f. matheron, scritti su spinoza

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Spinoza e la decomposizione della politica tomista: machiavellismo e utopia. Prendiamo le due prime proposizioni del capitolo I del Trattato Politico. In apparenza, sembrano di comprensione immediata? Spinoza, volendo criticare in blocco tutti i suoi predecessori, li divide in due gruppi: filosofi, e tutte le loro teorie, aventi per denominatore comune di essere assolutamente inapplicabili; “politici”, dall’altra, che, senza riferirsi ad alcuna teoria, hanno tratto dalla loro pratica un certo numero di indicazioni sicuramente pertinenti, ma di portata estremamente limitata. La sua ambizione, come dichiara nelle cinque proposizioni che seguono, è di presentare per la prima volta una teoria adeguata alla pratica. Pretesa banale, si dirà: qual è il pensatore politico che non si è proposto di andare oltre l’opposizione tra irrealismo dottrinario ed empirismo senza principi? Ma ci sono mille modi per fare questo: quello di Spinoza, come avremo l’occasione di osservare, nasce da un percorso “tanto difficile quanto unico”! E, soprattutto, anche le banalità hanno la loro storia: la dicotomia di cui ci stiamo occupando è scontata, ma non è sempre stato così. Essa ha assunto il senso attuale per le sua connessione con una problematica che, nel XVII secolo, aveva appena fatto la sua apparizione. Ora, queste due preposizioni sono di estremo interesse proprio perchè, tra le altre cose, attestano che Spinoza ha fatto propria tale problematica. Ma non solo: anche perchè presentano una riflessione sulla sua genesi. Conseguentemente, portano in seno, se non altro in termini impliciti, una riflessione sulle condizioni di possibilità dello spinozismo. * * * “I filosofi”, dice la proposizione 1. Ma quali? Tutti, almeno in apparenza. Altrimenti, Spinoza avrebbe parlato di “alcuni” filosofi, o della “maggior parte” dei filosofi. Impiegherà un po’ più avanti un’ espressione simile, ma riferita unicamente alla loro etica (plerumque pro Ethica Satyram scripserint), sottolineando a chiare lettere che quanto dice sulla loro Politica non conosce eccezioni (numquam Politicam conceperint, ecc.) Questo solleva diversi problemi, perché il contenuto di questo articolo 1 non sembra, di primo acchitto, motivare una simile generalizzazione. Spinoza in prima battuta indica ciò che costituisce, secondo lui, il fondamento teorico della Politica dei filosofi. La descrizione che ne fa, fatte salve le ovvie esigenze della polemica, è riferibile direttamente, senza tema di errore, al pensiero di San Tommaso d’Aquino. Viceversa, non si capisce in che termini possa applicarsi ad Hobbes, che è certamente uno dei filosofi che Spinoza aveva in mente scrivendo questi passi. Non si capisce come possa essere collocato nella categoria dei “politici” pratici di cui tratta la proposizione 2. Ma c’è una cosa ancora più strana: Spinoza, più avanti, dichiara che questi fondamenti teorici errati hanno condannato la Politica dei filosofi ad essere una serie di chimere del tutto aleatorie, buone solo per il paese d’Utopia, o in una fantomatica età dell’oro. Passi pure il rivolgere questo giudizio, per quanto sorprendente, a San Tommaso – al di là del paragone finale - : ma perché estenderlo anche a Tommaso Moro, addirittura additato come massimo esempio negativo? Spinoza non commette un grave errore d’interpretazione? L’equazione “San Tommaso = Moro”, unita a quella precedente “Hobbes = San Tommaso”, non porta dritti dritti alla terza equazione “Hobbes = Moro”? Ma non è assurda, una simile conclusione, se non addirittura aberrante? Eppure, una spiegazione ci dovrà pur essere. E la conclusione della preposizione 1, in cui Spinoza richiama un certo orientamento dell’opinione pubblica (creditur…aestimatur), in parte ce la suggerisce: posto in riferimento alla costituzione interna di una configurazione culturale data, alle fratture che la lacerano, ciò che divide questi filosofi appare del tutto secondario rispetto a quanto invece li unisce, e che d’altro canto li oppone ad altre posizioni. La preposizione 2 ci permetterà di fare luce sulla faccenda. In fine dei conti, quindi, la preposizione 1 in se stessa, nella sua singolarità, sembra effettivamente basare tutto il suo impianto sulla Politica tomista. Ad essa, dunque, si riferisce. ***

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Spinoza e la decomposizione della politica tomista: machiavellismo e utopia.

Prendiamo le due prime proposizioni del capitolo I del Trattato Politico. In apparenza, sembrano di comprensione immediata? Spinoza, volendo criticare in blocco tutti i suoi predecessori, li divide in due gruppi: filosofi, e tutte le loro teorie, aventi per denominatore comune di essere assolutamente inapplicabili; “politici”, dall’altra, che, senza riferirsi ad alcuna teoria, hanno tratto dalla loro pratica un certo numero di indicazioni sicuramente pertinenti, ma di portata estremamente limitata. La sua ambizione, come dichiara nelle cinque proposizioni che seguono, è di presentare per la prima volta una teoria adeguata alla pratica. Pretesa banale, si dirà: qual è il pensatore politico che non si è proposto di andare oltre l’opposizione tra irrealismo dottrinario ed empirismo senza principi? Ma ci sono mille modi per fare questo: quello di Spinoza, come avremo l’occasione di osservare, nasce da un percorso “tanto difficile quanto unico”! E, soprattutto, anche le banalità hanno la loro storia: la dicotomia di cui ci stiamo occupando è scontata, ma non è sempre stato così. Essa ha assunto il senso attuale per le sua connessione con una problematica che, nel XVII secolo, aveva appena fatto la sua apparizione. Ora, queste due preposizioni sono di estremo interesse proprio perchè, tra le altre cose, attestano che Spinoza ha fatto propria tale problematica. Ma non solo: anche perchè presentano una riflessione sulla sua genesi. Conseguentemente, portano in seno, se non altro in termini impliciti, una riflessione sulle condizioni di possibilità dello spinozismo.

* * * “I filosofi”, dice la proposizione 1. Ma quali? Tutti, almeno in apparenza. Altrimenti, Spinoza

avrebbe parlato di “alcuni” filosofi, o della “maggior parte” dei filosofi. Impiegherà un po’ più avanti un’ espressione simile, ma riferita unicamente alla loro etica (plerumque pro Ethica Satyram scripserint), sottolineando a chiare lettere che quanto dice sulla loro Politica non conosce eccezioni (numquam Politicam conceperint, ecc.) Questo solleva diversi problemi, perché il contenuto di questo articolo 1 non sembra, di primo acchitto, motivare una simile generalizzazione. Spinoza in prima battuta indica ciò che costituisce, secondo lui, il fondamento teorico della Politica dei filosofi. La descrizione che ne fa, fatte salve le ovvie esigenze della polemica, è riferibile direttamente, senza tema di errore, al pensiero di San Tommaso d’Aquino. Viceversa, non si capisce in che termini possa applicarsi ad Hobbes, che è certamente uno dei filosofi che Spinoza aveva in mente scrivendo questi passi. Non si capisce come possa essere collocato nella categoria dei “politici” pratici di cui tratta la proposizione 2. Ma c’è una cosa ancora più strana: Spinoza, più avanti, dichiara che questi fondamenti teorici errati hanno condannato la Politica dei filosofi ad essere una serie di chimere del tutto aleatorie, buone solo per il paese d’Utopia, o in una fantomatica età dell’oro. Passi pure il rivolgere questo giudizio, per quanto sorprendente, a San Tommaso – al di là del paragone finale - : ma perché estenderlo anche a Tommaso Moro, addirittura additato come massimo esempio negativo? Spinoza non commette un grave errore d’interpretazione? L’equazione “San Tommaso = Moro”, unita a quella precedente “Hobbes = San Tommaso”, non porta dritti dritti alla terza equazione “Hobbes = Moro”? Ma non è assurda, una simile conclusione, se non addirittura aberrante? Eppure, una spiegazione ci dovrà pur essere. E la conclusione della preposizione 1, in cui Spinoza richiama un certo orientamento dell’opinione pubblica (creditur…aestimatur), in parte ce la suggerisce: posto in riferimento alla costituzione interna di una configurazione culturale data, alle fratture che la lacerano, ciò che divide questi filosofi appare del tutto secondario rispetto a quanto invece li unisce, e che d’altro canto li oppone ad altre posizioni. La preposizione 2 ci permetterà di fare luce sulla faccenda. In fine dei conti, quindi, la preposizione 1 in se stessa, nella sua singolarità, sembra effettivamente basare tutto il suo impianto sulla Politica tomista. Ad essa, dunque, si riferisce.

***

Anche sorvolando sul carattere polemico, di violento discredito dei termini impiegati, la preposizione 1 appare tarata da limiti profondi. Essa non presenta una sola cosa esatta, soprattutto per quanto riguarda la prima metà, in cui si parla degli architravi teorici di un particolare tipo di scienza: la scienza pratica, come la considera San Tommaso, della Politica. Spinoza richiama in prima battuta i fondamenti della possibilità e necessità di questa particolare scienza; quale ne sia il presupposto antropologico, e, in ultima analisi, ontologico. I filosofi, scrive, considerano gli affetti, che non ci danno tregua (affectus, quibus conflictamur), dei vizi, in cui gli uomini cadono per loro colpa. Attenzione: questo passo non ha per nulla l’intento di fare una caricatura dell’umanità. Gli affetti di cui parla sono, chiaramente, gli affetti passivi. Ma Spinoza non ha la pretesa di far dire ai tomisti che le passioni, in quanto tali, sono un vizio: la preposizione relativa quibus conflicatmur non costituisce una spiegazione, ma assegna una peculiare qualifità agli affetti. Non si tratta qui delle passioni in generale, ma solo di quelle “da cui siamo combattuti”, o “di cui siamo vittime”, o “di cui patiamo”, vale a dire ciò che la Prefazione del libro III dell’Etica in un suo passo, qui testualmente trascritto, chiama “l’impotenza e l’incostanza umana”. La tesi oggetto di critica è quindi quella di San Tommaso, secondo cui le passioni non recano con sé il male morale se non quando sono praeter moderationem rationis. Ora la parola vitia, proprio perchè impiegata in questa prospettiva, è stata una scelta in modo particolarmente accurato. In qualunque cosa (in qualibet re), dice San Tommaso, si ha “vizio” quando essa è disposta contra id quod convenit naturae, la norma naturale, in relazione alla quale questa disposizione può essere considerata come disordine. La definizione di disordine, infatti, rileva dal fine cui una cosa, nella sua forma specifica, tende per natura come al bene che gli è proprio. Preso in senso così esteso, il vizio ha una portata cosmica: se i corpi celesti, in ragione della piena adeguazione della loro materia alla forma che gli inerisce, realizzano sempre impeccabilmente il loro fine, i corpi che appartengono al mondo sublunare, viceversa, la cui materia è potenzialmente incline ad accogliere forme diverse, riescono in questo solo in modo imperfetto. Nell’uomo interviene anche un altro fattore, che amplia ulteriormente questa carenza: il libero arbitrio, che si esercita nel momento in cui si scelgono i mezzi in vista di un fine, e che rende possibile l’instaurazione volontaria del disordine passionale moralmente corrotto, in cui dunque si cade per propria colpa: finalismo universale nel cui quadro “agisce” una libertà di selezione e valutazione in grado di produrre delle perturbazioni. La descrizione è corretta, anche se sommaria: va dritta all’essenziale. Potrebbe andar bene anche a Descartes, se il finalismo fosse limitato all’uomo. Al contrario, non sembra andar bene nel caso di Hobbes, filosofo rigorosamente determinista. Osserviamo subito come Spinoza, parlando di “difetto”, non menzioni mai espressamente l’indeterminazione della volontà. Questo ci aiuterà a capire, al bisogno, la portata dei suoi intenti. Una volta descritti questi presupposti ontologici, Spinoza ne espone le conseguenze epistemologiche, secondo lui assurde. Ogni scienza speculativa (o “teoretica”), cosa che San Tommaso ha ben compreso, memore della lezione d’Aristotele, è “scienza del necessario”. Ma poiché la necessità, secondo lui, sta nel finalismo, ossia consiste nel raggiungimento del fine, può sussistere nelle cose stesse solo se assolvono realmente le finalità loro proprie. È il caso dei corpi celesti: nel loro caso, almeno di diritto, una scienza speculativa è a rigore effettivamente possibile. Nel mondo sublunare, viceversa, la necessità non si realizza che ut in pluribus. Il mondo sublunare può essere oggetto delle scienze speculative (la meteorologia, per esempio, di cui Spinoza farà un accenno alla fine della preposizione IV), ma esse presenteranno un livello inferiore di rigore – errore lapalissiano, va da sé. Nel caso delle azioni, anche questa possibilità scompare: è possibile avere una conoscenza speculativa della natura dell’animo umano, dedurre i fini naturali di ciascuna delle sue parti, ordinare queste finalità in una gerarchia, ma null’altro si può dire sulle operazioni in cui si incarna. Ut in pluribus, questa volta sono i mutamenti di direzione che fanno la regola. Si può quindi sempre puntare il dito sulla malvagità umana. Infatti nulla vi si oppone: si può sempre pensare a peggio, tirar fuori, prendendo spunto da fatti reali, delle predizioni che il più delle volte si rivelano purtroppo esatte. L’astrologia, ad esempio, basandosi sul fatto che i disordini passionali dipendono dal corpo, che a sua volta subisce l’influenza dei corpi celesti, ne azzecca a bizzeffe,

seppur con l’aiuto di qualche spiritello. Ma questo genere di conoscenza non ha alcun valore teorico, poiché ogni uomo, di principio, ha gli strumenti per resistere alle tentazioni e per regolare le sue passioni sui dettami della ragione: quello che veniamo a sapere dall’astrologia sulle azioni umane, non è altro che il frutto di un empirismo cieco. Se il fine si pone come principio ultimo d’intelleggibilità, i disordini che vi si oppongono sono incomprensibili in se stessi, sfuggendo così ad ogni scienza speculativa. Questo non significa che non possano divenire oggetto di un’altra scienza: essa però avrà caratteristiche proprie, e dunque molto diverse. Invece, seguendo il finalismo la sola cosa che sarà possibile concepire intellettualmente in un mutamento arbitrario, sarà il suo rapporto con la norma da cui devia. Renderne conto, vuol dire invece determinare per quale ragione vada assolutamente evitato, vale a dire definire il motivo che lo caratterizza come malvagio. La dichiarazione di Spinoza diviene allora comprensibile: dal punto di vista che strettamente gli appartiene, la conoscenza del male, necessariamente inadeguata, non è altro che un’affezione triste o carica d’odio. Una volta detto che essa consiste nel prendersi gioco degli altri, a provare afflizione o a esercitare atti aggressivi (ridere, flere, carpere) ne abbiamo completamente esaurito il contenuto, senza cadere in iperboli negative. Spinoza inoltre aggiunge una precisazione supplementare. Secondo San Tommaso, ciò che si caratterizza come disordine, a livello dell’una o dell’altra specie di creature, diviene comprensibile se raccordata all’ordine complessivo. Ma, ben inteso, non all’ordine complessivo delle cose create, che presenta, oltre agli atti del libero arbitrio, anche altre zone d’ombra, come ad esempio gli avvenimenti fortuiti del mondo sub lunare. L’ordine in cui tutto è incluso è quello della Provvidenza divina, che unisce predestinazione e condanna, travalicando infinitamente l’ordine delle cause seconde. Comprendere questo, secondo San Tommaso, significa passare dal punto di vista della filosofia profana a quello della teologia, cosa a cui Spinoza allude quando si riferisce a coloro che: “credono di toccare il culmine della saggezza” (sapientiae culmen attingere credunt): trascrizione pressoché letterale della formula tomista secondi cui la teologia maxime dicitur sapientia, in quanto essa ci dona la conoscenza più alta della causa prima. Ma, costata Spinoza, questa ulteriore affermazione non cambia i termini della faccenda. Il modo in cui vengono considerati i disordini umani resta lo stesso: dicendo che l’ordine della predestinazione e della colpa, che solo permetterebbe di rendere conto di tali disordini, ci è assolutamente inaccessibile, e che quindi non può assicurare alcuna conoscenza speculativa al di fuori di quella relativa alla sua esistenza; postulando d’altra parte, a fronte della predestinazione, la permanenza del libero arbitrio, ciò che i filosofi (“quelli che vogliono fare più mostra di santità” (qui sanctiores videri volunt)), dandosi la patente di teologi, hanno da dire sulla questione, è né più né meno quello che hanno da dire gli altri. Solamente, la loro attitudine normativa diviene ancora più spietata, in quanto forte della presunzione di una assoluta buona coscienza: essa consiste, questa volta, a “maledire” (detestari) in nome di Dio le trasgressioni. Così, San Tommaso dimostra razionalmente come i dannati meritino il castigo eterno, e come i beati, ben lontani dal provare una benché minima compassione per le loro, potranno gioire della contemplazione delle loro sofferenze. Odio allo stato puro, secondo Spinoza. Detto questo, l’”odio teologico” o filosofico ha comunque la sua controparte positiva, che Spinoza indica prontamente. La “scienza pratica” non si pone immediatamente come scienza del male, ma come scienza del bene: dal momento che essa tratta degli scostamenti rispetto ad una norma, è la norma in se stessa che costituisce in realtà il suo oggetto. Ma a cosa conduce questo studio? Spinoza lo dice brutalmente: conduce “ a lodare in mille modi una natura umana inesistente” (humanam naturam, quae nullibi est, multis modis laudari). Dal punto di vista degli affetti le cose sono chiare: la lode è una gioia che proviamo quando immaginiamo l’azione con cui un'altra persona cerca di provocarci un piacere. Chiaramente, i filosofi gioiscono all’idea di un’umanità retta interamente secondo i loro desideri. Ma allo stesso tempo questo rende evidente la maniera in cui Spinoza caratterizza il contenuto intellettuale di una scienza di questo genere. Dal punto di vista d San Tommaso, sembra dire, una scienza degli esseri naturali è possibile solo nel momento in cui se ne definisce la forma specifica, si deducono i fini cui naturalmente tendono,

determinando, in relazione a questo, le operazioni necessarie alla loro perfetta realizzazione. Quando queste operazioni sono compiute secondo necessità dagli esseri (in ogni caso o il più delle volte), la scienza di cui sono l’oggetto è speculativa. Ciò che varia, conseguentemente, è il suo rigore, posseduto in misura maggiore o minore. Quando invece si tratta di operazioni umane che non hanno il carattere della necessità, per quanto che la loro felicità dipenda interamente dal loro compimento, la scienza che le concerne sarà “pratica”. Non sussistono dunque differenze metodologiche abissali tra queste due discipline: sorgono entrambe, secondo Spinoza, da uno stesso errore. Nel primo caso si accomodano le cose in modo da predisporre fin dall’inizio ciò che nelle nostre intenzioni dovrà essere il punto d’arrivo, il fine da raggiungere; mentre, nel secondo caso, in cui i fini che ci muovono sono direttamente determinati dai nostri desideri, il loro conflitto con la realtà è più visibile. Una conoscenza pratica, in questa prospettiva, consiste quindi nella conoscenza “teoretica” di cosa succederebbe se l’uomo – a guisa, diciamo noi, dei corpi celesti – fosse naturalmente determinato ad agire sempre secondo i fini da noi assegnatigli: è la scienza speculativa di una natura che non esiste, che sappiamo, per l’ipotesi di partenza, che non esisterà mai in quanto natura, anche in coloro che vi si conformano volontariamente. Al contrario la natura umana reale, essa è sottoposta ad una necessità del tutto differente, e che i filosofi volutamente ignorano. Molto spesso quindi non resta loro altro da fare che inveire contro di essa (eam, quae severa est, dictis lacessere), in nome della teoria che contraddice. Parlando in questi termini di “Teoria” a proposito delle scienze pratiche, come farà espressamente alla fine della preposizione 1, Spinoza non forse rende con esattezza il pensiero di Aristotele, ma non dà un immagine falsa di quello di San Tommaso. San Tommaso ci dice in effetti che una scienza pratica, in quanto si distingue radicalmente da una scienza teoretica in relazione al suo oggetto, può restare, malgrado tutto, “speculativa secundum quid”, e precisamente in due modi: come quantum modum sciendi, come nel caso dell’architetto quando pone il suo pensiero sulla casa, non considerando il procedimento pragmatico in cui la costruirà, ma piuttosto definiendo et dividendo et considerando universalia praedicata ipsius; o come quantum ad finem: nel caso dell’architetto, quando esamina qualiter posset fieri aliqua domus, ossia quando si proponene di concepire le regole di costruzione più adeguate a tale o tal’altro caso ipotetico, senza che la sua riflessione nsca da un progetto effettivamente in procinto di realizzazione. È chiaro che ogni scienza pratica, in quanto scienza, deve necessariamente compiere questi due passaggi per non essere presa alla sprovvista e cadere in errore nel momento della sua applicazione. Ma è altrettanto evidente che, finché non si disporrà di operai né di materiali adatti alle operazioni concepite, ogni applicazione sarà del tutto impossibile. Ora, secondo Spinoza, questo è il caso delle scienze pratiche che hanno per oggetto, non più il factio (la poiesis di Aristotele), ma l’actio (la praxis), perché le operazioni prescritte idealmente comportano la coincidenza tra opera e processo di realizzazione (la perfezione di una natura umana ideale), mentre invece l’operaio che fa effettivamente un’opera si confonde con una materia determinata a tutt’altre cose (l’uomo reale). I filosofi che si abbarbicati a concepire gli uomini non come sono, me come vorrebbero che fossero (homines, nacque, non ut sunt, sed ut eosdem esse vellent, concipiunt), ne superano mai lo stadio “speculativo secundum quid” della scienza pratica, e si condannano perciò all’impotenza. Questo è quanto dichiara Spinoza nella seconda metà dell’articolo 1: le scienze pratiche, nella misura stessa in cui si vogliono pratiche, sono rese praticamene inutilizzabili per la loro mancanza di scientificità. Vero è che occorre distinguere tra Etica e Politica. La prima, nei filosofi di cui Spinoza tratta, consiste “nella maggior parte dei casi” (plerumque) in una “satira”. In che termini sia una satira, lo si comprende da ciò che precede. Perché lo sia “nella maggior parte dei casi”, risulta ugualmente chiaro. Infatti, la valutazione normativa dei disordini passionali esige lo studio preliminare delle passioni, di come effettivamente funzionino, cosa che comporta un accordo di base sulla loro natura, in sé nè buona né cattiva. Certamente, coloro che hanno intrapreso questo studio (compreso San Tommaso) hanno in effetti intravisto, qua e là, qualche verità utile. Ma tutto dipende da quale rapporto s’istaura tra “scienza del male” e “scienza del bene”, disciplina per niente

fuori dai canoni della ragione, essendo la semplice descrizione della vita del saggio. La Politica definita dai filosofi, separata da una teoria delle passioni su cui si dovrebbe invece basare, non comporta eccezioni: nei termini in cui è stata posta, sempre e comunque “non sanno mai applicare una politica applicabile alla pratica” (numquam politicam conceperint, quae possit ad usum revocari). L‘espressione “ad usum revocari” rimanda, ancora una volta, ad una tesi tomista molto precisa. Secondo San Tommaso, si sa, ogni azione umana volontaria (ogni praxis, quindi) possiede la struttura seguente: la conoscenza del fine da parte dell’intelletto determina, sul versante della volontà, l’intentio finis. È questo che incita l’intelletto ad attivarsi per la ricerca dei mezzi (il profluvio di premesse minori universali e particolari del sillogismo pratico), mediante una deliberazione (consilium) che conduce generalmente alla scoperta di una molteplicità di soluzioni possibili, a ciascuna delle quali l’intelletto deve dare l’assensus, che a sua volta determina il consensus della volontà. In seguito, attraverso un conflitto indotto dalla varietà contraddittoria di molteplici contenuti su cui è richiesto il consensus, l’intelletto giunge infine a dare un giudizio (judicium, o sententia) tramite cui sancisce la migliore soluzione, a cui quindi segue la scelta (electio) effettuata dalla volontà. Di seguito, edotto e maturato da tale valutazione, l’intelletto trasforma il suo giudizio dapprima formulato all’indicativo in una prescrizione imperativa, o imperium, che comporta, rispetto alla volontà, l’usus, vale a dire l’applicazione all’azione. Le scienze pratiche, proprio in ragione della loro essere strutturare rispetto ad un fine, hanno quindi una loro collocazione naturale in questo processo, riservata loro dal suo stesso sviluppo. Esso potranno però occuperarla effettivamente solo se tale processo procederà in modo corretto. Posto un fine adeguato e giusto, i mezzi da impiegare a titolo di premessa minore universale nei nostri sillogismi pratici saranno destinati ad “essere portati alla mente” (revocari, dice Spinoza) nella fase del consilium. Se quindi tutto procederà bene fino in fondo, gli elementi ormai presenti nella nostra mente saranno investiti, una volta emesso l’imperium, in un usus: sia un usus individuale, prodotto da un imperium rivolto a noi stessi; sia, se si tratta di un’azione politica, un usus collettivo, indotto dall’imperium emesso dal principe nei confronti dei suoi sudditi. Ora è precisamente quest’ultimo caso che Spinoza contesta: nel modo di concepire la politica di San Tommaso (come tutte le altre, come vedremo) una simile tipologia di investimento è assolutamente impossibile, per quanto la politica stessa viva, per le sue caratteristiche intrinseche, esclusivamente in funzione della sua dimostrazione. Proprio per questo, ha il carattere di una contraddizione in termini, come un cerchio quadrato o una chimera. Il luogo dell’errore, anche se esso non ha ancora avuto a questo livello adeguato risalto, sta nel tipo di esame che si fa di ciò che Spinoza chiamerà nella proposizione 7 dello stesso capitolo: “le cause e i fondamenti naturali dello Stato”, e consiste nel cercali nel versante degli “insegnamenti della ragione” (ex rationis documentis). La legge naturale, definita dalla ragione, prescrive secondo San Tommaso di perseguire i fini ai quali la natura umana tende naturalmente: finalità comuni a tutti gli esseri (autoconservazione), finalità animali (riproduzione della specie, educazione dei nuovi nati), finalità della ragione in se stessa (conoscenza della verità di Dio, vivere in società per essere in grado di riceverla e diffonderla). Inoltre, essa prescrive, ben inteso, di subordinare, in quanto semplici mezzi, i fini inferiori a quelli della ragione, ossia di praticare tutte le virtù. Il raggiungimento dei fini inferiori esige un’industria che l’uomo nella sua singolarità non è in grado di realizzare. Per questo, deve coordinare le sue attività con quelle degli altri. Esse, però, devono essere dirette verso un’unica direzione. In questo senso, la conquista della virtù esigerà una disciplina che potrà essere imposta ed assicurata solo attraverso il rapporto con gli altri. Essa sarà in primo luogo “disciplina delle leggi”. Così gli uomini dovranno vivere non solo in società, ma appunto in una società politica. A parte l’interpretazione finalistica e normativa, Spinoza, come ripeteremo ancora, non rifiuta gli insegnamenti della ragione: anche per lui, la ragione insegna che le esigenze che le sono proprie, che sono pure quelle di conoscere Dio nella sua verità e di comunicarla agli altri, sono realizzabili solo grazie alla mediazione della “Città” politica. Ma se questo, secondo lui, è il motivo per cui è proprio dell’uomo saggio rendersi al servizio dello Stato e

cercare di migliorarlo, questa non è comunque la causa per cui lo Stato esiste, non fosse altro perché la ragione nella maggior parte degli uomini è impotente: le sue esigenze non hanno dunque praticamente alcun effetto. La vera causa dello Stato, come precisa la preposizione 7, deve dedursi “dalla comune natura, o condizione, degli uomini”, vale a dire dal gioco delle passioni. Da qui, dal punto di vista strettamente metodologico, più nulla unisce Spinoza e San Tommaso. Se la società politica si spiega in termini di rapporto tra causa ed effetto, determinazioni causali in relazione al gioco delle interazioni tra uomini in preda alle passioni, la scienza che la concerne avrà per oggetto le differenti forme di equilibrio autoregolato che queste relazioni saranno in grado di determinare. Se, al contrario, la natura della società è spiegata dai fini che le assegna la ragione, il problema sarà conoscere in che modo dovrà essere governata per ottenere il “bene comune”, definito come l’insieme delle condizioni che permettono al più gran numero possibile dei suoi membri di diventare virtuosi – posto quindi che la virtù sia il fine in sé della legislazione. A tutto questo servirà il richiamo alla legge divina rivelata, dove si troverà definita la collocazione del bene comune naturale nell’ordine stabilito dal bene comune sovrannaturale che per questo si assumerà ilo valore di prescrizione. Ecco come, secondo Spinoza, nascono le chimere. L’affermazione, almeno in prima battuta, sembra ingiusta. È vero che il regime politico che San Tommaso giudica migliore (la optima politia, bene commixta) sembra effettivamente irrealizzabile. Ed in effetti, è un regime direttamente dedotto dai fini assegnati alla Città. Dal momento che si tratta di condurre gli uomini alla virtù, il miglior modo di ottenere questo risultato sarà evidentemente di affidare il governo a coloro che già ne sono in possesso: l’uomo che ha raggiunto la più alta virtù (ecco perché la monarchia è il regime che imita meglio l’ordine voluto dalla Provvidenza divina), e, allo scopo di assisterlo, un’aristocrazia composta dagli uomini più virtuosi. Poiché è necessario, d’altra parte, che questo regno della virtù sia accettato dai non virtuosi che si propone di educare, il miglior modo di raggiungere questo risultato sarà di improntare qualche suo aspetto ai principi democratici, facendo eleggere il re ed i membri dell’aristocrazia da tutto il popolo, dato per inteso che il popolo gli sceglierà necessariamente proprio per la loro virtù. Spinoza ha tutto il diritto di non credere alla possibilità di un regime di questo genere. Ma se avesse avvicinato per questa ragione la Politica tomista all’Utopia di Moro, avrebbe commesso un grossolano errore sulle intenzioni di San Tommaso. Perché lui stesso dice che la sua politia bene commixta non è realizzabile in qualsiasi condizione. Dio stesso, dando agli Ebrei le istituzioni più vicine alle sue volontà, ebbe cura di mantenere per sé la facoltà di nominare il loro capo supremo, piuttosto che lasciarla nelle mani del popolo. Inoltre, non concesse al loro capo un potere realmente reale, poiché Judaei crudeles erant et ad avaritiam proni. In termini generali, la monarchia non è sempre il regime migliore: quando il re è troppo incline al vizio, rischia di degenerare nella tirannia. Allo stesso modo, quando un popolo è troppo corrotto non merita più di designare i suoi magistrati. La scienza politica non pretende di imporre tale politia, che pure presenta come la migliore: il suo obiettivo è di servirsene come un principio di riferimento per definire e classificare i differenti regimi, in relazione alla loro maggiore o minore distanza da essa (definiendo et dividendo, ecc.), e quindi per determinare in quale tipo di situazione ciascuno di essi potrà progredire e svilupparsi (qualiter posset fieri). Nel punto più basso della scala si situa la tirannia, regime omnino corruptum, il grado zero della politica. Ma nessuno è costretto a comportarsi come un tiranno. Anche in questa che è la peggiore delle condizioni, i riflessi del principio ideale devono per forza farsi largo: ad esempio, verrà applicato il divieto di agire come un usurpatore, vale a dire di violare quelle regole di legittimità (successione al trono, ecc.) che beneficiano di un consensus popolare attestato dai costumi, cosa che deriva dagli elementi di democrazia presenti nel regime ideale. Da momento che tale regime dovrà necessariamente cercare di avvicinare improntato il modello virtuoso di società politica, i dirigenti dovranno perseguire un duplice obbligo: proporsi come massimo fine il bene comune, piuttosto che il loro interesse personale; e, nel caso in cui debbano imporre delle tasse per il suo raggiungimento, di distribuirle proporzionalmente sulla base del criterio di eguaglianza – come si definirà tale criterio di giustizia distributiva? In base ad un gradiente negativo: ognuno, dopo ogni prelevamento, dovrà essere nella condizione di mantenere, all’interno della gerarchia

sociale propria a tale regime, lo stesso rango che occupava prima. Senza contare, ben inteso, l’obbligo per tutti di rispettare la legge divina, ossia di conseguenza di accettare la supremazia indiretta della chiesa. San Tommaso non è Moro, quindi. E Spinoza lo sa, forse: questa frase ambigua (Politicam conceperint…quae pro Chimera haberetur) può significare che l’optima politia è considerata “solo finzioni chimeriche” proprio da coloro che la propongono. Chimera metodologica, da seguire attentamente, ad occhi bene aperti, così da strapparle il suo segreto: gli elementi da cui scaturisce un possibile governo politico della società. Ma allora, perché affermare che i filosofi “non sanno mai elaborare una politica adeguata ad un usus”? Forse perché tali norme minimali, che sussistono in tutti i casi, sarebbero troppo generali per servire a qualche cosa? Se Spinoza pensa questo, ancora una volta si sbaglia di grosso sul senso della Politica tomista. Infatti, la scienza politica, in quanto dedotta per via di conclusione dalla legge naturale, è fatta, secondo San Tommaso, precisamente per annunciare le regole universali, che solo in seguito richiederanno una applicazione particolare - e nient’altro. San Tommaso, contrariamente a Moro (e a Spinoza!), non ha mai redatto un dettagliato progetto di gestione della Città, tanto meno ha pensato di farlo per quello definibile come il migliore regime di governo. E questo non per incapacità, ma perché non pensava che questo fosse il suo ruolo. Il lavoro di applicazione delle norme nella particolarità delle diverse situazioni spetta ai dirigenti politici: è loro compito istituire le leggi positive che reggono una società politica, derivate, certamente, dalla legge naturale, ma per via di determinazione e non più di conclusione. La legge naturale definisce i limiti generali all’interno dei quali il legislatore può sviluppare le norme che emana. La scienza politica non fa altro che precisare questi limiti. Ma, nel quadro da essi definito, il ruolo del principe è di stabilire, ossia verificare, che cosa sia, qui ed ora, effettivamente conforme al bene comune, in relazione al carattere particolare di tale o tal’altro popolo, alle circostanze di tempo e di luogo, a ciò che è possibile secumdum consuetudinem patriae, ecc. La scienza, da questo punto in poi, non può e non deve più entrare in gioco. Al suo posto, deve subentrare la virtù intellettuale della prudenza: è di essa che i dirigenti politici devono essere massimamente dotati. Attraverso la mediazione della prudenza si opera il passaggio dalla conoscenza degli universalia principia a quella dei singularia su cui si esercita necessariamente l’azione: presa in senso ampio (sotto forma di eubulia, una delle parti in cui si esprime il suo essere in potenza), essa permette di discernere, a livello di consilium, quelle verità stabilite dalla scienza pratica in grado di svolgere, in relazione ad un determinato caso specifico, la funzione di premesse minori universali, portandole a compimento medinate la mediazione delle premesse minori particolari. Presa ancora una volta in senso ampio (sotto forma di synesis e di gnome, altre due parti in cui si esprime il suo essere in potenza), la prudenza rende possibile l’effettuazione di un judicium buono. Presa invece in senso proprio, questa volta a livello dell’imperium, essa mette in condizioni di effettuare delle prescrizioni buone. Senza la prudentia, ben inteso, la praxis politica si abbandonerebbe ad un empirismo sregolato, mentre la scienza pratica corrispondente resterebbe allo stato di speculazione secundum quid: la Politica tomista toccherebbe il suo stadio di decomposizione. Ma con il suo aiuto, la scienza pratica politica ottiene finalmente di incarnarsi in un usus. Siamo, a quanto sembra, agli antipodi dell’Utopia. Spinoza ignora tutto questo? No, senza dubbio. Ma ciò che contesta è precisamente il ruolo di mediazione della prudenza. In questi due passaggi pieni di reminescenze tomiste, non cita mai questa parola, neanche una volta, e non per caso. Infatti, la prudenza, facoltà grazie a cui raggiungiamo la disposizione per definire in modo corretto i mezzi con cui realizzare il giusto fine, esige un consenso, una disponibilità preliminare a perseguirlo. Tale disposizione favorevole è indotta dalle virtù morali. È quindi impossibile essere prudenti se non si è moralmente virtuosi, valendo d’altra parte, ed esattamente allo stesso modo, anche l’inverso. Questa è, in definitiva, la condizione cui sottostà l’applicazione della politica tomista: se il ruolo delle leggi è di rendere gli uomini buoni,1la sola cosa che possa garantire che essi lo saranno effettivamente è la virtù dei

1 Id., I II, Q 92, A 1.

dirigenti2 –. La cosa si pone quindi in questi termini anche per quanto riguarda le imperfette società degli uomini, dove pure la ripartizione dei poteri fa capo spesso a tutt’altri criteri. Ed è qui, secondo Spinoza,che sta l’aspetto chimerico, al di là di ogni riferimento a Moro. Chimerico in senso forte, che denota una contraddizione logica: dal momento che i dirigenti sono uomini come gli altri, se essi fossero sempre, o il più delle volte, virtuosi (vale a dire condotti dalla ragione), tutti lo sarebbero a loro volta, la Città diventerebbe inutile, e non ci sarebbe più bisogno né di leggi né di dirigenti. Aspirare a questo, significa sognare una mitica età dell’oro in cui la Politica non avrebbe alcuna ragion d’essere. Se degli Stati effettivamente esistono, vuol dire che la maggior parte degli uomini sono asserviti alle loro passioni, e di conseguenza, salvo eccezioni rarissime su cui non si può fare alcun affidamento teorico e pratico, lo stesso accade ai principi. La Politica intesa come scienza pratica è una contraddizione in termini, poiché richiede delle condizioni di applicazione che, nel caso impossibile in cui trovassero realizzazione, farebbero sparire il loro oggetto. Crederle attuabili facendo affidamento sulla virtù, Spinoza lo dirà all’inizio della proposizione 6, significa votarsi ad uno scacco, e portare sicuramente lo Stato alla rovina. Spinoza può quindi concludere: in tutte le scienze “applicate” (quae usum habent), in altri termini in tutte le scienze pratiche, tra teoria e pratica si crea una certa, maggiore o minore, distanza, ma la distanza maggiore, “si ritiene”, si verifica nel caso della Politica – è per questo che “si ritiene” che i filosofi siano assolutamente inadatti ad occuparsi di affari pubblici. San Tommaso risponderebbe che la praxis politica è forse, purtroppo, in effetti troppo distante dalla teoria – ma che questa è un’ulteriore ragione per giustificare l’intervento di filosofi e teologi: essi hanno dunque legittimamente qualcosa da dire sulla questione –. Tutto ciò è però vero solo di diritto: i disordini passionali dei dirigenti non sono altro che “vizi in cui cadono per loro colpa”, da cui essi possono, con l’aiuto della grazia, astenersi mediante l’esercizio della volontà, liberandosene, divenendo virtuosi e animati da prudenza. Spinoza nega recisamente tutto questo. Tutto quindi era sospeso all’assunzione o meno del presupposto iniziale. In questa conclusione occhieggia l’allusione ad un’opinione pubblica che “crede”, in modo forte e diffuso, in fondo inapplicabile la Politica proposta da filosofi e teologi. Senza dubbio tutti dichiarano a parole il contrario, almeno come fatto di principio, ma in realtà nessuno ha fiducia in questa fantomatica “città ideale” dei virtuosi. L’esistenza di una tale opinione, di cui la proposizione 2 ci illustra l’origine, ci permette ora di comprendere l’equazione effettuata da Spinoza: Hobbes = San Tommaso = Moro. “I Politici”, dice la proposizione 2. Si tratta evidentemente di coloro che praticano la politica, poiché Spinoza, subito dopo, dice che gli vengono rinfacciati i metodi di governo che applicano. Ma il rimprovero non riguarda tutti. Infatti, l’accusa è precisa: i loro detrattori li incolpano d’essere “più astuti che saggi”, senza quindi mettere in discussione la loro competenza. Quelli che sono compresi all’interno di questa rubrica, sono quindi coloro che conoscono il loro mestiere. Alla fine dell’articolo faranno parte di questa categoria solo quelli che “hanno scritto sulle questioni politiche”. Ciò che Spinoza ha di mira, in definitiva, è quindi il discorso che la pratica politica competente, indipendentemente da ogni teoria, tiene su se stessa. Procedimento “machiavelliano”, dunque, nei suoi contenuti essenziali, anche se Spinoza è ben lungi dal voler ridurre il pensiero del maestro a quello dei suoi volgarizzatori: Il Principe, secondo la proposizione 7 del capitolo V del Trattato Politico, ha per oggetto la delucidazione delle ragioni (al fine, forse, di mostrare i pericoli indotti da tale regime) per cui, necessariamente, ogni monarca assoluto moltitudini…insidiari magis, quam consuelere cogitur. Ed è appunto rifacendosi a questa definizione che la proposizione 2 del capitolo I illustra il comportamento che è sì rimproverato ai “politici” (hominibus magis insidiari, quam consuelere), ma che essi, come Spinoza illustrerà in seguito, sono assolutamente obbligati ad adottare. Per quanto possa essere oscuro lo scopo reale de Il Principe, come anche, o forse persino di più, il suo rapporto con i Discorsi (di cui Spinoza tesse

2 Id., ibid., ad 3.

l’elogio nella proposizione 1 del capitolo X del T.p.), esiste nel XVII secolo tutta una corrente che prende ispirazione da ad esso, ed è a questa corrente che vuole riferirsi la proposizione 2. L’apprezzamento è totale. Dapprima è presentato il punto di vista di una certa opinione comune: i politici, “si ritiene”, tendono ad prendere in trappola gli uomini, piuttosto che curarne gli interessi, e “si ritiene” che siano più astuti che saggi. Segue quindi una descrizione in quattro punti, completamente attribuibile a Spinoza: i politici, in effetti, credono nella sostanziale malvagità umana (vitia fore, donec homines); per prevenirla (Humanam…malitiam prevenire), essi ricorrono a delle “arti” (artibus). Queste arti, sono il frutto di una lunga esperienza. Sono apprese grazie ad un lungo usus. Gli uomini hanno l’abitudine di utilizzarle sotto l’imperio della paura piuttosto che condotti dalla ragione (magis metu, quam ratione ducti). Spinoza, rivenendo dunque all’opinione comune e facendoci capire che chi “ritiene” e “giudica” è in realtà il “si” impersonale, mostra come questo comportamento spieghi le rimostranze menzionate sopra, ed addebitate a teologi e filosofi: è normale che i teologi, che vogliono che i sovrani governino secondo le stesse regole di pietà ai quali sono tenute tutte le singole persone (secundum easdem Pietatis regulas, quibus vir privatus tenetur), abbiano considerato i politici come degli avversari della religione. Questo “si”, indicava dunque i tomisti e tutti coloro che, come loro, fanno dipendere il bene comune dalla virtù dei dirigenti. Dopo di ciò Spinoza riprende l’esposizione dal suo personale punto di vista: questi politici, tutte le volte che hanno scritto qualcosa sulla pratica politica, non hanno mai detto nulla che vada al di là di tale usus (quod ad usu remotum fuisset): infatti, è realmente così che stanno le cose. I quattro caratteri che Spinoza attribuisce al comportamento dei politici, che esplicano anche il tipo di consapevolezza da essi posseduta del loro comportamento, potrebbero essere considerati come esposti in un ordine di pura e semplice giustapposizione. In prima battuta, non sembra esserci alcun legame tra il pessimismo morale, il ricorso alle “arti”, l’empirismo, e la spinta motivazionale della paura: infatti, si può essere pessimisti senza provare timore, empiristi senza essere pessimisti, utilizzare delle “arti” fondate su una scienza razionale, ecc. In realtà, questa composizione di caratteri trova la sua unità in una categoria esterna. I politici sono definiti dallo sguardo dei loro avversari: l’“abilità nell’inganno”. Spinoza non nega che questa sia la chiave per comprendere la loro attitudine, anche se giudica assurdo condannarli per questo come fanno i teologi. D’altra parte, insiste sulla loro lucidità. Deve dunque ritenere che i politici si pensano essi stessi allo stesso modo in cui li definiscono i loro avversari, semplicemente invertendo il giudizio morale che quelli portano su di loro. Questo può sembrare piuttosto bizzarro. Ed eppure, tutto ciò è assolutamente giusto. Se è pure vero che questi differenti punti sono trattati da in Machiavelli in relazione ad una problematica molto più complessa, i teorici del “machiavellismo”, da parte loro, pensavano effettivamente l’“arte” della politica in quel modo, delucidata ed unificata nei suoi caratteri proprio da tale categoria: la nostra proposizione 2 avrebbe quindi potuto trovare tranquillamente posto, per esempio, a titolo di introduzione o di conclusione, nelle Considération Politiques sur le Coup d’Etat di Gabriel Naudé.3 Ma è altrettanto vero che questa categoria unificatrice, di cui essi si appropriarono cambiandola solamente di segno, ossia ponendola da negativa a positiva, arrivò loro proprio dai teologi, e, in ultima analisi, da San Tommaso stesso, che sembra quasi aver previsto ciò che sarebbe venuto fuori dalla decomposizione della sua politica. La condizione d’applicabilità della politica tomista, come abbiamo visto, era la prudenza dei dirigenti. Da ciò si può trarre la conclusione che quanto più essi cadono preda dei vizi opposti per natura alla virtù intellettuale, da essa prescritta (e a tali vizi intellettuali sono sempre connessi i vizi morali), quanto più, proporzionalmente, la prassi politica da essi attuata si allontanerà dalla teoria, ossia in misura notevolissima Non hanno tanta rilevanza, in questo senso, i vizi che si oppongono

3 Lo stesso si può dire per una moltitudine di machiavelliani francesi, che ammettiamo di non conoscere nella sua interezza, ma di cui si può trovare una rassegna nel libro d’Etienne Thuau, Raison d’Etat et pensée politique à l’epoque de Richelieu, Paris, A. Colin, 1966). Se si riassumesse in poche righe il capitolo X di quest’opera, in cui l’autore fa una panoramica complessiva di questa corrente, si otterrebbe, più o meno, la proposizione 2 del capitolo 1 del T.P. E non pensiamo certo che l’autore l’abbia fatto apposta!

alla prudenza per difetto: l’imprudenza è sempre esistita, e, così come nessuno si vanta di essere stato imprudente, così non esisterà mai nessuno che la teorizzerà come caratteristica centrale del politico. Essa non pone dunque problemi teorici. Ma per i due vizi per eccesso illustrati da San Tommaso il discorso è diverso: essi hanno esattamente gli stessi tratti di ciò che molto dopo sarebbe stato preconizzato dai teorici machiavellici. Di più, la loro descrizione dei “politici”coincide punto per punto con quella data da Spinoza. Il primo di questi due vizi è la « prudenza della carne » (prudentia carnis). Equivalente pratico del vizio speculativo che, in un sillogismo, conduce la ragione a dare una conclusione falsa che però ha l’apparenza di una conclusione vera, essa consiste, scandita dalle operazioni intellettuali che fanno da preliminare dell’azione (consilium, judicium et imperium), nell’abilità di combinare i mezzi in vista di un fine che non è il vero bene, ma solamente un bene apparente: e si sa che ogni bene mondano che non sia rivolto a Dio cade sotto una simile rubrica. Se consideriamo il bene mondano in vista del quale noi svolgiamo i nostri calcoli come « il fine ultimo di tutta la nostra vita» si ha « prudenza della carne » simpliciter, e in questo caso si è di fronte ad un peccato mortale. Se invece lo consideriamo solamente come un fine particolare, a cui, commettendo un grave errore, ci consacriamo in modo eccessivo, rimandando comunque ad un altro momento la cura della nostra anima ed in occasione del quale in ogni caso non abbiamo avuto « spregio di Dio », ci sarà « prudenza della carne» secundum quid, che invece è classificabile come peccato veniale. È chiaro che ogni dirigente politico che governi, pur con estrema competenza, avendo come mira la sua propria gloria o l’accrescimento del suo potere senza curarsi del bene comune, oppure che governi in vista del bene comune della Città solamente in termini temporali, senza alcun pensiero alla salvezza dell’anima dei governati, commetterà peccato nell’una o nell’altra delle due modalità. Spinoza, nella proposizione 2, non menziona questi «vizi» usando gli stessi termini di San Tommaso, ma si affida ad espressioni equivalenti: rifiutando, come abbiamo visto, di pronunciare la parola «prudenza». Al suo posto impiega «saggezza», come d’altra parte autorizza San Tommaso stesso affermando che prudentia est sapientia in rebus humanis. I politici «ritenuti più astuti che saggi» (potium squallidi, quam sapientes) saranno dunque «prudenti secondo la carne». «Callidus», del resto, assume molto spesso un analogo significato. Il secondo vizio è l’astutia. Equivalente pratico del vizio speculativo che conduce la ragione a conclusioni vere o false a partire da premesse false che hanno l’apparenza della verità, caratterizza colui che, mirando ad un fine qualunque, buono o cattivo, si avvale di mezzi che «non sono veri, ma simulati o apparenti» (ulitur non veris viis, sed simulatis et apparentibus). Questi strumenti, detto in altro modo, servono in realtà per dare a vedere, per dare l’impressione che s’impieghino effettivamente mezzi efficaci che in realtà non vengono affatto utilizzati. L’efficacia di questi strumenti è quindi proporzionale alla loro attitudine ad ingannare gli altri. L’astutus è quindi colui che dolos excogitat, mentre il dolus a sua volta è un genere che ha per specie la menzogna, lo spergiuro, la frode e il tradimento. Gli astuti, dice San Tommaso, «tendono delle trappole», o «tramano» (insidiis utantur). Non si ha mai il diritto di ingannare gli altri, pur avendo le migliori intenzioni, anche se a fin di bene. È assolutamente proibito, senza eccezione alcuna. Al limite, può essere a volte permesso non rivelare la verità. Ciò vale, senza attenuanti, anche per i dirigenti politici nell’esercizio delle loro funzioni: anche nei confronti del nemico, in tempo di guerra, è fatto divieto di uti insidiis. A più forte ragione perciò sarà assolutamente vietato «tramare alle spalle» del popolo. Ma precisamente questo fanno i «politici» di cui parla Spinoza nella proposizione 2 (hominibus insidiari). Spinoza, nella proposizione 3 dello stesso capitolo, dà questa volta a tale vizio lo stesso nome usato da San Tommaso: ma il callidus è l’astutus verranno presentati come specie diverse di acutus (viris acutissimis, sive astutis, sive callidis) – questo termine generico, che Spinoza usa anche a proposito di Machiavelli nella proposizione 1 del capitolo X del T.p. (acutissimus Florentinus), designa ogni uomo che, mosso da un desiderio passionale (non necessariamente cattivo), fa prova di una grande ingegnosità nella selezione dei mezzi per soddisfarlo.

