’arte negli stessi termini del passato: equi-librio, colori, tutto ciò che ha a che fare con il territorio dell’imma-gine è in rapporto con la pubblicità, non con l’arte. Si potrebbe direche oggi persino i significati sono un problema che riguarda la pub-blicità, che è in grado di produrne una quantità infinita e persino dicriticare il sistema delle merci e del mercato, anche se poi ci accor-giamo che non è cosi e non lo sarà mai. Il fatto è che la preoccupa-zione di un artista non è solo produrre un oggetto o un’immagine,ma agire anche sul perché, sul dove e sul quando, sulla necessità delsuo lavoro all’interno del pensiero e della pratica contemporanea,mentre la necessità di un’immagine pubblicitaria è in sostanzasedurre per vendere. Si vorrebbe che l’arte ponesse delle questionie questo accade spesso in modo niente affatto seducente e talvoltanel totale anonimato, un anonimato che serve anche a resistere alpassare del tempo, a sfuggire al controllo dei burocrati.

SC Si potrebbe dire però che questa “cornice”, il dove e il quando,non può che essere il sistema dell’arte, anche dove si voglia superar-lo o annullarlo…

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LSdL Per me rimane emblematico il lavoro di Cattelan alla Bien-nale del ’93: in termini materiali ha esposto un’immagine pubbli-citaria, ma il luogo, il contesto faceva di quell’immagine qualcosadi assolutamente diverso, un gesto artistico.

SC Dagli anni sessanta in avanti si è spesso posto radicalmente il pro-blema dell’esistenza, della legittimità dell’opera d’arte in un mondostrapieno di oggetti. È un punto di vista ancora valido?

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Lorenzo Scotto di Luzio, Confezioni Taylor, 2001

LSdL Probabilmente sì, anche se c’è il rischio è di ridurre tutto aun giochetto che funziona fin quando si consuma tra le pareti diuna galleria o di un museo: sposta il tuo gesto al di fuori del con-testo dell’arte e il gioco smette di funzionare.

SC Vorrei tornare ora al problema del tempo dell’opera, a quel chedicevi a proposito della sua “resistenza”…LSdL Beuys diceva che l’opera d’arte è una bomba a orologeria:nessuno può sapere quando esploderà. Penso che il lavoro di unartista abbia la facoltà di resistere al tempo se contiene una rifles-sione insieme sul passato e su quanto ci circonda. Il segno che sidecide di mettere in circolo è la risultante di questo processo…

SC Da qui è possibile partire alla ricerca di una regola, di una “giu-stezza” personale?LSdL Non so più chi, alla domanda su cosa stesse facendo affac-ciato alla finestra, rispondeva: “Sto lavorando!” Rischio di sem-brare presuntuoso, ma ti rispondo che bisogna interrogarsi sullanecessità dei segni con cui un artista lavora. È una questione cheva oltre il semplice fatto di produrre qualcosa di artisticamentevalido. A quel punto la domanda un po’ stanca su “cosa è arte”lascia spazio ad altre questioni: chi sono, dove vado? Sono inter-rogativi che hanno a che fare con la santità, col chiedersi se unoè degno di stare al mondo, se quello che si fa è necessario, se lastrada che si segue, non quella dell’arte ma la tua personale, èquella giusta.

SC In altre parole l’artista non può fare a meno di una certa lucidità?LSdL Per me il mestiere dell’artista è legato al desiderio di unadiversa modalità esistenziale. Per esempio, lavorare con i capellirichiede una grande pazienza, ed esercitare la pazienza ha a chefare con una specie di ricerca spirituale. Conta la pazienza, non laprecisione fine a se stessa. Solo in questo modo sento di fare qual-cosa che mi difende dal caos.

SC Nel tuo lavoro, sotto il tono comico si profila sempre un’ombra,qualcosa che rimanda al fallimento, al pericolo, alla perdita di orien-tamento. È giusto sottolineare questi aspetti?

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LSdL Nel mio lavoro c’è comicità, c’è il grottesco, ma anche unbisogno di sincerità. Pericolo, fallimento, sono parte del paesaggioche ho attorno, fanno parte della mia storia.

SC È questo il motivo della scelta di materiali di scarto, di meccani-smi difettosi per realizzare i tuoi lavori? Queste cose si portanoappresso un po’ del loro passato?LSdL Il problema per me è trovare un lessico della quotidianità euna modalità pratica i cui tutti gli elementi, anche quelli immate-riali come la biografia, risultino “economici”, cioè diretti, efficaci.C’è anche un bisogno di opportunità e di circolarità, sia per quel-lo che riguarda i temi, sia per la modalità che scelgo per realizzareun’opera. Lavorare con niente, mimetizzarsi. Usare le prime coseche trovi davanti; è anche una forma di resistenza.

SC Non è raro vederti usare una maschera. Ma come dobbiamo con-siderare l’autoillusione che tormenta i tuoi personaggi? È una formadi straniamento?LSdL Sì, è una fuga, un desiderio di sottrarsi. Dietro ogni lavoro cipuò essere una storia, un po’ di biografia se vuoi, ma se si vuole anda-re un po’ più a fondo non credo ci sia solo questo; mi interessa ancheun certa idea di mimetismo, l’idea di qualcosa che si presenta in unacerta maniera e che può essere in realtà qualcosa di completamentediverso. Ad esempio c’è spesso la messa in scena di una costellazio-ne di gesti, di atteggiamenti, come in Confezioni Taylor, dove mettoin scena gli anni cinquanta di cui so poco e nulla ma in cui c’è ancheuna dimensione emotiva che oggi non esiste più, conosciuta solo gra-zie alle foto di famiglia. Allora atteggio il corpo in una certa manie-ra, accendo una sigaretta e in maniera del tutto opportunistica lametto in scena anche solo per creare il sospetto che l’identità sia qual-cosa di assolutamente strumentale, di accidentale. È un modo percogliere l’elemento assolutamente contingente, come se esistesse unsuper Io lontano milioni di anni luce dalla Terra che guarda tutto condistacco assoluto. È come se non si appartenesse mai a se stessi o aquesto mondo. Il problema è che l’identità è un tranello, probabil-mente al novanta per cento è un fatto cromosomico, per un’altra par-te è un frullato di nozioni culturali acquisite, e per un’altra ancoraun paesaggio emotivo e biografico…

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SC Un’identità che può essere plasmata a volontà o che è sempre unriflesso obbligato di qualcos’altro?LSdL Parlo di una percezione, come dire, opzionale, come se sicapisse a un certo punto che un’identità reale non esiste, che èuna messa in scena… Nel Giovane Holden c’è una scena in cuiHolden viene preso a pugni dai suoi compagni di collegio; lui stamale, è piegato in due dal dolore, ma immediatamente dopo ini-

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Lorenzo Scotto di Luzio, Bella mostra, 1999

zia a marciarci sopra e mette in scena un se stesso dolorante, esa-sperando la situazione…

SC “Esasperare” è una parola che usi spesso…S: Sì, per me è un fatto di reazione, esclusivamente di reazione. Adesempio la gentilezza mi mette a disagio, è come se mi costringes-se a essere gentile; oppure, non so, questo nostro paese di cattoli-ci dove se non soffri non sei una persona buona. Questa èl’esasperazione. Sento il bisogno di reagire, di esasperare un senti-mento che nasce prima in sordina e poi diventa travolgente. Atti dipanico, ad esempio, dà una forma grottesca a tutto questo, ma èanche un lavoro sull’insofferenza, sul senso di claustrofobia chenasce quando ti viene detto quali emozioni provare.

SC Rispetto alla pornografia sentimentale dei media?S: Sì.

SC C’è un altro gruppo di tuoi lavori in cui sembra di vedere all’ope-ra un bricoleur impazzito, macchine che fumano e bevono, che gioca-no a carte, che si mettono a tremare rumorosamente, che lanciano palledi carta o fanno bolle di sapone e così via. Ho la sensazione che in fon-do la cosa più importante per loro sia dimostrare di averne abbastanzadi tutto. Sanno di essere state costruite male e si detestano. È così?LSdL Partirei dal fatto che queste macchine prendono in giro sestesse. Anche in questo caso c’è la messa in scena di una circolari-tà: le macchine aspirano all’autosufficienza e funzionano grazie alprincipio del ciclo continuo, della catena di montaggio, ma in loroc’è qualcosa che mi interessa ancora di più, un salto di fianco rispet-to all’ottusità della circolarità: che in questo caso come un pensie-ro di cui non ci si riesce a liberare, un labirinto. La malvagità dellabirinto appare solo se dopo averlo percorso tutto ti viene in men-te, invece di rimanere nelle due dimensioni, di sollevarti, di guar-darlo dall’alto, di capire dove ti trovi. E quindi questo continuoagire inconsapevole di tutto svela la sua inumanità, il suo essere ter-ribile. La macchina è pura circolarità.

SC C’è un termine famoso per questo genere di oggetti: macchinecelibi, macchine in perpetua attesa di un corpo che venga dato loro in

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pasto. Sono meccanismi costruiti per divorare il loro utilizzatore. Nonc’è in effetti anche qualcosa di macabro, di letale nelle tue macchine?Una potenzialità di morte?LSdL La morte, certo; il fatto però è che queste macchine mi tran-quillizzano anche, col loro ritmo sempre uguale, il loro movimen-to ripetitivo, un po’ ottuso.

SC Le progetti in modo accurato?LSdL Sono costruite con materiali che mi trovo sotto mano. Mipiace l’idea di creare meccanismi in fin dei conti innocui; siamo cir-condati da una tecnologia sempre più brutta, mostruosa, asfittica.Le mie sculture vestono i panni di oggetti domestici e a differenzadelle automobili e delle armi, che poi sono la stessa cosa, non mispaventano.

SC Nel tuo lavoro ci sono anche immagini violente, in Tableauxvivants, con l’assalto al museo, ad esempio. Che significato ha qui laviolenza?LSdL La violenza c’è nei miei lavori perché ci deve stare, così comeil bisogno di sopraffazione. Tableaux vivants è un modo per porta-re in scena la violenza come qualcosa senza inizio né fine, come unapura ripetizione.

SC Una ripetizione?LSdL Sì, qualcosa che rimane sempre uguale, che non dipende dal-le circostanze. Siamo tutti impegnati a capire, ad analizzare le ragio-ni delle violenza, ma io la vedo come qualcosa che nasce da sé. InTableaux vivants la violenza è una forza che agisce su soggetti pas-sivi, è qualcosa che deve accadere. Mentre lavoravo al video legge-vo Frammenti di un insegnamento sconosciuto di Gurdjieff, in cuisi sostiene che la guerra è la conseguenza di un ordine cosmico. Ècome dire che l’agire umano è prevedibile, ciclico, ripetitivo.

SC Una frase famosa di Deleuze dice che il compito dell’arte è farrisuonare il consumo con la morte, la crudeltà con la stupidità…. LSdL È quel che cerco di fare.

SC Come nell’altro tuo video, Wherever, Howerer, Whoever?

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LSdL Sì, una crudeltà contro me stesso, anzitutto.

SC Vorrei tornare a quanto dicevi a proposito della resistenza. Ora,le tue immagini dichiarano molto rapidamente la loro materialità, sevuoi anche la loro bruttezza, ma senza corteggiare il cattivo gusto. Ècome se tu avessi scoperto uno stato di mezzo che non è esattamentedefinibile se non per sottrazione, come incompletezza o indetermi-natezza. Si capisce allora che la “latitanza” del gusto aiuta in realtà arendere sensibile qualcosa di intimamente sfuggente, un’opacità,

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Lorenzo Scotto di Luzio, Big mama, 2001

un’indolenza che penetra negli oggetti, nelle immagini. Trovi sia unasensazione in qualche modo giustificata?LSdL Sì, solo mi sorprende il fatto che tu parli di indolenza, per-ché penso ci sia in realtà in tutti i miei lavori una certa vitalità. Èvero, sono fatti con quello che capita e oppongono questa fragili-tà, ma in realtà si tratta anche di qualcosa fatto per sopravvivere,come quegli astronauti che hanno dovuto usare dei pezzi di plasti-ca e di metallo tenuti insieme con lo scotch per riparare un guastoimprevisto. Ecco, il mio lavoro si occupa anche di immaginare chedomani tutto possa finire e occorra ricostruire la lampadina da zeroo tirar su l’acqua dal pozzo. Che poi è uno scenario neanche trop-po lontano da quello attuale, perché è come se la modernità, contutta la sua tecnologia, in certi momenti si sgretolasse lasciando die-tro di sé gli scarti, una quantità di residui pronti per essere utiliz-zati da qualcun altro.

SC Sei cambiato in questi anni?LSdL Credo sia cambiato molto il modo con cui guardo le cose.Cerco di proteggere la mia immaginazione. E c’è anche qualco-s’altro, forse una volontà di soppesare meglio le cose, di confron-tarmi più da vicino con lo stato del mondo. Penso che questa sia lacosa più importante, ed è un sentimento che è cresciuto nel corsodegli anni. Mi interessa rimanere lucido.

SC In che senso?LSdL Coltivando il distacco. C’è una poesia di Kavafis che dice:«E se non puoi la vita che desideri/cerca almeno questo/per quan-to sta in te: non sciuparla/nel troppo commercio con la gente/controppe parole in un viavai frenetico…

SC Che uso possiamo fare della lucidità?LSdL Essere lucidi per me vuol dire non farsi sedurre dalla con-tingenza.

SC Dal dover essere?LSdL Sì, e da tutta la retorica del sentirsi speciali. Se solo pensi perun attimo a cosa sia veramente un pensiero che dura nel tempo, aigrandi pensatori finiti male, ai loro libri bruciati, e a come le idee

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abbiano resistito a tutto questo e per vie impensabili. Vengono ibrividi. Cento, duecento anni e quelle idee sono ancora lì che cisorreggono. Ecco, vorrei arrivare a un livello di santità tale da nonpreoccuparmi più dell’oggi.

SC E questo con che spirito lo dici?LSdL Con presunzione, sicuramente. Dall’alto della Torre degliAsinelli a Bologna Carmelo Bene si era scusato per il vento che dis-turbava la sua lettura di Dante. Capisci, si scusava per il vento,come se lui si sentisse responsabile. O anche Joseph Beuys, che siautoaccusava del terremoto di Düsseldorf. Nel suo percorso unartista può arrivare a identificarsi con un elemento, un’energianaturale.

SC È la tua conclusione?LSdL No, no, non voglio finire con una semplificazione, abbiamoparlato proprio di sfuggire alla facilità, quindi… sarà un artista cherisolleverà il mondo o forse il Buddha nascosto, o invece un filo-sofo, o un tabaccaio…

NOTE

Un prima versione del testo è apparsa in Lorenzo Scotto di Luzio, a cura di Mario Codo-gnato, MADRE Museo d’arte contemporanea Donnaregina, Electa, Milano, 2007. Laconversazione è stata pubblicata con varianti in «Cross», n. 7 (2007).

1 Daniele Giglioli, All’ordine del giorno è il terrore, Bompiani, Milano 2007, p. 44.2 Thomas S. Eliot, Four Quartets, [trad. it. Quattro Quartetti, in Opere, a cura di Rober-to Sanesi, Bompiani, Milano, 1986, p. 263].3 Ibid. [trad. it. cit. p. 269].4 Ibid. [trad. it. cit. p. 279].5 Ibid.6 Ibid. [trad. it. cit. p. 265].7 Ibid. [trad. it. cit. p. 281].8 Ibid. [trad. it. cit. p. 279].9 Cfr. James Hillman, A Terrible Love of War, Penguin Books, London 2004 [trad. it.Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano 2005].

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Maurizio Cattelan, Senza titolo, 2001

INFINITI NOI: MAURIZIO CATTELAN

Aspetto, nella speranza che l’epoca dei miracoli crudeli non sia finita.Andrej Tarkovskij, Solaris

Forse alla fine è solo un problema di posizione. Di punto di vista.Guardare il mondo dal basso. Scendere, scivolare, toccare il fondo.E magari rialzarsi, ma per ritrovarsi in un altro posto. E rimpiccio-lire a volontà, anzi arretrare e involversi, regredire. Chissà, forsepotremmo tracciare un grafico di questi movimenti, di questo pen-dolare senza fine che ci trascina, noi pure, certo, come a volo cie-co, di notte, su una terra realmente dedalica, il continente dell’Arte,un tempo landa di avventure e di felicità promessa, oggi speri-mentato approdo di ogni diversione. In questo continente siamodiventati clandestini. Esclusi, espulsi, fate voi. Fuori! ha gridatouna voce invisibile. E tutto è scomparso in effetti. O forse no, for-se ci stiamo sbagliando. È solo questione di nascere, o rinascere.Di invertire la freccia e tornare all’inizio. Ma da dove avevamo ini-ziato, appunto? Da quel sussultare improvviso, probabilmente. Pic-coli, se eravamo grandi, ma con la stessa urgenza, e più coraggio:con la volontà di cercare, e di non tornare mai sullo stesso posto.

Cominciamo dal basso allora. Da molto in basso: da un buco nelpavimento. Ne spunta una faccia dall’espressione furba. È quella diMaurizio Cattelan, trasformatosi nell’occasione in un ladro, in un fur-fante da commedia tanto maldestro da sbucare in orario di aperturasotto gli occhi dei custodi del museo. Il mariuolo – un pupazzo iper-realista in resina1 – ricapitola i tratti che sono diventati un po’ il mar-chio di fabbrica del suo autore e modello: un’immagine (o un

personaggio) che per così dire “sorge”, si impone come una presen-za immediatamente riconoscibile, con un accento invariabilmenteumoristico (per quanto virato al nero), e ancora un’occhiata imperti-nente sul mondo; una forma di teatralizzazione che colloca lo spetta-tore in un’angolatura incongrua e sorprendente, benché non gratuitae anzi piena di una risonanza insolita, quasi si trattasse di una mise en

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Maurizio Cattelan, Senza titolo, 1997

abyme ottenuta con l’uso oculato di effetti (sorpresa, sospensione,eccesso), di una puntuale e irrefrenabile destituzione di materiali, sti-li, “valori” e significati assortiti, di un sistematico abbassamento del-le aspettative, magari da riscattare con qualche abile colpo di teatro.Così accade anche per lo struzzo impagliato esposto all’ICA di Lon-dra nel 1997; un’immagine che discredita quanto saremmo dopotut-to ben disposti a concedere all’autore: la “serietà” delle sue intenzioni.Il grosso uccello si comporta in effetti come un animale da bestiarioo da cartone animato: disubbidendo alla proverbiale intimazione, fic-ca la testa nel parquet, affondando con tanto di trucioli. Che lo si giu-dichi un commento sarcastico sulla sua condizione di scomodo ospitenella Londra ruggente degli Young British Artists (all’esterno dell’e-dificio dove era ospitata la mostra – Fatto in Italia – Cattelan avevaanche scritto con lo spray «Bloody Wops», da leggere come “sporchiterroni”), oppure una caustica metafora di vigliaccheria e cecità (mariferita a chi? all’Artista? agli artisti? al pubblico?), o ancora comeuna scaltra violazione dei limiti, quel che ci resta tra le mani è di fat-to un oggetto ingombrante e contraddittorio, un moto di spirito cheostacola il ripercuotersi virtuoso sulla figura dell’autore ed espone ilproprio processo interno come inflazione e dilapidazione di ognipotenziale significato simbolico.

Entrambi i lavori fanno emergere in fin dei conti una medesi-ma e ben precisa strategia: il distanziamento ironico rispetto aimateriali, alle immagini, alle narrazioni, al proprio Io, accompa-gnato dall’emergere di una pluralità di voci dissonanti, di una visio-ne occlusa e parziale, di un dissidio che viene esposto anzituttocome alienazione da sé e dalla possibilità di conferire un ordine euna disciplina prima di tutto morale e poi estetica alla propriamateria. Parlare insomma la lingua (la prospettiva, la visione, il giu-dizio) degli altri, frequentare pericolosamente il filisteismo, lavigliaccheria e il sentimentalismo e anzi indossarli come mascheredi un’estrema e paradossale rivendicazione di un ruolo ormai desti-tuito: e cioè in fondo assumere per sé quella particolare forma disguardo della moltitudine che ha attratto molti grandi moderni e hatrovato nella pratica “indifferente” di Duchamp e nell’opera e nel-la stessa biografia di Andy Warhol le più influenti manifestazioninel campo delle arti visive del Novecento. Si tratta insomma diabbandonare lo sguardo nel moltiplicarsi dei colpi d’occhio, o

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ancor più perdere se stessi nella disseminazione di identità ora spar-se, fessurate e frante, parlare mille voci, come se l’Io fosse diventa-to una posta in gioco, una preda e un trofeo, anziché un saldo eindistruttibile cogito. L’arte come attività automatica e l’artista comedispositivo, come macchina (come aveva detto Warhol), in unavisione impersonale violentemente sottratta alla tradizionale fidu-cia umanistica in uno sviluppo armonioso dell’Io e del mondo ericondotta invece a quella dimensione accidentata, tragica e defi-nitiva che è il vero luogo dell’ironia postmoderna.

Si potrebbe dire che in Cattelan (beninteso nell’autore “Catte-lan” che ci è dato inferire dalla sua opera e dalle sue dichiarazionipubbliche, e che come tale sarà considerato in tutto il presente testo)si verifichi quotidianamente una condizione limite: non credere aquanto si difende – che sarebbe poi l’arte stessa, come pratica e comespazio simbolico, di scambio sociale e individuale, come costruzio-ne di quella prospettiva in cui la modernità progettava le sue utopie.Cattelan si dimostra qui figlio sin troppo esemplare di un tempo chesappiamo bene scettico e disincantato, un’epoca che ha assimilatoogni opposizione, rovesciato il rovesciamento dell’avanguardia, rad-doppiato e sterilizzato gli argomenti duchampiani contro l’arte: nonè possibile, sembra, oltrepassare il limite della non-non-arte, attra-versare lo specchio e raggiungere un mondo che si vorrebbe di intat-ta presenza ma che si rivela ogni volta di più un ingannevole eperverso spettacolo. Un atteggiamento che ritroviamo in quellagenia di temperamenti artistici singolari e inclassificabili che hacostellato il secondo Novecento italiano e che anzi ha finito per rap-presentarne la parte più controversa e vitale, da Piero Manzoni adAlighiero Boetti a Gino De Dominicis; personalità alle quali Catte-lan si può accostare per la volubilità, l’insofferenza, l’ironia, il gustoper il paradosso, pur rimanendo in sostanza immune dall’ipersensi-bilità cosmica, dall’inadattabilità sociale, dall’idealismo visionarioche aveva caratterizzato in misure diverse i loro rispettivi percorsi.Col suo ghigno beffardo, l’aria disincantata, il narcisismo punito ol’autolesionismo egocentrico2, con il suo continuo e irritanteocchieggiare i cliché della vita italiana e la sua eterna commedia, coldisincanto feroce e il suo stesso successo mondano, Cattelan sembrapiù che altro in cerca di una comprensione (di un perdono) che sadi poter ottenere a bassissimo prezzo da un pubblico assuefatto a

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ogni profanazione. Non so se si senta come quel poeta maledettoche voleva intossicare le anime per dar loro un’anima; certo è che ilsuo modo di fare somiglia assai più a quello di un avvelenatore diprofessione che a quello di un profeta o di un guaritore.

Una dialettica non indifferente

Si tratta solo di cinismo, di una posa dandistica, solitaria e quin-tessenziale? Di una decisione, di un partito preso dell’insofferenza,di una forma di evasione? O c’è nella posizione di Cattelan qual-cosa che tocca sul vivo le contraddizioni entro cui si dibatte il pre-sente dell’arte e più in generale della nostra cultura, qualcosa chepuò essere letto come una paradossale richiesta di verità? Si potreb-be rispondere che prima di tutto quella di Cattelan – così come permolti altri artisti dei nostri giorni – non è una condizione appresa,o una giustificazione: è una scoperta. Cioè un’appropriazione per-sonale in cui si fondono meraviglia ed eccitazione. È un inciampo,un imprevisto, non una descrizione, una teoria o, peggio, una scap-patoia. Di qui anche il tenore della risposta, ipersoggettiva, certo,ma non arbitraria, fatalmente compromessa con i meccanismi mon-dani di creazione del valore (a tutti i livelli), e dunque facilmenteesposta all’accusa di cinismo, ma non del tutto integrata. Siamo insostanza di fronte a una tattica dell’assurdo spinta al livello piùestremo, a un doppio gioco che finisce per rimescolare verità emenzogna in modo tale che non sia più possibile separarle. Nell’o-rizzonte confuso dell’implacabile oggettività dei processi di scam-bio, l’opera di Cattelan segnala una effettiva perdita di potere sullarealtà, una contagiosa incapacità di comprensione e di presa sullavicenda umana, uno smarrimento radicale e apparentemente irre-versibile.

Forse, per parafrasare la famosa espressione di Hegel, oggi l’ar-te assomiglia davvero a quel disegno a chiaroscuro che apparequando «una forma della vita è invecchiata», al mantra di una reli-gione defunta. Minata la sua supposta alterità rispetto al mondo,al punto che per attestare la propria esistenza deve di continuo con-futare se stessa (mentre ciò che viene dismesso è in effetti il suovalore simbolico di esperienza condivisa), l’arte non può che dive-nire fondamentalmente il prodotto immaginario dei suoi attori, del

sistema in cui è articolato il suo discorso. Come l’universo della piùradicale teoria quantistica, essa esiste solo se la stiamo osservando.La fine del canone (di qualsiasi canone) coinciderebbe insommacon la fine dell’arte tout court, della sua supposta missione, e visarebbe inoltre una condiscendenza implicita tra il suo “stato difatto” (la sostanza finanziaria dei suoi valori, gli scoperti meccani-smi speculativi che ne regolano le fortune, la deriva divistica deisuoi protagonisti, la sovraesposizione nei media, ecc.) e le teorie di

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Valie Export, Aktionshose Genitalpanik, 1968

impianto pragmatista che ritengono la qualità (a tutti i livelli) unamera convenzione valida solo all’interno di una comunità inter-pretativa: l’antica disputa tra essenzialisti e relativisti si sarebbeinsomma conclusa con la schiacciante vittoria di questi ultimi. Arteè ciò che chiamiamo arte, tutto qui. Ma è sufficiente dire che l’ar-te, l’attività arte, è senza residui solo un’irrilevante comparsa nellasocietà dello spettacolo, un fenomeno di moda o di marketing, unapura merce assoggettata a quel regime di manipolazione perma-nente in cui ogni prodotto (e ogni informazione) viene sistemati-camente progettato, subito consumato, ancora riprogettato e cosìall’infinito, come sostiene da tempo un lucido critico della post-modernità come Fredric Jameson?

Si potrebbe provare a rispondere dicendo che per paradosso,proprio grazie all’inagibilità di quello che era una volta il suo incon-testabile regno, per l’indebolirsi dell’estetico come suo sensus com-munis, l’arte è oggi sempre costretta a una difficile verifica dei suoiprocedimenti, a una serie di brusche manovre elusive, necessarie ametterla fuori portata dalla tradizionale cauzione idealistica: essanon “spiega”, “interpreta” o “riflette” il proprio tempo. Non nechiarisce la dialettica, non apporta il conforto di un’illuminazione,non si dispone al commento. Anche per questo gli artisti contem-poranei hanno anzitutto contestato alle immagini la pigra disponi-bilità a essere per l’appunto solo “immagini”, racchiuse nell’arrestocontemplativo e nell’indefinita sospensione dei concetti, forzandoal contrario la compromissione del visivo con gli assi della psichee il corpo, sottolineando le ambiguità e gli automatismi del regimedello sguardo, violandone la purezza e la neutralità con una serie dioperazioni traumatiche. È quanto accadeva nelle azioni di ValieExport, dove la provocazione agli stereotipi della sessualità diven-tava sfida (eroica quanto ambigua) all’ordine costituito: in Aktions-hose Genitalpanik del 1968 la performer austriaca, armata di mitra,offriva al pubblico di un cinema di Monaco il contatto con il suopube scoperto, feticcio (finalmente) sottratto al suo divino isola-mento, alla fissazione masturbatoria, e quindi svelato nella suaimpudica e feroce appartenenza a un corpo intero, dotato di volon-tà e di parola. Il trauma promosso a fattore di trasformazione, laviolenza a terapia, in una inversione estremista che è insieme il mar-chio di un’epoca e la sua eredità più ingombrante.

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Il riflesso condizionato del distanziamento, il distacco senzacorpo dello spettatore kantiano, la rimozione del perturbante dal-la sfera visiva, vengono così precocemente individuati come i prin-cipali bersagli di “operazioni” artistiche che mirano a istituire, piùche un’opera, una percezione del rapporto tra Io e mondo comenegazione e impossibilità, come evaporazione dei ruoli prestabili-ti, come frammentazione e abbassamento e catastrofe del senso.Violentemente dismessi i loro caratteri tradizionali, le immaginitrovano di fronte a sé la parte rimossa del loro apparire, il non det-to che frena la loro ambizione a emanciparsi. Per la norvegeseVikebe Tandberg, ad esempio, questo processo può assumere ainostri giorni le sembianze di un doppio salto mortale all’indietro:incinta, si traveste da uomo vecchio, e indossati gli abiti e lamaschera, si fa fotografare mentre scende una rampa di scale. Sintroppo ricche di citazioni esplicite e no – la storia dell’arte è dav-vero un’infinita ripetizione – le ottantotto fotografie che compon-gono Old Man Going Up and Down a Staircase (2003) si pongonotutte entro una soglia di indistinzione, di sismicità formale e divibrazione informe, in cui la lisi delle categorie, dei ruoli e delledistinzioni (psichici, sessuali, sociali, figurativi), si accompagna aun generalizzato indurimento, a una profanazione della distanza,a una rarefazione espressiva che sfida i tratti psichici e corporei diun’identità (insieme artistica e individuale) di continuo smontatae ricostruita.

Gli artisti ci dicono che oggi non è possibile separare ilmomento dell’intuizione sorgiva, sintetica, da quello della rifles-sione e dello sviluppo, e che è difficile estrarre l’immagine dal con-tinuum dei processi consci e inconsci di individuazione pertrasformarla in una pura richiesta di contemplazione: l’arte è indefinitiva proprio questo processo, è una tensione che attraversa,ravviva e allontana, è una impraticabile totalità di cui non puòessere però tralasciata nessuna parte. Le opere tendono così adecostruire le regole e non solo a prendervi dimora, a sciogliere ilegami più che a serrarli, non a imitare ma piuttosto a sorpassareil mondo. E si comprende anche come un tale spostamento hapotuto mettere in crisi non solo le strutture formali ma di riflessoanche i tradizionali strumenti di decifrazione critica (la genealo-gia dello stile e dell’intenzione, la connoisseurship, la fiducia nella

ricorsività “naturale” dei sistemi simbolici, ecc.), imponendo diripensare tutta l’operazione interpretativa non più come distacca-ta asseverazione a posteriori del “valore”, ma come iniezione dia-lettica che interviene nel vivo dei processi testuali dell’opera, e cheda quest’ultima è costantemente sfidata e demistificata. In questadimensione le immagini dell’arte si sono ritrovate non più forti,ma al contrario indebolite, private d’improvviso degli stigmi chene avevano garantito in età moderna lo statuto “altro”, la salvez-

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Maurizio Cattelan, Spermini, 1997

za rispetto alla produzione di massa, al kitsch, all’indifferenziato.Anche la distinzione tecnica ha perso rilevanza, è divenuta una scel-ta strumentale: ciò che era lenta conquista, costruzione autentica(“la pratica quotidiana della pittura”, ecc.), si trasforma in un gestoimmediato, in un’opzione per il “basso materialismo”: tutte le tec-niche sono possibili, nessuna tecnica è risolutiva. Di qui la necessi-tà di rimettere al lavoro la moralità interna del lavoro dell’arte così

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Ketty La Rocca, Senza titolo (Craniologia), 1973

da far agire la complessità centrifuga di un’immagine fatta di ato-mi in oscillazione, di legami a valenza multipla. Così come di nodimemoriali carichi di giorni, di parole, di fallimenti, di doppi e tri-pli sensi, di stasi e passi falsi, di una durata che tesse insieme ilrovescio e l’ombra. L’immagine diventa così una lente con cuiosservare meglio la sua stessa natura di sinapsi autocosciente, chesi osserva e insieme si costruisce nell’essere osservata. Ancheaprendosi alla possibilità di un’esperienza radicalmente non visi-va, ma non per questo cieca, indifferente ma non neutrale, disper-sa, frammentata, certo, ma disposta in senso dinamico, come inuna sconfinata scena teatrale dove elementi girevoli, immagini,oggetti, messaggi, cose, relazioni, accolgono silenziosamente chine percorra gli spazi.

Perdendo la loro pelle le immagini hanno anche esposto auna luce più cruda e violenta la loro parte nascosta, il loro fon-do enigmatico: l’attrazione e la repulsione costanti tra umano einumano, l’inguaribile ambiguità di ogni segno e insieme lasospensione delle icone sull’arco del tempo, lo scivolare conti-nuo dell’attualità nella memoria e della memoria nell’apparire.In definitiva, l’immagine come dialettica non placata, per ripren-dere il celebre locus di Walter Benjamin, capace di produrre unvuoto attorno a sé, di indurre un arresto, di manifestare unapotenza come superamento costante della regola, inattuale, anti-sistemico, o eccedente i sistemi, sia pur nella misura transitoriaconsentita dai vincoli che tutto legano. L’arte è così diventatadefinitivamente un’antinatura, l’altro, un alieno misterioso cheinfetta e spossessa, una malattia mortale che corrode da dentro,la negazione dello sguardo disinteressato dell’estetica idealista.E nelle sue immagini l’occhio si sporge e insieme si ritrae, si ina-bissa, come nelle disperate Craniologie realizzate da Ketty LaRocca nella fase estrema della sua vita: impressionanti radiogra-fie del suo stesso cranio che portano sovrapposta l’immagine didita o di una mano stretta a pugno – l’immagine fantasma di unfungo atomico che si insinua e moltiplica l’annunciata devasta-zione della carne – e su cui è iscritta la parola «you», altrettanteinvocazioni all’impensabile, rimprovero urlato al muto e spieta-to interlocutore del tempo ultimo.

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Il teatro della memoria

C’è un luogo in cui l’arte ha secolarmente trovato il suo ricettacoloe il suo terminale: il Museo. Ma che luogo è diventato il museo?Cosa era il museo? L’epicentro di tutti i plurisecolari equivoci sullabellezza? Il tempio laico e il deposito della memoria, la palestra delgusto, il pulpito detestabile, o il redditizio attracco dell’insaziabileturismo di massa? Nonostante gli inevitabili trionfi delle sue archi-tetture, i miracoli degli allestimenti, l’efficienza della sua organizza-zione, nonostante il suo indiscusso successo, il museo ci appare oggianche come un luogo opacizzato, dai contorni diventati incerti, nonpiù magico e non ancora prosaico, dove nulla ormai ci trattiene dal-l’abbattere l’ultima barriera, dall’ultimo sacrilego contatto. È a benvedere lo stesso scenario esplorato in un film di Brian De Palma del1980, Dressed to Kill, che sui lineamenti degli attori, sui loro abiti,sugli oggetti e sui colori, porta impresso il momento del trapassosottilissimo tra due decenni. Il regista vi metteva in scena un inse-guimento in un grande museo, attraverso sale grandi o piccole erepentini cambi di scena e di prospettiva. È un meandro percorsoda un crescente turbamento sessuale, rappreso nel trasparente sim-bolismo erotico del soffice, invitante e vaginale guanto perduto, cer-cato e infine ritrovato dalla protagonista nelle mani del suo casualeseduttore, un’immagine che sembra estratta dalla serie di acquefor-ti di Max Klinger Un guanto e a cui potremmo accostare senz’altrole parole di André Breton in Nadja: «Je ne sais ce qu’alors il put yavoir pour moi de redoutablement, de merveilleusement décisifdans la pensée de ce gant quittant pour toujours cette main.»

Più che all’intreccio, bisogna guardare nel nostro caso proprio allascena, al museo come sfondo di apparizioni repentine, di sovrapposi-zioni, echi, meraviglie e oblii senza fine: qui scorgiamo un quadro pop,lì un Mondrian, e poi attraverso una porta Warhol, più avanti Cézan-ne e Picasso. Il museo come metonimia dell’arte, come proscenioindistruttibile e labirinto percorso da violente correnti di desiderio.Ma cosa rappresenta oggi questo scenario per noi? Forse sempre dipiù il luogo dove la religione romantica dell’arte si trasforma nelrituale obbligante del bello fornito a dosi giustamente calibrate, della“visita” come dolciastro surrogato di una irraggiungibile epifania este-tica. Sono questi i temi che affrontava un saggio di Douglas Crimp dal

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titolo inequivocabile: On the Museum’s Ruins3. Il critico americanovi tracciava una storia della missione del museo attraverso lamodernità, dalle sue origini a cavallo tra archeologia e raccolta ete-rogenea (il bric-à-brac riunito da Flaubert a uso dei suoi eroi Bou-vard e Pécuchet, o l’affastellarsi di oggetti preziosi, di curiosità, dibibelot, del Museu Marés a Barcellona), ai ripetuti tentativi di con-ferire al suo ordine una qualità autoevidente (la raccolta di capola-vori) sino all’apoteosi del musée imaginaire di André Malraux, lagalleria di fotografie che annunciava con ironico contrappasso iltrionfo del riproducibile sull’unico, della copia sull’originale: il

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Brian De Palma, Dressed to Kill, 1980

sogno pedagogico (che teneva però l’aura in riserva) si infrangevasulle scogliere della vera democrazia dell’immaginario.

Lo sguardo che penetrava d’infilata le sale dei musei ottocen-teschi equivaleva alla lama di coltello della ragione storicista chetagliava in verticale i sedimenti del tempo alla ricerca di una ratiosuperiore, di quell’essenza sempre sfuggente che rendeva possibi-le pensare all’universo della forma e dello stile come realtà “sostan-ziali” dell’esperienza artistica. Gli spazi zigzaganti del Guggenheimdi Bilbao, il freddo splendore futurista della copertura squamata,le forme tormentate, quasi ci trovassimo sulla scena di un drammaocculto e senza trama però, i contrasti di proporzioni, i vuoti e gliaffacci inquietanti alla Gaudí, sembrano invece destinati a suscita-re nel visitatore un’ininterrotta stupefazione, uno stato emotivo diadesione entusiasta: è come se ci trovassimo nel ventre di una bale-na o forse in quello di un’astronave, e di fronte agli oggetti perlo-più fuori scala che vi sono contenuti provassimo il brivido di uninatteso riconoscimento. La meraviglia sostituisce la lenta ragionedella storia, e l’arte appare come uno sciame di affascinanti meteo-re precipitate a terra con irresistibile violenza.

Sembra insomma che la natura del museo, così come si è andataconfigurando attraverso incessanti trionfi, sia stata come spolpata dal-l’interno da un male sottile, da una caligine che ne ha avvolto i murie corroso gli inderogabili ordinamenti. Un male che si manifesta comeincertezza, come sfocatura: il trionfo della scienza storica, con i suoicartellini, la sua logica, la nitidezza dei suoi impianti ideologici, è inca-pace di produrre il dato originario, l’a priori emozionale, la rivelazio-ne di una natura segreta, o più autentica, quale l’arte poteva essereconsiderata. Questo grande Altro dell’arte è il convitato imbarazzan-te di cui ci siamo volentieri sbarazzati, e che però ci addita anche daassente lo strappo, la ferita inferta nella muta continuità delle cose –l’ombra non metaforica in cui giacevano le opere d’arte prima di esse-re esposte alla luce fredda e uniforme delle pinacoteche.

Ogni riconoscimento implica un rispecchiamento: io vedo ciòche mi rivolge uno sguardo. E il museo, con il suo ordine astratto, lesue categorie e i suoi percorsi, rappresenta infatti per noi l’allegoriareale della nascita e della vicenda storica dell’entità ‘arte’. Il museorifletteva (e riflette) questa ambivalenza: riconoscere, essere ricono-sciuti, e anche riconoscersi. Per interrogare le fattezze contraddittorie,

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l’inerzia e la malattia sottile dei musei contemporanei, e insieme veri-ficare l’equazione della loro utilità e correttezza sociale (in fondoancora ad essi spetta di certificare il ‘valore’ di un’opera), si potràancora una volta ricorrere a un’immagine di Maurizio Cattelan: i suoicani impagliati Morto stecchito [fig. 7] e Good Boy. Sono immagini diuna quiete ingannevole che si rivela ben presto di morte, come se ipiccoli animali, presenze troppo umane e fatalmente commoventi,avessero alla fine raggiunto la loro verità come prefigurazioni deldestino ridicolo di ogni sentimentalismo, esequie grottesche di quel-la religione dell’arte che dall’Ottocento romantico si è trasmessa airiti della piccola borghesia novecentesca e poi alle frettolose epifaniedel consumo globale. Al contrario del cane di terracotta che Ernst H.Gombrich, come leggiamo in Art and Illusion, fu tentato di accarez-zare in un castello inglese (a riprova di una persistenza demoniaca emagica della cosa reale nella sua rappresentazione), quelli di Catte-lan sono corpi veri, e veramente morti, di cui si imita a perfezione lavita: sebbene rimandino a una genealogia iconografica che dalle tom-be medioevali si prolunga nella pittura e nella fotografia contempo-ranea, non sono pure allegorie, e neppure simulacri pop consegnatiall’evidenza indistruttibile delle icone o a uno specifico “raccontosociale”, come accade ad esempio nelle sculture illusionistiche diDuane Hanson. Sono al contrario spoglie sinistre che conservano uneccessivo residuo della vita che li abitava, feticci di un ideale museoetnografico del nostro Occidente, veri e falsi al tempo stesso, pre-servati dall’imbalsamatore per dare l’illusione della vita ma cruda-mente defunti, non riscattati a sufficienza dal loro impiego potenzialein una rappresentazione “moralizzata” della nostra vita. Servono afar sobbalzare lo spettatore impigrito, a risvegliare – come il cagno-lino di Umberto D. – i suoi sensi di colpa. Ancora troppo vivi insom-ma per essere utilmente morti.

I due animali appartengono alla stessa specie di un loro illustrepredecessore letterario, il povero alano Bendicò «da quarantacin-que anni imbalsamato, nido di ragnatele e di tarme», come si leggenelle ultime pagine de Il gattopardo4. Estremo suggello ironico deltramonto e del disfacimento che impregnano tutta la vicenda delprincipe di Salina, alla fine il cane troverà pace «in un mucchiettodi polvere livida». Livida, appunto, come per un riscatto mancato eimpossibile, come un mondo disfatto la cui stessa sepoltura è solo

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occasione per un’esibizione incresciosa. Se il cane impagliato è nelromanzo emblema della fine di ogni illusione, nei lavori di Cattelandiviene un’icona inquietante per additare un distacco, una dram-matica (ancora una volta) perdita di contatto con il reale: la suaapparizione nel museo proietta intorno a sé qualcosa del suo desti-no patetico e falso: qualcosa che ha l’effetto di screditare sottilmentele qualità “oggettive” delle opere d’arte, di cui viene insinuata abil-mente la trasformazione in arredi di cattivo gusto, in fossili di un’e-poca estinta. L’intero museo viene così convocato al cospetto delsuo volto rimosso – la raccolta amatoriale, il gabinetto di curiosità,la vetrina di bazar, il paradiso del dilettante, il supermercato – einsieme messo di fronte all’azione disgregante del tempo e dellamorte sulle sue (e nostre) ambizioni di perennità.

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Hans Jürgen Syberberg, Hitler. Ein Film aus Deutschland, 1977

Ritratto dell’artista da piccolo

«L’artista è l’origine dell’opera. L’opera è l’origine dell’artista. Nes-suno dei due sta senza l’altro.» Il truismo che apre L’origine del-l’opera d’arte di Heidegger potrebbe servire qui anche da mementodi un elemento decisivo della contemporaneità, ovvero che nellacatastrofe delle sue pratiche uno dei temi decisivi dell’arte torna aessere proprio l’Artista, lo “specialista” dell’autoriflessione, tema-tizzato o fisicamente convocato, scacciato eppure sempre prontoa risalire sul suo vecchio palcoscenico. Ed ecco un primo proto-collo per il suo ritorno: smettere di crescere, anzi regredire, ridi-ventare piccolo. In The Matrix Effect (2000) Christian Jankowskimette in scena una riunione ideale di artisti, un’agape contempo-ranea in cui si discorre di immagine, di pensiero, di creatività. Ipartecipanti illustri (John Baldessari, Sol LeWitt, Adrian Piper, tragli altri) sono presenti però solo con le loro parole: il film è inter-pretato da bambini. L’effetto è sorprendente, perché i discorsi bril-lanti, i concetti sofisticati, i racconti suggestivi, pronunciati daattori di sette anni assumono un tono sproporzionato, irresistibil-mente umoristico, ma certo anche imprevedibile e misterioso.Qualcosa di emozionante e di oscuro riverbera dallo schermo: ilpuer in persona, l’artista-fanciullo felicemente ignaro della suapotenza, ci fissa con aria canzonatoria.

