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di Damiano Palano
maelstrom
domenica 15 gennaio 2012
Il nuovo odio per la democrazia. Uguaglianza, politicae biopolitica (a proposito di Jacques Rancière) 4/4
di Damiano Palano
Segue da
Il nuovo odio per la democrazia 1/4
Il nuovo odio per la democrazia 2/4
Il nuovo odio per la democrazia 3/4
4. La democrazia e il potere
Se i bersagli polemici di Rancière sono ben chiari quando si
rivolge contro il contemporaneo «odio per la democrazia», sono
altrettanto nitidi anche quando il filosofo francese prende in
esame il pensiero radicale. Ed è facile scorgerne una prima
traccia negli appunti critici che Rancière dedica alla riflessione
sulla biopolitica o alle ipotesi di autori come Giorgio Agamben.
Nell’Odio per la democrazia, per esempio, accenna proprio ad
Agamben, che «faceva dello ‘stato d’eccezione’ il contenuto della
nostra democrazia» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit.,
p. 24), notando peraltro che, «se non viviamo in una
democrazia», «non viviamo nemmeno in un campo, come
sostengono certi autori che ci vedono tutti sottomessi alla legge
d’eccezione del governo biopolitico» (ibi, p. 89). Non si tratta
infatti di considerazioni incidentali, perché Rancière si è
soffermato in diverse occasioni su una critica all’impostazione di
Agamben. In Who is the Subject of the Rights of Man? esamina
con una certa attenzione la proposta avanzata in Homo sacer, e,
in particolare, ritiene che l’ipotesi di Agamben – che combina la
critica dei «diritti umani» avanzata da Hannah Arendt, con la
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teoria dello «stato di ecezione» di Carl Schmitt e, infine, con la
nozione di «biopolitica» illustrata da Michel Foucault negli anni
Settanta – finisca di fatto col costringere la politica in una sorta di
«trappola ontologica». La critica del diritto umanitario svolta da
Agamben, così come la sua fusione del potere sovrano con il
biopotere, elimina ‘ontologicamente’ la politica, ossia la capacità
del demos di rompere l’ordine simbolico. Se per Agamben il diritto
umanitario allude infatti all’estensione del potere sovrano sulla
«nuda vita», e dunque alla realtà di un potere capace di decidere
sulla determinazione stessa fra zoé e bios, Rancière ritiene
invece che questa operazione sia possibile solo presupponendo
che il popolo sia un soggetto assolutamente passivo, o, al limite,
che tutte le sue richieste vadano paradossalmente a rafforzare
un dispositivo di dominio. Ma tutto il discorso di Agamben, così
come le sue conclusioni, scaturisce dal fatto che lo studioso
italiano – come scrive Rancière - «dimentica completamente la
logica della soggettivazione politica», dimentica cioè che la
politica è una sfera in cui si incontrano la logica della polizia e la
logica della politica. In altri termini, allora, «i Diritti dell’Uomo
sono i diritti del demos, che è il nome generico dei soggetti
politici, cioè dei soggetti che, in specifiche scene di dissenso,
decretano la paradossale qualificazione di questo supplemento»
(J. Rancière, Dissensus. On Politics and Aestethics, Continuum,
London, 2010, p. 71).