I due vizi, secondo San Tommaso, sono riferibili alla finalità circoscritta esattamente dal comportamento dei «politici» descritto da Spinoza. In primo luogo, in effetti, se la «prudenza della carne» e l’astutia costituiscono i termini opposti della vera prudenza, esse sono molto prossime all’arte (ars, o technê) Il rapporto che esse stabiliscono tra mezzi e fini è proprio ad un tipo di attività avvicinabile più alla poiesis che alla praxis propriamente detta. Un’azione, dice San Tommaso, può essere rivolta ad un fine seguendo due modalità: sia come fine per sè (la vittoria, per esempio, è il fine «per sé» della battaglia), sia come fine per accidens (se, per esempio, si ruba per fare l’elemosina). Nel primo caso, la qualificazione morale proviene interamente dal fine scelto. Nel secondo caso, al contrario, si è in realtà in presenza di due azioni differenti, che sono semplicemente coordinate in modo estrinseco. Esse andranno valutate separatamente: colui che ruba per commettere adulterio pecca due volta, mentre colui che ruba per fare l’elemosina non commette che un peccato solo. È evidente che, nel caso dei nostri due vizi, è il secondo tipo di rapporto che entra in gioco: rubare per fare l’elemosina è una forma elementare d’astutia, fare l’elemosina per ottenere una gloria profana e vana è una forma elementare di prudentia carnis; rubare con lo scopo di commettere un adulterio rientra in tutte e due le tipologie. Ecco perché l’astutus non trae alcuna giustificazione dalle sue finalità positive. Per lo stesso principio, il «prudente secondo la carne» pecca meno gravemente se i mezzi che impiega non implicano «lo spregio di Dio». Ora, il rapporto che esiste tra il fine per sé ed i suoi mezzi è definibile come una relazione tra materia e forma: una battaglia ha per materia un insieme di attività che, considerata isolatamente, non avrebbero alcun senso. La forma che concede loro intelleggibilità e senso è l’intenzione di ottenere la vittoria. Tale fine è presente ed attivo fin dall’inizio, come nello sviluppo di un animale, anche se gli occorre un certo periodo di tempo per attualizzarsi completamente. Il rapporto del fine per accidens ai suoi mezzi, al contrario, è paragonabile a quello esistente tra un effetto ed una causa efficiente esterna: il furto è un’azione che sussiste di per sé, con la sua materia (l’insieme di gesti particolari che lo costituiscono) e la sua forma (l’intenzione di acquisire un bene altrui); l’elemosina ne rappresenta un’altra. La prima di queste due azioni, essendo la condizione grazie a cui l’altra trova compimento, resta ontologicamente indipendente. Il fine non è presente nei mezzi, gli succede in relazione ad un preciso decorso temporale. Si potrebbe realizzare lo stesso fine con altri mezzi, o altre finalità con gli stessi mezzi. È l’agente che li connette dall’esterno, servendosi dell’uno per produrre l’altro. Ma questa non è la stessa differenza che distingue la poiesis dalla praxis? In essa, l’azione non ha finalità estrinseche, l’opera da realizzare si confonde con la struttura globale dell’operazione compiuta, e la materia con le attività parziali che vanno a costituirla. Nell’altra, invece, l’azione ha una finalità estrinseca, l’opera che sussisterà successivamente: la materia in questo caso consisterà nei materiali impiegati, mentre le attività che la informano passeranno sul versante della causa estrinseca, vale a dire degli attrezzi utilizzati dall’artigiano. «Prudenza della carne» e astuzia sono quindi, in definitiva, delle tecniche: non più realizzazione in noi stessi, ad ogni istante, di una vita conforme all’essenza umana, non più aiuto portato ad altri per questo stesso fine, ma arte di produrre in un determinato decorso temporale, a partire da un materiale umano dato (noi divenuti oggetti a noi stessi, o qualcun altro divenuto oggetto per noi), ed utilizzando detrminati strumenti a nostra disposizione (parole ed azioni), risultati esteriori a questi strumenti stessi (altre azioni, nostre o di altri), che a loro volta serviranno da strumenti per produrre ancora altri risultati (altre azioni), ecc., qualunque sia la finalità scelta. Più precisamente, l’astutia è la tecnica della manipolazione degli uomini: l’arte di usare le finalità altrui per favorire le nostre, facendo bene attenzione a nascondergli i nostri obiettivi. L’artificiale è in questo caso allo stesso tempo artificioso. Tale tipo di pratica oggi è scontata, ma invece era un’abominevole perversione per San Tommaso. In secondo luogo, queste arti sono strettamente empiriche. L’architetto, da parte sua, si affida ad una teoria: la conoscenza «speculativa secundum quid» della casa, ossia delle regole universali che permettono di costruirla. L’uomo dotato di prudenza, ugualmente, si affida ad un principio conduttore: la scienza morale, allo stesso tempo etica e politica (che si avvalgono d’altra parte de «l’economia» e della forza «militare») che gli permette di conoscere le finalità della natura

umana e i mezzi universali che occorrono per raggiungerle. In relazione a questo, il suo sapere empirico serve a calibrarli, calarli nei vari casi particolari. Ma il «prudente secondo la carne e l’astutus, anche se impiegano le modalità dell’architetto e la stessa materia su cui agisce l’uomo prudente, non hanno alcuna norma obiettiva che gli faccia da riferimento: non esiste quindi una scienza pratica delle perversioni, dal momento che fanno difetto proprio quelle finalità naturali che dovrebbero servire da principio e da riferimento. In questo modo, essi si trovano ridotti in una condizione estremamente negativa, la stessa in cui si troverebbe un uomo prudente che, per assurdo, ignorasse qualsiasi cosa della scienza morale, e principalmente i suoi principi fondamentali: essi possono osservare gli uomini in qualsiasi situazione, definire con esattezza le modalità in cui reagiscono in esse, cercare di indirizzarne le azioni, dipsonendo i mezzi apparentemente migliori per realizzare, a seconda congiuntura, i loro progetti, ottenere anche successi eclatanti, ma, nella misura in cui tali azioni umane di fatto non saranno riferibili a nessun tipo di necessità, non potranno in nessun caso ottenere nessuna conoscenza reale – almeno fino a quando, chiosa Spinoza, non sarà definita una scienza speculativa non finalista del determinismo che regge in realtà gli uomini nella loro realtà effettiva. Ed eppure, come dimostra il frequente ricorso alla divinazione, traspare l’enorme bisogno degli uomini di avere risposte di fronte a questo vuoto. Gli uomini, infatti, sono dominati dalla paura dell’avvenire. Il furto per fare l’elemosina, l’elemosina per la gloria, il furto per l’adulterio, tutto questo rimane ancora ad un livello elementare di pensiero: la previsione riguarda solo azioni successive, un’azione destinata a preparare un furto, l’atto susseguente che a sua volta predispone questa azione, e così via. L’adultero stesso può essere un mezzo per ottenere altre cose. Una volta ammesso il principio che l’avvenire può essere oggetto di calcolo, una volta posto un concatenamento artificiale di azioni indipendenti le une dalle altre, in modo che ciascuna di esse prepari la seguente, non troviamo più alcun limite, nessuna norma naturale che sarà in grado di interrompere la serie. Nessun criterio impedirà che l’esigenza di pianificare la nostra esistenza venga proiettata e dispersa in sequenze sempre più ampie e indistinte. Conseguente a ciò, determinando tale condizione una totale incertezza, sarà un’inquietudine costante. La sollicitudo rerum futurarum, secondo San Tommaso, è un peccato grave: se il nostro fine ultimo è la salvezza eterna, non abbiamo bisogno di fare alcun programma per l’avvenire. Per ogni giorno, la sua pena: pensiamo alla mietitura in estate, ed alla vendemmia in autunno, e non alla vendemmia in estate. Occupiamoci dei compiti da assolvere qui ed ora, tenendo gli occhi ben saldi sull’essenziale: e per il resto, affidiamoci alla provvidenza di Dio. Anche sul piano politico, secondo questa prospettiva, il bene comune deve essere rivolto all’oggi, non al domani che sarà. Non perseguirlo oggi per meglio assicurarselo domani è una pura e semplice assurdità. Praxis pura, non contaminata dalla poiesis. Ma, appunto, il «prudente secondo la carne» si dà per finalità ultima tutt’altra cosa: i beni temporali, che, per definizione, si ottengono e si perdono nel corso del tempo. Esso ha dunque paura di rimanerne privo, e per rassicurarsi ne vorrà acquisire sempre di più. Sarà tanto più rassicurato quanto più sarà in grado di fare fronte al rischio di rimanere senza, e la sua sicurezza aumenterà in funzione della sua riduzione, in relazione alla distanza da cui potrà vedere arrivare le minacce, così da intercettarle: è l’avaritia, presa in senso largo, l’origine di questo genere di vizi – in cui cadono, a volte, i principi. E siccome gli ostacoli che si ha paura di trovare nell’acquisizione dei beni mondani la maggior parte delle volte non sono altro che gli altri uomini, è di costoro che bisogna innanzitutto diffidare. Per smontare prima che giungano a segno le loro macchinazioni malvagie, si studiano gli armamentari più contorti: si diviene astutus, come dirà Spinoza, per «prevenire la cattiveria umana». Perciò, in quarto luogo, è perchè che si scommette a priori sulla cattiveria umana - lo stesso pregiudizio tanto rinfacciato ai teorici machiavellici - che questo sistema chiude il comportamento degli uomini in un cerchio. Come si fa a correre meno rischi? Quando si prendono delle precauzioni: più se ne prendono e meglio è. In questo modo, diminuisce la possibilità di fare previsioni sbagliate, e questo vale ancor di più quando sono a lungo termine. E se le previsioni basate su questo postulato non hanno alcun valore per i casi individuali (a causa del libero arbitrio), esse spesso sono esatte statisticamente, soprattutto quando concernono il destino di una collettività:

questo spiega il caso del successo dell’astrologia. La pratica dell’arte della manipolazione è attuabile solo con uomini del tutto preda di tale condizione, che si lascino trattare in questo modo: uomini virtuosi non offrirebbero invece il fianco a tale possibilità. Il cerchio è chiuso. Il quadro, in negativo, è nei suoi tratti principali già delineato da San Tommaso. In questo stesso quadro, assunto in termini positivi, si riconosceranno anche i teorici machiavellici. Non si tratta, ben inteso, di ridurre Machiavelli a questa impalcatura concettuale: se questi differenti elementi sono effettivamente rivendicati da lui, lo sono solo perchè integrati in un insieme molto più vasto. Spinoza lo sa, e lo dimostra il fatto che lascia in sospeso la questione del senso effettivo dell’opera del Fiorentino, ivi compreso de Il Principe. Ma il machiavellismo, come corrente ideologica della prima metà del XVII secolo, definirà i sui tratti in relazione a quel modello. Le cose, da san Tommaso, sono molto cambiate: non solo la pratica politica si è definitivamente allontanata dai principi da lui preconizzati (ciò che in realtà aveva fatto da sempre, senza stare a vedere se i suoi «vizi» facessero capo alla prudenza «per difetto», piuttosto che a quella «per eccesso»), ma ora essa diviene consapevole di questo scarto: estremamente consapevole. Da una parte, in effetti, si afferma apertamente una duplice ambizione: sia affrancare lo Stato dalla tutela della chiesa; e svincolarlo dalle gerarchie feudali, che pure tradizionalmente ne costituivano il fondamento politico e giuridico. Si vuole ora rendere indipendente lo Stato, restituendo i suoi livelli, il vertice e la base, alla loro autonomia. In questa prospettiva, «ridimensionare i grandi» diviene un obiettivo essenziale: «il Principe deve guardarsi e temere come veri e propri nemici», da coloro tra essi che non si mostrano incondizionatamente docili. Il potere politico tende a considerare se stesso come un fine in sé, e tutte le altre cose strumenti al suo servizio. D’altra parte, la decomposizione dell’antico ordine e l’emergenza di nuovi rapporti sociali fecero apparire l’antropologia tomista sempre più illusoria: l’uomo non è naturalmente integrato in un ordine, non inclina naturalmente verso finalità superiori, ai cui è possibile fare riferimento in ogni caso e in tutte le circostanze. Gli uomini, per natura, sono individui egoisti, che aspirano naturalmente a «soddisfare fino all’ebbrezza i loro appetiti» di ricchezza e di potere, e a ricercarli all’infinito, perché ciascuno, spinto dal «timore di perderli», «crede di assicurarsi ciò che ha acquisendone di nuovi». Impossibile, di conseguenza, far affidamento su di loro: «dal momento che sono malvagi», occorre trattarli come tratterebbero noi. Sono tutte finalità nuove, e nuova è la concezione del materiale umano che si è obbligati ad usare per raggiungerle: di conseguenza, i principi cui fa riferimento la politica tomista non rispondono più ai problemi posti da questa duplice mutazione. Non è più questione di proporsi come obiettivo ultimo il regno della virtù, e neanche di realizzare una qualunque cosa mediante i mezzi da essa predisposti. I «Politici», riflettendo sulla loro pratica, arrivano così, in nome delle loro esigenze, e di ciò che essi credono essere la loro «esperienza di uomini», a reclamare apertamente il diritto di mettere in campo una pratica intelligente non fondata su assunzione teoriche astratte. Ma le categorie grazie a cui tale pratica poteva elaborare una riflessione su di sé, pensandosi dall’interno, mantenendosi dunque al suo livello, erano già bell’e pronte: erano appunto quelle definite da San Tommaso. Si trattava solo di mutarle di segno. Ciò che viene reclamato, dunque, è il diritto alla «prudenza della carne» e all’«astutia» come soli metodi possibili di governo. Diritto alla «prudenza della carne», innanzitutto, per affrancarsi dalla tutela della chiesa. I fini dello Stato sono puramente temporali, senza alcun rapporto con la salvezza dell’anima. Essi non sono ad essa rivolti come ad una finalità superiore: «cit. Principe». Diritto alla «prudenza della carne», ugualmente, così da affrancarsi da una certa concezione del bene comune da cui sarebbe identificata con un ordine necessariamente basato su un criterio di giustizia distributiva, o «uguaglianza proporzionale», che gli sarebbe proibito violare. Il bene comune non passa più per il rispetto di una gerarchia considerata intrinseca alla società stessa, per natura: nulla è naturale, non ci sono che “cit. pRINCIPE». Il principe può agire su questo rapporto di forza in funzione della congiuntura, variandolo a seconda delle circostanze, ossia: «assegnare o limitare la potenza e l’autorità» ai grandi «a suo piacere» (contr. Trad.). Il bene comune passa innanzitutto ( e questo «innanzitutto», non essendo mai certo nulla, diviene in verità definitivo) per il massimo

rafforzamento della potenza del sovrano, il solo capace di regolare le oscillazione cui sono soggetti i rapporti di forza: «cit. Principe». Se questo è il fine della pratica politica, «». Senza dubbio, nel «principato ereditario», questo obiettivo può essere assolto governando conformemente alle tradizioni (secundum consuetudinem patriae, avrebbe detto San Tommaso), ma gli Stati a cui i teorici machiavelliani del XVII secolo vogliono dare un contributo, si trovano, in realtà, tenuto conto delle innovazioni introdotte dai loro dirigenti (e soprattutto da Richelieu), in una situazione abbastanza analoga a quella dei «principati nuovi» di Machiavelli. In ogni modo, i mezzi impiegati non c’entrano nulla: l’essenziale è di non deviare dalle finalità dello Stato, di non mollarle, e di agire intelligentemente in relazione ad esse. Ciò implica il diritto all’astutia. Infatti, a partire dal momento in cui, allo scopo di consolidare il proprio potere, si cerca di rovesciare le gerarchie tradizionali, di ridimensionare gli uni e di dare rilevanza ad altri, s’innescano processi drammatici, e la partita politica si fa durissima, senza alcuna garanzia per l’avvenire. Finché il governo era condotto secundum consuetudinem patriae, non c’erano troppi problemi: i soggetti giuravano fedeltà al principe, ed il principe prometteva di rispettare i loro privilegi. Il sistema funzionava, bene o male, ed in ogni caso questo era l’unico modo che si conosceva. Ma, adesso, difficoltà si aggiungono a difficoltà: si deve continuamente ottenere l’obbedienza dei sudditi, ma senza che questo implichi necessariamente il rispetto dei loro diritti acquisiti. Per questo, occorre assolutamente far loro credere, e quanto più a lungo possibile, che la propria intenzione è in realtà di rispettarli. La violenza è indispensabile per questo, ma non basta. Ed è inutile tentare di spiegare razionalmente ai sudditi che ciò che si sta facendo è in realtà conforme all’interesse generale, che ne risulteranno dei benefici, seppure posticipato, e che i loro discendenti ne trarranno grandi vantaggi. Il popolo è stupido, e, a parte una ristretta élite (a cui è assolutamente necessario rivelare la verità mediante la stesura di opere rivolte specificamente ed esclusivamente ad essa), gli altri non vedono che i loro interessi egoistici, di breve respiro, ed è da questo lato che vanno presi. Ingannare il popolo è necessario. Occorre manipolarlo, impiegare le sue passioni in modo da renderle funzionali a dei fini che comunque gli vanno tenuti del tutto nascosti: alla forza del leone, occorre unire l’astuzia della volpe. Per questo nei teorici machiavellici esiste tutta una letteratura relativa agli arcana imperii, o, come recita la classica traduzione francese di questa espressione, ai segreti di Stato: sono la codifica delle insidiae destinate ad insediare ed assicurare il dominio del principe. Due degli arcana sono menzionati da Spinoza nella proposizione 31 del capitolo VIII del T.p. Spinoza non ne auspica l’uso, chiaramente, ma ritiene che i monarchi devono necessariamente impiegarli fintanto che il loro Stato non è organizzato secondo il modello scientifico di istituzioni da lui proposto. Il primo consiste nel ricorso alla guerra per far apparire indispensabile la presenza di un monarca re. Machiavelli, in effetti, aveva detto che la guerra doveva essere la principale preoccupazione di un principe attento al consolidamento della sua autorità. Il tema sarà abbondantemente sviluppato dai suoi discepoli. Il secondo espediente consiste nell’impoverire i sudditi per renderli più docili. Machiavelli probabilmente la pensava in modo completamente opposto, ma ha effettivamente detto che, tra tutti coloro che sono assoggettati al dominio principe, i ricchi sono più pericolosi dei poveri. O, almeno, tale espressione è stata il più delle volte intesa in questi termini. Ritroveremo poi questa idea, in ogni caso, sicuramente giuntavi attraverso il canale dei volgarizzatori di Machiavelli, nella celebre frase di Richelieu: “Ogni politico non può non essere d’accordo sul fatto che, se il popolo gode di troppo benessere, diviene impossibile contenerlo nei canoni richiesti dai suoi doveri”. In ogni caso, il più importante degli arcana della monarchia (regimis Monarchici summum…arcanum) è indicato da Spinoza nella Prefazione del T.T.P.: l’uso politico della religione. È noto ciò che dice al riguardo Machiavelli. Tali argomenti diverranno il leit-motiv dei suoi epigoni: lo stato è ben lungi dal sottomettersi all’ordine stabilito da Dio, piuttosto, sacrilegio supremo, è la religione che è strumento dello Stato, mezzo utile a manipolare le masse. Non siamo ancora di fronte alla denuncia della funzione mistificatrice della religione, ma questa è comunque una rivendicazione.

Quindi, la teoria delle ideologie elaborata da Hobbes e Spinoza nasce dall’indagine sulla pratica dell’astutia politica – e di conseguenza, indirettamente e negativamente, ha come fondatore San Tommaso stesso. Questa è dunque l’arte dei politici: l’insieme di regole su cui deve basarsi il governo del Principe, destinate ad assicurargli ciò che Spinoza chiamerà, nella proposizione 3 del capitolo I del T.p., i mezzi per contenere la moltitudine (media, quibus multitudo…conteniri debeat). Arte puramente empirica, fondata su “(cit. principe)”. Arte che nasce dal timore provocato da un avvenire politico sempre incerto, e che deve fornire al principe “(cit. Principe)”. Arte che riposa, infine, sul postulato secondo cui “(cit. principe)”, e che tende a prevenire, come dice Spinoza, la cattiveria risultante dall’egoismo universale. Se il pensiero di Machiavelli, lo ripetiamo ancora una volta, è ben più ricco, Spinoza ha riproposto ala lettera il breviario dell’opinione machiavelliaca media. È esattamente così che il machiavellismo, creato come tale, almeno in larga parte, dallo sguardo stesso di coloro che lo avversavano, ha rivolto contro di loro le armi che gli erano state strappate. Armi mortali: infatti, lo sguardo machiavelliano, a sua volta, tramite esse andrà a decomporre la politica dei filosofi.

*** All’inizio abbiamo definito di chi si stesse parlando quando Spinoza introduce il “si” che giudica i politici. Abbiamo ora saputo, ora, a chi si riferisce quando parla del “si” che giudica i filosofi. La pubblica opinione a cui fa allusione alla fine della proposizione 1 è la stessa a cui fanno riferimento i teorici machiavellici per motivare le loro asserzioni. Ecco i due poli intorno a cui si organizza il campo dell’ideologia politica. Questo non esclude, ben inteso, dei tentativi di compromesso, che in effetti sono il dato che più torna, nel testo. Ma la problematica che li governa assume significato solo in funzione di questo scarto profondo. Ora, se le cose stanno così, si comprende perché tutte le filosofie della politica (non spinoziste, aggiunge Spinoza) in fondo scaturiscano da una comune illusione. Ciò che le distingue le une dalle altre è del tutto inessenziale rispetto alla sfida ad esse lanciata da Machiavelli. Tutte, in un modo o nell’altro, ivi compresa quella di Hobbes, restano aggrappate alla teoria dominante nel periodo precedente Spinoza: la Politica come “scienza pratica”, che rimane nella scia di San Tommaso anche se le norme sulle quali intende fondarsi non sono più quelle di san Tommaso. I teorici machiavellici contestano fortemente la sua effettiva applicabilità, la connessione con qualsiasi forma di praxis Ecco perché, se si prende sul serio la sfida machiavelliana e la si impiega come punto di osservazione, l’Utopia di Moro è sembrata essere la verità di ogni filosofia della politica. Di fatto Moro stesso nella prima parte della sua opera dice che – senza che questo implichi alcun debito con Machiavelli, chiaramente – la Politica tomista, di fronte ad una praxis nei fatti machiavellica, non può che cadere nell’Utopia se pretende mantenere tutte le prerogative della sua teoria. Davanti al problema posto dalla recrudescenza del furto, Moro fa dichiarare a Raffaele Itlodeo che la semplice repressione è ingiusta, e non serve a nulla. Il ruolo di un governo attento al bene comune è di predisporre un quadro positivo, ossia condizioni favorevoli per la crescita della virtù. Per rendere gli uomini più giusti, e limitare la tentazione di appropriarsi dei beni altrui, occorre assicurare a ciascuno la sua sussistenza. San Tommaso non avrebbe potuto dirlo meglio. Ora, se in Inghilterra la maggior parte delle persone è ben lungi dall’aver la propria sussistenza garantita, questo dipende da due ragioni: da una parte, dall’esistenza di una nobiltà oziosa, e della massa di parassiti nutriti da essa per assicurarsi stabile gloria. Dall’altra, dal latifondo frutto dell’avidità di quella stessa nobiltà. Vana gloria e avarizia: sono queste due faccie asetti dell’egoismo universale che sono all’origine di tutti i mali. I governanti non si preoccupano minimamente di porvi rimedio come dovrebbero, anzi, non manifestano la benché minima intenzione al riguardo, e non per sconsideratezza, ma al contrario perché riducono tutto al calcolo di ciò che gli conviene. Ma anch’essi sono schiacciati dall’ingranaggio che ritengono di dominare. Il fine in vista del quale essi compiono i loro calcoli, che non ha rapporto alcuno con il bene comune,

è solamente il rafforzamento del loro potere: politica di potenza all’esterno, accrescimento del Tesoro pubblico a spese dei singoli cittadini all’interno. “Prudenza della carne”, direbbe San Tommaso. I mezzi che impiegano, rientrano nella tipologia dell’astutia: intricati intrecci diplomatici, più svariati stratagemmi per aumentare quanto più possibile le imposte a danno dei loro sudditi. Ritroviamo qui due dei tre arcana menzionati da Spinoza, come anche un equivalente del terzo: fingere che stia per scoppiare una guerra per imporre nuove tasse, con la scusa che un re che deve mantenere un’armata non ha mai abbastanza denaro; impoverire i dominati, perché (il sovrano è quanto mai al sicuro quando il popolo non gode di eccessivo benessere, né di eccessive libertà; diffondere, infine, un’ideologia di carattere giuridico (del cui rapporto con la religione, affermazione quanto mai audace, in verità, per i tempi, non si dice nulla) secondo cui il re è proprietario assoluto delle persone e dei beni dei suoi sudditi, e come tale non può commettere alcuna ingiustizia. Rispetto a questa praxis, consapevole ed organizzata, conclude Itlodeo, la filosofia politica tradizionale non può nulla, non avendo più alcun ruolo. E Moro stesso, che figura come interlocutore nel dialogo, deve ammettere che la filosofia costruita dalla Schola, dove si pretende di regolare tutto, in effetti non ha un applicazione generale e necessaria. Suggerisce pertanto un compromesso, ma Itlodeo lo rifiuta: quando un uomo virtuoso si presta a tali giochetti, la sua virtù…serve solo in realtà a coprire la cattiveria, o la stupidità degli altri. La filosofia della Schola, in definitiva, non trova qui alcuno spazio di applicazione: non ha assolutamente più alcun ruolo positivo. O, piuttosto, ancora ce l’ha ancora, ma solo come insieme di affermazioni fittizie, di deliberata finzione: per salvaguardare la validità della teoria, essa va depurata dai suoi limiti, evidenziati, e quasi tracciati dall’usus. Come farlo? Facendola defluire in una praxis immaginaria. Dal moment che è del tutto evidente che in nessun caso le sue acquisizioni troveranno un’applicazione concreta, ivi comprese quelle meno importanti, potrà essere impiegata efficacemente…solo in un paese che non esiste. Nasce così il termine Utopia sorge, e con esso probabilmente anche il suo specifico significato. Infatti precedentemente tale problema non era mai stato posto in questi termini, neanche da Platone: la profondità del ragionamento di Moro è grandissima. Poste queste condizioni, trovato il modo di realizzare a pieno almeno le prescrizioni minimali della teoria politica, ossia quelle riguardanti maggiormente l’architettura istituzionale ottimale. Di fatto, dunque, il regime utopico non altro che l’optima politia di San Tommaso, con una sola differenza (ma essa potrebbe anche non esserci, perché san Tommaso non ha detto nulla di preciso al riguardo): l’aristocrazia vi si introduce a due livelli: i magistrati (“i sifogranti”), eletti da tutto il popolo e scelti all’interno del popolo per la loro virtù. Essi eleggono a loro volta al loro interno dei magistrati superiori ( i “tranibori”), che formano il consiglio del principe. Quindi, l’insieme dei sifogranti eleggerà il principe, sempre basandosi sul criterio della virtù, tra quattro candidati selezionati da tutto il popolo che li sceglie all’interno del popolo stesso. Tutto ciò comporta un radicale cambiamento di significato implica, ben inteso, della teoria politica: in San Tommaso l’optima politia era solo una norma regolatrice, non destinata ad essere applicata tale e quale. Essa doveva avere solo la funzione di punto di riferimento, da perseguire, seppure in forma degradata, in relazione alle possibilità dettate dalla situazione data. Moro, da parte sua, procede in maniera completamente diversa: invece di confrontare l’ipotesi ideale con la realtà, calibrando l’una sull’altra (proprio perché sa che ormai occorre definitivamente rinunciare a questa possibilità), costruisce una situazione immaginaria in cui è in via ipotetica possibile applicare integralmente l’ipotesi ideale. Tutti sappiamo qual è la condizione ipotetica richiesta da tale perfetto regime: il regime massimamente perfetto potrà sussistere a condizione che, e solo a condizione che, la proprietà privata non esista, poiché essa è l’origine dell’egoismo universale, da cui l’impossibilità di una buona pratica di governo. Dopo di ciò, presupposta la realizzazione di questa condizione generale, Moro passa alle sue applicazioni particolari: dal principio universale si deduce per determinazione diretta (ossia non più sulla base di un inferenza in cui le conclusioni particolari derivano da premesse universali), tenuto conto di circostanze di tempo e di luogo anch’esse immaginarie, una legislazione positiva capace di regolare ogni dettaglio della politica della Città –

ciò che San Tommaso si era sempre imposto di non fare. Non si tratta, come sottolinea Moro, di pretendere l’effettiva realizzabilità dell’abolizione della proprietà privata. Moro, o meglio il personaggio con cui si rappresenta nel dialogo, recita a Itlodeo tutti gli argomenti aristotelici e tomisti che tradizionalmente escludono tale possibilità. Itlodeo non li rigetta. Ciò che insegna l’Utopia, è che, se una tale abolizione divenisse ipoteticamente possibile, i problemi posti dalla politica possono ricevere una soluzione ottimale: infatti, è evidente che il problema permane in tutti i posti, proprio perché tale condizione non vi è presente. In realtà, precisa Moro, la comunanza dei beni non provoca alcun inconveniente presso gli Utopisti perché essi hanno ricevuto una profonda educazione filosofica preliminare, educazione che essi hanno accettato di buon grado, mostrando grande volontà di interiorizzarne i contenuti: la virtù regna solo in assenza della proprietà, ma l’assenza di proprietà, a sua volta, implica l’applicazione di tutte le virtù morali ed intellettuali esistenti. Su questo punto Moro si riallaccia a San Tommaso: se gli uomini fossero rimasti in statu innocentiae, afferma quest’ultimo, la comunanza dei beni non avrebbe causato nessuna discordia: essi avrebbero avuto in dote, come Adamo, tutte le virtù. Qual è dunque la condizione per realizzare un regime tomista perfetto? Secondo Moro, essa è qualcosa di simile allo stato d’innocenza che precedeva la caduta, ma senza l’intervento della grazia: infatti gli abitanti di Utopia non hanno ricevuto alcuna rivelazione – tema questo dell’assenza di grazie che introduce tutt’altri problemi, e che giustifica il parallelo fatto da Spinoza tra Utopia e una mitica età dell’oro. Adottando il punto di vista di Itlodeo, non c’è alternativa tra l’età dell’oro ed il nostro mondo, irrimediabilmente in preda al machiavellismo. Certamente la teoria di Moro può anche essere opposta a quella di San Tommaso: una politica dello stato d’innocenza contro una politica che nasce avendo come riferimento la decadenza dell’uomo. Non a caso, Aristotele e San Tommaso si sono opposti a Platone, a cui invece fa esplicito riferimento Moro. Ma è chiaro che, di fronte alla prassi politica dettata dal machiavellismo, quest’opposizione perde ogni pertinenza, poiché la problematica su cui si basano è esattamente la stessa: l’uomo prima della caduta e l’uomo dopo la caduta, così come lo intende la concezione tomista, e l’uomo descritto dalla concezione machiavellica, sono due gocce d’acqua: hanno gli stessi tratti, natura finalizzata, libero arbitrio, possibilità permanente di ordinare ogni cosa per mezzo della ragione. Vi traspare una stessa concezione della politica come scienza pratica: al massimo, Spinoza potrebbe dire che Moro sta a San Tommaso (come Platone sta ad Aristotele) come il Platone della Repubblica sta al Platone del Le leggi. E, allo stesso modo in cui la Repubblica è il testo che contiene la chiave di lettura del Le Leggi, così, in questa prospettiva, è Moro che appare il più lucido dei due pensatori. Quanto meno, ha capito quale dovrebbe essere, a rigore, la condizione di applicabilità di questa scienza pratica, che appunto è però, allo stesso tempo, proprio la causa della sua inapplicabilità: la sua è Politica rivolta ad una “età dell’oro” in cui gli uomini, vivendo sotto la condotta della ragione, non avrebbero più bisogno dello Stato. Posta in un simile contesto l’Utopia sembra effettivamente essere il vero significato della politica tomista. Succede la stessa cosa anche nel caso della Politica di Hobbes? Sì, malgrado le apparenze. Infatti, apparentemente la concezione di Hobbes si oppone su tutta la linea, più o meno, a quella di San Tommaso. Ma, pure, essa non si pone al di qual di quello spartiacque costituito da questa grande linea di distinzione, e quindi in realtà non si discosta da essa. Hobbes fa, in un certo senso, esattamente l’operazione opposta a quella di Moro: di fronte alla contraddizione posta dalla teoria tomista e dalla prassi machiavellica, in luogo di costruire una praxis immaginaria, la più adatta ad uno schema teorico che rimane intoccato nella sua rigidità, sottopone la teoria ad una profondissima rielaborazione, rivoltandola da cima a fondo. Essa viene così spostata, dislocata nello stesso livello in cui si svolge la praxis. Ma la problematica rimane esattamente la stessa: la teoria di Hobbes non è altro che una “scienza pratica”, anch’essa tenta di determinare il vero fine della natura umana, di dedurre i mezzi necessari alla sua realizzazione, ed ad affermare con forza l’impiego di tali strumenti, imposti per la loro assertività giuridica e morale. Ciò che muta, è solo la natura di questo fine.

Hobbes pensa l’uomo in due modi: “l’uomo in quanto materia” e “l’uomo artigiano”. La conoscenza dell’”uomo in quanto materia” che ci dà è in effetti puramente speculativa. Hobbes infatti considera la conoscenza speculativa una scienza equiparabile alla fisica galileiana: essa rende conto conoscitivamente della necessità oggettiva cui sono sottoposte le azione reali di un uomo reale. Tale uomo reale, però, risponde perfettamente alla descrizione datane da Machiavelli. Hobbes, come è noto, fa derivare dall’egoismo universale tutto quello che accade, o che può accadere, all’interno dello stato di natura: la cosiddetta guerra di tutti contro tutti. Invece l’”uomo artigiano”, per la conoscenza che acquisisce della sua condizione materiale, è spinto a riflettere su se stesso, e da ciò giunge a capire le finalità da perseguire e i mezzi necessari per ottenerle. Rispetto a San Tommaso, è vero, l’ordine gerarchico che divide i tre tipi d’inclinazione naturale è invertito: l’autoconservazione diviene ora la finalità suprema, i movimenti animali sono invece mezzi al suo servizio, e la ragione (divenuta calcolo verbale) si pone essa stessa come strumento al servizio della natura animale dell’uomo. Ma, se pure invertiti, i presupposti su cui si basa la concezione tomistica non mutano: il ruolo della sanzione normativa rimane lo stesso. Esiste una legge naturale che ci obbliga a fare quanto che è indispensabile per la nostra conservazione, e che c’impedisce di fare il contrario. Anche se Hobbes non dota l’uomo di libero arbitrio, i disordini indotti dalla passione in cui incorre restano sempre dei vizi in cui cade per sua colpa. Dal momento che la legge è inscritta nella sua natura, egli non può non conoscerla. Deve perciò necessariamente dedurre da essa tutto ciò vi è logicamente implicato: se non lo fa, si macchierà di una colpa, la colpa di aver agito in modo logicamente assurdo. La necessità (normativa) di concludere un contratto sociale, per mezzo del quale il potere assoluto è rimesso incondizionatamente nelle mani di un sovrano, è appunto il frutto delle implicazioni indotte dalla legge di natura. Le cause e i fondamenti naturali dello Stato sono quindi deducibili dagli insegnamenti della ragione. Ecco perchè la critica che Spinoza rivolge ai filosofi nella proposizione 1 del capitolo I del T.p. è diretta anche contro Hobbes. È proprio quando si sposano tali presupposti, secondo Spinoza, che si cade nelle contraddizioni dettate dall’utopismo, come mostrano tali concezioni. Senza dubbio in Hobbes la virtù dei sovrani non ha più il ruolo di condizione di applicabilità della politica: è preferibile, ma non indispensabile, perché il peggiore dei tiranni sarà in ogni caso migliore della guerra civile, anche di quella più giusta ed opportuna. All’opposto condizione necessaria e sufficiente della politica diviene la virtù dei sudditi. L’”uomo artigiano” giunge a capire che l’”uomo in quanto materia” può rispettare la pace solo sotto la spinta della costrizione; comprende che nessun limite civile sarà rispettato se il sovrano non sarà messo in condizione di stringere la società nel pugno di una forza schiacciante; capisce che anche lui deve contribuire a questo obbedendo incondizionatamente al sovrano: ossia in prima persona è soggetto al dovere di far vivere la forza del sovrano, dandogli gli strumenti per detenerla ed esercitarla. Ma l’”uomo in quanto materia” e l’”uomo artigiano” coincidono: se ogni uomo ha il dovere di fornire al sovrano gli strumenti per reprimere gli altri, questo non significa che tutti hanno il dovere di dare al sovrano gli strumenti per farsi reprimere? Esigenza paradossale, me che pure è condizione necessaria e sufficiente di ogni politia adeguata ai suoi fini. Nel capitolo 30 de Il Leviatano sono elencati i doveri del sovrano: ma solo uno, tra tutti quelli menzionati, è realmente vitale: provvedere all’educazione politica dei sudditi, ossia in altri termini insegnarli la scienza politica elaborata da Hobbes stesso. I sudditi, precisa Hobbes rispondendo ad un obiezione che sembra provenire da ambienti vicini al machiavellismo, sono perfettamente in grado di comprendere queste esigenze: se gli si dimostra razionalmente che la loro natura è tale che per assicurare delle adeguate condizioni di sopravvivenza è necessario l’impiego della forza, la necessità di concedere, per il loro proprio interesse, la forza necessaria al sovrano per governare gli si mostrerà in modo del tutto evidente. Essi concederanno così al re il potere assoluto. Il ragionamento che faranno non potrà essere che questo, ed essi lo compiranno senza difficoltà, poiché tutti hanno come scopo primario la sopravvivenza: si conformeranno così al regime che essa prescrive, ed agli obblighi che impone. Ma, chiede Spinoza, perché dovranno conformarsi ad un ordine razionale, se già sono in grado di capire e quindi di vivere sotto la condotta della ragione? Ma allora non è vero che la loro natura

prescrive che la vita in società dipenda da una costrizione forzosa: lo Stato diviene quindi inutile, e con esso sparisce anche l’oggetto della scienza politica hobbesiana. Utopia ed età dell’oro, ancora una volta: l’equazione Hobbes = Moro = San Tommaso è perciò giustificata. Hobbes avrebbe probabilmente di che rispondere a Spinoza. Ma, come che sia, questo è il modo in cui lo legge Spinoza. Nelle prime frasi della proposizione XVII del T.T.P. ci dice che le considerazioni sul potere assoluto del sovrano che aveva analizzato nel capitolo precedente rappresentavano ad uno stadio regredito della prassi politica, mere teoretica, lo stesso in cui si trovava ancora Hobbes. La praxis politica tuttavia, aggiunge, potrebbe essere effettivamente organizzata (praxis ita institui possit, ut…) in modo da avvicinarsi quanto più possibile a quel modello. Ma una tale organizzazione della praxis non si può ottenere solo mediante l’educazione dei sudditi: non è su questo che è possibile contare, se si vuole perseguire questo scopo. In cosa dovrà consistere, dunque? Nella costruzione di un sistema istituzionale che tenga conto della costituzione individuale dei sudditi, in relazione alla realtà delle passioni che li governano, alle loro implicazioni e conseguenze. Tale sistema determinerà l’esistenza di legami tali tra i sudditi che, tramite la loro spontanea azione, esso verrà necessariamente a riprodursi, continuamente. Solo in questo modo il potere sovrano diverrà veramente assoluto. La proposizione 5 del capitolo VIII del T.p. dice la stessa cosa trattando dell’aristocrazia, nello specifico. Posto qualsiasi regime, i sistemi istituzionali coerenti, in quanto condizioni necessarie e sufficienti per una effettiva applicazione della sovranità assoluta, si sostituiscono alla virtù. Chiaramente è una teoria che ci fa conoscere i sistemi istituzionali adeguati, ma tale teoria non avrà alcun rapporto con qualsivoglia scienza pratica. Non presenterà alcun carattere ad essa riferibile: non consisterà più nella determinazione di norme cui la praxis deve necessariamente riferirsi, ma sarà una scienza puramente speculativa che prenderà la praxis stessa come oggetto. Sarà la conoscenza obiettiva (scientifica, in senso moderno) del determinismo che regge la condotta reale degli uomini in quanto affetti dalle passioni: tramite essa, così, si potranno dedurre le differenti possibili tipologie di sistemi politici auto regolati. Tutto ciò è senza dubbio conforme a quanto effettivamente insegnato da Machiavelli, se lo si purifica dalle mediazioni posteriori. Fa apparire infatti gli arcana machiavellici delle ricette di bassa lega, di un pragmatismo addirittura ridicolo. Gli elementi che sostituiscono la virtù spazzeranno via anche tutte quelle prescrizioni empiriche la cui applicazione manterrebbe in vita lo Stato. Infatti essi recano con sè un’efficacia ben maggiore. Infatti, secondo tale concezione i manovratori, per parafrasare una celebre espressione, sono essi stessi manovrati: l’essenziale è che lo siano bene. Bloccati da una struttura istituzionale non coesa, devono subire la pena di vedersi ritorcere contro, in prospettiva, tutti i mezzi impiegati per gestire una situazione di cui in verità non comprendono i meccanismi reali. Le strutture auto – regolate concepite dalla scienza spinoziana, al contrario, esercitano una costrizione ancora più forte sui soggetti, ma senza che essi ne sappiano nulla, o addirittura senza che avvertano il bisogno di saperne nulla. Essi faranno così quanto necessario al raggiungimento degli obiettivi da essa richiesti, con grande beneficio di tutti. Nessun artificio può assicurare un simile risultato: solo l’astutia obiettiva delle istituzioni può raggiungerlo. L’opposizione tra filosofi e politici è dunque superata mediante un radicale rivoluzionamento delle concezioni di entrambi: “cambiando terreno”, si direbbe oggi. Ma, perché una tale sfida potesse essere raccolta, era necessario apparisse sulla scena della storia una concezione che ne facesse intravedere la effettiva possibilità. Questo è appunto il contributo della teoria machiavelliana che, nata da una riflessione sulle contraddizioni della scienza pratica, poi condotta sotto la sua spinta alla definitiva decomposizione, mise appunto in condizione Spinoza di rovesciare la tradizionale impostazione dei problemi su cui si basava la teoria della politica. E Spinoza, da parte sua, come dimostrano le proposizioni 1 e 2 del capitolo I del T.p. sembra averne avuto assoluta consapevolezza.