Questa eterna infanzia dell’artista, specchio bugiardo delle sueillusioni, è un altro motivo fondamentale per Maurizio Cattelan.Come in Charlie, ad esempio, un manichino radiocomandato –replica perfetta, a parte la faccia, del piccolo sensitivo Danny diShining di Stanley Kubrick – che alla sua prima uscita attraversa lesale della Biennale di Venezia, gremita di visitatori convenuti per l’i-naugurazione. Il piccolo robot gigioneggia, si mette in posa, sorri-de, non si fa acchiappare. Fuggire, nascondersi, rimpicciolirsi,mimetizzare la propria immaturità in un minaccioso mondo diadulti, come il Gingio di Ferdydurke. Il tema fondamentale diWitold Gombrowicz torna così non inaspettatamente ad affacciar-si: immaturità come sintomo di un disadattamento personale esociale (l’inabilità produttiva, la vocazione mancata, come tante vol-te Cattelan ricorda nelle interviste: «Sono stato un fallito per lamaggior parte della mia vita»), ma anche come chance, come con-

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vocazione dei poteri demoniaci dell’infanzia, della sua onnipoten-za, della sua innocente perversione.

Il gioco può essere spinto fino al punto di far apparire l’arche-tipo di ogni autoassoluzione, il nerissimo impasto vivente di odio,furore, ambizione frustrata e vocazione fallimentare, il mago delkitsch e della seduzione, colui che ha infettato e per sempre retro-spettivamente compromesso ogni romanticismo, ogni idea di sal-vezza attraverso l’arte: Him. Proprio lui. Per tragica antonomasia,ovviamente, Hitler in persona, rimpicciolito alla taglia di un bam-bino, inginocchiato a mani giunte (agnizione terribile, a ben vede-re; lui dovrebbe stare all’inferno, ma se è qui, in che posto siamofiniti noi?) Hitler che recita la parte del redivivo? Un anacronismo,un ennesimo fantasma. Si pensa subito al film straordinario di HansJürgen Syberberg Hitler, Ein Film aus Deutschland (1977) e allamarionetta che interpreta i discorsi del suo alter ego in braccio alsuo ventriloquo, sporgendosi da un palco immaginario o dal suoavello infernale: «All’inizio tutti ridevano di me. Ora pochi rido-no, e presto non riderà più nessuno!», dice sinistro. L’invenzionedel regista tedesco (la moltiplicazione di Hitler sullo sfondo nerodel film, incarnato ora da un attore grasso, ora da un pupazzo, oancora evocato da un filmato, da una voce senza corpo, da unafotografia) approfondisce e rafforza la forza oggettivante dell’im-magine cinematografica, permette di conferirle insieme la fissitàripetitiva del sogno e l’obiettività del reportage e del documenta-rio, mescolando genialmente epica e realismo, straniamento e par-tecipazione, pathos e secchezza filosofica. Le immagini (le parole,gli slogan, i simboli nazisti) vengono così tratte fuori dall’oscuritàtutte intere, e insieme già vecchie, già consunte, viste però con gliocchi di chi non può assistere indifferente alla loro ultima chiama-ta, alla loro trasformazione in morbidi simulacri, e si ribella confoga etica contro la loro deriva verso il patetico, il consolatorio, l’i-noffensivo, verso la falsità oscena del revival.

Come nel capolavoro di Syberberg, il piccolo Hitler di Catte-lan richiama una sostanza che lo oltrepassa, «una presenza spet-trale nella cultura moderna, un principio del male proteiforme chesatura il presente e ricostruisce il passato»5, come scriveva SusanSontag nel saggio dedicato all’opera del regista tedesco. Ma conuna differenza sostanziale. Tra la pellicola del 1977 e la “scultura”

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del 2001 la ruota della storia ha compiuto un giro; mille anni dopo,Hitler non è più il revenant maledetto, ma un’icona tra altre mille,un trofeo ammutolito, una comparsa su una scena affollata. Un’im-magine di terzo grado, la cui natura irrimediabilmente ambigua esi-bisce la propria contraddizione, la propria avvelenata innocenza.Un frutto tossico della smaterializzazione, della molle adattabilitàdei simulacri. Come spesso accade nelle immagini di Cattelan, ilpiano dell’esperienza immediata taglia di traverso gli altri strati,

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Maurizio Cattelan, Him, 2001

rimescola i sensi, intorbida le memorie, ci rende più dubbiosi: ilGiudizio Universale con Hitler bambino al posto di Cristo? L’in-fanzia può essere menzogna, l’irresponsabilità vizio: il Male è tor-nato, e ci chiede perdono.

Con Hitler e con Charlie, con i suoi Mini-me, le sue maschere,i suoi identikit, Cattelan va componendo il Bildungsroman di unamaturazione definitivamente rinviata, il cui esito prevedibile è losmarrimento, la confusione, l’inadeguatezza alla vita adulta, un’e-sistenza improduttiva: «Per me l’idea di non lavorare ha sempreavuto a che fare con la paura dell’insuccesso», confessa in un’in-tervista. Ed è certamente paradossale che questi stessi caratteri sia-no stati alla fine tra i motivi del successo globale di Cattelan, negliultimi quindici anni certamente l’artista italiano più noto a livellointernazionale e uno dei più apprezzati dal mercato. Condannatoa mentire, l’artista non potrà insomma che essere un evaso, un clan-destino, un ricercato, un rivoluzionario pentito, un cinico affabu-latore o un venditore di sogni, tutte queste cose insieme, e sul serio.Un cerchio si è così completato. Avevamo iniziato dal basso, dalmuseo, siamo giunti alla tragedia della storia, e ora l’ascesa è diven-tata una regressione, l’adulto si è trasformato di nuovo in bambi-no, la brama di possesso in disillusione, e in cinismo. Estranei,allora, più che indifferenti, perché proiettati (o gettati o confinati)in una dimensione lontana e inaccessibile, sconfitti, ma ancora trop-po coscienti. Come si è visto a Milano il 6 maggio del 2004: trebambini impiccati (ma non morti, anzi, vigili, a occhi aperti) allaquercia di piazza XXIV maggio. Tre fantocci scalzi, vestiti con abi-ti casual come manichini di un grande magazzino. Impiccati, lin-ciati come i banditi di un film western all’albero più vicino, o comein Pinocchio, dove proprio l’impiccagione del burattino conclude-va tragicamente la prima versione del libro: «gli legarono le manidietro le spalle e passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, loattaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quer-cia grande», racconta Collodi. (Un caso da manuale di provoca-zione, dagli immancabili effetti: una bufera di proteste, prese diposizione, petizioni, condanne sommarie, indignazioni. La serastessa un cittadino recide le corde. I tre “bambini” sono salvi!).L’infanzia condannata a morte, e ancora scandalosamente viva,osserva e giudica i suoi ipocriti genitori, magari suonando un tam-

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buro di latta dall’alto di un tetto, come fa l’ennesimo automa cat-telaniano – estratto di peso dal romanzo di Günter Grass –, il pic-colo Oskar che di fronte al mondo impazzito, alla storia tragica eviolenta del Novecento (e del Duemila), può opporre solo la suavocetta stridula, il suono delle bacchette sul tamburo, e soprattut-to la sua testarda volontà di non crescere mai più.

L’arte sembra possibile oggi solo come operazione al nero,come alchimia malinconica, al cui centro si scontrano la paralisidell’azione e l’anatema del desiderio, la sensibilità ulcerata e l’a-nestesia, tratti contraddittori di una condizione per tutti in qual-che modo obbligata, appuntamento inevitabile col tempo cheattraversiamo, ma anche risorsa segreta, e inevitabilmente ambi-gua, cui gli artisti possono attingere. Questo doppio impulso, que-sta doppia tentazione, è trasformata da Diego Perrone in unascommessa che sembra rinnovarsi a ogni nuovo progetto. La suaFusione della campana è un racconto epico rappreso sui profililucidi e aguzzi di una grande forma in vetroresina che ci costrin-ge, per essere afferrata, a una complicata contorsione mentale: è lacavità, lo stampo in cui verrà colato il metallo, è l’esterno di que-sto stampo ambivalente estratto dalla terra (un po’ come i moulesmâlic, gli “stampi maschici” che appaiono nel Grand Verre diDuchamp, mostrano il loro mantello indecifrabile e celano l’in-terno), è il volume imponente con cui si presenta ai nostri occhi,completato all’esterno dall’efflorescenza enigmatica dei canali difusione. E questa serie di permutazioni plastiche e funzionali,incrocia l’altro percorso, quello del giovane apprendista fondito-re diventato maestro per caso e per necessità, e della crisi e dellaredenzione del pittore Andrej Rublëv raccontato da Andrej Tar-kovskij nel suo film omonimo. La costruzione della campana è unaprova iniziatica, una scommessa contro il destino, il passaggio dal-l’indistinzione all’identità. Il giovane e il vecchio, la fecondità el’improduttività, l’entusiasmo e il disinganno si fronteggiano nelfilm come facce di uno stesso dilemma, come forme di un mede-simo dramma – che è sempre la creazione, l’arte, l’avventura crea-tiva –, trasformando il fiore nero di Perrone nel monumento allaconquista di un futuro, nel pegno di una trasformazione che appa-re sempre insidiata dal fallimento e dalla caduta.

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Il grumo di diagnosi, dubbi, urgenze e difficoltà che abbiamocercato di esplorare costituisce in effetti la materia stessa di ciòche sembra venire dopo la “fine” dell’arte. Dell’orizzonte attua-le di un’esperienza postuma che ripensa in forme nuove le pro-prie aporie, e ciò facendo le distrugge e le rinnova senza posa,consapevole di vivere in un tempo dominato dal principio di pia-cere, da una smoderata ricerca del suo soddisfacimento che la faapparire, con tutte le sue ambizioni di verità e necessità, con lasua morale esigente, un relitto patetico, scomodo, retrogrado.Screditata, come ricorda la filosofia di Danto, la sfera dell’ap-prezzamento estetico, ridicolizzato il classico Genuss, l’assapora-mento (delle forme, del bello), nell’arte si deve rendere

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Diego Perrone, La fusione della campana, 2004-05

trasparente l’assuefazione alla meraviglia, la pigrizia e la conven-zionalità dei giudizi, la ricerca feticistica dell’emozionante e delraro, il suo stesso pseudomito. Ma l’arte è anche ciò che resta, èuna radura, un’impronta fragile, uno stampo incrinato che puòsbriciolarsi a ogni momento, è uno svago infantile pericoloso ecrudele, una corsa a ostacoli e una festa già finita: compito del-l’artista sembra essere precisamente quello di svelare questo gio-co, irridendone le regole insensate ma ostentando in modocontraddittorio l’invincibile desiderio di farne parte, di ritrovar-ne l’antico potere, immerso in quello spleen impersonale, checome scrive Susan Sontag è lo stile degli ultimi romantici soprav-vissuti alla catastrofe dell’utopia. Forse alla fine, per noi spetta-tori, quest’arte sconfitta rimane nonostante tutto un’esperienzanecessaria, la migliore dimostrazione dell’impossibilità del pro-verbiale proposito scolastico di imparare a nuotare prima diavventurarsi nell’acqua.

NOTE

Una prima versione di questo testo è stata pubblicata ne «il Caffè illustrato», n. 23(2005).

1 Il lavoro è stato installato al Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam nel 2001.2 Giorgio Verzotti, Maurizio Cattelan, in Maurizio Cattelan, Castello di Rivoli, Charta,Milano 1999, p. 46.3 Douglas Crimp, On the Museum’s Ruins,, The MIT Press, Cambridge-London 1993.4 Cfr. Francesco Bonami, Static on the Line: The Impossible Work of Maurizio Cattelan,in Maurizio Cattelan, Phaidon, London 2000, p. 81.5 Susan Sontag, Syberberg’s Hitler, in Under the Sign of Saturn, Farrar, Straus & Giroux,New York 1980 [trad. ital. Hitler secondo Syberberg, in Sotto il segno di Saturno, Tori-no 1982, p. 123].

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vedovamazzei, My Weakness, 2000

IN DIVERGENTE ACCORDO: VEDOVAMAZZEI

«Ho tanto desiderato questa ghirlanda di vento e di sale, questependici che lenirono il mio corpo»1. E allora anche diciotto vecchimaterassi sono un giusto podio per una vittoria. Lisci o grinzosi,sottili, spessi, bianchi, verdi, rosa, azzurri, vecchi, anonimi, nuovio consunti: strana cima questa, di stoffa, gommapiuma, lana, cor-da e chissà cos’altro, e singolare trofeo la bicicletta da corsa, quel-la bicicletta, che vi sta delicatamente poggiata sopra conun’inclinazione stanca verso il muro, incongruo memoriale a unavittoria mancata. La terrestre apoteosi di Fausto Coppi, la gloriastrappata coi denti, o anzi ancora la derisoria celebrazione dellafama, con la Bianchi Campagnolo dal telaio verde acqua, il manu-brio fasciato di bianco, il cestino per la borraccia e le gomme bico-lori, l’icona umile del campionissimo – alla fine, ironicamente, ariposo –, che può confessarsi in prima persona: La mia debolezza.Ecco davvero un titolo esemplare per vedovamazzei – il nome concui firmano ormai da un quindicennio i loro lavori Stella Scala eSimeone Crispino –, con il suo accennare a un destino in quel loromodo sottilmente crudele e così tipico di complicare, di renderepiù duro, più esigente anche, l’effetto sugli spettatori. Con la suaapparente familiarità, questa scultura-installazione del 2000 con-voca uno spessore di esperienza, un paesaggio, un fondo di memo-ria: il Monumentino di Michelangelo Pistoletto, ad esempio, chenel 1968 erigeva un piedistallo di stoffe multicolori sotto una vec-chia scarpa risonante di echi, da van Gogh ad Heidegger. Ma l’o-perazione non è nostalgica: ogni oggetto di affezione è semprepotenzialmente il bersaglio del sarcasmo di vedovamazzei che celo presenta, alla fine, come se nulla fosse, imbevuto di quel cinismo

innocente che ritroveremo spesso nel percorso dei due artisti, pre-sentato col tono compromettente di una illuminazione. Che poiequivale anche a farci pensare o ripensare al potere dell’arte disuscitare nuovi simboli e di offrirli come complicazione dei signi-ficati del mondo, al senso di una memoria insieme celebrata, cal-pestata e respinta; quella dell’Italia contemporanea certamente, contutti i suoi recessi oscuri, il suo fiato corto, la sua indisciplina edevastazione politica, la sua smemoratezza, e infine, con aumenta-ta durezza, alla stessa legittimità dell’artista a rappresentare il trat-to d’unione, il denominatore, la voce in comune. Fausto Coppiallora, declassato a personaggio di fiaba, troppo delicato e sensibi-

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vedovamazzei, Afterlove, 2003

le per non sentire come un tormento l’unica, insignificante protu-beranza sotto il suo giaciglio, ma anche promosso a personifica-zione dell’artista, per il quale la fatica, il sacrificio personale, lacaparbietà, la capacità di concentrazione, e dunque anche la mania-calità e l’insoddisfazione, divengono la garanzia di una verità per-sonale e insieme la più sicura condanna alla solitudine e all’oblio.

Ma ciò che difende serve anche a rimuovere. I materassi di MyWeakness equivalgono anche al peso di un’erudizione ingombran-te, a un sentimento archeologico, alla malinconia di cose troppovissute, a un filtro posto tra sé e il mondo. Il loro spessore si oppo-ne a ogni illusione di superiorità morale, è una zavorra di cui nonci si riesce a liberare, il ventre pieno di una storia che seguita asecernere i suoi veleni. E se il tema dominante è in quest’opera lastanchezza, e certo non il riposo, che sappiamo essere del restoimpossibile, quel che ci viene presentata è una dimostrazione delmodo assai particolare benché sfuggente e difficile da definire concui vedovamazzei produce e pensa la sua arte. Una biciclettadimenticata su una pila di materassi può valere in effetti anchecome una specie di dichiarazione di metodo: operare nello spaziovuoto tra il gioco linguistico del ready made e la risonanza incon-scia dell’oggetto trovato, e quindi proiettare il tutto sul prosceniodi un’intenzionalità opaca, in cui assistiamo a una svalutazione delgiudizio visivo e del significato, a un contraddirsi continuo che tra-scina via le nostre aspettative e soprattutto quel fondo di speranzapedagogica che l’arte sembra sempre portare con sé, quella tessi-tura umanistica che appare spesso oggi l’ultima risorsa per un gustogiunto ormai alla disperazione.

Sono temi questi che ritroviamo anche in un lavoro come AfterLove (2003), di cui proprio l’incapacità di apprendere dai proprierrori e l’umana, costante tentazione a riporre ogni fiducia in unmodello astratto, ancorché erroneo e fallimentare, rappresentano lecoordinate poetiche e concettuali. Il punto di avvio è scelto consottigliezza: il cortometraggio di Buster Keaton One Week (1920),vicenda comica della costruzione di una casa prefabbricata, regalodi nozze, realizzata con istruzioni intenzionalmente alterate da unrivale. Alla fine, il risultato è prevedibilmente deforme, inutilizza-bile. Ma ciò che nel film muto è solo l’esito scontato di una comi-ca peripezia, nell’opera di vedovamazzei rappresenta la realtà

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concreta, inalterabile e definitiva con cui è necessario misurarsi. Sein ogni avventura umana il ridicolo è sempre in agguato, la casettatutta sbilenca è anche la prova di una catastrofe incombente pertutti, comica e tragica insieme proprio perché invariabilmentedestinata a ripetersi, simbolo concreto dell’inefficacia di un mododi agire e di pensare che non prende in considerazione la possibi-lità del proprio fallimento, né sa porvi rimedio.

Le istruzioni possono essere sempre sbagliate, così come legerarchie false e le vittorie illusorie, e forse è questo il motivo percui l’esperienza accumulata da vedovamazzei non può trasferirsi inuno stile, non diventa uno stampo, una matrice di ripetizioni, maagisce semmai come messa in guardia permanente, come pungoloe memento. Che interesse ci sarebbe del resto a ripetere ciò che siè già dimostrato di saper fare? E soprattutto ciò che si è dimostra-to di saper sbagliare? Questi appena passati in rassegna sono anchedue validi esempi del “metodo” vedovamazzei, metodo empiricocerto, che impone ai suoi praticanti di abbandonare sempre ciò chesi è fatto per iniziare da capo, da un nuovo punto di partenza. Con-tro l’abitudine a considerare l’arte dal punto di vista della costan-za e della ripetibilità dei suoi risultati nel tempo, vedovamazzeipratica in effetti una costante e benefica svalutazione dei proprisuccessi, una liquidazione anticipata che serve a garantire in realtàla vitalità dell’impresa. Anche quando usa mezzi solo in apparen-za più “tradizionali” quali pittura o disegno, come accade ad esem-pio in un gruppo di quadri del 2006, da cui isoliamo l’episodiocupo e intenso di Falconer (che non a caso porta come titolo ilnome di una prigione), la più grande cura è riposta nell’impedirela deriva in uno stile, in una genealogia ordinata. Sono questeimmagini tanto cariche di suggestione quanto difficilmente ricon-ducibili a una consolatoria “qualità” pittorica, e deludenti anchesotto l’aspetto della continuità: potrebbero essere le ultime comepure le prime. Il quadro manca di autonomia, la qualità necessariaa riscattarlo dalla sua insensibile materialità, non si iscrive in un’e-stetica, in una retorica: crea un’aspettativa e la delude, suggerisceuno sviluppo e lo interrompe. Potremmo vedere in questo ancheuna terapia contro la facilità, la generosità interessata della mano,che per vedovamazzei – che di mani ne ha quattro – rappresentauna rinuncia non facile ma indispensabile.

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Ciò che abbiamo appena chiamato “metodo” appare a questopunto solo la parte emersa di una massa che rimane invisibile sot-to il pelo dell’acqua, qualcosa che riguarda l’identità e la posizionereciproca di Stella e Simeone, il loro costituirsi assieme come indi-vidualità artistica, la loro modalità di relazione interna. Va da séche la coppia non è qui da considerare semplicemente come la som-ma economica di due forze lavoro, di due diverse specializzazionimesse in comune e fatte debitamente fruttare. Il vero problema nonè tanto scindere vedovamazzei nelle componenti atomiche Scala &Crispino, ma ottenere da queste l’entità finale, sondare lo spaziovuoto che separa le biografie dall’opera, l’intenzione dalla firma.Occorre insomma affrontare la coppia come un tema e un antide-stino per poter paradossalmente fare la biografia dei suoi costi-tuenti elementari. La coppia è qui il problema e non la soluzione.

What’s in a name

Il destino nel nome. In un nome? Questo almeno si potrebbe direse la genealogia e l’onomastica fossero almeno formalmente rispet-tate. Ma il tentativo vale comunque la pena di compierlo, concen-trandoci per ora sull’unico dato in nostro possesso: Vedova Mazzeiappunto. “Qualcuno” che esiste solo come sopravvissuto alla scom-parsa di qualcun altro che ha solo fatto in tempo a fornire unanominale identità. La vedova, l’assentata, la disertata. Vedova irri-mediabilmente mutila del suo nome proprio e consegnata allarubrica della mancanza, della vita-a-metà. Nulla sappiamo del con-tumace Mazzei, ovviamente, il quale del resto ha fatto la sola cosache poteva ragionevolmente fare, e cioè togliersi di mezzo. Chirimane, la vedova, è dunque la parte superstite di una coppia ormaiforzosamente sciolta: condizione piuttosto raggelata, e certo pocopropensa alla produzione di nuova energia, senza pensare per oraall’altra tipologia vedovile, quella “allegra” intendo, che pure la suadiscreta fortuna ottiene nella vita come nell’arte.

Sarebbe forse utile a questo punto redigere una coerente feno-menologia della Vedova: colore nero, abiti a lutto, veletta e rosa-rio, fiori, camposanto, veglia funebre, famiglie schierate,fotografie, silenzio, ancora silenzio, e magari anche un certo lan-guore, una patina di stanchezza femminile, un abbandono cinico

e vittima allo stesso tempo, con quel po’ di margine di profittabi-lità che renda la storia pungente e l’involontario accento macabroche tutto questo inevitabilmente prenderebbe (e viene in mente,com’è stato già da più parti notato, proprio la fresca vedova e lavedova allegra che Duchamp accostava con ironia abissale nel suoready made Fresh Widow, solcato dall’ombra sinistra della mac-china celibe nonché veuve per antonomasia: la ghigliottina). Mavedova, per noi appassionati di analogie, è non solo figura bril-lante o patetica, amara e realistica, ma anche allegoria dell’imper-fezione, dell’incompletezza, parte superstite, se si vuole, di quellacondizione da sempre vagheggiata, mito tra i più resistenti, del-

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vedovamazzei, Radiografia di Pinocchio, 1992

l’essere perfetto, dell’androgino: agognata consolazione di ogninarcisismo. L’altro, l’altra, uniti con una specie di zip invisibile,essere bifronte, mostro come nessun altro. Insomma parlando divedovanza non si può fare a meno di pensare a una pienezza per-duta, tenuta come sfondo, trasformata in ironico basso continuo,tipicamente scordato e gracchiante, o magari epitomizzata nellaforma efficace come un talismano, di una targhetta di ferro smal-tato che in un ipotetico futuro catalogo generale varrebbe sen-z’altro come fatidico numero 1.

E comunque sia, a dar retta a una o l’altra delle versioni mito-logiche sul suo ritrovamento fornite dagli artisti, questo nome haevidentemente la forza persuasiva del caso necessario, quella formaplastica di fatalità che i surrealisti avevano per tempo riconosciutonei fatti qualsiasi della vita quotidiana, soprattutto quando que-st’ultima intreccia il suo tracciato imprevedibile al corso dellavolontà d’arte. Porsi sotto il segno di questa dualità imperfetta, anzirecisa in anticipo, di una non conoscenza, o meglio di uno scaccopermanente del senso, risulta oggi come vent’anni fa il vero diapa-son su cui la società artistica Scala & Crispino seguita a intonare ipropri strumenti. Ed è evidente che già riflessa nel nome c’è tuttala problematicità dell’essere-coppia, posta sotto il segno, lo abbia-mo appena detto, di una mancanza originaria, e anche dell’effettoimplacabilmente rigoroso del tempo che alla fine la dissolverà:come osservava Giacinto di Pietrantonio nel 2004, vedovamazzeipiù che una coppia è un’unità, «una ex coppia, una coppia che met-te fine alla coppia»2, al cui centro sta iscritta la dualità cosmica etragica vita/morte, la grande V e la grande M che ritroviamo oraaddomesticate nella forma ormai umanamente corsiva di vedova-mazzei. Un nome, ma anche la loro la prima opera.

Se il nome contiene e proietta l’origine nel futuro, gli artisti incarne e ossa hanno trasformato a loro modo la “coppia” in un moti-vo della loro opera, come possiamo ad esempio osservare nelleMaschere del 1992 che moltiplicano e disperdono le loro fattezzetra gli spettatori, o in Simeone fa Dracula. Stella fa Stella, un dise-gno dello stesso anno che mette in scena uno dei più tipici plot adue – la vittima e il suo carnefice legati al doppio filo del bisognoe dell’abbandono, della ripetizione e del momentaneo scioglimen-to. La vignetta ingrandita, ricavata da un fumetto di qualche fama,

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Dylan Dog, appare quasi una sorta di confessione e insieme dimanifesto, soprattutto se le parole che vi appaiono in basso – «fan-tasia tremenda… crudeli libertà» – sono interpretate come allusio-ni al processo psichico di creazione.

D’altro canto la scena della coppia, apparentemente immobile,in realtà muta, si evolve, ha uno sviluppo storico, produce un pro-prio sistema di classificazione e conoscenza. Questo è il tema diuna delle opere più singolari e rivelatrici di vedovamazzei, quellaStoria naturale composta da più di quattrocento acquarelli riunitiin volume nel 20033. Già dal sommario è evidente il tono parodi-co-serio con cui si è proceduto a comporre l’insieme; le varie sezio-ni sono in effetti accuratamente numerate e suddivise in capitolidai titoli eloquenti: ordinamento sistematico del mondo vedova-mazzei, fondamenti dell’organizzazione del corpus di disegni, gli orga-ni riproduttivi degli artisti e le loro funzioni, ecc. Se ciò chesfogliamo è una «sorta di tassonomia della specie vedovamazzei»4,articolata nelle sue interfacce interne ed esterne, nei suoi organi disenso e di pensiero, l’oggetto di studio rimane nondimeno sfug-gente, enigmatico. Abitando lo spazio mediano tra S. e S., la crea-tura bifronte e androgina che i due artisti sintetizzano nel lorolaboratorio rimane inaccessibile al loro sguardo e può essere solointravista dall’esterno, dal nostro punto di vista di spettatori curio-si. Una sezione del libro attira in particolare l’attenzione, quellaintitolata Desiderio di violenza reciproca: un’indicazione precisa chenon nell’accordo ma precisamente in una tensione regolata da unadinamica sadomasochista va ricercata la chiave della coppia vedo-vamazzei, il deposito dell’energia necessaria al suo costante rinno-vamento. Sadomasochismo inteso qui non tanto come cerimonialeerotico ma più propriamente come modalità psichica del desiderioe dell’immaginazione, pratica di rovesciamento e disarticolazionedella gerarchia morale, come processo di potente e continua con-versione non solo del dolore in piacere, del dominato in dominan-te, ma nella fattispecie dell’astratto in concreto, dell’inespresso incompiuto, della mancanza d’opera in opera, del mutismo in lin-guaggio, appunto. Crudele diventa allora il carattere proprio di unaparticolare relazione dialettica con l’altro che contempla a motoalterno il negare se stessi e l’appropriarsi di tutto, un movimentoche diventa al tempo stesso motore dell’immaginario artistico e

attributo dell’opera, suo carattere intrinseco e suo interpretante.Sin dai momenti iniziali del suo percorso, la crudeltà e il con-

flitto sono così un marchio distintivo di vedovamazzei, ciò chestruttura la sua relazione col mondo esterno e con lo spettatore. Ilcomico e il grottesco, l’osceno e l’insensato, il violento e il perver-so, saranno gli strumenti attraverso cui procedere a un’accuratamessa a nudo delle convenzioni e degli inganni, iniziando da quel-li dell’arte, con cui aggredire la falsa sensatezza e il finto equilibrio,sapendo però che nel processo si è coinvolti sino al collo e in pri-ma persona, perché ciò che si combatte è già dentro di noi, siamonoi, e che ciò che ci respinge è fatalmente anche ciò che ci attira di

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vedovamazzei, Isn’t it Romantic, 2004

più: come già Paolo nella Lettera ai Romani, vedovamazzei potreb-be esclamare «non riesco a capire neppure ciò che faccio: infattinon quel che voglio io faccio, ma ciò che detesto»5.

Forse possiamo a questo punto spingerci un po’ più avanti nel-la nostra analisi della specie vedovamazzei cogliendo in questomodo inverso e invertente di vedere e pensare una modalità diinterfacciamento che dal gioco a due si trasmette a tutto il pianodell’esperienza creativa, che aggredisce l’arte come pseudofinalitàe che pone invece al proprio centro il problema di una generaliz-zata crisi del senso cui occorre rispondere con una nuova configu-razione del soggetto che comprenda in radice il potere dellaviolenza e la sua seduzione, la volontà di appartenere e quella diliberarsi, per poter trasformare le pulsioni in un flusso di energiapoeticamente utilizzabile. Focalizzando nell’altro al tempo stessol’avversario e il complice, la vittima e il carnefice, ogni metà denun-cia i propri limiti e li rimette in gioco: nelle settantuno tessere checompongono nel 2004 il mosaico di segni delicati ed effimeri deiCalifornian Notebooks il tema è proprio l’impossibilità e insieme lanecessità di tradurre ciò che l’altro vede e pensa, di creare un codi-ce comune ancorché segreto con cui comunicare nel momento incui le vite di Stella e Simeone prendono strade divergenti, la primaa Los Angeles, il secondo a Milano. È ancora la dinamica segretadella coppia ad agire qui, ma ora nella forma mediata di un epi-stolario che ripercorre a memoria (e dunque in termini necessaria-mente antiromantici) i loci del genere, prima di tutto la lontananza.

Ponendo la propria origine in una dialettica di uguali che si dis-putano il diritto a parlare, a nominare le cose, a ottenere l’atten-zione e le risposte indispensabili, vedovamazzei colloca il propriobaricentro creativo sul terreno scottante dell’identità, della rela-zione, della pluralità e della storia. E qui incontra un Io scisso, inconflitto con se stesso, alla deriva tra istinti antagonisti, tra un codi-ce del desiderio che contempla l’impotenza e l’annullamento e uncodice dell’arte che si sottrae alla seduzione, che sfugge e recalci-tra. La coppia non è più una coppia, è diventata un duo.

Questa origine che comprende e anticipa la sua fine è peròanche un pronostico per conquistare il futuro. Se nel gennaio del1991 la decisione di formare a Napoli l’entità vedovamazzei equi-

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vale a un gesto di calcolato azzardo, a un primo passo su un terre-no ignoto, dobbiamo misurare oggi anche la qualità propriamentepolitica di quel passo. All’indomani della caduta del Muro di Ber-lino e della fragorosa quanto inattesa chiusura del secolo breve,dopo un decennio di ebbrezza economica e di esaltazione di unasoggettività “ormai” libera, appagate le ansie liquidatorie nei con-fronti della conflittuale eredità dei decenni precedenti, la scelta diridiscutere il senso dell’identità artistica, di reinventare i limiti del-l’individuo nel suo punto di massima esposizione, l’autore, diveni-va una vera e propria necessità strategica. Per gli artistiriconfigurare la propria soggettività costituiva anche una risposta inqualche modo obbligata per riconquistare uno spazio politico persé e il proprio lavoro dopo il brusco ripiegamento dai progetti uto-pici di liberazione e una stagione segnata da un ritorno all’artecome pratica autosufficiente e ultraindividuale. La delegittimazio-ne del mestiere, dell’“espressione” e dell’estetica, la messa a distan-za della citazione e del pastiche, l’accento sulla politicitàdell’esperienza – tutti sintomi che affiorano simultaneamente nel-le ricerche artistiche tra Europa e America –, erano spie inequivo-cabili di un mutamento di corso.

Tra anni ottanta e novanta, è la reificazione delle forme culturalia costituire il punto centrale della riflessione di artisti e critici, sullosfondo di una ormai compiuta metabolizzazione di forme di criticapostmodernista delle narrazioni e delle rappresentazioni come la teo-ria di genere e la institutional critique. Alla capitalizzazione della cul-tura e alla privatizzazione della società, alla trasformazione del sistemadell’arte in un’industria culturale stabilmente inserita nell’universospettacolare dell’entertainment, alla supposta “fine della storia” e del-la lotta di classe, corrisponde il tempo dell’impulso allegorico, come lochiama Craig Owens, vale a dire una serie di strategie di «appropria-zione, site-specificity, impermanenza, accumulazione, discorsività, ibri-dazione»6 che puntano a mettere in questione l’assetto simbolico,totalizzante, trascendentale, utopico, della visione modernista. Gliartisti pongono al centro della loro indagine la relazione tra un sog-getto non più neutro, bensì portatore di differenze (sessuali, etniche,economiche ecc.) e un contesto dell’arte pensato come una rete dis-corsiva che include spazi reali, istituzioni, pratiche, poteri, accen-tuando la decostruzione dell’identità personale, scandagliando la

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psiche e il corpo, scendendo fino alle cellule e ai cromosomi se neces-sario, per risalire alle relazioni collettive, sessuali ed economiche,oppure esponendo e amplificando le componenti mortuarie, fetici-stiche, perverse, proprie del mondo tardocapitalista7.

Se questo è lo sfondo generale, la prima parte del percorso divedovamazzei, esso non può non essere letto anche sullo sfondodei convulsi mutamenti che interessano l’Italia nello stesso perio-do; anni di una difficilissima (e interminabile) transizione politicae sociale, con la fine dei partiti di massa tradizionali, il sussulto del-l’inchiesta Mani Pulite, l’affermarsi di un’Italia profondamente

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vedovamazzei, Go Wherever You Want, Bring Me Whatever You Wish, 2000-04

diversa, certo lontana dalle tragiche passioni che l’avevano segna-ta nei decenni precedenti, dove il progressivo restringersi della“società civile” lascia ormai libero corso al dominio dell’atomizza-zione ultraindividualista, del consumo e di un intrattenimento tele-visivo di massa pronto a trasformasi in strumento di propaganda econsenso politico8. Appartenenti a una generazione che ha avutosempre un rapporto difficile e in fondo mancato col proprio tem-po, presa com’è in mezzo tra l’entusiasmo del ’68 e la disillusionedegli anni ottanta, Stella Scala e Simeone Crispino hanno creatovedovamazzei anche come uno strumento per ricostruire una rela-zione critica con le loro radici italiane, un’interfaccia sensibile attra-verso cui mettere a fuoco un’identità e una memoria condivisa, pertrasformarle in punti di resistenza, in strumenti di lotta, in combu-stibili del lavoro.

La difficile difesa delle ragioni dell’arte dovrebbe diventare inquesto quadro impresa condannata in partenza, risibile in un cer-to senso, soprattutto se alimentata da ragioni sentimentali, da unattaccamento che in ultima analisi è proprio ciò che le corrosive for-ze del capitale mirano a sfruttare per poter operare ancor più effi-cacemente (e si veda a questo proposito, tra i diversi esempipossibili, il video del 1997 God Save the Queen, in cui assistiamo,come in un maligno gioco di specchi, all’improbabile innesto del-l’inno-feticcio inglese nel corpo della più pura tradizione popola-re italiana, attraverso la versione avvelenata delle icone del punkinglese, i Sex Pistols, divenuti nel frattempo a loro volta materia dicitazione e di innocua strizzatina d’occhio). Per praticare la difficilearte della sopravvivenza occorre allora diventare cattivi, adottareuna strategia aggressiva ed esatta, impietosa in primis con se stes-si: impedirsi di sorridere per ridere sfacciatamente, vietare la faci-le consolazione, le certezze accoglienti. Se si deve parlare diviolenza quotidiana, di stupidità, di sacrifici inutili, di drammi trop-po ordinari, lo si farà senza facile pietismo e anzi utilizzandone alcontrario i simboli più smaccati, come quei fiori coloratissimi eincongrui che invadono lo schermo nel video Don’t Take Your Gunsto Town, presentato per di più nella forma fastidiosa di un karao-ke che inevitabilmente banalizza un venerato classico della canzo-ne “d’autore”. La comicità, l’aggressività, lo humour nero,l’intrattabilità, la ribellione istintiva, l’amore per il cattivo gusto,

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l’insolenza, sono adottati da vedovamazzei come terapia d’urto,come cura di realtà per mezzo della quale proiettare all’esternoquella dialettica negativa che si cercava prima di individuare comenucleo fondante della biografia e della poetica dei due artisti.

Lo stesso accade se si parla invece di scienza, di tecnologia, disogni di dominio sulle cose, di immortalità magari, di un mondofinalmente conoscibile, almeno in apparenza, sin nei più segretirecessi della materia vivente. Per Armonia meravigliosa, un operadel 2000, vedovamazzei si trasforma in ingegnere genetico per otte-nere artificialmente una nuova specie di ninfea sui cui fiori sareb-be apparso uno dei più celebri marchi di fabbrica della pitturamoderna, il dripping di Jackson Pollock. Autentica o meno (il dub-bio è in questo caso assai lecito), questa nuova meraviglia dellanatura scredita insieme i miti della pittura, dalle ninfee di Monetall’action painting, e quelli della scienza, imbroglia le carte, ci rele-ga nel ruolo, in fondo comodo, di spettatori creduli e ottimisti. Undoppio livello che ritroviamo anche in una delle opere più ambi-ziose del duo, Go Wherever You Want, Bring Me Whatever YouWish, un grande rimorchio di camion riempito d’acqua e trasfor-mato nella riproduzione ambulante di un paesaggio fluviale, com-pleto di piante, un molo di legno e una piccola barca. Destinato auna città tedesca, Hann Münden, che ha subito nei secoli nume-rose inondazioni, il fiume semovente possiede un’immediata valen-za ironica – è un letterale monumento alla più disastrosa alluvionenella storia della città – ma è anche un modo indiretto, oggettiva-to, per riflettere sulla forza della tradizione, sul suo potere di ripe-tizione, e prefigurare il suo esito finale: il mondo dei simulacritelevisivi, il patetico e il sentimentale a comando. Il paesaggio suruote rappresenta in effetti qui insieme la sublime natura romanti-ca e un exploit degno di un parco tematico, il soggetto di un qua-dro di Friedrich e lo sfondo di uno spot pubblicitario. Ormaiinsieme, canticchia vedovamazzei, per sempre appassionatamente.

Senza stile

Sono tutti esempi di come l’insieme di fattori psico-politici cheabbiamo fin qui esaminato si intreccino nella materia e nella sin-tassi visiva del lavoro di vedovamazzei. Non c’è qui da aspettarsi

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una regolarità, una sovrapponibilità di risultati, ma al contrario unaconcomitante sottrazione e moltiplicazione di prospettive e possi-bilità materiali, una sistematica interruzione di percorsi: non ci saràun’altra ninfea mutante, non si creerà artificialmente un altro fiu-me. Da un quindicennio a questa parte, la pluralità formale e mate-riale del percorso di vedovamazzei è insieme la sua componentepiù vistosa e il rischioso carattere predominante della sua estetica.Più che la costanza, la ripetibilità delle esperienze o l’affidabilitàproduttiva, all’interno di ogni opera ciò che conta è insomma unasse problematico, un modo che è al tempo stesso un tema intel-lettuale e una strategia di azione: fare molto con quel che si ha,cogliere al volo ogni occasione, osservare, ascoltare, leggere, accu-mulare, sciupare possibilmente, e derubricare in fretta il narcisi-smo di ogni scoperta. E poi osservare l’opera già fatta alla ricercadi punti deboli, di possibilità non realizzate da sviluppare ulterior-mente. Potremmo anche noi a questo punto cercare di replicarequesto processo, prendendo ancora ad esempio il nostro punto dipartenza, My Weakness, che considereremo qui solo relativamentea due suggestioni che ci fornisce, quella di un movimento poten-ziale – l’ascesa, la scalata – e quella invece di un fermarsi, un ince-spicare e appoggiarsi, considerate ovviamente insieme ai rispettivicorredi di corrispondenze metaforiche.

Alla prima voce, alla prima modalità, possiamo ricondurre unlavoro del 2000, Climbing – arrampicarsi, alla lettera –, in cui ilmovimento fisico verso l’alto si arricchisce di una complessa eco-nomia di significati letterali e metaforici. Il grande lampadariodorato di stile vagamente barocco, con le sue volute un po’ pre-tenziose e i pendenti di cristallo di poco prezzo, è formato in real-tà da una specie di piattaforma, una banale grata di copertura diqualche sotterraneo, issata in alto, cui si accede tramite una sottilescala metallica da alpinismo. In alto, sulla piattaforma sospesa alsoffitto da catene, si trova un sacco a pelo foderato di pelliccia, unoggetto sfacciatamente lussuoso e di gran marca. Ci viene così rapi-damente offerto tutto un gioco di metamorfosi: un misero e tipicogiaciglio di barboni – la griglia della metropolitana – trasformato inuna specie di carro trionfale, i cartoni sudici tramutati in materia-le pregiato, il basso diventato l’alto, il sotto sopra… Più ancora chel’aneddoto a sfondo sociale (il microquadretto di vita urbana del

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senzatetto che in sogno si ritrova miliardario, quasi in una rilettu-ra postmoderna di Miracolo a Milano), o l’apologo morale (l’illu-soria ascesa nella falsa luce del successo mondano), le risonanzepiù forti sembrano qui averle due polarità tipiche della vita artisti-

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vedovamazzei, Climbing, 2000

ca, diciamo pure le sue due opposte mitologie: la vita di bohème eil successo mondano, l’oscurità e la fama. L’ingombrante lampada-rio diventa allora la non più metaforica gabbia dorata nella qualegli artisti sono gentilmente invitati a esibirsi, una piattaforma perscimmie ammaestrate, o magari il trampolino da cui gettarsi senzarete, il rifugio sull’albero di un’infanzia ritrovata a volontà e insie-me il luogo dove finalmente isolarsi, la montaliana cellula di mieledi una sfera lanciata nello spazio, il rifugio, l’atelier mistico da cuisi sprigiona, per qualche capricciosa e incontrollata ragione, unaforma sconosciuta di pura energia.

Al secondo modo, quello dell’inciampo, dell’ostacolo inatteso,della goffaggine e del rimedio imperfetto, appartiene invece la sot-tospecie dei mobili zoppi, delle sedie o dei tavoli dalle gambe taglia-te, malfermi, chiusi in ermetiche teche di vetro, come ad esempiola sedia Thonet utilizzata in Isn’t it Romantic (2004), o l’acrobati-co terzetto di Milonga (2005), una strana coreografia immobile incui si intravede un altro autoritratto cifrato di Stella e Simeone. Oancora tutti quei casi in cui una menomazione o una strana aggiun-ta fornisce un’inedita risonanza antropomorfica all’inanimato,come nel caso di How to Disappear Completely, la grottesca e oltre-modo malvagia sedia a rotelle addizionata di scalmi e remi prontaper una sfida impossibile. Gli oggetti che prendono vita nella not-te magica si scoprono anch’essi difettosi e manchevoli come esseriumani, e come loro destinati a trascinarsi a fatica e senza meta, pri-ma che il breve incantesimo svanisca.

Ciò che colpisce in questi lavori è anche un’impazienza chesembra mettere in dubbio tutto quel che sembrerebbe lecito atten-dersi da un’opera d’arte, una strana insofferenza, una tonalità bef-farda che riassume tutto, avvertibile all’esterno come una specie diincrinatura, di fenditura mobile che attraversa l’immagine o l’og-getto e finisce poi per prolungarsi sul pavimento che avanza versoi piedi dello spettatore, minacciando alla fine di inghiottirlo sulserio. Il fatto è che il senso della comicità di vedovamazzei non puòessere mai separato dal suo tasso di disperazione, anzi meglio difunesta lucidità, da un accanimento eroico a tirar fuori il peggiodalle situazioni. E “peggio” ha qui il senso di un’irrimediabile, ter-minale sconfitta, ha a che fare con l’inevitabile impatto tra la vita eil complesso di fattori impersonali, di meccanismi cosmici che ten-

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dono irrimediabilmente a sopraffarla. Anche dove potremmo col-tivare l’illusione di un ottimismo, dove sembrerebbe a prima vistaabitare un sentimento di fiducia nei mezzi umani, nelle forme arti-sticamente composte, ad esempio, si annida un potenziale inganno,una sorta di stordimento animale.

Nel loro complesso questi sono anche esempi molto eloquentidi come per vedovamazzei sia un’esigenza primaria fare arte conciò che si ha a disposizione, cogliere al volo ogni occasione, sapen-do, come già ha notato Giorgio Verzotti9, che i momenti di seren-dipity – il trovare una cosa mentre se ne sta cercando un’altra –rappresentano forse le conquiste più autentiche. Opere come que-ste appena ricordate non emergono da una pratica formale ordi-nata, continuativa, da un allenamento o da un’assuefazioneproduttiva, ma sono piuttosto il risultato di uno choc, di un urtocon la durezza sconcertante della quotidianità, con la sua profon-da ingiustizia e la sua inutile generosità. Un altro lavoro, Pleasedon’t let me be misunderstood, potrebbe forse chiarire meglio que-sto confronto ravvicinato tra caso e necessità, tra gesto iconoclastae tentazione di andare più a fondo, di esercitare una comprensio-ne in senso obliquo, imprevisto. Qui, due elementi emblematicidella nostra cultura come il libro e la libreria sono utilizzati comesemplici supporti, come fogli bianchi sui quali iscrivere nuovi segni.Libri di cui si è volontariamente obliterato il contenuto – il nomedell’autore, il titolo, il colore della copertina –, libri usati nella loroletterale consistenza di superfici di carta, il cui taglio bianco si faimprovvisamente disponibile a ogni manipolazione. E forse c’èbisogno davvero di non essere fraintesi, come reclama il titolo ingle-se, perché appiccicando chewing-gum, scarabocchiando qualchefigurina dai tratti infantili o dei ghirigori nervosi forse si potrebbedavvero esser presi per ragazzini irrequieti che ammazzano il tem-po, simili in questo ai gatti dispettosi e menefreghisti che in altrilavori, come Milioni di morti fanno meno male di una zampa ferita(2006), incidono a unghiate su divani e poltrone messaggi di voltain volta sfacciati o, come in questo caso, politicamente sconve-nienti. Ma Stella e Simeone fanno qui qualcosa di più: ci mostranoletteralmente l’altra faccia dell’ordine, il suo risvolto entropico, cisollecitano a riconoscere e a dar valore agli interstizi, a scambiarele collocazioni a nostro vantaggio, a guardare non solo metaforica-

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mente dietro le cose. Osservata dal retro, in tralice, come in un gio-co infantile o in una fantasia surrealista, una libreria diventa un luo-go di apparizioni impreviste, una ragnatela di piccoli segnicapricciosi, di smagliature, di incompletezze, che corrodono segre-tamente la sua autorità.