Se da un lato critica la riflessione di Agamben per il suo
pessimismo ‘ontologico’, Rancière non manca di indirizzare più di
qualche fugace rilievo anche al post-operaismo italiano, e non è
da questo punto affatto casuale che il suo pamphlet sull’«odio
per la democrazia» si concluda proprio con un attacco a Empire
di Michael Hardt e Antonio Negri. Infatti, Rancière non può che
ritrovare nel discorso sviluppato da Empire il vizio originario della
visione marxista della rivoluzione. Un vizio che, innanzitutto,
attiene alla modalità di intendere la classe operaia nei termini di
un soggetto capace di riassumere in sé non un interesse
parziale, ma la causa dell’intero genere umano, e che rimanda
dunque all’idea che proprio la rivoluzione comunista possa porre
termine, insieme alla storia del conflitto di classe, alla politica
stessa, a quel «disaccordo» potenziale che, invece, per Rancière
è incardinato nell’eguaglianza degli esseri umani. Ma si tratta
soprattutto di un vizio che attiene alla convinzione che il conflitto
e il soggetto conflittuale debbano prendere forma
‘inevitabilmente’ dallo sviluppo delle forze produttive: una
convinzione che, nell’impianto teorico di Empire, si traduce
nell’idea che la «moltitudine» viva già – almeno a livello
potenziale – nei reticoli della produzione immateriale, nel flusso
inarrestabile del capitalismo postmoderno. Ed è invece proprio
contro questa convinzione che si scaglia Rancière, perché, ai
suoi occhi, la democrazia, ossia la potenza disordinante del
demos, e non può essere mai il prodotto dello sviluppo, non può
essere in alcun caso il risultato di contraddizioni ‘strutturali’:
«Capire che cosa vuol dire democrazia significa rinunciare a
questa fede. L’intelligenza collettiva prodotta da un sistema
di dominio non è mai solo l’intelligenza di quel sistema. La
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società ineguale non porta nel suo grembo nessuna società
dell’uguaglianza. La società dell’uguaglianza è solo l’insieme
delle relazioni egualitarie che si tracciano qui e ora
attraverso atti singolari e precari. La democrazia è nuda nel
suo rapporto col potere della ricchezza e col potere della
filiazione che oggi lo asseconda e o lo sfida. Non è fondata
in nessuna natura delle cose e non è garantita da nessuna
forma istituzionale. Non è portata da nessuna necessità
storica e non ne porta nessuna. È affidata solo alla costanza
dei propri atti. La cosa non può non fare paura e quindi
suscita odio in chi è abituato a esercitare il magistero del
pensiero. Ma in chi sa condividere con chiunque il potere
uguale dell’intelligenza può suscitare coraggio, e quindi
gioia» (ibi, pp. 115-116)
Per gli stessi motivi per cui critica la visione della moltitudine
proposta da Empire, Rancière si discosta nettamente anche dalla
riflessione sulla biopolitica e sul biopotere condotta da Hardt e
Negri. In sostanza, in questo caso, la visione positiva, affermativa
della biopolitica, che prende forma dentro i reticoli del biopotere,
riproduce non solo uno schematismo deterministico, ma finisce
col dimenticare la specificità della soggettivazione politica. Nelle
voci che presentano la biopolitica in una veste positiva, nota
infatti, «c’è il tentativo di fondare un’idea di biopolitica in una
ontologia della vita, identificata con una certa radicalità di
autoaffermazione», sebbene, in realtà si tratti di «un tentativo di
identificare la questione della soggettivazione politica con quella
delle forme dell’individuazione personale e collettiva» (Biopolitics
or Politics, in J. Rancière, Dissensus, cit., p. 94). Il terreno della
soggettivazione politica per Rancière è invece un altro, perché
chiama in causa una rottura del sensibile che non può
discendere in modo ‘spontaneo’ o ‘naturale’ da alcun assetto
sociale, economico e politico. E, così, esclude che «sia possibile
estrarre dalla nozione di biopotere – un termine che designa una
forma di preoccupazione e un modo di esercizio del potere – una
nozione di biopolitica come modo specifico di soggettivazione
politica» (ibi, p. 96).
Quando mette in guardia dalla tentazione di immaginare in termini
deterministici la genesi di un nuovo soggetto conflittuale, certo
Rancière coglie un limite reale del discorso sviluppato da Hardt e
Negri. In effetti, laddove descrivono la moltitudine, Hardt e Negri
sembrano pensare che un simile soggetto viva già dentro la
struttura della cooperazione determinata dalla sussunzione reale
del lavoro, e proprio in questo senso tendono a trascurare i
caratteri problematici della «soggettivazione», oltre che le linee
interne di strutturazione della forza lavoro contemporanea (e
proprio su questo limite ho cercato di attirare l’attenzione nel
saggio Fino alla fine del mondo. Lo Stato nello spazio imperiale,
in D. Palano, Fino alla fine del mondo. Saggi sul ‘politico’ nella
rivoluzione spaziale contemporanea, Liguori, Napoli, 2010, pp.
169-255). Ma, a ben vedere, anche nel discorso sviluppato da
Rancière non è così difficile rinvenire un limite teorico altrettanto
significativo: un limite molto diverso da quello che contrassegna
la proposta di Hardt e Negri, e in qualche misura addirittura
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speculare rispetto al rischio di ‘determinismo’, e ciò nondimeno
foriero di conseguenze meno rilevanti.