Spinoza e la problematica giuridica di Grozio

In un certo senso, come tutti certamente sapranno, tutta la concezione spinoziana del diritto potrebbe essere riassunta in una sola frase: il diritto, è la potenza – a condizione di prendere tale espressione in tutto il suo rigore, ossia tendo conto di tutte le conseguenze da essa implicate. Spinoza motiva questa concezione del diritto facendo un ragionamento che, come ogni ragionamento, deve necessariamente fondarsi su premesse note. Questo comporta quindi che si possieda preliminarmente una qualche idea di cosa sia “diritto”, e che essa sia evidente per Spinoza come per i suoi lettori. Solo esplicitando il contenuto di quest’idea, vera e già nota come tale, riflettendo su essa, si potrà giungere alle conclusioni cercate. Come diceva Spinoza ai suoi lettori all’inizio dell’Etica: “Ciò che intendiamo, voi e me, per Dio, vale a dire l’essere assolutamente infinito, è in realtà la sostanza nell’infinità dei suoi attributi. E questa sostanza unica è la natura stessa. Allo stesso modo Spinoza dice nelle sue opere politiche: “Ciò che intendiamo, voi e me, per diritto, è in realtà la potenza: se riflettiamo bene sul significato di diritto ce ne potremo accorgere immediatamente”. Ora in cosa consiste tale idea del diritto, vera e già nota, che serve da fondamento a tutta l’argomentazione spinoziana? Spinoza non lo precisa, ma per i suoi contemporanei non c’era ambiguità alcuna: l’idea cui Spinoza faceva allusione era quella di Hobbes, e, prima ancora di essa, quella di Grozio. All’inizio del secolo, Grozio aveva messo a punto una problematica giuridica che, in quanto al suo carattere di problematica generale, era pienamente accettata dallo stesso Hobbes. In Olanda venne considerata tra quelle che il T.T.P denomina “dotte”. Spinoza stesso compie le sue analisi all’interno di quella problematica. Certo, lo scopo di Spinoza è quello di sovvertirla dall’interno, esattamente come aveva fatto, all’inizio dell’Etica, nel caso della problematica teologica. Ecco ciò che vorrei dimostrare facendo riferimento a due questioni: il diritto naturale e l’obbligo contrattuale. Vedremo poi, alla fine, ciò che ne risulterà per il contratto sociale propriamente detto.

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Vediamo quindi innanzitutto cosa intende Grozio per “diritto naturale”. La parola “diritto”, come dice nel capitolo I del Libro I del De Jure Belli ac Pacis, può assumere tre significati diversi. Un primo significato è quello secondo cui il diritto designa una qualità delle azioni, ossia ciò che è giusto, ma in senso negativo piuttosto che in senso positivo. Vale a dire che esso indica ciò che può essere fatto senza ingiustizia, posto che ciò che con ingiusto si intende quanto è contrario alla natura di una società di esseri razionali. Ciò che è contrario alla società, è però ciò che lede i diritti di una persona, in questo caso presi nella loro seconda accezione (di cui parleremo subito dopo) – il rispetto dei quali, come viene precisato, definisce positivamente la virtù della giustizia in senso stretto. Il primo significato del termine diritto è quindi interamente subordinato al secondo. Il secondo significato, relativamente nuovo all’epoca, è quello che designa una qualità o una facoltà delle persone, vale a dire quanto oggi chiamiamo “diritto soggettivo”. Grozio definisce la “facoltà” negli stessi termini di Suarez: una facoltà è una qualità morale, inscindibilmente connessa alla persona, in virtù della quale si possono legittimamente avere o fare determinate cose. Le facoltà, prosegue, sono di tre tipi: la proprietà, presa in un senso estremamente esteso poiché ad essa è connesso l’insieme dei diritti reali: essa può assumere la forma di proprietà assoluta (a cui consegue il diritto di alienazione), usufrutto (senza diritto di alienazione), usufrutto temporaneo. Le servitù, che sono virtualmente comprese nella proprietà assoluta e in quanto tali appaiono solo quando un proprietario abbia alienato una parte, e solo ed esclusivamente una parte, del suo diritto; il potere è il diritto di comandare a noi stessi o ad altri. Grozio in tutta la sua opera lo tratta alla stessa stregua della proprietà, ponendo gli stessi problemi e dando conseguentemente le medesime

soluzioni. Si può quindi dire che esso consiste nella proprietà di dirigere le nostre azioni o quelle altrui. Infine, in terzo luogo, c’è la facoltà di esigere ciò che è dovuto. Ciò va inteso chiaramente i due sensi differenti: si arriva a dovere qualche cosa a qualcuno all’atto della stipula di un contratto, o a titolo di riparazione per un danno subito. Vedremo in seguito come il primo caso deriverà, non sarà in realtà altro che un’ulteriore specificazione della proprietà o del potere. È evidente che tale facoltà non è ne altro che il corollario del secondo caso, infatti, anche perché Grozio definisce il danno: come l’azione consistente nel sottrarre agli altri ciò che gli appartiene. Nel momento in cui possiedo un diritto, possiedo anche il diritto di esigere che colui che mi ha recato un danno mi risarcisca, riportandomi esattamente alla condizione precedente, quella in cui mi trovavo prima che avvenisse il danno. In definitiva le due facoltà fondamentali sono quelle di disporre delle cose e di dirigere le azioni delle persone. Rimane quindi il terzo significato del termine “diritto”. Questa volta è un significato che non si scosta per nulla dalla tradizione: indica il diritto in senso oggettivo, vale a dire nel senso della “legge”, delle regole d’azione obbligatorie. Il problema, in questo caso, è capire se sia il diritto oggettivo a fondare quello soggettivo o viceversa: le facoltà detenute sorgono dagli obblighi a cui gli altri devo sottostare entrando in reciproco rapporto, oppure gli obblighi derivano o da quanto gli altri possono legittimamente esigere? Grozio nel capitolo I non dà risposta a questo problema: d’altra parte neanche se lo pone. In realtà aveva già in precedenza dato una risposta nel Discorso Preliminare, proprio trattando del diritto naturale. Si può parlare di Diritto Naturale oggettivo, dice, in due modi: in senso ampio ed in senso stretto. Esiste effettivamente una legge naturale, che, a livello della vita individuale, trova senza dubbio ragione del suo carattere imperativo dell’istinto di conservazione (concepito d’altro canto in modo molto più stoico che hobbesiano). Essa è però una legge puramente morale e non giuridica. Viceversa a livello di rapporti interumani, la legge naturale fonda la sua obbligatorietà nell’istinto di socievolezza. La ragione ha solo il ruolo di scoprirne le implicazioni e di tradurle in massime generali. La legge naturale interumana, non cedendo nulla quanto all’imperatività sua propria, può applicarsi a due casi ben diversi. Esistono leggi di carattere puramente morale, la cui violazione non può dunque essere punita: l’obbligo di essere riconoscenti con un benefattore, per esempio, è un’obbligazione di tipo strettamente morale, ossia non giuridica, perché il benefattore non ha il diritto, in senso soggettivo, di esigere la nostra riconoscenza. Altri tipi di leggi, al contrario, vanno a costituire il “diritto naturale” propriamente detto, e la loro violazione è oggetto di sanzione. Esse sono solo e solamente tre: la prima prescrive di rispettare i beni altrui (vale a dire la proprietà ed il potere); la seconda di mantenere le promesse; la terza di risarcire i danni di cui si è riconosciuti responsabili. Esse sono esattamente speculari alle facoltà presenti nel capitolo I: la prima legge corrisponde alle due facoltà iniziali, e le due seguenti alla duplice suddivisione della terza. Le cose, dunque, vanno a chiarificarsi: la legge naturale interumana non ha nulla a che fare, di per se stessa, con le facoltà puramente morali – poiché esse si applicano sempre in una stessa e medesima condizione, ed perciò quando si attivano hanno sempre la medsima intensità – . Al contrario, infatti, colui nei confronti del quale si è gravati di un obbligo, proprio inseguito a tale facoltà (il benefattore, ecc.), avrebbe sempre la medesima capacità giuridica. Viceversa essa può divenire legge giuridica in senso stretto, quindi umanamente sanzionabile, solo dove trovasse di fronte ad essa dei diritti soggettivi preesistenti. In definitiva, quindi, il diritto naturale oggettivo propriamente detto consiste semplicemente nell’obbligo di rispettare il diritto naturale soggettivo detenuto dagli altri uomini. Di conseguenza, il diritto naturale soggettivo deve essere considerato antecedente ad esso. Ecco in cosa consistono i limiti, posto in nome dell’istinto di socievolezza, posti dalle facoltà le une nei confronti delle altre. Gli uomini posseggono quindi innanzitutto diritti soggettivi, di cui il diritto oggettivo non è che la proiezione speculare. In verità, tali diritti non sono sullo stesso piano: la maggior parte di loro (proprietà delle cose, potere sugli altri) non è posseduta da sempre, la sua detenzione non è leggibile in termini originari, ma è concessa da qualch’un altro. Ma anche coloro che ce la concedono devono

a loro volta averla avuta da qualcuno, e così via. Dal momento che non è possibile risalire all’infinito tutta la catena, bisogna necessariamente che gli uomini posseggano da sempre diritti soggettivi, ossia che questi non gli siano stati concessi da nessuno: vale a dire dei diritti soggettivi naturali. Quali sono questi diritti? Per quanto concerne la proprietà, il solo diritto che può essere considerato naturalmente connesso agli uomini è riguardante la persona fisica (la vita e le membra del corpo), diritto che Grozio, senza peraltro dare particolari spiegazioni, considera come manifestamente inalienabile. Invece, il solo diritto naturale riferibile al potere è quello detenuto sulle proprie azioni, che Grozio denomina libertà - tale diritto è inalienabile nella stessa misura in cui è assoluto. Si può quindi dire che Dio, fine ultimo di ogni diritto, ha concesso questi due diritti nello stesso momento in cui ha creato gli uomini, in cui cioè ha ne ha posto la specifica natura: avere un corpo e un’anima dotata di libero arbitrio. Noi siamo quindi per natura “proprietari” della nostra persona in due modi: proprietari a titolo inalienabile di questa cosa che è il nostro corpo, e proprietari a titolo alienabile della direzione delle nostre azioni. È Grozio, in realtà, che sta alla radice di ciò che Macpherson ha denominato: “individualismo possessivo”. Detto questo, il potere di dirigere le nostre azioni, dal momento che è alienabile, può dar luogo ad una serie infinita di transazioni: è possibile darlo a uno, che a sua volta può darlo a qualcun altro, e così via. Tutti i rapporti di potere legittimamente attuati nascono da questo. Dal lato della proprietà, invece, le cose si fanno più complesse: non solo il diritto di proprietà che posseduto sul corpo non è suscettibile di alcun trasferimento, ma, anche quando potrebbe darsi un caso del genere, non avverrà in ogni caso mai con le stesse modalità previste per l’alienazione degli oggetti non umani. Per rendere conto di questo, Grozio deve quindi risalire addirittura fino ai diritti soggettivi di quello in generale è considerato il proprietario naturale di tutte le cose: i diritti soggettivi di Dio. Una libera interpretazione del racconto della Genesi mette dunque in condizione Grozio di rendere conto di tutto: Dio, signore assoluto della natura intera, avendo perciò il diritto di trasferirne la proprietà a chi voleva, ha concesso la proprietà della Terra, subito dopo la creazione d’Adamo, al genere umano, consegnandogliela a titolo di proprietà indivisa: a titolo di proprietà indivisa, non collettiva, e ciò significa che ogni uomo acquisiva il diritto di disporre a suo piacimento di tutto ciò che fosse capitato tra le mani. Dopo di cui, per porre rimedio agli inconvenienti provocati da tale titolo indiviso (inconvenienti dovuti alla caduta, e connessi all’invenzione della tecnica), gli uomini, avendone il diritto, decisero di spartirsi le terre già occupate, lasciando il possesso delle altre a chi se ne impadronisse per primo. Da ciò, dunque, derivarono infinite transizioni, da cui sono sorti poi tutti i rapporti di proprietà esistenti oggi. Il diritto naturale oggettivo ci obbliga quindi a rispettare tutti i diritti soggettivi che risultano da queste alienazioni successive. La problematica teorica dei diritti è assunta in toto da Hobbes negli stessi termini di Grozio, senza la minima differenziazione. L’unica differenza, è che Hobbes cambia le soluzioni date da Grozio a due questioni, in realtà molto importanti (cfr. Leviatano, I, cap. XIV). Da cosa deriva tale distinzione? Da un’unica motivazione: ridurre tutte le nostre inclinazioni naturali all’istinto di conservazione. Hobbes L’istinto perciò ritiene che l’istinto di socievolezza invocato da Grozio sia da considerare inesistente. Da una parte, rispetto ai diritti soggettivi, Hobbes riconduce ad unità i due diritti originari, stabilendo tra di essi un rapporto di mezzo a fine. Viceversa Grozio si contentava di metterli sullo stesso piano, giustapponendoli. Il diritto naturale che sta a fondamento di tutti gli altri è il diritto di proprietà sulla persona fisica. Ma questa volta è ben chiaro il motivo per cui è inalienabile: essendo l’istinto di conservazione il movente fondamentale della vita umana, è assolutamente impossibile che gli uomini vogliano veramente morire, o anche solo rischiare di morire, e di conseguenza è impossibile che vogliano veramente lasciare che qualcun altro disponga a piacimento del loro corpo. Per quanto riguarda il secondo diritto naturale di cui parla Grozio, cioè la libertà, essa è detenuta da sempre, ossia il suo possesso è originario, e senza limitazione alcuna, ma solamente a titolo di mezzo: dal momento che appartiene naturalmente agli uomini conservare la propria vita, gli appartiene pure, in assenza di ogni decisione di altro tipo, di determinare secondo giudizio e ragione

la scelta dei mezzi per soddisfare questa finalità primaria. Ma, nella misura in cui la libertà non è altro che un mezzo, il diritto che la concerne è, di per se stesso, alienabile: si potrà perciò concepire una concessione volontaria della direzione delle proprie azioni a qualcun altro, se questo è il miglior modo per assicurare la conservazione della vita. Ed in effetti questo accade immancabilmente. D’altra parte, la fonte del diritto oggettivo, vale a dire la legge naturale (che Hobbes, in conformità a quanto prescritto dalla lingua inglese, si rifiuta di chiamare “diritto”), non potrà più essere l’istinto di socievolezza: esso infatti non esiste. Occorrerà dunque cercarla in un istinto di conservazione di carattere egoistico: il diritto soggettivo e la legge hanno dunque una stessa e medesima origine. Di conseguenza, ci troviamo di fronte ad un nuovo punto capitale: gli uomini non sono naturalmente obbligati a rispettare il diritto degli altri. Ciò non implica il venir meno di ogni obbligo: infatti, ora il diritto naturale non è più limitato da qualcosa che gli rimane esteriore, ma intrinsecamente, dal suo stesso fondamento. Dal momento che tutti i diritti naturali si basano unicamente sul diritto di conservare la vita, ne risulta analiticamente che l’uomo non gode del diritto di non preservare la sua vita. La legge naturale è da considerare dunque come una sorta di auto-limitazione interna dei diritti naturali relativi ad ogni uomo: essa non è altro che quell’insieme di regole (scoperte, come in Grozio, dalla ragione) che impedisce agli uomini di commettere qualcosa che possa minacciare la loro vita, ossia e di non fare tutte quelle cose indispensabili alla sua conservazione. È chiaro che, trattandosi di relazioni interumane, la legge naturale ci obbliga solo nell’ambito di una condizione di reciprocità: come nel dilemma posto dalla condizione di prigionia, caro alla teoria dei giochi, anche il miglior modo di preservare la vita, vale a dire vivere pace, si rivela un arma a doppio taglio se tutti non scelgono di fare lo stesso. Questo comporta che nello stato di natura, dove la guerra di tutti contro tutti non dà la benché minima certezza che la condizione di pace universale potrà essere mai soddisfatta, la legge naturale non comporterà alcuna interdizione per nessuna azione possibile. In pratica, quindi, si avrà diritto a fare tutto, ivi compreso disporre a piacimento del corpo degli altri: dove regna la guerra universale nessun mezzo di difesa può essere escluso a priori, nemmeno l’assassinio preventivo. Vero è questa è una situazione particolare, legata alle particolari condizioni in cui si realizza lo stato di natura. Di fatto essa non impedisce il sorgere di uno stato di diritto in quanto tale – inteso, questa volta, come qualità dell’azione, cioè come “azione compiuta senza violare alcun diritto” (come riporta il primo significato di “diritto di Grozio”) – , cioè che sorga uno stato di diritto distinto per natura da uno stato di fatto: i principi che lo governano, non escludono quindi che anche dallo stato di natura possa sorgere il diritto, posto che si determini una condizione di reciprocità. Ci saranno così delle cose compiute senza averne l’effettivo diritto (ne vedremo più avanti degli esempi), ma ce ne saranno un’infinità di altre che si avrà il diritto di fare, senza però avere effettivamente la possibilità di farle: andare sulla luna, uccidere 50 milioni di persone, ecc. Abbiamo tutti gli elementi per comprendere ora in tutti i suoi dettagli come Spinoza abbia proceduto ad impostare l’argomentazione alla base della sua concezione del diritto naturale. Questa argomentazione comporta otto enunciati (che contrassegnerò con le lettere dell’alfabeto), e non cambia tra T.T.P e T.p.: rimane esattamente la stessa, anche se il suo ordine di presentazione sarà soggetto a variazione da un trattato all’altro. All’inizio del capitolo XVI del T.T.P. Spinoza si sforza di rimanere quanto più vicino possibile allo schema analitico posto da Grozio ed Hobbes. Dapprima definisce lo “Jus et institutum naturae”, vale a dire il diritto naturale oggettivo: esso consiste nell’insieme di leggi naturali oggettive in virtù delle quali gli individui esistono e agiscono (a). Quindi motiva questa definizione mediante una dimostrazione a sua volta divisa in due sezioni, basandole su premesse apparentemente indipendenti. La prima sezione concerne la nozione di facoltà. Spinoza non impiega questa parola nel capitolo XVI, ma l’impiegherà all’inizio del capitolo XX, precisamente come sinonimo di diritto naturale: “Jus…naturale, sive facultatem”. La premessa, in questo caso, sono i diritti soggettivi di Dio, posti da Grozio alla della proprietà: Dio incontestabilmente detiene un diritto sovrano su tutte

le cose della natura, vale a dire che il suo diritto è pari alla sua potenza. Ha perciò il diritto di compiere su di loro tutto ciò che fisicamente vorrà fargli, cioè ogni cosa immaginabile (b). Per arrivare ai nostri diritti soggettivi partendo da quelli di Dio, non c’è dunque bisogno di tirare una fantomatica donazione originaria: i diritti soggettivi non dipendono affatto dal consenso divino ad un trasferimento di diritto: essi non sono altro che quelli divini. Pur tenendo conto di ciò che va addebitato alla particolare metafisica spinoziana, la derivazione è trasformata in identità: la potenza della natura è identica alla potenza di Dio (c). Il diritto della natura, intesa nella sua totalità, sulle sue proprie parti è dunque pari alla sua potenza (d). La natura nella sua totalità non è altro che l’insieme di tutti gli individui naturali (e). Di conseguenza, il diritto di ogni individuo su stesso e sugli altri è pari alla sua potenza (f). La facoltà di Grozio da potere morale diviene un potere assolutamente fisico (potere di produrre degli effetti reali nella natura): questo è, in tutta evidenza, il solo senso intelleggibile che essa può prendere se rapportata a Dio. solo questo senso può essere valido per tutti gli esseri. Per quanto riguarda la seconda parte, sempre seguendo il percorso di Grozio ed Hobbes, anche Spinoza opera il passaggio dai diritti soggettivi alla legge che ne pone il limite. La premessa, in questo caso, è il conatus, posto però in una forma ancora incompleta. Infatti essa non sarà quella definitivamente adottata da Spinoza. La legge suprema della natura vuole che ogni individuo (non solo umano) si sforzi, per quanto gli è possibile (“quantum in se est”) di perseverare nella sua condizione (Spinoza non usa ancora: “nel suo essere”), senza tener conto degli altri, ossia non considerando che se stesso (g). La seconda parte di quest’enunciato ci porta a concludere, con Hobbes e contro Grozio, che la legge naturale non obbliga a rispettare il diritto altrui: dal fatto che il diritto soggettivo coincide con la potenza, non risulta che si abbia il dovere di piegarsi davanti a coloro dotati di maggiore potenza, né che si debba astenersi dall’ostacolarli: la sola regola valida, come in Hobbes, è la propria conservazione. La prima parte di questo stesso enunciato però, questa volta contro Hobbes, ci porta a concludere che i limiti che la legge pone al diritto sono propriamente limiti di fatto. Si tratta infatti, come sottolinea Spinoza, di una legge oggettiva, che tutti gli esseri naturali devono necessariamente seguire, che non lascia alcun margine di indeterminazione. I limiti che trova il diritto assumono quindi la stessa estensione di quelli posti ai fatti, ossia non possono presentarne mai un’inferiore: l’obbligo di usare la totalità della nostra potenza a fini d’autoconservazione, obbligo valido esclusivamente in relazione a questo scopo che lo racchiude tutto, non può dunque mai essere violato: non esiste, per principio, alcuna azione compiuta senza averne diritto, comprese quelle votate allo scacco, o quelle in cui sembra che, capito apparentemente il nostro interesse, sarebbe meglio astenersi. Lo stesso vale per le azioni che conducono ad indebolimento, o a distruzione: gli uomini fanno, sempre ed in tutte le circostanze, il massimo possibile per conservarsi alla vita. Se ci si sbaglia sul modo di farlo è per carenza intellettuale, in effetti, perciò questo non cambia nulla: gli uomini non cessano mai di agire in questo senso. Turano la carretta con quello che hanno a disposizione, quantum in nobis est. Essendo ogni desiderio una modalità di manifestazione del conatus, non esisterà quindi alcun desiderio illegittimo. D’altra parte, identificato il diritto con la potenza, esso non potrà mai travalicare i limiti dettati dai fatti: non esiste alcuna azione che è possibile compiere, vale a dire di cui si detiene il diritto, che non venga di fatto compiuta. Non esiste un’azione che noi, pur potendola effettivamente compiere, non compiamo per mancanza di desiderio: ciò che si ha i mezzi materiali di fare, ma che non si desidera fare, in realtà non si ha la possibilità di farla. Esistono a questo punto solo cose necessarie o impossibili. Tale azione, perciò, non può essere computa. Il nostro diritto, vale a dire la nostra potenza, è quindi strettamente legato alle determinazioni poste dalla natura, ed in essa trova i suoi limiti: le cause esteriori che agiscono su di noi (h). Da ciò deriva la congruenza della definizione iniziale: il diritto naturale oggettivo limita i nostri diritti soggettivi poiché coincide in tutto e per tutto con le leggi oggettive della natura, che dettano le determinazioni proprie alla nostra vita ed al nostro agire (a).

Nel Trattato politico (cap. II, paragrafi 2 – 4), Spinoza ripete appunto le stesse cose. Dispone però i suoi argomenti in un ordine meno complesso, perché ormai non ha più, come prima, la preoccupazione di aderire strettamente alla problematica di Grozio e di Hobbes: cementa definitivamente le due premesse in una sola, identificando direttamente il conatus individuale con la potenza ed il diritto divino. Mette così ancor più in evidenza che ogni individuo è un “Deus quatenus”. La potenza di ogni essere naturale, dice, vale a dire la potenza tramite cui ogni essere esiste ad agisce, quella che esprime la sua necessaria tendenza all’auto conservazione (g), è la stessa potenza di Dio (c), la quale, essendo assolutamente libera, altro non è che il diritto di Dio (b). Da tutto ciò inferisce immediatamente che i diritti soggettivi propria ad ogni individuo hanno per contenuto ciò che il conatus li determina a fare (h). Conseguentemente, il diritto oggiettivo coincide sempre con le leggi oggettive della natura (a). Spinoza precisa poi che quanto appena detto vale sia per quanto concerne i diritti dell’individuo totale rispetto alle parti che lo compongono (d), sia per quanto riguarda i diritti che gli individui hanno gli uni rispetto agli altri (f), e specificamente gli individui umani. La presenza di tale punto è suggerita a nostro parere dalla presenza dell’ espressione “et consequenter”, Si può dire quindi, in conclusione, che Spinoza fa subire alla concezione del diritto naturale di Grozio, già parzialmente rielaborata da Hobbes, una triplice modificazione (una per ognuno dei tre sensi della parola diritto), che a sua volta lo ha condotto a elaborare dei risultati del tutto inediti. In primo luogo, Spinoza assume completamente la definizione del diritto soggettivo come facoltà, ma sostituendo “morale” con “fisico”, “legittimo” con “effettivo” e, se si vuole, “persona” con “individuo”: senza dubbio, avrebbe potuto scrivere che il diritto è una qualità fisica, connessa all’individuo (umano o non umano), in virtù della quale può effettivamente avere o fare determinate cose. In secondo luogo, accetta di determinare l’obbligo a partire dalla facoltà, ma deducendone l’assimilazione del diritto naturale oggettivo alle leggi fisiche: ne risulta che il diritto naturale soggettivo ed il diritto naturale oggettivo vanno precisamente a coincidere. Infatti, per usare l’espressione impiegata all’inizio del capitolo IV del T.T.P. , le leggi che presiedono alla natura di ogni individuo, modificate dal determinismo esteriore, sono “ciò in virtù di cui” (“id secundum quod”) agisce e assume un potere di disposizione sulle cose. Terzo ed ultimo punto, tutto ciò implica la rigorosa equivalenza tra il diritto inteso come qualità delle azioni ed il puro e semplice fatto: in ogni circostanza, gli uomini hanno il diritto ed il dovere di fare ciò che necessariamente, ed effettivamente, giungono a fare, ne più e né meno.

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Troviamo esattamente lo stesso andamento nella trattazione della questione dell’obbligo contrattuale. Su questo punto la posizione di Grozio è molto chiata (cfr. De Jure Belli ac Pacis, Libro II, capitolo Xi e XII): la seconda legge naturale impone di mantenere incondizionatamente tute le nostre promesse, purché siano promesse effettive. Si richiama cioè l’argomento cosiddetto del “consenso integrale”: la stipula di una convenzione, di qualunque genere essa sia, obbliga, e quest’obbligo si basa come solo ed esclusivamente sul consenso delle parti. Tale posizione di Grozio costituiva un’eresia rispetto a quanto prescriveva il diritto romano, secondo cui il consenso era sufficiente a porre in essere l’obbligo solo in casi specifici, ossia quattro specifiche tipologie di contratto (le quattro forme di contratto dette “consensuali”): nel Medio Evo, la consuetudine su cui si basavano i giuristi di scuola romana voleva che, per far sì che una convenzione obbligasse realmente, occorreva che qualche cosa si aggiungesse al consenso delle parti per “vestirlo” (la cosiddetta consuetudine dei “patti nudi” e dei “patti vestiti”). Per Grozio, al contrario, i contratti sono tutti frutto di consenso. Grozio accorda ai romanisti che effettivamente qualcosa debba aggiungersi al consenso, ma afferma che questo è a sua volta un consenso, seppur di tipo particolare.

In effetti, Grozio nella promessa, su cui si basa la convenzione, va a distinguere tre elementi: una dichiarazione d’intenti concernente l’avvenire che di per se stessa non obbliga nulla, perché implica sempre la legittima possibilità di cambiare idea. Proprio per questo, non è sufficiente per stabilire una promessa. A questa prima dichiarazione, se ne può aggiungere una seconda: quella che pone la nostra ferma intenzione di perseverare nell’intenzione dichiarata. In questo caso, si ha una “promessa imperfetta”: a rigore è obbligatorio mantenerla, perché la legge naturale ci impedisce di ingannare gli altri, ma non si tratta che di una obbligo puramente morale, che non richiama alcuna sanzione umana. Perché ci sia promessa “perfetta”, vale a dire una promessa che comporti un reale obbligo giuridico, occorre che alle due precedenti venga aggiunta una terza dichiarazione: si dà al contraente il diritto di esigere da parte nostra il rispetto di quanto che abbiamo dichiarato di voler fare. Il contraente, in questo caso, rientra all’interno della tipologia prevista da un diritto soggettivo, che però l’altro contraente gli ha dato, e di conseguenza il diritto naturale oggettivo propriamente detto obbliga quest’ultimo a rispettare questo diritto altrui, di cui è l’ effettivo esecutore. Se dunque si viene meno all’accordo, si merita di essere puniti. Grozio motiva tutto questo in un modo del tutto peculiare: dice che la seconda legge giuridica naturale non è altro che un caso particolare della prima. In termini generali, quando deteniamo la piena proprietà di una cosa, abbiamo effettivamente la possibilità di alienarla. Una volta che fattolo, però, tale capacità decade: quella cosa appartiene ora ad un’altra persona, e la prima legge giuridica naturale ci obbliga di rispettare tale diritto di proprietà, per quanto appena acquisito. Perché un’alienazione sia valida, è dunque necessaria un’unica condizione: che si sia veramente voluto dare ad un altro ciò che era posseduto. Ora, dice Grozio, che cos’è una promessa “perfetta”? Se è semplicemente la promessa fatta che una cosa sarebbe stata data ad un altro, nessun problema: si tratta solo del differimento di un’alienazione di proprietà, che quindi rientra nelle normali regole. Ma nel caso in cui si abbia promesso di fare qualche cosa? Grozio, questa volta, ne riconduce la tipologia a quella dell’alienazione parziale di libertà. In prima battuta, come abbiamo visto, gli uomini detengono la assoluta proprietà di direzione delle proprie azioni: essi sono, per riprendere, in un altro senso, una formulazione impiegata dal diritto romano, nella condizione giuridica di persone “sui juris”. Ma, avendo la piena proprietà di questo diritto, è possibile appunto trasferirlo a qualcun altro. Ora un'altra persona detiene la proprietà del diritto di comandare, ossia diviene il signore: chi ha compiuto l’alienazione cade, volendo sempre impiegare un’espressione tratta dal diritto romano, nella condizione giuridica di persona “alieni juris”. Detto questo, come per ogni altro bene, la concessione di tale diritto può assumere le modalità più diverse: se lo si è concesso totalmente e senza riserve, si caratterizzerà come “schiavitù”; se solo a determinate condizioni, come per esempio per un limitato periodo tempo, o in cambio di determinate cose, sarà definibile, in senso esteso, come “servitù”. La promessa di fare qualcosa è quindi la forma d’alienazione della libertà in cui maggiori sono i limiti posti alla cessione del diritto: essa consiste nel dare ad un altro il diritto di prescrivere solo una sola e specifica azione perfettamente determinata quanto al suo contenuto: egli non ha quindi incondizionato potere di prescrizione, né lo detiene ma solo rispetto a determinate condizioni. Di conseguenza, la regola valida è ancora la stessa: al di là dell’accordo fatto, non siamo tenuti a rispettare il diritto oggettivo appartenente a colui cui l’abbiamo concesso. Tutto questo a condizione che, ben inteso, si abbia veramente avuto la volontà di alienare il nostro diritto. Questo implica, in particolare, che il beneficiario non possa nascondere niente di ciò che (a meno che non sia una universalmente conosciuta, che nessuno può ignorare), se conosciuto, ci avrebbe persuaso a non stipulare il contratto: non è permesso in nessun caso, in altri termini, compiere un dolo. Infatti, nel caso in cui si cadesse in un raggiro, in una manovra sleale compiuta dal contraente (ad esempio nel caso che ci prometta in cambio una cosa che sapeva di non poter concedere), il consenso all’accordo non sarebbe in realtà stato concesso, poiché, in tutta evidenza, esso sarebbe stato dato in relazione ad una condizione rivelatasi non vera. Se il patto fosse stato già attivo prima ancora di svelare l’inganno, ciò che il partner possiede sarebbe dunque ancora proprietà dell’altro contraente, e quindi glielo deve restituire, ma non solo: egli gli avrebbe

procurato un danno, poiché gliela avrebbe estorta senza il suo reale assenso. Si ha diritto ad una riparazione. Di contro, se l’impegno non ha la sua causa effettiva in un dolo (nel caso in cui, ad esempio, è del tutto evidente che è a causa della negligenza del contraente, che non si è impegnato a fondo nel conoscere i termini del contratto, che non c’è stata una trattativa equa e quindi non si sono ottenute condizioni più vantaggiose), la promessa resta valida, e, secondo quanto prescrive la seconda legge naturale, c’è l’obbligo di portarla a compimento. Secondo la terza legge esiste in ogni caso l’obbligo per il contraente si riparare i danni che ci ha volontariamente inflitto, al contrario, quando si assume un impegno senza che ci sia stato raggiro fraudolento, ma per via di un errore, al di là della responsabilità del partner, costui non è tenuto a riparare alcun danno. Ma in ogni modo la promessa è nulla e di conseguenza, se essa ha avuto decorso prima che venissero conosciuti gli esatti termini del contratto, l’altro contraente deve restituirci, o risarcirci, quanto gli abbiamo dato, nei limiti delle sue possibilità, ossia nei limiti posti dai suoi diritti, non debbano in nessun caso entrare in sofferenza per questo. La volontà, come abbiamo visto, è allo stesso tempo necessaria e sufficiente: esiste obbligo solo e solamente nel momento in cui esiste un trasferimento volontario di diritto. È inutile dire che Hobbes, su questo punto, la pensa esattamente allo stesso modo (cfr. sempre il capitolo XIV del Leviatano). Anche lui pensa che ogni contratto sia un mutuo trasferimento di diritto a cui si è tenuti a dare seguito. Le condizioni di possibilità di tale contratto non stanno nell’acquisizione di un diritto, assunto in un momento successivo (l’uomo allo stato di natura detiene a priori tutti i diritti, che però nulla obbliga a rispettare nella fase precedente alla stipula del contratto), quanto piuttosto nel abbandono volontario del diritto di contrapporsi ad un altro uomo: di conseguenza, non c’è rinuncia rispetto a tale diritto, ma cessione del possesso. Le sole riserve che fa Hobbes alla teoria di Grozio concernono l’effettiva realizzabilità delle condizioni di validità che indica. Da una parte, ci dice, ogni impegno che mette la vita in pericolo è nullo, perché è impossibile che qualcuno voglia realmente farsi de male, anche se si afferma o si crede il contrario: in questo caso, il contratto è sempre inficiato da un errore. D’altra parte, quando si cede ad un altro uomo il proprio diritto, è sempre necessariamente in vista di qualche cosa che si vuole ottenere in cambio, ossia in considerazione dei vantaggi che ci aspettiamo da esso (la nozione di “considerazione” è improntata al diritto inglese). Se, di conseguenza, si ha ragione di pensare che l’altro contraente non abbia l’intenzione di essere conseguente con l’impegno assunto, la promessa fatta sarà nulla. Tutto ciò accade regolarmente nello stato di natura: non importa se il dolo ci sia stato effettivamente o meno, è sufficiente il minimo sospetto. Ma ciò non toglie che anche nello stato di natura, se il contraente ha dato seguito al patto sottoscritto, se cioè sussistono le condizioni necessarie e sufficienti all’adempimento della promessa, si è assolutamente obbligati a fare altrettanto. Per esempio, se si promette ad un delinquente che ci sta minacciando di morte di dargli qualcosa per aver salva la vita, e se lui ci salva effettivamente la vita e ci lascia liberi, si è comunque obbligati dall’impegno assunto, anche se non se non sia ha il potere di mantenerlo: il delinquente è stato conseguente con il patto, perciò la condizione di validità del contratto è del tutto soddisfatta. Anche su questo punto, perciò, il diritto si distingue quanto ai suoi principi dai fatti. A partire da qui, è possibili anche rispetto a questo tema comprendere a fondo le argomentazioni presentate da Spinoza nei suoi due trattati. Nel capitolo XVI del T.T.P., una volta di più, Spinoza sposa pressoché in toto la modalità di articolazione della problematica del contratto definita da Grozio. Si domanda: secondo quale condizione le nostre promesse ci obbligano? La sua risposta è divisa in due parti. Nella prima, Spinoza riconduce la promessa “perfetta” di Grozio ad una semplice dichiarazione d’intenti, vale a dire ad una tipologia di promessa in cui non c’è alcun obbligo effettivo. In effetti, dice, la legge naturale prescrive la rinuncia ad una cosa solo nel caso che procuri un danno maggiore dei vantaggi, o se si ha la speranza di ottenere un bene maggiore: questa è una legge così evidente ed incancellabile che deve essere posta nel novero delle verità eterne che nessuno può ignorare. Da ciò scaturiscono due conseguenze, che permettono a Spinoza di prendere, e per ben due volte, due piccioni con una fava: rigettare l’idea che hanno Grozio ed Hobbes del

diritto di non mantenere le promesse, e confutare la concezione che ha Grozio dei diritti acquisiti sulle vittime. Se si fa una promessa già sapendo, nel momento stesso in cui la si sottoscrive, che non si ha alcun interesse nel rispettarla, si commetterà necessariamente un dolo. Infatti è ben noto da subito che la stessa legge naturale che ci determina a farla, è la stessa che ci impedirà di mantenerla. Ma, proprio per questo, non si è nella specifica fattispecie del dolo, o, se si vuole, come precisa Spinoza nella nota a margine 32, si è in presenza di quella particolare fattispecie che il diritto romano denominava dolus bonus, e quindi non è un dolus malus: si tratta di un raggiro normale e lecito che ognuno può commettere, ma non è un maneggio fraudolento. Infatti, l’altro contraente da parte sua dovrebbe immaginarsi che si sta cercando di ingannarlo, e, di conseguenza, dovrebbe evitare di farsi ingannare. É universalmente noto inoltre che la legge naturale, in questo genere di casi, non solamente non interdice, ma prescrive il dolo. A questo proposito Spinoza riprende il problema della promessa fatta al delinquente, e gli dà una soluzione completamente diversa da quella di Hobbes: mentre per Hobbes la promessa fatta al delinquente è perfettamente valida, a partire dal momento stesso in cui è effettuata, per Spinoza è invece nulla fin dall’inizio: non poteva sussistere alcun desiderio di mantenerla una volta rimessi in libertà, e per il delinquente non è difficile comprenderne il motivo. D’altra parte, se si è fatto con intenzione sincera, senza alcun inganno, una promessa che però ci si accorge essere troppo svantaggiosa, l’intenzione di dare seguito al patto necessariamente cambierà. Il contraente, anche in questo caso, avrebbe dovuto saperlo, essendo anch’egli sottoposto alla legge naturale: il suo errore, se di errore si tratta, è assolutamente ingiustificabile. Non si tratta qui di un errore commesso nella fase iniziale del contratto, precisa Spinoza, non è per questo che l’impegno è annullato: lo scambio dipende dalla perseveranza o meno nell’errore, e solo nel momento della sua correzione diviene nullo. Se non si è capito qual’è il proprio reale interesse, si trattasse pure di un interesse vitale, fosse pure in ballo la nostra esistenza, si farà una certa scelta: ma quando ci si accorgerà dell’errore, la scelta conseguente a questo punto sarà tutt’altra. Fino a quando si persevererà nell’errore, agiremo conformemente a ciò che crederemo giusto: in tal senso ci obbliga la legge naturale. Ma, allo stesso modo, sarà la stessa legge naturale a obbligarci a modificare la nostra condotta nel momento in cui muterà la valutazione della situazione, e tanto più se vi si aggiunge l’ingenuità del nostro contraente. Per esempio, dice Spinoza rispondendo una seconda volta a Hobbes, se noi abbiamo sinceramente sottoscritto la promessa, in cambio di un qualsiasi beneficio, di restare venti giorni senza mangiare, rompere il digiuno sarà legittimo, e legittimo perché necessario, se ci accorgeremo che continuarlo è più dannoso che utile (cosa che, chiaramente, non tarderà a verificarsi appena il contraente, che ingenuamente su è fidato della nostra parola, ci avrà consegnato il beneficio in questione: anzi, prima ce lo darà, e prima smetteremo di digiunare), ma non prima: mentre, per Hobbes, un tale accordo sarà nullo dal principio in ragione dei rischi implicati, per Spinoza è inizialmente valido, ma dopo, e solamente dopo, quando cambiano le nostre intenzioni, la legge naturale ci slega dal patto. In ognuno dei due casi, di conseguenza, è il dolo di cui siamo gli autori, o l’ errore di cui si è beneficiato, che rende vana la promessa. Non c’entra più nulla il fatto di diventare oggetto di riprovazione o il rischio di essere ingannati, contrariamente a ciò che pensano Grozio ed Hobbes: conta solo il desiderio del momento, qualunque esso sia. L’obbligo contrattuale, poiché ogni obbligo non è altro in definitiva se non la necessità che spinge ad agire, si estende precisamente ed esclusivamente solo per il periodo in cui sussistono i moventi che spingono a sottomettersi al patto. Quanto al nostro contraente, contrariamente a ciò che pensa Grozio, egli non ha nessun diritto di lamentarsi: se è stato così stupido da effettuare una promessa senza essersi prima accertato dell’esistenza di un effettivo desiderio di fare altrettanto da parte della controparte, questo sarà certamente motivo di rincrescimento, ma non può esigere alcuna riparazione, né pretendere alcun risarcimento per l’errore, o per il dolo, di cui è stato vittima. Infatti, l’ignoranza di cui ha dato prova credendoci disinteressati non era solo “di fatto”, ma anche “di diritto” (ossia del diritto naturale), e nessuno è autorizzato ad ignorare la legge fondamentale che regola la natura.