Non si esagera forse a questo punto dicendo che per vedova-mazzei il progetto artistico migliore è quello che contempla sin dalprincipio il proprio fallimento, la sua comica deflagrazione con l’i-nesorabile crollo finale, catastrofe da cui si finisce però quasi sem-pre per ricavare abbastanza energia e materia per ricominciare. Oquello che mette alla prova certe idee ostinatamente resistenti, perimpregnarsi della loro inconsistenza e smascherarne alla fine, maquasi per accidente – come nel caso delle meraviglie della tecnolo-

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vedovamazzei, How to Disappear Completely, 2000

gia –, le pretese di egemonia, l’ambizione al dominio. Da un altropunto di vista ancora, l’opera di Scala & Crispino potrebbe esserevista come una forma di satira sociale che colleziona la stupiditàcontro la stupidità, la violenza contro la violenza, il mondo cosìcom’è contro se stesso, e si affida più che mai alla capacità di discer-nimento dello spettatore. Del resto, rivoltare la normalità, farladiventare nemica di se stessa, è una strategia efficace per diffonde-re l’infezione di una comicità più grave nel cuore dello spettacoloilare e osceno che prospera tutto intorno, per zavorrare i progettiambiziosi col carico di una ruggine preventiva, per far inciamparenei fili troppo tesi dell’efficienza, per svuotare, abbassare, sabota-re anarchicamente il potere.

Ma più ancora forse del suo bersaglio, è il modo con cui que-sto compito viene assolto a risultare decisivo. Per vedovamazzeinon esistono infatti esperimenti che non mettano in discussione l’i-dentità stessa degli sperimentatori, scoperte che non siano conta-minate dalle credenze di chi le compie, materiali vergini, immaginipure: ogni nuova opera è già in partenza avvelenata dal mondo chepretenderebbe di purificare. Ecco allora un’arte attinta in profon-dità da un senso di compromissione, da una consapevolezza deipropri limiti materiali e morali, che non dissimula questa condi-zione e anzi ne fa derivare una sorta di ironica e abissale sospen-sione di incredulità. E in fondo a tutto apparire una personalitàartistica bicefala che espone con tenacia il proprio tema dominan-te, quello di una libertà mutata di continuo in assoggettamento, efa di questa ambivalente economia psichica la scintilla di ogni futu-ra e precaria conquista.

Alla fine, l’aspetto insieme più specifico e sconcertante dellavoro di vedovamazzei è proprio il sentimento di imperfezionelatente che appare montato dentro la sua pienezza finale, come sel’opera stessa giudicasse con severità le esitazioni e le debolezze dichi l’ha prodotta. Ciò che vediamo insomma, anziché soltanto gra-tificarci, produce anche un’intensificazione dei dubbi e nuovedomande, anche perché non rinuncia affatto a vestire una livreaseducente, a creare quella struggente illusione in cui saremmo for-se tentati di perderci. Ma se questo è l’orizzonte frastagliato da cuiemerge ogni realizzazione dei due artisti, quale forza può conti-nuare a sorreggere uno sforzo che si sa in partenza destinato a con-

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traddirsi? C’è in questo sicuramente il senso di una sfida che vacomunque raccolta, pur sapendo che si risolverà in una sconfitta,o peggio in una forma di stagnazione senza uscita. E c’è anche unaconsapevolezza molto beckettiana della radicale estraneità del-l’arte al mondo, dell’insensatezza della sua posizione, una nozio-ne precisa di quanto l’artista non venga affatto salvato dalla suapratica, essendo condannata quest’ultima al mediocre oblio deltempo sprecato e dell’occasione mancata. E c’è anche però, soprat-tutto e di necessità per vedovamazzei, l’obbligo di testimoniare undiritto molto umano a costruire, a dar forma, a far vedere, a falli-re – a fare fino in fondo i conti col nulla, a ballare al giusto tempocon la vita e la morte.

NOTE

Una prima versione di questo testo è apparsa in vedovamazzei greatest hits, a cura diStefano Chiodi e Mario Codognato, MADRE Museo d’arte contemporanea Donnare-gina, Napoli 2006.

1 Andrea Zanzotto, Elegia Pasquale, in Dietro il paesaggio, Milano, Mondadori, 1951;ora in Id., Le Poesie e Prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta,Milano, Mondadori, 1999, p. 49.2 Giacinto di Pietrantonio, Vitamorte di Vedovamazzei, in Vedovamazzei, catalogo diesposizione, GAM Torino, Hopefulmonster, Torino 2004, p. 23.3 Mirta D’Argenzio (a cura di), Storia naturale di vedovamazzei, Trolley, London 2003.4 Ibid., p. 9.5 Romani 7, 15-17.6 Craig Owens, The Allegorical impulse: Toward a Theory of Postmodernism, «Octo-ber», 12 (Spring 1980), pp. 67-86 e n. 13 (Summer 1980), pp. 59-80; ora in Brian Wal-lis (a cura di), Art after Modernism: Rethinking Representation, The New Museum ofContemporary Art, New York 1984, p. 209.7 Cfr. Hal Foster, The Return of The Real. The Avant-Garde at the End of the Century,The MIT Press, Cambridge-London 1996 [trad. it. Il ritorno del reale, PostmediaBooks, Milano 2006, in particolare pp. 175-203]. 8 Un’ampia panoramica dei mutamenti della società italiana in questo periodo è offer-ta dallo studio di Paul Ginsborg, L’Italia del tempo presente, Einaudi Torno 1998. 9 Giorgio Verzotti, Vedova Mazzei, the collaborative duo of Simeone Crispino and Stel-la Scala, «Artforum», Summer 1997, p. 134.

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UN’ARCHEOLOGIA DELL’INNOCENZA: TANO D’AMICO

Quattro fotografie. Una sequenza. Nella prima: una strada asfalta-ta, un marciapiede, un’aiuola rinsecchita, alberi, automobili par-cheggiate; il punto di vista è diagonale, ad altezza d’occhio. Ungiovane con cappotto scuro e berretto in testa sta correndo: nellamano sinistra impugna una pistola. Davanti a lui un altro ragazzo,con un impermeabile chiaro, fa una strana mossa, si lascia andare,le gambe si piegano, anzi si accartocciano sotto il corpo, bloccatonell’istante in cui il movimento non si è ancora arrestato ma lacaduta è già inevitabile. Porta i guanti. È ferito. Un istante dopo,siamo alla seconda fotografia, il primo sopraggiunge, gli afferra ilbraccio destro, cerca di trascinarlo via. Nella mano destra ora strin-ge due pistole, un’automatica e una a tamburo. Nella terza imma-gine l’inquadratura è più ravvicinata: il ragazzo è a terra, i pantaloniinzuppati dal sangue che lascia una traccia sull’asfalto e gli mac-chia il viso. Qualcuno gli regge il braccio sinistro, due paia di gam-be si avvicinano dall’altro lato. E infine l’ultima fotografia: il feritoè steso a terra, una specie di smorfia gli contrae il viso da attor gio-vane, gli occhi un po’ velati, le mani senza più guanti strette sul ven-tre. Qualcuno, fuori dall’inquadratura, tiene stretta con gestodeciso una cintura intorno alla sua coscia sinistra, mentre un altrosembra esaminare la sua gamba destra. A destra, un uomo in giac-ca a vento si è chinato e gli posa una mano sulla spalla, altri si avvi-cinano. La composizione ha qualcosa di fermo, di classico, fapensare a una Deposizione rinascimentale, ma anche a una foto diguerra, con quel corpo maschile steso in obliquo tra gambe e brac-cia protese a toccarlo. Siamo a Roma, in piazza dell’Indipendenza,è il 2 febbraio 1977. Il ferito si chiama Paolo. Queste fotografie di

Tano D’Amico, tra le sue più note, aprono simbolicamente quellache all’epoca con compiaciuto linguaggio giornalistico fu chiama-ta la stagione della “P38”, l’irruzione cioè delle armi sulla scenadelle manifestazioni di piazza. Sono fatalmente tra le immagini piùviste, un marchio quasi, di quell’anno agitato, tanto che le si trovaancor oggi costantemente ripubblicate su giornali, riviste, saggi,copertine, pagine di internet, a dimostrare probabilmente anchel’attrazione ossessiva esercitata dal sangue. Sono un’etichetta, unascorciatoia, un dispositivo di ripetizione che replica all’infinito ecci-tazione, allarme, paura.

Ma qual è la specificità del suo modo di fare fotografia? È solouna questione di soggetti, di luoghi, di scelte di visuale, o c’è inve-ce anche un aspetto che riguarda il modo con cui gli eventi sonoritratti, qualcosa che già nella struttura dell’immagine segnali la suadiversità, il punto di vista di chi scatta e insieme il giudizio su ciòche accade? Un altro scatto. Sempre Roma, sempre 1977. Sullosfondo, un po’ sfocato, uno schieramento di agenti con caschi escudi. In primo piano, sulla sinistra, un gruppetto di giovani, unaragazza e un ragazzo che si tengono per mano e sembrano impe-gnati in una conversazione amorosa. Tra loro e il gruppo di poli-

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ziotti c’è uno spazio vuoto che si estende su buona parte della foto-grafia. Il vuoto dell’attesa, dell’incertezza, del tempo che pesa. C’èin questa immagine un condensato dello stile di D’Amico, della suavolontà di fornire del Movimento un’immagine bella, pura, da con-trapporre certo allo stereotipo del sovversivo “brutto sporco e cat-tivo”. Nella sua programmatica, ingenua anche, contrapposizione

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tra un’intimità fragile ma determinata e il meccanismo insensibileche sta per mettersi in moto, tra l’umanità delicata dei due adole-scenti e la greve uniformità militaresca che li fronteggia, si profilauna lettura semplificatrice, epica in senso brechtiano, e anche, insottofondo, un intento didascalico: noi e loro, il coraggio delle idee,lo slancio generoso contro l’insensibilità, la confusione coloratacontro il grigiore delle uniformi... Ci sono altri esempi possibili: laragazza dall’espressione imbronciata o forse soltanto stanca, la testaabbandonata sullo zaino posato sui sampietrini, l’altra con la man-tella dal viso infantile e bellissimo, di un ovale perfetto, lo sguardotrasognato, così simile a un angelo di una pala d’altare del primoCinquecento, il ragazzo con i baffetti che legge steso su un pratoChe fare? di Lenin mentre accanto a lui una ragazza addenta un

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frutto con un gesto incurante, o le molte altre scattate in raduni,concerti o assemblee all’aria aperta, in cui circola sempre un’ariadi festa, ma di festa leggera, senza eccessi, in cui una specie di pudo-re trattiene tutti sull’orlo di un abbraccio collettivo che pure si sen-te vibrare tutto intorno. C’è in tutti questi casi da parte delfotografo un’identificazione con i suoi soggetti prima ancora chepolitica di natura sentimentale, affettiva. È la manifestazione figu-rativa di una prossimità, che punta a rendere visibili i legami, le“situazioni” emotive, dandone però al fondo una versione poetiz-zante, pacifica, idealizzata, concentrandosi come fa sulla scena“esterna”, per così dire, sul teatro della piazza e della strada, delcorteo e dell’assemblea per isolarvi sistematicamente i dettaglicapaci di illuminarne il senso complessivo. Qui il singolo sembranon perdersi mai nella massa, non ne viene riassorbito, ma fortifi-ca anzi la sua unicità, il suo tesoro interiore; è il sogno di quell’ac-cordo armonico tra uno e mondo che tutte le utopie di liberazione,dal romanticismo a oggi, hanno cercato senza riuscirvi di salva-guardare dall’attrito con la violenza, col fondo metallico e indiffe-rente della storia. Ed è anche un modo diretto per mostrare comela vecchia idea leninista del primato collettivo si ibridi nel ’77 conla predilezione di gusto dada (e situazionista) per la festa perma-nente, per l’happening che abolisce gli spazi privati e rovescia tut-to nella dimensione pubblica, che mette a soqquadro la città in undispendio di energie apparentemente inesauribili. Al pari del dra-go di cartapesta portato in trionfo per le strade di Bologna che scor-giamo in un’altra fotografia, il Movimento attraversa le città spintodalla forza primitiva della sua immaginazione, animalmente incon-sapevole dei pericoli che lo insidiano da dentro e da fuori e chefiniranno per ucciderlo.

Non mancano ovviamente in questo album le immagini piùviolente, più concitate, i momenti di scontro. Forse la fotografiapiù famosa di D’Amico, se non la più riuscita, proprio per il valo-re di testimonianza smascherante che all’epoca e ancor oggi con-tinua a possedere, è quella che mostra il poliziotto in borghese,pistola alla mano. Scattata in piazza della Cancelleria a Roma il12 maggio del 1977, rappresentò un vero e proprio scoop, deci-sivo per smascherare le reticenti versioni ufficiali sull’uccisionedella studentessa Giorgiana Masi quello stesso giorno. L’indo-

mani il fotografo è sulla scena di quella morte, a ponte Garibal-di. A terra, un’aiuola improvvisata, delimitata da frammenti ditravertino, coperta di mazzi di fiori, di fogli scritti. Sullo sfondoun’agitazione improvvisa, agenti della Celere con casco e manga-nello, ragazze che fuggono. La fotografia ha un formato panora-mico, allungato, è un formato epico, come nello schermo delcinemascope o in un quadro di storia ottocentesco (e in quantotale D’Amico lo impiega spesso nelle sue fotografie di “piazza”).Da destra, correndo, due ragazze accorrono urlanti, le bocchespalancate, le espressioni sconvolte, come le Marie del Compian-to di Niccolò dell’Arca a Bologna, o due Furie vendicatrici. L’e-vento tragico si misura nella sua risonanza più intima ma ancheiscrivendo il dolore in una dimensione compiutamente storica epolitica, nell’occupazione, nella perturbazione dell’indifferentespazio pubblico; la fatalità di una morte senza colpevoli è denun-ciata in quest’immagine con l’efficacia di una requisitoria.

A più di trent’anni di distanza e certo da un punto di vistameno indulgente, per forza di cose più smaliziato, e più realisti-co, l’elemento immateriale eppure così palpabile di queste imma-

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gini, l’innocenza, rimane tuttavia perfettamente decifrabile. Quel-l’innocenza, la chiave magica caparbiamente ricercata dal Movi-mento, può essere pensata oggi solo come malinconia, comeombra di una mancanza, come impossibilità. Ma le foto di TanoD’Amico, con tutto il loro umanistico ottimismo, la francescanaattenzione per gli umili, la loro temperatura emotiva inconfon-dibilmente italiana (da Rossellini a Pasolini), la mostrano invececome una sorta di prodigiosa apparizione, una specie di lampoche per un attimo sembra avere il potere di annullare le ombre,di rimuovere gli errori, la cecità, il velleitarismo e l’inconclu-denza di tutta un’epoca. L’innocenza di un’eterna adolescenzamostrata come pura potenzialità, intatta, ancora densa di pro-messe non realizzate. Queste immagini ci raccontano di un’au-toillusione, di un’ingiustificata euforia, di un’infausta esaltazionecollettiva: furono offerte come uno specchio ai ragazzi del ’77che vi riconobbero immediatamente e volentieri la propriaimmagine, il riflesso dei propri sogni, senza percepirvi però ilbuio che vi stagnava, le pseudoconsolazioni che esse fornivanocon sospetta generosità. Ma per noi oggi, spogliate dal loro invo-

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lucro retorico, forse non rappresentano soltanto i documenti diun’epoca morta, chiamati a supportare di volta in volta unadiversa liquidazione storica, a dar man forte a un chiarimentodefinitivo ancorché ironicamente postumo che ci aiuti a distan-ziare quello spiacevole e troppo spesso tragico grumo di falli-menti. Sono anche la prova visiva, tangibile quasi, di un altropresente possibile, o di un futuro differente rimasto irrealizzato,qualcosa che in modo imperfetto toccò nell’Italia di allora comein quella di adesso il nodo della nostra relazione con l’eredità el’identità collettiva, che sfidò con l’eccesso delle sue energie il

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cinismo obbligato e il pessimismo della ragione politica, cheinterrogò con gli strumenti imperfetti dell’immaginario quelladimensione plurale, quel tessuto che ci definisce come esseri rela-zionali, aperti, e che ci riesce così difficile oggi rinnovare, assor-dati come siamo dallo spettacolare trionfo di un’individualitàtrionfatrice quanto del tutto irrilevante.

Questo testo è apparso per la prima volta ne «Il Caffè illustrato», n. 34 (2007). Tuttele foto di queste pagine sono di Tano D’Amico, scattate tra marzo e settembre 1977.

Francesco Arena, 3,24 mq, 2004

LA CELLA: FRANCESCO ARENA

La cella è un parallelepipedo di legno. Sta dentro una cassa di legnodi 270 x 120 x 250 cm., simile a quelle utilizzate per il trasporto dimerci fragili o di opere d’arte. L’interno si compone di due vani: ilprimo, di 70 x 120 cm., attraverso una piccola porta dotata di ser-ratura e spioncino funge da ingresso al secondo, di 200 x 120 cm.,privo di altre aperture verso l’esterno. Le pareti sono di compen-sato, il pavimento di linoleum grigio. Il vano più grande è arreda-to con una branda richiudibile di 180 x 60 x 16 cm., completa dimaterasso, coperta, due lenzuola, cuscino e federa; un comodino di30 x 40 x 80 cm. su cui sono poggiati una risma di fogli di carta informato A4, una penna, una bottiglia di acqua minerale e un roto-lo di carta igienica; un WC chimico di 40 x 40 x 30 cm., una baci-nella di plastica, una ventola elettrica. Ciascun vano è illuminatoda una lampadina. La porta di ingresso è dissimulata tra le assi checompongono il rivestimento della cassa. La sua superficie totale èdi 3,24 metri quadrati.

La cella è il rifacimento in scala 1:1 dell’ambiente ricavato all’in-terno di un appartamento in via Montalcini 8 a Roma, dove, in basealle testimonianze di Anna Laura Braghetti, Prospero Gallinari eMario Moretti, tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 Aldo Moro avreb-be trascorso i suoi ultimi cinquantacinque giorni di vita prigionie-ro delle Brigate Rosse. Trenta anni fa. «Un cubicolo lungo tre metrie largo meno di uno, quanto una comune porta di appartamento,stipiti compresi. All’interno «solo una branda, un water fisiologicoe un condizionatore per il ricambio dell’aria». Le pareti sono inso-norizzate, l’isolamento acustico è completo, il prigioniero puòrichiamare l’attenzione dei suoi carcerieri attraverso un microfono.

L’intercapedine è stata ricavata alzando un tramezzo con un pan-nello di gesso fra uno studio e un salone ed è occultata alla vista dauna libreria poggiata sul muro»1.

La cella non è una ricostruzione fedele. Nulla vi è “autentico”e neppure si tratta di un set, di una scenografia. Non ci viene per-messo di interpretare il prigioniero, o il carceriere. La cella si pre-senta in forma neutra, anonima, definitivamente compiuta: se nesta appartata, immobile. Non serve, non dimostra, non sostiene,non invita all’azione. Ha il pudore degli oggetti nuovi. La loro stra-na pulizia. E incongruenza. Sta in attesa.

La cella è un’opera d’arte politica. Si intitola 3,24 mq; France-sco Arena l’ha realizzata nel 2004. È un’opera politica, non un’o-pera sulla politica. Non sul detto, sul meccanismo visibile, sulgergo, i simboli, e neppure, anche se questo è il suo punto di par-tenza, sulla storia politica italiana. Piuttosto sulla politica come pro-cesso di cui l’arte è una componente (necessaria, è il postulato).Un’opera sul divenire politico dell’arte in un’opera, sul trasformarsidel parallelepipedo in cassa e poi in cella, e poi ancora in cassa, epoi in parallelepipedo, sul suo disfarsi e rifarsi costante per chiguarda. Un’opera la cui materialità è il combustibile per alimenta-re domande su ciò che vediamo, su come conosciamo e giudichia-mo ciò che vediamo, sulla connessione tra passato e presente, tra ilpiano dell’arte e quello dell’esperienza quotidiana, sui codici assi-milati e sul loro potenziale di trasformazione. Un’opera sulla con-versione del pensiero in esperienza. Una mise en abyme al cui fondoritroviamo la domanda iniziale.

Una cassa di legno come scultura, allora, e come sua sconfessio-ne. Come epicentro di una dialettica senza scioglimento, “immobi-le”. Due sono i fili da tirare. Il primo: la cella nella sua funzioneprimaria di dispositivo di sorveglianza, e nel caso storico specifico di«prigione del popolo», attraverso cui produrre un’altra verità, omeglio un’aberrante, definitiva Verità. Come suo presupposto, l’iso-lamento fisico e mentale del prigioniero, esibito in forma di tableaunelle due polaroid che gli furono scattate durante il sequestro2; quin-di la cella come congegno, come macchina celibe la cui vittima è sal-damente afferrata e resa inoffensiva, e sulla cui carne si imprime,come nella Colonia penale di Kafka, la lettera del verdetto fatta sup-plizio («Eseguendo la sentenza» scrissero le BR nel comunicato n. 9,

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datato 5 maggio 1978). Ma anche la cella come luogo di una pro-gressiva trasformazione la cui posta è l’annullamento del corpo pen-sante, e da cui continua invece a filtrare la parola, l’azione ristretta allinguaggio, nella duplice forma, passiva/attiva, dell’interrogatorio edella lettera. Trasformazione dell’uomo di potere in ostaggio, delpolitico in “uomo comune”, in una regressione che è al tempo stes-so per Aldo Moro la conquista, creaturale e tragica, di una distanzae di una superiorità morale sui suoi carcerieri e sul Potere.

Il secondo filo: la cella come scatola, come contenitore mobi-le, come involucro di un “contenuto” (l’opera preziosa, ma assen-te, che dovrebbe proteggere), che essa ricopre enigmaticamentecome lo stampo nasconde la forma negativa al suo interno. La cas-sa insomma come scultura alterata che mette in vista la propriafilogenesi, che si lascia aprire, violare, visitare, che rinuncia aldistacco, alla redenzione di una forma. Come pausa in un conti-

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Francesco Arena, 3,24 mq, 2004

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nuum (e dunque 3,24 mq come 4’33’’ di John Cage. L’opera è lospazio di silenzio in cui proiettare i nostri pensieri, i nostri rumo-ri, le nostre incertezze). Come strumento, come ricalco imperfet-to, come deriva: è una trascrizione nello spazio tridimensionale diuna descrizione verbale e di un elenco di misure, una ricreazionearbitraria, proiettiva, ambigua. In quanto tale convoca senza risol-verla l’ambivalenza delle serie artistiche tra cui si colloca – ready-made e unità plastica minimalista, oggetto pop e dispositivoconcettuale. Elenca, non prende posizione. Ci impedisce in altreparole di annetterla stabilmente a un’estetica. Piuttosto, il suo fun-zionamento sembra svolgersi a basso livello: isola, scherma, pro-tegge, confina, chiude, imprigiona. La serie funzionale si dipanain parallelo a quella metaforica, la raddoppia, la rinforza, ma anchela smentisce, la mette tra parentesi. La sua è un’azione decostrut-tiva e insieme terapeutica.

Col suo duplice movimento di espansione/contrazione, la cassaconfina ed elabora, provoca una domanda e si mette in cerca di rispo-ste. Il suo statuto è incerto, contraddittorio come la sua struttura. Laforma necessita qui in effetti di un testo, di un ancoraggio implicito.E quest’ancora – la storia, o le storie possibili – è a sua volta instabi-le come la struttura che dovrebbe zavorrare. L’oggetto-cassa appareallora sdoppiato, tallonato dalla sua ombra, inquietante come unrevenant. La sua trasformazione in cella, il suo popolarsi di dettagli“fedeli”, non avviene pacificamente, ma è il risultato di un trauma,di uno scontro. Inatteso. Ci impone la parabola di morte del prigio-niero Aldo Moro e ci impedisce di arretrare, di osservarla a distan-za, di trasformarla in una redenzione. Ci attira al centro di ungroviglio, dove l’atto di vedere non riesce più a elevarsi al di sopra delcorpo, della terra e del tempo che la imbeve; dove le forme si restrin-gono nella prospettiva demoniaca dei dispositivi efficienti, dell’eco-nomia mondana dell’arte. Dove lo spettatore è sempre complice, e lospazio perde la propria supposta neutralità. La cella è il segnapostodi un processo, un condensatore: segnala l’impossibilità di com-prendere la storia senza ritrovare la sua interna conflittualità, il peri-colo che avvolge costantemente il destino individuale, e insieme lanecessità, politica quanto estetica, di proiettare lo sguardo nell’om-bra, nel negativo, nell’assente che corrode la pienezza saziata del pre-sente. Un parallelepipedo di legno è una cella.

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SC Uno sguardo d’insieme al tuo lavoro credo faccia cogliere imme-diatamente l’importanza che ha per te la dimensione “politica” in sen-so largo, i punti di attrito, di conflitto, di ambiguità. FA È importante intendere la politica non come quella cosa spic-ciola che vediamo in televisione, ma come visione del mondo, deifatti e dell’uomo che questi fatti determina, a volte inconsapevol-mente. I punti di attrito, di conflitto, di ambiguità, di cui parli, sonogli spazi da cui nascono le domande. Mi interrogo e le opere sonoaltrettante domande.

SC Da questo punto di vista l’esempio più evidente è proprio il lavo-ro “intorno” alla cella dove nel 1978 Aldo Moro venne tenuto pri-gioniero dalle Brigate Rosse. Com’è nata l’idea?FA Nel marzo 2004 iniziai a pensare a un’opera per una mostra allagalleria Monitor. Andai a Roma non sapendo ancora cosa avrei fat-to e chiesi a Paola Capata, la gallerista, di accompagnarmi in viaMontalcini: volevo vedere il luogo, o perlomeno la strada, dove erastato tenuto prigioniero Aldo Moro. Sono cresciuto in una fami-glia di convinti democristiani, da bambino sentivo dire a mio non-no quando rientrava la sera «che era stato alla DC». Naturalmentenon capivo chi fosse questa “diccì”, pensavo a qualcuno con unnome strano. La domenica i pranzi di famiglia erano sempre segui-ti da discussioni sulla politica, le elezioni ecc.

SC In che anni siamo?FA Negli anni ottanta. Non ricordo con precisione quando ho sen-tito parlare di Moro per la prima volta, forse a scuola, e forse poi

CONVERSAZIONE CON FRANCESCO ARENA

ho chiesto a mia madre chi fosse, comunque fatto sta che Moro èper me una figura familiare. È strano no? Moro muore ammazza-to e il suo nome mi ricorda un’infanzia felice. Crescendo, mi hasempre affascinato tutto ciò che riguardava le BR e il caso Moro,ma non ho mai cercato informazioni, non ho mai letto nulla primadi realizzare la cella. Perciò quella volta a Roma ho pensato di fareun giro turistico diverso. Via Montalcini è una via strana, o perlo-meno a me è sembrata così, una zona residenziale con dei condo-mini in mezzo al verde. Davanti un parco, sotto la Magliana, edentro l’appartamento, dietro una libreria, la prigione. Da quelmomento ho pensato alla cella, alla mancanza di un luogo reale, albisogno di vedere per capire: il cattolico poi ha bisogno anche ditoccare altrimenti stenta a credere, ha bisogno di viaggiare per arri-vare a conoscere e a credere. Ora queste cose le dico oggi, non sose pensavo allo stesso modo quattro anni fa, perché l’idea dietroun’opera cambia continuamente, ogni attimo è diversa non solo per

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Francesco Arena, Strumento, 2005

chi la guarda ma anche per chi l’ha fatta, una volta fatta anche ioinizio a guardarla e a cercare di capire.

SC E cosa è rimasto e cosa è cambiato delle motivazioni di allora?FA Mi interessa ancora un’idea di struttura, di contenitore: la cel-la è contenuta in una cassa da imballaggio di legno, come fosse unamatrioska, la cassa, la cella, il prigioniero, la trasformazione, la sto-ria che viene fuori e si propaga. Dico struttura intendendo unacostruzione invisibile che mettendo in ordine le cose ne dà unavisione. La cella è indubbiamente il luogo dove Moro si trasforma,questo già lo diceva Sciascia nel ’78 nell’Affaire Moro, ma io nonl’ho mai pensata come un’opera che illustrasse un’idea politica,sono partito da Moro, ma anche da un luogo e poi ho iniziato apensare che in realtà 3,24 mq potessero raccontare una trasforma-zione, costante come la trasformazione del pensiero che nasce nel-la testa, nel cranio, per prendere poi forme diverse.

SC Si potrebbe dire che La cella si situi all’opposto dei lavori cheMaurizio Cattelan ha realizzato intorno ai simboli delle BR?FA Penso che entrambi partiamo da un punto comune, la vicendaitaliana, ma il mio è un lavoro sullo spazio fisico in rapporto con lastoria e la memoria, mentre quello di Cattelan è più interessatoall’obsolescenza dei simboli.

SC La relazione tra arte e politica, o anche la politicità dell’azionedell’artista, è stata costantemente dibattuta nello scenario novecen-tesco e ha certamente subito una radicale revisione nella postmoder-nità. In quale prospettiva si colloca il tuo lavoro? A quali “modelli”,teorici o pragmatici, ti senti più vicino tra quelli attivi nell’orizzontedella nostra epoca?FA Qualcuno ha detto che l’azione dell’artista è politica in quantorappresenta il punto di vista di un uomo, definizione per me con-divisibile e probabilmente frutto di quella revisione di cui tu parli.“Politicamente” l’arte mostra il punto di vista di un uomo, solo diuno. Punto di vista che non richiede di essere condiviso da un insie-me, è lì, possiamo discuterne o meno, mentre la politica mette aconfronto la visione del mondo di un uomo con quella di un altroe di un altro ancora e di queste visioni deve discutere, trovare un

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compromesso e un gruppo di persone che le facciano proprie. Ilmio lavoro parte dalla mia prospettiva per incrociare quelle di altrie attraverso queste altre prospettive torno poi a guardarlo e a rein-terpretarlo. I modelli sono molti, l’ambiente nel quale sono cre-sciuto, la mia famiglia, le cose che vedo, i libri che leggo, le personecon cui parlo, quell’insieme di cose che si affastellano nella testaformando il proprio sguardo, quello che poi mette a fuoco i pen-sieri.

SC Si potrebbe vedere l’esperienza artistica contemporanea nel suoinsieme come un grande esperimento teorico condotto sul corpo del-l’arte stessa. Qual è la tua posizione rispetto a questo tema?FA Io credo che la comprensione di un opera possa prescindere daqualsiasi sistema teorico se questo è assente nello sguardo di chiosserva. Teoria come dottrina, insegnamento, sistema, sono con-cetti che possiamo mettere in relazione con campi dell’invenzioneumana come la religione, la politica e l’etica: tutte “discipline” checonvogliano nell’arte.

SC Un artista può fare a meno della teoria? FA Non lo so, non so se nelle mie opere ci sia o meno una teoria,quando inizio a pensare a un nuovo lavoro, quando una suggestio-ne provoca una serie di pensieri da cui poi nasce un’opera, non michiedo mai se alla base c’è una teoria, seguo i miei pensieri e ti assi-curo che per me ogni volta è difficile concludere mentalmente unlavoro, ci sono mille domande che mi faccio, devo sempre capire ilperché devo fare un opera. L’idea non è chiara, somiglia a unasostanza opaca piena di punti di luce dove lo sguardo si perde main cui a distanza si può riconoscere un ordine e un criterio. Le ope-re sono stratificazioni geologiche di pensieri, a volte ben amalga-mati, altre appena poggiati uno sull’altro.

SC Ti interessano quelle esperienze artistiche che mettono in discus-sione la specificità dell’arte, ne additano i limiti ideologici, gli auto-matismi?FA Qualche anno fa ho letto una raccolta di racconti di DavidFoster Wallace, Oblio. L’ultimo si intitola Il canale del dolore. Èuna storia in cui si mescolano l’onnipresenza dei media televisivi,

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l’imminenza dell’11 settembre 2001 e altre cose. Nel racconto c’èun uomo che vive in una località sperduta, un uomo qualunquecon un lavoro qualunque che eccezionalmente, quando si chiudein bagno per defecare, produce arte. Nel senso che le sue feci han-no forme strane, sembrano sculture, anzi tutti quelli che le vedo-no concludono che si tratta inequivocabilmente di arte. Nonriescono a spiegare il perché, ma sanno che è così. L’“artista” in

Francesco Arena, Razione K nel vuoto di un’aureola, 2008

questione prova assoluta vergogna del suo talento, fosse per luidistruggerebbe le sue opere tirando lo scarico ma tutti quelli chegli sono intorno insistono affinché le mostri e faccia vedere al mon-do come quelle opere escano dal suo ano già modellate. Nonvoglio dire che l’arte si faccia davvero così, né che l’artista sia deltutto ignaro di ciò che fa. Credo che possiamo costruire bellissimecattedrali teoriche, ricorrere a sofisticati cortocircuiti intellettua-li, a preziose citazioni e impalpabili riferimenti, ma l’arte deveattraversare “l’umano”, e per umano intendo proprio quell’ele-mento politico, religioso, etico, di cui dicevamo, frammentato escomposto nella visione (anche inconsapevole) del singolo artista.

SC Hai nostalgia per l’arte “umanista”, per l’impegno, come si dice-va un tempo?FA L’umano è al centro dell’arte perché l’arte è fatta dall’uomo pergli uomini anche nella loro disumanità.

SC Sì. E tuttavia nella nostra cultura il trauma rimane esposto e nonsublimato, resta lì, di fronte a noi: il “reale” che la abita non trovapiù una prospettiva entro cui prendere senso. Può essere solo “mon-tato” insieme al resto, non “spiegato”.FA Forse perché il trauma è inspiegabile, forse è solo percepibilevisivamente. Quando ho realizzato 3,24 mq l’ho pensato anchecome uno strumento per avere chiaro almeno una cosa, vale a direlo spazio fisico in cui un uomo è stato confinato, ma certamentenon penso che l’opera possa spiegare il dramma di una vita finitain maniera brutale. Ogni giorno vediamo massacri e guerre, imma-gini che non passano dietro l’occhio ma si fermano sulla sua super-ficie convessa, tutto è esposto, come dici tu, ma poco filtra.L’incapacità di dare senso è il disumano.

SC Samuel Beckett direbbe il contrario: l’umano sta proprio nell’im-possibilità di dare un senso al mondo e alla vita. È un rovesciamen-to di prospettiva interessante.FA Il tentativo di dare un senso al mondo e alla vita rende l’uomoumano, e lo spinge ad inventare modi di stare al mondo; se poi ciriesce o meno non credo sia importante saperlo, perché ciò checonta è non perdere la voglia di progettare e pensare cose nuove.

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SC Un altro tuo lavoro ha a che fare col tema della cella, anche se inmodo totalmente diverso. È una sorta di strumento musicale a per-cussione al cui interno si trovano le riproduzioni dei mobili presentinella cella di Padre Pio. Anzitutto, perché proprio Padre Pio?FA Qualche anno fa ho passato un po’ di tempo a San GiovanniRotondo. Un luogo dove disperazione e speranza non hanno unorizzonte che li separi, dove si incontrano il desiderio di chi stamale e cerca nella figura del santo e nella preghiera una possibi-le salvezza e i venditori di portachiavi con Padre Pio benedicen-te. Un posto dove le varie componenti dell’umano si incontranoe l’immagine del santo è il sunto di tutto: fede e profitto, malat-tia e guarigione, silenzio e brusio, l’ultima immaginetta dove tut-to converge per diventare la stampa oleografica a cui rivolgersipaurosi per chiedere protezione.

SC Anche se in forme diverse, un’idea di “contenitore”, di diafram-ma che isola esterno ed interno, è comune alle due “celle”. Che valo-re dai a questa separazione?FA Il contenitore serve a mettere ordine nella marea di immagi-ni e stimoli quotidiani, a separare una cosa dall’altra e a eviden-ziarla, così da poterci ragionare intorno, il contenitore mipermette di dare una certa visione di un oggetto, una visione late-rale magari, isolandolo da ciò che gli sta intorno e instaurandocon questo intorno un dialogo laterale invece che frontale. Le duecelle non potrebbero esistere senza contenitore, lo Strumentodeve essere un contenitore perché altrimenti il suono si perde-rebbe nello spazio. In questo caso il contenitore è una cassa acu-stica, mentre in 3,24 mq il contenitore serve a rendere l’opera unascultura, un oggetto e non una ricostruzione nello spazio dellagalleria o del museo, ma una cosa che poggia sul pavimento piut-tosto che sul piedistallo.

SC “Riutilizzare” gli oggetti quotidiani di un santo taumaturgo haa che fare con un’esigenza di risignificare antropologicamente ilsuo culto popolare? O è un modo per sottrarsi all’atmosfera che locirconda?FA Mi affascina il culto popolare che venera le cose toccate dalsanto, quasi conservassero tracce di santità o come se la venera-

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bilità del personaggio si trasmettesse automaticamente a tutto ciòche lo circondava, impregnandolo. Probabilmente anche la pare-te della cella, che è stata abbattuta e sostituita da una parete diplexiglas, conservava tracce del suo passaggio, ma ha dovutocedere sotto la spinta dello sguardo dei fedeli che per essere piùfedeli hanno bisogno di vedere di più. Come nella Russia comu-nista per essere più comunisti bisognava vedere il corpo del lea-der perennemente e serenamente addormentato. Quei fedeli diallora o quelli di oggi, in coda per guardare il volto riesumato delsanto, hanno in comune il bisogno di rivolgere le proprie richie-ste a qualcosa, idea o persona che sia.

SC In fondo i “fedeli” sono condizionati all’attesa dell’epifania, del-l’esperienza “eccezionale”.FA La folla ha bisogno di attendere, perché così il desiderio del-l’apparizione diventa più forte e il suo ricordo memorabile. Le fol-le si aspettano di “vedere” qualcosa di cui condividere il ricordo,qualcosa che le stupisca; che sia un luogo sacro, la melanzana piùgrande del mondo o l’opera di un certo artista non ha importanza,perché l’epifania è già negli occhi del fedele.

SC Questo lavoro ha un ovvio rapporto con la pratica, col culto, congli usi sociali della fede. Ma qual è la tua relazione personale con lareligione?FA Sono cresciuto in una famiglia cattolica tiepidamente pratican-te, quindi sono culturalmente un cattolico, con aspettative laiche.Mi sono sposato in chiesa e se avrò dei figli li farò battezzare per-ché sento un’appartenenza e credo che il mio sia lo sguardo di uncattolico italiano. Detto questo desidererei vivere in un paese in cuil’agenda politica non fosse dettata dal Vaticano.

SC Il “vuoto dell’aureola” con cui hai intitolato una serie di lavorirecenti si riferisce a questa dimensione religiosa?FA Sono lavori che nascono da una riflessione sugli strumenti-sim-bolo della religiosità, che vedo in stretto rapporto con gli oggettipensati per rendere visibile l’autorità. L’aureola è uno strumentoche distingue immediatamente ciò che è santo da ciò che non lo è,illuminandolo e allontanandolo dalla realtà. Il vuoto dell’aureola è

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ciò che vediamo quando il santo se ne va, quando resta solo lo stru-mento che illumina nient’altro che se stesso. In questo vuoto hoordinato degli oggetti usati nella vita militare, così che il vuoto licontenga e li equilibri.

SC L’aureola illuminata è anche un riferimento alla cultura popola-re più tradizionale, ricorda le “luminarie” di paese che hai del restoutilizzato in altri tuoi lavori. Il tuo è un interesse etnografico, o c’èqualcos’altro?FA Nelle feste patronali in Puglia i paesi si trasformano utiliz-zando queste architetture di luce in modo da essere più belli agliocchi del santo o della madonna che viene portata in processio-ne: sono la costruzione effimera sotto cui il sacro e profano siincrociano ulteriormente. Il mio interesse nasce da questa “fre-quentazione” di feste e processioni. Altre volte ho utilizzato leluminarie o le aureole per costruire sculture nelle quali la luce diquesti oggetti, chiusi in scatole di legno con solo due lati aperti,serve ad illuminare nient’altro che se stesse e una porzione delvuoto circostante. Utilizzo questi oggetti perché sono alla basedella mia memoria visiva, come fossero delle unità di misura omateriale che possiede una storia e un significato che inevitabil-mente influenza la lettura dell’oggetto che costruisco con quelmateriale.

SC Non c’è un intento allegorico, le aureole non “stanno” anche perqualcos’altro?FA Le aureole sono lo strumento attraverso cui la santità viene resain forma esplicita in quasi tutte le culture. Se aggiungiamo a unaqualsiasi statua dalle fattezze umane un’aureola a coronamento delcapo, ecco che diventa l’immagine di un santo, un’effigie che pos-siamo sollevare in spalla e portare in processione invocando il divi-no, riparandoci sotto il suo manto protettore e smettendo per unpo’ di preoccuparci di come andrà il raccolto o della pioggia chenon arriva. Un aureola indica questo, se è da sola senza una testada illuminare vuol dire che qualcuno l’ha persa o che è stata fattaper un santo che ancora deve venire.

SC I tuoi utensili “con i raggi” sono ispirati all’iconografia cattolica?

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FA I raggi nell’iconografia cattolica sono l’emanazione della santi-tà, partono dal cuore di Cristo o dalle sue mani bucate ma anchemolti santi sono dotati di raggi che fuoriescono da qualche partedel loro corpo martoriato. Lo spirito santo è circondato di raggi,l’ostia nell’ostensorio è riposta tra i raggi. Il raggio rappresenta lacomunicazione, qualcosa che da me va a te dando un beneficio,come i raggi del sole che scendono sulla terra scaldandola. Anchenell’iconografia del partito comunista russo torna l’immagine delraggio che si propaga dal simbolo della falce e martello. Anchequella è un immagine rasserenante, la forza del partito e la sua lun-gimiranza che si propagano sul popolo come la benevolenza di unaMadonna.

SC I santi e gli eroi comunisti del lavoro … c’è ancora bisogno diessere rassicurati e guidati?FA Credo proprio di sì. Conforto e guida sono fondamentali, ser-vono ad affrontare l’ignoto in cui ci aggiriamo. I nostri antenatiuscivano dalla loro caverna e tremavano all’idea che una grossabestia uscita dall’ombra potesse sbranarli, avevano paura del dolo-re e della morte, come noi d’altronde. Forse è proprio la paura ilmotivo per cui sono state inventate tante cose: dèi, rituali, sistemisociali in cui vivere insieme ad altri per essere più forti, millenni diciviltà per cercare di non temere più la tigre.

NOTE

Una diversa versione del testo è pubblicata in Francesco Arena, 3,24 mq, Nomas Foun-dation, Roma 2008.

1 Miguel Gotor, Le possibilità dell’uso del discorso nel cuore del terrore: della scritturacome agonia, in Aldo Moro, lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino 2008, p. 185.2 Cfr. Marco Belpoliti, La foto di Moro, Nottetempo, Roma 2008, p. 14 e sgg.

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ESPOSIZIONI

Bruce Nauman, RAW/WAR, 1970

THE CONSUMMATE MASK OF ROCK: BRUCE NAUMAN

Azione. Movimento. Dispendio di una determinata quantità dienergia, potenziale o effettiva, o anche solo nominata, ma comun-que ben reale quanto ai suoi effetti sui nostri sensi, e anche più den-tro. Movimento mostrato in modi assai vari: nel corpo di ungiovane uomo, ad esempio, ripreso da una cinepresa fissa mentreesegue con metronomica precisione una serie di passi lungo un per-corso prestabilito, o all’opposto in quello dello spettatore che inse-gue nello spazio reale il proprio labile fantasma ritrasmesso da unmonitor, ovvero nel pulsare delle scritte al neon che si combattonoin un cronico accendersi e spegnersi, senza sviluppo o soluzione(RAW/WAR, l’una instabilmente imbricata nell’altra), oppure nell’i-nesauribile litigio, condito di colpi bassi, volgarità e scherzi cattivi,tra un uomo e una donna che si affrontano in un video trasmessoda dodici monitor, o ancora in una specie di atroce giostra, tem-poraneamente ferma, da cui pendono carcasse di resina di anima-li scuoiati. Per Bruce Nauman al movimento è in effetti vietato inpartenza ogni sviluppo, perché sempre programmaticamente trat-tenuto in una improduttiva ripetizione, in un circolo vizioso. Ripe-tizione come procedimento di intensificazione grottesca perricadere all’indietro, inflessibilmente respinti, come strada sbarra-ta, tortura, fissazione. Con quel tanto dunque di ansioso, di mastur-batorio, di claustrofobico e oppressivo per chi guarda, tipico diun’opera che resiste nonostante tutto ai tentativi di stringerla inuna definizione, in un momento aureo e risolutivo, proprio perchéla forma, l’arte stessa, per Nauman, è già in partenza il sintomo diun dilemma insolubile che può solo complicarsi o aggravarsi – valea dire il farsi giorno dopo giorno dell’esistenza umana all’interno di

un mondo che ci si rivela implacabilmente in tutta la sua fragilissi-ma e paradossale costituzione.