In effetti, quando pensa alla democrazia e all’azione disordinante
della politica, Rancière evoca l’idea di una rottura dell’ordine
simbolico i cui caratteri appaiono molto vicini a quelli di
un’esplosione ‘evenemenziale’. In altre parole, anche Rancière –
allineandosi a diversi esponenti della filosofia radicale transalpina
degli ultimi trent’anni – sembra pensare al conflitto come
all’irruzione dell’evento nel regno della continuità storica, e cioè
come a un evento che rompe la coerenza di un ordine simbolico,
aprendo nuove prospettive, enunciando un diverso ordine. In
molte di queste riflessioni, un ruolo fondamentale, nel definire il
paradigma stesso dell’evento, viene assegnato naturalmente al
«Maggio» del 1968, o, meglio, a una rappresentazione della
rivolta di quei giorni su cui si depositano le forti connotazioni di
una mitizzazione postuma (e forse persino nostalgica). E, come
ha notato Diego Melegari, spesso l’«insistenza sulla purezza
dell’evento», oltre a scontare un difetto di storicizzazione, finisce
con l’accompagnarsi alla «nota più inquietante del suo probabile
‘riassorbimento’», se non proprio alla «consapevolezza di una
certa prossimità tra la sua intima indecibidibilità e la
moltiplicazione di forme differenziate, magari conflittuali, della sua
‘perdita’, cioè della sua messa in valore spettacolarizzata e
sistemica» (D. Melegari, Una rivoluzione senza storia. Tre
percorsi su Maggio ’68 e filosofia francese, in La rivoluzione
dietro di noi, a cura di Marco Baldassarri e Diego Melegari,
Manifestolibri, Roma, 2008, p. 105).
È stato fra l’altro Eric Hazan, in un’intervista a Rancière, a
suggerire che anche il filosofo francese concepisce la politica nei
termini di una rottura temporanea, destinata a essere
rapidamente riassorbita, come, per esempio, quando, nelle Dix
théses sur la politique, scrive che «la politica accade come un
accidente sempre provvisorio nella storia delle forme di dominio»
(J. Rancière, Aux bords du politique, Gallimard, Paris, 2004), o
quando, alla conclusione de Il disaccordo, afferma che «la
politica, nel suo carattere specifico, è cosa rara», e che «è
sempre locale e occasionale» (J. Rancière, Il disaccordo, cit., p.
148). Dinanzi a queste osservazioni, Rancière ha in realtà negato
di concepire la politica come una rottura episodica e destinata a
essere riassorbita. E in questo senso ha affermato, proprio
replicando ad Hazan:
«Penso di non aver mai parlato di apparizioni improvvise,
brevi e senza domani. Non propongo una visione della storia
nella quale ci sarebbero delle emergenze e dove in seguito
tutto cadrebbe di nuovo nell’appiattimento. […] Non volevo
dire che l’uguaglianza esiste solo sulle barricate e che una
volta distrutte le barricate è finita, si ritorna all’atonia. Non
sono un pensatore dell’evento, dell’apparizione improvvisa,
ma piuttosto dell’emancipazione come qualcosa che ha una
tradizione, una storia che non è fatta solamente di grandi
azioni eclatanti ma di una ricerca per creare forme comuni
che non siano quelle dello Stato, del consenso, ecc.
Sicuramente ci sono degli avvenimenti che scandiscono,
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che aprono delle temporalità: per esempio i tre giorni del
luglio 1830 hanno aperto uno spazio nel quale in seguito si
sono riversate le associazioni operaie, le insurrezioni del
1848 e la Comune» (J. Rancière, I democratici contro la
democrazia, intervista a cura di Eric Hazan, in G. Agamben
et al., In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma,
Roma, 2010, p. 124).