La seconda parte della spiegazione che propone il T.T.P., perciò, viene di conseguenza. Da ciò che precede Spinoza conclude, esattamente come Grozio, che una promessa è in grado di obbligare effettivamente i contraenti, se alla semplice dichiarazione d’intenti si aggiunge anche qualcos’altro. E questo, esattamente come dice Grozio, non può essere altro che un trasferimento di diritto. Però, occorre prendere la parola diritto nel suo senso reale ed effettivo: dare a qualcuno il diritto di esigere una certa azione, significa dargli la potenza che lo metta in grado di esercitare una costrizione su per mezzo della paura o della speranza. Trasferire diritto significa trasferire potenza: altrimenti nessun patto può essere stretto. Nel T.T.P. Spinoza si ferma a questa conclusione, e fonda su di essa tutta la teoria del contratto sociale. Nel Trattato politico (cap. II, paragrafi 9, 10 e 12), Spinoza riprende la questione dal punto dove l’aveva lasciata. Si chiede: che significa, a rigore: trasferimento di potenza? Che significa, detto altrimenti, tradotta nel linguaggio della potenza: alienazione totale o parziale del diritto di proprietà detenuto sulla propria persona? La risposta viene da sé, facile facile. L’uomo “sui juris”, dice Grozio, è proprietario del suo corpo. Ciò implica, da una parte, che egli ha il diritto di esigerne il rispetto da parte degli altri, ossia che non gli venga recato alcun danno. D’altra parte, ciò implica che ha il diritto di pretendere un risarcimento per tutti i danni siano stati causati ad esso. Traduzione: è “sui juris” colui che ha il potere fisico di resistere a tutte le aggressioni fisiche, e di costringere fisicamente gli altri uomini a riparare i danni che abbia fisicamente subito. L’uomo “sui juris” inoltre, dice Grozio, è proprietario della direzione delle sue azioni. Ciò implica che nessuno ha il diritto di comandarlo. Traduzione: è “sui juris” colui che, di fatto, dirige le sue azioni senza tener conto della volontà altrui, vale a dire colui che vive come gli sembra più giusto. Poste queste condizioni, un uomo diventa “alterius juris” (Spinoza impiega questa espressione la posti di “alieni juris”) in due modi: o perchè si trova vinto, imprigionato, privato delle armi e di ogni mezzo per difendersi e scappare, sottoposto ad un vincitore che allora detiene il massimo potere sul suo corpo. Egli può farne ciò che vuole, e perciò ne è di fatto proprietario. Ma in questo caso non si può veramente parlare di un trasferimento di potenza: la potenza esercitata non è stata concessa volontariamente, ma dipende dal fatto che la potenza del vincitore è superiore a quella del perdente. Altro caso, è quando un uomo è determinato ad obbedire ad un altro uomo perchè sospinto da paura o speranza. In questo caso, chi esercita un controllo ha il potere di dirigere le azioni di un uomo a suo piacimento, e può così fargli fare ciò che vuole. Questa volta, però, c’è effettivamente trasferimento di potenza: esiste una decisione volontaria, seguente ad un effettivo desiderio, di mettere la propria forza a disposizione di un altro uomo. Ma, appunto, questo trasferimento, proprio perchè è assolutamente frutto di una decisione volontaria, cessa di essere un trasferimento. A rigore, non si trasferisce assolutamente nulla, perché la forza, fisicamente parlando, resta in proprio possesso: la decisione che la mette ad ogni istante al servizio di un altro dipende comunque da noi: siamo noi che decidiamo di obbedire nell’istante t1, poi nell’istante t2, ecc. Nulla obbliga in modo irreversibile, in questo senso. Così, niente passa realmente dalla nostra persona a quella del sovrano: la potenza è alienata solo in termini immaginari, anche se effetti di tale alienazione sono reali. Essi cesseranno solo quando non si crederà più alla loro causa. Ma non è chiaro come una simile relazione possa instaurarsi tra due individui isolati: come può Pietro costringere Paolo ad alienare a suo favore la sua potenza, se gli unici mezzi che ha sono quelli concessigli dall’alienazione della potenza di Paolo? Gli uomini arriveranno ad obbedire in modo durevole solo se saranno in molti a farlo: il sovrano potrà ispirare paura o speranza ad ognuno grazie al consenso lasciatogli dagli altri, potendo contare sull’insieme delle forze su cui potrà esercitare la direzione. Quindi, la paura e la speranza determineranno a loro volta ogni uomo a lasciare il controllo della sua forza al sovrano – e di nuovo il processo ricomincerà. Ma, anche in quest’ultimo caso, il sovrano dovrà sempre, ogni volta come se fosse la prima, cercare di ottenere il consenso dei sudditi, perché non esiste alcuna garanzia giuridica che rende la sua donazione sicuramente certa per l’avvenire: infatti il diritto che il sovrano detiene su di loro non è altro che la

potenza il cui impiego gli è accordato dai sudditi stessi con un preciso atto di volontà. Ci sarà alienazione giuridica nella stessa misura in cui si determina un’alienazione prodotta dalle passioni. Essa sparirà nel momento preciso in cui le ì passioni muteranno il loro corso: dissipata la speranza e la paura, i sudditi ridiventano giuridicamente indipendenti: fate che i soggetti ad un potere ne prendano coscienza tutti allo stesso momento, e un intero regime sarà finito. Ciò che ne risulta rispetto ai problemi posti dalla promessa è del tutto chiaro: se per Grozio non era altro che un caso particolare di trasferimento di diritto, e così la liquidava senza dilungarsi troppo, Spinoza non ha bisogno che di poche righe per applicarvi quanto appena detto sul trasferimento di potenza. La conclusione cui giunge è la stessa del T.T.P., anche se questa volta le argomentazioni che impiega hanno un tenore un po’ diverso, un po’ più “ad hominem” (che riprenderà d’altra parte anche più avanti, nel paragrafo 14 del capitolo III, a proposito della validità delle convenzioni internazionali. Esse però hanno solo la funzione di introdurre ulteriori elementi polemici al passaggio in questione): la volontà obbliga, chiaramente, ma solo fin quando permane la stessa. Infatti, basta un nuovo atto di volontà per riappropriarsi della propria potenza, ossia del proprio diritto: quanto è fisicamente inalienabile non è mai irreversibilmente alienato. Portando all’estremo la logica del consenso, Spinoza la muta nel suo contrario, arrivando ad una sorta di “ consensualismo instantaneista”: sopprime ogni obbligo che non sia quello indotto, qui ed ora, dal desiderio e dal potere. Comprendiamo ora perché Spinoza parla di contratto sociale nel T.T.P. e invece smette di parlarne nel Trattato politico, nonostante che la teoria presente nelle due opere rimanga sostanzialmente la stessa. Nel T.T.P. Spinoza rimane all’interno del meccanismo giuridico delineato dalle categorie di Grozio, probabilmente perché ne avverte ancora l’influenza, ma forse anche perché, strumentalmente, questo gli permette di farsi capire meglio dai suoi lettori. Scavando in esse in profondità, le erode dall’interno: cerca di trovarvi un senso intelleggibile, ossia di ricavarne l’unico senso intelleggibile possibile. Quando arriva a trattare del contratto sociale propriamente detto, fa, in modo del tutto naturale, esattamente la stessa identica cosa. Si chiede: “c’è un contratto sociale, va bene, ma che significa esattamente “contratto”?”. Ora, se ci si confronta realmente con tale questione non rimuovendone la profondità, ci si accorgerà che il contratto sociale, come qualsiasi altro contratto, non ha nulla in comune con quanto si intende abitualmente con “contratto”: il contratto in senso giuridico non esiste, è un’entità frutto d’immaginazione. Ridotto al suo nucleo intelleggibile, in termini generali ogni contratto è riconducibile al fatto che qualcuno desidera, qui ed ora, fare qualcosa ma che è da riferire al desiderio di qualcun altro, il quale, ha sua volta, ha conoscenza che l’altro detiene tale sapere, ed in funzione di esso agisce. Ridotto al suo nucleo intelleggibile, di conseguenza, un contratto sociale non è altro che il consensus che i sovrani riescono, ogni giorno ed ogni momento, ad ottenere ed ri – ottenere dai loro sudditi, i piegando i più svariati mezzi: repressione, ideologia., buon governo, ecc. La questione fondamentale (l’equivalente reale di ciò che i giuristi denominano il problema delle condizioni di validità) diviene allora come organizzarli, come fare in modo che agiscano come un sistema. Il Trattato Politico prende atto di questo, e lo affronta. In esso Spinoza sembra meno preoccupato di parlare un linguaggio vicino alle categorie conosciute dai suoi lettori - chissà, forse perché lui stesso se n’era ormai del tutto distaccato. Ma Spinoza giunge a ciò senza negare astrattamente la nozione di diritto, con il rischio conseguente di vedersela opporre dall’esterno: bensì portandola alle sue estreme conseguenze.

Signoria e servitù nella filosofia politica classica. I lavoratori salariati sono considerabili degli schiavi? No, stando almeno al loro statuto giuridico: sono liberi che contrattano liberamente con i loro datori di lavoro. Lo sono, invece, rispetto alla loro condizione reale perché vengono sfruttati. Ma nello stesso tempo non lo sono, anche considerando la loro condizione reale, perché lo sfruttamento in realtà fa capo a rapporti di produzione differenti. Queste tre risposte sono universalmente conosciute. Ciò che invece non è molto conosciuto è che storicamente ne è esistita una quarta: quella di coloro che, nel XVII secolo, misero a punto le categorie fondamentali dell’ideologia giuridico – politica classica. Rispetto al loro statuto giuridico, dicono del tutto in buona fede e senza alcuna malizia, non c’è alcuna differenza essenziale tra schiavi e lavoratori salariati: gli uni e gli altri contrattano liberamente con i loro padroni, e, una volta stipulato il contratto, cessano, per tutto il tempo che è in vigore, anche formalmente di essere liberi. Posizione del tutto innovativa, questa, non derivata da chissà quale tradizione: non ci troviamo di fronte ad un “residuo” concettuale del passato. Infatti il concetto che permise loro di operare questa assimilazione – ossia quello di “servitore”, ma inteso nel suo senso più esteso, frutto dell’ampliamento della categoria di “schiavo” – impiegò molto tempo ad emergere nella sua specificità. L’ampliamento del concetto di servitù

Vero è che, nell’antichità, molti autori avevano già applicato il termine “servile” riferito al lavoro manuale. Il testo cui più spesso si richiamavano… (mancano una o più pagine) …non precisato, e che, manifestamente, sono già giuridicamente in stato di dipendenza nei confronti del padrone: si può dire che si tratti qui di una delle ultime vestigia del mercenariato, o, per status, che fosse in ultima analisi qualcosa di paragonabile. Questi uomini svolgevano prestazioni in cambio di salario, erano pagati sempre con denaro sonante, e la loro libertà, forse perché venivano ingaggiati sempre e solamente alla giornata (anche se Charron di questo non dice nulla), rimaneva per l’essenziale totale. Queste tre diverse tipologie di relazione servile andavano ora a confluire all’interno di un genere comune che, essendo un concetto del tutto nuovo, non aveva ancora trovato una parola, in lingua francese, per designarlo: Charron a questo scopo nel primo dei due testi preferisce usare comunque il termine “schiavo” ma ampliandone il senso; nel secondo fa la stesso, ma impiegando il termine “servitore”. Tale seconda denominazione, nel suo equivalente inglese “servant”, verrà mantenuta per due secoli. Grozio (il “padre dei diritti dell’uomo”, così infatti viene spesso citato, e non a sproposito) assunse il compito di sbrogliare questo caos concettuale, cercando nello stesso tempo di normalizzare, a loro grande detrimento, la situazione dei mercenari. Per fare questo dovette però produrre da cima a fondo una nuova problematica giuridica. Grozio e l’auto-alienazione volontaria. Il De Jure belli ac Pacis di Grozio, pubblicato nel 1625, non tratta certo principalmente della definizione dello statuto giuridico dei lavoratori: il suo scopo è fondare un sistema di diritto pubblico valido internazionalmente, un sistema di regole che definisse a tale scopo i diritti posseduti dai sovrani, ma anche quelli detenuti gli uni nei confronti degli altri dai sudditi. Ma, nel suo tentativo di applicare al diritto pubblico le categorie del diritto privato (cosa, di per sè, che non rappresentava per nulla una novità), Grozio si trovò nella necessità di tematizzare il concetto di sovranità, allora relativamente nuovo, cosa che ,o portò a ripensare da cima a fondo i diritti detenuti

dal signore sui suoi servi. Il filo conduttore da lui seguito (che anch’esso non era una novità, per il tempo) è l’applicazione sistematica al potere, vale a dire a quanto concerne il diritto di dirigere le azioni delle persone – le nostre come quelle altrui – di quanto sancito da diritto di proprietà. Questo diritto è da lui concepito nei termini di un assoluto individualismo a carattere “volontaristico”: l’umanità è fondamentalmente un’insieme di individui che posseggono dei diritti, di cui possono fare ciò che vogliono - ivi compreso, quando la loro natura è incline a questa scelta, alienarli – , a condizione di non recare danno a quelli degli altri. Riprendendo la nozione di “facoltà” di Suarez, e facendo quindi sua la nuova definizione di diritto che essa recava con sé, in cui erano già contenuti i termini essenziali di ciò che Grozio denominerà in seguito “diritto soggettivo”, ne inverte però il rapporto con il diritto, inteso nel senso di “legge”: prima vengono i diritti, che sono la proprietà, il potere e – per derivazione – la facoltà di esigere ciò che è dovuto; e poi la legge (ivi compresa quella più importante di tutte, la legge naturale, da cui deriva l’stinto di socialità da cui sono determinati necessariamente gli uomini), che da parte sua ha un unico contenuto: l’obbligo di rispettare il diritti soggettivi degli altri. Poste queste condizioni, qualsiasi modificazione intervenuta nei rapporti di proprietà o di potere, come nei rapporti tra beneficiario e creditore, troverà la sua ragione di legittimità solo e solamente in un’unica causa: l’alienazione volontaria, tramite cui gli uomini trasmettono gli uni agli altri i rispettivi diritti soggettivi. Questa diverrà per due secoli e senza soluzione di continuità la categoria centrale di questa nuova filosofia del diritto. Cominciamo, per il ruolo paradigmatico che svolge qui, dal diritto di proprietà. I suoi termini non sono trattati immediatamente ed esplicitamente, ma trova una definizione indiretta in un passaggio consacrato alla distinzione tra estensione del diritto e la fattispecie del suo possesso. La proprietà di una cosa, come diritto generico, è data in tre modi diversi: piena proprietà (con la possibilità di alienarla), usufrutto (senza possibilità di alienarla), o usufrutto temporaneo (come nel caso del pegno o del fedecommesso, da Grozio, almeno apparentemente, assimilati appunto agli usufrutti temporanei). La proprietà è definita dunque dai termini comuni a questi tre casi, che pure li differenziano dal contenuto specifico degli altri diritti reali, tipo il diritto di servitù. La differenza infatti è evidente: il diritto di servitù ci autorizza a fare un uso determinato di una cosa, o di usarla in un certo numero, definito e specificato, di modi selezionati tra tutti gli infiniti impieghi: il “diritto di passaggio e di carreggio” su un terreno, per fare esempio. Tutti gli altri quindi sono da considerare esclusi. La proprietà, al contrario, quale che sia la sua forma, dà il diritto di impiegare una cosa in un’infinità di modi, anche se si possono prevedere delle limitazioni che potranno anche essere oggetto di variazione. Il diritto di servitù sta quindi alla proprietà come il punto sta al segmento di una retta, data una qualunque sua lunghezza. Tale diritto, all’origine, è virtualmente intrinseco alla proprietà, come il punto nella retta, può esserne separato solo se il proprietario lo preleva per accordarlo ad un altro uomo – senza comunque cedere in toto il suo titolo di proprietario, poiché mantiene sempre, nonostante che questa rinuncia restringa l’estensione del diritto posseduto sulla sua proprietà, la possibilità di usare il suo bene in tutti gli infiniti altri impieghi non compresi tra quelli di cui ha ceduto il diritto. In un caso, dunque, agisce: “fatti salvi tutti i diritti”, nell’altro: “ad eccezione di tutti i diritti”. Detto questo, si rischia però di cadere in una regressione all’infinito: ogni alienazione presuppone una precedente proprietà, e perciò gli uomini – pena l’impossibilità di divenire soggetti di diritto - devono necessariamente possedere qualcosa prima di stipulare un qualsiasi accordo, vale a dire che la dovranno possedere per natura. E in cosa potrà mai consistere questo possesso “per natura”: la loro vita e le membra del loro corpo. Ogni uomo è naturalmente proprietario della sua persona fisica. Vero è che questo non ci fa avanzare di un passo, perché questa proprietà è evidentemente inalienabile. E come si potrebbe volerla veramente alienare? È impossibile: rispetto ad essi, quindi, non ci potrà essere necessariamente che usufrutto. Anche se Grozio non lo dice, tutta la sua teoria della schiavitù si basa su questo presupposto. Per fortuna, Dio, subito dopo la creazione di Adamo, ha donato la terra al genere umano, sotto forma di proprietà indivisa. In seguito, gli uomini decisero di abbandonare questa proprietà indivisa, distribuire tra loro le cose di cui detenevano effettivamente il possesso, e lasciando le altre a coloro

che per primo le avessero occupate. Dopo di ciò, nulla poté ostacolare il pieno sviluppo della dinamica dell’alienazione. Il potere, o diritto di comandare, fa l’oggetto di una analisi del tutto simile a quella della proprietà delle cose, pur essendone radicalmente distinto. Anche in questo caso esiste un potere che gli uomini posseggono naturalmente: il potere su se stessi, o libertà. Gli uomini sono naturalmente liberi, vale a dire che posseggono naturalmente la capacità di dirigere le proprie azioni: gli uomini detengono, prima ancora che si dia la stipula di qualunque accordo, il diritto di prescrivere a se stessi un’infinità di azioni possibili, a condizione di rispettare il diritto degli altri. Tale diritto di proprietà è di tipologia molto differente da quello posseduto sulla propria persona fisica: si tratta, questa volta, di una totale e piena proprietà, di conseguenza alienabile: se non altro, lo è proprie perchè esiste effettivamente la possibilità, volendolo, di farlo. Ben lungi dal dipendere da una manchevolezza, questo è il segno che tale diritto è ancora più assoluto del precedente: l’uomo possiede la libertà assoluta di decidere di rinunciare assolutamente alla propria condizione libera proprio perché è assolutamente libero. Ma presa questa decisione, i giochi sono fatti. Non c’è modo di tornare indietro: ciò che è stato dato, non lo si può riavere indietro. Ormai è un'altra persone che ne ha il possesso, ed ora occorre rispettarne il diritto, anche se è di nuova acquisizione. Se si è deciso di alienare la proprietà detenuta sulla direzione delle proprie azioni, ogni possesso decade. Ma rispettare il diritto di colui a cui l’abbiamo ceduta, significa esattamente obbedirgli: ci si trova dunque in stato di servitù. La condizione servile può assumere diverse forme, più o meno complete, o “perfette”, a seconda di quale contenuto abbia avuto la decisione volontaria presa da colui che ha scelto di alienare la sua libertà. Un’imperfezione, dal momento che ogni limite presuppone qualcosa che lo ponga limita, si definisce a partire da ciò che è perfetto. La servitù “perfetta”, che serve da norma di riferimento per la definizione generale di “servitù”, è appunto la schiavitù: per schiavitù si intende essere obbligati a servire per tutta la vita un signore, così da ricevere in cambio nutrimento e tutte le cose necessarie alla vita. Tale condizione che non è particolarmente dura: molta gente che vive di espedienti darebbe carte false per vivere con tali sicurezze. Infatti il padrone deve innanzitutto dare nutrimento in cambio del lavoro. In più, il diritto di proprietà da lui posseduto sullo schiavo non implica alcun diritto di proprietà sulla persona fisica dello schiavo: sono infatti due cose completamente differenti: secondo il diritto naturale egli non può né ucciderlo, né maltrattarlo (se lo fa, lo schiavo avrà diritto alla fuga), né, al limite, toccarlo: può fargli fare qualsiasi cosa (eccetto, come nel caso del sovrano, quelle immorali od illecite), ma non può, a rigore, fargli niente - a meno che non sia strettamente richiesto per correggerne il comportamento. Infine, sempre secondo la prescrizione del diritto naturale, il padrone non possiede alcun diritto sui discendenti dei suoi schiavi: i genitori, salvo in caso di estrema necessità, “non possono disporre a piacimento della libertà dei figli”, dal momento che un impegno contrattuale è, di principio, assolutamente personale. Non si può fare una promessa al posto di un altro, senza che costui abbia dato preciso mandato in proposito. È vero però che i figli degli schiavi possono trovarsi legati al signore per una sorta di “pre – contratto”, o contratto implicito: “Siccome il signore ha dovuto mantenerli a lungo prima che fossero in condizione di servirlo, e che il guadagno prodotto dal lavoro da essi svolto in futuro, una volta divenuti grandi, sarà appena sufficiente a risarcirlo del mantenimento che gli assicura nel momento in cui svolgono il loro lavoro, ma non lo ripagherà di quello concesso in passato, i figli degli schiavi non dovrebbero legittimamente sottrarsi alla schiavitù senza prima aver risarcito il signore di ciò cha a lui devono”. Il diritto di proprietà non ha niente a che fare con tale risarcimento, anche se, molto probabilmente, una tale situazione è di fatto impossibile. La legittimità giuridica della servitù “perfetta”, che sancisce il diritto del padrone rispetto alla piena proprietà o all’usufrutto dei suoi servi, permette a Grozio di dare giustificazione all’istituto della monarchia assoluta, che sia basata sui patrimoni, o sull’usufrutto. I propri diritti possono essere alienati, secondo una libera scelta volontaria, certamente senza, ma anche ponendo delle restrizioni: esisteranno perciò delle forme di servitù “imperfetta” alle quali corrisponderanno, in ambito politico, altre forme di monarchia: sono quelle in cui i soggetti si impegnano solo “per un

determinato tempo, a certe condizioni, o per svolgere determinate cose”. Grozio cita qui tutti gli esempio che già conosciamo, insieme ad altri la cui importanza è minore: questa volta, però, tali esempi si trovano tutti sul versante della servitù. Se la clausola “ per un determinato tempo” è quella unicamente ritenuta valida, inciderà sulla modalità del possesso e anche sulla declinazione della proprietà, senza però che il diritto del signore ne venga limitato quanto alla sua estensione: gli schiavi ebrei, fino alla loro liberazione, erano dei veri e propri schiavi, in senso stretto. Gli apprendisti inglesi, per tutta la durata del loro apprendistato, sono sostanzialmente nella stessa condizione Allo stesso modo, i Romani si sottomettevano ai loro dittatori come a dei veri e propri monarchi assoluti, ma per un intervallo di tempo molto corto. La clausola “ a certe condizioni”, posto che sia l’unica ritenuta valida, rende conto della situazione dei: “lavoratori legati alle terre che erano loro donate” (vale a dire dei servi), e delle persone in “regime di manomorta” (istituto che era sopravvivenza della condizione di servaggio): il diritto di proprietà del signore, che si applica alla direzione delle azioni dei servitori, è gravato a sua volta di determinate servitù, a beneficio dei suoi servi. Non per questo il suo ruolo viene meno. Stessa cosa accade alla sovranità del re nel caso in cui auto limita le sue prerogative in relazione a precisi impegni presi nei confronti del popolo. La clausola limitativa: “ per determinate cose”, infine, aggiunta alle altre due, ha valore, nel migliore dei casi, per “ i mercenari o i prezzolati, vale a dire per coloro che ricevono un salario. Invece, la proprietà sulla direzione delle azioni del servo è divisa in due parti, una parte è detenuta dal padrone e l’altra da lui: nello stesso identico modo la sovranità è condivisa tra il re ed il popolo. Ma, comunque, anche in questo caso si tratta sempre di servitù. La libertà di coloor che ricevono un salario, volendo fare un confronto, è ben lungi da tutto questo, come invece vuole San Tommaso: non è perciò il piede di paragone adeguato a definire come ambiguo lo statuto degli schiavi ebrei. Viceversa la somiglianza esistente tra il lavoro salariato e la schiavitù patita dagli ebrei permette appunto di considerare coloro che cedono il proprio diritto in cambio di un salario a tutti gli effetti soggetti ad una condizione di parziale schiavitù. Che le cose stiano effettivamente così lo dimostra, per contrasto, l’analisi dell’obbligo che lega il debitore e creditore. Il debitore promette di dare o fare qualche cosa, e questa promessa lo obbliga nello stesso modo in cui l’azione di alienare la proprietà o la libertà obbliga un uomo a rispettare assolutamente il diritto acquisito da un altro in seguito alla sua volontaria concessione. Perché? Perché, risponde Grozio, promettere di dare qualcosa significa: “indirizzare una parte dei nostri beni vero l’alienazione”. Tale promessa è quindi come: “una sorta di alienazione di una parte della nostra libertà”. Solo la seconda risposta ci interessa qui, proprio per la sua importanza. Il servitore perde la sua libertà, con o senza riserve, alienando al signore il diritto di esigere tutte le infinite azioni che ha il diritto di compiere. In questo modo il signore può pretendere da lui una infinità di possibili azioni. Il servo non sa quali azioni gli verrà comandato di fare, anche se è stato concordato di quale tipo dovranno essere. Il debitore, da parte sua, aliena al creditore il diritto (che è co - originario e virtualmente intrinseco alla sua libertà) di esigere una ed una azione soltanto tra tutte quelle possibili. Tale azione è espressamente determinata in precedenza, all’atto dell’accordo, come nel caso del proprietario che concede il diritto di passaggio sul suo terreno. Tale infinitesimale concessione lascia completamente intatta la libertà del creditore. Ritroviamo quindi la stessa opposizione di prima: “fatti salvi tutti i diritti”, ed “ad eccezione di tutti i diritti”. Il diritto del padrone sui suoi servitori (schiavi, servi o salariati) sta a quello che il creditore sul debitore come la proprietà su un diritto (più o meno limitata) sta ad un diritto reale di servitù: come il segmento di retta sta al punto, o come l’infinito (più o meno grande) sta al finito. Siamo dunque agli antipodi del diritto romano e di San Tommaso: eppure, la logica giuridica che sta alla base dell’alienazione del lavoratore, del tutto impeccabile, è come di vede altrettanto implacabile.

Non è possibile invocare in questo caso alcuna clausola di annullamento. Perché un acordo sia valido, sono necessarie solamente tre condizioni: possedere effettivamente il diritto che si sta

alienando; che questo diritto sia alienabile; e che si sia voluto veramente alienarlo. Nel presente caso le prime due condizioni sono soddisfatte per definizione. In genere vale la stessa cosa anche per la terza. Quindi – dato per scontato il possesso delle proprie facoltà razionali, così da essere in grado di volere effettivamente qualcosa – esiste in ogni caso un solo vizio che, nella concessione del proprio assenso, può determinare l’annullamento dell’impegno assunto con il patto: l’errore, che sia conseguente o meno ad un dolo (cioè un inganno prodotto dal contraente), vale a dire se si evidenzia che: “colui che ha promesso ha dato la sua parola a condizioni non verificate successivamente dagli eventi”. È del tutto valido invece un impegno preso sotto la spinta della paura, al contrario: evidentemente si voleva evitare un pericolo contraendo il patto, “ e questo non solo in modo relativo, ma in un modo assoluto e senza riserve”. Certamente, questa restrizione perde ogni validità nel caso in cui si tratti di una paura ingiustificata, e non motivata secondo giustizia, provocata in prima persona dal contraente (per esempio se il servo abbia paura di morire di fame). Infatti: “Ci si trova di fronte ad una circostanza esteriore, che non rientra per nulla nelle condizioni stabilite dal contratto”. Sussistendo un dolo alla base della stipula bilaterale del contratto, il beneficiario dovrà necessariamente risarcire la vittima per ristabilire la dimensione di uguaglianza tra i valori delle cose scambiate, proprio perchè è questa che fonda le condizioni di validità stabilite dal contratto. Tale valore sarà stabilito secondo il prezzo corrente di mercato. Stessa identica cosa varrà nel caso del mercato del lavoro. Il contratto però, che il danno venga o meno risarcito, e quindi l’impegno tra le parti continuerà a sussistere. Nessuna scappatoia, dunque: i servi, mercenari compresi, devono comunque obbedire, senza discussione alcuna, ed eseguire il loro lavoro. C’è poi un’altra questione, estremamente diversa, che occorre accuratamente distinguere dalla precedente, per quanto esse vengano spesso confuse. La condizione di servitù definita contrattualmente, secondo Grozio, non è l’unica possibile. Infatti il diritto naturale prevede e legittima l’esistenza di una servitù motivata da un delitto: è legittimo asservire, senza che ci sia consenso, coloro che hanno meritato di perdere la libertà per avere commesso delle colpe. Il loro status deve però essere equiparato a quello dei servitori contrattuali, “perfetti” e “imperfetti”, a seconda dei casi. D’altra parte, però, il “diritto delle genti” – diritto non più naturale ma frutto di accordi concluse tra i popoli, o almeno tra la maggior parte di essi, e che trova puntuale verifica tramite “pratica perpetua” – prevede una ulteriore tipologia di riduzione in schiavitù, né di natura contrattuale, né delittuosa, di cui interdice la condanna. I popoli, per evitare contestazioni difficilmente componibili, convengono di accordare l’impunità – la legge naturale non prescrive infatti mai di punire un dolo - per tutti i crimini commessi dalle parti in guerra, posto che ciò avvenga nel caso di una guerra dichiarata rispettando le convenzioni formali. In conseguenza di tali accordi, è permesso ( nel senso che non è punibile) impadronirsi di qualsiasi persona presente in territorio nemico (civili, donne, bambini) e di venderla come schiava, anche se non colpevole di nulla: sarebbe stato del tutto legittimo ucciderla, e chi può il più, può anche il meno. Per la stessa ragione, ogni azione è permessa nei confronti di questo genere di schiavi: ucciderli, torturarli, mutilarli, ecc. Il loro status è quello di condannati a morte la cui esecuzione sia stata momentaneamente rinviata. Per la stessa ragione, anche i loro bambini rimarranno in condizione di schiavitù. Infatti, se la loro madre fosse stata uccisa, come era di fatto possibile e legittimo, “non sarebbero mai venuti al mondo”. Si tratta chiaramente di un’impunità legale: non siamo qui in presenza di veri e propri diritti soggettivi detenuti dai padroni. Ciò che è ingiusto resta ingiusto, solo che, per un tacito accordo che diviene norma, i sovrani hanno reciprocamente preso l’impegno di non ostacolare queste pratiche. Ma, allo steso modo, questa tipologia di schiavo non ha alcun obbligo giuridicamente definito verso il padrone: solo la forza li costringe a sottomettersi. Essi hanno perciò il diritto, in coscienza, di scappare appena ne intravedono la possibilità. Questo a meno che non subentri un patto ( e quanto sarebbero fortunati a poterlo concludere!) che li porti ad assumere lo status di schiavo per contratto e non più per costrizione. Solo in questo caso è autorizzata la schiavitù di fatto che, praticata fuori dall’Europa, d’altra parte arricchiva illecitamente i contemporanei europei di Grozio.

Hobbes, Locke, Rousseau: variazioni su una stessa problematica. Ma la teoria della schiavitù contrattuale non serve a Grozio per giustificare questo stato di fatto: in primo luogo sarebbe stata del tutto insufficiente per questo, così da sola, ed inoltre la sua funzione sarebbe stata comunque nulla, assolutamente inutile, una volta ammesso il ricorso al “diritto delle genti”. Ma essa aveva una funzione metodologica: faceva sì che si potesse pensare sotto un solo concetto giuridico (quello di: “alienazione volontaria della libertà”) tutte le forme di dipendenza: veniva codificata quindi termine assoluto rispetto al quale tutte la altre non erano che casi relativi, sussistenti solo in relazione ad essa. La validità di questa definizione abbracciava a pari titolo diritto privato e diritto pubblico: problemi e le soluzioni, in un caso o nell’altro, divenivano infatti assolutamente omologhi. Il sovrano si definiva come colui i cui comandi: “non possono essere annullati da alcuna volontà umana”. Un regime in cui la sovranità sia distribuita tra re e popolo, rimane quindi a pieno titolo una monarchia, in questo senso, senza differenze sostanziali con i regni in cui invece la sovranità, con gli attributi ad essa connessi, è esercitata dal monarca, secondo quanto concessogli dalla volontà del popolo, in termini assoluti. Ugualmente, il padrone è sovrano dei suoi servitori e tale diritto riguarda tutte le sfere di attività di ora possiede la direzione, avendogliene essi alienato il diritto – con questa sola differenza: nel momento in cui si afferma il sistema di regole ed il regime istituzionale che definisce la società civile, gli ordini del padrone possono essere annullati dal sovrano politico, ma solo ed esclusivamente da lui. L’imposizione dei limiti ad un diritto alienato non ne modifica in nessun modo il contenuto positivo. In questo senso i mercenari, rispetto alla fattispecie comprendente il lavoro da essi svolto, vanno ad avere esattamente lo stesso status degli schiavi. Vero è che, al di fuori di quella fattispecie essi possono essere detti “liberi”, ossia in relazione a quella parte di azioni alla cui direzione non hanno rinunciato, così come il proprietario di un terreno che ne abbia venduto solo la metà continua a rimanere in possesso dell’altra, se non vi rinuncia in seguito. Ma poco importano i cavilli verbali, dal momento che i principi restano la stessa: “tutti gli uomini nascono liberi”, e sia, ma rimane comunque una differenza giuridica di status fondamentale tra coloro che mantengono intatta la loro libertà, almeno rispetto ai rapporti di natura privatistica, e coloro che hanno liberamente abbandonato ad altri il potere di disposizione su un intero settore della loro esistenza, per quanto riguarda la parte rimanente, “rimangono liberi”. E il quadro definito dai principi basati sulla problematica dell’alienazione, e dall’analisi che ne consegue, non potrà che sfociare, necessariamente, in quelle soluzioni. Tale problematica, come è noto, sarà assunta tale e quale da tutti i grandi filosofi del contratto sociale: Hobbes, Locke, e Rousseau. Di primo acchitto, sembra che questi tre autori abbiano posizioni molto differenti rispetto al problema della servitù: Hobbes, per esempio, pare accordare al padrone un potere assoluto e perpetuo sui suoi servitori e su tutti i loro discendenti. Invece, Locke sembra condannare la schiavitù, e Rousseau considerare il lavoro salariato uno scandalo contro natura. In realtà, le loro divergenze sono molto meno rilevanti di quello che appare a prima vista. In particolar modo, esse non concernono che le restrizioni del diritto di disposizione, il cui contenuto positivo mantiene le stesse identiche connotazioni: “fatto salvo…”: la questione è unicamente sapere: “fatto salvo cosa” si ha disposizione su qualcun’altro. Tutti e tre, del resto, Hobbes compreso, ammettono la necessità di un limite, senza il quale si ricadrebbe nella fattispecie della schiavitù assoluta descritta nel “diritto delle genti” di Grozio – la cui teoria, tra l’altro, gli serve come riferimento polemico e viene da esse molto criticata. Credendo di opporsi al giureconsulto olandese ed alle teorie ad essi precedenti, concordano sul fatto che nella schiavitù assoluta non ci sia nulla di riferibile ad un accordo contrattuale, ossia che essa non è altro che la continuazione dello stato di guerra, e che quindi non si stabilisca alcun rapporto riferibile al diritto acquisito dal padrone sul servitore. Ma tali differenze, sono, a conti fatti, del tutto estrinseche al nucleo del problema. Mentre Grozio, giurista puro, considerava qualsiasi regime politico come legittimo, posto che i soggetti del

contratto avessero concesso senza ambiguità alcuna il loro assenso alla sua istaurazione, lo scopo dei tre filosofi della politica era invece quello negare la legittimità di alcune forme di sovranità. Gli era necessario dunque arrivare a dimostrare che gli uomini, concludendo un contratto sociale, non potevano effettivamente volere quella determinata soluzione, ossia, se credevano in buona fede di desiderarla, che si sbagliavano sulle loro proprie intenzioni. Questo comportava il ricorso ad un’antropologia filosofica che aveva la funzione di definire: lo stato di natura e quanto da esso implicato; le esigenze fondamentali in nome delle quali gli uomini avevano voluto uscirne; e le condizioni alle quali, tenuto conto del tipo di relazioni che caratterizza lo stato di natura, tali esigenze potevano trovare soddisfazione. Tutto ciò permetteva di escludere, per una sorta di logica psicanalitica basata sull’ assunto: “chi vuole il fine deve volere implicitamente anche i mezzi”, ogni soluzione che contraddicesse i fini che i contraenti volevano in realtà e necessariamente perseguire, e che quindi permetteva di prenderle di mira quando saltavano fuori. Chiaramente tutto ha una sua necessaria ricaduta sul contratto di servitù: gli uomini per natura non possono volere una certa cosa, ma devono volerne per forza un’altra: questo assunto, universale e necessario, ha la sua validità sotto ogni condizione. Questa acquisizione, che va a circoscrivere e limitare l’estensione concettuale del patto, accomuna tutti questi autori. Ma non è essa che determina le reali differenze tra di loro: viene infatti fatta intervenire in un contesto estremamente differente da quello in relazione a cui era stata concepita. È più che altro un espediente polemico necessario per la coerenza interna delle concezioni che propongono, e non è su di essa che si giocano le reali opposizioni, che riguardano ben altri nodi.

Hobbes, in relazione all’antropologia filosofica che ha elaborato, stabilisce un rapporto di mezzi a fine tra le due tipologie di diritti naturali soggettivi citati di Grozio. Dal momento che l’istinto di conservazione è il motivo ultimo, senza eccezione alcuna, di tutte le azioni umane, la proprietà della nostra persona fisica viene posta a fondamento di tutti gli altri diritti. Diviene così chiaro il motivo per cui essa è inalienabile. La libertà è un diritto naturale solo a titolo di mezzo: serve ad assicurare la sopravivenza biologica, permettendo di effettuare le scelte giudicate più opportune. È possibile alienarla totalmente se lo si ritiene necessario a questo scopo. Occorre anche distinguere, per evitare che i mezzi vadano a inficiare il fine, tra “libertà corporea” e “libertà giuridica”: l’inalienabile diritto all’auto conservazione implica il diritto di resistenza, legittimamente esercitabile non solamente nei confronti chiunque voglia ucciderci, ma anche contro chiunque voglia incatenarci o imprigionarci. Infatti, un carceriere assume tutti i mezzi per mettere a morte a piacimento la sua vittima: impossibile, di conseguenza, rinunciare a quest’ultimo diritto. Di contro, nulla impedisce di rimettere la disposizione sulle proprie azioni ad un uomo che salvaguardi il diritto individuale a dirigere il proprio corpo. Nello stato di natura - stato di guerra permanente in cui tutto la lotta per la sopravvivenza rende legittima ogni azione – se un uomo diviene padrone assoluto della vita di un altro (in caso d vittoria in combattimento, ad esempio), assume la facoltà, a meno che non lo uccida subito come pure avrebbe il diritto di fare, di sottometterlo al suo potere, ed in due diversi modi: ne può fare il suo schiavo (“slave”, nel testo inglese de Il Leviatano, termine che non ha equivalente nel testo latino), incatenarlo e farlo lavorare sotto la minaccia della sferza. Questa non è però una situazione giuridicamente regolata: lo schiavo, come dice il “diritto delle genti” di Grozio, resta in stato di guerra con il suo padrone, e non ha nessun obbligo nei suoi confronti. Conserva ad esempio il diritto di fuggire appena gli se ne prospetta la possibilità; oppure, secondo caso, il vincitore rende la libertà fisica al vinto e lo rende suo “servitore” (“servant”, in inglese, ma “servus” in latino) mediante l’imposizione di un patto: il diritto di uccidere il perdente all’istante, o di lasciarlo morire, è posto dal vincitore come oggetto di un negoziato, la cui posta è l’alienazione totale della libertà giuridica del poveretto che è dovuto soccombere. Il padrone, da parte sua, assolve quanto dovuto secondo i termini dell’accordo a solo lasciando in vita la vittima e liberandola dai ferri: non ha alcun altro impegno. Egli conserva perciò tutti i diritti che possedeva prima, compreso quello di uccidere o incatenare il servo: ciò che cambia, è che ora costui potrà resistergli. Tale diritto acquisito dal padrone si estende in teoria anche alle

persone dei discendenti del servitore, nessuno escluso. Infatti i figli fin dalla nascita sono sottomessi alla autorità assoluta dei genitori che li nutrono, cosa prescritta da una specie di tacito contratto. Il patto che intercorre tra padrone e servo è del tutto legittimo: nulla è più volontario di una decisione presa sotto tema della morte. Tale paura non ha niente che vada contro giustizia poiché nello stato di natura: “ nulla può essere ingiusto”. Che i termini del contratto stiano necessariamente in questi termini si deduce direttamente dalla natura umana: ciò che vuole a tutti i costi chi si trovi in pericolo di morte è salvarsi, a qualunque prezzo, e ciò che vuole necessariamente chi si trovi in posizione di forza è profittare al massimo del suo vantaggio, anche se sia l’uno che l’altro non posseggano alcuna consapevolezza di cosa ciò vada ad implicare. Ecco perché: “ogni uomo prometterà obbedienza a colui che ha il potere di salvarlo o di perderlo”. Questo è il termine assoluto che e farà da riferimento e da modello esemplare per tutte le altre forme, relative, di servitù. Termine assoluto sotto certi aspetti in misura ben maggiore di quanto accada in Grozio, si potrebbe dire: ed invece no, in realtà. L’impressione è dovuta al fatto che questa concezione del contratto di servitù serve, trasposta sul piano politico, a porre i presupposti fondamentale della modalità di costituzione della sovranità denominata: “Commonwealth” “acquisito”, che è una delle due conosciute. Un suddito, se pure conserva il diritto di resistere ad un sovrano che vuole imprigionarlo o metterlo a morte, non è assolutamente in grado di usufruirne: ma nell’ambito di rapporti di natura privatistica questo diritto ha una sua precisa ragione di validità ed efficacia: il padrone ha il diritto di uccidere o maltrattare il servitore, ma, se mostra la reale intenzione di farlo, il servitore è sciolto da ogni obbligo nei suoi confronti. Nello stato di natura non mancheranno certo i mezzi per riprendersi la propria libertà (come d’altra parte non ne mancherebbero a coloro che volessero impedire ad sovrano di ucciderli). E ancora: la possibilità d’emancipazione, giuridicamente definita, interviene in tutti i casi in cui la vita del servitore è minacciata e che il padrone non abbia i mezzi per assicurarne la conservazione, qualunque sia la natura del pericolo. Questa situazione è sempre e universalmente presente allo stato di natura: ciò esclude che in pratica escluso che la condizione di sottomissione dei genitori ricada sui figli. Per tutt’altri motivi, queste duplici clausole ragioni a garanzia del servo rimangono valide, per principio, anche nella società civile: infatti la legge naturale è il fondamento intrinseco della sovranità ed essa autorizza e legittima ogni uomo a salvaguardare e proteggere la sua vita. Un giudice che non la contemplasse nelle sue sentenze commetterebbe un “grave oltraggio” proprio nei confronti il sovrano. D’altra parte, il possesso di un numero eccessivo di servitori da parte di un unico padrone è di per sé pericoloso per lo stato e quindi da considerare illecito. La trasmissione ereditaria della condizione servile non può essere assunta di per sè, almeno in teoria. La servitù assoluta, quindi, se considerata dal punto di vista degli obblighi del servitore, non ha applicazione maggiore di quella prevista dalla fattispecie di cui parla Grozio con la categoria di “schiavitù perfetta”. Le servitù relative si distinguono per i limiti che il sovrano può imporre a tale istituto senza mutarne la natura. Il capo famiglia – perché tutti i servitori ora fanno capo all’istituzione familiare come, che a sua volta tradizionalmente comprendeva gli schiavi ed i servi – : “obbliga i suoi figli ed i suoi servitori secondo il dettato della legge, e non oltre”. E questo perché: “l’autorità del padre e della madre, essendo, prima dell’istituzione della Repubblica i sovrani assoluti dei loro familiari, può essere limitata solo nella misura stabilita e posta dalla Repubblica gli toglie, e nulla più”. Il modo in cui ciò accade viene precisato in un altro passaggio. Uno dei ruoli posseduti dal sovrano è: “fissare la maniera in cui dovranno essere stipulate tutte le fattispecie di contratto”, ivi compresi i contratti di lavoro. Di conseguenza, per quanto concerne i salariati: “i loro padroni non hanno diritto che al servizio stabilito dall’accordo sottoscritto tra padrone e servo”. Ma, poiché un uomo assume un impegno di servitù per paura di morire di fame, e poiché, ugualmente, lo stato civile non incide per nulla sulle motivazioni profonde delle controparti padronali, di coloro che godono di tale impegno, il ì contratto dovrà prevedere che l’alienazione di libertà avvenga nei limiti stabiliti dalla legge – che non vanno a superare quel margine superiore indicato da Grozio.