Il movimento, inteso come azione vuota e inefficace, diventaper Nauman anche un mezzo per procedere a un energico “abbas-samento” della prospettiva estetica e del sistema di aspettative chevi è geneticamente connesso: il consueto e secolare predominiodell’occhio (tratto modernista per eccellenza) viene sfidato e sosti-tuito da una partitura sinestetica cui il corpo – vissuto, rappre-sentato, manipolato, parlato – testimonia nello spazio fisico unacondizione di “indistinzione”, una sfocatura, un allentarsi dei con-fini tra piano fenomenico e rappresentazione simbolica, tra ogget-tivazione e durata, presentandosi all’interno di quella chepotremmo definire, sulla scorta della teoria di J. L. Austin1, un«enunciato performativo», vale a dire una configurazione in cuitende a richiudersi la distanza tra gesto e parola, un comporta-mento che modifica attivamente la realtà circostante, e che rap-presenta al tempo stesso, nella particolare antropologia linguisticadi Nauman, un sintomo del permanente stato di dissidio esisten-ziale in cui ogni parola, immagine, oggetto appare precipitato nelsuo lavoro (e del resto, dichiarava l’artista nel 1973 a Marcia Tuc-ker, «la consapevolezza di sé viene da una certa dose di attività enon si può ottenerla semplicemente riflettendo su se stessi»).

Si può prendere ad esempio di questo atteggiamento la serieEleven color photographs, composta da fotografie realizzate nel1966-67; si tratta di immagini in cui convivono appunto due piani,quello visivo-performativo (sono azioni minime svolte dallo stessoartista) e quello linguistico, evidenziato da titoli laconici quantobeffardi, in un modo che segue da vicino le indicazioni di Austin inHow to do Things with Words (“Come fare cose con le parole”).L’effetto è far risaltare l’interferenza tra espressione verbale e imma-gine, ad esempio attraverso la comica rianimazione di metaforemorte («piedi d’argilla», «mangiarsi le parole»), ovvero una pseu-donarrazione («Caffè versato perché la tazza era bollente»), sempreinsidiando la supposta coerenza strutturale tra segno e significato.L’effetto è precisamente far emergere il conflitto tra la funzionali-tà del linguaggio quotidiano e la plasticità delle immagini, e insie-me denunciare le illusioni della percezione, la continuitàingannevole tra le cose e le loro descrizioni, le ansie egemoniche

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della logica discorsiva. Per Nauman, come per Wittgenstein, l’Ionon definisce il linguaggio ma è piuttosto quest’ultimo, con tutte lesue inesauribili possibilità ed equivoche variazioni, a definire l’Io.In questa ottica va visto l’uso ricorrente dei giochi di parole – palin-dromi, ripetizioni, anagrammi, paronomasie – che Nauman impie-ga in lavori (di solito insegne al neon, ad esempio Run fromfear/Fun from rear del 1972, doppio motto dai sottintesi oscenibasato su un semplice scambio di iniziali) che non presentano i con-notati analitici e il distacco impersonale di altre esperienze concet-tuali degli anni sessanta e settanta, ma che appaiono anzi radicatiin un vissuto individuale, in un sé corporeo intriso di umori, pau-re e desideri, fatalmente esposto alla deriva tragicomica dell’esi-stenza. Proprio qui si innesta in effetti l’altro riferimentofondamentale per Nauman e cioè l’opera di Samuel Beckett, colsuo additare l’assurdità della vita, l’inconsistenza della volontà, la

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Bruce Nauman, Eating My Words, 1966-67

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crisi senza ritorno di un individuo annegato nell’oscura catastrofequotidiana, e insieme la necessità di raccogliere la sfida, di rima-nere all’altezza, di portare sino in fondo le conseguenze della dis-illusione. Se l’infiltrazione di motivi beckettiani è esplicita in unvideo del 1968 come Slow Angle Walk (Beckett Walk), in cui risuo-na l’andatura sghemba e faticosa di Molloy, più che di singoli rife-rimenti si deve parlare della scoperta da parte di Nauman di unvero e proprio valore d’uso, di una leggibilità di Beckett che simanifesta sia come grottesca perdita di equilibrio, frustrazione einsuccesso (le teste cave di cera, quasi di eliotiani hollow men, chepenzolano da un’altra giostra infernale), sia come necessità di eser-citare un controllo, di restringere le possibilità, come vediamo inopere basate su aggressive “istruzioni” (Shit in your Head – Headon a chair, 1990) o il minaccioso rantolo ripetuto allo spettatoredalla voce registrata dell’artista: «fuori dalla mia testa, fuori da que-sta stanza» (Get Out of My Mind, Get Out of This Room, 1968).

Bruce Nauman, Setting a Good Corner (Allegory and Metaphor), 1999. videostill

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In un video del 1999, Setting a Good Corner (Allegory andMetaphor) – ultima opera nel percorso della mostra – scorgiamoun maturo Nauman in jeans e cappello da cowboy intento a«costruire un buon angolo», e cioè materialmente a fabbricare l’in-tersezione tra i lati di un recinto per cavalli. Per un’ora interaseguiamo l’artista occupato a scavare buche, piantare pali, tenderecavi sullo sfondo desertico del suo ranch in New Mexico. Perfetta-mente indifferente alla presenza della telecamera, con i suoi gestiprecisi e concentrati, Nauman si trasforma nell’allegoria vivente diuna lotta con l’infinità dello spazio e del tempo, traduzione di quel-l’imperativo paradossale che Beckett aveva individuato come carat-tere proprio dell’arte, e cioè la consapevolezza che se pure non c’ènulla da esprimere, e nessun mezzo o capacità per farlo, c’è anche,in senso assoluto, l’obbligo di esprimere sfidando l’immancabilefallimento: forse è questa la sfuggente «verità mistica» che il veroartista è chiamato a rivelare, come si legge in un famoso neon del1967. Alla fine, quando tutto sembra consumato, e ogni illusionesmascherata, per Nauman è ancora il lavoro umano, il valore eticodi costruire e dar forma, il senso di una responsabilità che fa i con-ti con il tempo, il disordine e la morte, l’unico piano su cui è vera-mente possibile agire.

L’opera di Nauman sembra riassumere tutte le possibilitàespressive del suo tempo – fotografia, scultura, performance, video,gioco testuale e così via –, sempre mantenendo attivi in parallelotutti i registri, tutti i livelli, senza che sia possibile orientare i singoliepisodi nel senso di una strategia cumulativa. Ogni opera di Nau-man rappresenta in questo senso un problema solitario, un episo-dio celibe, il cui filo comune è semmai l’insistenza dell’artista a volerutilizzare l’arte come strumento di indagine dell’Io, a sondare lasua natura attraverso gli strumenti e le interfacce – il linguaggioverbale, l’espressione corporea, le manifestazioni psichiche, l’in-terferire dell’esistenza individuale con lo spazio fisico e sociale –che costituiscono e segnalano la sua presenza nel mondo.

Corpo. Parola. Intelletto. Inconscio. In uno dei suoi lavori piùnoti, From Hand to Mouth (1967), Nauman si rivolge direttamen-te al processo con cui l’Io edifica la sua relazione col reale, alla sup-posta continuità “dalla bocca alla mano”, dal luogo della parola a

quello dell’azione, dal concetto alla sensazione e viceversa. Espo-nendo il calco in cera di una parte del suo corpo – insieme riflessotautologico del titolo e sua “dimostrazione” temporale – l’artistaacuisce la tensione tra le due polarità e al tempo stesso ne sottoli-nea la continuità esistenziale in una modalità precaria, compro-messa con la materia e il corpo. Come avviene il passaggio tra illinguaggio, l’esperienza e la sensazione? Cosa significa capire o sen-tire? Domande simili sono alla base di uno dei libri che più han-no influenzato il percorso di Nauman, quelle Ricerche filosofiche(1953) di Ludwig Wittgenstein che pongono la dimensione quoti-diana in una prospettiva vertiginosa al cui interno viene operatouno smascheramento delle illusioni della nostra percezione, dellacontinuità ingannevole tra le cose e le loro descrizioni, degli erro-ri e delle smanie egemoniche del pensiero. Parafrasando un celebrepasso del libro, si potrebbe dire che anche per Nauman i risultatidell’arte sono la scoperta di un qualche schietto nonsense e di ber-noccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del lin-guaggio. Di contraddizioni insomma che restano vive anche nellaforma in apparenza pacificata dell’opera, che seguitano a demoli-re le nostre certezze, ad affossare i nostri goffi tentativi di elevarcial di sopra delle nostre mutevoli passioni: «ama e muori – ama evivi; odia e muori – odia e vivi» intimavano (o ratificavano) delresto i neon intermittenti di quel capolavoro di economia poeticache è One Hundred Love and Die (1984).

Dagli esordi alla metà degli anni sessanta e sino a oggi, le inter-viste offrono una via d’accesso privilegiata all’opera di Bruce Nau-man, artista per il resto schivo e poco interessato agli statementteorici2. Quel che ci propongono è tuttavia un quadro indiziario,una sorta di racconto mancato, un crepuscolo di non detti, di pre-carie ammissioni e di verità non confessabili. Un insieme di affer-mazioni sostanzialmente reticenti, una “strategia di parsimoniaaforistica” in cui i singoli indizi sembrano disposti con l’intento didepistare l’interlocutore, e in cui prevale l’attenuazione, il distacco,la rimozione. Nauman, come scrive Barbara Casavecchia, mantienesempre le distanze, rispondendo con precisione se si tratta di descri-vere un lavoro (ma non i presupposti della sua creazione), magaricitando qualche nome d’artista o qualche libro influente, ma senzaconcedere nulla all’aneddotica, senza mai lasciar trasparire alcun-

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ché di drammatico, controverso o ambiguo. La sua è in fondo unatattica di sfinimento dell’interlocutore (e del lettore) che si basa suun principio simile a quello di tanti suoi lavori: investigare il poten-ziale racchiuso nelle poche cose che si hanno a portata di mano: illinguaggio di tutti i giorni, gli oggetti banali, il proprio corpo, l’ate-lier («Io tendo a concentrarmi su una cosa e poi a rifarla e rifarlaancora e a provare tutti i modi possibili per rifarla»). Ed è certa-mente anche una messa in scena, un travestimento dandystico e anti-

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Bruce Nauman, One Hundred Love and Die, 1984, particolare

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passionale in cui Nauman indossa la maschera levigata dell’indiffe-renza e dell’ironia per sottrarre alla vista non tanto (o non solo) illato privato della sua personalità, quanto la riserva vitale della suaarte, l’assenza pulsante, il corpo oscuro e sepolto che nutre il suolavoro sin dagli inizi. Proprio la maschera di cui parla un suotesto/opera del 1975, The Consummate Mask of Rock: «1. Questa èla mia maschera di fedeltà alla verità e alla vita/2. Per coprire la

Bruce Nauman, Violent Incident, 1984, particolare

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maschera di dolore e desiderio/3. Per mascherare la copertura delbisogno di vicinanza umana/… 13. Questa è la maschera per copri-re la mia infedeltà alla verità (Questa è la mia copertura)/21. PeopleDie of Exposure.« Sì, si può “morire di (sovra)esposizione”, la dol-ce morte dell’era dello spettacolo. Come in tutte le creazioni costi-tuzionalmente ironiche, la verità nell’opera (e nelle parole) diNauman è sempre iscritta in assenza: assenza di un corpo, assenzaed evacuazione del significato, assenza di centro (e trionfo del cir-colo vizioso), e infine assenza dell’arte e dell’artista stesso, il cui Io,al fondo, è solo un’ulteriore travestimento ingannevole.

Se uno degli obiettivi di Wittgenstein in filosofia era trasfor-mare il nonsenso latente in nonsenso palese, per Nauman l’insen-satezza della condizione umana è il grande enigma che il suo lavoroartistico non cessa di rendere visibile. I suoi riferimenti espliciti eimpliciti all’opera di Samuel Beckett costituiscono da questo pun-to di vista un riferimento sintomatico ed eloquente: l’assurdità del-l’esistenza, l’evaporazione della volontà, la crisi irreversibile dell’Iosi misurano tanto sulle pagine dello scrittore che nelle opere del-l’artista come altrettanti luoghi della tragedia quotidiana, come pro-ve di un avvenuto divorzio tra senso ed esistenza. Frustrazione,dubbio e impotenza accomunano il Krapp dell’Ultimo nastro e ilclown che appare in diversi video di Nauman, reclusi entrambi sen-za via di scampo nel loro inferno terreno. In fondo, alla domandasu quale sia lo scopo della sua arte, Nauman potrebbe rispondereancora una volta con le parole del filosofo: «Indicare alla mosca lavia d’uscita dalla trappola».

NOTE

Una parte di questo testo è stata pubblicata su «Alias», n. 28 (2005).

1 Cfr. Janet Kraynak, Bruce Nauman’s Words, in Id. (a cura di), Please Pay AttentionPlease, The MIT Press, Cambridge-London 2003 [trad. it. Please Pay Attention Please,postmediabooks, Milano 2004, p. 17]. Il tema era al centro della prima retrospettivaitaliana dell’artista: Bruce Nauman, a cura di Laurence Sillars, Museo d’arte contem-poranea Donnaregina, Napoli, Electa, Milano 2007.2 Farid Rahimi (a cura di), Bruce Nauman. Inventa e muori. Interviste 1967-2001, GianEnzo Sperone/a+mbookstore edizioni, Milano 2005.

Hannah Höch, Schnitt mit dem Küchenmesser Dada durch die letzte WeimarerBierbauch-Kulturepoche Deutschlands, 1919

DADA À PARIS

D-A-D-A. Da-Da. Dada. Pronunciate con o senza accento, questequattro lettere, o due sillabe balbettanti, restano la sigla enigmati-ca che dal suo primo apparire, al Cabaret Voltaire a Zurigo nel1916, contrassegnò la più radicale e inafferrabile delle esperienzedi avanguardia del secolo scorso. Modello di ribellione e anticon-formismo nell’Europa devastata dalla guerra e in piena febbre rivo-luzionaria, col suo attivismo frenetico, col suo amore smodato perla parola libera e il nonsense, per la sua «impazienza di vivere»,dada è il riferimento obbligato di ogni avanguardismo posteriore,lo snodo essenziale, o la strettoia, in cui l’arte si è infilata trasci-nando le sue aporie e i suoi vuoti – new dada, arte concettuale, popart, arte processuale, institutional critique… Dada è davvero l’e-sperienza limite in cui si misura e si specchia l’irrequietezza di tut-to un secolo, il ring in cui lottano abbracciati l’iconoclastia el’amore per le immagini, il rovesciamento di ogni principio e laricerca dei fondamenti, la morte dell’estetica e il trionfo dell’arte,la rivendicazione di una libertà assoluta e l’autodistruzione (scri-verà Tristan Tzara nel Manifesto del 1918: «Un movimento artisti-co che neghi l’arte è un controsenso. Dada è questo controsenso»).Per questo, di fronte alla sua insopportabile impalpabilità, alla suaeccedenza, è stato sempre necessario erigere i successivi cordonisanitari della ragione, del metodo e della storia, e generazioni dicatalogatori si sono sforzati di controllare (o annullare) la vibra-zione dell’inaspettato, l’energia che ancora sprigiona dalle membrasuperstiti raccolte in biblioteche o musei.

Alcuni dati essenziali allora: anzitutto dada senza -ismo, senzacioè il suffisso obbligatorio e proverbiale che si annette tutti i movi-

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menti o quasi della modernità; dada e basta, come volevano i suoimolti inventori. E poi: dada come internazionalità, come espansio-ne e moto centrifugo. La prima avanguardia che abbraccia con-temporaneamente due continenti, Europa e America, che mescolaest e ovest, nord e sud. E poi, ancora, dada come abbattimento del-le barriere in tutti i campi: tra scrittura e immagine, tra poesia e pit-tura, tra scrittura e tipografia, tra scultura e oggetto, tra teatro eprosa, tra musica e rumore; dada come prefigurazione ed estenua-zione di una modalità strutturale della cultura moderna, potremmodire, in cui la spinta a penetrare i confini tra generi, tecniche e tra-dizioni, si muove a rovescio delle separazioni tattiche, del lavorospecializzato, del capitalismo fordista, del frazionamento della cul-tura in campi intransitivi, e infine, ma come orizzonte lontano,come scommessa ironica e metafisica, derisoria e autoderisoria, l’a-nelito alla riunificazione dell’esistenza e dell’esperienza, alla desa-cralizzazione dell’arte come premessa alla sua assunzione integralenella vita: come disse Tzara, per dada «la volontà di distruzione eraun’aspirazione alla purezza e alla sincerità». Dada come movimen-to cannibale, che muta al contatto con le altre avanguardie, vi sci-vola dentro, e scompare; proteiforme come il percorso dell’inquietoFrancis Picabia, posto sotto l’esergo: «Ogni convinzione è unamalattia». E dada ancora vivo, e la sua scommessa più difficile:dada nostro contemporaneo.

Sono tutti questi i temi, le urgenze, l’orizzonte e la sostanzadella mostra Dada al Centre Pompidou di Parigi. Dada torna nelmuseo, dunque. Scommessa impossibile? Forse no: già agli inizi ilmovimento coltivava uno spirito retrospettivo che spingeva i suoiprotagonisti a redigere sillogi, a raccogliere materiali, a progetta-re precoci antologie, come Dadaco, del 1919, o l’ancor più ambi-ziosa Dadaglobe di Tzara, mai pubblicata in effetti ma di cuil’esposizione raccoglie gli abbondantissimi materiali preparatori.Di certo mettere in mostra dada vuol dire riflettere, come scrive ilcuratore Laurent Le Bon nel catalogo1 – sorta di annuaire dallepagine (più di mille) sottili e leggere – al tempo stesso sulla natu-ra del movimento, sui suoi confini culturali e temporali, sulle sueproduzioni, sulla sua fortuna postuma. Una fortuna non a casoinaugurata nel 1953 dalla celebre mostra curata alla Sidney JanisGallery di New York da Marcel Duchamp, dove, con gesto sotti-

Francis Picabia, M’amenez-y, 1919-20

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le e geniale, i cataloghi (stampati come manifesti su un unico fogliodi carta sottile) erano offerti al pubblico accartocciati e gettati inun cestino. La mostra va dunque considerata un momento di veri-fica delle ipotesi storiche su dada, e una messa in discussione del-l’assunto riduttivo che ha in qualche modo sempre colpito ilmovimento (soprattutto in Francia, ma non solo), quello cioè che

lo considera obbligatoriamente preludio a qualcos’altro: al sur-realismo trionfante degli anni venti, anzitutto, con la sua ansia di“sistemare” le intemperanze dada, di superarne i presunti falli-menti. I materiali raccolti e presentati all’ultimo piano della masto-dontica “macchina” parigina hanno testimoniato in effetti, oltreall’innegabile evoluzione dei percorsi di tanti suoi protagonisti,proprio l’autonomia e la specificità del fenomeno dada, la suastraordinaria tenacia sperimentale, e insieme la sua natura pulvi-scolare, multiforme e cangiante, in termini aderenti alla sincroniastorica e alla disseminazione dei suoi molti focolai. Con la suamaglia regolare di spazi aperti, leggibili senza sequenze prestabi-lite, quello di Beaubourg è anche un esempio a grande scala dimontrage, di mostra-montaggio in cui opere, disegni, manoscritti,pubblicazioni, oggetti e fotografie (circa 2000 numeri di catalogo)sono posti tutti su uno stesso piano di leggibilità, con rimandi con-tinui, echi, ripetizioni e variazioni. Con varie notevoli sottigliezzenella presentazione, come ad esempio la presenza di versioni diver-se delle opere (bozzetti, lavori finiti, fotografie), così da dilatare efar risaltare la risonanza comunicativa dei singoli gesti creativi el’attualissima indifferenza al medium (e cioè alla “buona” tecni-ca) che connota le strategie dada.

Al centro del percorso, come una sorta di invisibile Minotau-ro, la dinamica fondante di dada, la percezione spietata della vio-lenza e dell’orrore mortale annidati nel cuore di una civilisation invia di disfacimento: percezione certo più politica in ambito tedescoe più sfumata e letteraria in quello francofono ma parimenti acutae devastante. Dada si pone di fronte all’avverarsi della profezia diNietzsche in un mondo preda della volontà di potenza, calata daicieli mitici nella sorda realtà della trincea, di cui Otto Dix maledi-rà l’eroismo inutile descrivendo i postumi atroci dei sopravvissuti.Ma dada non è l’effetto, la mera conseguenza della guerra: è sem-mai la prova di una resistenza possibile alla guerra. Di una volontàdi tenere aperta la possibilità di creare contro la scelta cieca delladistruzione, di forgiare un linguaggio nuovo, non corrotto, daopporre alla catastrofe morale della parola ingannatrice del pote-re, degli slogan vacui del vecchio mondo. In questa ottica, la dimen-sione cittadina è per gli artisti dada il luogo privilegiato, unlaboratorio in cui raffinare nuove sostanze, un paesaggio artificia-

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le percorso da potenti correnti di energia, da contrasti latenti sucui esercitare il loro talento per la provocazione. Come si osservain George Grosz, il caustico, l’amaro Grosz biologo della vita socia-le, collezionista di deformità, sempre alla ricerca di quel principiolatente che possa rendere finalmente chiara la parentela segreta tralo strozzino, la puttana, lo storpio e il reduce sfregiato, come nellasua precoce Metropolis del 1917, rossa di carne e carta moneta pre-sto inflazionata. Città come labirinto verticale e confusione di luo-ghi, tempi, stili, mescolati e rimontati, come nei fotomontaggi diPaul Citroen e Raoul Hausman, o costruzione dinamica in cui sispecchiano le contraddizioni di un’intera società, come nei lavoridi Hannah Höch culminanti nel celebre collage Taglio con il col-tello da cucina dada attraverso l’ultima epoca culturale di Weimar inGermania dalla pancia piena di birra, «poema ottico simultaneo» incui si canta il passaggio dalla vecchia alla nuova Germania, dalleombre sinistre della società tedesca disfatta dalla guerra alla dan-zante energia giovanile del gruppo dada.

Alcune figure spiccano sullo sfondo di questo magma incan-descente, diverse ma in qualche modo apparentate nella straor-dinaria vitalità del loro lascito: Marcel Duchamp, KurtSchwitters, Francis Picabia. Il primo, dandy irrequieto sulla rot-ta Parigi-New York, disseminatore di idee corrosive e inventoredella macchina di senso più feconda del secolo, il ready-made,l’oggetto banale trasfigurato in gesto ostensivo dalla prospezio-ne filosofica dell’artista e dall’incontro con lo spettatore.Duchamp che realizza col Grand Verre il suo anti-capolavoro,come disse Breton, il grande, irrealizzabile poema moderno sul-l’amore, la seduzione e l’eterna infelicità umana, o che con sub-lime gesto dada si fa rifiutare nel 1917 il celebre orinatoioribattezzato Fountain alla mostra “libera” della Society of Inde-pendent Artists. Il secondo, Schwitters, il grande isolato di Han-nover respinto dal club dada berlinese, l’autore dell’ironicopoema astratto Anna Blume, il collezionista di minuzie, di fram-menti, di rifiuti che formano la sostanza dei Merzbild, diari-col-lage dei suoi vagabondaggi cittadini, impegnato sino alla finenell’edificazione di un’opera totale, visionaria e virtualmenteinterminabile, il Merzbau, monumento alla vita che dalla super-ficie ristretta dei collage si espande sino a inglobare lo spazio abi-

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tato e tendenzialmente l’intera esistenza, opera per due voltedistrutta e sempre tenacemente ricominciata.

Il terzo, Picabia, l’artista bulimico che divora stili artistici,avventure, riviste, amicizie, sempre proteso in avanti, sempre infuga dalla sua stessa esperienza, che dimentica a memoria, cherovescia le sue posizioni e si reinventa di continuo. Grazie allarivista «Riga»2 è ora disponibile per il lettore italiano una cospi-cua raccolta di scritti e di testimonianze di suoi contemporanei(da Breton a Soupault, a Desnos, a Char), oltre a una nutrita sele-zione di studi che ricostruiscono da punti di vista (e tempi) diver-si il suo itinerario creativo. Come ricorda Elio Grazioli, Picabiaè personaggio sfuggente, imprevedibile, controverso. Pittore disuccesso, e poi dadaista anche contro il dadaismo, subito doposfacciatamente figurativo (almeno in apparenza), più avanti spe-rimentatore tenace ancorché impaziente, Picabia sembra avervoluto consumare ogni possibilità, ogni invenzione o scoperta,proibendosi ogni fedeltà a una maniera o a uno stile. E non limi-tandosi a dipingere: crea e promuove infatti riviste d’avanguar-dia, scrive poesie, partecipa a manifestazioni, stringe legami congruppi di artisti e intellettuali in Europa e negli Stati uniti, si fainstancabile promotore delle nuove idee, si occupa di teatro e dicinema. Se nella serie caleidoscopica delle sue esperienze artisti-che la parte certamente più nota è quella che va dal 1915 al ’21circa, caratterizzata dal tema della macchina e dal suo simboli-smo, spesso a carattere sessuale, il suo percorso successivo è inrealtà disseminato di episodi assai notevoli anche se sino a tem-pi recenti poco frequentati criticamente. Si va dagli insolenti rife-rimenti a Ingres in quadri come La Feuille de vigne e La Nuitespagnole, visti da Arnauld Pierre come manifestazioni dell’ina-dattabilità di Picabia a quel “ritorno all’ordine”che in tutta Euro-pa segnava l’inizio degli anni venti, alla serie delle Transparences,in cui vengono applicati i principi del montaggio e del readymade, sovrapponendo i profili di immagini della storia dell’arte,frammentate e decontestualizzate (un procedimento che tornerànei lavori di artisti postmoderni come David Salle), alla serie (giàconsiderata reazionaria) dei nudi dipinti negli anni della guerra,in cui la pittura si fa docile imitatrice della fotografia, sino agliultimi enigmatici dipinti non figurativi.

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Con le sue invenzioni, gli scarti, le brusche rotture che si sus-seguono incessanti da un capo all’altro del suo percorso, l’opera diPicabia è il luogo di un confronto accanito, problematico, con l’at-to di dipingere. La sua, è stato detto, è una pittura senza aura, nonpiù cioè un’esperienza unica, irripetibile, registrazione sensibile diun percorso di conoscenza e di svelamento dell’interiorità e delmondo, ma al contrario una prova dello scollamento, dell’ineffica-cia, dell’inaridirsi non tanto della tecnica ma dell’intima coerenzaed efficacia di un metodo, di una visione. Come osserva GabrieleGuercio3, per Picabia la pittura è sostanzialmente un residuo pro-blematico, un’attività contraddittoria che rivela la crisi di un inte-ro sistema di valori e di pratiche fondate sul nesso tra creazioneartistica e uso, valorizzazione e trasformazione di specifici materialiche rendono possibile intendere l’arte in termini di mezzi e di tec-niche. Un crisi che coincide evidentemente con due eventi crucia-li e concomitanti – la dissoluzione dei confini tra medium e ambitiespressivi operata dai dadaisti e l’invenzione del ready-made da par-te di Duchamp – grazie ai quali appare il nuovo paradigma diun’arte che fuoriesce dal contesto delle sue declinazioni tradizionali(pittura o scultura) per svilupparsi come attività senza limiti, defi-nitivamente slegata dal “mezzo”. In altre parole, il pittore Picabiasa o intuisce che l’arte non è più necessariamente identificabile conle arti e che il sistema che dal Settecento in poi ne aveva garantitol’autonomia è andato in pezzi4. È una condizione in cui il propriodell’arte si confonde col campo delle immagini, scrive RiccardoVenturi5, con quell’iconosfera che proprio negli anni della primaguerra mondiale – gli anni di dada – inizia a espandersi. E nellaquale il tradizionale problema del bello è sottoposto all’azionedirompente delle tecniche moderne, della fotografia e del cinemainnanzitutto, in cui emerge il ruolo essenziale del montaggio e ilconseguente scolorire delle tradizionali opposizioni tra copia e ori-ginale, tra arte e artigianato, tra illustrazione e invenzione.

Pochi artisti, nota a ragione Grazioli, si sono spinti tanto afondo quanto Picabia nell’arte dell’oblio, della non conoscenza,dell’impossibile, dello strenuo esercizio di libertà. Una libertà chepresuppone sempre un “esser contro”: contro la tentazione delconformismo, contro l’immobilità, contro la coerenza inganne-vole dei pensieri e la superficialità degli atti, contro ogni valore

assoluto, e quindi essendo necessariamente esposti all’errore, allaperdita di misura e di coerenza. Di qui la scelta di accettare e anzidi impiegare come strategie costanti l’inversione, il gioco, il mime-tismo, la sottrazione e l’ironia. Rovesciare quindi la pittura nellastudiata indifferenza del disegno meccanico, la purezza nel “qual-siasi”, l’ordine in un’accumulazione insensata, dissimulando il

Kurt Schwitters, Hannover Merzbau (Blaues Fenster), 1930

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dolore e ostentando aridità, in una rincorsa e una sfida perenni aciò che si vorrebbe pacificato e che invece resta testardamenteincompiuto, provvisorio come la vita, origine e meta al tempostesso di questo percorso. E tutto ciò non in direzione dell’auto-riflessione modernista, del demone analitico che rileva e circo-scrive i limiti del linguaggio, ma in quella più rischiosa, perchépiù inafferrabile, di una sapienza muta dell’esistere, di uno spa-zio bianco che respira.

La galassia dada è un corpo fatto di materie fragili, di carteconsunte, ritagli, brandelli di immagini, dichiarazioni lacunose esempre provvisorie, e anche di passi falsi, di negazioni e di falli-menti. Ma è anche un invito permanente a ripartire da zero, a sor-prendere, a deludere le attese rilanciando in permanenza. Dadainsomma come dismisura, ubiquità, irrequietudine e sovrabbon-danza «inafferrabile come l’imperfezione» (Picabia). Come con-giuntura esplosiva che alimenta la perenne insoddisfazione per leforme e la tensione a intensificare ogni esperienza. Ancora intattein effetti sono le sfide cha dada ha lasciato in eredità al secolo bre-ve e al nostro tempo: l’esigenza di un’autenticità che si misura colmetro della vita e che demolisce l’estetica per rifondare l’arte comepluralità aperta, come processo dinamico, come esperienza del-l’uscita da sé e superamento dei dualismi. Come ha detto MaxErnst, dada era una bomba. Raccoglierne le schegge vuol dire pernoi riattivarne la potenza.

NOTE

Parti di questo testo sono state pubblicate in «il manifesto», 6 novembre 2005, e«Alias», n. 3 (2004).

1 Laurent Le Bon (a cura di), Dada, Éditions du Centre Georges Pompidou, Paris 2005.2 Francis Picabia, a cura di Elio Grazioli, «Riga», n. 22 (2003), Marcos y Marcos, Milano2003.3 Gabriele Guercio, Pittura o arte tout-court? Picabia e la questione del medium, in«Riga», n. 22 cit., p. 413.4 Ivi, p. 416-175 Riccardo Venturi, Pathos dell’inorganico: le macchine dada di Picabia, in «Riga», n. 22cit., p. 367.

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PROTECT ME FROM WHAT I WANT: JENNY HOLZER

«Proteggimi da ciò che voglio». Ecco una massima davvero ade-guata all’epoca del godimento obbligatorio e del consumismo uni-versale. Lampeggiante su un grande billboard elettronicoall’angolo di un palazzo su Times Square a New York, mimetizza-ta tra decine di altri messaggi pubblicitari, l’insegna è una delleopere più note di Jenny Holzer, un’artista che sin dalla fine deglianni settanta ha esplorato sistematicamente gli usi e le perversio-ni del linguaggio pubblico e la proliferazione incontrollata di“verità” contraddittorie che lo caratterizza. Toccando via via i temipiù controversi dell’attualità, dal femminismo all’AIDS, dalle cri-si ambientali alla guerra, dalla violenza sessuale alle ideologie diclasse, e soprattutto mettendo sotto una potente lente di ingran-dimento l’inesorabile controllo del potere sulla comunicazione, illavoro della Holzer potrebbe essere considerato una sorta di esten-sione etnografica delle verifiche linguistiche tipiche dell’arte con-cettuale, cui è stata reintegrata la parte mancante o rimossa – lacomponente politica, collettiva, psichica: una terza dimensione incui affiorano insieme la qualità oscillante, sarcastica, aggressiva,amara e seducente della parola quotidiana e la sua organizzazioneretorica, il suo carico di implicite ingiunzioni, di torpore morale esovraeccitazione autoritaria.

Le sue sequenze testuali più famose, come Truisms (1977-79),Survival (1983-86) o Laments (1989), si presentano sotto formadi proliferanti collezioni di frasi contraddittorie, di affermazionidefinitive, perentorie quanto immotivate, pronunciate da unavoce neutra, spersonalizzata, un “io” di volta in volta pungente,sofisticato, visionario o rabbioso, che passa in rassegna i luoghi

Jenny Holzer, For the City, 2005, Rockefeller Center, New York

Jenny Holzer, Protect Me from What I Want, 1988

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comuni della quotidianità e le passioni convenzionali («Gli uomi-ni non ti proteggono più»), colleziona affermazioni ambigue oarbitrarie («Le parole tendono a essere inadeguate», «La deca-denza può essere un fine in sé»), e si inoltra volentieri nei sotto-suoli della frustrazione, della solitudine, dell’odio, secondo unamodalità che ha più di un punto di contatto con l’opera di BruceNauman, e come riferimenti letterari la Spoon River Anthology, esoprattutto Samuel Beckett. Una delle più importanti tra le serierealizzate dalla Holzer sono gli Inflammatory Essays (1979-82),una sequenza di testi lunghi una ventina di righe, dallo stile diret-to, calcato direttamente sulla lingua parlata e sull’oratoria dei ser-moni televisivi, stampati a tutte lettere maiuscole su poster edesposti anonimamente nelle strade tramite affissioni. I “saggi”sono variazioni intorno al tema della violenza, della punizione edella responsabilità, pronunciati con toni rauchi, aggressivi, feb-brili, irrevocabili. Perfetti esempi di manipolazione emotiva emimetismo letterario, questi testi rappresentano uno spaccatodelle correnti sotterranee della società americana nel cruciale

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momento di passaggio dagli anni settanta all’era reaganiana.Per presentare i suoi testi la Holzer ha impiegato mezzi molto

diversi e spesso sorprendenti, dalle insegne mobili a LED (forse isuoi lavori più noti), dalle lastre in pietra alle affissioni stradali, dal-le T-shirts stampate sino alla dimensione immateriale del web,come accade ad esempio in Please Change Beliefs (1994), un pre-coce web project in cui l’artista statunitense utilizza alcune caratte-ristiche di internet – l’interattività e la possibilità di gestiredinamicamente una grande mole di dati – per costruire una serie ditruism, di affermazioni contraddittorie e indiscusse, modificabili apiacere dai visitatori del sito1. Dalla fine degli anni novanta la Hol-zer ha iniziato a utilizzare testi di altri autori, poeti in prevalenza,ma anche documenti ufficiali, aprendo una fase che dura tuttora.Le sue installazioni hanno sempre acquistato una sempre più ampiavisibilità grazie all’uso di proiezioni a scala architettonica di dia-positive, come quelle che il pubblico italiano ha potuto osservarein due diverse occasioni a Napoli e a Milano nel 2006; a Roma, nel2007, la Holzer ha presentato in quattro diverse location altrettan-te proiezioni basate su brani di poeti contemporanei, tra i qualiAntonella Anedda e Jolanda Insana. All’indomani dell’11 settem-bre 2001, il contenuto politico dei suoi interventi si è fatto moltopiù esplicito, come testimoniano tra l’altro i lavori presentati allaBiennale di Venezia del 2007, una serie di tele di grandi dimensio-ni sulle quali sono riprodotti documenti e mappe relative all’inva-sione dell’Iraq e alle politiche adottate dagli Stati Uniti neiconfronti degli enemy combatants.

Stefano Chiodi Nei suoi testi vengono utilizzate strategie di mani-polazione dell’opinione pubblica tipiche del linguaggio dei media:sensazionalismo, sfruttamento delle emozioni, offuscamento delleresponsabilità e così via. Potremmo dire che la strumentalizzazionedel linguaggio sia una strategia e insieme un tema fondamentale delsuo percorso?Jenny Holzer È necessario mostrare come il linguaggio possa esse-re impiegato indifferentemente per fini giusti e terrificanti, e comesia difficile orientarsi tra una molteplicità di punti di vista in com-petizione. Mi interessa che gli spettatori siano portati a rifletteresul rapporto tra intenzioni, per quanto pure, e conseguenze, ai

bagni di sangue inevitabili quando le parole trovano applicazionenel laboratorio umano.

SC In una intervista del 1989 Lei parlava delle «conseguenze realidella politica». In questa fase storica il distanziamento dalla realtà, ladissimulazione delle conseguenze materiali delle scelte politiche haassunto un’intensità senza precedenti. La guerra o le condizioni divita al di fuori dei paesi più sviluppati appaiono sempre meno rile-vanti per una politica globale concentrata sul controllo dell’apparatomediatico. Nel suo lavoro la “realtà” continua ad essere importanteoggi come allora?JH Sono sempre più interessata alle conseguenze reali della politi-ca sulle persone e su me stessa. Conseguenze reali che includonomorire in un’esplosione o per un colpo d’arma da fuoco. Mi preoc-cupa che ciò che vediamo accadere nella vita reale sia determinatoda politiche basate sulla fede piuttosto che sui fatti, e questo natu-ralmente ha prima o poi delle risonanze nel mio lavoro.

SC I testi della serie Inflammatory Essays esemplificano perfetta-mente quanto da tempo accade nella comunicazione contempora-nea, negli Stati Uniti come in Italia, dove il potere facostantemente leva sulla manipolazione di sentimenti elementari.Portare allo scoperto questi meccanismi, demistificarli, era l’in-tento del suo progetto?JH Negli Essays cercavo di mettere a fuoco differenti atteggiamenti.Avevo letto testi di ogni tipo, inclusi alcuni totalmente sinceri scrit-ti da gente che pensava veramente di poter “salvare” il mondo.Naturalmente mi occupavo anche di come la propaganda è statausata nelle diverse epoche per spingere la gente a commettere attidissennati, a uccidere ad esempio. Volevo realmente conoscere l’in-tero spettro di possibilità, dai manifesti idealistici e utopici ai testipiù corrotti e manipolatori. Una delle ragioni che mi hanno spintaa scrivere gli Inflammatory Essays era in effetti la possibilità di rac-cogliere tutti questi testi e mostrare come entravano in conflitto gliuni con gli altri, aprendo quindi una prospettiva di critica su comeil linguaggio è usato per scopi tanto buoni che sinistri. Non volevoeliminare la possibilità di scrivere qualcosa di davvero incande-scente, ma volevo che la serie fosse realistica.

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SC Era insomma un modo per mostrare l’inerente ambiguità del lin-guaggio.JH Del linguaggio e del suo contenuto, naturalmente.

SC Si può oggi stabilire con ragionevole certezza dove inizia e dovefinisce la propaganda nel mondo contemporaneo?JH Qualcuno ci riesce e qualcuno no. Non posso rispondere alladomanda. Una delle cose che mi incuriosivano di più quandoscrivevo gli Inflammatory Essays riguardava il modo in cui ci si

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Jenny Holzer, Da Inflammatory Essays, affissione stradale, 1982

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confronta con centinaia, migliaia, decine di migliaia di punti divista in competizione tra di loro, come si prende una decisione,come si governa, come si trasmette la propria idea a un’altra per-sona. È questo il motivo per cui ho cercato di scrivere i Truisms andgli Essays con molte voci diverse, tutte in contrasto tra loro e tuttedella stessa intensità.

SC Si potrebbe dire del resto che sequestrare parole o concetti, distor-cendoli e trasformandoli in strumenti propagandistici è una tatticaricorrente del potere.JH Credo sia una questione ciclica. Trovo più preoccupante chevengano usate certe parole senza pensare, in modo acritico: pensoalla parola “Dio” ad esempio. Negli Stati Uniti si dice “Dio”, e si èautorizzati a fare qualsiasi cosa, compresa la guerra.

SC Per tornare al suo percorso, Lei ha scelto di lavorare prevalente-mente nello spazio pubblico: in un’intervista ha dichiarato che èimpossibile provare uno choc in uno spazio artistico.JH Non è impossibile ma forse non è sempre desiderabile.

SC E dunque in che misura lo spazio pubblico orienta le sue scelte?E come influiscono le diverse qualità di spazio, ad esempio tra Euro-pa e Stati Uniti?JH Penso non si debba pensare allo spazio pubblico come a unproblema quanto piuttosto come a un’opportunità. È vero, ci sonodifferenze; ad esempio negli Stati Uniti non ci sono grandi spazipubblici. Tempo fa ho realizzato una proiezione al RockefellerCenter di New York, che è uno dei pochi luoghi della città isola-to dal traffico e con una struttura tale da permettere alle personedi stare sedute. Spazi del genere sono molto più comuni nelle cit-tà europee.

SC Che differenza esiste tra lavorare nello spazio pubblico rispetto aesporre in un museo? Quali sono le conseguenze ad esempio sullascelta dei testi e sulla presentazione del lavoro?JH Dipende. A Milano, ad esempio, ho proiettato all’internodell’Hangar Bicocca una serie di documenti appena desecreta-ti sulle politiche statunitensi nel Medioriente, sul trattamento

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dei detenuti a Guantánamo ecc., gli stessi che avevo proiettatoin precedenza sulle facciate di due biblioteche universitarie aNew York e Washington così che gli studenti potessero legger-li. In altre parole è spesso il contesto a decidere. In generale pre-ferisco proiettare la poesia all’esterno, come a piazza delPlebiscito a Napoli, perché più emozionale, più immediata-mente suggestiva, perché riesce a catturare i passanti che altri-menti non si fermerebbero a leggere. All’interno, dove ivisitatori sono meno distratti, tendo a esporre i documenti per-ché richiedono ovviamente più concentrazione, più impegno peressere decifrati.

SC Un elemento ricorrente nelle sue opere degli ultimi anni sono itesti poetici proiettati a grande scala in spazi urbani, come è avvenu-to nel centro di Roma e Napoli. È una scelta in controtendenza rispet-to ai suoi lavori precedenti, dove il valore letterario aveva poca onessuna importanza?JH: Anzitutto mi interessa che il pubblico osservi liberamente imateriali che propongo: non mi piacciono le prediche, e i testi chescelgo non spiegano il senso della vita, non risolvono problemi.Credo poi che la scelta della poesia sia la conseguenza di averincontrato Henri Cole qualche anno fa a Berlino; è a lui che deb-bo la mia tardiva educazione poetica.

SC C’è stato in questo senso un cambio di direzione da opere comeTruisms e Survival, composte di slogan e affermazioni che sembra-vano dettate da una voce anonima, plurale, a quelle più recenti cheutilizzano la poesia? Proiettare dei versi ha contribuito a modificarela sua visione, il modo in cui pensa e realizza il suo lavoro?JH Per un certo numero di anni ho scritto tutti i testi delle mie ope-re; potevano sembrare di mani diverse, ma in effetti erano tutti ope-ra mia. Poi, dopo aver realizzato tredici serie testuali, ho iniziato ausare scritti di altri autori, ad esempio per ricordare persone ucci-se o esiliate ho usato i loro testi piuttosto che scriverli io. Ho pen-sato fosse giusto che persone ridotte al silenzio fossero ricordatedalle loro stesse parole. Più di recente ho introdotto la poesia nel-le mie proiezioni a scala urbana perché mi sembra particolarmen-te appropriata per quest’uso.

SC Quando un testo poetico è proiettato su una facciata larga cin-quanta metri non cambiano ovviamente solo le condizioni di letturama anche il modo con cui i versi vengono intesi. È del resto una lezio-ne, questa della fisicità della lettera, che la poesia da Mallarmé a oggiha tenuto ben presente. In che modo l’aspetto tangibile del testoinfluisce sulla lettura, sull’interpretazione del suo lavoro?JH Quando una poesia viene proiettata molti fattori entrano in gio-co, dall’atmosfera notturna, se c’è pioggia o bel tempo ad esempio,

Jenny Holzer, For Naples, 2006, Piazza Plebiscito, Napoli

212 STEFANO CHIODI

allo stesso edificio su cui avviene la proiezione. La storia, la formadell’architettura contribuisce a creare una certa sensazione, un cer-to tipo di risposta. Posso immaginare in anticipo l’effetto che otter-rò da un certo edificio o da una certa città, ma è un po’ come peril teatro, non si può mai sapere finché non si va in scena.