Nonostante Rancière possa negare di essere definito come un
«pensatore dell’evento», e benché non abbia esplicitamente
avvalorato l’immagine del «Maggio» come evento, come rottura
capace di interrompere la continuità storica e l’ordine simbolico
esistente, è però molto probabile che le sequenze storiche della
rivolta studentesca e operaia del Sessantotto costituiscano
l’episodio cruciale del suo itinerario teorico, oltre che l’occasione
in cui si manifesta il distacco dallo strutturalismo althusseriano
(ho cercato di argomentare questa lettura, in modo più completo,
in Lo scandalo dell’eguaglianza. Alcuni appunti sull’itinerario
teorico di Jacques Rancière, in «Filosofia politica», n. 3, 2011). E
proprio le caratteristiche di questa genesi finiscono con
l’imprimere alla riflessione di Rancière una curvatura specifica:
una curvatura che tende a ritrovare proprio nella dimensione
della ‘rottura’ il dato qualificante, e irriducibile, della politica. In
seguito all’enfasi sulla dimensione ‘evenemenziale’, anche nel
discorso di Rancière la rottura dell’ordine simbolico e dunque la
stessa immagine della politica vengono però legate
all’espressione di un soggetto – o, meglio, di una soggettivazione
– del tutto evanescente: a una soggettivazione che non solo non
appare radicata nella strutturazione storica, materiale, di un
soggetto concreto, ma che non appare neppure in grado di
incidere in modo duraturo sulle relazioni di potere, dal momento
che – ricostruendo il discorso di Rancière – pare proprio che
essa debba svanire improvvisamente così come è comparsa.
Naturalmente, una simile impostazione produce molte
conseguenze, e – insieme ai molti meriti – porta con sé anche
una serie di limiti. Uno di questi risiede nella difficoltà – si
potrebbe dire, anzi, nel disinteresse – a indagare realmente le
relazioni di potere. Per quanto le riserve di Rancière nei confronti
delle diverse riflessioni sulla biopolitica e sul biopotere (di cui
sono indicative le critiche ad Hardt e Negri e ad Agamben)
presentino più di qualche elemento convincente, il suo
ragionamento non riesce però a dissolvere interamente la
sensazione che la ferma opposizione a qualsiasi determinismo
tenda a risolversi in un vuoto di determinazione materiale. In altre
parole, non riescono a dissolvere l’impressione che la distinzione
tra polizia e politica – nel momento in cui scinde l’esercizio del
potere che proviene ‘dall’alto’, dall’insorgenza della contestazione
‘dal basso’ – finisca col dipingere i concreti soggetti politici come
soggetti privi di storia e di strutturazione interna. Da questo punto
di vista, la distinzione introdotta da Rancière, se da un lato coglie
certo un’ambivalenza cruciale dentro la polisemia del termine
«politica», dall’altro sembra assegnare alla politica posta in
essere dalla soggettivazione una sorta di ‘verginità’. Una
verginità che non significa soltanto che si tratta si soggetti ‘nuovi’,
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senza storia, che in precedenza non erano presenti sulla scena,
ma che configura quei soggetti anche come del tutto privi di
quelle ‘incrostazioni’ che caratterizzano la polizia: ossia, una
strutturazione interna, linee gerarchiche, una divisione del lavoro,
oltre che – ovviamente – principi che stabiliscono un ordine,
concettualmente non differente da quello che sostiene l’attività di
governo della polizia. Ma, dato che i soggetti evocati da
Rancière sono privi di strutturazione, dato che sono privi di
identità consolidate, dato che la loro unica manifestazione è
l’irruzione improvvisa sul proscenio della continuità storica, allora
è anche scontato a Rancière sfuggano i meccanismi di quella
lotta sotterranea che i soggetti conducono al di sotto della ribalta
strettamente politica, e di quella lotta che avviene talvolta persino
dentro i soggetti. È allora scontato – o quantomeno
comprensibile – che Rancière si disinteressi della dinamica
conflittuale che – oltre l’evento – si produce dentro la continuità
storica. Ma l’effetto inevitabile è che, in questo modo, Rancière
non è in grado di cogliere effettivamente né la novità della
biopolitica, né la trasformazione delle tecnologie del biopotere, né
il fatto che i conflitti contemporanei non possono che prendere
corpo – seppur in modo certo non deterministico – proprio dentro
i reticoli della produzione biopolitica. E non è neppure in grado di
riconoscere che, probabilmente, per comprendere realmente le
radici del contemporaneo «odio per la democrazia», per
ricostruire davvero la fisionomia dei processi di soggettivazione
(reali o potenziali che siano), è indispensabile scavare proprio al
di sotto del palcoscenico in cui si gioca il quotidiano spettacolo
politico. Perché è al di sotto di quella superficie – dentro la trama
delle relazioni di potere di cui la società postmoderna risulta
intessuta – che prendono forma i nuovi processi di
soggettivazione. Processi che – oggi come ieri, ma forse più
ancora di ieri – richiedono la formazione di simboli, repertori
d’azione e nuovi immaginari. E che proprio per questo procedono
problematicamente, lentamente, seguendo spesso percorsi
intricati.
Damiano Palano
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