Ora la posizione di Locke, a parte il diverso vocabolario, non cambia di una virgola. Anche per lui, essendo l’auto conservazione il fondamento di tutti i diritti ed il primo di tutti i doveri, la proprietà della ì persona fisica è inalienabile: la libertà è un diritto naturale in quanto mezzo per ottenere l’auto conservazione. La libertà è “il baluardo” de “ la mia sicurezza”, ed è legittimo rinunciarvi solo e solamente se la possibilità di salvaguardare la propria persona andrà ad aumentare. È vero però che Locke compì una determinante innovazione che riguardava un punto capitale: la proprietà della persona fisica, attraverso l’intermediazione del lavoro (il nostro, o quello dei nostri servitori), si estende alla proprietà privata delle cose, fino ad inglobarla in essa. Tale estensione della proprietà è assolutamente concepibile fin dallo stato di natura: essa è allora un nuovo diritto naturale da salvaguardare. La libertà, poste tali condizioni, è dunque il mezzo per garantire questa seconda tipologia di proprietà quanto la prima: coloro che la conservano integralmente: “regolano le loro azioni e dipongono della loro persona e dei loro beni secondo i propri intendimenti”, essendo questi rappresentano il fine cui essa necessariamente tende. La sua alienazione è possibile solo nella misura in cui con tale atto venga salvaguardata, non solo, come in Hobbes, l’integrità fisica, ma anche il potere di disporre dei propri beni. Ciò che ne consegue sul piano politico, come sappiamo, è quanto di più anti hobbesiano si possa concepire: ogni assolutismo viene rigettato, in particolare con l’argomento che i proprietari hanno diritto a non pagare altre imposte oltre a quelle che hanno pattuito. Se ci si sposta su un piano privatistico, è evidente che tutto questo non concerne i servitori: coloro che non possiedono nulla non possono salvaguardare che la proprietà della loro persona fisica, null’altro. Perciò, le condizioni di validità dell’alienazione di libertà alla fine saranno, a rigor di logica, più o meno quelle indicate da Hobbes. Anche il srvo di Locke teme di morire di fame. Ricerca perciò, proprio come quello di Hobbes – anche se i caratteri che quest’ultimo gli assegna sono sostanzialmente differenti - , di ottenere il massimo di sicurezza possibile dall’accordo che stipula con il padrone: in questo senso, anche il livello di alienazione sarà altissimo, se pure all’interno di questi limiti. Questo è quello che dice Locke, e certo non va proprio nel senso definito dalla tipologia contrattuale di schiavitù, tutt’altro. Che significato ha infatti: “schiavitù”, in realtà? Il fatto, per un uomo: “di dare ad un altro uomo l’assoluto ed arbitrario potere di togliergli la vita quando vuole”, non esercitando il diritto di difendersi. La contrarietà che Locke mostra nei confronti di questa tipologia di sottomissione si spiega dunque con la convinzione, presente per altro anche in Grozio ed Hobbes, che sia assolutamente impossibile che un uomo voglia sottoscrivere un contratto in cui sarebbe ridotto alla condizione di schiavo descritta dal “diritto delle genti”: tale condizione, ripete Locke sulla scorta di Grozio ed Hobbes (anche se era convinto di dire cose di senso del tutto contrario della loro teoria), non è che la continuazione dello stato di guerra. Non è perciò assimilabile ad uno stato di diritto. Non che Locke condanni per principio tale condizione, ma secondo lui vi può essere ridotto solo colui che: “ abbia perduto il diritto di esistere commettendo un grave crimine, e perciò meriti la morte”. Solo un uomo che si sia macchiato della più grave delle colpe, solo per aver commesso un terribile delitto, come dice Grozio, può essere condannato a subire lo status di schiavo descritto dal diritto delle genti: e tale condizione può essere applicata solo individualmente, in questo caso specifico. Poi, dopo aver parato della sua opposizione alla schiavitù, Locke aggiunge: “devo confessare che presso gli Ebrei, ma anche in altre nazioni, occorre constatare l’esistenza di uomini che si vendevano volontariamente”. Ma, precisa: “ è chiaro che ciò accadeva solo per l’esecuzione dei lavori più pesanti. Essi perciò non possono essere dunque considerati schiavi”. Perché? Per due evidenti ragioni: perché il carattere temporaneo che aveva la loro condizione di servitù prova che essi non avevano accordato al padrone il diritto di ucciderli (bisogna essere vivi per poter essere affrancati); inoltre, se il padrone gli avesse inflitto una mutilazione, di qualunque tipo ed entità, questo li avrebbe automaticamente sciolti dall’accordo. Locke è quindi del tutto d’accordo con Grozio: lo status degli schiavi ebrei è legittimo. Essi “si vendevano per loro spontanea volontà”, vale a dire alienavano volontariamente la loro libertà. Dal momento che non alienavano la loro persona fisica, ciò che essi effettivamente alienavano doveva quindi essere – tolta tale condizione sarebbe stato impossibile “vendersi spontaneamente” – la

proprietà sulla direzione delle proprie azioni: la loro libertà, appunto. Locke, contrariamente a Grozio, si rifiuta categoricamente, non fosse altro perché non scriveva in latino, di denominare “schiavi” gli uomini che in condizione di servitù. E invece Hobbes si rifiutava di chiamarli così in inglese, mentre poi usava il termine “schiavo” quando scriveva in latino! La categoria impiegata da Locke in opposizione a quello di “schiavo”è: “uomo che si è gravato di un impegno solo in riferimento a lavori pesanti” – la quale era applicata anche nel caso dei “mercenari” – così, tutti coloro che alienano la propria libertà, salariati compresi, sono considerati da lui, senza eccezione alcuna, servitori. Ma aggiunge, almeno così pare, anche se forse era logicamente implicito per tutto ciò che aveva detto prima (se l’obbligo di affrancare il servo comporta di per sé la proibizione di ucciderlo, non vale però l’inverso), che la servitù, proprio per ottenere un maggior grado di sicurezza, cioè il pieno riconoscimento del diritto del servitore all’integrità fisica, non deve mai essere perpetua. Ecco quindi come scaturisce la definitiva definizione di “stato servile”, che Locke dà più avanti: l’accordo sottoscritto dal servitore ha l’effetto di: “introdurlo come membro ordinario della famiglia del suo padrone, sottomettendolo alla disciplina abituale di quella”. Il padrone avrà perciò su di lui un: “potere temporaneo, limitato dalle condizioni stabilite dal contratto”. In fin dei conti, quindi, il risultato è pressappoco quello cui era giunto Hobbes. Le cose non cambiano anche in Rousseau, per quanto il suo discorso assuma connotati molto differenti. Rousseau accentua ancor di più i limiti cui è soggetta la servitù, li amplia al massimo rendendoli ancora più stringenti: ma ne pensa ancora il contenuto, ed in modo per certi versi ancor più radicale dei suoi predecessori, sotto la categoria di “alienazione”. Pur considerando l’alienazione, di cui analizza i significati giuridici, una vera e propria “snaturazione” in termini antropologici, ne ammette in toto la legittimità, non considerando i suoi ineluttabili effetti al di fuori di quanto stabilito dal diritto. Ecco perchè le sue tesi assumono un duplice aspetto. Nel capitolo IV del Contratto Sociale, Rousseau critica il contratto di schiavitù, ritorcendo contro Grozio le cinque clausole di annullamento e le due condizioni d’invalidamento che aveva previsto per tutte le tipologie di contratto. Volendo rigettare la legittimità della trasformazione del contratto privatistico di schiavitù (ammesso per ipotesi in via del tutto provvisoria) in contratto di sottomissione politica, Rousseau invoca: la lesione, compensabile mediante pura e semplice risarcimento (“ si dirà che il despota…i loro dissidi”); l’errore, come è evidente nel caso del contratto di sottomissione “ferina (“ cosa guadagnano essi…ad essere divorati”); l’incapacità conseguente a follia (“dire che un uomo…non fa diritto”); la promessa fatta per conto di un altro senza esplicito mandato (“quando ciascuno potrà…non sarà più arbitrario”). In seguito, per opporsi al contratto di schiavitù propriamente detto Rousseau invoca: la lesione, ma quella per la quale non c’è, stavolta, “nessun risarcimento possibile” al di fuori della restituzione (”rinunciare alla propria libertà…chiunque rinuncerebbe a tutto”); il carattere inalienabile della libertà (“una tale rinuncia è incompatibile con la natura dell’uomo”); il carattere eventualmente immorale o illecito di ciò a cui lo schiavo s’impegna promettendo di obbedire a tutto ciò che gli verrà ordinato (”è togliere ogni moralità…alla sua volontà”); l’errore, di nuovo, evidente nell’accordo logicamente contraddittorio secondo cui uno dei contraenti, impegnandosi a fare qualsiasi cosa, nello stesso tempo rinunci a pretendere quanto potrebbe e dovrebbe ricevere dall’altro (“infine, è un accordo…che non ha alcun senso?”). Tutta la seconda metà del capitolo è consacrata, in riferimento alla schiavitù dei prigionieri di guerra e del diritto di conquista, alla paura non motivata secondo giustizia (come: “Grozio e gli altri”, alla fine). Per quanto concerne il contratto di schiavitù di natura strettamente privatistica, astrazion fatta della questione della schiavitù di guerra che non è possibile affrontare qui, tutti questi argomenti, eccetto forse uno, sono diretti contro una forma di schiavitù contrattualmente definita che nessuno ha mai avuto in realtà l’intenzione di difendere: quella in cui lo schiavo abbandonerebbe la totalità del suo diritto senza pretendere alcuna, benché minima, cosa in cambio. Ciò fa che dimostrare ulteriormente come non sia legittimo sottomettere qualcuno, in seguito alla stipula di contratto, alla tipologia di schiavitù definita dal “diritto delle genti”. L’unica eccezione concerne il carattere inalienabile della libertà.

La libertà sembra coincidere in tutto e per tutto con la conservazione di sé, nello stato di natura, ed appare perciò inalienabile. Invece non è per nulla un semplice mezzo al servizio dell’auto conservazione, ma, all’interno dello stato di totale trasparenza, di completa fusione con se stesso in cui l’uomo si trova immerso nella pienezza del suo essere naturale, non sussiste alcuna distinzione tra libertà ed autoconservazione. L’uomo conserva sempre un’invincibile nostalgia di questa condizione primigenia, ma è necessario in ogni caso alienarla perché l’uomo fuoriesca dallo stato di natura. Quindi, l’uomo deve allontanarsi dallo stato di natura a titolo definitivo, ma questo comporterà che, ad eccezione di quei luoghi, assolutamente fortunati in questo senso, in cui le leggi avranno efficacemente prevenuto l’insorgenza della disuguaglianza, la costituzione della civiltà comporterà l’esistenza di poveri che non avranno altra risorsa che “vendersi” per sopravvivere, senza avere la benché minima speranza, o possibilità, di ottenere qualcosa in cambio da coloro a cui si vendono, cioè ai possessori di beni. Come si potrà possibile, di conseguenza, alienare la propria libertà senza però giungere ad alienarla in questi termini? È ben nota la soluzione proposta, sul piano politico, da Rousseau. Tale soluzione lo l’oppone a Hobbes ed a Locke: è assolutamente necessario alienare completamente la propria libertà, ma: “ a tutta la comunità e ad essa sola”. Di contro, spostandosi su un livello strettamente privatistico, che significherà questo per i poveri? Quale proprietà potranno mettere in comune, se non ne posseggono nessuna? Dovranno necessariamente alienare la propria libertà, in tutto e per tutto, a qualcuno, che sia: “abbastanza ricco da poter acquistare una persona”. Per quanto disumano, corruttore e fonte di degenerazione sia questo per la città, non ci si può fare nulla. Non si può fare altro che limitare i danni: l’alienazione della propria libertà rientrerà nelle pratiche giuridicamente legittime, non potrà essere diversamente poiché non è possibile evitare il contrario, ma si dovrà assicurare che essa sia meno alienante possibile. Ogni servo potrà mettervi fine quando vorrà o potrà. Ecco quindi la “brillante” soluzione di Rousseau, il cui beneficio è risibile in rapporto alle enormi conseguenze che scatenerebbe in altri contesti. Essa non si distingue in nulla da quella di Locke, fatto salvo la clausola della rescindibilità: i servitori, sottomessi alla disciplina della “famiglia”, devono al padrone: “i loro servizi in cambio del mantenimento. Salvo rompere l’accordo nel momento in cui non gli conviene più”. Quindi, finché mantengono questo accordo, essi non godono più dello status di uomini interamente liberi. Un fossato insuperabile li separa da coloro che, avendo conservato intatta la prerogativa di vivere i rapporti interindividuali in piena e totale libertà, obbediscono solo ed esclusivamente alla legge comune: “In una Repubblica, i cittadini vengono retti e disciplinati attraverso i costumi, i principi e le virtù. Ma come tenere a freno i domestici, i mercenari, se non ci fossero necessità e bisogno?”. Tutt’al più si può cercare di fa sì che non si rendano conto della loro condizione, dissimulandola in qualche modo ai loro occhi: “Tutta l’arte del padrone sta nel nascondere tale misera condizione sotto i veli del piacere e dell’interesse, così che essi possano credere di volere ciò che invece li si obbliga a fare”. I padroni non hanno in effetti la benché minima difficoltà, o scrupolo, ad applicare questo consiglio. E invece: “No!”, verrà ben presto urlato con forza contro di loro, i lavoratori non alienano la loro libertà: il contratto di lavoro deve essere un contratto come tutti gli altri. Ma i “gloriosi padri”, da parte loro, con ammirevole costanza avevano detto e ribadito senza mezzi termini questo terribile principio: esistono, alla fine, uomini di due tipi diversi.

Donne e servitù nella democrazia spinozista. Non è significativo, dicono alcuni, che il Trattato politico si interrompa proprio al capitolo XI? Sembra proprio che, vinto dalle aporie inestricabili di una teoria che in fondo non era altro che un inconseguente democraticismo, Spinoza non avesse saputo essere all’altezza dell’obiettivo che si era posto. E, di fatto, si è apparentemente in presenza, se non di una contraddizione, almeno di un paradosso. Nella monarchia ideale spinoziana, il consiglio del re doveva essere costituito da rappresentanti provenienti da ogni categoria di cittadini, ma con una precisazione: alcuni tra loro, senza motivo apparente, non potevano far parte del corpo civico. Oltre agli stranieri, ai pregiudicati, ai muti ed ai folli, erano esclusi da esso anche i servitori et similia. Anche nell’aristocrazia ideale, e di nuovo senza portare la minima motivazione, le categorie di cittadini privati del diritto di porre la loro candidatura per l’assunzione all’assemblea patrizia erano le stesse. Probabilmente i muti ed i folli non sono più menzionati da Spinoza perché gli passò di mente di occuparsene: senza dubbio per semplice dimenticanza. Ma ecco la democrazia ideale: Spinoza ci dice che la analizzerà nella sua forma più estesa ed assoluta, ma la prima, e sola, cosa che afferma in termini espliciti è che anche in essa i soggetti esclusi sono gli stessi delle altre due forme di stato. Con una differenza: vi si aggiungono le donne e dei bambini. Occorre comunque dire che la loro discriminazione era evidentemente prevista anche negli altri due regimi, per quanto non nominata esplicitamente. Spinoza però questa volta sembra disposto a spiegare le ragioni di questa esclusione, come in effetti fa, anche dilungandosi: le donne sono il suo oggetto. Queste motivazioni in verità sembrano di primo acchitto così deboli, così banali, di un empirismo e di un conformismo così inastabile da sembrare del tutto estranee a quella dottrina che avevamo conosciuto come sua, e all’ispirazione che la anima. Forse è per questo, per cattiva coscienza, che ha così tanto tardato a fornircele? Forse, allora, il vero motivo che ha precluso gli ulteriori sviluppi della teoria spinoziana potrebbe essere stata la cattiva influenza di queste idee così povere: il sentimento confuso di una irriducibile discordanza tra i principi e tutto ciò che a rigore se ne poteva dedurre e quanto invece proveniva da questi discorsi extra filosofici dall’esito obbligato. La questione è forse banale, e molti lettori di Spinoza non se ne fanno certo un problema, continuando a studiarlo come se queste espressioni non esistessero: almeno, così forse pensano, Spinoza ha avuto il buon senso e l’onesta intellettuale di fermarsi, chiudendo lì la faccenda. Forse. Ma forse bisognerebbe aspettare prima di dare giudizi affrettati. Sarebbe meglio, per capire cosa sia e cosa non sia implicato dai principi ispiratori della sua politica, cercare di istallarsi nella prospettiva attraverso cui Spinoza guardava le cose. Che la concezione e anche la politica di Spinoza posseggano un senso specifico, caratterizzato da un’ispirazione profondamente democratica, non è contestabile in nessun modo. Ma la questione sta appunto tutta qui: definire tale senso specifico. Spinoza, cadendo in una sorta di qualunquismo, ammette e giustifica certi “pregiudizi”, la cui funzione ideologica è del tutto evidente: è un fatto che non si può negare in nessun modo. Ma motiva le sue convinzioni portando delle specifiche ragioni, esponendole alla luce del sole: sono queste motivazioni, perciò, che bisognerà innanzitutto esaminare con estremo rigore, prendendole molto sul serio, senza partire cioè dal presupposto di una loro totale inconsistenza teorica, cadendo nel preconcetto che la sfondo pragmatico da cui prendono le mosse sia già chiaro e definito. E se queste ragioni, dopo averle esaminate, si rivelassero invece pienamente affini all’autentica ispirazione di Spinoza ed alla sua concezione teorica? Se anch’essi riflettessero quella tensione democratica, così profonda e così peculiare, attestata dagli altri passaggi della sua opera? Se anch’essi contribuissero, a loro volta, a darci ulteriori chiarimenti sul suo significato? Se fosse così, verrebbe meno ogni paradosso sparirebbe. Rimane certo il fastidio, l’insofferenza di Spinoza verso queste categorie di persone: traspare in modo troppo evidente dalla sua penna del filosofo e non può essere cancellata con un tocco di bacchetta magica. Ma almeno le sue reali motivazioni sarebbero diverse dal pregiudizio. I bambini, i pregiudicati, i folli e gli stranieri non rappresentano un grosso problema, per sbrogliare questa matassa: il motivo della loro esclusione è evidente. Ammettiamo, se si vuole, che

l’esclusione dei muti sia futile: senza dubbio Spinoza li considerava dei “poveri di spirito”. Restano le donne ed i servi: rispetto ad essi la questione, e la posta in gioco che reca con sè, ha ben altra consistenza: messi insieme, tali due categorie costituiscono la maggioranza della popolazione autoctona ed adulta “normale” presente in qualsiasi Stato. Cominciamo a palare dei secondi. Il loro caso è teoricamente più semplice, anche identificarne i termini pone diversi problemi.

* Spieghiamo, innanzitutto, in che senso è impiegato il termine “servo”. La parola presente nel capitolo XI del Trattato politico è “servos”. Ma “servus”, nel XVII secolo, può assumere una vasta gamma di significati: può designare indifferentemente schiavi e servi, ma, oltre questo, indica anche altre categorie di persone. Hobbes l’utilizza nella versione latina de Il Leviatano per rendere l’inglese “servant”, da lui nettamente distinto da “slave”, anche se peraltro di quest’ultimo termine non indica qui alcuno specifico equivalente latino. Nel De Cive il rapporto tra i due termini è mostrata in modo più preciso: i servi costituivano il genere di cui gli “ergastuli” (la cui definizione corrisponde esattamente a quella degli “slaves” de Il Leviatano) erano solamente la specie. Questa distinzione era poi posta a confronto con quella operata dalla lingua francese tra: “Un serviteur, et un serf, vel uno enclave”. Grozio, dal canto suo - per citare un altro autore ben conosciuto da Spinoza – ha la tendenza di raccogliere sotto una medesima rubrica tutte le forme possibili di “servitù”: alla “servitù perfetta”, istituto che caratterizza il regime di schiavitù definito dalla consuetudine romana (opposta peraltro alla condizione di “ persona che vive alla giornata”, libera ma al prezzo di un avvenire del tutto incerto), Grozio aggiunge la “servitù imperfetta”, condizione alla quale assimila, nell’ordine: la settennale schiavitù degli ebrei, la situazione “dei lavoratori legati alle terre loro donate”, le “persone in regime di manomorta” e “i mercenari o prezzolati”. Di quest’ultimo gruppo, precisa, fanno parte anche gli apprendisti inglesi, che durante il periodo del loro apprendistato, non differiscono affatto dagli schiavi propriamente detti. Questo dimostra appunto la fluidità delle transazioni. Locke vedrà invece un insormontabile distinzione tra queste due tipologie di dipendenza. I “borghesi” della fine del secolo cominciavano infatti a pensare che lo status di impiegato non mettesse in gioco l’integrità delle libertà civili. Diversamente, i borghesi delle generazioni precedenti immaginavano con un certo orgoglio, almeno così sembra, cha la relazione che instauravano con i loro servi fosse di tipo signorile, anche perché la cultura latina di cui erano imbevuti non li aiutava a distinguerla da un rapporto tra padrone e schiavo. Tenuto conto di questo contesto, nulla impedisce di dare al “servos” usato da Spinoza la stessa estensione di significato del “servants” di Hobbes. Possiamo anche pensare che vi sia compreso quanto implicato dall’una o dall’altra delle “servitù” citate da Grozio – vale a dire di assegnargli i significati cui allude il termine francese “serviteur”. Ma non c’è neanche nulla che spinga a compiere queste assimilazioni, in effetti. Certo. Vediamo però la terminologia utilizzata da Spinoza in due capitoli consacrati all’analisi della monarchia ed dell’aristocrazia. Tra gli adulti autoctoni, sani di spirito, “onesti” e di sesso maschile esistono due tipologie di individui che non godono di diritti civili, ossia che sono privati della possibilità di partecipare alla amministrazione del potere. La prima è quella che nel capitolo VI è designata con il termine “famuli”, il cui significato può essere, senza alcuna contestazione, accostato a quello di “servitori”. Tale parola è abbastanza spesso seguita dalla qualificazione “domestici”, senza però richiamare necessariamente la condizione di schiavitù: lo statuto giuridico di schiavo non vi è necessariamente implicato. A questa espressione nel capitolo VIII si sostituisce quella: “qui…serviunt”, che può indicare tanto la “servitù” in generale quanto la schiavitù in particolare. La seconda tipologia citata è qualificata, nei capitoli in questione, esattamente allo stesso modo: essa comprende tutti coloro che: “servili aliquo ufficio vitam sustentant”. Il capitolo VI, a dire il

vero, potrebbe a rigore far pensare ad una semplice illustrazione di “famuli”, ma, nel capitolo VIII, la parola “denique” chiarisce ogni dubbio: si tratta di ancora un altro gruppo, composto di individui che, pur non potendo assolutamente dire che “servono”, nondimeno vivono di un impiego “servile”. Quale? Purtroppo, qui si è verificato un piccolo errore di disattenzione. Esso è passato pari pari attraverso generazioni e generazioni di traduttori. Da questa traduzione sembra che Spinoza nel paragrafo 14 del capitolo VIII dica che i venditori di vino e di birra (“enopolae et cerevisarii”) farebbero parte di questa seconda categoria. Come mai? Perché questo passo è stato letto alla luce di un preconcetto, ossia sotto l’influenza di una precisa interpretazione: si è dato per scontato che Spinoza alla maniera aristotelica intenda per: “servili aliquo officio” ogni occupazione la cui “bassezza” impedisca a coloro che la esercitano di accedere alle virtù, ed in particolar modo a quelle relative alle qualità che un cittadino deve necessariamente possedere. Sulla base di questo presupposto se ne conclude logicamente che coloro che vivono sfruttando un vizio non possano in nessun caso possedere queste qualità morali e civiche. Fatto sta che il testo latino, senza che sussista il minimo dubbio, dice esattamente il contrario. Spinoza ha appena detto che l’ereditarietà di diritto della condizione di patrizio è un istituto incompatibile con la forma aristocratica di governo: in essa, infatti, è l’assemblea suprema che deve eleggere in piena sovranità i suoi propri membri. Certamente non esiste alcun modo per impedire ai patrizi di cooptare i loro figli o parenti. Ma aggiunge a questo proposito che il regime non conserverebbe la sua natura se questo stato di fatto non fosse sancito e reso ufficiale da una legge, con l’esplicita riserva che il resto della popolazione (“reliqui”) debba rimanere esclusa da tale privilegio. Una lunga parentesi indica nello stesso tempo cosa si deve intendere esattamente con questo: “reliqui”. Potranno porre la loro candidatura all’assemblea coloro, e solo coloro, che sono nati in un certo paese, ne parlano la lingua, non sono sposati a stranieri, hanno mantenuto intatto l’onore (“macchiati di qualche delitto”, aggiunge in VI, 11), non “servono”, ed infine (“denique”) non vivono di una occupazione servile. E Spinoza continua senza soluzione di continuità: “…E tra quelli da non escludere vanno compresi anche i venditori di vino e di birra”. Le cose sono chiare: venditori di vino e di birra (“Si, anche loro”, sembra voler dire Spinoza) figurano anch’essi tra coloro che posseggono le prerogative richieste dal patriziato e ne soddisfano le condizioni. Anche loro, qualsiasi cosa si possa pensare del carattere “moralmente” dubbio della loro professione, devono essere annoverati tra coloro che non vivono di un impiego servile. Se Spinoza ha sentito il bisogno di precisarlo, non sarà forse perché l’espressione: “servili aliquo officio” non ha per lui alcuna connotazione morale? Ma cosa denota positivamente tale espressione? In effetti, tolti questi ostacoli che impediscono la comprensione del testo, il principio che guida la soluzione del problema e che informa tutto il discorso di Spinoza salta agli occhi facilmente. Una condizione si dice “servile” quando, pur senza essere connotata dal contenuto specifico di un lavoro, tipo nello specifico quello svolto da coloro che “servono”, non di meno presenta un tratto caratteristico che è in essi riscontrabile. Quale? Non certo una sorta di qualità “degradante” che si aggiungerebbe all’attività esercitata, come abbiamo appena visto: se lo smercio delle bevande alcoliche non costituisce un handicap in questo senso, a più forte ragione non lo sarà per le “arti meccaniche”. Non è neppure la povertà: infatti nell’armata monarchica, che come sappiamo è composta solamente da cittadini, in tempo di guerra sarà versato un soldo per coloro che: “quotidiano opere vitam sustentant”. Questo implica dunque l’esistenza - almeno possibile - di cittadini che, in mancanza di riserve sufficienti e di servitori che li sostituiscano al lavoro quando sono assenti per combattere, perderebbero ogni mezzo di sussistenza, ossia quanto prodotto giorno per giorno con il sudore della loro fronte. Qual è dunque questa qualità che accomuna coloro che servono? Una sola e solo essa di conseguenza determina l’esclusione dai diritti civili: lo stato di dipendenza da un datore di lavoro, quale ne sia il grado o la forma. Se non è questo, cos’altro sarebbe possibile ipotizzare? Alla luce di quest’assunto, il testo può essere allora scomposto in mille modi possibili, ma alla fin fine tutti uguali: fondamentalmente, le cose non cambiano. Si potrebbe, per esempio, riservare: “famuli” e “qui…serviunt” ai soli schiavi. Non ai servi, ben inteso, perché la monarchia

ideale, in cui il suolo è nazionalizzato e dato in individualmente locazione ai cittadini da parte dello Stato, esclude l’esistenza al suo interno di un tale status; come anche l’aristocrazia ideale, d’altra parte, in cui ogni contadino è proprietario della sua terra. Gli impieghi “servili” non possono allora essere altro che gli impieghi salariati: quelli svolti da coloro che esercitano “attività mercenarie, o prezzolati” di cui parla Grozio. Ma in verità è poco probabile che tal termine possa essere riferito alla schiavitù, comunque essa verga intesa, dal momento che Spinoza sembra voler proporre qui dei modelli di costituzione adatti, cioè applicabili, all’Olanda, in cui la schiavitù era appunto proibita. Si potrebbe oppure, conformemente ad un uso assai frequente di “famuli”, intendere con questa parola e con “qui…serviunt”, i “domestici” in senso stretto. I “servilia officia”, in questo caso, non sarebbero altro che lavori esercitati da una specifica tipologia di salariati. Si potrebbero viceversa comprendere in “famuli” e “qui…serviunt” tutti coloro che, domestici o no, dipendessero in modo stabile da un unico padrone, e considerare sotto la categoria di “servilia officia” le “persone a giornata” di Grozio, anche se non è chiaro quale status gli voglia assegnare. Non si capisce bene se il loro contratto di “lavoratore a riscatto” venga o meno assimilato ad alla conduzione di servitù “imperfetta”. Si può infine pensare “famuli” e “qui…serviunt” vadano a nominare tutti coloro che vivono la condizione di salariato, che sia o no alla giornata, purché lo siano effettivamente, senza alcuna ambiguità, mentre invece “ servilia officia” designi tutta la gamma di situazioni intermedie esistenti tra quella di servitore e quella di piccolo proprietario: salariati che godono di altre risorse oltre al loro compenso, artigiani caduti in balia dei mercanti che gli forniscono le materie prime, lavoranti a domicilio, ecc. In ogni modo, qualunque sia il numero di persone appartenenti alla prima tipologia, l’altra tipologia, ad essa complementare, avrà estensione eguale. I membri dell’una e dell’altra saranno parimenti esclusi. Un punto è dunque stabilito: nella monarchia e nell’aristocrazia spinoziana possono pretendere alla dignità di cittadino (anche se, ben inteso, questo prerequisito non è sufficiente per accedere ai diritti civili nel secondo di questi due regimi) tutti i proprietari indipendenti, quale che sia la loro professione,e che siano ricchi o poveri. Saranno legalmente esclusi, per contro, tutti i “servant”, nel senso corrente della parola inglese, vale a dire tutti i lavoratori salariati, senza eccezione alcuna, ossia anche se partecipano di questa condizione solo indirettamente o parzialmente. Ma tutto ciò non prova, lo ripetiamo, che le cose vadano allo stesso modo nella democrazia spinozista. E se il regime democratico, a differenza degli altri due, scartasse invece solo schiavi e servi? A dire il vero sarebbe molto strano: se la condizione servile è esclusa nella monarchia e nell’aristocrazia, non si capisce per quale motivo specifico non dovrebbe esserlo nella democrazia: come si spiegherebbe che ciò che è escluso di là, riappare qui? Quanto alla schiavitù, quanto abbiamo detto della sua assoluta improbabilità che Spinoza si riferisca ad essa è del tutto valido anche in questo contesto. Ma se invece si trattasse di una semplice ipotesi teorica (supponendo che ci siano schiavi, ecc.)? Farebbe lo stesso. Infatti, l’esclusione dei servi dai diritti civili è oggetto di un argomento molto preciso, anche se estremamente ellittico, presente nel capitolo XI. Tale argomento, come vedremo subito, vale anche per tutti i servi in senso esteso, cosa che per quanto riguarda gli altri due regimi non aveva ancora ricevuto alcuna giustificazione. Anche ammettendo che i servi presenti nella democrazia siano in numero consistentemente inferiore a quelli presenti nella monarchia e nell’aristocrazia, in quale modo si potrebbe motivare una differenza con gli altri due regimi? Proprio la generalità dell’argomento presentato nel capitolo XI, apparentemente eccessiva, mostra che esso, ed esso solo, costituisce la chiave per comprendere ciò che è stato detto ai capitoli VI e VIII, ed è perciò sufficiente a spiegare quanto doveva spiegare, motivo per cui era stata espressamente destinata ad occupare questo punto. Tutto diviene chiaro quindi se i servi presenti nella democrazie e nella aristocrazia/monarchia vengono considerati identici. Ma allora, come evitare di concludere che nella democrazia spinozista, anche in essa lei, sono rifiutati i diritti di cittadinanza a tutti i salariati?

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L’argomento è in effetti così netto che più netto non si può: possono pretendere la cittadinanza solo quelli che, sotto l’unico imperio della legge dello stato, rimangono, per tutto il resto (“in reliquis”) “sui juris”. Quest’ espressione mantiene, usata in questo modo, come si potrebbe credere di primo acchitto, lo stesso senso che possiede nel diritto romano? Se così fosse, il senso del discorso non potrebbe essere univoco. L’espressione verrebbe a significare questo: occorre rifiutare i diritti civici a coloro che non godono di alcun diritto civile a termini di legge, ossia a quelli il cui lo statuto legale risulti nullo. Ma allora, come Spinoza sottolinea un po’ più avanti a proposito delle donne, chiunque potrebbe essere ammesso come cittadino: basterebbe solo modificare le leggi positive in vigore. In assenza di indicazioni contrarie, tuttavia, quest’interpretazione fortemente tautologica resterebbe comunque la sola possibile. Ma, in effetti un’indicazione contraria esiste. Infatti Spinoza stesso, nel capitolo II, aveva avuto la cura di definire l’espressione poi impiegata nel capitolo XI: un uomo è “sui juris”, afferma, in quanto è in grado di respingere coloro che lo attaccano, di vendicare liberamente i torti che inflittigli, e, parlando in termini assoluti, di vivere come gli pare e piace, perseguendo quanto ritenga buono. È “alterius juris”, d’altra parte, chiunque sia: “sottoposto all’altrui potere”. E precisa subito dopo: avere qualcuno in proprio potere, vuol dire tenerlo incatenato o rinchiuso (come prevede il caso particolare degli schiavi in Hobbes), intimorirlo, renderlo dipendente attraverso la concessione di beni, o benefici, che lo rendano disponibile ad obbedire, con la speranza di poterli ottenere di nuovo. Da momento che il diritto in Spinoza vive nella coniugazione di desiderio e potere, le nozioni classiche ereditate dai giureconsulti romani sono state chiaramente trasposte in termini di potenza effettiva. Ora: esiste uno considerevole scarto tra ciò che autorizzano formalmente le leggi positive e ciò che i rapporti di forza politici permettono veramente di fare. Nello stato di natura, in cui tutti hanno cotinuamente paura di tutti, nessuno può essere considerato “sui juris”. Nella società politica, allo stesso modo nessuno lo è mai interamente, poiché la potenza della collettività è un terribile e potentissimo strumento di dissuasione. Ma, per tutto ciò che lo Stato non prescrive né interdice (“per tutto il resto”, dice qui Spinoza), le diverse situazioni individuali possono coprire una casistica così ampia da comprendere anche differenze notevoli: alcuni, avendo i mezzi per prendere delle decisioni libere, il cui contenuto cioè non sia dettato dalla volontà particolare di un'altra persona, restano “sui juris”, anche se nella sfera che rimane al di fuori da una regolamentazione per forza di legge; gli altri, per contro, non posseggono questi mezzi e non sono “sui juris” in nessun caso. I servi, in senso esteso, rientrano manifestamente in questo secondo caso: sprovvisti, privati di proprietà personale, rischiano di perdere ogni possibilità di sussistenza se il datore di lavoro non li accolga più “tra le sue grazie”, ossia se perdono il suo favore. Questo accade comunque, qualunque sia la fattispecie in cui rientra il suo comportamento nei termini giuridici sanciti dal diritto: anche se la legge non prevede alcun castigo per un salariato “libero” che disobbedisca al suo padrone (anche se le cose non stavano proprio così nel XVII secolo), il servo obbedirà comunque, perché la paura e la speranza ve lo costringeranno in ogni caso. Dal fatto di questa dipendenza, che riguarda le persone del servo e del padrone, si deve dunque presumere che i servi si comporteranno sempre, ivi compreso nelle occasioni in cui dovranno esprimere pubblicamente delle opinioni sulla cosa pubblica, come se non avessero una propria volontà. Questo è il motivo per cui anche nel regime democratico essi non potranno partecipare al potere: non che ne siano “indegni”, ne sono per natura meno adatti di altri alla vita democratica: ma, in considerazione del loro stato, far contare sulla scena pubblica la loro voce significherebbe far contare ancora di più (ossia implementare anche il peso numerico che possiede) quella dei loro padroni – cosa massimamente anti-democratica. Comprendiamo fin troppo bene la posizione di Spinoza. Il processo di democratizzazione, in lui, è il mezzo, presente ovunque ivi comprese la monarchia e la aristocrazia ideale, tramite cui viene assicurata l’autoregolazione del corpo sociale. Esso non è mai, e questo vale anche per la democrazia, un fine in sé. Il fine della politica in quanto tale è la conservazione dello Stato. Per

ottenere questo fine è necessario mettere a punto un sistema istituzionale che, determinando necessariamente i sudditi ad accettare le decisioni dei dirigenti, e d’altra parte i dirigenti a prendere decisioni utili e sodisfacenti per i sudditi, arrivi a riprodursi da solo in permanenza. Questo sistema deve quindi, tra le altre cose, assicurare una corrispondenza pressoché perfetta tra l’insieme costituito dai desideri dei governanti e l’insieme costituito dai desideri della popolazione nel suo complesso. Questa corrispondenza deve essere e sarà ottenuta da tutti i sistemi istituzionali, sia nel caso in cui i governanti esprimano la volontà propria della società tutta, ossia di tutte le categorie sociali, essendo liberamente scelti come sovrani dalla intera comunità dei cittadini (monarchia); sia nel caso in cui i cittadini siano in numero sufficiente perché nel consiglio da loro formato si formi un denominatore comune razionale (aristocrazia). Se così non fosse, lo scontento suscitato dalle misure impopolari prese da una oligarchia che promuoverebbe interessi particolari del tutto opposti a quelli delle masse determinerebbe continue lotte fazione: ossia i continui scontri tra piccoli gruppi porterebbero alla frammentazione della società, che alla fine, per la ristrettezza del gruppo dirigente che la guida, potrebbe effettivamente cadere in mano ad uno di essi in seguito alla abile tessitura di manovre politiche. È solo e solamente da questa angolazione, in relazione agli scenari prospettati da questo problema che Spinoza considera la questione della servitù: gli strumenti che usa e i limiti di questo uso sono strettamente determinati dal fine che si propone di raggiungere. Sarebbe quindi apparentemente logico nel quadro definito da tale impostazione del problematica, spingere per un’eventuale estensione del diritto di cittadinanza anche per coloro che non sono “sui juris”. Ma in realtà questa iniziativa sarebbe del tutto inutile: non sono i servitori che mettono a repentaglio la vita della città. Se i servi si agitano, è perché si agitano padroni: essi non costituiranno altro una massa di manovra utile alle diverse fazioni di proprietari indipendenti in conflitto tra loro. Sono dunque i padroni, ed essi soli, che occorre insieme soddisfare e contenere. Dare la cittadinanza ai servi, d’altra parte, sarebbe una misura del tutto inefficace per un ampliamento della base popolare del potere: infatti i servi votano come i vogliono padroni, se non per i loro padroni. Ma, soprattutto, essa sarebbe estremamente nociva per le conseguenze indirette che scatenerebbe: essa determinerebbe il ripresentarsi di una disuguaglianza sostanziale di potere tra i proprietari, poiché assegnerebbe di fatto n + 1 voti a chiunque disponga di n servitori. Non che questo sia “ingiusto” in sé, la questione non è questa. Tale squilibrio finirebbe alla lunga per provocare l’affondamento del sistema: Spinoza mostra in modo chiarissimo, trattando le diverse costituzioni da lui proposte, quale implacabile meccanismo si scatenerebbe all’interno della città. Nella monarchia i membri del consiglio sono nominati dal re in ragione di 5 (o 4 o 3) per famiglia. Solo la loro rapida rotazione impedisce che si lascino corrompere dal sovrano. Ma le cose non andrebbero più così se alcuni tra loro, una volta lasciata la carica che avevano ricoperto, venissero rimpiazzati dai loro servitori: la loro pressione sulla società potrebbe allora esercitarsi senza soluzione di continuità, aprendo di fatto la strada al dispotismo – con tanto si approvazione, anche solo passiva, del popolo irritato, insofferente al cattivo governo di questa oligarchia di fatto. Nell’aristocrazia i patrizi devono essere almeno 5000. Perché? Perché, in qualunque gruppo di individui presi a caso, solo il 2% di essi presenta effettivamente le attitudini richieste per essere un vero leader. Uno Stato di dimensioni medie ha bisogno di essere governato effettivamente da almeno cento uomini, e quindi il conto è presto fatto. Ammettiamo che l’assemblea suprema accettasse di accogliere nel suo seno i servi. Ciascun patrizio tenterebbe di far eleggere i suoi così da accrescere la sua influenza sull’assemblea, e ben presto essa non avrebbe più 5000 membri reali: i veri dirigenti diverrebbero di fatto un piccolo numero (quel 2% che avrebbe più salariati che servi al suo servizio a differenza degli altri colleghi). Le rivalità che si scatenerebbero aprirebbero la strada all’avvento di un regime monarchico: il popolo, scontento degli abusi inevitabilmente commessi da questa esigua minoranza al potere, sarebbe alla fine disponibile a sostenere qualunque usurpatore in grado di ristabilire un seppur minimo equilibrio. È verosimile che un simile processo possa attivarsi anche nel regime democratico: coloro che avrebbero più servi finirebbero per beneficiare automaticamente della maggioranza, costituendo così di fatto una aristocrazia a tutto vantaggio dei loro interessi. Per questo il modello di democrazia di Spinoza, come quello proposto

dai levellers inglesi, esige, anche se è ben lungi dall’escludersi completamente, l’estromissione dei salariati. Tutto ciò, ben inteso, presuppone l’idea che i servi siano incapaci di resistere alle pressioni dei loro datori di lavoro. Ma più che altro è possibile concepire una società senza servi? Questo tipo do società è possibile? Essa sarebbe o a una società composta da piccoli proprietari, o una società basata sulla comunione dei beni. Il fatto è che lo Stato può agire sulla ripartizione dei beni solo all’interno di limiti ben precisi. Lo Stato è il padrone della proprietà terriera, perché il suolo coltivato da ogni cittadino, non potendo in caso si attacco essere nascosto né portato via, ha bisogno della protezione del potere pubblico per poter essere occuparlo con margini sufficienti di sicurezza. Lo Stato rende possibile l’uso del suolo: ma allora esso può modificarne il regime a suo piacimento, senza che gli si possa frapporre alcun legittimo ostacolo, sia ripartendo la terra in parti uguali, sia nazionalizzandola – posto che, ben inteso, l’intero sistema istituzionale funzioni in accordo con la soluzione adottata. Sui beni mobiliari, per contro, la mobilitazione di cui è capace lo Stato non può essere che molto ridotta: denaro e strumenti di lavoro si nascondono facilmente e, anche se le perquisizioni si moltiplicassero, i loro possessori emigrando potrebbero sempre portarli via nei loro bagagli. Quanto alla possibilità di estirpare dal cuore degli uomini il desiderio di possedere le cose, nessuna autorità esteriore sarebbe in grado di fare tanto: finché gli uomini restano soggetti alle loro passioni, continueranno necessariamente ad attaccarsi alle cose: potrà cambiare solo il particolare oggetto cui rivolgono la loro brama. Se divenissero tutti razionali, d’altro canto, sarebbe lo Stato a sparire: le leggi del paese d’utopia sono fatte proprio per coloro che non hanno alcun bisogno di leggi. Impossibile, per conseguenza, sopprimere l’economia mercantile una volta che sia presente ed attiva. Meglio è stimolarla al massimo: infatti il commercio è un fattore estremamente efficace di unione tra gli uomini, esattamente all’apposto della terra che invece li divide. Ma il prezzo da pagare per l’unità indotta dall’economia mercantile è salato: coloro che perdono tutto nella competizione di mercato devono infatti “pattuire un riscatto” per sopravvivere, ed i loro datori di lavoro, aspirando come ciascuno a prendere il sopravvento sugli altri ed ad assumerne il controllo, utilizzeranno pienamente in questo senso i mezzi di pressione che hanno a disposizione. Senza dubbio, se Spinoza avesse saputo che un giorno ci sarebbe stata una cosa chiamata “rivoluzione industriale” e ne avesse conosciuto gli effetti, avrebbe posto la questione in termini completamente diversi: ma come poteva sapere delle grandi officine non occultabili nè intrasportabili come la terra, e quindi atte ad essere sottratte ai loro possessori; come poteva immaginare la forza dei lavoratori industriali, più adatti a resistere collettivamente ai soprisu padronali in ragione della loro concentrazione. Forse, facendo suoi questi diversi rapporti di forza, avrebbe concepito una monarchia, un’aristocrazia ed una democrazia “proletarie”…! Ma non si può muovergli il rimprovero di non averlo fatto: accusarlo di una presunta mancanza di immaginazione sarebbe del tutto fuori luogo. Le sue costituzioni sono dunque “borghesi”, per dirla così. Ma è già molto importante che in esse venga espressamente cancellata ogni sopravivenza di feudalesimo, ma soprattutto che questo venga dedotto da un sistema di pensiero compiuto ed organizzato.