SC La dimensione è importante?JH Sì, certamente. La grande scala crea una straordinaria diffe-renza così come i materiali, il luogo, il pubblico, e quindi il colo-re, il tipo di carattere e il ritmo della proiezione. Sono tuttevariabili che devono essere prese in considerazione. Ho imparatocon l’epsperienza che le proiezioni devono essere piuttosto lente,non solo perché così è più facile leggere i testi, ma per creare uneffetto di solennità, un ritmo processionale che trasmette la serie-tà appropriata per gli argomenti spesso tragici che vengono affron-tati nei testi.

SC In alcune sue installazioni che utilizzavano insegne elettroni-che – penso in particolare alla mostra al Guggenheim di New Yorknel 1990 – a tratti il flusso di parole cessava del tutto. Poi, improv-visamente, i testi cominciavano di nuovo a rincorrersi nello spa-zio. Il ritmo e la velocità del testo sono gli altri elementi che leiutilizza per connettersi all’architettura e al movimento casuale del-lo spettatore?JH Sì. A volte cerco di calibrare il ritmo e la presentazione sulcontenuto, in altre cerco esattamente il contrario, in modo daottenere dei ritmi interessanti per il pubblico. Alla DIA Founda-tion di New York, diversi anni fa, dopo aver lavorato per giornisu un lavoro mi resi conto che l’ambiente sarebbe dovuto a uncerto momento diventare completamente buio, così da creare uneffetto di sperdimento e anche un po’ di timore a causa dell’o-scurità. Quindi tutti le luci si sarebbero riaccese e il testo avreb-be ricominciato a scorrere. In altre occasioni, come alGuggenheim, c’era una varietà di ritmi pensata perché il pubbli-co non si intorpidisse. In altre ancora, come alla National Gale-rie di Berlino, avevo cercato un effetto di compressione edespansione dello spazio lavorando sul ritmo e la dimensione deiLED applicati alle travi del soffitto.

213PROTECT ME FROM WHAT I WANT

SC I luoghi che hanno ospitato i suoi lavori a Roma si trovano tuttinel centro storico della città. La scelta è significativa ma anche un po’scontata…JH Come sempre in ogni scelta c’è una combinazione tra ciò che sidesidera e ciò che è possibile ottenere. Tutti i luoghi a Roma sonostati scelti perché dotati di una facile visibilità e accessibilità. Mipiace che le mie proiezioni avvengano in luoghi dove c’è un pub-blico occasionale, non informato in precedenza. E quindi aver scel-to il centro della città risponde a questa logica.

SC Sono senz’altro luoghi straordinari. Ma forse sarebbe stato inte-ressante anche allontanarsi dal centro storico, dalla sua bellezza inqualche modo prevedibile.JH: A volte però è interessante osservare il contrasto tra l’intensi-tà drammatica delle poesie e la bellezza formale dell’architettura.

SC Qual è il suo rapporto con la traduzione? Come reagisce quandovede un testo su cui ha lavorato in inglese proiettato in italiano, fran-cese o tedesco?JH: La traduzione è obbligatoria se si lavora nello spazio pubblico,una sua mancanza sarebbe stupida e poco rispettosa degli spetta-tori. Ma la traduzione è anche qualcosa di misterioso che ha il pote-re di cambiare le cose. E non solo a causa delle parole diverse, maperché fa apparire le differenze tra le culture.

SC Tra i suoi lavori “storici” con le insegne elettroniche e le proiezio-ni più recenti si avverte non solo un cambiamento visivo, ma soprat-tutto un mutamento di tono. Mentre le prime risultano dirette,aggressive, a volte hanno l’aria di frasi dette ad alta voce, le proiezio-ni posseggono una tonalità più intima, un’inflessione affettivamentecarica, quasi quella di una voce materna che bisbiglia nell’orecchio del-lo spettatore. È un effetto ricercato intenzionalmente?JH Le insegne elettroniche sono intrinsecamente aggressive, anchein mezzo a tante altre l’effetto della singola frase è certamente menoforte. La mia intenzione era fornire informazioni in conflitto traloro così che gli spettatori potessero sceglierne alcune e tralasciar-ne altre, a loro piacimento. Ma d’altro canto Lei ha ragione, leproiezioni comunicano una sensazione completamente diversa. E

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questo perché si tratta di luce bianca che scorre lentamente: unasoluzione molto adatta alla poesia e forse anche a quanto volevorealizzare, anche con le insegne, e cioè porgere, offrire qualcosadicendo “ecco, fatene ciò che volete”.

SC Rispetto al passato in che direzione si muove il suo lavoro piùattuale?JH Le tematiche sono sempre le stesse ma sono interessata a spe-rimentare altri modi di presentazione, come le proiezioni ad esem-pio, che danno sensazioni del tutto diverse. Mi piace avere oggi adisposizione un’intera gamma di voci da utilizzare. Quando cercodi affrontare il tema della guerra posso mostrare ciò che pensa unpoeta israeliano, quel che prova un palestinese riguardo alla per-dita della sua casa o cosa ha pensato e sentito Wisława Szymborskanella Polonia all’indomani della seconda guerra mondiale. È qual-cosa di inestimabile.

SC È anche un modo di pensare l’altro, di usare la poesia per “met-tere al mondo” l’altro?JH Ho sempre desiderato che ciò che facevo fosse qualcosa di uti-le, coinvolgente e importante. Non sono sicura che sia stato sem-pre così, ma penso che lavorare con testi di altri autori rappresentiun’ulteriore possibilità. Oggi ho più fiducia nella mia abilità di dareordine alle cose, di trovare il luogo più interessante, di quanta neho nella mia capacità di scrivere i testi io stessa. Usando scritti dialtri autori sono libera di fare ciò che mi riesce più naturale, trova-re il medium giusto, il luogo migliore e il materiale più adeguato.

SC Cosa caratterizza essenzialmente questa fase del suo percorso?JH Sono sempre meno interessata a sapere chi sono e invece sem-pre più curiosa degli altri.

NOTE

Una versione più breve di questa intervista è stata pubblicata su «il manifesto», 8 luglio2007, p. 12.

1 Il progetto è tuttora on line: adaweb.com/project/holzer/cgi/pcb.cgi?please.

PROTECT ME FROM WHAT I WANT 215

Alain Séchas, Centaure mourant 2.0, 2008

LA VERITÀ SUI CENTAURI: ALAIN SÉCHAS

Racconta Primo Levi in una delle sue novelle più ermetiche,Quæstio de centauris, del tragico caso di un centauro in carne eossa, figlio di una cavalla e di un uomo, vissuto, sia pure di nasco-sto, in un’epoca vicinissima alla nostra. Trachi, questo il suonome, come i suoi mitici ascendenti è una creatura fiera e solita-ria, dotata di naturale saggezza e stupefacente sensitività; pro-prio quest’ultima dote, e l’innata capacità di entrare in unionepanica con l’energia germinativa della natura, di provare «per levene, come un’onda di allegrezza […] un’ansia e una tensionetremula», di condividere «ogni desiderio e ogni amplesso», allafine lo perderà. Conosciuto per accidente l’amore, anzi l’amourpassion più bruciante e irrefrenabile, ne rimarrà talmente turba-to che in preda a un incontrollabile accesso di furia carnale, unavera regressione allo stato bestiale, fuggirà verso la Grecia natiaabbandonando il mondo degli uomini. In un’ultima immaginesarà visto nuotare, simile a un mostro marino, nelle acque pro-fonde del Mediterraneo.

La breve parabola narrata da Levi non solo ripropone il carat-tere di una creatura mitologica che da millenni colpisce l’imma-ginazione occidentale con la sua instabile unione di natura umanae ferina, di senno e brutalità, ma ne fornisce un’interpretazionepiù sottile e vicina al tempo di ferro e di sangue, di esaltazione esistematico annientamento dell’umano, che è stato quel XX seco-lo testimoniato con drammatica lucidità dallo scrittore torinese.Con la sua passione autodistruttiva, il suo anelito a una cono-scenza più sottile ed empatica del mondo, la sua bramosia eroti-ca, la sua fragilità e ambivalenza, con l’oscillare incessante tra

sensualità e contemplazione, il centauro è non solo un autoritrat-to in cifra di Levi, una sintesi della sua biografia, del suo sentirsiinguaribilmente doppio, lui, uomo di scienza e scrittore, ebreosopravvissuto al Lager e intellettuale esigente, ma anche personi-ficazione dell’ambivalenza di una modernità che ha traumatica-mente scoperto nel suo stesso cuore il germe del negativo ericonosciuto nel proprio riflesso quell’Altro – il dissimile, ilmostruoso, il perturbante – che confinato per secoli nell’ombra,ai confini della civiltà, torna di prepotenza a reclamare il suo dirit-to di cittadinanza. Il centauro appare così emblema di un’umani-tà congiunta a forza alla sua parte maledetta, obbligata a guardarenegli occhi «l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale chepiange, l’animale infelice» come scrive Nietzsche1. L’essere dio-nisiaco sembra realizzare il proprio destino nel momento stesso incui si predispone alla catastrofe.

È in quest’ultima veste che il centauro riappare a fine Otto-cento, lontano ormai dal carattere brutale che gli attribuiva lamitologia antica e dalla versione moralizzata che della sua figuraavevano dato il medioevo cristiano e il neoplatonismo rinasci-mentale. Anziché rivelarsi un limite, la sua natura ambivalente dimaestro di civiltà e di guerriero appare nell’atmosfera fin de siè-cle un elemento di fascinazione, un tratto artisticamente stimo-lante che ispira una produzione piuttosto ampia di poemi e diprose in chiave di volta in volta elegiaca o sensuale, di rivisitazio-ni e ritorni, tutti indicatori del fatto che la creatura mitologicadoveva incarnare una dualità profondamente radicata in una sen-sibilità decadente per la quale essa diviene anche metafora del-l’artista, compendio di quella miscela di verità e seduzione, dinarcisismo e sacrificio che dal Romanticismo in avanti avevanutrito il suo mito.

Ed è precisamente a questa sensibilità, all’immaginario sim-bolista europeo e al suo uso codificato della mitologia antica –dai centauri letterari di Henri de Régnier a quello agonizzantedipinto da Giorgio de Chirico –, che si è ispirato Antoine Bour-delle quando, verso il 1910, il tema del centauro è emerso nel suopercorso con una serie di disegni, bozzetti e dipinti culminantein quella che è senz’altro l’opera più famosa dello scultore, la sta-tua del Centaure mourant. In questo attaccamento a un motivo

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Alain Séchas, Centaure mourant 2.0, 2008

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così peculiare possiamo scorgere senz’altro una motivazione percosì dire plastica (l’uomo-cavallo come soggetto ideale ed epito-me anzi di una idea di scultura che mirava a fondere classicità emisurato modernismo), ma ancor più probabilmente è un mec-canismo di identificazione ed emulazione ad aver spinto Bour-delle verso il centauro, visto come la personificazione efficace insenso retorico delle proprie aspirazioni artistiche, della propriavolontà (tipica per la verità di un certo autoindulgente titanismotardo ottocentesco) di “oltrepassare” idealisticamente i limiti fisi-ci, di giungere con i mezzi della scultura all’agognata sintesi, comedirà in una conferenza del 1921, tra spirito e materia.

Il carattere più singolare della grande figura (derivato in veri-tà da una Centauresse plasmata in precedenza dal suo maestroRodin) è lo slancio che il torso umano acquista rispetto ai model-li classici: un allungamento che conferisce un’esplicita carica sen-suale. Il centauro morente, che in un affresco realizzato in queglistessi anni da Bourdelle nel Théâtre des Champs-Élysées paremimare con le braccia allargate e la testa reclinata la posa del Cri-sto crocifisso (un’analogia formale che la dice lunga sulle riso-nanze psichiche e figurative presenti nell’immagine), appare quipercorso dal brivido violento dell’agonia che irrigidisce i musco-li e spezza i gesti – le zampe rattrappite sotto il gran corpo, la testaossuta che si piega sulla spalla sinistra, il braccio destro teatral-mente proteso all’indietro –, in una doppia citazione dai Prigio-ni michelangioleschi e dalle Ombre collocate sempre da Rodinall’apice della sua Porte de l’Enfer.

Il visitatore del Musée Bourdelle trova oggi il gesso del Cen-taure mourant in fondo alla grande sala che ospita le sue opere dimaggiori dimensioni, le matrici da cui erano tratte, col procedi-mento del calco, le molteplici fusioni che ne costituivano la tira-tura “originale” in bronzo. Ma se ci avviciniamo alla grande figurabiancastra che troneggia al centro dell’abside potrebbe accadereche questa, senza preavviso, cominci a scomporsi sotto i nostriocchi. Il torso umano si separa dal corpo equino che cede improv-visamente, cadendo su un fianco, presto seguito da tutte le altreparti in una caduta controllata ma non meno catastrofica. Il tem-po appena di reagire alla sorpresa che il centauro inizia a tornarenella posizione di partenza, risollevato dai supporti meccanici e

dagli ingranaggi nascosti al suo interno. È avvenuta in effetti un’a-bile sostituzione. Il Centaure originale è stato rimpiazzato da unacopia identica in resina realizzata da Alain Séchas riutilizzandogli stampi serviti a produrre negli scorsi decenni un certo nume-ro di repliche: nell’interno cavo un complesso meccanismo con-trollato digitalmente rende possibile il collasso e quindi lasubitanea ricomposizione della statua sotto gli occhi dello spet-tatore.

Nel suo improvviso abbattersi al suolo, così come nella suainopinata resurrezione, il centauro meccanico mette ironicamen-te in scena ciò che la scultura tende a rappresentare solo in manie-ra simbolica. Il moribondo qui muore davvero, ma come in unaltro mito classico, quello di Sisifo, è condannato a tornare indie-tro e ricominciare tutto da capo, senza fine. E ciò decostruendoal tempo stesso la materialità scultorea propria del Centaure e ilgiacimento tematico da cui esso trae alimento, screditandoentrambe o meglio rileggendole a rovescio, contropelo, secondouna modalità impertinente tipica dei lavori più noti di AlainSéchas. Non tanto per il gusto di attentare al monumentalismo diBourdelle nel museo stesso consacrato alla sua opera, quanto, eben più radicalmente, per screditare l’idea generica di un “signi-ficato”, di uno stabile orizzonte di attesa su cui l’esperienza del-l’arte si presume possa fare affidamento, per minare la fiducia inuna forma di sintesi superiore e rassicurante. Insomma con l’in-tento di desacralizzare quanto era stato posto sull’altissimo pie-distallo dell’Idea, di farvi arrivare qualche schizzo del fango dellaStoria, di riaprire sulla superficie stessa della scultura le incrina-ture pazientemente stuccate, di disumanizzare una volta di piùl’Arte nel segno di un’umanità riluttante, opaca e per nulla reden-ta. E tutto questo col tipico tratto irriverente e beffardo di Séchas,che ha qui tutta l’aria di rivolgersi al suo famoso predecessoreesclamando: «mon semblable, mon frère!».

Nato negli anni della rivoluzione cubista, passato apparen-temente indenne attraverso il carnaio della prima guerra mon-diale, indifferente alla dialettica dell’avanguardia, né accademiconé modernista, il Centaure mourant ci appare oggi come il pro-dotto enigmatico di un anacronismo, di un desiderio di fuoriu-scita dal tempo storico che mai in effetti l’arte novecentesca

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avrebbe potuto concedersi. Fossile vivente di un’epoca che sem-bra aver lottato per conservare una propria ingannevole inno-cenza, la statua ci appare reticente, ben mimetizzata dietrol’ideologia dell’eternità e il fondo autobiografico che la accom-pagnano. Percorrendo a ritroso il suo procedimento di fabbri-cazione (e cioè mostrandoci l’artificio della scultura, la finzionemeccanica sotto l’anarchia virtuosistica della sua “pelle”) AlainSéchas ricapitola implicitamente l’ontogenesi del Centaure nellafilogenesi del genere “statua” per proporne quella che potrem-mo definire una sua versione critica postmoderna: agendo da unlato sullo strato formale, riaprendone il procedimento creativo,riletto precisamente come un après coup, e dall’altro su quellopsichico, individuando nella carnalità, nella frontalità nuda, simi-le a quello di un San Sebastiano martirizzato, la componenterimossa, il paradossale non detto (e non visto) da riportare a leg-gibilità nel grande corpo modellato nel gesso. Il desiderio eroti-co e omoerotico insomma, o piuttosto la sua eterna grottescaripetitività, quel va-e-vieni anorgasmico reiniettato da SamuelBeckett nel corpo del secondo Novecento, il pulsare macchinico,il circolo vizioso di un’azione senza scopo alimentata della pro-pria alienata precisione, dalla ripetizione infinita e frustrante. Eancora, il tunnel buio da cui la mano, la forma, lo stile, la quali-tà non riescono più a venir fuori, con la conseguente riduzionedell’arte alla misura di un attrito letale tra la vita umana e ladurezza inscalfibile del mondo. Questa è l’oscillazione entropi-ca che mette in moto la macchina occultata nel mostro mitologi-co, questo il perpetuo smottamento che finisce per abbattere lasua statua.

Quel che Alain Séchas ci invita a ripensare con il suo reenac-tement cinetico della statua di Bourdelle è in definitiva, su duepiani sovrapposti e coincidenti, il carattere composito, inflazio-nario dell’opera d’arte, la sua non autosufficienza, e il rapportocon la temporalità che domina l’esistenza e il pensiero umani,posti di fronte alla loro grottesca inanità, al non senso trionfal-mente insediato nella Storia. Negando al suo eroe l’offerta catar-tica di un monumento, l’artista contemporaneo lo riporta cosìalla dimensione di oggetto, lo trasforma, riducendolo alla sua let-teralità, in un dispositivo celibe intento a eseguire scrupolosa-

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mente la sua ossessiva cinematica, e ne fa al tempo stesso unritratto allegorico, sinistro e disincantato. Come il centauro Tra-chi di Primo Levi, il Centaure mourant 2.0 incorpora e porta alleconseguenze estreme la sua natura bifronte e ad essa finisce persoccombere. La sua caduta riguarda anche noi.

NOTE

1 Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Adephi, Milano 1968, p. 152.

Alain Séchas, Centaure mourant 2.0, 2008

Ed Ruscha, State Department of Employment, da Thirtyfour Parking Lots, 1967

DRAWING ATTENTION: ED RUSCHA

Parcheggi. Vuoti. Fotografati dall’elicottero. Trentaquattro spazipiatti, regolari o asimmetrici, con le loro bianche griglie sbieche el’asfalto macchiato da informi macchie d’olio, ironici residui (otracce colpevoli) dei meccanici frequentatori di quelle superfici.Quello che ci presenta Ed Ruscha in uno dei suoi lavori più famo-si, il libro d’artista Thirtyfour Parking Lots (1967), è un mondo con-fuso, frammentario, fissato in una casualità che deriva verso labizzarria e l’assurdo. Certo non la città radiosa, lo spazio limpida-mente progettabile, la riserva di caccia per la virtù regolatrice del-l’utopia moderna. Eppure, era stato detto, «vista dall’aereo la terraè favolosa, è geometria pura, geometria instancabile […] la visio-ne aerea è la più calma, la più esatta che si possa desiderare. […]Tutto assume la precisione del disegno»1. Ma se così l’arcimoder-nista Le Corbusier assegnava alla vista “a volo d’uccello” il ruolo diposizione ideale per chi progetta una città o un territorio , «unavisione calma e astratta della realtà, basata su puri rapporti forma-li compositivi degli elementi visibili»2 per Ruscha il volo è insiemeuna prospettiva ardita e suggestiva sul mondo e uno svago alla por-tata di qualunque turista, e la città che appare dall’alto, una LosAngeles convulsa e precocemente disfatta, non più un territoriovergine da convertire e civilizzare, ma un campo di forze contra-stanti, un’arena affollata e rissosa, un controcanto secolare, sparsoe monotono, ma concretamente vissuto, ai miti verticali e alle ina-bitabili fortezze di cristallo del Novecento.

Proprio l’esperienza della città, di L.A. come archetipo dellacittà tentacolare postmoderna, è il cuore pulsante di una traietto-ria creativa di cui è ormai pienamente visibile la qualità anticipa-

trice, trasversale, stratificata3. Nato nel 1937, trasferitosi a LosAngeles nel 1956, Ruscha esordisce come pittore nella scia dellasensibilità new dada; nei primi anni sessanta, con un gesto che avràlargo seguito, rivoluziona la forma dell’artist’s book, sottraendolaal culto bibliofilo del beau livre di ascendenza europea e alle suetecniche raffinate, alle carte preziose, alle copie meticolosamentelimitate, optando per la stampa offset, e dunque per tirature rela-tivamente ampie, piccoli formati e tecniche di composizione ripre-se dalla grafica contemporanea. Prendeva così avvio unastraordinaria produzione, presto considerata uno dei primi e piùrilevanti esempi di arte concettuale, che ha avuto vasta risonanza

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Ed Ruscha, Nine Swimming Pools, 1968

nell’opera di artisti come Bruce Nauman, Robert Smithson o SolLeWitt. I libri fotografici di Ruscha si addentrano nella città con-temporanea censendo con caratteristico atteggiamento neutro edistaccato il carattere residuale, frammentato, marginale dei suoispazi, la marea montante dell’indifferenziato, per usare un’imma-gine di Yve-Alain Bois, l’involuzione entropica dei “piccoli nien-te” che ne costituiscono il tessuto. Con l’eccezione del primo libro,Twentysix Gasoline Stations (1963), in cui Ruscha aveva fotografa-to le stazioni di servizio incontrate nel suo viaggio iniziatico sullastrada da Oklahoma City a Los Angeles (le stesse che andranno acostituire una delle sue prime e più note serie pittoriche), la suaattenzione si è concentrata sempre sul medesimo perimetro urba-no, esplorato con un metodo assai affine a ciò che alla fine deglianni cinquanta Guy Debord aveva chiamato dérive, un rapido econsapevole spostarsi attraverso il quale produrre un’analisi “eco-logica” delle discontinuità del tessuto urbano, dei suoi microclimi,delle unità dei quartieri, fornendo un’anticonvenzionale e innova-tiva mappatura «psicogeografica» degli spazi, dei loro usi indivi-duali e sociali, delle loro trasformazioni latenti. La particolaredérive di Ruscha assume la forma del viaggio in automobile, unaforma di perfetto adattamento all’ambiente che diventa uno stru-mento di indagine su una specifica condizione antropologica e unvero e proprio “modo di vedere” basato sulla ripetizione, il cui esi-to è una catalogazione tipologica priva di ogni partecipazione emo-tiva: una successione di “scatti” che corrispondono agli sguardidiscontinui gettati dal guidatore sul paesaggio circostante: «Ciò chericercavo era un non stile, o una non affermazione con un non sti-le […]. Volevo eliminare ogni autoconsapevolezza dello stile. Pre-ferirei non avere stile che avere uno stile qualsiasi. Qualcuno hapensato che certe immagini [nei miei libri] fossero interessanti inquanto fotografie, ma questa non è stata mai la mia intenzione»4.Così, ad esempio, in Every Building on Sunset Strip (1966) un lun-go foglio piegato a fisarmonica ospita il regesto fotografico del cele-bre viale come appare ripreso da una vettura che ne percorrel’intera lunghezza, mentre in Some Los Angeles Apartments (1965)si inventariano immobili anonimamente “moderni” affacciati a casosu strade e incroci. Più avanti, sempre nel medesimo scenario urba-no, Nine Swimming Pools (1968) presenta un piccolo catalogo di

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banali piscine, immortali articoli di culto della borghesia califor-niana, concluso dall’incongrua ed ermetica immagine di un bic-chiere in frantumi, mentre in un altro libro famoso, Real EstateOpportunities (1970), Ruscha riunisce (con la stessa spassionataoggettività dell’agente immobiliare che scatta foto di proprietà invendita, commenta l’artista5) venticinque fotografie di terreni invendita nello slabbrato tessuto urbano di Los Angeles. Tutti espon-gono ben visibile il cartello “For Sale” e si presentano con l’aspet-to vuoto e abbandonato, sospeso, di spazi temporaneamentesottratti all’uso, all’utilità, al circuito economico. Spazi che stannoalla città come la polvere ai luoghi abitati; polvere dunque essi stes-si, come sottolinea Elio Grazioli6 riprendendo quanto GeorgesBataille scriveva nel 1929 nel Dictionnaire critique: «Un giorno ol’altro la polvere comincerà a invadere con masse enormi gli edifi-ci abbandonati, i magazzini deserti», vale a dire la zone, in france-se corrente l’area marginale di una città. Questo residuo oeccedenza inabitabile dello spazio urbano è in altre parole la mani-festazione tangibile della forza disgregante che consuma da dentrola società capitalistica e il suo sistema comunicativo, l’entropia, lasovrapproduzione, l’accumulo e la ridondanza di informazione inu-tile, ripetitiva, malignamente proliferante.

Tutto il lavoro di Ruscha si inscrive in questa cifra inconfondibi-le: la registrazione del “rumore” che sovrasta e annienta l’informa-zione, e il senso, nel mondo contemporaneo. A ogni livello, dalla cittàalla singola architettura e al terreno che la sostiene, dalla strada all’au-tomobile, alle parole sui cartelloni pubblicitari, a quelle pronuncia-te dai passanti o ritrasmesse dalle radio ininterrottamente accese.Ecco allora l’altro versante dell’opera di Ruscha, il linguaggio scrit-to, appunto, o meglio il sovrapporsi di parole o concrezioni verbali,piatte o in tre illusive dimensioni, che appaiono sin dagli inizi nellasua pittura accompagnandola sino a oggi, come ha mostrato la retro-spettiva del 2004 al MAXXI di Roma, la prima nel nostro paese a pre-sentare l’insieme della sua produzione7. Certo, in quegli stessi annisessanta molti artisti hanno utilizzato il linguaggio scritto, dai fram-menti di Jasper Johns alle tautologie concettuali di Joseph Kosuth, adesempio, passando per i fumetti e le onomatopee pop di Roy Lich-tenstein e gli slogan criptici di Lawrence Weiner, eppure quello diRuscha resta un metodo del tutto peculiare di inglobare e per così

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dire attivare la scrittura. La sua lingua è composta da materiali impu-ri, da schegge di titoli di giornali, da battute di film, da insegne stra-dali, poste con distacco accanto a brandelli di conversazione in slang,a voci distorte captate per caso alla radio, a slogan pubblicitari equi-voci o sfacciati, a palindromi insidiosi. Ancora una volta è il mondovisto dalla prospettiva del passante frettoloso, del guidatore distrat-to, con le sue ossessioni a basso impatto, la sua memoria corta, la suamancanza di domande. Singole parole o brevi frasi elusive, ammo-nimenti, osservazioni banali, popolano le superfici di tela o di cartacon perentorietà di epigrafi: a volte il significato è in apparenza espli-cito (Screaming in Spanish), in altre occasioni ellittico o sospeso (Tho-se of us who have double parked), beffardo (Artists who do books),umoristicamente inceppato (I l-live in H-Hollywood) o subdolamentescrupoloso (Wazza problem?): sempre, in ogni caso, le frasi appaio-no colpite come da un corrosivo morbo ironico e pungente che ten-de a intralciare, a frustrare ancor più la lettura. Il perduto mormoriodella città contemporanea diviene così d’improvviso visibile, staglia-to com’è su campiture monocrome o variamente sfumate, o ancora,su grandi sfondi di pittura fotorealistica, cieli, fragorosi tramonti,

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Ed Ruscha, Knox Less, Oklahoma City, da Twentysix Gasoline Stations, 1962

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imperiosi e anonimi paesaggi di montagna. In un’altra serie, quelladelle “parole liquide” (Eye, Rancho) Ruscha gioca con l’orizzontali-tà del dripping di Jackson Pollock, dipingendo illusionisticamente leparole come se fossero state ottenute colando liquidi viscosi cospar-si di strane particelle organiche (ma anche, in alternativa, fotogra-fandoli, come in una copertina per «ARTnews» del 1972). Com’èprevedibile, l’aspetto formale di queste parole nega in partenza lapossibilità di astrarsi dalla qualità materiale della scrittura, di idea-lizzare il “lato palpabile dei segni”. Potremmo anzi dire che qui comein ogni altro quadro di Ruscha diventi visibile la dicotomia tra il suo-no della parola e il silenzio della scrittura, per riprendere la fonda-mentale opposizione proposta dalla Grammatologia di Derrida: se lascrittura rappresenta l’istanza della morte e dell’assenza, contro la

Ed Ruscha, ARTnews, sweet and sour, copertina, 1972

231DRAWING ATTENTION

qualità viva della parola parlata, allora le parole, i frammenti di scrit-tura usati dell’artista sono tracce, segni di segni, che rimandanocostantemente a uno stato impuro, contaminato, compromesso conl’esistenza, entropico. Così come Derrida mostra che il segno scrittonon è qualcosa in cui viene depositato un significato che esiste già,ma è proprio ciò che costituisce il significato, per Ruscha la forzavisiva della parola scritta impedisce di sublimarne interamente i suoisignificati, di farli transitare nel cielo delle idee, di staccarle dai cor-pi che ne sono l’origine, il veicolo e il terminale. Di fronte alle opere di Ruscha siamo di continuo invitati ad abbando-narci a un’irresistibile deriva del senso, passando insensibilmente dal-l’artificio pittorico al suo doppio spettrale, dalla rassicurante ratificadelle cose concrete al loro improvviso consumarsi e sparire, magari inquell’improvvisa e silenziosa fiammata che vediamo apparire sul mar-gine di alcuni quadri. Eccoci a un certo punto proiettati in uno spaziorumoroso e affollato, dove una moltitudine di storie si diffrangonocome luce in un prisma sino a divenire frantume assordante o balbet-tio incomprensibile. Come il “rumore bianco” di Don De Lillo, il bru-sio della lingua si insinua visivamente tra noi, e da una Los Angeleseternizzata nella sua instabilità invade il nostro spazio e il nostro tem-po, ne tappezza i muri e alla fine annulla a forza l’ultima illusione di unordine, di un riscatto possibile, lasciandoci beffardamente alle presecon la richiesta di una ironica, provvisoria, vivibile sensatezza.

NOTE

Questo testo è stato pubblicato in forma più breve in «Alias», n. 32 (2004).

1 Cit. in Giuseppe Di Napoli, Disegnare e conoscere, Einaudi, Torino 2004, pp. 169-70.2 Ibid.3 Per una ricostruzione del percorso di Ruscha cfr. Richard Marshall, Ed Ruscha, Phai-don, London-New York 2003. Scritti e interviste sono raccolti in Ed Ruscha, LeaveAny Information at the Signal, a cura di Alexandra Schwartz, The MIT Press, Cam-bridge-London 2002.4 Henri Man Barendse, Ed Ruscha: An Interview, in Ed Ruscha, Leave Any Informa-tion at the Signal cit., p. 217.5 Ibid. p 214.6 Elio Grazioli, La polvere nell’arte, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 144.7 Ed Ruscha, a cura di Paolo Colombo, Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Gan-gemi Editore, Roma 2004.

Luigi Ghirri, Bologna. Lo studio di Giorgio Morandi, 1990

GEOGRAFIE DELLA PROSSIMITÀ: LUIGI GHIRRI

L’incontro, certo già iscritto nel registro delle affinità inevitabi-li, era arrivato tardi, nella nostra crudele cognizione retrospetti-va. Febbraio 1990: il fotografo Luigi Ghirri entra nello studio divia Fondazza a Bologna appartenuto al pittore Giorgio Moran-di, conservato intatto dal giorno della sua morte, ventisei anniprima. Benché in verità, come racconta Ghirri in un suo scritto,privo da tempo del suo paesaggio (e poi spicciamente sgombe-rato del tutto), con la costruzione di un enorme condominio difronte alle sue finestre, fosse sparita la luce morbida che avevaavvolto nei decenni gli oggetti cari a Morandi, nonché gli «squar-ci di case, le altane, i tetti leggermente obliqui, i piccoli ritagli diazzurro in fondo alle strade» che erano stati parte integrante del-l’atmosfera, della contemplazione morandiana. Accingendosi afotografare la scena ormai vuota dell’atelier, gli strumenti mode-sti, lo sporco, il palinsesto dei segni, le carte e le proverbiali sup-pellettili, Ghirri sa di compiere un gesto riparatore, una sorta direstituzione: intensificare la percezione per penetrare il velo deltempo e dell’abitudine, la perdita di memoria. Nei più di quat-trocento cliché scattati in via Fondazza e nella casa di Grizzana,Ghirri realizza in altre parole un’operazione ermeneutica su e apartire da Morandi1. E cioè sulla mano assente del pittore, attra-verso l’apertura del suo laboratorio, sulla sua pratica, sul tempolungo della creazione, e poi sulla costruzione dell’immagine stes-sa, sull’ordine visivo che la fotografia, come la pittura, più cheritrarre, proietta, impone al mondo visibile. Certo di Morandiquella serie di scatti straordinari rileva un tratto che Ghirri dove-va sentire profondamente congeniale: la dedizione intransigente

all’immagine, o, ancor più, al guardare come forma di cono-scenza insieme immediata e profonda del mondo. Entrambi fidu-ciosi nella possibilità di costruire un senso distillando un ordinevisivo e trascendentale insieme, secondo quella profonda aspira-zione che nella modernità percorre l’arco da Cézanne a Mon-drian, da Wright a Mies van der Rohe, tanto per il pittore cheper il fotografo comporre, tessere una struttura, traguardare, edi-ficare uno spazio, è un’esigenza filosofica, un compito storico cuiaffidare la moralità del proprio lavoro.

Formatosi lontano dai canali artistici e intellettuali più bat-tuti, dopo un apprendistato da “fotoamatore”2 Luigi Ghirri ave-va esordito quasi trentenne nel 1972, con una mostra in cui eragià evidente quell’inclinazione quasi musicale a “comporre” iltessuto visivo della fotografia che avrebbe poi sempre contrad-distinto la sua produzione. Già in quegli anni settanta, segnatidal rapporto con un gruppo di artisti concettuali attivi in Emi-lia (Franco Guerzoni, Claudio Parmiggiani e altri) e dalla vici-nanza con le ricerche analitiche di Franco Vaccari e Ugo Mulas(come più tardi, in una prospettiva più ampia, avrebbe dialoga-to a distanza con la pittura fotografica di Gerhard Richter e lephotogrids di Sol LeWitt ), Ghirri si appropria rapidamente delterritorio a lui più confacente: l’esplorazione analitica, ragiona-ta e allo stesso tempo affettiva e memoriale dello spazio visibi-le, da quello più immediato, domestico, agli scenari naturali, aiprodotti della cultura “bassa” (cartoline, souvenir, illustrazioni,ecc.), alla sua stessa città osservata soprattutto nei suoi spaziinterstiziali, periferici. Quella di Ghirri era una vera e propriaricerca di identità in uno spazio che perdeva rapidamente i suoitratti familiari, rivelandosi ogni giorno più estraneo:

Le case che componevano la strada che abitavo, le strade che percorre-vo ogni giorno […]. Le porte, i colori degli intonaci, i rivestimenti, i vasiche decoravano le finestre […]. Proprio perché anonime e sperdute, sem-bravano attendere qualcuno che conferisse loro un’identità. Quello cheho fatto, tra il 1970 e il 1975, fotografando i margini delle città antiche,le periferie, o prevalentemente quei paesi senza una dignità storica o geo-grafica è stata una sorta di ricomposizione di album di famiglia del mioe del nostro esterno3.

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La sua era una «cartografia simbolica», come la definisceEnnery Taramelli4; un’esplorazione condotta appunto con l’at-titudine del geografo che tiene ostinatamente conto di ogni cur-va del terreno, di ogni suo profilo, per quanto frastagliato einsignificante possa apparire, e che si manifesta con quella qua-lità di attestazione oggettiva e resistente, muta, che di ogni foto-grafia è il luogo linguistico non meno che figurale. Questavocazione topografica è rimasta per Ghirri un tratto costantedel suo percorso, da Viaggio in Italia del 1984, libro epocale cheha inaugurato un vero e proprio nuovo “modo di vedere” il ter-ritorio italiano, divenendo un punto di riferimento per la ricer-ca fotografica degli ultimi due decenni, all’indagine sottilmenteborgesiana di Atlante, alla raccolta di non-luoghi padani de Ilprofilo delle nuvole.

Certamente la fotografia di Ghirri esige una misurazionecapillare della sua temperatura poetica, una comprensione del-le sue qualità di “narratore”, come ha fatto del resto Marco Siro-ni analizzando la relazione tra il fotografo e lo scrittore GianniCelati5, due temperamenti assai affini, attratti dall’idea di un’e-splorazione senza meta del paesaggio, dalla pratica costante diuna dérive padana rievocata dallo stesso Celati in un film dedi-cato all’amico scomparso (Il mondo di Luigi Ghirri, 1999). E tut-tavia forse è più utile oggi convocare, più ancora che la suavalenza letteraria, e al di là dei sottili ma un po’ sterili eserciziermeneutici che la sua opera ha saputo suscitare nel corso deglianni, la letteralità muta delle immagini di Ghirri, il loro farsi sot-to la minaccia di una consunzione, di una disumanizzazioneincipiente non già della fotografia, ma del mondo nell’epoca del-la merce universale, ponendo senza esitazioni la sua opera sulpiano dell’arte tout court, a confronto diretto con quei suoi con-temporanei, Jeff Wall ad esempio, che hanno fatto dell’immagi-ne fotografica uno strumento di riflessione filosoficasull’apparenza: riconoscendole insomma finalmente il ruolo chele spetta nella mutata consapevolezza dello status del mezzofotografico, nella costruzione del suo nuovo “luogo”, della suacentralità nella cultura visiva contemporanea.

La constatazione dell’impotenza, dello scacco della visione,così spesso ricordata da Ghirri nei suoi scritti, è in fondo ciò

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che smonta dall’interno la fiducia umanistica nell’arte, nei suoipoteri di ricomposizione estetica. Perché se quella del fotogra-fo è una disciplina dell’attesa e della pazienza, non lo è menodell’artificio e del caso, dell’illusione e della perdita: la grigliache sorregge infallibilmente tutte le sue composizioni – unarigorosa intelaiatura armonica che non viene mai meno al muta-re dei soggetti e dei punti di vista e che definisce in manierainconfondibile lo stile di Ghirri – è anche l’àncora provvisoriaa cui l’istante sta appeso prima di rovinare, la bussola che glipermette di aggirarsi per le strade deserte della Pianura Padanaall’indomani di una frana silenziosa che ha reso il terreno piat-to, indifferente, scivoloso. Se Ghirri reinventa il paesaggio ita-liano, la sua visibilità, se tenta di estrarre da esso (o di iniettarvi)un’ultima stilla dell’antica bellezza, il suo è un tentativo estremo,forse perso in partenza, di salvare quello stesso paesaggio dal-l’ineluttabile sfacelo che lo attende, dalla perdita di senso, diabitabilità, da una progressiva cancellazione. Per questo i suoiluoghi posseggono la patina elegiaca spessa e struggente, l’in-clinazione autunnale della luce che ha la Terra fantasmatica,agognata e irraggiungibile in Solaris di Andrej Tarkovskij: essitestimoniano di una malinconia che si è trasferita dentro la real-tà visibile e insieme l’incanto di una scoperta.

Muovendo da un’analisi concettuale dell’immagine fotografi-ca, Ghirri ne ha così via via dilatato i limiti sino a includere nellesue immagini la vibrazione dell’inaspettato, dell’eccedente, delmeraviglioso: i campi pettinati, le nebbie, i pali della luce, i piattispecchi di asfalto, le mappe, le insegne, i binari, le spiagge, le archi-tetture effimere o monumentali, l’entropia inafferrabile delle cosee dello spazio umano, sono così diventati insieme, ha scritto Cela-ti, altrettanti tentativi di risposta a una domanda elementare, pri-mordiale e vertiginosa – “che cosa c’è? che cosa appare?” –, eprove di una inconcepibile prossimità affettiva con le cose: unamodalità insieme riflessiva ed “estatica”che ritrova, all’interno del-la frammentazione, dall’atonia, dall’inerzia, il brillio di una benja-miniana lontananza. Piantata al centro del mondo visibile, l’operafotografica di Ghirri è come il cancello scomparso che campeggiaal centro di una sua immagine famosa: un invito, una soglia, unproscenio dove è attesa la prossima apparizione.

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NOTE

1 Un insieme di circa cinquanta stampe (tutte ricavate dai negativi originali dopola morte del fotografo) è stato esposto a Carpi nel 2005 nella mostra Il senso dellecose, a cura di Paola Borgonzoni Ghirri, Diabasis, Reggio Emilia 2005.2 Una ricostruzione complessiva del percorso di Ghirri è in Massimo Mussini, Lui-gi Ghirri. Attraverso la fotografia, in Id. (a cura di), Luigi Ghirri, Federico MottaEditore, Milano 2001, pp. 9-67.3 Luigi Ghirri, Fotografare i luoghi, fotografare le architetture, in Id., Paesaggio Ita-liano, Quaderni di Lotus, Electa, Milano 1989, p.10.4 Ennery Taramelli, Mondi infiniti di Luigi Ghirri, Diabasis, Reggio Emilia 2005, pp.56-67.5 Marco Sironi, Geografie del narrare. Insistenze sui luoghi di Luigi Ghirri e Gian-ni Celati, Diabasis, Reggio Emilia 2003.

237GEOGRAFIE DELLA PROSSIMITÀ

TEORIE

Andy Warhol, Five Dead on Orange, particolare, 1963

IL RITORNO DEL REALE

L’idea proverbiale che la storia si ripeta, la prima volta in forma ditragedia, la seconda come farsa, secondo quanto scrive Karl Marxnel suo celebre pamphlet Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, servebene la causa dello scetticismo almeno quanto quella della criticastorica. E non di rado nella vicenda delle arti visive del Novecen-to, e beninteso da una prospettiva negativa quando non aperta-mente apocalittica, si è prestata a descrivere la controversarelazione tra i movimenti di avanguardia nati tra il 1905 e il 1930,e le “neoavanguardie” apparse nei decenni successivi alla secondaguerra mondiale. Non è rara in effetti, a partire dagli anni sessan-ta del secolo scorso, la tendenza da parte di storici, saggisti, pen-satori, spesso di vocazione “progressista”, a rileggere la vicendaartistica novecentesca attraverso il tropo della “morte dell’avan-guardia” (frequente, si direbbe, quasi quanto quello della “mortedell’arte”), procedendo a una spedita liquidazione tanto di movi-menti ormai ampiamente storicizzati quanto di esperienze piùrecenti1. Con i suoi tentativi di riunificare arte e vita, finzione eprassi, apparenza e realtà, consapevolezza e spontaneità, di dichia-rare qualsiasi oggetto arte e ognuno un artista, l’avanguardia, lodiceva Jürgen Habermas nel 1980, non è stata altro che un espe-rimento di nonsense, privo di quegli effetti emancipatori pure cosìappassionatamente ricercati2. Se diverse erano le cause di “mor-te” – dal fallimento del progetto storico e sociale rivoluzionarioall’effetto di quelle che Hans Magnus Enzensberger definiva leinsanabili “aporie”, ovvero i tratti idealisti, ingenui, dottrinari, deimovimenti avanguardisti –, tutti gli autori si trovavano in genereconcordi nell’affermare che dopo il tramonto delle avanguardie

ogni tentativo di rianimarne l’esperienza fosse destinato, e a giu-sto titolo, a rivelarsi una cocente disillusione o un consapevoleinganno3.

Restavano ovviamente senza risposta in queste letture così osti-li gli interrogativi riguardanti più da vicino la natura dell’avan-guardia come fenomeno storico. Diversi peraltro erano stati inprecedenza i tentativi, soprattutto nell’ambito della critica di ispi-razione marxista, di giungere a una definizione generale e a unacomprensione teorica del suo “progetto”. Il più noto è probabil-mente un saggio di Clement Greenberg, Avantgarde and Kitsch,pubblicato sulla «Partisan Review» nel 19394 e divenuto subito unpiccolo classico, in cui la posizione dell’avanguardia nei confrontidella cultura borghese era descritta nei termini di una contrappo-sizione al tempo stesso estetica ed etica tra forme d’arte “alte”,autentiche e rivoluzionarie, e “basse”, meccaniche e ripetitive, traavanguardia e kitsch appunto, stabilendo dunque una basilare anti-tesi tra l’intransigente ricerca del nuovo – compito fondamentaledell’artista moderno, da Baudelaire a Eliot e oltre – e la reiterazio-ne di formule false e sentimentali il cui scopo ultimo era mantene-re il fruitore in una condizione culturalmente e politicamentesubalterna.

Scritto alla vigilia della Seconda guerra mondiale, con lo sguar-do puntato alla violenta soppressione delle avanguardie operata dairegimi totalitari di Germania e Unione Sovietica, il saggio di Green-berg, con le sue formule lapidarie («tutto il kitsch è accademico e,per converso, tutto ciò che è accademico è kitsch»5) e la sua drasticasemplificazione – da una parte l’arte astratta e la musica dodeca-fonica, dall’altra le copertine di rotocalco e le canzonette –, sem-brava risolvere il problema di una definizione generale dell’arted’avanguardia: il «contenuto di verità» delle sue opere, per dirla intermini benjaminiani, era individuato nella loro capacità di stabili-re una distanza, una differenza opposizionale con la cultura bor-ghese, alimentata a livello estetico e concettuale da una serie diregole implicite – la “specificità” sperimentale di ciascun medium,il compito critico e autoriflessivo assegnato all’artista – che garan-tivano l’autonomia ideologica e pragmatica delle opere e la loroqualità. La traiettoria delle arti nel secondo dopoguerra avrebbetuttavia contraddetto e quindi reso obsoleto questo assetto. Tanto

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in Europa che in America, nelle arti visive così come nella musica,nel cinema, nella letteratura, la relazione gerarchica tra le due pola-rità greenberghiane si era in effetti andata sempre più complican-do, e le incompatibilità estetiche tra alto e basso, tra ciò che èartistico e ciò che non lo è, erano diventate via via più difficili equindi del tutto impossibili da formulare. Sarebbe stato necessarioda quel momento in avanti, come notava Umberto Eco nel 19646,pensare la relazione tra cultura “superiore” e cultura di massa, traavanguardia e kitsch, in termini dialettici, anche perché «non solol’avanguardia sorge come reazione alla diffusione del Kitsch, ma ilKitsch e si rinnova e prospera proprio ponendo continuamente afrutto le scoperte dell’avanguardia». Gli sviluppi delle esperienzesia sociali che artistiche dagli anni sessanta in avanti avrebbero pro-vato in modi imprevedibili dallo stesso Eco la validità del suo ragio-namento.