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Nel caso delle donne, la problematica - guida rimane la stessa. In verità, però, le motivazioni che portano alla loro esclusione si distinguono un poco da quelle dei servi. Ma, identificati questi ultimi, cosa per nulla facile, e posta la definizione di persona “sui juris”, ne risulta in termini analitici che non vi è alcuna corrispondenza tra il loro status e quello da essa indicato: a questo punto divengono quindi manifeste le conseguenze politiche della loro eventuale promozione ad uno status di piena cittadinanza. Invece è possibile immaginare una perfetta corrispondenza tra le donne e la definizione di persona “sui juris”. Non è detto che esse debbano essere condannate per sempre ad essere sempre considerate “alterius juris”, subordinate all’uomo. Per quale motivo allora in un

paese monogamico la loro ammissione comporterebbe un così grave squilibrio? A meno che esse non si dica che esse sono necessariamente subordinate all’uomo per natura, non si capisce quale rischio rappresentino. Se un giorno lo Stato decidesse di accordare loro uno statuto legale identico a quello degli uomini, perché esso dovrebbe portare alla rovina della società, come nel caso dei servi? Queste due questioni, dell’inferiorità della donna e del rischio politico da essa rappresentato, esigono dunque un’analisi a parte.

Lo spunto che muove la prima è la polemica tra Grozio e Hobbes. Mentre Grozio, con grande ingenuità, affermava l’ovvia naturale superiorità del sesso maschile, Hobbes, invece, la contestava radicalmente: se le donne, dichiarava, devono obbedienza ai loro mariti nella maggior parte delle nostre società civili, è perché le leggi generalmente sono state fatte dagli uomini per gli uomini: ma questo non è assolutamente universale. Infatti, esiste un regno delle amazzoni. La natura, in ogni modo, non c’entra nulla: nessuno dei due sessi è superiore all’altro, né fisicamente, né mentalmente. Spinoza si guarda bene dal rifiutare direttamente questa tesi, né tanto meno intende contestarla facendo appello a presunte concezioni sulla natura delle donne. Addirittura invece rincara la dose, aggiungendo che tali considerazioni non hanno alcun senso ed alcuna legittimità: in una ipotetica società in cui le donne sarebbero il sesso dominante e gli uomini quello sottomesso, scrive, questi ultimi crescerebbero con delle capacità intellettuali inferiori (“ita educarentur, ut ingenio minus possent”). Chiaramente questo sottintende che nelle nostre società l’educazione delle donne è atta a renderle adeguate al ruolo subordinato che devono rivestire, e che quindi le ineguaglianze attribuite alla natura sono invece dovuta per la maggior parte alla cultura. È impossibile, per conseguenza, che quella prospettiva porti alcun argomento probante: per determinare quali sono gli handicap connessi necessariamente all’essenza della donna tra tutti quelli effettivamente costatati, occorrerebbe conoscere quest’essenza e Spinoza dice di non conoscerla. Così, cambia il terreno della questione: ammettiamo, sembra dire, che l’inferiorità femminile sia imputabile al condizionamento culturale imposto dall’uomo. Come si spiega che l’uomo sia stato sempre e comunque in grado di imporre questo regime alle donne? È l’uomo infatti che comunque e dovunque fa le leggi. Non c’è soluzione di continuità, in questo, come pensava Hobbes: il caso isolato delle amazzoni non è significativo, poiché esse avevano preventivamente eliminato ogni concorrenza maschile assassinando i loro bambini. Perché l’argomento sia probante, devono essere dunque presi in considerazione solo i gruppi umani in cui i due sessi coesistono concorditer. Non può essere accettata o introdotta alcuna eccezione a questa condizione. Come si spiega quindi la costante prevalenza del regime maschile, dunque? Hobbes non se lo domanda. Ma invece, secondo Spinoza, questa domanda costringe a tirare un'altra volta in ballo la natura.

Il suo ragionamento prende le mosse dalla conoscenza di secondo genere, o più precisamente dalla conoscenza di terzo genere ma definita però secondo la ripartizione dei generi di conoscenza presente nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto: Spinoza applica una verità universale ad un caso particolare, specificamente la donna, e così, pur non conoscendone l’essenza, ne deduce le proprietà. Procedendo in questo modo risale dall’effetto alla causa. Ecco il suo ragionamento: fatte uguali tutte le altre proprietà, ci dice, l’animi fortitudo e l’ingenium costituiscono in tutta evidenza dei jolly decisivi nella competizione per il potere. In realtà, ben inteso, le proprietà non sono mai del tutto uguali: in ogni situazione concreta le circostanze accidentali giocano un ruolo pesante. Ma più varia la casistica delle situazioni, più l’influenza di queste circostanze tende statisticamente a venir meno. Quindi, se la natura avesse distribuito le stesse quantità di fortitudo e di ingenium gli uomini e alle donne, le diverse società umane storicamente conosciute sarebbero state di tre differenti tipologie: quelle in cui gli uomini dominavano; quelle in cui i due sessi avrebbero disposto di eguale potere; e quelle in cui le donne avrebbero avuto il sopravvento, costringendo così gli uomini a subire un’educazione che ne perpetuasse la condizione d’inferiorità. Ora, ed è un fatto, non esiste un solo esempio conosciuto di società di questo genere. La falsità della conclusione comporta dunque quella della premessa: posto

che le donne siano sottomesse agli uomini, questo deve perciò derivare dalla loro naturale debolezza.

Spinoza, senza nessun dubbio, è pienamente consapevole dei limiti della sua argomentazione, perché sa che le condizioni di validità su cui si basano sono piuttosto deboli. Ora, concediamo pure che ci siano sufficienti dati storici, ossia abbastanza numerosi ed indipendenti gli uni dagli altri, per dimostrare l’effettiva esistenza di un’universale “natura” delle donne. Cosa si è dimostra, alla fine, con questo ragionamento? Poco e niente, in definitiva, anche se è tale argomento rimane fondamentale per la sua tesi. L’ingenium di cui sta parlando non è altro che l’insieme delle attitudini “intellettuali” che intervengono effettivamente nella lotta per il dominio: attitudine all’astuzia, l’abilità di manipolare, di mettere in atto manovre, ecc. Per fortitudo, invece, Spinoza non intende chiaramente la virtù omonima, da lui pura usata, che non ha nulla a che fare con una qualità naturale. Il termine designa piuttosto, almeno così pare, una disposizione minore, più esposta al timore ed alla pietà: “lacrime muliebri”, “pietà femminea”, tutte cose che diminuiscono le probabilità di successo nella competizione per la potenza. Ma, come peraltro già dichiara il Trattato sull’emendazione dell’Intelletto, cosa ci fa conoscere della causa (l’essenza delle donne) questo ragionamento? Solo quanto è già conosciuto dai suoi effetti.”C’è qualcosa” nella natura delle donne che, nel gioco dei rapporti di potere cui sono condannati tutti i membri del genere umano in quanto soggetti alle passioni, le svantaggia. Non è una grande informazione, ma c’è da dire che essa non indica per nulla il disvalore del genere femminile: infatti i rapporti passionali non sono gravati da un giudizio di valore. Ma questo “qualcosa” è ciò che mette in modo tutto: anche ammettendo l’esistenza di una società uscita direttamente dallo stato di natura, che non presenti conseguentemente alcuna traccia di precedenti istituzioni, l’uomo dominerebbe in ogni caso la donna, assumendo la supremazia nella maggior parte delle coppie. D’altro canto, ogni essere umano, in quanto soggetto alle passioni, ha il diritto di utilizzare a pieno tutte le opportunità in suo possesso per imporre il suo dominio agli altri. Quindi, secondo necessità, il sesso un po’ più forte si servirà del potere acquisito per ampliare al massimo, mediante l’intermediario dell’educazione (di cui tra l’altro sarà divenuto massimo conoscitore), la piccola ineguaglianza originale che ha reso possibile l’instaurazione di questo dominio. In tutte le coppie la donna diverrà soggetta ad uno stato di dipendenza irreversibile che la costringerà a perpetua obbedienza. Nessuna speranza di sfuggire a tale condizione, se non mediante una rigenerazione filosofica. Ma finché ciò non si verificherà effettivamente, le donne, qualunque statuto legale verrà loro conferito, resteranno sempre “alterius juris”, esattamente come i servitori.

In questo punto si innesta la seconda questione. La concessione della cittadinanza alle donne, come nel caso dei servitori, non porterebbe alcun vantaggio: ma sarebbe altrettanto nociva? Alla fin fine, nel paese cui il Trattato politico è dedicato si possiede solo una sposa alla volta: se tutti gli uomini potessero disporre di due voti invece di uno non ci sarebbe di fatto alcun cambiamento nei rapporti di forza. A limite, l’unica conseguenza di questa misura sarebbe la sparizione del celibato. No, risponde Spinoza proprio nelle ultime righe da lui scritte, per due ragioni. In primo luogo per necessità ogni individuo soggetto alle passioni sovrastima ciò che ama. Ora, le donne attirano gli uomini per la sola bellezza, effetto necessario prodotto dalle passioni: infatti, il bello agisce attraverso la vista, tale visione provoca, anche se in una sola parte del nostro organismo, delle reazioni fisiologiche favorevoli alla salute, anche se solo per qualche un istante. Tale proposizione può essere considerata analitica, ossia tautologica. Ogni uomo, in quanto soggetto alle passioni, tende dunque ad attribuire alle persone dell’altro sesso un’intelligenza proporzionale alla bellezza. Si può capire quindi ciò che ne risulterebbe sul piano politico, benché Spinoza non lo precisi. In un’assemblea in cui sedessero le donne, gli uomini voterebbero tutti le più belle, a cui andrebbero aggiunti, ben inteso, i voti delle loro spose, che sarebbero costrette a votare, loro malgrado, secondo i desideri dei loro signori e padroni. Ma, essendo le seduttrici anch’esse soggette ai loro mariti, ogni uomo la cui donna avesse n ammiratori verrebbe così a disporre di 2 (n + 1) voti da poter utilizzare a suo piacimento. Scatterebbe così il meccanismo descritto sopra: la democrazia finirebbe per trasformarsi in un’aristocrazia dove comanderebbero

coloro che posseggono le donne più belle (che, naturalmente, sarebbero chiaramente quelli con più servitori). A sua volta, l’aristocrazia si trasformerebbe in una monarchia, e la monarchia in un ordinario dispotismo.

Ma le cose non finiscono qui. Infatti, gli uomini non tollerano che le donne che amano mostrino il benché minimo interesse a favore di qualcun altro. La gelosia è una passione universale, che sussiste anche nelle relazioni di potere interne allo stesso sesso: chiunque si attacchi ad uno suo simile, qualunque sia la ragione, esige da lui un eguale attaccamento esclusivo. Se colui, o colei, che è oggetto della nostra affezione stringe un legame di amicizia un po’ troppo profondo con un terzo, noi li odieremo entrambi. Ma, nel caso della gelosia sessuale, un ulteriore elemento causa di gelosia viene ad aggiungersi: l’associazione dell’immagine della donna amata con quella delle pudenda e degli excrementa del nostro rivale. Poiché queste fanno orrore di per se stesse, ne verrà rinforzato l’odio verso l’infedele ed il suo complice, fino al delirio. Lungi da noi di voler psicanalizzare Spinoza, possiamo però rintracciare dove nasce una strana affermazione come questa: se immaginiamo qualcuno trarre gioia da una cosa che posseduta da un solo uomo, e che solo lui può avere, verrà fatto di tutto per portargliela via – come a dimostrato prima - . Ora la donna, fisicamente parlando, può essere posseduta da un solo uomo alla volta. Se, di conseguenza, un uomo ne immagina un altro esercitare l’attività sessuale con una donna, anche nel caso in cui lei non lo avesse minimamente interessato in precedenza, questa immagine lo rattristerà perché essa implicherà una gioia da cui viene escluso. Ecco perché per ogni uomo l’idea dell’organo sessuale di un altro uomo rappresenta qualcosa di odioso. Quando noi crediamo che tra la donna che amiamo e un altro uomo ci sia stato commercio fisico, l’odio che entrambi ci ispirano è riferibile all’effetto prodotto in noi da una simile immagine, generica ma assolutamente insopportabile. Sono evidenti quindi le conseguenze prodotto dall’unione dei due meccanismi passionali che abbiamo illustrato, e quanto dirompente potrebbe esserne l’effetto cumulativo. Da cui il paradosso: se le donne potessero sedere nell’assemblea come cittadini a tutti gli effetti, la seduzione diverrebbe lo strumento politico per eccellenza, con la conseguenza che coloro che ne beneficerebbero, e ci sarà necessariamente qualcuno che per ambizione vorrà trarre vantaggio da questo, sarebbero poi costretti a vendicarsi con estrema ferocia di coloro a cui devono la vittoria che hanno conseguito. Quanto a quest’ultimi, per la stessa ragione, non cesserebbero di dilaniarsi tra loro. Non solamente lo Stato andrebbe incontro a sicura degenerazione, ma tutto il processo di svolgerebbe in condizioni così negative, così terribili che mai, da nessuna altra parte, se ne potrebbero trovare di eguali. In questo marasma di violenza anarchica, la società regredirebbe allo stato di natura. Se gli uomini non hanno voluto mai, in nessun paese, accordare alle donne uno statuto legale formalmente identico al loro, senza dubbio dipende dal fatto che ne immaginavano confusamente le gravi conseguenze.

Le donne, contrariamente a ciò che spesso si dice, non ispiravano a Spinoza alcun disprezzo. Ciò che lo spaventa, in realtà, è asprezza dei conflitti sessuali tra maschi. Per impedire che questi antagonismi avessero reso le città ingovernabili, il solo mezzo che riuscì ad immaginare – cosa che per altro non lo rallegrava e che non propone a cuor leggero - è escludere dalla vita pubblica le donne, ossia la causa, malgrado loro, e l’oggetto di quei conflitti. Non fa discriminazioni: se fossero stati gli uomini il sesso più debole, avrebbe certamente escluso loro per le stesse identiche motivazioni. Senza dubbio, se i due sessi si fossero trovati in condizione di uguaglianza, e se gli omosessuali non avessero costituito una minoranza insignificante, avrebbe pensato che la questione andava a complicarsi non poco! Questo è la sua ultima parola in materia di politica.

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* * Ma la politica, da parte sua, non è mai stata l’ultima parola di Spinoza: non è che un

momento del suo progetto filosofico complessivo. Al di là dello lo Stato, anche dello Stato più

democratico immaginabile, il vero modello ideale di relazioni interumane cui aspira è una comunità di saggi, liberi da ogni costrizione, in cui ciascuno, condotto dalla sola ragione, agirebbe spontaneamente in accordo con tutti gli altri senza bisogno di essere sottomesso ad un’autorità esteriore. Allora, ma allora solamente, ogni relazione di dipendenza andrebbe a sparire completamente: una volta mutata l’ambizione in desiderio di sete di conoscenza e di verità, nessuno cercherebbe più di prendere il sopravvento. La proprietà privata perderebbe ogni senso per una comunità di amici dove “tutto è comune”, e così nessuno avrebbe più bisogno di piegarsi alle condizioni imposte da un altro uomo per assicurarsi la sussistenza. Senza dubbio l’ingresso in una tale comunità potrebbe verificarsi solo se ognuno dei suoi membri avesse raggiunto il regno della ragione: processo lento e complesso che esige un considerevole sviluppo della conoscenza. Ma niente ci fa pensare che i servitori non ne siano in grado, o ne siano in grado in misura inferiore dei loro padroni: l’inferiorità che li schiaccia attiene alla loro situazione, non alla loro natura. Quanto alle donne, il loro handicap naturale risulterebbe alla fine un fattore del tutto relativo: esse sono in condizione di svantaggio nella lotta per il potere come gli zoppi ad una gara podistica, ma questo non pregiudica alcuna delle attitudini positive che posseggono in altri campi (ivi compreso, poiché tutta la questione in definitiva si concentra su questo punto, la speculazione intellettuale), e che potrebbero manifestarsi pienamente se la lotta per il potere venisse a cessare. Spinoza parla espressamente di un amore sessuale fondato principalmente, nell’uomo come nella donna (“utriusque, viri scilicet et formina”), sulla libertà di spirito: ciò dimostra che non esclude la presenza delle donne tra gli “uomini liberi” di cui parla l’Etica.

Ed eppure, la mediazione della politica non è aggirabile: l’edificazione di uno stato com’è descritto da Spinoza, in cui le cause degli antagonismi di origine feudale (lotta per il possesso della terra, intolleranza religiosa, oppressione politica) sarebbero definitivamente soppresse, è condizione imprescindibile per garantire l’acceso di quanti più uomini possibile al regno della ragione. Ora un tale Stato, che non potrà essere altro che “democratico” nel senso sopra indicato, dovrà istituire, per definizione, un regime fortemente repressivo. La sua unica funzione infatti è quella di instaurare un equilibrio tra le forze degli individui che, nell’attesa dell’autentica liberazione prodotta dal condizionamento esteriore cui sarebbero sottoposti dalle istituzioni razionali, non potrebbero essere altro che, anche nel migliore dei casi, ossia supponendo che tutti residui di feudalesimo fossero stati eliminati dall’azione positiva delle leggi e dei nuovi costumi, che “borghesi” e “fallocrati”: tale orizzonte insuperabile, almeno per tutto il tempo in cui la farà da padrona l’alienazione del regime delle passioni. Per questo è necessario emarginare più della metà della popolazione adulta. Ma nulla garantisce che tale condizione necessaria sia anche sufficiente: non si può che sperare, senza alcuna certezza. che tale sacrificio non sia stato vano. Il fastidio che proviamo leggendo le ultime righe del Trattato non deriva dunque dal fatto che Spinoza assume dei pregiudizi del tutto in contrasto con i suoi principi, ma dal fatto che, su questo punto in particolare, le loro conseguenze sono di una terribile crudeltà…Chissà, forse in definitiva sarebbe stato meglio lasciar perdere tutto!

Passioni ed istituzioni in Spinoza

La dottrina politica di Spinoza può per certi versi essere interamente dedotta dalla teoria delle passioni. E questo nonostante che Spinoza non abbia mai operato esplicitamente questa deduzione. In effetti, è possibile mostrare come la teoria spinoziana delle passioni contempli ed illustri ciò che Spinoza denomina “le cause e le fondamenta” della società politica, e con essa i principali tipi d’istituzioni con cui essa si organizza. Ma essa rende anche conto di come Spinoza affronti il problema costituito dalle disfunzioni cui vanno incontro tali sistemi istituzionali, processi all’origine del collasso autoindotto che colpisce la maggior parte delle società politiche. E, infine, da tale rapporto si può dedurre come Spinoza concepisca i rimedi da apportare nel caso in cui le disfunzioni che colpiscono la società avvengano realmente: essi consistono nell’istaurazione di sistemi istituzionali perfettamente autoregolati. Sono questi i tre punti che vorrei tentare di affrontare qui. 1 – “Le cause e le fondamenta” della società politica

Spinoza dice espressamente nell’articolo 7 del capitolo 1 del Trattato politico, che “ le cause e le fondamenta naturali” dello Stato devono vanno dedotti non dagli insegnamenti della ragione, ma “dalla comune natura, o condizione, degli uomini” – vale a dire dalla natura o dalle condizioni degli uomini in quanto soggetti alle passioni. Ma a quali passioni esattamente? Su questo possiamo rintracciare tre tipi di indicazioni. 1/ In tutto il Trattato politico Spinoza dà per scontato che gli uomini desiderino necessariamente possedere dei beni materiali (l’avarizia, passione “che è universale e costante”, Tp 10.6) e che siano necessariamente superstiziosi. Come nasca il necessario desiderio di possedere dei beni materiali è stato perfettamente spiegato nella prima metà del libro terzo dell’Etica, anche se lì Spinoza lo tratta come fatto a se stante, al di fuori ed indipendentemente del contesto costituito dai rapporti interumani. Gli uomini si sforzano necessariamente di perseverare nel loro essere (Eth. III, prop. 4-9). Quando questo sforzo (conatus) è favorito dalle cause esteriori, diviene gioia (Eth. III prop. 11 e schol.). Quando questa gioia si accompagna all’idea della causa esteriore da cui si ritiene che essa dipenda, essa diviene amore, rivolto appunto a questa causa esteriore stessa (Eth. III, prop. 12-13 schol.): ci si attacca ad essa in modo incondizionato, ce se ne appropria e si vuole conservala a qualsiasi prezzo (Eth. III prop. 13 schol). Ci si aliena completamente in essa. Tale alienazione, per derivazione, può andare oltre la singola cosa che ha prodotto la gioia, estendendosi anche a quanto nell’animo delle persone venga associato ad essa: per esempio i mezzi per ottenerla ora e per ottenerla di nuovo in futuro, come il denaro (cfr. Eth. IV, Appendice, capitolo 28) o la terra. D’altra parte, l’Appendice del libro I dell’Etica aveva già anticipato un effetto di questa teoria dell’amore, mostrando come essa permettesse di spiegare l’origine della credenza in divinità antropomorfe. La Prefazione del Trattato Teologico – Politico aveva analizzato il meccanismo tramite cui, quando siamo in preda al timore (cfr. Eth. III prop. 18 schol 2), tale credenza si trasformi in superstizione (cfr. anche Eth. III prop. 50 e schol.). In ultima analisi, dunque, anche la superstizione è interamente spiegabile mediante la prima metà della teoria delle passioni. Prima ancora di prendere in considerazione direttamente le relazioni interumane, perciò, noi sappiamo già perché l’uomo si trovi ad essere alienato e come. Precisamente le tippologie di alienazione sono due: un’alienazione economica ed un’alienazione ideologica. 2/ Nell’articolo 5 del capitolo I del Trattato politico, Spinoza riassume, con magistrale capacità di sintesi, gli elementi essenziali su cui si basa la sua teoria delle relazioni interumane in quanto soggette al dominio delle passioni. I termini in cui presenta la questione sono gli stessi presenti nella seconda metà della parte III dell’Etica. Le passioni che Spinoza menziona in questo articolo

sono la pietà, l’ambizione di gloria, l’ambizione di dominazione e l’invidia. Esse hanno, tutte e quattro, comune origine: l’imitazione affettiva, come si deduce dalla loro analisi in Eth. III prop. 27. Quando ci s’immagina che un essere simile a noi provi un certo sentimento, solo per questo fatto anche noi proveremo esattamente lo stesso sentimento. Di conseguenza, quando si vede qualcuno che soffre, si condividerà la stessa sofferenza (è la pietà, Eth. III prop. 27 schol.) e si proverà il desiderio di alleviargliela (è la benevolenza, Eth. III prop. 27 corol. 3). Se si riuscirà ad ottenere questo, l’atra persone se ne rallegrerà e proverà della gioia. Di conseguenza, anche noi ci rallegreremo, e la nostra gioia avrà l’immagine di noi stessi come causa (è la gloria, Eth. III prop. 30 e schol.). Dal momento che la gloria è un sentimento molto piacevole, si avrà il desiderio di riprodurlo, e così si continuerà ad aiutare gli altri (è l’ambizione di gloria, Eth. III prop. 29 schol.). Ma, anche quando si vuole procurare felicità ad un’altra persona, non si vuole certo sacrificare i propri desideri per questo. Si cercherà quindi, per risolvere questa contraddizione, di convertire gli altri ai propri valori, di obbligarli ad amare ciò che si ama ed a odiare ciò che si odia (Eth. III prop. 31 corol.): l’ambizione di gloria si muta così in ambizione di dominio (Eth. III prop. 31 schol). Essa può provocare l’esplosione dell’intolleranza (ivi). – nello specifico della materia d’ideologia, l’intolleranza prodotta dalla superstizione. Infine, se si riuscisse a far amare agli altri le cose che si vuole che essi amino, ed uno di loro prendesse effettivo possesso di una di queste cose e ne traesse della gioia, stante il fatto che questa determinata cosa non potesse essere posseduta che da una sola persona, allora si desidererà gioire di quella specifica cosa e si cercherà di conseguenza di strappargliela: è l’invidia (Eth. III prop. 32 schol.). Essa si manifesta principalmente in materia economica. Quando si arriva a privare un altro di ciò di cui gioiva, lo si renderà triste. Allora si avrà pietà di lui: il ciclo ricomincia. 3/ Nell’articolo I del capitolo VI del Tp Spinoza dichiara che gli uomini si accordano naturalmente per vivere in società organizzate politicamente non perché sono condotti dalla ragione, ma perché sono soggetti all’influenza di una passione comune, il timore. Per giustificare questa affermazione, rimanda all’articolo 9 del capitolo III, in cui mostra come gli uomini arrivino a coalizzarsi quando il timore, generalmente avvertito e universalmente condiviso, muta in indignazione. Anche l’indignazione, illustrata in Eth. III prop. 27, corol. 1, è una forma di imitazione affettiva: è l’odio provato per colui che fa del male ad un essere simile a noi. Tale odio è avvertito per imitazione dei sentimenti della vittima. Queste sono le tre diverse indicazioni tramite cui nel Trattato politico viene precisato quale rapporto sussista tra teoria delle passioni e teoria delle “cause e fondamenta dello Stato”. E di fatto, basandosi su questi elementi, è possibile comprendere perfettamente perché gli uomini vivano necessariamente in società organizzate politicamente, anche se in effetti Spinoza non ha mai compiuto esplicitamente tale deduzione. Si può capire ora perchè, posti degli uomini allo stato di natura, essi ne usciranno necessariamente quasi subito mediante la formazione di uno Stato in embrione. Supponiamo un certo numero di individui allo stato di natura viventi semplicemente l’uno accanto all’altro in un certo posto, senza alcuna esperienza di vita organizzata in società. Se uno di essi troverà difficoltà a trovare di che sostentarsi, uno o più degli altri, per pietà o ambizione di gloria, verrà in suo aiuto. Nella misura in cui il loro aiuto si rivelerà efficace, la loro pietà e la loro ambizione di gloria si muteranno in ambizione di dominio ed in invidia: essi prenderanno ad aggredirlo. Ma gli altri, o parte di loro, che fino a quel momento erano stati testimoni solo passivi, si indigneranno del male fatto e si renderanno disponibili a venire in aiuto. E questo ciclo si riprodurrà a più riprese. Ma anche il nostro protagonista, per la stessa ragione, si troverà, e non una volta sola, a vestire i panni dell’aggressore, suscitando quindi l’indignazione degli altri. E lui da parte sua, per la stessa ragione, verrà ad indignerà per ogni aggressione di cui sarà stato testimone. Così che al termine di un certo tempo, anche breve probabilmente, condividendo ognuno la stessa condizione degli altri, tutti avranno scatenato l’indignazione negli altri, andando così a considerarli

potenziali aggressori; e tutti nello stesso tempo beneficeranno dell’aiuto portato dall’indignazione degli altri, andando così a considerarli come potenziali alleati. Ciascuno, di conseguenza, temerà gli altri e nello stesso tempo conterà sul loro aiuto. Una sola e stessa cosa ispirerà quindi timore e speranza: la potenza collettiva (cfr. Tp III.3). Tutti si troveranno nella condizione di provare indignazione contro qualcun altro, e, giudicando questa situazione intollerabile, saranno disposti a venire in soccorso di coloro che saranno vittime di aggressione: la potenza di tutti sarà quindi una realtà effettiva, caritatevole o temibile a seconda dei momenti. È evidente ciò che ne risulta: ogni volta che due individui entreranno in conflitto, ciascuno di essi chiamerà in aiuto tutti gli altri. Ciascuno degli altri, rispondendo all’appello di quello dei due avversari che sarà più simile a lui, poiché ne potrà imitare i sentimenti, s’indignerà, scontrandosi con quello che gli rassomiglierà meno: quello i cui valori divergeranno di più dai suoi, o che possiederà più cose di lui. Tra i due avversari, quello che più facilmente verrà colpito sarà colui che più si allontanerà dalla norma condivisa dalla maggior parte delle persone (che cioè assomiglierà meno agli altri). Egli sarà quindi dissuaso dal ricominciare. Da queste condizioni, e dopo un certo numero di ripetizioni, verrà a scaturire un sistema condiviso di consenso, e delle norme comuni s’imporranno. In questo modo coloro che violeranno tali norme verranno repressi al massimo grado, mentre coloro che le rispetteranno verranno protetti al massimo: esisterà dunque una potenza collettiva della moltitudine che assicurerà la sicurezza di coloro che si conformeranno alla norma maggioritaria, e provvederà a neutralizzere i devianti – ossia si verrà a costituire, almeno informalmente, un embrione di sovranità statuale, poiché la sovranità è precisamente; “questo diritto che si definisce in base alla potenza della moltitudine” (Tp 2.17). Ma tale gruppo, una volta formatosi, non potrà restare indefinitamente in uno stato non organizzato, inorganico. Se vorrà sopravvivere dovrà necessariamente risolvere un certo numero di problemi: dovrà dunque istituzionalizzarsi. Le questioni che dovrà affronatre saranno, certo, molteplici e anche molto complesse, ma, in base a ciò che precede, è possibile raggrupparle in tre rubriche:

a) il problema del comando, La collettività si è costituita dando vita ad una forza unica, ma questa forza, da chi è diretta? Questo è un problema reale e serio, perché i candidati a questo ruolo sono molti (cfr. Tp 7.5). In effetti, a partire dal momento in cui un potere politico appare, chiunque, per ambizione di dominio, vorrà detenerlo tutto o in parte, e ognuno, per invidia, si rattristerà a vederlo è esercitato da altri. L’ambizione di dominio non sarà più solamente ideologica, e l’invidia non più solamente economica: verranno ad avere anche natura politica. Da tutto questo scaturiranno conflitti di ogni sorta. La sopravvivenza del gruppo dipenderà dalla loro risoluzione.

b) Il problema dell’ideologia. Non è sufficiente sapere chi comanderà, occorre anche sapere in base a cosa si va a comandare: una volta designati i detentori del potere supremo, occorrerà che essi definiscano ciò che è bene e ciò che è male (Tp 2.18). È assolutamente indispensabile, poiché una delle due fonti primarie di conflitto è proprio l’ambizione di dominio di natura ideologica: gli uomini si battono perché non condividono gli stessi valori, volendo ciascuno imporre i suoi agli altri. Il gruppo non sopravviverà se l’autorità politica non definirà un sistema di valori comuni e non riuscirà ad farlo accettare in modo stabile, almeno nelle sue direttive principali, al popolo. I valori che adottano gli uomini dipendono dalla loro superstizione personale: questo implica che la superstizione dovrà essere istituzionalizzata. Uno delle principali attribuzioni dello Stato – che esso esercita e deve esercitare sempre, che i suoi detentori lo vogliano o meno, pena la sua distruzione – è decidere quali siano le religioni autorizzate e quali siano quelle interdette (Tp 3.10).

c) Il problema della proprietà. È un problema scottante, poiché la seconda fonte primaria di conflitto tra uomini è l’invidia di natura economica: gli uomini configgono tra loro per avere dei beni quando ne esiste numero esiguo, così che solo poche persone possano entrarne in possesso (come in particolare succede nel caso della terra). Il gruppo potrà sopravvivere solo

se il sovrano definirà con precisione chi a diritto a cosa, e ciò che appartiene legittimamente a ciascuno (Tp 2.23). Naturalmente per poter essere stabile sarà essenziale che tale regime di proprietà sia accettato da popolo in modo duraturo.

Di fatto la maggior parte delle volte questi problemi non trovano adeguata soluzione. Lo Stato si trova così in preda a malfunzionamenti istituzionali di ogni sorta che, alla lunga, finiscono per provocarne la distruzione. 2 – I malfunzionamenti istituzionali della società politica

Spinoza tratta di questo punto in due passaggi, molto diversi tra loro: nel primo illustra due principi generali, nel secondo riporta una moltitudine di esempi. In apparenza essi sembrano messi alla rinfusa ma, se si fa lo sforzo di vedere il criterio che guida Spinoza nel metterli uno accanto all’altro, in realtà ci offrono la visione d’insieme sui processi da cui è innescata la deriva delle diverse società politiche, che le porta quindi verso la catastrofe – e si può dire che questa è una vera e propria teoria della storia. I due principi generali (Tp 3.8 – 9; 4.4; TTP, inizio del capitolo XVII) sono i seguenti. Primo principio: non si può costringere gli uomini a fare qualsiasi cosa. È impossibile obbligarli a compiere qualsiasi cosa se ad essa non corrisponde nessuna speranza di ricompensa, o viceversa nessuna minaccia di punizione. Solo queste due cose li spingono ad agire. Per esempio, non si può obbligarli a volare senza avere le ali. Non si può obbligarli neanche, avvalendosi semplicisticamente di misure repressive, a credere in cose che gli sembrano assurde, a non voler possedere le cose che amano, ad amare coloro che gli fanno del male, o ad odiare coloro che gli fanno del bene, ecc. C’è, per riprendere l’espressione di Etienne Balibar, un “minimo incoercibile” di libertà che i sovrani sono obbligati a rispettare, perché è impossibile andare contro la natura umana, ossia decidere che gli uomini debbano cessare di essere uomini, o che rinuncino ad essere quello che sono. Secondo principio: quando i sovrani tentano, malgrado tutto, di toccare questo “minimo incoercibile” le conseguenze sono catastrofiche sia per loro che per lo Stato. Più essi accentuano la repressione, più ispirano terrore ai loro sudditi: ma il timore, essendo una forma di tristezza (Eth. III prop. 18 schol), implica sempre l’odio per colui che si teme. Di conseguenza, se non hanno l’avvedutezza di fermarsi in tempo, il timore che essi ispirano supererà la soglia critica che lo muterà in indignazione – secondo lo stesso meccanismo da cui deriva la costituzione, ma anche la dissoluzione, delle società politiche (Tp 3.9; 4.4.): i sudditi, accorgendosi di poter contare sugli altri perché tutti indignati contro il male fatto a ciascuno di loro, si coalizzano contro il sovrano che può anche, negli esiti estremi della rivolta, essere rovesciato. Ma quando, esattamente, si produrrà una simile situazione? Proprio questa è la domanda che guida la presentazione dei molteplici esempi qui posti da Spinoza. Attraverso di essi è così possibile ricostituire una teoria evolutiva dell’organizzazione sociale disfunzionale. Si prendano quest’esempi e li si accosti gli uni agli altri, unendoli pezzo a pezzo come se formassero un’unica sequenza: ne risulta in tutta la sua evidenza il modo in cui Spinoza concepisce l’evoluzione di una società organizzata politicamente dal momento in cui è ritenuta uscire dallo stato di natura fino al momento della sua dissoluzione finale, ossia il suo assorbimento all’interno di altre società politiche. Chiaramente sarebbe possibile riportare diversi schemi di evoluzione. Mi limiterò qui a quello che sembra essere dotato di maggiore compiutezza. 1/ Partiamo dal principio. Supponiamo che degli uomini siano appena usciti dallo stato di natura e che abbiamo appena costituito una società organizzata politicamente senza aver mai avuto altre esperienza di vita in società (cosa che, chiaramente non esiste e non può esistere). Quale forma di sovranità andranno a scegliere? In realtà, tutto ciò, ben inteso, non avrebbe decorso lineare: dovrebbe dipendere dal regime a cui questi uomini saranno stati abituati prima di cadere di nuovo nello stato di natura: gli Ebrei, per esempio, avvezzi a vivere in schiavitù durante la loro

permanenza in Egitto, non erano in grado di vivere in democrazia (TTP V p. 75). Ma noi abbiamo supposto che prima dello stato di natura non sia esistita nessuna forma di società organizzata. Perciò, la soluzione si impone da sè: la prima forma di sovranità, a rigor di logica, sarà la democrazia. Nello stato di natura, nessuno può comandare agli altri per un duraturo periodo di tempo, e, salvo casi eccezionali, nessuno potrà imporsi a lungo per forza e prestigio. Ora, salvo casi particolari, l’ambizione di dominazione e l’invidia fanno sì che nessuno ceda di buon grado l’autorità posseduta su di sé ad un altro (Tp 7.5). Quindi, non esiste alcuna ragione particolare di concedere il potere sovrano ad uno piuttosto che ad un altro: esso sarà perciò assegnato all’insieme del popolo nella sua interezza: dal momento che tutti vogliono comandare, saranno comunque soddisfatti poiché la parte di potere da loro posseduta sarà uguale a quella degli altri. Ecco perché la democrazia è la soluzione più semplice e più logica per risolvere il problema della sovranità (la più “naturale”, TTP XVI p. 195). Proprio per questo, probabilmente, è stata quella più spesso adottata (Tp 8.12).

Detto questo, come andrà ad evolversi questa democrazia primitiva? Due ipotesi sono possibili: o evolverà in circostanze sfavorevoli, o evolverà in circostanze favorevoli. Prima ipotesi: le circostanze sono sfavorevoli. In questo caso, le democrazia non può reggere e conservarsi. Gli uomini appena usciti dallo stato di natura sono, per definizione, estremamente sprovvisti. Questo comporta tre conseguenze: a) economicamente, essi si sostenteranno per mezzo di un economia naturale estremamente rudimentale: nessuna città, nessun commercio, niente denaro, ecc. Saranno dei veri e propri barbari (cfr. TTP V p. 73; Tp 10.4). Il solo bene economico cui potranno attaccarsi è la terra. Ma la terra è un bene che può essere posseduto che da una sola persona alla volta: è il bene monopolistico per eccellenza. Di conseguenza, è un bene che susciterà al massimo l’invidia: se il mio vicino possiede un campo e se questo possesso lo rende felice, io desidererò necessariamente possedere lo stesso campo (precisamente quello, in ciò che ha di differente dagli altri, poiché è quel campo che lo rende felice e non un altro, e sono precisamente quei sentimenti che prova per quel campo che gli sono propri e che imito invidiandolo). La ripartizione delle terre è già stata fatta: non è neanche possibile, non potendo entrare in possesso del campo che invidio, cercarmene un altro pressappoco simile. Non posso fare altro che bramare quel bene che altri possiede. Da ciò nasce la possibilità di conflitto molto violenti, che verranno meno solo quando la proprietà privata del suolo non sarà stata completamente soppressa (Tp 7.8). In assenza di un economia monetaria, questi conflitti diverranno particolarmente frequenti. b) Ideologicamente, essendo sprovvisti di tutto e quanto mai miseri, questi uomini saranno necessariamente molto superstiziosi (TTP, Prefazione, p.6; cfr. l’esempio egli ebrei, TTP, II, p. 40 – 41; e per contrasto quello dei Macedoni, TTP, XVII, p. 205). Di conseguenza, ognuno, per ambizione di dominio, vorrà obbligare gli altri ad adottare la sua superstizione personale, in ogni minimo dettaglio, compreso ciò che ha di più assurdo e irrazionale, ossia di più incomunicabile. Questo causa una estrema intolleranza che, di nuovo, scatenerà conflitti molto violenti:”odio teologico” allo stato puro (TTP, XVII, p. 212). c) Preda di conflitti economici ed ideologici di tale entità, gli uomini saranno di conseguenza estremamente fragili in termini politici, poiché poco atti al governo collettivo (cfr. l’esempio degli Ebrei, TTP, V, p. 75): le riunioni dell’assemblea del popolo saranno sempre molto burrascose e rischieranno sempre di precipitare in rivolta. Di conseguenza, quando le circostanze porranno gravi problemi necessitanti di soluzione immediata (fame, epidemie, aggressione di potenze esterne, ecc.), l’assemblea del popolo non sarà in grado di funzionare: avvertendo la propria incapacità di giungere ad un accordo, e di impedire che le controversie degenerino in sedizione, essa, nel panico, abdicherà al suo potere, cedendolo ad un uomo dotato di particolare prestigio, o ad un ristretto numero di individui anch’essi dotati di particolare prestigio, che essa riterrà in grado di padroneggiare la situazione (Tp 7.5). La democrazia si trasformerà dunque in una monarchia o in una ristretta aristocrazia.

Seconda ipotesi: le circostanze sono favorevoli. In questo caso, nella misura in cui non si evidenziano particolari problemi, la democrazia, bene o male, manterrà una certa stabilità e continuerà a sussistere, divenendo man mano sempre più in grado di funzionare correttamente. In effetti, a) la pace civile favorisce lo sviluppo economico: si passerà dalla barbarie alla civilizzazione

(Tp 10.4). La terra verrà coltivata sempre meglio, si costituirà un settore artigiano, apparirà il commercio, verranno fondate città, sarà inventata o reinventata la moneta, ecc. In queste condizioni, gli uomini potranno sviluppare delle forme d’attaccamento rivolte non solo alla terra, ma anche al denaro. Ora, da un lato il denaro li dividerà meno che la terra, perché è un bene la cui proprietà comporta un minor grado di concentrazione monopolistica: se il mio vicino possiede una certa somma di denaro, potrò certamente desiderare di prendergliela, ma potrò anche contrae su altre soluzioni: potrò acquisire la stessa somma (proprio quella somma, perché nel caso del denaro le differenze qualitative non sussistono più) lavorando e risparmiando. I conflitti economici diminuiranno. D’altra parte l’economia mercantile creerà positive solidarietà d’interesse: gli uomini tenderanno, in una certa misura, ad accordarsi in ciò che concerne: “gli affari comuni e le arti della pace” (Tp 7.8);

b) poiché gli uomini saranno meno sprovvisti di beni, essi saranno meno preda della superstizione, e quindi svilupperanno meno l’intolleranza: non cercheranno più di imporre agli altri la superstizione, in tutti i suoi dettagli, da loro creduta. La prosperità economica attirerà d’altra parte nel paese popolazioni straniere (Tp 8.12). che a loro volta avranno fede in superstizioni diverse. Questi contatti renderanno impossibile il monolitismo religioso (cfr. TTP inizio del capitolo XVIII p. 221): ci si abituerà ben presto al fatto che non tutti condividono esattamente le stesse credenze. In queste condizioni,

c) poiché i conflitti economici ed ideologici diminuiranno, l’Assemblea del popolo potrà funzionare in modo meno turbolento. Gli uomini diverranno più adeguati a gestire il governo collettivo.