Gruppi e movimenti di neoavanguardia apparsi dalla metàdegli anni cinquanta in avanti non avranno in effetti come bersaglioil gusto accademico, estetizzante e reazionario avversato dalle avan-guardie storiche, ma lo stesso modernismo nella sua più tardaincarnazione formalista e dottrinaria (di cui lo stesso Greenbergfinirà per rappresentare una delle figure esemplari), l’arcigno mora-lismo della cultura marxista ufficiale e una società di massa avidadi novità e invenzioni. Allo slancio utopico e universalista, all’atti-vismo, al culto della rivoluzione e del sacrificio, all’antagonismo,all’intransigente aspirazione «vers un monde enfin habitable»,come scriveva nel 1929 André Breton nel secondo manifesto delsurrealismo, al culto della “totalità”, all’iconoclastia e allo chocimpiegati come armi contundenti, corrisponde così nelle neoavan-guardie un ventaglio di atteggiamenti e di traiettorie creative chehanno come sfondo la rottura con la “tradizione del nuovo” e comestrategie l’ironia e la dissimulazione, lo slittamento, la parodia. Laloro posizione implica in effetti, più che un “seguito” in formediverse, un radicale ripensamento dei dettami modernisti, in rela-zione diretta con la trasformazione dell’arte in rapporto a un’or-mai affermata industria culturale. Su entrambe le spondedell’Atlantico viene così attaccato il principio di distinzione, elita-rio e ideologicamente connotato, che Greenberg aveva accredita-to: i combine painting di Rauschenberg, le finte lattine di birra

IL RITORNO DEL REALE 243

Ballantine in bronzo dipinto di Jasper Johns, gli happening diKaprow, il cluster di esperienze Fluxus, come, appena più tardi, laMerda d’artista di Manzoni, le serigrafie seriali di Andy Warhol ole mappe di Alighiero Boetti: si tratta di oggetti inclassificabilisecondo la rigida opposizione high/low, ambivalenti, colti e popo-lari, “nuovi” e ripetitivi. L’apparizione di queste opere fa confla-grare le categorie estetiche e la narrazione teleologica delmodernismo, e segnala un fondamentale mutamento di paradigma:all’utopia costruttivista o surrealista si sostituisce come archetipoe modello operativo il ready made di Marcel Duchamp, al postodell’inventività demiurgica che in Picasso aveva il suo Idealtypus,dello stile altamente individuale, della densità filosofica e poetica diun Klee o di un Mondrian, subentrano oggettività e “indifferen-za”, l’eclisse del significato e della soggettività dell’artista.

Era dunque più che mai necessaria una nozione di avanguar-dia del tutto diversa da quella di Greenberg, che potesse riassu-mere l’eterogeneità delle sue manifestazione “storiche” e aprire auna diversa comprensione dei suoi fondamenti teorici, anche allaluce delle radicali trasformazioni emerse con le pratiche artistichepiù recenti. È questo il passaggio cruciale compiuto dall’influentee molto discussa Theorie der Avantgarde7 in cui Peter Bürger pro-poneva nel 1974 un’interpretazione estremamente esigente dei“caratteri originali” delle poetiche avanguardiste. Muovendo dal-la concezione dialettica esposta da Marx nei Grundrisse, in cui sistabiliva una esplicita connessione tra lo sviluppo di un fenomenostorico e la sua leggibilità, Bürger interpreta la rivolta dell’avan-guardia nel suo complesso come attacco alla falsa autonomia del-l’arte così come era andata configurando nella società borgheselungo il corso del XIX secolo, e quindi come vera e propria messain stato d’accusa dell’istituzione arte «in quanto qualcosa di sepa-rato dalla vita concreta degli uomini»8. Non si tratta tuttavia di attri-buire agli artisti d’avanguardia la volontà “progressista” dirafforzare il significato, la funzione sociale delle opere: in realtà laloro azione era radicalmente rivolta contro la stessa concezioneorganica ed espressiva dell’arte e il culto dell’artista che ne era ilcorollario (e di qui l’adozione di strategie formali aggressive, basa-te su casualità, allegoria, montaggio, e l’uso sistematico dello choccome strumenti per desublimare e cancellare il “tocco”, lo stile

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individuale), e si contrapponeva quindi all’estetismo ottocentescoche aveva trasformato la distanza dalla vita pratica, dalla quotidia-nità, nel contenuto essenziale dell’opera. Il progetto avanguardistasi proponeva in effetti, come scrive Bürger, di svelare il «puro vuo-to» dell’esistenza estetica, come lo chiama Giorgio Agamben, checonduce «il nesso tra autonomia e mancanza di effetto sociale» percreare «una nuova prassi vivente», un “superamento” in sensohegeliano dell’art pour l’art, e può essere quindi pensato storica-mente come presa di coscienza e autocritica dell’arte «nell’epocadella sua istituzionalizzazione sociale», come denuncia della fatalecontraddizione tra la promessa di emancipazione spirituale e l’al-lontanamento dalla possibilità di una sua autentica realizzazione.Compito della teoria sarà allora sottolineare come benché il man-cato compimento di queste aspirazioni metta allo scoperto lo sta-tuto intimamente contraddittorio dell’avanguardia, il suo votarsiall’eteronomia conservando la necessità dell’autonomia estetica, ilsuo permanere insomma come gesto di autocritica, la preserva dauna definitiva normalizzazione nell’istituzione arte nel momentostesso in cui in cui disvela la natura convenzionale di quest’ultima9.

Proprio il robusto legame tra l’avanguardia e le forme socialidel suo tempo impedirebbe di fatto, secondo Bürger, una prose-cuzione della sua esperienza: la sua azione sarebbe irriproducibi-le in contesti storici differenti. Di qui la perentoria liquidazione diciò che egli giudica gli esiti fondamentalmente inconsistenti, arbi-trari, “inautentici”, delle neoavanguardie. Queste ultime infatti nonpossono infatti avanzare alcun tipo di “pretesa”

dopo il fallimento dell’intento avanguardistico di riconversione dell’arte nel-la prassi vivente all’interno della società esistente. Al giorno d’oggi se un arti-sta invia a una mostra un tubo di stufa, l’intensità della sua protesta non èneanche lontanamente paragonabile a quella che potevano avere i ready-madedi Duchamp. Al contrario: se l’Urinoir di Duchamp tendeva a una fratturadell’istituzione arte […], colui che scopre il tubo di stufa spera che la sua“opera” possa trovar posto in un museo10.

Posto così ancora una volta all’interno dello schema storicistae irreversibile origine vs. decadenza, il problema della relazione trale due avanguardie del ventesimo secolo non trova nella teoria di

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Bürger una formulazione in grado di tener conto della specificadiversità degli sviluppi artistici più recenti, assimilati tout court auna «manifestazione priva di senso che autorizza ogni possibileinterpretazione»11. Recensendo la traduzione americana del volu-me di Bürger12, Benjamin Buchloh poneva in rapporto l’estremarigidità di questa posizione con l’atteggiamento diffidente o aper-tamente ostile con cui la cultura europea di sinistra (e il discorsoriguarda ovviamente anche l’Italia, se pensiamo a personalità puredistanti tra loro come quelle di Giulio Carlo Argan e Pier PaoloPasolini) aveva accolto tra anni cinquanta e sessanta le novità incampo artistico: le neoavanguardie, da questo punto di vista, avreb-bero contribuito a mantenere in vita l’equivoco dell’arte come for-ma privilegiata di esperienza, illusoriamente in fuga dai ferreimeccanismi di formazione e distruzione del valore nelle societàcapitaliste avanzate. Sia la liquidazione per via teorica che quellaper via ideologica – fondata sull’accusa all’arte contemporanea diessere insieme vittima e complice di una «universal submission tocommodity culture and of functioning as a pioneering branch andscouting device of the larger apparatus of the culture industry»13,come scrive ancora Buchloh – si rivelano così basate su una sem-plificazione, oggi certamente non più accettabile, di un problemache resta tuttavia fondamentale per la cultura del tardocapitalismo,vale a dire la relazione o meglio l’interdipendenza, diretta o latente,materiale o inconscia, tra modi di produzione e forme culturali.

Sono questi gli interrogativi che fanno da sfondo a una serie disaggi del critico americano Hal Foster confluiti nel 1996 nel suolibro The Return of the Real14, uscito in Italia dieci anni dopo in unclima culturale senz’altro più aperto che in passato, almeno inapparenza, alle posizioni teorico-critiche di matrice poststruttura-lista. Voce di “sinistra” tra le più originali e influenti del panoramacritico degli ultimi vent’anni, collaboratore di spicco della rivista«October», Foster è in effetti tra i protagonisti di un orientamen-to critico che a partire dagli anni settanta, tra America ed Europa,ha avviato la decostruzione dell’eredità modernista, tra le cui con-seguenze c’è senz’altro – e il discorso riguarda in primis la storiadell’arte come disciplina – il definitivo smottamento dell’illusionedi coerenza, di naturalità evolutiva, come pure della gelosa indi-pendenza metodologica tipica di una tradizione storiografica, e,

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potremmo dire, di un intero atteggiamento culturale di matriceidealista di cui a lungo il nostro paese è stato tra gli epicentri15.

Il libro affronta in modo diretto le tesi di Bürger, in particola-re quelle che toccano direttamente il rapporto tra avanguardie sto-riche e neoavanguardie16. Di fatto per Foster la contrapposizionetra i due momenti è attribuibile tanto a una sistematica incapaci-tà di comprendere le ragioni e i caratteri specifici delle esperien-ze artistiche più recenti (una pecca comune, scrive il criticoamericano, e non si può non essere d’accordo con lui, a molti filo-sofi dell’arte) quanto alla stessa rigidità del quadro di riferimentoteorico, permeato da quello che viene definito il «pathos malin-conico» tipico della Scuola di Francoforte, di fatto subalterno allaretorica romantica di un’avanguardia “assoluta”, eroica e inimita-bile. Da questo punto di vista tutto ciò che viene “dopo” non puòche presentarsi come pastiche, come ripetizione fuori dal percor-so della storia, anche se questa condanna, in superficie giustifica-ta, viene emessa in realtà in nome di una essenza mitica eindiscussa della modernità. Per superare questa impasse Fosterpropone dunque non tanto di demolire ma piuttosto di portarealle sue autentiche conseguenze lo schema di Bürger, introducen-do al suo interno la nozione di uno scambio temporale tra avan-guardia storica e neoavanguardia basato su una complessadinamica di anticipazioni e ricostruzioni che ha al centro il rove-sciamento dialettico dell’assunto di Bürger: è stata la neoavan-guardia, non l’avanguardia storica, ad aver compreso la naturadell’istituzione arte, nei confronti della quale si rivolge con «un’a-nalisi creativa e allo stesso tempo specifica e decostruttiva (noncon un attacco nihilista, astratto e anarchico insieme, come spes-so succede con l’avanguardia storica)»17.

Il modello di riferimento di questo discorso è la retroazione,la nozione freudiana (rivista attraverso l’insegnamento di Lacan)di “azione differita”18 – un’interrogazione-provocazione retroat-tiva che rovescia e complica ogni schema di prima e dopo, di cau-sa ed effetto, di origine e ripetizione. Attraverso questo modelloFoster ripercorre la vicenda artistica dagli anni cinquanta in avan-ti postulando che le neoavanguardie reinterpretino e contestual-mente riaprano in forma postuma il progetto delle avanguardie,riprendendone via via possibilità latenti e non esplorate: l’artista

assume così sempre più il ruolo di interprete dell’eredità moder-nista, avendo come fine non una ingenua reiterazione delle pra-tiche avanguardiste in quanto tali, e neppure un loro“completamento”, quanto piuttosto l’apertura di una fase ulte-riore, di un processo di «critica creativa», interminabile come lastessa psicoanalisi.

Ma prima di esaminare più in dettaglio questa posizione, saràutile soffermarci sui punti di contatto tra il modo con cui Fosterridisegna la “struttura temporale” dell’arte novecentesca e la filo-sofia della storia di Walter Benjamin, soprattutto con la sua ideadi una movenza anacronica, di un tempo caratterizzato cioè – incontrapposizione all’idea hegeliana di storicità lineare, guidatadalla Spirito – da un andamento discontinuo, fatto di latenze, dianacronismi, di sopravvivenze e ritorni che mettono in crisi ogninarrazione rettilinea, dal passato al presente. «La svolta coperni-cana nella visione storica – scrive Benjamin in un passo del suocapolavoro incompiuto, I “passages” di Parigi – è la seguente: siconsiderava “ciò che è stato” come un punto fisso e si assegnavaal presente lo sforzo di avvicinare a tentoni la conoscenza a que-sto punto fermo. Ora questo rapporto deve capovolgersi e il pas-sato deve diventare il rovesciamento dialettico, l’irruzioneimprovvisa della coscienza risvegliata»19. Allo storico dunque ilcompito di «spazzolare la storia contropelo» (l’espressione è cele-bre), per rivelare ciò che rimane nascosto sotto la sua superficie,di rompere con l’ingannevole continuità tra “cause”, “paternità”,“influenze” ed “effetti”. E sono proprio le immagini e la storiadell’arte il terreno privilegiato da Benjamin per sfidare il raccon-to causale, la teleologia e la “teoria del progresso” impliciti nellavisione idealista. Si deve in particolare a Georges Didi-Hubermane ai suoi studi dedicati alla relazione tra immagine e modelli tem-porali aver sottolineato questo aspetto: ponendo l’immagine «nelcentro nevralgico della “vita storica”» Benjamin ha compreso cheessa «non sta nella storia come un punto su una linea. Essa non èné un semplice evento nel divenire storico, né un blocco di eter-nità insensibile alle condizioni di questo divenire»20. L’immagineè l’epicentro di un processo dialettico e interminabile di trasfor-mazione e rigenerazione, come si legge in un altro passo celebredel Passagen-Werk:

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Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sulpassato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamentecon l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’im-mobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramen-te temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: nonè un decorso, ma un’immagine discontinua, a salti21.

Le opere d’arte posseggono dunque per Benjamin una specifi-ca storicità: non sono semplici “documenti” della storia e neppurepuri momenti dell’assoluto, ma vivono dialetticamente nell’incon-tro (nel «vortice») della corrente che dal passato raggiunge il pre-sente e di quella che risale verso il passato. Per questo motivo,scrive ancora Benjamin, «la storia dell’arte è una storia di profezie.Può essere scritta solo a partire dal punto di vista di un presentedirettamente attuale, poiché ogni epoca possiede la propria nuo-va, benché non ereditabile, occasione di interpretare proprio leprofezie che l’arte delle epoche passate racchiudeva in sé»22. Sequella dell’arte è dunque una storia di profezie – una storia deglieventi, ma anche una storia dei loro après coup – l’artista contem-poraneo, suggerisce Dietrich Scheunemann23, assume nei confron-ti dell’avanguardia il dovere che per Benjamin lo storico ha neiconfronti del suo oggetto: «riattizzare nel passato la scintilla dellasperanza», come si legge nelle Tesi sul concetto di storia. Non si trat-terà di sancire, oggettivandola, la fine di quella vicenda, quantopiuttosto di riaccendere la comprensione attraverso una prassi chepunta a trasferire nel presente l’elemento di critica e trasformazio-ne permanente proprio dell’avanguardia nei confronti dell’istitu-zione arte.

È in questo specifico aspetto che la visione di Benjamin vieneripresa da Foster24 per ripensare la relazione tra avanguardia e neoa-vanguardia, tra il paradigma modernista della rottura e quello post-moderno della ripetizione, anziché, al modo di Bürger e dellacritica “apocalittica”, come un processo unidirezionale e irreversi-bile – da un lato l’originale, dall’altro la derivazione o il tradimen-to –, nei termini di una continua spinta che percorre nei due sensitutta l’arte del Novecento. Un esempio di questa dinamica è ilmodo con cui viene progressivamente trasformato il ready madeduchampiano, da oggetto che «implica la trasgressione nella pro-

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pria fattualità» (con Rauschenberg e Johns) a dispositivo per inter-rogare la funzione seriale nella cultura di massa (con la pop art), damezzo per esplorare la dimensione enunciativa dell’opera d’arte(con l’arte concettuale) a “segnale” per demarcare e far emergeredall’indistinto lo spazio reale (come nell’arte site specific). Gli arti-sti minimalisti che rivisitano Brancusi, Schwitters o Rodcenko allaluce delle trasformazioni della logica produttiva nella societàpostindustriale, o ancora Bruce Nauman e Gordon Matta-Clark,che estendono il primo al corpo e il secondo allo spazio architet-tonico un’esigenza di risignificazione che fa emergere la trama diripetizioni e le gerarchie implicite nell’economia sociale dei segni,sono tutti esempi di una logica di connessione/riconnessione chemodifica e riconfigura insieme presente e passato.

L’elemento comune a tutti questi “ritorni” alle radici avan-guardiste è la fondamentale disarticolazione del rapporto “diret-to” con il referente, con la realtà, con il mondo “vero”, il passaggioda un’economia simbolica di oggetti e valori, a una di segni-merce,da uno spazio discontinuo, conflittuale, alla liscia superficie domi-nata dai processi di omologazione e consenso. «Il mondo moder-no è il mondo dei simulacri», avrebbe scritto Gilles Deleuze nel1968 introducendo il suo Différence et répetition, il libro che segnail passaggio teorico essenziale per comprendere la crisi della rap-presentazione tra anni cinquanta e sessanta: crisi che si manifestaappunto con la caduta della distinzione tra originale e copia, conl’ablazione della cornice, con l’indebolirsi della dualità dogmaticaartista/opera, con l’adozione della serialità come motore tecnico eformale, in breve con l’abbandono della logica opposizionalemodernista.

Quello che “torna”, in un’epoca dominata dal racconto media-tico e dalla onnipresente simulazione pubblicitaria che si sovrap-pone alla realtà sino a rendersene indistinguibile, non può piùessere dunque la pienezza dell’esperienza storica “autentica” recla-mata dall’avanguardia, ma piuttosto, secondo Foster, un reale decli-nato secondo le coordinate della teoria psicoanalitica di JacquesLacan; qualcosa cioè di inassimilabile, che si sottrae alla simboliz-zazione, alla conoscenza, al discorso, un reale che ha «la natura del-l’evento, non del senso, o meglio dell’evento senza senso, e dunquetraumatico, in quanto non può essere elaborato, reso nominabile»,

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come scrive Daniele Giglioli25. Se il “ritorno del rimosso” freu-diano è un processo, una dinamica che scuote la soggettività, laespone, la mette a rischio, ma al tempo stesso la risveglia e ladinamizza, il reale chiamato ora in causa è visto invece nella pro-spettiva di un’assenza, di una forclusione che impedisce esatta-mente che il trauma agisca retroattivamente, liberando unpotenziale di riappropriazione e reintegrazione di ordine psichi-co e figurale.

Il “ritorno del reale” è il ritorno di ciò che non può tornareper definizione. In quello che è probabilmente il saggio più inte-ressante del libro, Foster affronta l’opera di Warhol – l’artista sfin-ge, il campione di una metodica desensibilizzazione – respingendosia le letture in chiave “empatica” e larvatamente esistenzialista,che si spingono ad attribuirgli un atteggiamento engagé nei con-fronti della società di massa, sia quelle che vi individuano unaesclusiva volontà di riduzione dell’immagine alla pura superficie,alla piatta, seriale impassibilità del simulacro. Tra queste dueopzioni divergenti Foster individua una terza possibilità di inter-pretazione, posta sotto il segno appunto di un realismo traumati-co al cui interno agisce uno schema della ripetizione direttamenteispirato alla teoria lacaniana. Se per il maestro francese il traumasi definisce come un“incontro mancato” con il reale26, l’opera d’ar-te è chiamata a rendere possibile questo incontro, anzi la sua fun-zione è definibile, come sottolinea Massimo Recalcati, proprio inbase a questa possibilità27. Proprio in quanto “mancato” il realenon può essere infatti rappresentato ma solo ripetuto (Lacan usaesplicitamente in questa fattispecie il termine tedesco Wiederho-len, “ripetere”, in opposizione a Reproduzieren, “riprodurre”), e laripetizione appare al tempo stesso come uno sforzo per continua-re a puntare il reale e, nel puntarlo, a mancarlo, come un automa-tismo che da un lato cerca di evitare e dall’altro spingere senzaposa all’incontro. Per questo, argomenta Foster, con Warhol laripetizione non equivale a “riprodurre” nel senso di rappresenta-re o simulare, cioè di procedere comunque da un piano referen-ziale e simbolico a cui aggiungere o da cui sottrarre “contenuto”.Piuttosto, «la ripetizione serve a schermare un reale inteso cometraumatico. Ma proprio questa necessità indica il reale e a questopunto il reale rompe lo schermo della ripetizione»28. Così, nei suoi

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“quadri” più famosi e perturbanti («Enough life – aveva dettoWarhol al suo amico Henry Geldzahler annunciandogli la deci-sione di cambiare soggetti –, it’s time for a little death»), nelle seriedegli incidenti stradali, dei funerali di JFK, delle effigi di Marylin,delle sedie elettriche, dei suicidi, lo choc appunto è schermato dal-la ripetizione delle immagini, ma la loro apparente uniformitàmeccanica è di continuo interrotta dalle variabili accidentali del

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Robert Gober, Senza titolo, 1991

processo serigrafico – imperfezioni, macchie, sovrapposizioni, sba-vature. Marylin non è la madeleine dell’epoca postmoderna, nul-la ci viene restituito attraverso la sua icona moltiplicata. Maproprio nel paradosso di un identico infinitamente dissimile, diuna ripetizione che lascia trasparire ai suoi margini, come un lap-sus, l’entropia e l’errore, possiamo però riconoscere un modo perrompere il continuum: ciò che Barthes chiama punctum e Lacantyche, l’elemento che lacera il velo e permette al reale di fare irru-zione proprio su ciò che doveva costituirne lo schermatura.

Da Warhol alle riflessioni sulla commodity sculpture e l’«artedella ragion cinica» degli anni ottanta, dalle indagini sull’abietto ela corporalità traumatica, da Cindy Sherman a Mike Kelley, RobertGober e oltre, dal fotorealismo alla «svolta etnografica» degli anninovanta e i suoi parallelismi con i metodi e gli strumenti dei cultu-ral studies, The Return of the Real disegna da una prospettiva stret-tamente New York-centrica – in genere mettendo in evidenza piùla dimensione orizzontale, rizomatica delle opere, che i loro carat-teri intensionali, la loro “differenza” individuale29 – una geografiadell’arte alla fine del Ventesimo secolo e di quanto vi permane del-la nozione di “opera d’arte” dopo l’avanguardia. The shock of thenew non può più del resto rappresentare il metro privilegiato del-l’autenticità di un’opera in un’epoca in cui il “nuovo” è precisa-mente il combustibile della grande macchina consumistica e lochoc un indispensabile strumento di marketing e le diagnosi diBaudrillard sulla società del consumo sembrano superate dalla stes-sa realtà. Dal packaging alla chirurgia estetica, dall’architettura albranding degli oggetti, il mondo contemporaneo appare semprepiù unificato da un processo di omologazione in apparenza inar-restabile, come sostiene lo stesso Foster in un saggio pubblicato inun altro suo libro recente, Design & Crime30. Ovunque l’involucrosembra dominare: il museo Guggenheim di Bilbao di Frank O.Gehry prende metonimicamente il posto delle opere che contiene,anzi ne diventa la condizione di visibilità, così come il graphic desi-gner Bruce Mau fornisce ai suoi clienti, più che un’immagine, un’i-dentità su cui fondare la propria relazione col mondo esterno:dall’esplorazione si passa alla progettazione della vita, anzi di unlife-style di successo. Il progetto dell’avanguardia di riconnetterearte ed esistenza, di fondere in un’unità più alta individuo e collet-

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tività, si è avverato in forma paradossale nei meccanismi spettaco-lari dell’industria culturale, mentre la contaminazione tra marke-ting e cultura è un indicatore per comprendere lo stato dellacondizione attuale, assoggettata a un regime di manipolazione per-manente in cui ogni prodotto (e ogni informazione) viene sistema-ticamente progettato, subito consumato, ancora riprogettato e cosìdi seguito.

Per riflettere sulla storia del modernismo, delle avanguardiestoriche e della loro reincarnazione postmoderna, non possiamoin altre parole evitare di partire dall’epoca tardo capitalista, lanostra, in cui la produzione estetica si è integrata nella produ-zione di merci in generale, come scrive Fredric Jameson31, e laricerca del nuovo appare fatalmente compromessa dal trionfaledispiegarsi del marketing e dello spettacolo. Trasformata in unostrumento di consenso pubblicitario, la trasgressione appare oggiaddomesticata, la provocazione patetica, mentre l’iconoclastia,questa vecchia ossessione, non spaventa più nessuno, anzi si ètramutata a tutti gli effetti in iconolatria. Tutto è merce, e l’edo-nismo incarnato nella massima anything goes sembra regolaresenza scarti il sempre più denso traffico di immagini che il siste-ma mediatico sforna senza posa. Il restringimento della prospet-tiva dell’avanguardia alla più prosaica produzione specializzatadi generi di moda, l’istituzionalizzazione, la gregarietà culturaledel sistema artistico sono tutti sintomi di una trasformazione –salutata come ineluttabile da destra e vissuta con malinconicosenso di fallimento da sinistra – che coincide col trionfo del siste-ma di valori, di pratiche, di consenso che le società postindu-striali hanno elaborato nel corso dell’ultimo mezzo secolo, di paripasso col trionfo del revisionismo neoconservatore che corrode– in nome di una nominale e assolutoria “equivalenza” – il sot-tofondo etico, la richiesta di verità che del progetto di liberazio-ne moderno costituiva l’indispensabile ossatura.

E certo per noi, abitanti lo spazio politico globalizzato, il rea-le che torna è ancora più crudamente traumatico perché si è nelfrattempo passati da una disponibilità allo choc, dalla sua simu-lazione, o anticipazione, alla necessità di una sua elaborazioneche lo renda di nuovo immaginabile e parlabile, che sia in gradodi perforarne il carapace spettacolare per ritrovarvi al di sotto la

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sostanza di una possibilità storica della verità. L’arte non può chearrestarsi, ma illuminandola anche, sulla soglia dove irrompe l’in-forme, l’impensabile, questo stato non più solo virtuale, ma inve-rato in una demoniaca fattualità, nella sua ora immaginabilepulsione di annientamento, non più allegorica ma ben tangibilenei corpi umani grottescamente disfatti, ridotti a escrementi, apasto osceno di cani randagi, che la cronaca di questi anni, all’in-domani della spaventosa distopia dell’11 settembre 2001, ci offreinstancabile.

Guardare alle esperienze artistiche del passato vuol dire isti-tuire un genere particolare di relazione dialettica e retroattivacon le loro pratiche e i loro discorsi. Se l’adesso è per Benjaminciò che senza posa riconfigura il passato, cioè il futuro preav-vertito nelle opere cui la nostra esperienza attuale dà voce, farestoria dell’arte vuol dire in effetti (e inevitabilmente) fare la cri-tica della sua condizione attuale. E questo a sua volta solleva laquestione del ruolo (e della responsabilità) della critica nella con-temporaneità, dentro e soprattutto fuori il sistema dell’arte: unmondo amministrato da tecnici dell’intrattenimento e della pro-mozione, unificato dal tacito consenso alle logiche di uno schie-ramento neoconservatore che dagli anni ottanta in poi ha nonsolo dettato nel mondo occidentale i termini dei conflitti cultu-rali ma ha anche efficacemente manipolato a proprio vantaggiol’immaginario collettivo. Nel restituire energicamente alla criti-ca dell’arte più recente un potenziale teorico e politico, il librodi Foster ci invita ad estendere e a diversificare il nostro oriz-zonte visivo e al tempo stesso a rivolgerci alle immagini come aesperienze che fondamentalmente disarticolano e mettono in dis-ordine il pensiero e l’identità: contro i fantasmi reazionari delritorno e dell’ostruzione, l’arte non smette di trasmettersi comeuno scuotimento inatteso dei modelli con i cui quali pensiamo eguidiamo la nostra esperienza.

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NOTE

1 Una lista parziale può aprirsi con il virulento saggio di Hans Magnus Enzensberger, DieAporien der Avantgarde, in Einzelheiten, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1962 [trad. it. Le aporiedelle avanguardie, in Questioni di dettaglio, Feltrinelli, Milano 1965], per proseguire conJames S. Ackerman. The Demise of the Avant-Garde, in «Comparative Studies in Societyand History», n. 2 (1969); Robert Hughes, The Decline and Fall of the Avant-Garde (1972),in Gregory Battcock (a c. di), Idea Art. A Critical Anthology, Dutton, New York 1973. Sulversante letterario, una delle più voci più importanti in questa linea di pensiero è quella delpoeta Octavio Paz, Children of the Mire, Harvard University Press, Cambridge 1974. Aquesta stessa tendenza, ma ormai in pieno ambito postmoderno, appartiene anche il vol-ume di Jean Clair, Considérations sur l’état des beaux-arts: Critique de la modernité, Galli-mard, Paris 1983 [trad. it. Critica della modernità, Allemandi, Torino 1984]. In Italia, latematica era stata affrontata già nel 1952 da Cesare Brandi nel saggio La fine dell’avan-guardia, Quodlibert, Macerata 2008. Una ricostruzione storica della controversia è in PaulMann, The Theory-Death of the Avant-Garde, Indiana University Press, Indianapolis 1991.Sulle diverse accezioni dei termini “avanguardia” e “modernismo” nei differenti contesticulturali si veda l’articolo di Per Bäckström, One Earth, Four or Five Words. The Peripher-al Concept of “Avant-Garde”, in «Nordlit», n. 21 (2007), pp. 21-44.2 Jürgen Habermas, Modernity. An incomplete Project (1981), in Hal Foster (a c. di),The Anti-Aesthetic. Essay on Postmodern Culture, Bay Press, Seattle 1983, p. 11.3 Assai diversa appare a questo riguardo la posizione assunta in quegli stessi anni daRenato Poggioli nella sua Teoria dell’arte d’avanguardia, Il Mulino, Bologna 1962, in cuiviene respinta l’idea di “fine” dell’avanguardia a favore di una «controllata lucidità»che superi l’«avanguardismo retorico e programmatico» e riaffermi l’avanguardia come«legge di natura dell’arte contemporanea e moderna» (pp. 245-51).4 Cfr. Clement C. Greenberg, Avantgarde and Kitsch (1939) in Art and Culture, Bea-con Press, Boston 1961 [trad. it. Avanguardia e Kitsch, in Arte e cultura, Alleman-di, Torino 1991, pp.17-31].5 Ibid. [trad. it. cit. p. 23].6 Umberto Eco, Apocalittici e integrati (1964), Bompiani, Milano 1978, p. 72-76.7 Peter Bürger, Theorie der Avantgarde, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1974 [trad. it.Teoria dell’avanguardia, Bollati Boringhieri, Torino 1990].8 Ibid. [trad. it. cit., p. 59].9 L’argomento è sviluppato nell’introduzione di Riccardo Ruschi, in Theorie derAvantgarde [trad. it. cit, in particolare pp. XIII-XVIII].10 Peter Bürger, Theorie der Avantgarde [trad. it. cit., p. 149, n. 5].11 Ibid. [trad. it. cit., p. 72]. Questo giudizio è stato in seguito rivisto e sfumato dal-lo stesso Bürger. Cfr. la Postilla alla seconda edizione [trad. it. cit., pp. 111-16], dovela sua posizione viene tra l’altro inquadrata in modo rivelatore sullo sfondo dellelotte studentesche del ’68 e del loro successivo “fallimento”.12 Benjamin H. D. Buchloh, Theorizing the Avant-Garde, in «Art in America»,November 1984, pp. 19-21.

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13 Id., Neo-Avantgarde and Culture Industry, The MIT Press, Cambridge-London2000, p. XXV-XXVI.14 Hal Foster, The Return of The Real. The Avant-Garde at the End of the Century,The MIT Press, Cambridge-London 1996 [trad. it. Il ritorno del reale, PostmediaBooks, Milano 2006].15 Foster, insieme a Rosalind Krauss, ha tuttavia fortemente polemizzato con quella checonsidera la tendenza dei visual studies a diluire, grazie al passaggio « from art to visu-al and from history to culture», la specificità dell’immagine artistica in molto più ampiae socialmente condizionata “storia delle immagini”. Cfr. Hal Foster, The Archive With-out Museums, in «October», n. 77 (Summer 1996), pp. 97-119; Rosalind Krauss, Wel-come to the Cultural Revolution, ivi, pp. 83-96.16 Cfr. in particolare il primo capitolo, The Return of the Real [trad. it. cit., pp. 19-42].17 Ibid. [trad. it. cit., p. 21].18 In tedesco Nachträglichkeit, tradotto anche come “posteriorità” o après coup.19 Walter Benjamin, Das Passagen-Werk, in Gesammelte Schriften, V, 1-2, Suhrkamp,Frankfurt a. M. 1982 [trad. it. I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pp. 432-33].20 Georges Didi-Huberman, Devant le temps, Paris, Minuit 2000 [trad. it. Storia del-l’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 88].21 Das Passagen-Werk [trad. it. cit., p. 516].22 Walter Benjamin, Appendice a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tec-nica (1936), in Opere Complete, VI, Scritti 1934-1937, Torino, Einaudi 2004, p. 311.23 Dietrich Scheunemann, From collage to the Multiple. On the genealogy of Avant-Garde and Neo-Avant-Garde, in Dietrich Scheunemann (a c. di), Avant-Garde/Neo-Avant-Garde, Rodopi, Amsterdam 2005, p. 37.24 Cfr. ad esempio The Return of the Real [trad. it. cit., p. 213]25 Daniele Giglioli, La scrittura dell’estremo. Narratori italiani alla svolta del nuovomillennio, manoscritto in corso di pubblicazione. 26 L’argomentazione di Foster riprende qui le linee tracciate da Lacan soprattutto nelseminario del 1964 L’Inconscient et la répétition, in Jacques Lacan. Le Séminaire.Livre XI: Les Quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Seuil, Paris 1973[trad. it. Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi,Einaudi, Torino 2003, pp. 19-63].27 Cfr. Massimo Recalcati, Il miracolo della forma, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 54.28 Hal Foster, The Return of The Real [trad. it. cit., p. 137].29 Cfr. Charles Harrison, The Return of The Real, «Artforum», November 1996, p.31. Ancora più insidiosa appare la tendenziale trasformazione dell’approccio teori-co impiegato da Foster in un cliché accademico ormai radicato nel sistema di for-mazione e selezione di artisti, curatori e storici dell’arte.30 Hal Foster, Design and Crime (And Other Diatribes), Verso, London 2002 [trad.it. Design & Crime, Postmediabooks, Milano 2003, pp. 23-44].31 Fredric Jameson, Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism, DukeUniversity Press, Durham 1991 [trad. it. Postmodernismo, o la logica culturale deltardo capitalismo, Fazi, Roma 2007, p. 24].

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Robert Smithson, Asphalt Rundown, 1969

LA FORMA DELL’INFORME

Informe non è soltanto un aggettivo con tale senso ma un termine che serve a declassare,esigendo generalmente che ogni cosa abbia la sua forma. Ciò che designa non ha diritti

suoi in alcun senso e si fa schiacciare ovunque come un ragno o un verme di terra.Occorrerebbe in effetti, perché gli accademici siano contenti, che l’universo prendesse

forma. L’intera filosofia non ha altro scopo: si tratta di fornire una livrea a ciò che è, unalivrea matematica. Al contrario, affermare che l’universo non somiglia a nulla e che è solo

informe equivale a dire che l’universo è qualcosa di simile a un ragno o a uno sputo.Georges Bataille, voce Informe dal Dictionnaire critique

Consumatosi in età postmoderna il distacco da ciò che ne avevacostituito lungo il corso del Novecento il luogo, l’identità, il dis-corso, la critica d’arte, non meno di quella letteraria, appare oggisospesa tra una reticente omologazione alle regole del mercato eun’impervia rivendicazione di indipendenza, sullo sfondo dell’e-saurirsi di quello storico ruolo di verifica e selezione assunto nelfrattempo, sia pure opportunamente ristretto a un funzionale com-pito di “mediazione”, da forme più o meno efficienti di curatorship.Certo, la crisi della critica, come ha scritto Paul de Man in un pas-so molto citato, non è solo congiunturale, dato che «le nozioni dicrisi e quella di critica sono assai strettamente collegate, tanto chesi potrebbe affermare che ogni vera critica si manifesta nel mododella crisi»1, ma è evidente che le specifiche condizioni del sistemaartistico contemporaneo vincolano strettamente il ruolo dell’in-terpretazione, i suoi spazi, la sua visibilità, in un modo che esa-spera quella tensione tra valore estetico e valore di scambio chepure ha caratterizzato sin dalle origini tardo ottocentesche il siste-ma artista-critico-galleria. È tuttavia la trasformazione delle prati-

che artistiche, ancor prima dei mutamenti sociali, ad aver sancitoil tramonto delle forme ermeneutiche tradizionali e reso necessa-ria una rifondazione delle pratiche di interpretazione, chiamateormai da decenni e con crescente velocità man mano che ci avvi-ciniamo all’epoca attuale, a dar conto della perdita di centralitàdella tradizione moderna e del suo retaggio formale, dell’esaurir-si di nozioni un tempo centrali come sperimentazione e originali-tà, del venir meno dell’ancoraggio a una progettualità utopica, aquella valenza etico-politica garante di ultima istanza delle sceltedegli artisti e delle interpretazioni dei critici .

Se non sembra esservi oggi per la critica altra scelta se nonquella di affrontare l’esperienza artistica come sintomo di que-sto mutamento, una disciplina relativamente nuova come i visualstudies potrebbe apparire la candidata con più chance di sub-entrare alla “vecchia” storia dell’arte e al suo armamentarioumanistico, per lo più inadatto a perlustrare un campo di inda-gine allargatosi ora alla sfera della comunicazione, all’immagi-nario mediatico, all’antropologia, all’economia politica, allateoria sessuale, secondo quella tendenza generale rappresenta-ta ormai da qualche decennio dai cultural studies. In questa pro-spettiva allargata l’arte vede erosa fino alla scomparsa la suaantica pretesa di porsi come momento fondamentalmente inven-tivo, a vantaggio di meccanismi psico-sociali di distinzione, uti-lizzo, convalida delle immagini, con l’effetto di rendereirrilevante o quantomeno non pertinente ciò che la critica “mili-tante” ha storicamente considerato come una propria preroga-tiva, vale a dire la necessità di praticare un riconoscimentoanalitico delle qualità formali delle opere, della sua specifica dif-ferenza. Accostare l’esperienza artistica vuol dire decostruire lasua tradizione critica, e rifondare quest’ultima significa, da que-sto punto di vista, demolirne la specificità. Diversa è stata inve-ce la scelta di quanti, tra Europa e Stati Uniti, hanno ripensatola disciplina in continuità critica, e non in aperta contrapposi-zione, con la sua vicenda moderna, rileggendola a partire da unsuperamento dalle opposizioni binarie idealiste e moderniste(arte/non arte, avanguardia/kitsch) che avevano definito la pra-tica dalle avanguardie storiche, e puntando soprattutto a demo-lire il paradigma storico che aveva dominato i decenni centrali

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del Novecento, quella master narrative di radice hegelianasecondo la quale, molto schematizzando, da Manet all’espres-sionismo astratto e oltre la vicenda delle arti visive può essereletta nel senso di un progressivo affrancamento dagli obblighidella rappresentazione e della narrazione, come una costantericerca di autonomia che rompe con la tradizione artisticapostrinascimentale proponendosi al tempo stesso come conti-nuatrice delle sue istanze più profonde.

Questa particolare ideologia modernista è stata il costantetermine polemico del gruppo di critici e studiosi riuniti attornoa «October», la rivista americana che ha rappresentato sin dal-la sua fondazione, nel 1976, il veicolo di un’agguerrita battagliaculturale che ha di fatto contribuito a ridefinire confini, meto-dologie e de facto nuovi standard per gli studi sull’arte moder-na e contemporanea. Il dialogo con i mutamenti dello scenariopolitico, intellettuale e artistico post-1960 e la capacità di indi-viduare nuovi scenari interpretativi sono caratteri costanti delpercorso intellettuale della indiscussa capofila del gruppo, Rosa-lind Epstein Krauss, la studiosa che muovendo da un attacco aipunti forti del canone modernista – la concezione rigidamenteformalista dell’immagine, i concetti restrittivi di “originalità” e“qualità”, il primato dell’istantaneità visiva sulle dimensionitemporali e tattili, ecc. – ha disegnato nell’arco di un quaran-tennio un vero e proprio “programma” alternativo, a partire dal-la sua rilettura antiformalista della storia della scultura eproseguendo con le analisi di ispirazione strutturalista dei carat-teri dell’avanguardia cubista, le riflessioni semiotiche sul “foto-grafico” e la teoria dell’immagine indicale, sino a quella che puòessere considerata la sua proposta più matura e complessa, avan-zata in un volume del 1996, L’informe. Mode d’emploi, scritto aquattro mani con Yve-Alain Bois, che accompagnava l’omoni-ma mostra al Centre Pompidou di Parigi2. I due curatori vi adot-tavano una nozione singolare, l’informe appunto, qualestrumento in grado di forzare l’orizzonte dell’estetica moderni-sta e di evidenziare al suo interno le energie centrifughe che nehanno innervato la vicenda, contestandone la teleologia, deco-struendo al tempo stesso la pretesa “purezza” dell’esperienzaestetica (che ha all’origine il disinteresse senza corpo dello spet-

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tatore kantiano) e gli impliciti processi culturali di esclusione erimozione su cui si fonda.

Ma cos’è l’informe? Il termine, secondo la definizione diGeorges Bataille nel Dictionnaire3, designa una strategia di degra-dazione volta a «spingere la forma giù dal suo piedistallo», a met-tere in crisi le categorie, i modi della conoscenza e del giudizio.Per Bataille la funzione propria del termine informe, il suo valo-re d’uso, è quella di «declassare» il mondo per mezzo di un’a-zione che al tempo stesso abbassa o svilisce le cose, privandoledelle loro pretese – nel caso delle parole, del loro significato –,di svalutare, o di sfidare, i presupposti stessi del significato, valea dire l’opposizione strutturale tra i termini. Con la sua provo-catoria radicalità – un tratto costitutivo della visione batailliana– la nozione di informe punta a scompaginare l’armatura filoso-fica e matematica, a revocare la sua supremazia, “disassimilan-do” il mondo, scuotendo la fiducia in un logos capace di risolverein se stesso ogni contraddizione. L’informe non corrisponde dun-que all’abietto, a una sostanza degradata, scatologica, ma va inte-so piuttosto come un’operazione che punta a desublimare ognidiscorso, a minare il logocentrismo occidentale esponendone ilrovescio, il negativo, la parte maledetta, lo «sputo» da cui nascela parola4.

Bataille forgiava in questo modo anche uno strumento utile agettare le basi di una controstoria dell’arte, posta oltre il tradizio-nale dualismo tra forma e contenuto; una storia incentrata sugliscarti, sui fantasmi, sui ritorni perturbanti, i percorsi marginali ele componenti rimosse dalle narrazioni dominanti. Non è diffici-le a questo punto comprendere i motivi del recupero dell’informeall’interno del disegno critico di Bois e Krauss: il suo meccanismointerferisce con il tessuto storico dell’arte del Novecento, demo-lendo la griglia ideologica attraverso cui essa è stata inquadrata dalmodernismo e proponendone una lettura inedita e “scandalosa”che colpisce le procedure di esclusione sino a quel momentovigenti, prima tra tutte la scissione tra soggetto e corpo conse-guenza del privilegio idealistico accordato al senso della vista.

L’informe può compiere “operazioni” diverse, spiegano i dueautori, la più importante delle quali è sena dubbio la negazionedell’ordine intellettuale fondato sulla stazione eretta. L’espe-

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rienza in cui tale processo appare in tutta la sua portata eversivaè il dripping di Jackson Pollock: la tela distesa al suolo su cui l’ar-tista faceva sgocciolare il colore rappresentava un attacco mor-tale al valore umanistico tradizionalmente connesso all’atto didipingere. Mettere in dubbio l’ordinamento “verticale” vuol direcontestare l’idealismo e il disconoscimento della materia ad essotradizionalmente connesso. “Basso materialismo” sarà invece lostrumento di quegli artisti che rifiutano la gerarchia ascensiona-le materia-spirito cercando invece di mostra re la resistenza del-la materia a farsi astrarre, come accade in certe fotografie di Wolso nei Dirt painting di Robert Rauschenberg. Un’altra modalità èla «pulsazione», un procedimento per forzare l’esclusione dellatemporalità dal campo visivo, che può essere visto all’opera nel-le spirali in movimento di Anemic cinéma di Marcel Duchamp onei film d’artista di Bruce Nauman e Richard Serra degli annisessanta. Ultimo stadio, l’entropia, l’irreversibile degradazionedi ogni sistema fisico, utilizzata come procedimento artisticoantiformale, ad esempio nelle accumulazioni di Arman, nelle“colate” di materiali fluidi di Robert Smithson o nelle cartestrappate di Jean Arp e Lygia Clark, affiorante a scala architet-tonica nei “tagli” di Threshole di Gordon Matta-Clark, che rime-scolano l’alto e il basso, il verticale e l’orizzontale, o nelle tenacimacchie d’olio che risucchiano in una «cloaca in potenza» i par-cheggi vuoti fotografati dall’alto da Edward Ruscha nel suo libroThirtyfour Parking Lots (1967).