Ed eppure, anche se per tutt’altre ragioni, la democrazia cadrà lo stesso. In effetti, gli stranieri che affluiranno nel paese richiamati dalla prosperità economica, e sempre più numerosi. Essi si vedranno negati i diritti di cittadinanza da parte degli autoctoni, che non vorranno assolutamente concederglieli. Infatti, l’ambizione di dominio e l’invidia sono tanto più soddisfatte quanto più ci si distingue dagli altri, cioè se si conservano dei privilegi rispetto a loro (Eth. III prop. 55 schol.). Quindi si rifiuterà il diritto di voto agli immigrati, ed essi resteranno esclusi dall’assemblea del popolo (Tp 8.12). Ma, dopo qualche generazione, i discendenti di questi immigrati non si distingueranno in nulla dai cittadini – salvo, precisamente, la loro mancata partecipazione al potere. La democrazia diviene quindi aristocrazia: lo diviene naturalmente, spontaneamente, in seguito al semplice meccanismo innescato dalla crescita economica (ivi). Ciò che la mette fuori gioco, è proprio la mancata aderenza al principio interno che la caratterizza in quanto democrazia: la democrazia deperisce per insufficiente carattere democratico. 2/ Andiamo ora ad analizzare l’aristocrazia. Concretamente, ben inteso, Spinoza pensa agli aristocratici mercanti che al tempo esistevano in Olanda, a Venezia, a Genova, ecc: regimi in cui il patriziato urbano, composto unicamente dagli strati superiori della borghesia, deteneva completamente il potere, dalle cui prerogative era escluso tutto il resto della popolazione. Come sarà l’evoluzione dell’aristocrazia? Le cose qui precipitano per lo squilibrio innescato dalla diminuzione progressiva del patriziato in rapporto alla crescita della plebe. Finché i patrizi saranno in numero sufficiente, le cose andranno bene. Ma, di fatto, il loro numero tenderà sempre di più a restringersi: delle famiglie patrizie si estingueranno altre perderanno il godimento dei diritti di cittadinanza in seguito ad un crimine, altre ancora cadranno in rovina e dovranno così spatriare, ecc. (Tp 8.12). Mentre accadrà tutto questo, la popolazione globale continuerà ad aumentare, ma il patriziato al potere, per le stesse ragioni,

rifiuterà più che mai di aumentare i suoi effettivi. Tale squilibrio provocherà conseguenze di tre generi diversi.

a) Prima conseguenza: appariranno dei candidati alla monarchia. Ci saranno sempre, dice Spinoza, pochi uomini sufficientemente abili al punto da essere in grado di dirigere lo Stato: circa uno su 50. Gli altri 49 non fanno altro che seguire passivamente l’unico con qualità dirigenti (Tp 8.2). Quando il patriziato conta un buon numero di membri, non ci sarà nessun problema. Anche il loro grande numero non creerà alcun inconveniente: a fronte di 5000 patrizi, ci saranno 100 veri uomini di stato che, per il loro numero, neutralizzeranno vicendevolmente l’ambizione provata dagli uni nei confronti degli altri (ivi). Ma in una città in cui non ci saranno più di 150 patrizi, e di conseguenza solo tre teste dotate di capacità politica, cosa succederà? Ciascuno dei tre leader aspirerà necessariamente ad eliminare gli altri due, vale a dire a divenire monarca. L’assemblea patrizia si dividerà in fazioni: diverrà un serraglio aperto alle scorribande ed ai conflitti di aspiranti dittatori (Tp 8.12). Ma la cosa più drammatica è che troveranno in quasto l’appoggio da parte del popolo.

b) La seconda conseguenza della progressiva diminuzione del patriziato rispetto alla plebe è il rallentamento delle attività economiche (cfr. Tp 10.4-7). Da una parte, i patrizi si cureranno sempre di meno di far fruttare i propri affari, perché avranno altre fonti di arricchimento: i proventi delle funzioni istituzionali da loro ricoperte, ad esempio, che con il potere che gli conferiscono gli permettono sovente di spogliare i plebei ricchi (Tp 8.37). D’altra parte, per questa ragione, ma sopratutto per un’altra ancora più generale, gli stessi plebei sono sempre meno incitati ad arricchirsi. A cosa potrebbe aspirare un nuovo ricco? A nulla: non avrà mai accesso alla casta dirigente, e resterà così emarginato come prima, per quanto ne siano grandi la ricchezze. L’affetto dell’avarizia, non più rinforzato dall’ambizione, sarà vinta facilmente dall’attrazione esercitata dai piaceri sensibili (cfr. Tp 10.7). I soldi guadagnati dai borghesi non patrizi saranno buttati in nozze e festini piuttosto che reinvestiti. Facendo così non ne trarranno alcuna soddisfazione: i costumi si corromperanno, lo spirito d’impresa lascerà posto alla pulsione di godimento immediato (Tp 10.4). D’altra parte le leggi sontuarie, emesse per tentare di rimediare allo sfascio, non porteranno effetti di sorta (Tp 10.5). Poco a poco il declino economico avrà il sopravvento – che porterà con sè, ben inteso, l’aggravamento delle condizioni vita delle classi popolari. Schiacciate dalla miseria, cominceranno ad agitarsi ed a fare rivendicazioni: a questo punto faranno la loro apparizione il fastidium praesentium e la rerum novarum cupiditas (TTP XVII p. 203).

c) Terza conseguenza, sarà l’apparizione dei conflitti religiosi, vale a dire lo scatenamento dell’intolleranza. Infatti, ricadendo gli uomini in una condizione che li vede privi di mezzi, la superstizione tornerà di nuovo ad estendersi, e, dal momento che la religione consolidata o ufficiale si rivelerà incapace di portare qualche rimedio a tale situazione, la folla miserabile si cercherà nuove superstizioni da seguire (TTP, Prefazione, p. 6). Si troveranno senza difficoltà dei teologi disposti, e pronti, a rispondere a simile richiesta: le chiese degenereranno in teatrino, e i dottori, il cui unico interesse sarà attirare l’attenzione presentando insegnamenti sempre più eccentrici, si trasformeranno in oratori (TTP, Prefazione, pag.8). Da tutto questo sorge il processo, occupante l’intero capitolo XX del TTP, che Spinoza analizza in dettaglio: ogni teologo, per ambizione di dominio, vorrà far prevalere il suo punto di vista su quello degli altri. Tenterà così di tirarsi il popolo dalla sua parte, e una volta ottenutolo farà appello al potere secolare chiedendo che i suoi avversari vengano repressi. Il potere secolare, che naturalmente sceglierà la soluzione più immediata ed improvvida, crederà di poter ristabilire la calma cedendo alla pressione delle fazioni prevalenti, andando così ad interdire la professione di determinate opinioni. Tale rimedio, in ogni caso inefficace, si rivelerà in effetti peggiore del male: concederà infatti ai teologi della fazione vincente un permanente strumento di ricatto nei confronti del potere costituito: questi teologi, avendo ora la possibilità, sancita dalla legge, di esigere l’arresto di chiunque non sia da loro gradito, andranno ben presto ad instaurare una vera e propria dittatura

ideologica. Più diverranno potenti, più desidereranno aumentare la loro potenza: alla fine, le loro brame si rivolgeranno direttamente alla totalità del potere politico. È ben chiaro cosa risulti dall’unione di questi tre processi qui presentati. Il popolo

miserabile, eccitato ed inquadrato dai teologi, cercherà un uomo della provvidenza che possa liberarlo dalle sue pene. E quest’uomo sarà incarnato da uno dei candidati monarchi sulla piazza. Il patriziato, sottoposto ad simultaneo attacco dall’alto e dal basso, sarà ridotto all’impotenza: l’aristocrazia verrà rovesciata a favore di una monarchia. Guglielmo d’Orange esattamente in questo modo si appropriò del potere in Olanda nel 1672 (Tp 9.14 in fondo). Anche l’aristocrazia crolla per non avere seguito con coerenza il suo principio costitutivo: decade perchè, rifiutandosi di integrare politicamente l’insieme delle élite economiche (l’insieme della borghesia) non è stata coerentemente e sufficientemente ”aristocratica”, presa la parola in senso etimologico.

3/ Siamo quindi giunti alla monarchia. Le cose andranno diversamente, nel caso di questo

regime? No, certo, e sempre per la stessa ragione: la mancata coerenza al principio intrinseco su cui si basa un determinato regime. La sedicente monarchia assoluta non è, e non può mai essere, realmente “assoluta”: il re non potrà governare da solo, non potendo egli sapere tutto, ne farsi obbedire con il solo ricorso alla sua forza fisica. Avrà bisogno di consiglieri, come anche di esecutori: ecco perché si rivolgerà per gestire lo Stato agli amici, ai cortigiani, alle amanti, agli amici delle amanti, ecc. Alla fine, saranno costoro che suggeriranno al re le decisioni da prendere, ma che ne assicureranno anche l’esecuzione (Tp 6.5). Detto altrimenti, la monarchia sarà in realtà una aristocrazia mascherata. Proprio per questo, però, si caratterizzerà come il regime peggiore (ivi): in essa il comando non si baserà su discussioni collettive a cui seguiranno decisioni prese a maggioranza. Ciascuno, individualmente, cercherà per parte sua di influenzare il sovrano. Tutto si ridurrà ad una baraonda la cui posta consisterà nella conquista del favore del principe.Da ciò, di nuovo, deriveranno tre diverse conseguenze:

a) Innanzitutto la decadenza economica verrà ad accentuarsi. Dal momento che i favoriti del re governeranno senza alcun controllo, il loro interesse principale sarà chiaramente quello di arricchirsi alle spese della popolazione assoggettata, particolarmente, ben inteso, di quella parte che gode di ricchezze consistenti (Tp 7.13, 7.21). Il re non si opporrà a tutto questo: ha tutto l’interesse a che i suoi sudditi rimangano in condizione miserabile. Le ricchezze possedute dai sudditi susciteranno la sua invidia e, nella misura in cui la ricchezza è di fatto un potere, gli sembrerà minacciare, anche solo potenzialmente, la sua ambizione di dominio (Tp 6.6, 8.31). Il commercio e l’industria andranno a rotoli, prostrati dal peso delle imposte, delle spese di corte, ecc. (Tp 8.31). Il popolo diverrà chiaramente man mano sempre più scontento. b) Per arginare, o prevenire, lo scontento popolare il sovrano disporrà di due mezzi. Il primo è di natura ideologica: tenterà così di farsi passare per un dio, per un rappresentante di Dio, oppure per un monarca investito per diritto divino (TTP XVII p. 204-5). Ecco in che consiste l’“arcano” di cui si ammantano i regimi monarchci (TTP, Prefazione, p. 6-7). Ma per ottenere questo effetto il re avrà bisogno dell’appoggio del clero, facendo sì che le sue funzioni siano circondate da un aura di grande prestigio (TTP, Prefazione p. 6-7). Il clero acquisirà così grandissimo potere. I preti faranno dunque regnare un soffocante clima d’inquisizione, che andrà a rinforzare ancora di più il loro potere, ecc.: alla fine il loro potere reale sarà più forte di quello del sovrano (cfr. TTP tutto il capitolo XIX). c) Il secondo mezzo, molto più brutale, è politico: è il ricorso all’esercito. Tale esercito sarà di mercenari, chiaramente, che verranno impiegati per reprimere il popolo (TTP XVII p. 213; Tp 7.12). Ma i mercenari, al di là delle numerose vessazioni e tasse che faranno ricadere sulla popolazione, esigeranno sempre nuove guerra per arricchirsi (Tp 7.22). Il re gliele accorderà, anche perché (altro “arcano” del regime monarchico) la guerra gli permetterà di far apparire il suo ruolo apparentemente indispensabile agli occhi de popolo (Tp 7.5, 8.31). Questo piano ha comunque il suo prezzo: l’esercito mercenario, date queste condizioni, verrà ad avere un grandissimo potere.

Qualunque generale ambizioso, per poco che abbia conseguito qualche vittoria e si sia reso minimamente popolare agli occhi delle truppe, sarà in grado di rovesciare il re (Tp 7.17). Ministri dediti alla concussione, dignitari ecclesiastici, capi militari, tutti gli ingranaggi dello Stato tenderanno ad autonomizzarsi scatenando una guerra di tutti contro tutti per il possesso del potere supremo: al vertice dello Stato si creerà una situazione pericolosamente vicina allo stato di natura. Ed eppure, un meccanismo regolatore, malgrado tutto, esiste: le rivolte popolari, che si verificano quando il re ed i suoi favoriti esagerano veramente troppo con le ingiustizie, ossia quando la paura, che fin allora aveva schiacciato il popolo, muta in indignazione (Tp 3.9, 4.4 in fine). Tali rivolte non risolveranno nulla: per troppo tempo il popolo è stato abituato a scaricare ogni responsabilità su un solo uomo e ad obbedirgli ciecamente: subito dopo aver cacciato il sovrano, se ne darà un altro, come fece il popolo inglese con Cromwell. Questo nuovo monarca attiverà lo stesso meccanismo. Si riprodurrà lo stesso decorso: il nuovo re farà le stesse identiche cose dei suoi predecessori (TTP XVIII p. 226). Si verificheranno nuove rivolte, un altro monarca prenderà il potere, ecc. Tutto ciò ì non durerà all’infinito. Verrà un momento in cui il popolo perderà ogni speranza. Diveneuto totalmente apatico, sarà disposto ad accettare ogni cosa. Si arriverà allora ad una sorta di stato d’equilibrio che, come accadde presso i Turchi, potrà durare per lungo tempo se il paese non sarà soggetto di attacchi dall’esterno (Tp 6.4). Ma tale stato di pace sociale, è l’equilibrio della morte: lo Stato non avrà più alcuna vitalità, né alcuna “virtù” (Tp 10.8), vale a dire non possiederà più alcuna potenza. Al più piccolo assalto da parte di potenze esterne affonderà senza colpo ferire. Il popolo assoggettato non potrà che gioirne (Tp 5, p. 74). Così muoiono i corpi politici. Come eliminare questi meccanismi di malfunzionamento che minano lo Stato? Questo è il problema fondamentale della scienza politica. Il metodo da seguire per risolverlo è indicato da Spinoza al capitolo 5 del Trattato politico: occorre, ci dice al paragrafo 2, fare riferimento alle finalità proprie delle società organizzate politicamente. Frase di primo acchitto stupefacente pensando a quanto Spinoza contesti l’idea di fine. Ma proseguendo la lettura del paragrafo 2, diviene finalmente chiaro cosa voglia dire: le finalità delle società sono quell’insieme di desideri che spingono gli uomini a volerne continuamente fare parte, a ricostituirle ogni volta se si disgregano, a non voler restare mai allo stato di natura. Ora questi desideri sono noti. Abbiamo constatato che, ogni volta che la società politica si disgregava o tendeva a disgregarsi, era a causa dei conflitti che vi regnavano, della discordia che vi era presente (discordia economica, ideologica e politica). Abbiamo ugualmente visto che ogni volta che la discordia tendeva a prendere il sopravvento, si creava un clima di insicurezza generatore di paura, del tutto insopportabile per gli uomini. Abbiamo infine osservato che ogni volta che s’instaurava questa situazione, la trasformazione della paura in indignazione produceva una reazione di segno contrario rivolta ad eliminare le cause di insicurezza. Il suo scopo era ristabilire il più possibile un clima di concordia, eventualmente anche strutturando i rapporti sociali su basi nuove – al limite tornando allo stato di natura per uscirne subito con la costituzione di un nuovo regime. Ecco in cosa consiste il conatus della società politica: lo sforzo ostinato e tenace per perseverare nel suo essere al di là di tutti gli squilibri che l’affettano. La via da seguire è dunque bella che tracciata: si tratta di fare riferimento a questo conatus, cercando condizioni che soddisfino al massimo le finalità sue proprie. Si tratta, detto altrimenti, di definire sistemi istituzionali che presentino modalità di autoregolazione il più efficaci possibile: sistemi dotati di meccanismo di funzionamento capaci di spingere gli uomini a vivere in pace, nella concordia reciproca, assicurando di conseguenza una sicurezza perfetta. Tali sistemi si riprodurranno da soli, senza l’intervento di alcun fattore o situazione perturbante, senza subire l’oscillazione tra stati catastrofici di squilibrio e stati di approssimativo riequilibrio. Certo, posto il problema in questi termini, le soluzioni possibili sono infinite. Innanzitutto va detto che esistono almeno tra grandi forme di autoregolazione della società, ciascuna adatta a specifiche circostanze differenti dalle altre. Prima forma di autoregolazione: esempio tipico ne è l’impero turco. È del tutto disastrosa. Ciò che ne permette l’attuazione, è solo il fatto che il popolo è troppo terrorizzato per sollevarsi (Tp 6.4). In

verità, come abbiamo visto, solo apparentemente in questo caso ci troviamo di fronte ad una società politica autoregolata: essa lascia lo Stato senza alcuna vitalità interiore, alla mercé del primo urto proveniente dall’esterno. Il Trattato politico chiaramente non se ne occupa minimamente. Seconda forma di autoregolazione: esempio tipico ne è la teocrazia ebraica, che Spinoza ha studiato dettagliatamente nel capitolo XVII del TTP. Essa è adatta per i paesi i cui costumi sono rimasti allo stato di barbarie (economia naturale, intolleranza religiosa, inettitudine al governo collettivo). Dal punto di vista politico la sua efficacia è massima, assicurando perfettamente la concordia e la sicurezza. Gli uomini vi sono massimamente felici, certo, ma a quale prezzo? Sono felici perché, costretti ed educati ad obbedire senza riflettere, si lasciano guidare come bestie (Tp 5.4 alla fine). Questa forma d’autoregolazione ha dunque come contropartita la morte dell’intelligenza. Per loro grande fortuna, i lettori olandesi di Spinoza non vivevano in un paese dove dominava la barbarie: quindi il Trattato politico se ne occupa solo marginalmente. Infine, terza forma di autoregolazione: è quella che, con modalità diverse, è adatta ai paesi civili come ad esempio l’Olanda (economia mercantile, attitudine alla tolleranza religiosa, attitudine al governo collettivo). È proprio di essi che Spinoza si occupa negli ultimi sei capitolo del Trattato politico. In essi presenta due modelli ideali di sistema istituzionale. 3 – Due modelli ideali di società politica

In questi sei ultimi capitoli del Tp (il capitolo XI è incompiuto), Spinoza ci propone quindi dei modelli istituzionali adatti a paesi come l’Olanda. Ben inteso, non pensa che questi che presenta siano i soli modelli possibili di società politica civile in cui si manifesta una efficace capacità di autoregolazione: (mancano le pag. 159 – 160). divisioni. Perché il sistema funzioni efficacemente occorre che il popolo formi di fronte al re un blocco monolitico, saldato da interessi comuni di cui deve avere piena coscienza. Ma come ottenere tutto ciò? In verità, abbiamo già delle indicazioni in merito. Le abbiamo incontrate trattando degli effetti indotti dalla proprietà del denaro e della terra. Una via dunque è tracciata. La terra, abbiamo detto, divide gli uomini, mentre il denaro li unisce. La terra divide perché è un oggetto gravato da una forma esclusiva di possesso: ogni uomo quindi per invidia desidererà avere quella degli altri. Un campo può appunto esser posseduto da una persona sola: quindi il solo modo posseduto da un contadino per aumentare il suo patrimonio è prendersi il campo di un altro. Anche nel caso in cui la terra fosse ugualmente ripartita, gli effetti dell’invidia sarebbero solo attenuati, non soppressi. Gli uomini non vivrebbero comunque in regime di reciproca unione e concordia: ognuno si occuperà del suo proprio campo e solo di questo. Non esisterà niente al di là dei confini della propria proprietà. Nessuno penserà di avere interessi solidali con quelli degli altri. Il denaro, al contrario, non divide gli uomini: per guadagnarlo, non c’è alcun bisogno di prenderlo agli altri. È sufficiente lavorare e risparmiare. Non ci sarà alcuna traccia di invidia economica. L’economia monetaria è un fattore positivo di unione tra gli uomini: il banchiere ha interesse che il commerciante cui ha prestato del denaro faccia buoni affari; il commerciante ha interesse che i suoi fornitori e i suoi clienti facciano buoni affari; ecc. Progressivamente, tutti arriveranno ad avere un interesse diretto che ci sia prosperità generale: essendo un fatto immediatamente evidente, tutti ne avranno coscienza. Chiaramente, date queste condizioni, si formerà una volontà popolare unica. Ma, appunto, per ottenerla occorrerà che i cittadini s’interessino esclusivamente al denaro, e non alla terra come fine in sé. Il mezzo per ottenere tutto ciò è semplice, ma radicale: nazionalizzare la terra (Tp 6.12). Intendiamoci: “nazionalizzazione” non significa “collettivizzazione”. Ciò che dice Spinoza è che la

terra dovrà appartenere allo Stato, e che sarà quindi lo Stato a darla in affitto a singoli cittadini, che, individualmente, la sfrutteranno e ne venderanno i prodotti sul mercato (ivi). Essi saranno però dei locatari, non dei proprietari: la differenza è enorme. Sarà così evitata l’immobilizzazione dei capitali dovuta all’acquisto delle terre. Nelle monarchia europee del XVII secolo, e particolarmente in Francia, la priorità dei borghesi ricchi era comprare la terra per “vivere come i nobili”, ossia per godere delle entrate garantite dalla rendita fondiaria. Nella monarchia di Spinoza, invece, questo non sarà più possibile: chiunque avrà conseguito lo status di “ricco” sarà obbligato, per far fruttare il suo denaro, ad investirlo nel commercio, o a prestarlo ad altri per fare degli investimenti (Tp 7.8). Si tratterà dunque di un regime basato su un’economia mercantile allo stato puro, in cui sarà del tutto cancellata la proprietà fondiaria, di fatto un ultimo vestigio di economia feudale. Certamente non ci troviamo qui di fronte ad una riproduzione puntuale del sistema capitalistico sviluppatosi in Europa a partire dal XVII secolo. Esso infatti si insediò grazie all’apparizione di un nuovo ceto, il proletariato, prodotto dall’esodo massiccio di contadini cacciati dalle loro terre. Nel regime di Spinoza, al contrario, l’accesso al suolo è facilitato al massimo, ma il suo possesso è regolato in modo tale che la terra, cessando di essere oggetto di investimento finanziario, cessi nello stesso tempo di essere oggetto di investimento affettivo.

La pratica del commercio e del prestito ad interesse creerà legami indissolubili tra gli uomini: verrà realmente a sussistere un interesse generale immediatamente percepibile da tutti (Tp 7.8). Come si tradurrà’ tutto questo nell’ambito dell’assemblea legislativa? Tutte le decisioni da prendere: “circa gli affari comuni e le attività pacifiche” (ivi) otterranno senza problemi, ossia celermente, maggioranze massicce. Il re sarà dunque obbligato a conformarsi alla volontà del popolo, e giustamente perché essa sarà una, ed una sola: una volontà reale, cioè, non un’intenzione verbale.

O almeno il re vi sarà obbligato in particolare se sarà presa un’ulteriore precauzione concernente le istituzioni religiose. c) Cosa diverranno le istituzioni religiose? Il principio su cui si basa la risposta è evidente. Sviluppandosi un fiorente commercio estero, come abbiamo visto, i frequenti contatti con stranieri, e quindi con religioni diverse, non mancheranno di influenzare gli abitanti del paese. L’intolleranza diverrà per forza di cose un pericoloso elemento di disgregazione dello Stato: il capitolo XX del TTP si sofferma sulle ragioni per cui, venendo alla luce divergenze d’opinione, sarà impossibile ridimensionarle (a meno che non se ne sopprimano le cause, vale a dire il commercio stesso, cosa assolutamente da escludere), ma anche cercare di sopprimerle, pena la fine dello Stato. La tolleranza s’impone, dunque. Ma in quale forma? A rigor di logica, una sola soluzione è concepibile: fare in modo che tutti i cittadini appartengano alla stessa religione. Tale religione, però, dovrà accordare una totale libertà di pensiero ai suoi fedeli, non imponendo loro l’osservanza obbligatoria di alcun precetto: non ci saranno quindi dogmi, si dovrà solo rispettare un ristretto numero di principi basilari. Un simile sistema religioso, come vedremo, sarà quello più confacente al sistema aristocratico. Nel regime monarchico questa soluzione è inattuabile: se ci fosse una chiesa di Stato, il re ne sarebbe per forza il capo. Questo gli darebbe un prestigio enorme, che lo metterebbe nella condizione di affrancarsi dalla tutela della assemblea facendosi passare per rappresentante diretto di Dio. E se il re non divenisse capo della chiesa? Sarebbe ancora peggio, perché ci sarebbero allora due poteri in concorrenza tra loro. Resta dunque una sola soluzione possibile: la religione dovrà essere un affare puramente privato. Tutte le chiese e tutte le sette che faranno domanda di costituzione dovranno essere autorizzate a farlo, alla sola condizione di predicare la concordia e l’obbedienza alle leggi. Nessuna di esse dovrà beneficiare di alcun privilegio, nè godere del benché minimo sostegno positivo (finanziario, ecc.) da parte dello Stato. I preti delle varie chiese dovranno avere lo status di semplici individui (Tp 6.40). Tutto ciò non mancherà di provocare degli inconvenienti, perché il popolo sarebbe comunque diviso in una moltitudine di chiese e sette. Cristallizzandosi le differenze, il rischio di conflitti sarebbe sempre presente. Ma il clima di estrema solidarietà progressivamente creato dalle istituzioni economiche renderà queste contrapposizioni del tutto inoffensive.

Questa sarà la monarchia ideale. Spinoza non pensava certo che Gugliemo D’Oramge avrebbe accettato una simile costituzione, ma essa è comunque il sistema logicamente più adeguato ai principi della monarchia. Un giorno o l’altro verrà fuori un re intelligente che lo farà suo. Una volta impiantate queste istituzioni, non bisognerà far altro che lasciar funzionare il meccanismo: lo Stato monarchico troverà da solo il suo equilibrio. Non potrà più essere distrutto, se non per imprevedibili cause esterne. 2/ La teoria dell’aristocrazia ideale è oggetto dei capitoli VIII, IX e X del Tp. Il modo in cui è impostato il problema è esattamente: data una repubblica aristocratica, quella cioè in cui la sovranità è detenuta dal patriziato, come far sì che esprima al massimo la sua potenza? Come evitare che si manifestino contraddizioni interne, ottenendo così un effiace funzionamento dello Stato? Quali sono, di conseguenza, le istituzioni perfettamente conformi alla logica intrinseca al principio basilare che caratterizza questo regime? Ma tutto ciò significa domandarsi - e si tenga presente che il Tp è stato scritto dopo il colpo di Stato di Guglielmo d’Orange - : cosa occorrerà cambiare per evitare che le istituzioni del regime aristocratico si disgreghino? a) Come dovranno essere, innanzitutto, le istituzioni relative al governo della repubblica? In questo caso la sovranità appartiene per definizione all’assemblea formata dall’intero patriziato. I patrizi vengono nominati per cooptazione (Tp 8.1). É solo la loro assemblea, ed essa sola, che fa le leggi e nomina i magistrati (Tp 8.7). Il suo potere si avvicina realmente ad essere assoluto, contando un numero di membri sufficiente per permetterle, con sole sue risorse interne, di conoscere la situazione presente del paese e di far applicare le decisioni prese (Tp 8.3). L’assemblea non ha alcun bisogno di consultare il popolo, ed infatti quest’ultimo non ricopre alcun ruolo in seno allo Stato (ivi). Essa non ha neanche più bisogno di un’armata popolare: nulla le impedisce di reclutare mercenari, anche stranieri, per reprimere i suoi sudditi. In ogni modo, essendo i plebei degli stranieri in patria (8.9), di fatto non sussiste alcuna differenza tra un soldato plebeo ed un soldato straniero. Quali inconvenienti comporterà questo per il popolo? Nessuno, ma ad una condizione, imprescindibile: l’assemblea patrizia dovrà essere sufficientemente numerosa. Ognuno dei suoi membri è dominato dalle passioni. Così, la spinta delle passioni trascina i patrizi a prendere direzioni politiche differenti, spesso opposte. Essi possono mettersi d’accordo al momento del voto solo se avranno a capacità di considerare gli elementi che accomunano i loro rispettivi desideri, accettando che nessuno alla fine otterrà in toto ciò che vagheggia. Quindi, più i patrizi saranno numerosi, più le passioni contrarie tenderanno vicendevolmente a neutralizzarsi. Il denominatore comune che scaturirà da questo meccanismo di compensazione si avvicinerà progressivamente a quanto prescritto dalle esigenze della ragione: solo queste, infatti, sono realmente universali (Tp 7.6). Chiaramente ciascun patrizio condivide con gli altri il desiderio di opprimere quanto più possibile la plebe: ma è anche vero che ciascuno vuole opprimerla a suo modo. Queste differenti volontà spesso risultano incompatibili. Se i patrizi perciò saranno abbastanza numerosi, dal loro confronto scaturirà il miglior compromesso possibile. La soluzione adottata sarà certamente di non opprimere nessuno, ed i plebei, in definitiva, non avranno nulla da temere (ivi). È quindi assolutamente necessario che l’assemblea sia abbastanza numerosa. Sta qui il cuore del problema. Ciò che da sempre ha mandato in rovina le repubbliche aristocratiche, come abbiamo visto, è la sproporzione numerica esistente tra patriziato e plebe. Questa causa di degenerazione va quindi eliminata: il rapporto tra il numero dei patrizi e quello dei plebei non dovrà mai andare al di sotto di un limite ben definito. Il rapporto ideale, dice Spinoza, è di 1 a 50: almeno 1 patrizio ogni 50 plebei. Nessun inconveniente si sarà se esso aumenterà dal lato dei patrizi: anzi (Tp 8.2; 8.13). Di conseguenza, ogni volta che la popolazione andrà ad aumentare o che la casta dirigente diminuirà di numero, occorrerà ristabilire l’equilibrio cooptando nuovi patrizi: ecco la prima legge da emanare, legge fondamentale da cui dipenderà l’esistenza del regime aristocratico (Tp 8.13).

Ma chi dovrà essere nominato? In linea di principio chiunque, poiché l’assemblea è sovrana. Ma lo Stato ha interesse che la scelta cada sui ricchi. In questo modo, per accedere al patriziato gli plebei verranno spinti ad arricchirsi (al quale tutti gli uomini potranno aspirare, stante la disponibilità di posti vacanti): la loro avaritia sarà fortificata dall’ambizione di dominio, e questo stimolerà le attività economiche (Tp 10.6, 10.7). Ecco il motivo per cui Spinoza prescrive una tassa molto onerosa da pagare al momento della elezione a patrizio. Solo i ricchi potranno permettersela (Tp 8.259). Inversamente, ma per la stessa ragione, periodicamente il patriziato dovrà compiere delle epurazioni tra i suoi membri, eliminando gli elementi incapaci, o alla prova dei fatti parassiti. Ogni patrizio caduto in rovina per le sue mancanze decadrà da tutti i diritti. Se, invece le sue disgrazie saranno dovute a semplice sfortuna, lo Stato, comportandosi come una vera e propria compagnia d’assicurazioni, lo indennizzerà (Tp 8.47; 10.7). In definitiva, quindi, se la legge fondamentale verrà rispettata alla lettera, tutti i plebei lavoreranno per diventare ricchi, tutti i patrizi lavoreranno per restarlo, la prosperità economica regnerà: non ci sarà perciò traccia di scontento nel popolo (Tp 10.7). Come dar sì che la legge fondamentale venga rispettata? Questo sarà appunto il compito di un’assemblea più ristretta: il consiglio dei sindaci. Questo consiglio sarà composto da vecchi patrizi, eletti a vita dall’assemblea plenaria: eletti a vita per essere al riparo da ogni pressione, ma vecchi a sufficienza per non avere tempo sufficiente a divenire troppo orgogliosi (Tp 7.25). Il loro ruolo sarà vegliare sul rispetto della costituzione (Tp 8.20), ed in particolare a che la legge fondamentale venga applicata (Tp 8.25). Perché abbiano interesse svolgere il loro compito, beneficeranno della tassa pagata dai nuovi patrizi alla loro nomina (Tp 8.25). L’assemblea patrizia sarà troppo vasta per poter lavorare con sufficiente celerità. Dovrà quindi assegnare la maggior parte dei compiti esecutivi ad una assemblea più ristretta, eletta tra i suoi membri. Essa sarà responsabile della gestione del potere esecutivo: il Senato (Tp 8.29, 8.33 – 34). I senatori avranno un mandato della durata di un anno. Tutti i patrizi possano così sperare di essere nominati, un giorno o l’altro (Tp 8.30). Che all’interno dei patrizi sussista una sorta di democrazia interna ai è il miglior modo per soddisfare l’ambizione di dominio di ciascuno, ridimensionando le cause d’invidia. Anche i senatori saranno pagati mediante un prelievo effettuato sui proventi del commercio estero: avranno così interesse che si mantenga una situazione di pace e prosperità economica ( Tp 8.31). Queste sono dunque le istituzioni governative dell’aristocrazia: l’assemblea patrizia farà le leggi e nominerà i magistrati; il Senato le eseguirà; i sindaci controlleranno il tutto. Tutti avranno interesse a fare bene il loro lavoro. Ma l’efficacia di questo lavoro dipenderà, ancora una volta, dal tipo di istituzioni economiche e religiose esistenti. b) Da ciò che abbiamo detto è evidente che le istituzioni economiche faranno riferimento ad un contesto dominato dal commercio, relazione economica predominante. Ma il regime di proprietà di cui i plebei potranno godere sarà diverso da quello presente nella monarchia ideale. Infatti i plebei, non godendo di alcun diritto civile, veri e propri stranieri in patria, non avranno alcuna ragione di sviluppare un qualche attaccamento nei confronti dello Stato. Se dovessero possedere solo beni mobili, nulla gli impedirebbe di lasciare il paese: in caso di guerra, o d’epidemia, o di crisi economica, essi emigrerebbero sicuramente, e con loro partirebbe la loro fortuna. Questo sarà una grave perdita per la società, tanto più nel caso che posseggano consistenti ricchezze, (Tp 8.10). Bisognerà che quindi sviluppino un forte legame con il paese. Per farli rimanere in pianta stabile, bisognerà accordare loro la proprietà privata del suolo, prendendo tutte le misure possibili perché ne mantengano il possesso, ossia senza che ne possano venire privati: non c’è altro modo. Anche in questo caso, di conseguenza, sarà così semplice accedere al possesso del suolo che un ceto proletario non potrà in ogni caso costituirsi. Per questo motivo il regime basato sull’economia mercantile non potrà essere definito capitalista. In questo caso, quindi, la terra (acquistata e non presa in affitto) sarà oggetto d’investimento finanziario ed affettivo. Senza dubbio, per le ragioni già dette, tale attaccamento alla terra produrrà una certa divisione tra i plebei. Questo però non comporterà un gran danno, perché essi non dovranno eleggere alcuna assemblea. Per di più, i plebei

non sono coscienti di avere interessi comuni: e tento meno la svilupperanno, più sarà facile governarli. Quanto ai patrizi, essi godranno dello stesso regime di proprietà (Spinoza non dice nulla al riguardo): il rischio che al loro interno si sviluppino divisioni sarà ampiamente compensato dalla netta prevalenza dell’economia mercantile, che verrà in ogni caso assicurata dalla vigilanza delle istituzioni governative. Lo stesso vale per le istituzioni religiose, che in effetti costituiranno un importante fattore di unificazione.

c) Le istituzioni religiose dovranno chiaramente avere il ruolo, per le ragioni già indicate a proposito della monarchia ma valide per altro per tutti i paesi civili, di far regnare la tolleranza più completa. Ma esso non verrà svolto nel modo visto per il regime monarchico. Per funzionare bene occorre che l’assemblea patrizia sia unita, che faccia blocco di fronte alla plebe – come il popolo della monarchia doveva fare blocco di fronte al re. Va dunque evitato in ogni modo che si costituiscano delle fazioni al suo interno: la plebe potrebbe utilizzare tale frammentazione a suo profitto. La presenza di differenti sette religiose è di fatto un fattore di contrapposizione, non calmierato d’altra parte, a differenza della monarchia, dal regime di proprietà in vigore nell’aristocrazia. Si rischierebbe che ogni patrizio vada a sentirsi più solidale con i suoi correligionari plebei che con gli altri patrizi appartenenti ad altre chiese. Per impedire la divisione in sette, tutti i patrizi dovranno quindi far parte di una sola e stessa chiesa di Stato (Tp 8.46).

Ma questa religione di stato non contraddice il principio di libertà religiosa? No, e per due ragioni: da una parte, i dogmi di cui sarà prescritta l’osservanza dovranno essere estremamente semplici, per essere accettati da tutti gli uomini, qualunque siano le loro credenze. Dovranno limitarsi al denominatore comune condiviso da tutte le religioni compatibili con la vita in società. Per il resto, ognuno potrà pensare e dire ciò che vorrà (Tp 8.46). Questo “credo minimo” è stato esposto da Spinoza nel capitolo XIV del TTP, e ad esso Spinoza rimanda: Dio esiste (poco importa che natura abbia, potendola concepire ognuno come gli pare); Dio è unico, onnipresente ed onnipotente (poco importa in cosa consistano questi due attributi); Dio ci ordina (poco importa sotto quale forma) di praticare la giustizia e la carità; Dio salva coloro che praticano queste due virtù, non gli altri, e perdona a coloro che si pentono (poco importa in che modo venga concepita la salvezza, la perdizione ed il perdono). Questo è l’insieme di credenze di base indispensabili alla pace civile. Per tutto ciò che va al di là di esse, ognuno è libero di fare e pensare ciò che vuole. D’altra parte, nessuno è obbligato a rivestire lo status di patrizio. I plebei, anche se incoraggiati dalle istituzioni ad aderire alla chiesa di Stato, non hanno l’obbligo di farlo. In materia religiosa le cose vanno come nella monarchia ideale: tutte le chiese che ne fanno domanda possono essere ammesse e ricevere l’autorizzazione a svolgere la loro predicazione, alla sola condizione che non predichino nessun insegnamento contrario al credo minimo (Tp 8.46). Ecco le istituzioni della aristocrazia ideale. Tale regime sarà perfettamente autoregolato, tanto quanto il precedente: potrà quindi durare all’infinito a meno che non intervengano cause esterne, del tutto imprevedibili, che ne provochino la distruzione (Tp 10.9). Ultima precisazione, infine: il regime aristocratico potrà funzionare organizzandosi secondo due modalità diverse, ossia adottando due strutture differenti: una centralizzata (come a Venezia), ed una federale (come in Olanda). Il regime aristocratico centralizzato, studiato in dettaglio nel capitolo VIII, prevede che la sovranità venga esercitata da un’unica assemblea, risiedente in una sola città. Quello sarà il luogo in cui si concentreranno tutte le istituzioni precedentemente descritte. Il sistema istituzionale non cambia nel caso dell’aristocrazia federale, studiata brevemente nel capitolo IX. Solamente, essa ora è moltiplicata per tutti i centri che costituiscono la federazione: ogni città deterrà sovranità propria, esercitata da un’assemblea plenaria, dal senato, e dai sindaci, ecc. Il governo centrale troverà sede in un senato federale in cui troveranno posto i delegati eletti ed inviati da ogni patriziato locale (Tp 9.5, 9.6). Quest’ultimo è il sistema maggiormente preferibile. Infatti ogni patriziato locale, essendo il numero dei propri delegati al Senato federale proporzionale al numero dei membri che conta tra le sue fila (Tp 9.6), sarà fortemente incitato ad aumentare il numero dei suoi componenti per prevalere sui patrizi delle altre città (Tp 9.14). Forse se questa

tendenza all’espansione andrà a prevalere sulla tendenza contraria (che comunque evidentemente molto forte), il regime aristocratico potrà avvicinarsi a quello democratico.

Non possiamo che dare congetture sulle democrazia ideale poiché il capitolo 11 è stato appena abbozzato da Spinoza. Possiamo comunque dire qualcosa: come abbiamo visto, i rimedi preconizzati da Spinzoa per la monarchia e l’aristocrazia hanno l’obiettivo di far tendenzialmente funzionare questi due regimi in termini democratici, per quanto è nella loro natura. Ci possiamo quindi concedere delle estrapolazioni. Si potrebbe ricostruire la democrazia spinozista tentando di figurarsi cosa diverrebbe l’aristocrazia feudale se ogni patriziato locale, a forza di aumentare i suoi effettivi, finisse per integrare nel suo seno tutta la popolazione (ad eccezione delle donne e dei servitori (Tp 11.3; 11.4): come ho cercato di mostrare in modo più approfondito in altri scritti). Ugualmente, una ricostruzione ipotetica della democrazia ideale potrebbe essere fatta immaginando cosa accadrebbe nella monarchia ipotizzata da Spinoza se, per una ragione o per l’altra, il re si trovasse ad essere durevolmente impossibilitato ad esercitare le sue funzioni (cfr. Tp 6.16 alla fine). Le due ipotesi daranno risultati diversi, chiaramente: chissà, forse proprio per questo Spinoza non riuscì a terminare questo capitolo prima di morire. Ma forse possiamo richiamare anche un’altro argomento. Il tentativo di Spinoza è di far funzionare dei regimi non democratici quanto più democraticamente possibile. Al loro interno quindi il principio democratico potrà essere applicato in termini solamente relativi, in riferimento alla specifica situazione che caratterizza ciascun regime, ossia la monarchia e l’aristocrazia: rispetto al regime monarchico, tale principio si incarnerà in un insieme di contrappesi; nel regime aristocratico, concernerà invece gli istituti della sovranità patrizia. Una democrazia funzionante i termini democratici, quindi, non potrà che essere assolutamente democratica. Non potrà ammettere alcun contrappeso, e dovrà concernere l’intera popolazione: proprio questa è forse, come dice Sponoza a proposito della saggezza, la: “cosa più difficile e rara” (Eth. II prop. 42 schol.) a trovarsi.

Su Spinoza.

Intervista a Alexandre Matheron condotta da Pierre-François Moreau e Laurent Bove

Laurent Bove – La sua lettura di Spinoza, condivisa o meno che sia, è a tutt’oggi uno dei punti di riferimento più importanti per i ricercatori che studiano spinoza. Quando ha cominciato a lavorare su Spinoza, e a che punto erano, in quel periodo, gli studi sul filosofo olandese? Alexandre Matheron – L’inizio delle mie ricerche su Spinoza risale al 1949. Dovevo sostenere il concorso per il diploma di studi superiori, e quell’anno presentava come argomento di tesi (l’equivalente della tesi oggi richiesta per conseguire la “maîtrise) la politica di Spinoza. Per quanto ne sappia, fu la prima volta che Spinoza venne proposto come argomento di tesi, e fu la prima volta che me ne occupai. Molto male, d’altra parte: non feci altro che una piatta parafrasi del Trattato Politico e degli ultimi capitoli del Trattato Teologico – Politico. Il mio interesse principale non andava tanto verso Spinoza. In quel momento ero membro del partito comunista, (e, come volevano i tempi, anche piuttosto stalinista). Mi ero appena iscritto e stavo cercando un filosofo che potesse funzionare come precursore di Marx. Volevo trattarlo in termini dogmaticamente marxisti: prima le forze produttive e dai rapporti di produzione, poi le strutture politiche, le correnti ideologiche, e la lotta di classe, per arrivare infine alla filosofia. Ben inteso, non avevo fatto nulla di tutto questo nel mio DES: ma contavo di farlo in seguito… Naturalmente, non l’ho mai fatto! Ho cominciato ad elaborare una vera e propria traccia interpretativa quando ero già assistente ad Algeri, alla fine degli anni cinquanta o all’inizio degli anni 60. In quel momento lo stato degli studi spinoziani in Francia era inesistente. Mi ricordo di essere stato invitato, qualche anno più tardi, ad una riunione a casa di Althusser per preparare un seminario su Spinoza (e che poi non è mai stato fatto)… L.B. – In quale anno?