Configurato come una vera e propria eterologia dell’artemoderna, L’informe si presenta come una strategia interpretativache punta, oltre che a mettere in evidenza la non omogeneità delsuo percorso, a delineare un quadro teorico e metodologico ingrado di comprendere non solo i radicali mutamenti intervenutinelle pratiche artistiche recenti, ma il più generale paradigm shiftantimetafisico prodottosi con il postmodernismo, e dunque imutamenti traumatici, i crolli, come li chiama Marco Belpoliti5,che lo hanno accompagnato, primo tra tutti quello che colpisce lafede hegeliana in un logos in cui si contemperano le forze chemuovono la storia umana, così come l’ideale ricomposizione tradesiderio e coscienza di cui nella tradizione occidentale la formaartistica è stata sempre considerata la depositaria privilegiata.

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De immundo

Dal momento della sua prima apparizione a oggi, l’ambiziosa pro-posta di Bois e Krauss ha raccolto com’era del resto prevedibilereazioni contrastanti. Un recente libro di Massimo Recalcati6 met-te ad esempio in guardia dai pericoli insiti in quella che definisce«ideologia dell’informe» dell’arte contemporanea, vale a dire unatroppo spedita liquidazione della forma a favore di una discesa agliinferi pulsionali che tenderebbe a svalutare, ad azzerare la “vela-tura”, quel processo di sublimazione formale che rimane invece dalpunto di vista dello psicoanalista un modo fondamentale per offri-re alle pulsioni «un destino simbolicamente possibile».

Rileggendo l’insegnamento di Freud e Lacan, Recalcati ne rica-va una concezione dell’attività artistica come pratica simbolica chepunta a incontrare il reale, come tensione tra qualcosa che resistea ogni identificazione, qualcosa di irriducibile, di inarticolabilecome una formazione dell’inconscio, e un’istanza simbolica arti-colata in senso linguistico e formale. E se l’opera d’arte emergedalla tensione tra queste due polarità, per l’interprete si tratterà diinterrogare l’«irriducibile presenza che rifiuta di essere tradotta inqualsiasi altra forma di espressione», secondo le parole di Alber-to Burri7, puntando a salvaguardare «l’imminenza attiva» dell’o-pera di fronte a ogni lettura ermeneutica, a ogni tentativo didecodifica, e respingendo al tempo stesso la possibilità di una«comunicazione diretta» da parte dell’artista con i suoi fantasmiinconsci. La “forma” rimane per Recalcati indispensabile poichérappresenta il luogo stesso dell’urto perturbante con il reale. Sequesta impostazione risulta appropriata nei confronti di artisticome Tàpies, Kline, Pollock e soprattutto Burri, artisti per i qualiresta in effetti fondamentale la dialettica con la tradizione pittori-ca e le sue forme simboliche, molto meno incisiva, quando nondecisamente insufficiente, appare di fronte esperienze più recen-ti, ad esempio quelle di Gina Pane, Paul McCarthy o RobertGober, in cui Recalcati non manca di sottolineare sfavorevolmen-te «l’emergenza del brutto e dell’orripilante»8, il sadomasochismoesibizionista o la degradazione, senza apparentemente sospettarel’economia fondamentalmente schizofrenica, il doppio regimeespressivo che le caratterizza. A questa diagnosi così perentoria,

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cui contribuiscono evidentemente anche tacite preferenze di gustoe che si basa volentieri su una lettura più delle premesse che deirisultati reali, si potrebbe controbattere che l’ostentazione del-l’eccesso e dell’osceno va letta casomai all’interno di una ben con-gegnata strategia di provocazione e “rottura dell’ordine”istituzionale (dell’arte e del contesto sociale allargato) che nonnecessariamente ratifica un passivo collasso del simbolico e delsuo schermo immaginario: le performance cruente e politicamen-te aggressive di Chris Burden, come Transfixed (1974), le osceni-tà fecali di Paul McCarthy, la stessa ritualità autodistruttiva diGina Pane, sono gesti integralmente politici basati sull’inversione

Chris Burden, Transfixed, 1974

ottenuta per mezzo della ripetizione, prossima casomai al valoretraumatico della serialità in Warhol sottolineato da Hal Foster chea un collasso generalizzato della forma simbolica. Anche quandol’operazione dell’informe sembra lasciar irrompere senza media-zioni «l’inerzia opaca del reale», gli artisti agiscono in effetti nellaconsapevolezza, per nulla “pulsionale”, di iscriversi in quella cor-nice simbolica per antonomasia che è l’arte medesima: una condi-zione in cui l’elemento schermante, l’immagine, per quantochoccante possa risultare, gioca contemporaneamente sul pianodella prossimità emotiva e su quello del distacco, in un va-e-vienitra opera e contesto, tra spazio “organico” dell’immagine e spazioconcettuale del giudizio in cui si attua la relazione con lo spetta-tore e di cui il critico dovrebbe accertare di volta in volta la moda-lità per non cadere, lui sì, nel gorgo dell’indistinto.

L’approccio perplesso di Recalcati si trasforma (inevitabilmen-te si potrebbe dire) in furore polemico nel caso di Jean Clair, il cri-tico d’arte francese da tempo impegnato in una personale crociatacontro la modernità e più di recente contro l’irresistibile attrazio-ne verso il basso, verso una corporeità non sublimata che domine-rebbe l’arte contemporanea. Presentato alla Biennale di Veneziadel 2005, il cruento video Himenoplastia (2005) in cui la performerguatemalteca Regina José Galindo è ripresa nel corso di un inter-vento chirurgico per la ricostruzione dell’imene, è da questo pun-to di vista un candidato ideale, data la provocatoria brutalità dellesue immagini. Può l’orrore diventare una categoria estetica, si chie-de retoricamente Clair nel suo saggio De Immundo9? Come mai èdivenuta pratica corrente per gli artisti impiegare nelle loro operemateriali come «capelli, peli, unghie, secrezioni e umori, sangue,saliva, muco, urina, sperma, escrementi», e perché queste scelteincontrano l’inatteso favore di un sistema dell’arte dominato dalcinismo, dalla furbizia amorale e dal glamour? Gli indiziati, preve-dibilmente, sono gli artisti più o meno a ragione ascritti a quellasensibilità post human battezzata dall’omonima mostra del 1993, edunque, tra gli altri, Marc Quinn, Andres Serrano, Tracey Emin,Jack e Dinos Chapman, o ancora, pescando un po’ a casaccio ingenerazioni diverse, i soliti sospetti Orlan, Chris Burden, MonaHatoum e naturalmente gli azionisti viennesi Muehl, Nitsch eSchwarzkogler. L’artista, ci dice ancora Clair, un tempo compone-

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va, e la composizione era ciò che ancorava la sua opera a un ordi-ne più vasto, alle simmetrie che tenevano assieme materia e forma,mondo naturale e cultura umana. L’arte era un’attività profilattica«contro l’informe e l’innominabile»: oggi è diventata cinica, scato-logica, abietta, preda di una maligna febbre che trascina l’incolpe-vole spettatore sino alla degradazione, all’ultimo avvilimento.Riecheggiano qui i temi consueti delle invettive contro la “deca-denza” delle arti che Clair inaugurò con Critica della modernitàventicinque anni fa10: il moderno è un mito dannoso e l’estetismoanarchico il suo vizio irresponsabile, la pretesa di giudicare la socie-tà in nome dell’arte una distorsione foriera di tragiche conseguen-ze. E ancora, il definitivo svilimento dell’Eros classico e allo stessotempo l’abbassamento del bello al dis-gusto, con il conseguentetrionfo di una «maniera indifferente e cinica» che usa il caso con-tro la forma, esalta la vita e deride la sessualità per trasformare ilcorpo desiderante in una disumanizzata macchina celibe. Forseinavvertitamente, Clair finisce però per individuare un tema chia-ve della vicenda artistica tardo novecentesca: quanto cioè la stret-ta implicazione dell’immagine con i territori sommersi dell’Io e delcorpo, con le sabbie mobili del desiderio, con il progressivo annul-lamento della distinzione tra occhio e soma, tra forma e pulsione,sia anche una strategia funzionale non più alla liberazione di ener-gie desideranti, di intensità soffocate, ma alla loro conversione dis-forica in valore di scambio, in cui ogni complessità esistenziale opsichica evapora sotto il dominio del grande Altro. E se il suo giu-dizio sull’indifferenza e il “vuoto” dell’arte più recente apparenostalgico e tutto sommato superficiale, la questione più generaledella relazione tra le esperienze artistiche contemporanee con ilbagliore ipnotico della merce e la seduzione dei simulacri spetta-colari resta più che mai drammaticamente aperta.

Trasgressioni

Di fronte all’imperativo a godere della cultura di massa, alla vio-lazione delle regole divenuta a sua volta diventata regola, sia purenella misura richiesta dalle ferree necessità del marketing, chevalore può avere ancora la trasgressione in un sistema che nedecreta l’immediato successo commerciale? Essa sembra essere

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diventata in effetti, per riprendere un’immagine di Fredric Jame-son, un ideologema la cui forma esterna, come una conchiglia tro-vata su una spiaggia, continua a emettere il suo messaggio moltotempo dopo la scomparsa del suo ospite. Addomesticati il talentoe l’originalità nel relativismo manipolatorio dei media, l’arte appa-re condannata a un lento scivolamento verso la periferia del tem-po libero, al culto nostalgico del genio e del capolavoro, aevaporare nella fantasmagoria delle merci. Questa è anche la tesidi Anthony Julius11: con tutta evidenza la trasgressione (e le suetradizionali giustificazioni/interpretazioni) ha esaurito la sua fun-zione, la sua ragion d’essere,

Sono tre, secondo Julius, le modalità fondamentali con cui gliartisti hanno storicamente “trasgredito”: violare le regole della pro-pria disciplina, aggredire tabù religiosi o sociali, sfidare il poterepolitico. Singolarmente o combinati tra loro, questi modi accomu-nano opere diverse come Piss Christ (1987) di Andrés Serrano oMother and Child (1993) di Damien Hirst, per citare due esempimolto noti di opere che hanno suscitato “scandalo” al loro appari-re, perché disturbano il tacito nesso tra interdetti sociali, normelegali e principi morali, affrontano il sesso, il dolore o la morte dauna prospettiva ostile a ogni fuga verticale, contraddicendo così la«normale integrità delle cose», mescolando il puro all’impuro efacendosi gioco delle idee di persistenza, di integrità, di decoro. Latrasgressione (e dunque il palesamento) dei canoni dell’accettabi-lità estetica è stata in questo senso una strategia costante dell’a-vanguardia: Fountain (1917) di Marcel Duchamp e Merda d’artista(1961) di Piero Manzoni hanno in comune la trasformazione del-l’opera in un’interrogativo sulla sua natura, sulla sua singolarità,sull’enigma del come e del perché avvenga la sua produzione. Latrasgressione è in realtà l’aspetto utopico di ogni opera d’arte, ciòche in essa ci annuncia un’esistenza libera da regole.

È precisamente questa la contraddizione, anzi il double bind,entro cui si dibatte l’esperienza artistica postmoderna: come si puòtrasgredire l’Ordine costituito, il Sistema, se proprio quest’ultimoci impone di farlo? Come si possono forzare i limiti se, come ripe-te Slavoj Žižek, la trasgressione rafforza il Potere anziché insidiar-lo, dato che ne rende accettabile il volto oscuro, la perversità?Proprio come aveva intuito Bataille, tra la regola e la sua violazio-

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ˇ

ne esiste una profonda complicità, e la trasgressione non sovverte,ma piuttosto «venera la regola che infrange», in una mutua dipen-denza che consolida entrambe le polarità. Ma solo per provoca-zione o per diffidenza reazionaria si può sostenere che oggi per gliartisti violare le regole, qualsiasi regola, è ormai un compito irrea-lizzabile. Un’affermazione simile a tanti altri anatemi, del tuttoindifferenti agli sviluppi reali dei linguaggi artistici, alle loro aper-ture impreviste, alle linee di rottura che tracciano sulla liscia super-ficie dell’immaginario. Qualcosa può sfuggire alla presa degliingranaggi del consenso se riconosciamo nell’“opera d’arte” nonsolo un feticcio, ma una funzione antropologica, un processo, se lapensiamo non come una sorta di monade ma come il luogo di unarelazione che illumina e attiva una differenza, come un atto tra-sgressivo – nel senso inteso da Bataille – che apre il presente all’im-pura correlazione delle azioni, dei pensieri, dei desideri.

L’opera di Cindy Sherman può essere considerata da questopunto di vista un oggetto d’indagine particolarmente congeniale,vista la sua centratura sui modelli di identità psichica, sessuale,sociale, prodotti dall’immaginario di massa, la stratificazione con-cettuale, l’uso dell’immagine fotografica per ridefinire i meccani-smi di costruzione dell’Io e le sue trasformazioni nel mondodominato dal feticismo della merce. Questi aspetti in particolarehanno attirato le riflessioni di Rosalind Krauss, che dedica allaSherman uno dei saggi di Bachelors12, libro che rappresenta la pro-secuzione ideale del percorso iniziato con L’informe. In contrastocon la critica di orientamento femminista, che ha letto l’opera del-la Sherman e in particolare la serie di “fotogrammi” Untitled FilmStills (1977-80) – «little narratives»13, micro racconti in cui la Sher-man impersona stereotipi femminili ispirati all’immaginario cine-matografico degli anni cinquanta e sessanta – come in chiave didecostruzione dei ruoli cinematografici femminili, incarnazionidella donna come oggetto passivo dello sguardo maschile – delladonna-come-immagine , ridotta al silenzio e feticizzata, secondo lalettura di radice lacaniana di Laura Mulvey14 –, nell’analisi dellaKrauss i Film Stills rappresentano il rovesciamento dei “miti” chemostrano in superficie, sono «istanti pregnanti»15, per usare un’e-spressione di Roland Barthes, organizzati non in successione, comenel film, ma secondo una distribuzione reticolare che amplifica la

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loro qualità stratificatita e ambigua. Sono autoritratti che sollecita-no una percezione dell’Io come costruzione frammentata, comeidentità di secondo grado, in cui la distruzione dei ruoli prestabi-liti fa emergere il caos, la condizione perversamente indetermina-ta in cui versa.

Da questo punto di vista Celibi, sin dal titolo si potrebbe dire,è un libro scuote in profondità i paradigmi degli studi femministi

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Cindy Sherman, Untitled Film Still #7, 1978

sull’arte, mettendone in discussione il fondamento stesso, e cioè laspecificità del soggetto autoriale, l’influenza del “genere” sull’i-dentità artistica e più in generale il tema dello sguardo sessuato (almaschile), così come esso si è andato articolando nella prospettivadelle studiose soprattutto anglosassoni dell’ultimo ventennio.Come ben chiarisce il parallelo tra i perturbanti autoritratti dellasurrealista Claude Cahun e il travestitismo di Marcel Duchamp-Rrose Sélavy, l’arte per la Krauss è un luogo in cui l’identità maschi-le e quella femminile si scambiano continuamente posto, comefanno anche le posizioni dell’osservatore e dell’osservato, in accor-do con «un carattere fluido dell’Immaginario che permette alle suediverse espressioni di essere assunte da più di un sesso contempo-raneamente»16.

In questa serie di ritratti si può così anche riconoscere una cifra-ta autobiografia intellettuale della Krauss, in cui i temi, le perso-nalità artistiche, la stessa dialettica tra filologia e interpretazionedivengono altrettante stazioni di un processo di individuazione incui anche un singolo dettaglio – un formato particolare, la materiadi una scultura, l’inquadratura, la grana di una fotografia – basta ainnescare un processo in cui l’opera diviene il centro di una rete diquestioni che mettono in gioco la posizione stessa dell’interprete:“chi è il mio Io, cosa e come guarda?”. La rivisitazione del percor-so creativo di Louise Bourgeois conduce così a riconoscere e spe-cificare la sua natura trasgressiva e antiformale, le sue affinità conl’art brut, sino a riconnetterlo alla genealogia novecentesca delle“macchine celibi”, meccanismi che oggettivano nel mondo realel’intromissione del desiderio, la sua interminabile produzione e fru-strazione, sullo sfondo di un ripensamento della natura oggettualedella scultura. O ancora, la radicale revisione del giudizio sulla pit-tura di Agnes Martin passa anche attraverso il recupero ragionatodella “teoria della nuvola” di Hubert Damisch, del pensiero diAlois Riegl e della nozione di “griglia”, mentre la rammemorazio-ne del procedimento dell’anamorfosi consente di ripensare la traiet-toria dell’opera di Eva Hesse, e le riflessioni di Walter Benjaminsul simulacro e sul collezionismo accompagnano l’esplorazione delmondo rarefatto di Louise Lawler.

Nell’arco di oltre un quarantennio di attività, l’evoluzione intel-lettuale e metodologica di Rosalind Krauss – dagli inizi formalisti

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allo strutturalismo alla posizioni decostruzioniste e alle aperturepsicoanalitiche dell’ultima fase – attesta una costante volontà dimisurarsi con un panorama artistico e teorico in profondo e conti-nuo mutamento, in cui è venuta del tutto meno la continuità indi-spensabile a una storia dell’arte basata sul tradizionalearmamentario della connoisseurship17. Per far fronte alle nuove que-stioni poste da una produzione artistica ormai incompatibile conil quadro ideologico ed estetico offerto dai critici modernisti, sindalla fine degli anni sessanta la studiosa americana ha sviluppatoun approccio irrispettoso delle convenzioni e degli usi sedimenta-ti, che ha puntato a ridiscutere il quadro teorico generale dell’artemoderna, procedendo a rileggere le sue figure capitali – Picasso,Brancusi, Duchamp o Pollock, ad esempio – come pure ambiti pro-blematici più ampi – la scultura, la fotografia –, corrispondenti adaltrettanti “livelli” di uno scavo archeologico nello spessore stori-co della modernità, una disposizione che in Italia è stata tempesti-vamente colta e resa accessibile da Marco Belpoliti ed Elio Graziolisulla loro rivista «Riga».

Il frutto più notevole di questo percorso appare oggi così nontanto (o non solo) la demolizione degli assunti modernisti, ma l’a-ver saputo sviluppare una serie di nuova strategie interpretative cheriverberano in modo produttivo il pensiero contemporaneo sulleopere d’arte e viceversa, strappando le immagini alla stretta pro-tettrice dell’intenzione e del significato ed elevando la critica sul-l’arte contemporanea da strumento promozionale, funzionale algrande Altro del mercato, al livello di una riflessione filosofica ingrado di fornire un’interpretazione chiarificante dei suoi oggetti(alcuni esempi: la griglia, individuata come vera e propria struttu-ra soggiacente della modernità; il folgorante parallelismo traDuchamp e Brancusi, tra la scultura come strategia estetica nel pri-mo e la forma come manifestazione della superficie nel secondo; oancora, la nozione semiotica di indice impiegata per comprenderela cruciale alterazione imposta alle pratiche artistiche dall’inven-zione della fotografia).

Lette attraverso questo filtro teorico e concettuale le opere d’ar-te diventano più pesanti, più grandi: cioè non solo più importanti,ma più serie, più impersonalmente necessarie. Per la Krauss un’o-pera d’arte o è davvero importante o non è nulla, e per questo è

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tanto più necessaria una notevole disciplina concettuale affinchél’apertura critica si realizzi sino in fondo, a volte a spese dello stes-so artista, che può essere giudicato creativamente esaurito (comePollock ad esempio, nell’ultima parte della sua carriera) a causadell’improvviso opacizzarsi della sua pratica. Quelli della studiosaamericana sono d’altro canto ragionamenti che procedono con unandamento non lineare, in cui un elemento imprevisto – un fram-mento teorico, il terzo senso, l’ottuso di Barthes, ad esempio, o l’in-conscio ottico di Benjamin – viene sempre usato (e non meramentecitato) per forzare il quadro stabilizzato delle interpretazioni. Èl’autrice stessa a fornirci una definizione di questo metodo: è il“fraintendimento“ o misreading, una «perversa ma molto accortacomprensione profonda, che libera dall’interno dell’opera […] unpotenziale (spesso anarchico o trasgressivo) rimasto nascosto odoffuscato»18. L’operazione critica appare così il risultato di un’a-pertura dialettica che scopre dentro i suoi oggetti di indagine unapluralità, una insospettata disomogeneità.

La fase più recente della ricerca della Krauss è testimoniata initaliano da due volumi19 composti di testi scritti dopo il 1999, doveancora una volta, e questo è un aspetto determinante dello stileintellettuale dell’autrice, ritroviamo all’opera una concezione del-la critica e della teoria dell’arte come due aspetti della medesimaattività. Una visione che qui si manifesta in una serrata discussionesulla condizione post-mediale dell’arte più recente, condotta comesempre attraverso esempi al tempo stesso illuminanti e perentori: ipercorsi di Marcel Broodthaers, di James Coleman e William Ken-tridge, di cui l’autrice ricostruisce originalmente le fisionomie crea-tive, iscrivendole in un percorso problematico e usandolesoprattutto come esemplificazioni di un carattere strutturante, diun paradigma originale della pratica artistica contemporanea.

Il medium di cui parla la Krauss non è meramente la tecnica diesecuzione, il supporto, insomma la condizione materiale delle ope-re. Con il termine si intende piuttosto un insieme di regole, una“matrice generativa” di convenzioni derivate (ma non identiche)dalle condizioni materiali, uno spazio disciplinato di possibilità chesi apre all’artista. Così, ad esempio, per Jackson Pollock l’orizzon-talità è non solo il presupposto fisico che permette il dripping, lacolatura del colore sulla tela stesa a terra, ma un medium a tutti gli

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effetti, un “vettore fenomenologico” che apre una nuova dimensio-ne nell’esperienza del pittore e orienta quindi una diversa intenzio-nalità. Abbandonare la pittura da cavalletto diventa così per l’artistaamericano l’occasione per ribaltare le secolari convenzioni figurati-ve legate alla verticalità del quadro, alla sua natura puramente otti-ca. Contro l’idea storicista di “progresso” in arte, contro la facileinfatuazione per le tecnologie, per i nuovi media, la Krauss stabili-sce poi un fondamentale collegamento tra l’obsolescenza di unatecnica e la sua assunzione come medium artistico: è infatti l’esse-re “fuori moda”, come già aveva suggerito Benjamin, ad aprire auna forma espressiva la possibilità di essere rifondata comemedium. L’esempio della fotografia è in questo senso eloquente: ilsuo affermarsi nelle pratiche artistiche è contemporaneo al venirmeno dell’idea di specificità e al diffondersi delle pratiche concet-tuali che guardano all’arte come a un’attività “indifferente” ai mez-zi impiegati. Lo stesso può dirsi delle proiezioni di diapositive diColeman, dei disegni “animati” di Kentridge, o anche, aggiungia-mo, dei film di Tacita Dean. Non si tratta, come scrive Elio Graziolinell’introduzione a Reinventare il medium, del recupero nostalgi-co o regressivo di tecniche desuete: è nel fuori moda, nell’obsole-to che si apre appunto la possibilità di reinventare: riscoprirel’anacronistico e il fuori moda è per gli artisti contemporanei unmezzo per conferire profondità al presente, per riaprire la storia emettere a fuoco il presente.

La voce della Krauss ci ricorda così che nel suo nucleo piùostinato l’arte rimane sovversione, sfida, individuazione di alter-native. E quindi anche violazione di divieti, scavalcamento cheriporta in luce quanto era stato represso o rimosso e istituiscecorrispondenze inattese tra percezione e pensiero. Forse la lezio-ne più decisiva del suo percorso intellettuale è aver mostratocome la critica partecipi attivamente a questo processo di costan-te reinvenzione del mondo, di distruzione e ricomposizione delsuo ordine, della sua praticabilità. Le sue conclusioni possonocertamente essere discusse, ma la sostanza del suo insegnamen-to seguita ad additare una possibilità fondamentale del discorsocritico: quello di farsi strumento di comprensione dei fenomeniartistici nella loro qualità dialettica originaria, stringendo insie-me il loro aspetto formale e il loro retroterra antropologico.

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NOTE

1 Paul de Man, Blindness and Insight (1971), Routledge, London 1983 [trad. it. Cecitàe visione, Napoli, Liguori 1975, p. 8].2 Yve-Alain Bois e Rosalind Krauss, L’informe. Mode d’emploi, Centre Georges Pom-pidou, Paris 1996 [trad. it. (condotta sull’edizione americana: Id., Formless. A User’sGuide, Zone Books, New York 1997) L’informe, Bruno Mondadori, Milano 2003].3 Georges Bataille, Informe, in «Documents», n. 7, 1929, p. 382; ristampa anastaticaÉditions Jean-Michel Place, Paris 1991.4 Sul debito e la distanza di Bataille nei confronti del pensiero di Hegel su questi temisi vedano le considerazioni di Jacques Derrida, L’Écriture et la différence, Seuil, Paris1967 [trad. it. La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1982, pp. 325-58]5 Marco Belpoliti, Crolli, Einaudi, Torino 2005.6 Massimo Recalcati, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Bruno Mon-dadori, Milano 2007.7 Cit. in Stefano Zorzi (a cura di), Parola di Burri, Allemandi, Torino 1995, p. 32.8 Massimo Recalcati, Il miracolo della forma, cit., p. 95.9 Jean Clair, De Immundo, Galilée, Paris 2004 [trad. it . De Immundo, Abscondita, Mila-no 2005].10 Jean Clair, Considérations sur l’état des beaux-arts: Critique de la modernité, Galli-mard, Paris 1983 [trad. it. Critica della modernità, Allemandi, Torino 1984].11 Anthony Julius, Transgressions. The Offences of Art, Thames & Hudson, London2002 [trad. it. Trasgressioni, Bruno Mondadori, Milano 2003]12 Rosalind Krauss, Bachelors, The MIT Press, Cambridge-London 1999 [trad. it. Celi-bi, Codice, Torino 2004].13 Cindy Sherman, The making of Untitled, in The Complete Untitled Film Stills, TheMuseum of Modern Art, New York 2003, p. 6.14 Laura Mulvey, A Phantasmagoria of the Female Body: The Work of Cindy Sherman,in «New Left Review» n. 188 (July-August 1991), pp 137-150; un punto di riferimen-to per l’approccio femminista alle arti visive è il saggio, sempre di Laura Mulvey, Visu-al Pleasure and Narrative Cinema (1975), in Id. Visual and Other Pleasures, IndianaUniversity Press, Bloomington 1989. 15 Cfr. R. Barthes, Il terzo senso. Note di ricerca su alcuni fotogrammi di Ejzenštejn (1970),in L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III (1982), Einaudi, Torino 2001, pp. 59-61.16 Rosalind Krauss, Bachelors [trad. it. cit. p. 50].17 Cfr. David Carrier, Rosalind Krauss and the American Philosophical Art Criticism,Praeger, Westport 2002, p. 19.18 Rosalind Krauss, The Crisis of the Easel Picture, Kirk Varnedoe e Pepe Karmel (acura di), Jackson Pollock, New Approaches, The Museum of Modern Art, New York1999 [trad. it. La crisi della pittura da cavalletto, in Reinventare il medium, a cura diElio Grazioli, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 12].19 Rosalind Krauss, Reinventare il medium cit. ed Ead. L’arte nell’epoca postmediale,Postmediabooks, Milano 2005.

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Andy Warhol, Brillo Boxes, 1964

LA TRASFIGURAZIONE DEL BANALE

Uno schermo televisivo in bianco e nero. Una voce femminilefuori campo: «Le sue non possono essere definite sculture ori-ginali. È d’accordo? Oh, yeah. – Si è limitato a copiare un ogget-to comune? Yeah. – E perché invece non fare qualcosa dinuovo? Perché è più facile». Chi risponde con voce atona, gliocchi nascosti da occhiali scuri, in primo piano sullo sfondo discatole su cui spiccano marchi vistosi, è Andy Warhol, il liqui-datore di «quella vecchia cosa, l’arte» – come recita il titolo diun saggio di Roland Barthes1 –, l’artista che «non sta dietro lasua opera ed è lui stesso senza profondità; non è altro che lasuperficie dei suoi quadri: nessun significato, nessuna intenzio-ne, da nessuna parte»2. Il contrasto con gli eroi della generazio-ne dell’espressionismo astratto, con la loro gravità esistenziale,il senso del tragico e della grande storia, lo stile sublime e ilmaledettismo macho, non potrebbe essere più totale: Warholostenta una metodica insensibilità, attinge alla cultura di mas-sa, alla pubblicità e ai rotocalchi, adora il cattivo gusto, si mostraindifferente a ogni significato, anzi si propone di liquidarlo pre-ventivamente attraverso il gioco ipnotico della ripetizione seria-le, rinuncia alla pittura a favore di un tecnica impersonale comela serigrafia («La ragione per cui dipingo in questo modo è chevoglio essere una macchina», aveva detto in una famosa intervi-sta del 1963). Le sue opere offrono un’immagine dell’arte comeattività automatica, distaccata, depassionata, sottratta all’usua-le fiducia umanistica in uno rapporto armonioso tra Io e mon-do e ricondotta, almeno in apparenza, alla dimensionedefinitivamente alienata dei feticci e delle merci.

Nell’aprile del 1964 Warhol aveva esposto alla Stable Gallery diNew York una serie di scatole serigrafate con marchi commercia-li, impilate a centinaia come nel deposito di un grande magazzino,una scelta che destò grande scalpore e lo consacrò definitivamen-te come maggior esponente della nuova stagione artistica. Per unabeffarda ironia, uno dei loghi che comparivano sulle confezioni,quella delle pagliette d’acciaio Brillo, era stato disegnato da un arti-sta poco noto, James Harvey, pittore di gusto espressionista astrat-to e grafico part-time, che si trovò durante il vernissage di frontealla sua stessa invenzione inopinatamente trasformata da “arte com-merciale” in opera d’arte tout court. L’episodio segna in effetti unpassaggio fondamentale tra due concezioni antitetiche dell’espe-rienza artistica, come notò un altro spettatore, il filosofo ArthurColeman Danto, che di quella mostra avrebbe fatto il punto foca-le, la “scena primaria”, se si può dire così, su cui sarebbe incessan-temente tornata la sua riflessione nei quattro decenni seguenti3.Com’era concepibile in effetti che due cose percettivamente iden-tiche avessero uno statuto diverso? Cosa faceva sì che le scatole diWarhol fossero opere d’arte (e venissero dunque vendute come tali)e le Brillo Box di Harvey rimanessero semplici oggetti quotidiani?Era possibile rendere conto filosoficamente di questa trasforma-zione? E che ne era delle categorie estetiche tradizionalmente con-nesse alla creazione artistica – il bello, l’originale, l’autentico?

Una prima risposta a questi quesiti fu avanzata da Danto quel-lo stesso anno in un saggio famoso, The Artworld4, poi cresciutosino a diventare nel 1981 The Transfiguration of the Commonplace,senza dubbio uno dei libri di filosofia dell’arte più influenti e dis-cussi degli ultimi decenni5. La “trasfigurazione” di cui parla Dan-to, filosofo di formazione analitica nato nel 1924, brillante criticod’arte per il settimanale radical «The Nation», è un processo chenon riguarda il piano percettivo, “estetico”; si tratta piuttosto delriconoscimento di una relazione interna tra l’opera e un contestod’azione, il “mondo dell’arte” appunto, che rende possibile l’infe-renza, il riconoscimento preliminare del suo status artistico. Un attoquest’ultimo tacito e fondamentale, che Marcel Duchamp, ben pri-ma di Warhol, aveva messo in luce nei suoi ready-made. Come sot-tolinea Stefano Velotti nella sua introduzione, spostando l’attenzionedalle proprietà percettibili dell’opera a quelle relazionali, Danto

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pensa di poter superare lo scetticismo di quei filosofi, Wittgensteinin testa, che ritengono una definizione filosofica dell’arte impossi-bile o al limite superflua. La sua impostazione analitica – articola-ta peraltro in una scrittura mossa e coinvolgente, ricca di esempi edi osservazioni acute – lo porta in altre parole a considerare possi-bile, almeno in questa fase, una definizione “essenzialista” dell’ar-te, ovvero a designare le condizioni “necessarie e sufficienti” percui le opere, non importa quanto eterogenee tra loro, possano dir-si tali, e questo proprio in forza della generale trasformazione insenso concettuale dell’arte contemporanea. Ma quali sono allora leproprietà relazionali indispensabili a un’opera? La presenza di untitolo, anzitutto, che ne sottolinei la struttura intenzionale, il fattodi essere distinta da una aboutness, di essere sempre metaforica-mente a-proposito-di qualcosa, di possedere dunque un contenuto,un significato che richiede un’interpretazione per essere esplicita-to, come Danto ribadisce in un saggio del 20006. Interpretazioneche secondo Danto fa a sua volta parte costitutivamente dell’ope-ra e accerta la sua identità storica, cioè rende conto di quel pro-blema essenziale della storia dell’arte individuato dell’idea famosadi Heinrich Wölfflin contenuta nella sua opera più importante, Iconcetti fondamentali della storia dell’arte (1915): «ogni artista sitrova di fronte a determinate possibilità ottiche a cui è vincolato.Non tutto è possibile in ogni tempo». E se le possibilità delle ope-re sono condizionate dal contesto storico-culturale, dall’orizzontedi leggibilità entro cui vanno a iscriversi, per Danto l’opera in quan-to rappresentazione possiede una natura ellittica e richiede peressere riconosciuta in quanto tale l’apporto determinante del frui-tore («sono gli spettatori a fare i quadri» aveva del resto dettoDuchamp). Infine, essa non rappresenta, bensì incarna i suoi signi-ficati, cioè li ribalta al livello dell’enunciazione, realizzando le inten-zioni dell’artista in un modo, in uno stile, vale a dire l’elemento nonintenzionale, espresso spontaneamente dall’artista. Conseguenzanon di poco conto: per Danto il momento “asseverativo” dell’arti-sticità di un’opera è di fatto assunto dal “sistema” (il mercato, ilmuseo, il curatore ecc.) mentre alla critica compete ormai unica-mente il compito (di fatto collaterale) dell’interpretazione.

Benché ulteriormente articolata e affinata, questa imposta-zione è rimasta sostanzialmente stabile nel successivo percorso di

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Danto, come nel recente e vivace saggio L’abuso della bellezza7,dove viene indagata la metamorfosi (e l’eclisse) del concetto cen-trale dell’estetica, il bello, lungo tutto l’arco dell’esperienzamoderna e sino ai nostri giorni, rilevandone la progressiva mar-ginalizzazione a vantaggio di una “nuova consapevolezza” auto-riflessiva da parte dell’arte stessa. Sembra in effetti che «nonpossiamo più avere – scrive Marco Senaldi nell’introduzione –un’arte bella, non perché semplicemente ci siamo volti al bruttoo al disgustoso, ma perché abbiamo ri-flesso la bellezza», cioèabbiamo chiarito che essa non appartiene né all’essenza né alladefinizione di arte. Permangono tuttavia all’interno del pensierodi Danto e della sua “teoria degli indiscernibili” diversi punti pro-blematici, a partire dal paradosso insito nel riconoscere filosofi-camente che l’artisticità è uno statuto attribuito a un oggetto perragioni estrinseche, “indifferenti” alle sue qualità estetiche, mache l’opera d’arte è tale solo quando si può cogliere in essa un’i-dea incarnata, che a sua volta non diviene pertinente finché nonviene esercitata un’attività di interpretazione e un riconoscimen-to dell’identità storica dell’opera e delle intenzioni in base allequali l’artista l’ha prodotta. Come se la cornice, per utilizzare un’e-spressione cara a Jacques Derrida, un autore certo non tra i pre-diletti di Danto, la condizione data, il sistema, il “mondodell’arte”, si invaginasse all’interno dell’opera che a sua volta fini-sce per incorniciarla, per darle visibilità. In altre parole, è diffici-le comprendere se «la referenza tematica (aboutness) el’incarnazione rimangano due condizioni definitorie dell’arte,oppure due sintomi del fatto che ci troviamo di fronte all’arte»8,poiché la pertinenza del duchampiano n’importe quoi al campodell’arte è un passo preliminare al riconoscimento metaforico daparte dell’interprete e punta di fatto verso una primitiva attribu-zione, di ordine performativo e storico, da parte dell’artista. Anzi-ché tramutarsi (o, hegelianamente, morire) in filosofia, l’arte siriapproprierebbe dunque di uno spazio che sfugge a una defini-zione essenzialista, mettendo quindi in dubbio (come nota anco-ra Stefano Velotti) l’espulsione del piano estetico, econseguentemente della valutazione critica, dalla discussione.

Non stupisce in questo senso la durevole, reciproca diffidenzatra Danto e gli interpreti di quell’arcipelago critico che fa capo a

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Rosalind Krauss e alla rivista «October». Uno dei punti di mag-giore dissidio riguarda proprio il problema delle intenzioni del-l’artista, laddove queste ultime sono fondamentali in una “esteticadei significati” che vede l’intenzione e il suo riconoscimento comemomenti fondamentali. Al tentativo analitico di Danto di demoli-re la diffidenza formalista nei confronti delle (presunte) intenzionidell’autore, fa fronte la convinzione più volte ribadita dalla Krauss

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Jason Rhoades, Mi Saga, U Saga (Emmanuelle Saga), 2005

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che sono proprio gli aspetti non intenzionabili, l’«inconscio otti-co», a costituire il terreno di un’attività interpretativa concepitacome indagine delle componenti latenti, “periferiche”, automati-che, prelinguistiche, delle opere, la cui individuazione costituisce ilprimo stadio (lo spostamento inaugurale) del giudizio critico. Nel-la relazione tra l’elemento intenzionale e quello non intenzionaledell’opera si apre in altre parole per la studiosa americana uno spa-zio, una possibile visibilità, intesa non tanto come il risultato di unmero atto percettivo, ma piuttosto come un processo dialettico alcui interno la forma diviene un interrogativo lanciato oltre la pro-spettiva storicista, oltre l’“orizzonte di aspettativa” dell’epoca: l’o-pera è in questo senso sempre anacronica, è sempre insieme unaprofezia e una sopravvivenza, una valenza temporale (e storica) difatto estranea, anzi incompatibile con la sistemazione teorica diDanto.

Se la parabola storica dell’arte culmina, come sembra sup-porre la teoria istituzionale del filosofo americano, nella sua com-piuta autoriflessività, sintetizzata nella famosa definizione diJoseph Kosuth, per il quale un’opera d’arte non è altro che «unasorta di proposizione presentata all’interno del contesto artisticoa commento sull’arte»9, se ci troviamo veramente nel tempopostumo apertosi «dopo la fine dell’arte» in cui tutto è possibilee nulla è veramente “differente”, siamo tutti, artisti e spettatori,condannati all’infinita ripetizione di ciò che è già definitivamen-te acquisito, all’eterno presente di una tautologia? Forse, o forseno. Si potrebbe dire che proprio l’insufficienza delle teorie for-maliste e delle estetiche di ascendenza idealista, denunciata (tragli altri) da Danto, abbia sollecitato gli artisti a una continua veri-fica dei loro procedimenti, a una revisione critica che investe l’in-tero piano espressivo, linguistico e sociale, sia in formeesplicitamente filosofiche – come nel caso della institutional cri-tique – che attraverso manifestazioni a prima vista lontane da unaesplicita modalità diagnostica e autoriflessiva (come nel caso del-l’opera di Bruce Nauman). Gli artisti dell’epoca postmodernahanno in effetti sistematicamente contestato la natura esclusiva-mente visiva dell’arte, la sua pretesa contemplativa e “incorpo-rea”, la sua ambizione a fornire un modello di “autenticità”, adesempio chiamando in causa, è ancora il caso di Warhol, la rela-

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zione tra originale e copia, tra autentico e simulacro. La trascri-zione meccanica (dalle Brillo Box, alle Marylin, alle zuppe Camp-bell’s ecc.) non segnala solo un movimento concettuale “interno”,uno spostamento irreversibile nel campo dell’arbitrario e dellostipulativo, secondo l’idea di Danto, ma piuttosto il vacillareincontrollabile dello schermo costituito dall’immagine, il suoliquefarsi sotto la pressione di quel reale che la forma si incaricadi rivestire di una parvenza di tollerabilità. Solo mettendo in dis-cussione il rapporto estetico, psichico e politico tra reale e rap-presentazione, e “montando” al proprio interno la costituzioneparziale, non neutra, dello sguardo, l’arte visiva contemporaneapuò forse rinnovare il proprio compito storico (e filosofico) emantener fede alla sua promessa di rendere pertinente, di testi-moniare l’esemplarità dell’esperienza umana.

Popism

È sempre insieme sorprendente e terrorizzante misurare il disor-dine senza rimedio e il gioco del caso nella vita: il fatto, come scri-veva Musil, che pochi sanno, in fondo, come sono giunti a se stessi,ai propri piaceri, alla propria concezione del mondo. Forse tuttosarebbe potuto andare diversamente per Andy Warhol se un pome-riggio del 1960 il film-maker Emile de Antonio detto De non aves-se detto senza esitare che un certo quadro con un’austera bottigliadi Coca Cola dipinta a spessi contorni neri rappresentava proprio«la nostra società, quel che siamo, bellissimo e completamente spo-glio» com’era: un giudizio che in definitiva, quarantacinque annidopo, ci sentiremmo ancora di sottoscrivere. Forse però ha piùragione Warhol a iniziare il suo volume di memorie raccolte da PatHackett, Popism10, con una frase rimasta famosa: «se fossi mortodieci anni fa, oggi probabilmente sarei un mito». Dopo quel primoistante, nulla fu più in effetti casuale, e quella che leggiamo è anchela più tipica delle profezie autoavverantesi, dato che proprio unmito, o forse solo un mito, è quanto resta dell’esistenza straordina-ria dell’inventore della pop art a quasi vent’anni dalla sua vera mor-te dopo un banale intervento chirurgico.

In trecento e più pagine il libro, pubblicato nel 1980, ci conse-gna in effetti una narrazione minuziosa e diretta degli anni più

importanti della carriera di Warhol, quelli che lo vedono trasfor-marsi da artista commerciale, idolo delle riviste di moda, ad artistatout court, regista di film underground e celebrità internazionale.Sono pagine ricche di idee brillanti, di osservazioni penetranti sul-l’arte e sull’importanza di apparire: Warhol comprese da subito ilpotere dei media e della pubblicità in una società dove tutto ècomunicazione e apparenza. Scenario principale dei destini che siintrecciano nel libro è l’edificio al 231 della East 47th Street, la cele-bre Factory, diventato rapidamente l’epicentro di una vastissimaimpresa creativa che coinvolgeva un po’ tutto e tutti, una specie digrande happening che durò per più di cinque anni prima di inter-rompersi il 3 giugno del 1968 al suono secco delle revolverate diValerie Solanas, nemesi di Warhol e degli eccessi di un’intera epo-ca. Il suo interno era completamente ricoperto di fogli e di pitturad’argento: argento come il futuro, come le navicelle spaziali e letute degli astronauti, ma anche come il colore del passato, dei filmdi Hollywood, dei set con le attrici famose e del narcisismo, argen-to come gli specchi sparsi un po’ dappertutto a disposizione degli

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Pierre Huyghe, One Year Celebration, 2006, particolare

ospiti. La Factory era al tempo stesso lo studio di Warhol, il set deisuoi film, un luogo di incontri e di eccessi, lo sfondo scintillantedei suoi party più folli: era lo scenario di una ininterrotta fanta-smagoria dove si poteva sognare una vita radicalmente diversa.

Eppure, alla fine di un lunghissimo viaggio, dopo centinaia dinomi, di luoghi, di feste, mostre, concerti, di sesso, di droghe, disuicidi e di morti, forse proprio la voce di chi parla, l’Andy sem-pre presente, disponibile, trasparente e infaticabile, è nel libro pro-prio la voce meno distinguibile. Prevedibile, del resto, per chi hascritto che “più vuoti” ci si sente senz’altro meglio, e ha fatto del-la ripetizione e dell’anestesia cifre essenziali del suo percorso arti-stico. Poco o nulla ci dicono in effetti le pagine sull’Io che parla,sull’uomo Warhol, sui suoi pensieri, sulla sue paure, amori, sogni.Le mystère Warhol resta tale. Il suo atteggiamento fondamentale èuna curiosità onnivora ma sostanzialmente indifferente, un desi-derio di testimoniare più che di partecipare: poche parole sonospese per l’assassinio di Kennedy, quasi nessuna per la guerra delVietnam, l’attivismo politico, le contestazioni e le rivolte degli annisessanta. Come ha scritto Calvin Tomkins, Warhol rimane essen-zialmente un voyeur, che lascia le cose prendere il loro corso e leguarda con freddezza: interessato, ma non coinvolto. Il suo è undistacco assoluto, una disciplina dell’insensibilità.

Si potrebbe dire che questo atteggiamento è il perfetto correla-to di quanto ha voluto fare la pop art de-simbolizzando l’oggetto,separando l’immagine dai suoi significati, trasformandola in un simu-lacro: ripetuta e ancora ripetuta, anche l’immagine più scioccante(l’incidente stradale, la sedia elettrica) diviene perfettamente ine-spressiva. In questo procedere verso l’indifferenziato anche l’autorescompare: l’artista pop non sta più dietro la sua opera, diventa liscioe piatto come la superficie dei suoi quadri. A nessun significato nonpuò che corrispondere nessuna intenzione. L’ambizione di Warhol adiventare totalmente impersonale, noncommittal, anonymous, divie-ne così una esigenza, una garanzia di sopravvivenza, di successo:«Penso che tutti dovrebbero essere macchine. Penso che tuttidovrebbero amarsi. La pop art è amare le cose. Amare le cose vuoldire essere come una macchina, perché fa continuamente la stessacosa. Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchi-na» dichiarava in una intervista del 1963 tra le sue più citate11.

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Ma forse Andy era davvero se stesso solo quanto poteva essereil suo altro, quell’essere incerto, fragile e seducente in camicettabianca e parrucca platino, insieme femme fatale, timida debuttan-te e diva sfrontata, che ci fissa dai suoi autoritratti in drag del 1981,un rimando obbligato a Rrose Sélavy, l’alter ego femminile di Mar-cel Duchamp, certo, ma anche un’ammissione che va ancora più inprofondità, che sfiora la relazione edipica, fa emergere il fantasmadi una madre mitica e ne proietta all’indietro l’irraggiungibile per-

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Mike Kelley, Memory Ware Flat #10, 2001, particolare

fezione androgina. Confessione estrema e folgorante per chi avevascritto: «Ho sempre pensato che la mia pietra tombale dovesseessere anonima. Niente epitaffio e nessun nome. Anzi, a dire il verodovrebbe esserci scritto “finzione”».

Postproduction

Un salto in avanti, fino ai nostri giorni. All‘interno di un grandemuseo un’installazione riunisce nello stesso ambiente le sceno-grafie di Isamu Noguchi per i balletti di Martha Graham, i mate-riali per esperimenti scientifici sulle reazioni infantili alla violenzatelevisiva e quelli di Harry F. Harlow sulla vita affettiva delle scim-mie, oltre a video e pezzi di scultura minimalista. Oppure unaproiezione di Psycho di Hitchcock rallentato al punto di durareventiquattro ore; o ancora, un grande ambiente in cui si vieneimmersi materialmente nelle parole e nelle idee di Michel Fou-cault, o una tela in cui la “Z” di Zorro è ottenuta con tagli “allaFontana”. Sono tutti esempi di un modo di operare che caratte-rizza lo scenario dell’arte dell’ultimo quindicennio: una forma diappropriazione diretta, di ricontestualizzazione del ‘già fatto’, chereimpiega, lasciandole riconoscibili, opere estratte dalla culturaartistica, dalla letteratura, dal cinema. Nei lavori di Mike Kelley,Douglas Gordon, Thomas Hirschhorn e Maurizio Cattelan l’at-teggiamento dell’artista somiglia a quello del deejay che miscelatracce musicali “campionate”, che interpreta, anziché produrre,che sviluppa elastici legami orizzontali anziché gerarchie vertica-li. In un mondo di forme già esistenti, di segnali già emessi, di edi-fici già costruiti, di itinerari già battuti, il campo artistico non èpiù un museo di opere da citare o ‘superare’, come avrebbe volu-to l’ideologia modernista del nuovo, ma un insieme di dati damanipolare, mescolare e rimettere in gioco.

Nell’epoca dell’informazione immateriale e rizomatica diinternet, degli scenari del gusto disegnati dagli esperti di marke-ting, del consumo spettacolare, «gli artisti programmano le formepiù che comporle», sostiene il critico e curatore francese NicolasBourriaud, che in Postproduction12 ha tempestivamente indivi-duato il fenomeno, cui ha adattato con un termine corrente nellinguaggio dell’industria audiovisiva. L’assunto implicito nelle

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strategie di postproduzione è che sia impossibile (o impraticabi-le) produrre alcunché di nuovo, e che generare singolarità nelcaos di oggetti, riferimenti, nomi, che ci circonda voglia dire anzi-tutto rigenerarne un possibile valore d’uso. Se la questione arti-stica fondamentale non è più “che fare di nuovo”, ma “che farecon quel che si ha a disposizione”, i processi di cui parla Bour-riaud designano quella che egli definisce una «zona di attività» incui vengono elaborati protocolli alternativi per rappresentazionie strutture narrative già esistenti: «imparare a servirsi delle formevuol dire anzitutto sapere come farle proprie e abitarle», passan-do da una cultura del consumo a una cultura dell’attività, da unatteggiamento passivo a una forma di resistenza basata sulla riat-tivazione di potenziali negati o marginalizzati.

Argomenti di questo tipo non sono ovviamente originali, se giàT. S. Eliot rifletteva nel suo celebre saggio del 1919 Tradizione e talen-to individuale sul senso dell’eredità, sul carattere sempre attivo delrapporto con la tradizione e sulla relazione reciproca tra passato epresente, legando insieme la critica all’idea di progresso nelle arti edi impersonalità dell’artista13. Quella che è nuova senz’altro è la pro-spettiva dalla quale gli artisti cercano di stabilire un rapporto con lacultura in cui oggi sono immersi. Come il consumatore teorizzato daMichel de Certeau ne L’invenzione del quotidiano14, l’artista è oggiimpegnato in una «produzione silenziosa» basata su un meccanismodi (ri)lettura che trasforma «la proprietà dell’altro» in un luogo occu-pato temporaneamente da «un’attività astuta» che si insinua ovunquee si segnala per l’appunto non con prodotti nuovi ma con modi diusare quelli già esistenti15. Sin dal ready-made di Marcel Duchampl’arte novecentesca ha del resto costantemente messo in questione ilprincipio produttivo dell’opera e lo stesso concetto di “creazione’’artistica, stabilendo un’equivalenza tra scegliere e fabbricare, tra con-sumare e produrre. Ma una volta abbandonata l’idea di creazionecome invenzione di un linguaggio proprio, l’arte stessa si è progres-sivamente trasformata in un campo di rappresentazione globale, inuna gigantesca riserva di segni, di messaggi e di oggetti, in un mon-taggio di cui non si può più evidenziare l’unità, la struttura soggia-cente: non si parla più di “valore” dell’arte come pure non si può piùrintracciare una struttura evolutiva nella sua vicenda. Così, se l’arteprocessuale o concettuale degli anni sessanta e settanta (si pensi a

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Dan Graham o a Vito Acconci) era animata dalla volontà di svelarele strutture invisibili dell’apparato ideologico dominante, di deco-struirne il sistema di produzione, la più recente generazione di arti-sti rifiuta, come sottolinea Bourriaud, ogni metonimia, ogniassimilazione del frammento al tutto, non credendo più nella possi-bilità di fornire una lettura dissidente della realtà.

È perciò del tutto comprensibile da questo punto di vistaparlare di attività artistica piuttosto che di creatività, di “agen-ti” più che di artisti, individuando nelle procedure allegorichedi selezione e montaggio l’aspetto saliente di uno scenario arti-

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Thomas Hirschhorn, Wall Display-Case (Goya), 2007

stico attuale che secondo Bourriaud si contrappone consape-volmente al titanismo dell’arte “postmoderna” degli anni ottan-ta, al suo eclettismo e alla sua indifferenza politica. Resta apertala questione se il disperdersi della forma-opera in un virtuosi-stico gioco di combinazioni e ricombinazioni non esponga a suavolta al rischio di un alessandrinismo fine a se stesso. Se è assaiverosimile che lo scacco alla parole poetica decretato dalla spet-tacolarizzazione della vita abbia consumato nell’arte ogni resi-dua illusione demiurgica, l’opera resta in effetti una promessa eun fantasma che non cessa di inquietare con la sua presenza. Ementre certamente svolge la sua funzione di “piedistallo”, lospazio estetico è anche la dimensione entro la quale la produ-zione artistica (come fattore di additamento, di sollecitazione)può mostrare senza soccombere all’azione imperiosa dei pro-cessi di scambio il suo potenziale di trasformazione del reale.Ogni rianimazione, ogni ripresa o ritrasmissione presuppone poisempre l’ingombrante pensiero della fine, della morte, e dun-que anche le pratiche artistiche basate sull’appropriazionecustodiscono come una verità rimossa il presentimento dellapropria scomparsa. Insomma l’idea sommamente malinconicache la perdita è necessaria per poter generare, e che solo da unacancellazione può scaturire la possibilità di rinnovare una com-prensione, di riprendere un filo interrotto. Percorrere questoterritorio equivale dunque solo superficialmente a un puro pro-cesso di selezione e “sistemazione” di forme e allegorie: nelgesto di prelevare e rimontare, per riprendere ancora de Cer-teau, l’artista avanza in effetti su un terreno oscuro, diviene «ilmoribondo che cerca di parlare» e può dire l’eccesso meravi-glioso ed effimero di sopravvivere nell’attenzione dell’altro. Quista il salto vertiginoso, la scommessa su cui gli artisti fondano lapropria irragionevole pretesa di rappresentare i catalizzatori diun nuovo inizio, di una inedita relazione col mondo. E quianche, nell’opera stessa, si apre il gioco di contraddizioni tra laspinta ad annullarsi nella ricerca e nella fondazione di questorapporto e la responsabilità della propria autocomprensione.Forse è precisamente in questa oscillazione che l’arte può anco-ra rappresentare nel tempo che attraversiamo la nostra coscien-za infelice.

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NOTE

1 Roland Barthes, Cette vieille chose, l’art, in L’obvie et l’obtus, Essais critiques III, Seuil,Paris 1982 [trad. it. L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino 1985, p. 181].2 Ibid.3 Tra i contributi più recenti di Danto, il più rilevante è probabilmente After the Endof Art. Contemporary Art and the Pale of History, Princeton University Press, Prince-ton 1997 [trad. it. Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia,Bruno Mondadori, Milano 2008], che conferma in sostanza, sia pure con numerosiaffinamenti e correzioni, le sue posizioni. All’opera del filosofo la «Rivista di Estetica»ha dedicato il numero monografico Artworld & Artwork. Arthur C. Danto e l’ontolo-gia dell’arte, a cura di Tiziana Andina e Alessandro Lancieri, 35 (2007). Sulla teoria diDanto cfr. anche il saggio di Pierluigi Basso, Il dominio dell’arte. Semiotica e teorieestetiche: semiotica e teorie estetiche, Meltemi Editore, Roma 2002.4 Arthur Danto, The Artworld, in «The Journal of Philosophy», vol. 61, n. 19, pp. 571-5845 Arthur Danto, The Transfiguration of the Commonplace, Harvard University Press,Cambridge-London 1981 [trad. it. La trasfigurazione del banale, Laterza, Roma-Bari2008]6 Arthur C. Danto, Art and Meaning, in Noël Carroll (a cura di), Theories of Art Today,The University of Wisconsin Press, Madison 2000, [trad. it. Arte e significato, in Alleorigini dell’opera d’arte contemporanea, a cura di Giuseppe Di Giacomo e Claudio Zam-bianchi, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 136].7 Arthur C. Danto, The Abuse of Beauty. Aesthetics and the Concept of Art, Open CourtPublishing, Chicago 2003 [trad. it. L’abuso della bellezza, Postmediabooks, Milano2008].8 Pierluigi Basso, Il dominio dell’arte cit., p. 86.9 Joseph Kosuth, Art after Philosophy, in «Studio International», nn. 915-919 (1969)[trad. it. L’arte dopo la filosofia, a cura di Gabriele Guercio, Costa & Nolan, Genova1987, p. 26]. Cfr. anche Pierluigi Basso, Il dominio dell’arte cit., pp. 81-91.10 Andy Warhol, Popism, Harcourt, New York 1980 [trad. it. Pop. Andy Warhol rac-conta gli anni ’60, Meridiano Zero, Padova 2004].11 Andy Warhol, I’ll Be Your Mirror. The Selected Andy Warhol Interviews, 1962-87, acura di Kenneth Goldsmith, Carroll & Graf Publisher, New York 2004 [trad. it. Saròil tuo specchio, Hopefulmonster, Torino 2007, p. 35].12 Nicolas Bourriaud, Postproduction: la culture comme scénario. Comment l’art repro-gramme le monde contemporain, Les Presses du réel, Dijon 2003 [trad. it. Postproduc-tion. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmediabooks, Milano 2004].13 T. S. Eliot, Tradition and the Individual Talent (1919) [trad. it. Tradizione e talentoindividuale, in Opere, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani, Milano 1986, pp. 719-29].14 Michel de Certeau, L’Invention du quotidien, Gallimard, Paris 1990 [trad. it. L’in-venzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001].15 Ibid. [trad. it. cit. pp. 7-8].

LA TRASFIGURAZIONE DEL BANALE 291

Anonimo membro del Sonderkommando di Auschwitz, Cremazione di corpi alCrematorio V di Auschwitz, agosto 1944

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O dark, dark, dark.T. S. Eliot, Four Quartets

L’humain. C’est là un vocable, et sans doute un concept aussi,qu’on réserve pour les temps des grands massacres.

Samuel Beckett, Le monde et le pantalon

Auschwitz, estate 1944. La macchina di sterminio gira frenetica-mente: a centinaia di migliaia gli ebrei vengono convogliati nel-la località polacca dove li attende il definitivo annientamento. Inun parossismo di perfidia e di odio, come ha narrato Primo Levi,i nazisti obbligano gli stessi ebrei a sovrintendere alla propria eli-minazione: un Sonderkommando, una “squadra speciale” com-posta da soli prigionieri secondo la perversa dizione tedesca,deve infatti occuparsi della concreta attuazione del piano di mor-te, assistere l’ingresso dei condannati nelle camere a gas, tirarnevia uno a uno i cadaveri, svestirli, estrarre i denti d’oro, intro-durre i corpi nelle fornaci, alimentare il fuoco, raccogliere leceneri, frantumare le ossa, disperderle1. È proprio allora, nel cuo-re di questo incubo, che gli schiavi della morte addetti al Cre-matorio V di Birkenau sentono la necessità di testimoniare ilproprio infernale lavoro, di sfidarne l’oblio seppellendo delletestimonianze scritte, pochi fogli nascosti dentro gamelle o bot-tiglie, e concependo un piano di disperata arditezza: fotografarel’orrore. La resistenza polacca riuscì a far arrivare all’interno delcampo una macchina fotografica e un ebreo greco di nome Alexscattò quattro fotografie, le sole che restino a testimoniare la

Shoah dall’interno, nel momento del suo compiersi: le prime due,riprese da dentro la camera a gas, mostrano un tappeto di corpistesi a terra, i membri del Sonderkommando intenti a trascinarliverso la fossa di incinerazione poco distante, da cui esala unadensa coltre di fumo; nella terza vediamo un gruppo di donne,già svestite, correre verso la camera a gas. La quarta, scattata allacieca, mostra solo le cime di un bosco di betulle.

Per comprendere il valore di queste fotografie è neces-sario anzitutto riconoscerle come «momenti di verità» che «sor-gono inaspettatamente come oasi nel deserto», come ha scrittoHannah Arendt, permettendoci di articolare il «caos di male edi depravazione» di Auschwitz, di cui, pur nella loro brevità dianeddoti, «dicono tutto»2. Quattro istanti che manifestano, comescrive Georges Didi-Huberman, due qualità intrinseche e para-dossali dell’immagine fotografica, l’immediatezza impersonaledell’istantanea e la complessità del progetto, della pre-visione dichi le ha rese possibili3: le immagini sono state realizzate grazieun piano che ha coinvolto più membri della squadra, a una stra-tegia di “inquadratura” che presupponeva lo spostamento delfotografo dentro e intorno le camere a gas, insomma tutta la feno-menologia implicita nell’obliquità delle pose, nella cornice nerache inquadra le scene, nel mosso, nello sfocato. Per Didi-Huber-man l’atto di fotografare non è mai passivo: esso è un modo di«prestare attenzione» e ognuna delle quattro immagini va consi-derata un evento visivo, non un’icona dell’orrore o un docu-mento che meramente “informa” sulla realtà di Auschwitz: di quila necessità di preservarne la caoticità intrinseca, di rifiutare ogniritocco, ogni miglioramento delle fotografie (come pure è statofatto), per preservare l’urgenza e la necessità con cui quattroframmenti autentici furono malgrado tutto strappati al Lager. Lefotografie non possono dire tutta la verità, ma anche se lacuno-se, e impotenti a convogliare la totalità dell’orrore, rappresenta-no ciò che resta visivamente di Auschwitz, e in quanto tali«prendono di mira l’inimmaginabile e lo confutano nella manie-ra più lacerante»4.

Per opporsi all’oblio, per non confinare l’esperienza delgenocidio degli ebrei nella regione dell’indicibile, occorre ram-memorarla ai vivi, impedendo che trionfi, come sottolinea Giorgio

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Agamben5, la ripetizione inconsapevole del segreto di cui gli stes-si nazisti avevano circondato la “soluzione finale”: rendere invi-sibili gli ebrei rendendo invisibile la loro distruzione sarebbestato il loro capolavoro. Rovesciando questa logica e trasfor-mandola in una strategia di denuncia e presa di coscienza col-lettiva, l’artista tedesco Jochen Gerz ha realizzato tra il 1990 e il’93 una delle rare opere di arte contemporanea che si sia misu-rata direttamente con il genocidio degli ebrei. Dopo aver com-pilato una lista di tutti i cimiteri ebraici presenti in Germaniaprima della seconda guerra mondiale, Gerz ha inciso i nomi del-le 2146 località sotto altrettanti cubetti di porfido e con l’aiutodi un gruppo di studenti li ha clandestinamente sostituiti uno aduno, di notte, a quelli che selciavano la piazza di fronte al Parla-mento provinciale di Saarbrücken, con l’iscrizione posta a fac-cia in giù e quindi di fatto invisibile. 2146 Steine. Mahnmal gegenRassismus (“2146 pietre. Monumento contro il razzismo”) ven-ne poi tardivamente riconosciuto e “autorizzato” dalle autoritàcittadine: l’unica traccia della sua esistenza è oggi il nome dellapiazza, ribattezzata, appunto, “del monumento invisibile”. Laragione dei più forti, la ragione della storia, subisce una confu-tazione – per quanto fragile o precaria possa essere – che con-verte la sua forza di oblio in una memoria condivisibile, in unpotenziale di immaginazione.

Nel dibattito intorno alla Shoah, la posizione di chi sostienel’importanza delle testimonianze visive non è accolta senza resi-stenze e polemiche anche molto aspre. Esiste in effetti una lineadi pensiero che nega in radice la rappresentabilità dello stermi-nio: nessuna testimonianza, nessuna fotografia, potrà mai ren-dere la sua devastante, insostenibile realtà: il genocidio è la cosainimmaginabile per definizione. È questo il motivo che ha spin-to il regista Claude Lanzmann a escludere nel suo film Shoah(1985) il ricorso a materiali d’archivio: il film è un “monumen-to” che trae la sua forza, la sua purezza, dall’affidarsi unicamen-te a testimonianze dei sopravvissuti e a immagini attuali deiluoghi dello sterminio. Così, per rispondere alle accuse di quan-ti, come ad esempio lo psicoanalista francese Gérard Wajcman,scagliano accuse di iconofilia, di feticismo, di regressione morale,sostenendo l’inadeguatezza dell’immagine a testimoniare neppure

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in parte il senso della Shoah, occorre allargare la discussione allanatura storica e teorica, ai limiti e alle possibilità della fotografiae di ogni immagine, come fa Didi-Huberman riprendendo quel-li che sono i temi centrali del suo percorso di ricerca ormai dadue decenni. E dunque, in contrasto con una lunga tradizione dimatrice storicista per la quale l’analisi dell’immagine deve pun-tare a ricostituire il punto di vista della sua origine, mentre l’in-terpretazione si configura come un “restauro”, una restituzione,sia pur parziale e ipotetica, del suo significato originario, per lostudioso francese l’immagine va concepita un momento critico,un montaggio di tempi, di punti di vista, di interpretazioni, dimemorie, un ritmo di sopravvivenze e rinascite, secondo la lezio-ne di Aby Warburg6, che “giunge a leggibilità” piuttosto cheessere depositaria di una inalterabile ma offuscata verità. Nelleimmagini si produce un «doppio regime» che fa di esse di voltain volta «il feticcio e il fatto, il veicolo della bellezza e il luogodell’insostenibile, la consolazione e l’inconsolabile», dice Didi-Huberman, un «battito dialettico che agita assieme il velo e il suostrappo»7. In questa luce le quattro fotografie di Auschwitz sirivelano non tanto come qualcosa che manca costitutivamente ilproprio bersaglio, vale a dire, nel caso specifico, l’intero del pro-getto di morte nazista, ma come uno sforzo per oltrepassare visi-vamente l’opposizione tra ciò che si può vedere e ciò che restanascosto, come qualcosa che dice il vero, pur non essendo tuttala verità.

Ancora, contro lo scetticismo (e alla lunga l’indifferenza eti-ca) della critica postmoderna verso ogni forma di referenzialità,di rapporto ontologico con la cosa osservata, Didi-Hubermanriafferma l’importanza, sulla scorta del pensiero di Lacan, dellarelazione traumatica che l’immagine fotografica intrattiene conquel reale che non può raffigurare, ma rispetto al quale essa sicostituisce dialetticamente come un sintomo perturbante chepunge e sconcerta. La forma unica, l’esistenza stessa delle testi-monianze fotografiche di Auschwitz, contraddicono l’idea che laShoah sia inimmaginabile, impensabile: al contrario ci impon-gono precisamente il compito di immaginare, perché, come diceAlain Badiou, «fintanto che il pensiero nazista non è pensato,esso resta tra noi come impensato, dunque indistruttibile»8. Di

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queste immagini è necessario accollarci la totalità antropologica,il fatto cioè che attraverso di esse si manifesta una terribile pos-sibilità della storia: la negazione dell’umano nella vittima, la«demolizione dell’uomo», la sua riduzione a scarto, a deiezione,a cenere.

Proprio in quanto esperienza terminale, lo sterminio degliebrei invoca disperatamente il suo contrario, l’atto di immagi-nare malgrado tutto l’atto di resistenza politica con cui i membri

297IMMAGINI MALGRADO TUTTO

Alexander Gardner, The Home of a Rebel Sharpshooter, Gettysburg, 1865

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del Sonderkommando affidarono a un fragile negativo il compi-to impossibile ma necessario di condensare la verità spaventosadel genocidio. Le loro fotografie non ci consegnano un surrogatonarcotizzante, non ci consentono di rifugiarci nel divertimento

Anonimo, Attentato suicida in Iraq, da nowthatsfuckedup.com, 2005

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(nell’abbrutimento) spettacolare, ma ci rammentano al contra-rio una verità tragica, brutale e definitiva: che nei campi di ster-minio, come ha scritto Maurice Blanchot9, l’invisibile si è resovisibile per sempre.

It’s all fucked up

L’immagine fotografica non è dunque solo un fantasma, un cam-po vuoto su cui proiettare l’inesauribile desiderio di possessoscopico del mondo; nella sua stessa sostanza figurativa, alla fron-tiera tra invisibile e immaginabile, può diventare il luogo di unostrappo in cui pulsa ciò che non possiamo conoscere per defini-zione, il corpo oscuro: l’impossibile, il reale forcluso teorizzatoda Lacan. Ma se non c’è aspetto nella storia umana in cui questopotenziale della fotografia si mostri come nella guerra, è proprionelle stesse circostanze che essa mostra il suo limite, la sua natu-ra ambivalente. Dalle immagini di Roger Fenton della guerra diCrimea, a metà Ottocento, e attraverso gli innumerevoli conflit-ti moderni sino al Vietnam, alla guerra del Golfo, all’intifadapalestinese, all’Afghanistan, la fotografia ha testimoniato gli orro-ri bellici ma ha anche fatto emergere le sue possibilità di mani-polazione, la sua sempre possibile strumentalizzazione, il suoproporsi come elemento alternativamente di rivelazione e dioccultamento10.

La fotografia, lo sappiamo da tempo, non rappresenta infat-ti il mondo “così com’è”, ma inquadra, ritaglia, monta, esclude,interpreta. Un pioniere del reportage, Alexander Gardner, auto-re di alcune delle più famose immagini della Guerra Civile ame-ricana, servendosi di un’accorta manipolazione degli elementi“sul campo” – cadaveri inclusi, come nel caso del cecchino ucci-so nel 1863 durante la battaglia di Gettysburg – componeva verie propri tableaux, successivamente trasformati in capitoli di unacoerente e “realistica” narrazione della realtà bellica11 che con-teneva, per la prima volta, l’immagine dei morti. Sono questeinfatti le immagini, leggiamo nel Gardner’s Photographic SketchBook of the War, in grado di far emergere «un’utile morale»mostrando «il vuoto orrore e la realtà della guerra dietro la suagrandiosità», questi «gli agghiaccianti dettagli» che «possono

aiutare a impedire che una simile calamità colpisca ancora lanazione»12.

Ma se ci proponiamo di scendere ancora più a fondo nell’e-splorazione del paesaggio della guerra, occorre allora passaredallo scenario alla nuda presenza umana, stringere l’inquadraturasui volti delle vittime, rinunciare agli accenti epici, alla morale, alla

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Anonimo, Tracce di un attentato suicida in Iraq, da nowthatsfuckedup.com, 2005

declamazione. Fu questa la strategia adottata da un memorabilelibro fotografico del 1924 del pacifista tedesco Ernst Friedrich,Guerra alla guerra13, che raccoglieva, accompagnandole con sec-che didascalie, un’agghiacciante serie di immagini di fisionomiedevastate, di gueules cassées, ritratti viventi del vero volto delconflitto. Nel libro di Friedrich la morte appare evocata noncome il sottoprodotto o il “danno collaterale” della guerra, ma alcontrario la sua sostanza prima e irriducibile, la sua verità: guar-dare in faccia le vittime della guerra significava reclamare la lorodignità perduta, mantenere per i vivi la promessa di una giusti-zia, di una continuità che la guerra si illude sempre di poter inter-rompere. Significava anche preservare quel «dominio dei morti»su cui ha riflettuto Robert Pogue Harrison14, quel continentenascosto che resiste alla corrosione del tempo, quella fragile sco-gliera su cui le società umane edificano e faticosamente traman-dano la propria eredità.

E i morti parlano. In un grande light box del canadese JeffWall, Dead Troops Talk (A vision after an ambush of a Red Armypatrol, near Moqor, Afghanistan, winter 1986), tredici soldatisovietici sono ritratti su un campo di battaglia in Afghanistan, icorpi straziati, coperti da uniformi lacere, da ferite e ustioni spa-ventose, palesemente morti eppure ancora vivi. Li vediamo medi-tare assorti, discorrere tra loro, fare come se nulla fosse scherzimacabri, perfettamente indifferenti al loro stesso destino. In que-sta scena, a metà strada tra un quadro di storia ottocentesco, undiorama e un set cinematografico, realizzato attraverso con unminuzioso lavoro di messa in scena e ripresa in studio e succes-siva elaborazione digitale, Susan Sontag scorgeva, scrivendonequalche anno fa in Davanti al dolore degli altri, la profonda, radi-cale estraneità prodotta dall’esperienza della guerra, la sommer-sione negli individui che ne sono afferrati in un’esperienza totale,enigmatica, irriferibile15. La guerra come frontiera invalicabile,come spazio muto, definitivamente antiumano. E tuttavia la stes-sa permanenza della guerra nella storia, la repulsione ma ancheil suo fascino perverso, l’invincibile deferenza suscitata dai suoirituali, dai suoi simboli, dalla sua retorica, non ci consentirannodi sradicarla solo in forza di un imperativo etico (come quello,celebre, di Immanuel Kant) o di un’analisi puramente razionale,

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tanto più in un’epoca che l’ha di fatto tacitamente e tragicamen-te riammessa tra le possibilità praticabili della politica.

La guerra giusta, la guerra chirurgica, la guerra santa. E laguerra culturale, necessariamente. Da sempre esiste una strategia

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Jeff Wall, Dead Troops Talk, 1992

bellica “specializzata” nella distruzione di città e architetturecome mezzo per terrorizzare le popolazioni e mantenere accesol’odio, creare divisione e disumanizzare il nemico. Una sinago-ga, una moschea, un campanile sono simboli di una comunità e

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di un’identità prima ancora che manufatti storici e artistici, unabiblioteca o un museo sono insostituibili depositi della memoriaculturale collettiva, punti focali dell’identità storica e politica diun popolo16. Il Novecento non è certo avaro di esempi in questosenso, dal genocidio armeno al conflitto etnico in Bosnia-Erze-govina degli anni novanta, dalla guerra civile irlandese alla Kri-stallnacht nazista, dalle distruzioni provocate dal terrorestaliniano e dall’invasione cinese del Tibet a quelle causate daiconflitti mediorientali, da Cipro alla Palestina all’Iraq. Ma è for-se nei bombardamenti indiscriminati, “a tappeto”, della secon-da guerra mondiale che appare in tutta la sua tragica e quantomai urgente attualità la possibilità di un concreto annientamen-to della vita e della cultura umane ad opera della guerra, come ciricorda W. G. Sebald in Storia naturale della distruzione17, un sag-gio dedicato agli effetti delle incursioni alleate sulle città tede-sche. La fragilità degli edifici, delle opere d’arte, della memoriaaggredita e soppressa ci ricorda quanto difficili e spesso inutilisiano gli sforzi per preservarla e trasmetterla alle generazionifuture; e tuttavia resistere alla distruzione, tentare di custodirel’eredità, vuol dire opporsi alla logica di morte e di oblio dellaguerra, testimoniare a favore di un’altra possibilità per la socie-tà umana, di un diverso futuro. È per tutti questi motivi che, peressere veramente compresa, la guerra esige un salto immaginati-vo non meno straordinario del fenomeno stesso, una capacità dipenetrazione acuita dalla consapevolezza che nella sua naturaterrificante si svela la fondamentale ambivalenza della psicheumana, una linea di frattura da cui irrompe il conflitto profon-do che abita la nostra stessa quotidianità.

Ciò che la guerra attiva e rende visibile è in effetti la pul-sione di morte, la sua azione perturbante e distruttiva, come sap-piamo da quando Freud l’ha individuata in Al di là del principiodi piacere. Nella guerra, come nella morte, «il disgusto e la sedu-zione febbrile si uniscono, si esasperano […]. Non si tratta piùdell’annullamento banale, ma del punto stesso in cui l’aviditàultima e l’orrore estremo si scontrano», scriveva Bataille ne L’e-sperienza interiore, circoscrivendo un territorio abissale dove,leggiamo ancora, «la passione che impone tanti giochi o sognispaventosi è non meno il desiderio violento di essere io che quel-

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lo di non essere più nulla»18. E non è dunque la guerra, ma l’a-more della guerra, come sostiene lo psicoanalista americanoJames Hillman19, a costituire il grande enigma. È la sua capaci-tà di seduzione, il fascino, l’alone mitico che il conflitto river-bera sulle coscienze, la sua capacità di proporsi come esperienzalimite, irripetibile, meravigliosa, a costituire il più grande osta-colo alla sua messa al bando. Per penetrare la natura ambiguadella guerra occorre insomma raggiungere gli strati più nascostidella psicologia individuale e collettiva, farsi strada attraversoossessioni e opacità, scendere sino alle strutture più profondedell’immaginazione. Ma per fare tutto questo è forse necessarioun caso, una coincidenza, un trauma che dia a questa realtàrimossa l’occasione di trapelare dal buio in cui è per definizio-ne confinata.

Questa occasione, per quanto singolare, ci è oggi fornita dallavicenda di un equivoco website, attivo tra il 2004 e il 2006, sulle cui“pagine” si sono mescolate immagini di morte e pornografia a bas-so costo, le vite di anonimi esibizionisti e quelle di soldati americaniin servizio in Iraq o Afghanistan, corpi erotici e corpi dilaniati dicivili e kamikaze, di combattenti e gente qualsiasi accomunata dal-l’essersi ritrovata per caso, da morta, di fronte all’obiettivo di unapparecchio digitale. La vicenda, illustrata da Gianluigi Ricupera-ti nel suo libro Fucked Up20, è in questo senso esemplare, con il suoperverso ibrido di tecnologia, pessimo gusto, voyeurismo, idiozia e,soprattutto, noia. Indistinguibile dalle migliaia di siti internet dipornografia “amatoriale”, nowthatsfuckedup.com (che suona inslang americano come un’esclamazione di godimento, volgare eliberatoria) forniva ai soldati la possibilità di ottenere l’accesso aimateriali “caldi” in cambio di immagini, di trophy photos: più ter-rificanti ed esplicite le fotografie, più facile l’accredito. Immagini“stupide” – soldati in posa di fronte a carcasse bruciate, panoramipiù o meno esotici, esibizioni di armi e macchine da guerra – sialternavano nella pagine del forum ad altre ben più impressionan-ti – resti degli attentatori suicidi, corpi straziati dai proiettili o dila-niati dalle esplosioni – in cui è inevitabile avvertire il leggeroaffanno e digrignare di denti, la paura e l’odio e il sapore di metal-lo in bocca di chi ha scattato la fotografia perché è appena scam-pato a una sparatoria o un’esplosione. La morte, davvero.

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Gli scatti, a centinaia, si sono accumulati su nowthatsfucke-dup.com, accompagnati da commenti, discussioni e liti accanitedel tutto simili a quelle presenti nei forum tipici dell’era 2.0 del-la rete, finché, nell’ottobre 2005, lo sceriffo della contea di Polkin Florida non ha arrestato l’inventore del sito, Christopher Wil-son, sulla base di 295 capi di imputazione per “oscenità”. Ma l’o-sceno da censurare era qui proprio quello della guerra e dellamorte e non certo le evoluzioni tra consenting adults; era speci-ficamente il valore traumatico di immagini che non dovevano rag-giungere il grande pubblico, immagini di una morte a cui non cisi può mai assuefare, irriducibile com’è alla logica dello spetta-colo che governa i media, al cinismo politico dei governi, agliopportunismi di intellettuali sedotti, meglio, erotizzati dal cultodi una violenza senza freni inibitori21.

È vero, l’immagine fotografica porta sempre in sé scopofilia,volontà di controllo e possesso, bisogno morboso di contem-plare. E la guerra, certo, «si nutre di immaginazione ed è alimen-tata dall’immaginazione»22. Ma nel caso di nowthatsfuckedup.comquesta economia simbolica – soprattutto il complesso legame chevi si stabilisce tra sesso e morte, tra godimento e anestesia, travisione e cecità – acquista un valore particolare grazie alle ineditecondizioni cui è assoggettata, in cui il piacere masturbatorio for-nito dal costante rinnovarsi degli stimoli (fattore fondamentaledella domanda di pornografia ma anche della specifica psicolo-gia della fruizione di internet e in genere del meccanismo di ogniconsumo) svolge evidentemente un ruolo decisivo. Quelle cheosserviamo sono fotografie in cui chi scatta sembra aver del tut-to sospeso la percezione della propria implicazione nell’immagi-ne, il vincolo etico e psichico che ci spinge a riconoscere noistessi nella sofferenza dell’altro, allo stesso modo con cui nelleriviste glamour e sulla stampa popolare (ma ormai ovunque ineffetti) scorrono di fronte agli occhi, con lo stesso indifferentepiacere – comune a ogni aspetto della società di massa, come ave-va ben compreso Andy Warhol – immagini atroci e seducenti,armi e profumi, top model e cadaveri. Si guarda senza veramen-te vedere. Questa rimozione si basa su un meccanismo che“sospende” per dire così la responsabilità dello spettatore, e loproietta in un non tempo e in un non spazio, momentaneamen-

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te sottratto all’obbligo sociale e alla coerenza psichica; uno spa-zio che potremmo definire con una certa approssimazione di“gioco”, cioè contraddistinto da una ineffettualità di scelte e atti,da una sospensione delle loro conseguenze materiali e morali (infondo è lo stesso atteggiamento dei soldati che cantano «MickeyMouse, Mickey Mouse!» al termine di Full Metal Jacket diKubrick). Entrambi gli assi sono innervati da una duplice, para-dossale richiesta: quella insieme di una trasparenza e di un’opa-cità assoluta delle immagini. Si chiede di vedere di più, di vederepiù a fondo e per più tempo, di vedere tutto, portando l’acuitàvisiva al grado massimo di super-senso che aspira a coinciderecol mondo stesso. Allo stesso tempo si chiede a questo sguardodi restare fuori, di non rientrare all’interno, di non trasformarsiin coscienza. Pornografia e fotografia gory si affacciano da unmedesimo eterno presente; non c’è prima né dopo, non c’è sto-ria, progressione, climax, finale. Nulla. C’è solo un “qui e ora”indifferenziato e infinitamente variato (e rapidamente obsoleto).Non c’è trama, non c’è avventura (non a caso i commenti sul sitoweb chiedono spesso «che storia c’è dietro?»: la foto richiama,pretende la didascalia). In questo, le fotografie pornografiche equelle di morte – le fotografie che non bastano mai – mostranol’altra faccia della retorica dell’istante “decisivo”, come lo chia-mò Cartier-Bresson, del momento unico, rivelatore dello scorre-re indistinto delle cose, facendo affiorare invece la cecitàfondamentale dell’immagine, la paradossale indifferenza che abi-ta al suo interno e che è al centro delle riflessioni di Susan Son-tag. Questo specchio magico, strumento ideale e forma simbolicadell’ambizione del soggetto moderno a vedere (e possedere) tut-to si rivela così privo della sua qualità in apparenza più flagran-te per ripiegare invece nel territorio della pulsazione casuale,dell’informe dispersione pulsionale.

Con l’avvento della fotografia digitale assistiamo all’apo-teosi di un occhio onnipotente ma disincarnato, sciolto dai vin-coli della materia, dal suo peso, dalla sua opacità,provvisoriamente al sicuro dal reale grazie al sottile diaframmadello schermo e alla ancora più cospicua e rassicurante distan-za resa possibile da internet. Ma per comprendere la disuma-nizzazione del mondo messa in atto dalla guerra, la negazionedelle identità, della storia, dello stesso corpo umano, per capi-

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re come essa determini sempre una sorta di espulsione, di mes-sa a distanza e di reificazione, un regime dell’inimmaginabilein cui le cose perdono la loro risonanza, la loro complessità, illoro spessore, abbiamo bisogno di fotografie, di tutte le foto-grafie; esse ci sono indispensabili perché per toccare la realtàpiù autentica e spietata della guerra e far continuare la vita èdavvero necessario immaginare.

NOTE

Parte di questo testo è stata pubblicata su «il manifesto» del 23 luglio 2006.

1 Una sintetica ricostruzione della vicenda del Vernichtungslager di Auschwitz è inOtto Friedrich, The Kingdom of Auschwitz, Harper & Collins, New York 1994[trad. it. Auschwitz. Storia del lager 1940-45, Baldini & Castoldi, Milano 1994]. 2 Hannah Arendt, Auschwitz on Trial (1966) [trad. it. Auschwitz sotto processo, inEad. Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2004, p. 216].3 Georges Didi-Huberman, Images malgré tout, Minuit, Paris 2003 [trad. it. Immag-ini malgrado tutto, Raffello Cortina Editore, Milano 2005, pp. 51-52]4 Ibid. [trad. it. cit., p. 33]5 Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998,pp. 29-30.6 Si veda a questo proposito lo studio monografico dedicato all’iconologo tedescoin cui Didi-Huberman polemizza con la “normalizzazione” della visione dialet-tica della storia dell’arte di Warburg da parte dei suoi continuatori Ernst Gom-brich ed Erwin Panofksy; Georges Didi-Huberman, L’image survivante. Histoirede l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg [trad. it. L’immagine insepolta.Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri,Torino 2006, pp. 97].7 Georges Didi-Huberman, Images malgré tout [trad. it. cit. p. 106].8 Alain Badiou, Le Siècle, Seuil, Paris 2005 [trad. it. Il secolo, Feltrinelli, Milano2006, p. 12].9 Maurice Blanchot, L’Écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980 [trad. it. La scrit-tura del disastro, SE, Milano 1990, p. 142].10 Un’analisi delle testimonianze fotografiche nelle guerre moderne è in Giovanni De Luna,Il corpo del nemico ucciso, Einaudi 2006. Sull’uso della fotografia nei conflitti contempo-ranea si veda anche lo studio di Giovanni Fiorentino, L’occhio che uccide, Meltemi 2004.11 Cfr. William Frassanito, Gettysburg. A Journey in Time, Charles Scribner’s Sons,New York 1975, pp. 186-92.12 Alexander Gardner, Gardner’s Photographic Sketch Book of the War, Philp &Solomons, Washington D. C. 1866, tav. 36.

STEFANO CHIODI308

13 Ernst Friedrich, Krieg dem Kriege, Berlin, 1924 [trad. it. Guerra alla guerra, Mon-dadori, Milano 2004].14 Robert Pogue Harrison, The Dominion of the Dead, Chicago University Press,Chicago 2003 [trad. it. Il dominio dei morti, Fazi, Roma 2004].15 Susan Sontag, Regarding the Pain of Others, Picador, New York 2003 [trad. it.Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003, p. 58].16 Cfr. ad esempio lo studio di Robert Bevan, The Destruction of Memory. Architec-ture at War, Reaktion Books, London 2006, che esamina gli effetti dei conflitti del-l’ultimo secolo su città e architetture e le diverse tattiche di distruzione.17 Winfried Georg Sebald, Luftkrieg und Literatur, Hanser, München 1999 [trad. it.Storia naturale della distruzione, Adelphi, Milano 2004].18 Georges Bataille, L’Expérience intérieure, Gallimard, Paris 1954 [trad. it. L’espe-rienza interiore, Dedalo, Bari 2002, p. 115 (traduzione parzialmente modificata)].19 Cfr. James Hillman, A Terrible Love of War, Penguin Books, London 2004 [trad.it. Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano 2005, pp, 12, 18].20 Gianluigi Ricuperati, Fucked Up, Rizzoli, Milano 2006.21 L’editore ha scelto di applicare nel libro una mascherina sfocata alle fisionomie divivi e morti; un pavido compromesso che compromette la forza delle immagini e difatto toglie forza alle stesse argomentazioni del curatore.22 James Hillman, A Terrible Love of War [trad. it. cit. p. 144].

IMMAGINI MALGRADO TUTTO 309

Introduzione » VII

ARTISTI

Vent’anni di solitudine » 3Gli abiti nuovi dell’artista » 41La Terra vista dalla Luna » 57Vite parallele: Francis Bacon, Damien Hirst » 71Il tempo che resta: Lorenzo Scotto di Luzio » 85Infiniti noi: Maurizio Cattelan » 113In divergente accordo: vedovamazzei » 137Un’archeologia dell’innocenza » 159La cella: Francesco Arena » 169

ESPOSIZIONI

The Consummate Mask of Rock: Bruce Nauman » 185Dada à Paris » 195Protect Me From What I Want: Jenny Holzer » 205La verità sui centauri: Alain Séchas » 217Drawing Attention: Ed Ruscha » 225Geografie della prossimità: Luigi Ghirri » 233

TEORIE

Il ritorno del reale » 241La forma dell’informe » 259La trasfigurazione del banale » 277Immagini malgrado tutto » 293

INDICE

CREDITI FOTOGRAFICI

Gabriele Basilico, courtesy MAXXI, Roma.Elisabetta Benassi, courtesy Magazzino, Roma.Letizia Battaglia, courtesy MAXXI, Roma.Simone Berti, courtesy dell’artista e Galleria Massimo De Carlo, Milano.Ciprì & Maresco, courtesy degli artisti.Tano D’Amico, courtesy dell’artista.Gianluca e Massimiliano De Serio, courtesy degli artisti.Alexander Gardner, courtesy Library of Congress, Washington.Gilbert & George, courtesy MAXXI, Roma.Thomas Hirschhorn, courtesy Chantal Crousel, Paris. Foto Florian Kleinefenn.Jenny Holzer, courtesy dell’artista.Pierre Huyghe, courtesy MAM, Paris. Foto Florian Kleinefenn.Mike Kelley, courtesy dell’artista e Jablonka Galerie, Köln.Ketty La Rocca, courtesy Galleria Emi Fontana, Milano.Domenico Mangano, courtesy dell’artista e Magazzino, RomaRä di Martino, courtesy dell’artista e Monitor, Roma.Diego Perrone, courtesy dell’artista e Galleria Massimo De Carlo, Milano.Cesare Pietroiusti, courtesy dell’artista e Ikon Gallery, Birmingham. Foto Chris KeenanJason Rhoades, courtesy Thyssen-Bornemisza Art Contemporary, Wien.Lorenzo Scotto di Luzio, courtesy dell’artista e Galleria Emilio Mazzoli, Modena.Alain Séchas, courtesy dell’artista e Chantal Crousel, Paris. Foto Florian Kleinefenn.Cindy Sherman, courtesy Metro Pictures, New York.Hans Jürgen Syberberg, courtesy dell’artista.vedovamazzei, courtesy degli artisti e Magazzino, Roma.Luca Vitone, courtesy dell’artista e Magazzino, Roma.ZimmerFrei, courtesy degli artisti e Monitor, Roma.

L’editore resta a disposizione degli aventi diritto che non è stato possibile rintracciare.

FINITO DI STAMPARE

NEL MESE DI MARZO 2008PER CONTO DELLA

CASA EDITRICE LE LETTERE

DALLA TIPOGRAFIA ABC

SESTO F.NO - FIRENZE