Matheron – Non me lo ricordo, penso subito dopo l’uscita di Lire le Capital. C’era Macherey, e anche Badiou, che già conoscevo di nome. Fu certamente prima del maggio 1968. L.B. – Verso il ‘65 – ‘66? Matheron – Sì. Eh! Quel giorno Althusser ci diede come bibliografia solo Delbos e Darbon: che era poi quanto avevo già letto per la preparazione dell’aggregazione di cui dicevo, in cui c’era Spinoza come programma. C’era la copia dattiloscritta del corso di Alquié, un articolo di Misrahi sulla politica di Spinoza, e basta, per quello che ricordo. D’altra parte, quando andai da Gueroult a chiedergli una bibliografia, mi ripose: “Non esiste bibliografia! Su Spinoza non ne sa niente nessuno, tranne Delbos e Levi-Robinson!”. Non c’era praticamente nulla, e la situazione non è cambiata quasi fino al ‘68. L.B. – Nella bibliografia di Individu et communauté chez Spinoza, ha citato però Sylvan Zac… Matheron – Ah, sì! È vero: Zac, con la sua tesi del 1962, è stato il primo ad aver dato il via agli studi su Spinoza. Ma dopo di lui non ci fu più nulla pressochè fino al ‘68. Effettivamente, se guardate la bibliografia di Individu et Communauté vedrete che è quasi vuota. L.B. – Naturalmente, mettendo a confronto la bibliografia che si trova a dover affrontare oggi uno studente che cominci a studiare Spinoza con quella a sua disposizione…

Matheron – La differenza è enorme, chiaramente…Nel ‘68 apparve lo stupendo libro di Bernard Rousset, che precedette quello di Gueroult… L.B. – E quello di Gilles Deleuze… Matheron – Deleuze venne un po’ più tardi. Gueroult escì alla fine del ‘68, Deleuze all’inizio del ‘69 ( il libro data 1968 ma in realtà uscì in libreria nel ‘69). L.B. – La sua ricerca deve qualcosa a Rousset e Deleuze, visto che venne realizzata e compiuta proprio nello stesso periodo? Matheron – Rousset e Deleuze non hanno avuto alcun ruolo nelle mie ricerche, io non li conoscevo per niente. Goueroult, invece, era il mio, così si diceva, “padrino” al CNRS, il mio tutor: ogni tanto andavo a trovarlo, e in quelle occasioni mi parlava tantissimo del suo libro che era allora in preparazione. Ma molte di quelle cose di cui mi parlò non le compresi assolutamente: ad esempio, mi parlò molto del rapporto tra sostanza ed attributi (tema di grandissima importanza nel suo studio), ma io non lo capì, e non feci nulla di quello che mi disse al riguardo, assolutamente nulla. Invece, una cosa che invece capì e tenni, che poi mi è stata utile quando sono andato a costruire l’impianto della mia tesi, ossia i suoi argomenti basilari, è la differenza tra l’idea che noi siamo e le idee che abbiamo: questo punto ha una grandissima importanza per Gueroult, ed io l’ho effettivamente assimilato, tanto che è uno dei caposaldi anche del mio lavoro. Ma, a parte questo, il lavoro di Gueroult su Spinoza non è che mi sia granché servito per la compilazione della mia tesi, per quanto riguarda cioè l’identificazione degli argomenti su sui è centrata. Ne ebbi una conoscenza indiretta, per così dire, basata esclusivamente su quello che lui mi raccontava. In ogni modo, tra i mie argomenti ed i suoi non c’era quasi alcuna coincidenza: solo un’ottantina di pagine su 600, quante ne ha Individu e Communaute, mostrano una stretta corrispondenza con il suo lavoro. Basta prendere i testi e metterli a confronto. Invece le sue osservazioni metodologiche mi sono state di grande aiuto. Il metodo da lui impiegato nell suo libro su Descartes (quello su Malebranche mi piace meno) è stato per me un vero e proprio modello: ho voluto lavorare esattamente allo stesso modo! L.B. – Nel volume lei cita anche Sartre, che torna anche nella bibliografia di Le Christ et la Salut des Ignorants. Sartre è chiamato in causa per ben due volte, dunque, … Matheron – Nella bibliografia del Christ ho voluto fare riferimento ad una precisa categoria teorica. Quindi la citazione è da intendersi come richiamo puntuale: dico che all’interno della teocrazia ebraica, per come la presenta Spinoza, la relazione dominate è quella simile alla “fraternità – terrore” di cui parla Sartre. La mia citazione vuole quindi richiamare questa specifica categoria. Invece in Individu et Communauté ho effettivamente attinto molto alla Critica della ragione dialettica: al passaggio dalla serie al gruppo, in particolare, da cui ho tratto degli spunti per l’analisi da me condotta sulla teoria spinoziana delle passioni. Pierre-François Moreau – Vorrei tornare un momento indietro, se è possbile. Nel ‘49 lei ha detto che non esistevano studi su Spinoza. A questo periodo data la sua tesi di maîtrise: per altro pessima, come lei stesso ci ha raccontato. Nel ‘66 scrive la tesi che poi andò a sostenere nel ‘69. Che cosa è successo tra questi due passaggi? Matheron – Ho insegnato all’università di Algeri dal 1957 al 1963, e, una volta che ebbi scelto il mio soggetto di tesi, Spinoza, appunto, mi ci misi a tempo pieno. Proprio per questo, tenni parecchi corsi su Spinoza (anche perchè i nostri superiori in facoltà se ne fregavano altamente di ciò che proponevamo ai corsi). In questi corsi andai a toccare anche argomenti forse un po’ troppo ardui per

i miei studenti di allora. Ma in effetti erano tutti passaggi che stavo elaborando per il libro, e non a caso andarono in seguito a confluire in Individu et Communauté. P.-F. M. – Quindi è in quel momento che decise il suo argomento di tesi? Matheron – Sì, è proprio in quel momento che l’ho concepita. In seguito andai al CNRS, dove passai i cinque anni successivi a redigere le mie due tesi. Le idee principali che vi sono contenute, comunque, mi sono venute mentre ero ad Algeri. P.-F. M. – Le è mai venuta l’idea di lavorare su qualcos’altro, in quel periodo in cui la sua carriera era ancora all’inizio? Matheron – No, veramente no. A parte una volta, ma ero ancora molto legato allo stalinismo (capirete, ero ancora molto giovane). Mi dissi: “Bisogna che tiri fuori qualcosa sui materialisti del XVIII secolo”. Mi sembrava “politicamente giusto”, come si diceva all’epoca. Ma capivo, avvertivo già allora che Spinoza era molto, molto meglio di D’Holbach ed Helvétius – nei confronti dei quali, d’altra parte, nutro ancora oggi una profonda simpatia: ma tra loro e Spinoza la differenza che passa è bella grossa! Come si fa a metterli sullo stesso piano! L.B. – E Brunschvig? Non lo cita mai. Non le è stato utile in nessun modo? Matheron – No, in effetti Brunschvig non mi è servito per niente…È vero, ho dimenticato di parlare di Brunschivig…E ho anche dimenticato di dire che, tra tutta la prima generazione di autori che scrissero su Spinoza, ce n’è uno a cui debbo moltissimo, che mi ha, letteralmente, illuminato: può sembrare paradossale, ma è Lachièze – Rey. Il suo libro, Les origines cartésiennes du Dieu de Spinoza, mi è stato di grandissimo aiuto. È stato il primo ad affermare che tra “natura naturans” e la “natura naturata” non c’è divaricazione, ma che costituiscno una sola ed unica natura, esistente tanto come naturans che come naturata. Oggi è un concetto banale, per quanto ancora molti stentino a capirlo fino in fondo. Ma per me allora ebbe l’effetto di un’illuminazione, perché non me ne ero mai reso conto prima. Non ci avevo mai pensato. P.-F. M. – Fece parte per qualche tempo del comitato di redazione della Nouvelle Critique? Matheron – No, assolutamente. Avrei sicuramente accettato di farne parte, se me l’avessero chiesto: ma in effetti non me lo chiesero mai. È vero invece che negli anni ’50 – cioè nella N. C. di quegli anni, avete presente? – uscì un mio disgraziatissimo articolo – lo scrissi in collaborazione con Michel Verret e François Furet…chissà come poté uscire un lavoro simile da una così buona compagnia… – su Les Communistes d’Aragon. Un articolo terribile: ultra, iperstalinista. L.B. – Il periodo in cui prese in considerazione di fare una tesi su Spinoza, è praticamente lo stesso in cui apparve il libro di Desanti… Matheron – Il suo uscì prima. L’Introduction à l’histoire de la philosophie uscì, credo, nel 1956. E mi interessò moltissimo. L.B. – Quel tipo di impostazione, era quella che in prima battuta riteneva giusto seguire nella stesura della sua tesi? Il libro che aveva in mente doveva avere quella struttura? Matheron – Sì, esattamente. Pensavo di fare qualcosa sul genere. Dopo averlo letto, ero convinto che quella era la strada da seguire. Volevo scrivere un primo volume di 500 pagine sulle forze produttive, i rapporti di produzione, le lotte di classe in Olanda, ecc. E poi un secondo volume,

sempre di 500 pagine, in cui sarei finalmente entrato nel merito del pensiero di Spinoza. Ma appena cominciai a lavorarci, rinunciai subito al primo volume. Del resto, non ero già più stalinista all’epoca. L. B. – All’epoca, vale a dire? Matheron – Dal 1957. Non ero più nel partito. Sono rientrato in seguito, dal ‘64 al ‘78, ma tutte le mie simpatie andavo alle correnti d’opposizione, ad Althusser, Labica, ai miei allievi, compresi quelli, ormai vecchi, che facevano parte della Revue Dialectique. Mi ritenevo e restavo marxista, nell’accezione generale del termine. L. B. – Allo stesso tempo però lei continuò a citare il libro di Desanti e, come mi ha già detto in un precedente colloquio, aveva tanto più piacere a citarlo quanto più Desanti andava a prenderne le distanze… Matheron – Sì, sì, ho sempre continuato a citare Desanti, se non altro per ricordargli che il suo libro, che lui, di fatto, stava rinnegando, costituiva invece un lavoro di gran valore. È il miglior testo marxista di storia della filosofia che abbia mai letto, escluso il libro di Negri.

L. B. – Anche quando Desanti va a distinguere tra “tendenze materialiste” e “tendenze idealiste” in Spinoza?

Matheron – Chiaramente no. Non ha più alcun senso per me cercare in ogni filosofia una contrapposizione tra due poli, uno materialista e l’altro un idealista, il cui rapporto sia definibile in termini di contraddizione dialettica. Altra cosa, come penso ora, è dire che in una filosofia si possano distinguere differenti poli, tendenze differenti in conflitto tra loro. Ma che tutto questo si possa e debba comprendere a partire da una sola contraddizione, unica ed eterna, sorta di “filo rosso della storia della filosofia”, come diceva Lenin: no, non lo credo più, assolutamente. A meno che il termine “materialismo” non venga impiegato in un’accezione considerevolmente più ampia. Infatti, quando Engels definisce per “materialismo”: l’assunzione della “natura in quanto tale, così com’è, senza alcuna aggiunta esterna”, questa tesi può essere effettivamente fatta valere anche per Spinoza. Ma non è quanto si intende ordinariamente per “materialismo”. L. B. – Questo significa che il libro di Desanti ci è utile in quanto ottimo esempio di analisi marxista delle condizioni storiche che caratterizzavano l’Olanda dei tempi di Spinoza? Allora le cose che dice su Spinoza hanno scarso valore interpretativo? Matheron – No, questo non lo direi. Infatti le sue analisi ci danno comunque degli importanti insegnamenti. Sarebbero del tutto insufficienti agli occhi di uno storico (sono piuttosto schematiche: si vede che risentono di un quadro definito a priori), ma sono estremamente importanti per capire quali problematiche Spinoza avesse di fronte, e quale ne fosse l’articolazione. Desanti è bravo nell’estrapolare le questioni che costituirono il punto di partenza necessario di Spinoza, la base su cui impiantò le sue riflessioni. Quindi, se le sue tesi non ci dicono molto su Spinoza, pure sono importanti per capire perché dette una certa impostazione al suo lavoro. Tratteggiano con precisione alcune delle condizioni che dettarono l’apparizione dello spinozismo in Olanda, dandoci una spiegazione, seppur parziale, del perchè una teoria simile poteva nascere solo lì e non altrove. Negri ha fatto la stessa cosa, sicuramente adottando un altro punto di vista, certo, ma in ogni modo applicando un procedimento del tutto sovrapponibile a quello di Desanti. In realtà, Desanti aveva previsto un secondo volume centrato sul pensiero di Spinoza, che non vide però mai la luce. Sono sicuro che sarebbe stato molto bello, completamente slegato dai contenuti del primo.

L. B. – Ancora una domanda sul testo di Desanti. Vi viene affermato che, per salvaguardare il nucleo materialista che pure è presente in Spinoza, bisogna espungere dalla sua teoria ogni richiamo alla categoria di terzo genere di conoscenza… Matheron – Dice questo? L. B. – Sì. Matheron – Ah! Ma allora il mio ricordo del volume non è così buono come pensavo! Ma è una dimenticanza che parla da sola, però: guarda caso, per parte mia ho sempre pensato l’esatto contrario. Per dirla tutta cominciai a mostrare maggiore interesse per la quinta parte dell’Etica dopo aver preso le distanze dal Partito Comunista. Mi ricordo che quando ero ancora aggregato la cellula degli studenti di filosofia decise di far uscire un giornalino di cellula che aveva lo scopo di propagandare la lettura de L’Humanité. Io partecipai con un articolo: vi facevo un paragone tra Le Figaro che mentiva, Le Monde che dava solo conoscenze di primo genere, France-Observateur a cui riconoscevo almeno il merito di dare a volte delle conoscenze di secondo genere, e L’Humanité, infine, che era l’unica a dare conoscenze di terzo genere! Tutta la cellula trovò l’articolo era sicuramente molto divertente, ma che, “in definitiva”, non poteva comunque accettarlo! Questo piccolo aneddoto serve a dire che in fondo non ho mai ignorato l’importanza della conoscenza di terzo genere. Me ne sono occupato da sempre …Però allora avevo la tendenza a figurarmela come “stadio pratico della conoscenza”, per dirla con Mao. Ritenevo che l’eternità spinoziana prefigurasse la vita militante. Pensavo che non esistesse esempio più riuscito di adeguazione dell’esistenza degli uomini alla loro essenza – adeguazione che per altro rimpiangevo di non poter realizzare, essendo un così cattivo militante! Fortunatamente, questa fase non durò molto. Ma almeno avevo capito una cosa importantissima: la conoscenza di terzo genere non è solo un elemento essenziale nel sistema di Spinoza, a è qualcosa di reale, che può essere effettivamente vissuto, che può effettivamente condurre ad una sorta di “salvezza”. L. B. – Quando Desanti dice che Spinoza è un pensatore borghese, ha ragione, secondo lei? Matheron – No. Ma quando ho cominciato a riflettere su Spinoza la pensavo allo stesso modo. Era chiaro per me Spinoza, nei limiti concessi un pensatore borghese, aveva toccato le vette più alte del pensiero. Rimanendo nell’ambito del pensiero borghese non si poteva andare al di là di lui. Poi, alla fine, mi sono accorto che in realtà il suo pensiero si era spinto così oltre da non conservare più alcun contatto con la sua matrice borghese. Non c’era più alcuna traccia di borghesia in lui, Spinoza se ne era completamente svincolato. All’inizio, dunque, avevo cominciato a studiare Spinoza perché vi vedevo un precursore di Marx. Questo metteva in luce quanto avesse trasceso i limiti che gli imponeva la sua collocazione di classe. Pensavo che tutto ciò costituisse un merito enorme e ne mostrasse il grandissimo valore. Ora, invece, preferisco piuttosto pensare a Marx come ad uno dei successori di Spinoza, almeno per alcuni aspetti, e a ritenere che questo costituisca un merito enorme, e ne mostri il grandissimo valore. P.-F. M. – Quelli che oggi lavorano su Spinoza posseggono una letteratura molto più ampia di quella a sua disposizione al tempo. Di questa fanno parte anche numerosi studi di ricercatori stranieri. Assistiamo infatti ad un rinnovato interesse per Spinoza anche fuori della Francia. All’epoca si conosceva poco la letteratura straniera su spinoza, e quando era conosciuta non era apprezzata. Gli autori che lei cita nella sua tesi, come ad esempio Dunner… Matheron – Non vale niente. Ma non tutti erano così. Ebbi diversi buoni libri provenienti da fuori tra le mani, quando lavoravo alla tesi: il libro di Feuer, ad esempio, mi piacque molto.

P.-F. M. – E conosceva Leo Strauss all’epoca? È un altro mai citato da lei.

Matheron – No, non conoscevo le analisi di Leo Strass. Avevo letto il suo libro su Hobbes, ma non conoscevo il lavoro su Spinoza. Avevo letto Wolfson, chiaramente, che non mi dispiaceva, ma che non mi aveva neanche particolarmente colpito. Era un approccio che non mi apparteneva. Mi fu utile per apprendere diverse cose che non conoscevo: ad esempio, ero molto ignorante in materia di filosofia ebraica, allora. P.-F. M. – Aveva contatti con altri studiosi di Spinoza? Matheron – Con nessuno, no. Non ne conoscevo neanche l’esistenza. O meglio: sì, in effetti c’era Marianne Schaub. Quando venivo a Parigi, ci vedevamo per bere qualcosa insieme, ma non parlavamo mai di Spinoza. P.-F. M. – E Sylvain Zac, l’ha conosciuto personalmente? Matheron – No, l’ho conosciuto dopo aver terminato la mia tesi, un po’ prima di entrare a Nanterre, dove andai ad insegnare come cultore della materia (“maître – assistano”, n.d.t.) (l’equivalente di “maître de conférence”) dal ‘68 al ‘71. Ho sempre avuto un eccellente rapporto con li: era un uomo adorabile! P.-F. M. – Chi diresse la sua tesi? Matheron – Chiesi di seguirmi a Gouhier, perché pensavo che Gueroult non dirigesse delle tesi. Gouhier, alla fine, diresse la mia tesina complementare. Per la tesi principale invece mi mandò da Polin, che da parte sua non mi aiutò granché, ma neanche mi ostacolò. P.-F. M. – Quindi lei ha conosciuto Gueroult quando divenne suo “tutor” al CNRS? Matheron – Avevo letto i suoi libri, ma di persona l’ho incontrato solo lì. Non lo vidi mai al di fuori di quel contesto, a parte il giorno in cui sostenni la tesi, perché lui faceva parte della commissione. Abbiamo parlato sempre e solo di Spinoza, salvo una volta, in cui lui si lanciò, non so perchè, in una gran filippica contro Alain Peyrefitte, che io ascoltai per educazione. Ecco, questa fu l’unica conversazione che avemmo, e poi più nulla. P.-F. M. – L’ha rivisto dopo la sua tesi? Matheron – Non l’ho più rivisto. Ci siamo scritti qualche volta, o sentiti per telefono. Mi chiese, per esempio, di fare una scheda di valutazione del suo libro, cosa che ho fatto, per altro, ma non l’ho più rivisto fisicamente. P.-F. M. – La cosa che stupisce è che lei è da sempre considerato l’allievo più vicino a Gueroult, e non solamente sul piano intellettuale, ma proprio nel senso che tra voi ci sarebbe stato un rapporto personale molto profondo. Matheron – Sì, lo so. È il motivo per cui alcune persone con cui Gueroult non era stato molto disponibile hanno pensato che c’entrassi io, in qualche modo…che fosse a causa mia che lui aveva fatto così. P.-F. M. – L’eminenza grigia…

Matheron – Sì, grottesco! Non solo è falso, ma per di più io non ero minimamente al corrente di quello che stava succedendo, anzi, ne ho avuto conoscenza solo molto dopo: e questo vale in tutte le situazioni per cui si è “chiacchierato”. In effetti, Gueroult in nessuna occasione mi ha mai parlato male di un collega…No, dimenticavo: una volta effettivamente mi parlò male di uno, ma fece solo un accenno ed in termini estremamente allusivi. Si trattava di qualcuno di cui all’epoca ignoravo tutto, persino come si chiamasse. L. B. – Ma tra Desanti e Gueroult, è Gueroult è stato più importante per lei. Matheron – Dal punto di vista metodologico, sicuramente sì. P.-F. M. – Il fatto di essere in Algeria ebbe un qualche ruolo nel suo approccio a Spinoza? La guerra era già in corso, e metteva a ferro e fuoco tutto… Matheron – Forse. Non escludo che quanto stava accadendo abbia giocato un ruolo nelle mie riflessioni, e penso in particolare al capitolo che tratta della teoria delle passioni. Ci sono delle espressioni che ho usato che evocano modi di dire che sarebbero stati bene in bocca ad un tifoso dell’“Algerie française”. Erano quelli che si sentivano usare nei confronti degli Algerini. P.-F. M. – Li ha scritti volutamente così, pensando coscientemente ad un simile caso? Matheron – Sì, almeno in un punto: il passaggio in cui spiego come l’ambizione di gloria si trasformi in ambizione di dominio ed in invidia. Si comincia con il voler piacere agli altri e così gli si rende un servizio. Quindi si desidera che l’altro regoli i suoi desideri sui nostri: alla fine, si arriva a spogliarlo dei suoi beni. Dopo aver spiegato questo aggiungevo che la resistenza delle vittime: “É considerata l’ingratitudine più profonda”, e citavo un’espressione che rendeva bene questo stato d’animo: “Dopo tutto quello che si è fatto per loro!”. È un esclamazione che si sentiva pressoché ovunque per le strade del versante francese di Algeri. L. B. – Le discussioni con Gueroult hanno mai toccato lo Spinoza politico? Matheron – No, mai. Questo aspetto di Spinoza non lo interessava per nulla. Credo addirittura che non abbia proprio mai accennato alla politica di Spinoza nelle discussioni con me. Quindi non so come la pensasse in proposito. Quando ero ad Algeri, c’era una brava professoressa, Ginette Dreyfus, che era gueroultiana fino alla morte. Ci fu un anno in cui nel programma per l’aggregazione era stato messo il Trattato politico. Bene, la sentì dire che non era per nulla d’accordo, perché: “non era un testo interessante”. Presumo dunque che Gueroult la pensasse allo stesso modo. Ma d’altronde, quando ero al CNRS, ogni volta che gli portavo il lavoro svolto, e questo accadeva necessariamente ogni anno (in quanto l’ordinamento prescriveva l’obbligo periodico di consegna degli elaborati al tutor), lui mi faceva tantissime osservazioni di ogni sorta, elogi, critiche, ecc., ma non mi disse mai nulla sui capitoli che riguardavano la politica di Spinoza. Evidentemente non gli interessava per niente. L. B. – Ma non ebbe mai la percezione che la lettura di Gueroult rimuovesse il tema della potenza? Non era un problema aperto, per lei, questo? Matheron - No. Curioso, no? Proprio all’inizio del primo capitolo di Individu et Communauté chez Spinoza avevo subito posto, così, di primo acchitto, una tesi su cui per altro sto lavorando ora, della cui giustezza sono del tutto convinto: la sostanza come attività pura. È grazie a Lachièze-Rey, che era un grande idealista, che ho avuto quest’idea. Infatti cito la sua espressione dell’estensione come: “spazio in corso di spazializzazione, e non spazio spazializzato”. Ben inteso, per Lachièze-Rey

l’idea che l’estensione possa essere un fulcro di attività - che in modo del tutto corretto aveva attribuito a Spinoza - è del tutto insostenibile, “in realtà”,: Spinoza avrebbe dovuto “logicamente” professare l’idealismo. Ma a questo punto io non lo seguivo già più. Fin dalle prime pagine di Individu et Communauté ho tentato di portare argomenti a favore della tesi che legge la sostanza come una forma di attività pura – anche se allora non prendevo a riscontro Etica, come faccio oggi (non ero ancora in grado di rintracciare questi temi nell’Etica), quanto piuttosto il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, ed in particolare la teoria della definizione genetica ivi presentata. Dal momento che comprendere significa comprendere geneticamente, e dal momento che essere e conoscere sono in definitiva la stessa cosa, ne concludevo immediatamente che, per Spinoza, l’essere è genesi e produttività. Ma, detto questo, ero passato ad altro. E posso affermare che la lettura di Gueroult ebbe anche questo effetto su di me, che rimossi più o meno del tutto quest’intuizione – in gran parte a causa dell’influenza che ebbe su di me la sua nozione di “attributo proprio alla sostanza”. Non che l’avessi rinnegata, ma non ci pensavo più. Ero sinceramente convinto che la nozione di “attributo proprio alla sostanza” fosse a mio avviso fosse perfettamente in grado, a condizione di trasformarne il senso – ossia di non parlare di attributo proprio alla sostanza, ma della sostanza considerata rispetto al suo attributo – di illustrare completamente il metodo seguito da Spinoza nelle prime proposizioni dell’Etica. Ma in realtà seguire questa linea mi ha fatto scontare un grosso ritardo. Alla fine erano già gli anni ’80 quando ho rimesso mano alla mia intuizione iniziale: appena cominciai, come si dice, a “sublimare” Gueroult. P.-F. M. – Prima di concepire la sua tesi, o materialmente di scriverla, aveva subito altre influenze? Ci furono delle opere importanti di storia della filosofia o di storia delle idee che ebbero un’azione su di lei? Matheron – Leggevo tutto ciò che si leggeva allora, e ne apprezzavo la grandezza: opere di storia della filosofia straordinarie. Leggevo Gouhier, per Gilson, e anche per Goldschmit (che aveva in comune con Gueroult l’interesse per le strutture) e tutti suscitarono moltissimo la mia ammirazione. C’era Lévi-Strauss. Zac disse un giorno a qualcuno, era proprio davanti a me: “Matheron ha fatto per Spinoza ciò che Lèvi-Strauss ha fatto per i sistemi di parentela”. Penso che sia vero, in particolare per la combinatoria con cui ricostruisco le costituzioni del Trattato politico e la teocrazia del TTP. Parlo anche, comparando la monarchia e l’aristocrazia spinozista, di strutture “simmetriche ed inverse”: ecco, tutto questo lo devo a Lévi-Strauss. L. B. – C’era anche il libro di Macpherson… Matheron – Sì, è vero, mi ha molto influenzato, ma più per Hobbes – e forse non è stato un bene, perché sembra quasi che oggi non sia più “in voga”…Invece io lo trovo sempre un buon lavoro. Leggendolo, mi aveva fatto l’effetto di un’illuminazione. Quando lo ebbi tra le mani, era da molto che lavoravo su Hobbes, perché, quando arrivai ad Algeri, era nel programma di licenza. Mi appassionò, e così feci in modo che la scelta per il programma d’esame cadesse di nuovo molto spesso su di lui… L. B. – Prima dei suoi lavori, in relazione ad una tradizione che risale al XVIII secolo, il pensiero politico di Spinoza era strettamente identificato a quello di Hobbes. La prima rottura su questo, l’introduzione di una distinzione forte tra i due, è stata operata proprio da lei. Ne ha consapevolezza? Matheron – Credo che nei paesi anglosassoni si pensa e si sia pensata la politica di Spinoza apartire da quella di Hobbes. In Francia, dove d’altra parte non esistevano grandi opere su Hobbes, come pure su Spinoza (eccetto il libro di Polin), la situazione era per forza di cose differente. Vero è che alcuni pensavano addirittura che la politica di Spinoza fosse un plagio maldestro, senza alcun

interesse, di quella di Hobbes, ma che, fortunatamente, rimanesse del tutto esterna all’impianto del suo pensiero. Altri, invece, contrapponevano il contrattualismo liberale di Spinoza – ossia qualcosa di cui non c’è traccia in Spinoza - alla teoria del “diritto del più forte”di Hobbes – ossia qualcosa di cui non c’è traccia in Hobbes - . In ogni modo, quasi tutti i confronti di questo genere poggiavano appunto su equivoci e incomprensioni. L. B. – Conosce il libro di Madeleine Francès? Eccone un altro che non cita mai… Matheron – Sì, certo. È un libro interessante, ma, vista la direzione che stavo prendendo, non avevo da tirarne fuori granché. L. B. – Riprendiamo più in dettaglio l’analisi di Individu et Communauté ripartendo dalle nozioni di “individuo” e di “conatus”. Scorrendo i suoi articoli e Individu et Communauté spesso sembra all’opera una sorta di “modello cibernetico”. Vi si trovano sovente espressioni del tipo: “una totalità chiusa su di sé che si riproduce in permanenza”; vengono impiegate le nozioni di “autonomia relativa”, di “autoregolazione”, di “sistema autoregolato”, di “sistema autoregolato di comunicazione”, o ancora di “struttura autoregolata”…Tutto questo nasce della visione cibernetica dominante all’epoca, ossia alla fine degli anni ’40. Questo tipo di approccio ha avuto un qualche influsso su di lei? Matheron – É possibile, ma in effetti ho letto pochissime cose di cibernetica. Erano nozioni che giravano nell’aria… L. B. – All’epoca uscì per Les Editions Sociales un libro di Guillaumaud sulla cibernetica e il materialismo storico. Anche Sylvan Zac, all’inizio del suo libro, cita un’opera su questo tema scritta da Ruyer. Matheron – Ma io non avevo letto nulla di tutto ciò. Erano idee che funzionano bene applicate a Spinoza. In effetti si può dire che in Spinoza esista effettivamente l’idea di “autoregolazione”: i sistemi politici per lui sono effettivamente sistemi autoregolati… L. B. – Ma non si dovrebbe piuttosto dire che Spinoza si distacca dalla problematica della conservazione, che pure in effetti ha largo spazio nel Trattato politico, a favore di una problematica centrata sulla infinita produttività del reale? Il modello cibernetico non è ancora legato ad una logica di conservazione? Matheron – Io non credo che Spinoza abbandoni la logica della conservazione. È evidente che per lui nella misura in cui agiamo conserviamo il nostro essere: ogni cosa che produca effetti conserva per questo il suo essere, posto che gli effetti prodotti non entrino in contraddizione con la sua natura. Non ho mai abbandonato questa prospettiva perché ritengo che Spinoza stesso non l’abbia mai abbandonata. Ma penso anche, e l’ho sempre pensato, che la nozione di “conservazione”, presa in senso stretto, in senso strettamente biologico, abbia un ruolo del tutto secondario in Spinoza, ad esempio molto più che in Hobbes: Spinoza non ha mai ridotto l’essere dell’uomo all’istinto biologico di conservazione. E dunque vero che, al limite, nell’Etica avrebbe anche potuto fare a meno della nozione di conservazione, a favore invece di quella di “potenza di esistere ed agire”. Ma questo non avrebbe comunque impedito che il dispiegamento della potenza di esistere ed agire avesse come conseguenza (non come fine, ben inteso) l’autoconservazione e l’autoregolazione dei corpi. Quindi vi saranno diversi modelli di auto regolazione, a cui corrisponderanno differenti modalità di conservazione: esisterà un’autoconservazione statica atta a riprodurre un sistema identico a se stesso, sul modello dello Stato ebraico; esisterà poi un’autoconservazione dinamica che riprodurrà un sistema per “elevazione”, sul modello degli Stati del Trattato politico, che

consiste cioè nel movimento verso un livello superiore. Per gli individui accade la stessa cosa: ci sono individui che si conservano, nel senso ristretto del termine, in modo limitato; ed altri che si conservano sviluppando, aumentando continuamente la loro produttività. A partire dal momento in cui le idee adeguate cominciano a giocare un ruolo importante nella nostra mente, è questa seconda forma d’autoregolazione che entra in ballo. Tutto ciò non è in contraddizione con la nozione di autoregolazione, presa in se stessa, e non la mette in discussione: l’uomo libero, quello che vive sotto la condotta della ragione, si sforza di produrre tutti gli effetti che scaturiscono dalla sua natura di uomo libero, appunto, e proprio in relazione a ciò farà sì di conservarla. L. B. – La nozione di “individuo” presentata in Individu et Cmmunauté non ha mai subito cambiamenti rilevanti rispetto al suo contenuto ed alla sua centralità. Matheron – No, non credo. A parte il fatto che in Individu et Communaté mi dilungavo forse troppo in questioni di dettaglio, che ora mi sembrano un po’ troppo artificiose. Non a caso risultano un po’ slegate tra loro, combinandosi solo per alcuni, e minimi, aspetti. Oggi, al limite, direi solamente che un individuo è un insieme di corpi in interazione gli uni con gli altri secondo un sistema di regole che si distinguono da quelle di altri sistemi. L. B. – Il problema è lo statuto delle norme relative alla comunicazione del movimento… Matheron – Sì, perché i membri di una società organizzata politicamente si comunicano dei movimenti (anche solo parlando, al limite), ed il risultato è la riproduzione dell’organizzazione sociale di cui fanno parte. Tali movimento sono regolati da norme, all’interno delle quali figurano le leggi civili. L. B. – É la comunicazione del movimento che fa l’unità dell’individuo. Matheron – Sì, rispetto a determinate leggi, diverse da quelle di altri individui. In questo momento, ad esempio, noi ci stiamo comunicando dei movimenti, regolati da determinate norme che sono state precisate all’inizio (le regole di base dell’intervista), a loro volta differenti da quelle tramite cui la gente in strada comunica i propri movimenti. Proprio per questo, noi tre stiamo formando un embrione di individuo…Ma in Individu et Communauté ho abusato di quest’idea, estendendola eccessivamente. Ho applicato ad ogni specie di individuo tale modello psico – matematico: pensavo che ogni cosa potesse essere, a priori e di diritto, oggetto di matematizzazione, mentre in effetti lo scambio linguistico… P.-F. M. – Era la moda dell’epoca… Matheron – Chiaramente, e lo sapevo bene. D’altra parte Desanti, la sola volta che mi ha parlato del mio libro, mi disse: “È molto ingegnoso, il tuo modello…”. Ora, direi piuttosto che le cose vanno a funzionare in questo modo solo in casi particolari. L. B. – Lei è arrivato alla concezione della politica spinoziana che poi ha sviluppato attraverso le sue analisi sulla nozione di individuo, o è stata la riflessione sulla concezione della politica di Spinoza che l’ha condotta poi ad elaborare la sua nozione di individuo? In effetti, questa categoria nell’ambito politico trova una grandissima produttività: si può dire allora che nasce dallo studio sulla politica di Spinoza? Matheron – Non ricordo bene, ma mi sembra che scrissi i capitoli sulla politica di Spinoza prima della prima parte. Non vorrei sbagliarmi, ma la scrittura della prima parte occupò l’ultima parte del mio lavoro.

L. B. – Questo è molto interessante: il concetto d’”individuo” deriva dalla riflessione sulla politica di Spinoza. Matheron – Sì, infatti. Nella prima parte ho tentato una sorta di analogia tra il processo di costituzione della individualità fisica e ciò che chiamavo ancora (precisando naturalmente che non era un contratto in senso stretto) il “contratto sociale”: ho denominato il concetto che ne uscì “contratto fisico”. L. B. – Una domanda ancora sull’essenza individuale, strettamente connessa a quello di cui stiamo parlando ora. Lei ammette una differenza tra essenza individuale ed essenza singolare? Matheron – No, non la ammetto in nessun modo, ed infatti non la nomino mai. L. B. – L’essenza individuale è caratterizzata da una certa relazione tra i corpi, ed è costitutiva di uno specifico individuo. Essa è, quindi, la norma che presiede alla sua produzione. A partire dalla nozione di individuo, il concetto, assolutamente centrale, più creativo teoricamente, cioè quello che nella sua opera produce i maggiori effetti, è il “principio di imitazione”… Matheron – Sì. Per Spinoza fondamentalmente gli individui umani vanno a formare un’individualità politica tramite l’imitazione affettiva. L. B. – Ma allora, con il ricorso all’idea d’”essenza individuale”, non si ritorna ancora una volta ad un modello di storicità basato sui rapporto inter – individuali tra soggetti? Mathern – No, non la metterei proprio così. Tra condizioni di manifestazione e condizioni di funzionamento esiste una differenza, tanto per un individuo umano che per un individuo politico. Occorre distinguere tra le condizioni esteriori che hanno reso possibile la presenza dell’individuo in questione, ossia le condizioni esteriori che ne rendono possibile la permanenza nell’esistenza, e le leggi interne di funzionamento di quest’individuo, che invece definiscono la sua essenza. Ben inteso, all’essenza dell’individuo umano appartiene la capacità di imitazione affettiva, cioè di vivere interagendo con gli altri. L. B. – La questione della storia non è già presente nella domanda stessa sull’individuo umano? Non è una questione imprescindibile,? Matheron – Ma certo! E vi ricordo (perché in generale non è stato mai sottolineato) che già in Individu et Communauté avevo avanzato delle precise proposte in proposito. Ho consacrato un intero capitolo, mettendo insieme brani diversi pezzo dopo pezzo, come un puzzle, al tentativo (mi sembrava così poco verosimile che Spinoza stesso non ci avesse pensato) di ricostruire se non una teoria spinoziana della storia – che forse è una parola grossa – almeno una teoria dell’evoluzione interna relativa ad una determinata formazione sociale, fatta astrazione dagli effetti indotti da cause estrinseche. Combinavo le due grandi leggi di cui fa menzione Spinoza (passaggio della democrazia all’aristocrazia ed alla monarchia, passaggio dalla barbarie alla civiltà e decadenza), ricostituendone in dettaglio le interazioni. A questo scopo mi avvalevo di tutti i passaggi delle opere politiche e dell’Etica che mi sembravano andare in questo senso. Passando in rassegna tutta la casistica presentata da Spinoza, mi pareva delinearsi uno schema di evoluzione che andava dalla democrazia primitiva al dispotismo turco, passando per l’aristocrazia olandese o veneziana. Ma ho l’impressione che tutto ciò non abbia interessato a nessuno, a parte André Tosel. Invece in Christ et le salut des ignorants, ho trattato la concezione spinoziana della storia a partire da un’angolatura diversa: non ho cercato tanto di ricostruire una teoria spinoziana, quanto piuttosto il modo (non

teorico e non teorizzabile) in cui Spinoza si rappresenta concretamente la storia dell’umanità, e precisamente nel suo versante occidentale, preso nel suo insieme, in particolare tendendo presente il ruolo innovatore avuto del cristianesimo. Qui, chiaramente, ho dovuto insistitere molto di più sulle condizioni esteriori in cui lui operava. Era un approccio differente, appunto. E stavolta, credo, la cosa suscitò un po’ di più l’attenzione di tutti. L. B. – La questione delle passioni è centrale nel suo lavoro. Nessuno aveva parlato della produttività politica di questo tema, prima di lei. Matheron – Sì. C’era sempre, ben inteso, in ogni libro su Spinoza un capitolo sulla teoria delle passioni. Ma in generale si mettevano questi capitoli e poi li si lasciava lì, inutili ed abbandonati… L. B. – La questione delle passioni è legata a quella dell’immutabilità della natura umana. In Spinoza, la natura umana è sempre la stessa. In alcuni articoli, lei si è confrontato con la questione del cosiddetto “conservatorismo” di Spinoza, per esempio in Maîtres et serviterurs dans la philosophie politique classique, o in Femmes et Serviteurs dans la democrazie spinoziste… Matheron – Sono due cose differenti, però. Per quanto riguarda la prima, Spinoza pensa evidentemente che il desiderio, l’amore, l’odio siano passioni che esistono da sempre: in questo senso la natura umana è effettivamente sempre la stessa. Ma le combinazioni delle passioni tra loro, ciò che Moreau chiama le “ingenia” (sono completamente d’accordo con la sua analisi della nozione d’”ingenium”), vanno invece soggette, nel corso della storia, ad infinite variazioni. Non sono mai le stesse passando da un individuo all’altro, o da una società all’altra. Se si mettono a confronto il Trattato Teologico – Politico con il Trattato politico, si trovano forme di “ingenia” estremamente differenti, anche a livello individuale, sia all’interno dello stato ebraico che all’interno delle diverse forme possibili di Stato illustrate dal Trattato Politico. Sono sempre le stesse passioni, certo, ma funzionano differentemente perché vanno a produrre combinazioni differenti – cosa in gran parte dipendente dal contesto storico ed istituzionale in cui agiscono. Ma che sia possibile che un giorno gli uomini possano cessare di amarsi, di odiarsi, ecc., fosse anche solo in minima parte, è assolutamente da escludere, proprio perché saranno sempre affetti da cause esteriori. Anche ipotizzando un domani in cui tutti gli uomini giungano a vivere sotto la condotta della ragione, essi saranno comunque sempre oggetto delle medesime passioni. Solo, le loro combinazioni saranno differenti, e così gli uomini non ne saranno più schiavi. L. B. Politicamente questo si traduce nella sua definizione di comunismo come: comunicazione tra saggi giunti al terzo genere di conoscenza… Matheron – Sì, allora ero già arrivato all’idea che non ci sarebbe potuta essere una società comunista se tutti gli uomini non fossero divenuti saggi! Ma questo significa che si può trovare dappertutto del comunismo, in misura maggiore o minore: ovunque le persone, nei rapporti reciproci che intrattengono, si comportano da “uomini liberi” nel senso definito da Spinoza.

P.-F. M. –Spinoza dice che tutte le forme d’esperienza politica possibili erano ormai state sperimentate. Ma non nomina la forma- partito: e questo la lascia fuori dal suo giudizio. Tale assenza non legittima l’idea che la forma – partito, essendo di fatto allora una modalità di azione politica ancora tutta da inventare, non ricada nelle disfunzioni analizzate da Spinoza?

Matheron – Sì, è vero. Ma è altrettanto vero che, se Spinoza avesse parlato di partiti politici, li avrebbe assimilati a delle sette. Quando dice nel Trattato Teologico – Politico che i membri di una setta vanno a rifiutare come nemici di Dio tutti coloro che non ne fanno parte, e vanno a considerare viceversa come eletti tutti coloro che ne fanno parte, anche i peggiori mascalzoni, sembra proprio

che parli di un partito politico, in fondo, o di una organizzazione mafiosa, fatta astrazione dagli aspetti religiosi… L. B. – Come conseguenza della logica dell’imitazione, lei parla della produttività politica dell’indignazione… Matheron – Sì, ed è un tema che all’inizio non avevo preso per nulla in considerazione. Mi aveva profondamente colpito da subito, anche se poi l’avevo rimosso, quanto dice Spinoza all’inizio del capitolo 6 del Trattato politico: gli uomini vivranno sempre in forme organizzate di società organizzate politicamente perché la spinta di un comune timore, il desiderio di vendetta per un danno comune, subito da tutti, li spingeranno sempre ad unirsi. Ora tutti gli uomini temono la solitudine, quindi, ecc. E per motivare tutto ciò, Spinoza rimanda ad un passaggio del capitolo III in cui afferma che gli uomini danno vita a raggruppamenti non tanto per costituire società politiche organizzate, quanto piuttosto per rovesciare i governi malvagi, in particolare quando la paura che gli ispirano muta in indignazione. Avevo già fatto una minima allusione a tutto questo in Individu et Communauté, parlando delle insurrezioni popolari contro i re: avevo detto che, quando un sovrano passa un po’ troppo il segno nell’esercitare il comando, i suoi sudditi, sospinti dall’indignazione, si univano contro di lui “in seguito ad un processo analogo a quello attivo nella stipula del contratto sociale” (cioè a quanto da me denominato “contratto sociale”, che non era un vero e proprio contratto in senso stretto). Ma non ero andato oltre al riguardo. Poi ci sono tornato sopra. Mi è stato rimproverato, in effetti, di aver definito teoricamente la genesi della società senza fare alcuna menzione alla ragione, al calcolo, ecc., ossia facendone completamente astrazione. In realtà, non ne facevo proprio del tutto astrazione, ma è vero che, pensandoci su, mi ero accorto che, effettivamente, mediante l’intervento del concetto di indignazione (che fino ad allora non avevo avuto presente) si poteva astrarre dal calcolo utilitario. Infatti in questo modo era possibile mostrare come nello stato di natura, essendo gli uomini realmente capaci di provare indignazione, non si realizzasse mai la situazione, come vuole uno schema eccessivamente semplificato, in cui due uomini soli lottano l’uno con un altro per affermare il proprio dominio o per prendersi a vicenda le cose che possiedono: ce ne saranno sempre altri che interverranno, che “si impicceranno di ciò che non li riguarda”, per dirla così. Ed essi prenderanno partito per l’uno o per l’altro a seconda di chi tra i due gli somiglierà di più, e proveranno indignazione nei confronti del suo avversario. In definitiva, in questo modo era possibile spiegare come, senza alcun calcolo, si potesse formare un embrione di società organizzata politicamente. L. B. – Non crede che Spinoza, come Mchiavelli, pensi che esista una memoria della libertà? Matheron – Sì, certo… L. B. – Ma a quindi sussiste l’indignazione assume un carattere “positivo”? È possibile un’indignazione “positiva”? Matheron – Sì e no. Infatti, non bisogna confondere l’affetto dell’indignazione con ciò a cui esso eventualmente conduce. Chiaramente sono convinto che Spinoza sarebbe stato molto favorevole ad una rivoluzione, ma, ad ogni modo, ciò che ha detto esplicitamente è che l’indignazione è sempre negativa in quanto affetto: essendo una forma d’odio, è necessariamente cattiva per coloro che la provano. E per la società, qualunque siano i risultati positivi che scaturiscono da essa, comporta sempre il pagamento di un prezzo molto pesante. L. B. – Quando Spinoza scrive in Etica IV, prop. 51 che l’indignazione è necessariamente cattiva, si ha come l’impressione che lo dica a malincuore. E contemporaneamente contrappone a quest’affermazione, pur non rinnegandola né mutando approccio (cosa estremamente curiosa, a ben

vedere), una concezione ideale, astratta, dell’autorità superiore…Ma queste due posizioni, la cattiva indignazione da una parte, e l’“astrazione” del potere dall’altra, devono realmente essere prese alla lettera, così come sono? Matheron – Sì. Spinoza ci dice che quando (e occorre sottolineare questo “quando”) il sovrano punisce un delinquente perchè desidera mantenere la pace in città, non è motivato dall’indignazione, ma dalla “pietas”, vale a dire da un desiderio condotto secondo ragione. Ci troviamo di fronte ad un’astrazione, e anche, senza dubbio, espressa con una certa ironia, perché Spinoza sa bene che le motivazioni dei sovrani e dei giudici la maggior parte delle volte sono volte ben distanti da tutto ciò. Ma questa affermazione ha anche il valore di verifica “a contrario” della sua tesi: infatti “quando” si arriva al punto che dei giudici si fanno motivare dall’indignazione, questo porta con sé errori giudiziari enormi, ed è dunque estremamente negativo. L. B. – Secondo lei, il tema dell’indignazione subisce un’evoluzione, in Spinoza? Matheron – Dall’Etica al Trattato politico? No, non ne vedo il minimo segno. Quando un regime ne sostituisce un altro sotto la spinta dell’indignazione, questo sortisce sempre effetti negativi, per quanto per altri versi l’esito finale possa risultare positivo. Se ci sono aspetti favorevoli è perchè in realtà tale mutamento non scaturisce solo dall’indignazione, ma anche da altre cause buone (entusiasmo per la libertà e la giustizia, amor di patria, ecc.), come anche dal cospicuo apporto addotto della riflessione. Vero è che Spinoza non ha detto granché al riguardo. Ma, in ogni caso, il suo messaggio è chiaro: l’indignazione comporta sempre ricadute negative, non fosse altro perché fa sì che le persone si muovano alla cieca, senza il minimo barlume di responsabilità. Tutto ciò incide fortemente sul processo che innesca. Spinoza inoltre dice nel capitolo V del Trattato politico che se la causa di un regime cattivo è identificata solo nelle persone che lo dirigono, non si farà altro che sopprimere il tiranno senza eliminare le cause della tirannia, che invece sono del tutto a carico delle istituzioni. Credo che avrebbe avuto senza dubbio grande simpatia per la rivoluzione francese, ma sicuramente non verso i massacri di settembre: che differenza c’è, infatti, tra essi ed il massacro dei fratelli De Wittt? Nessuna. Chiaramente Spinoza sa fin troppo bene che l’indignazione non può essere eliminata se non se ne disinnescano le cause. Bisogna quindi “starci dentro”. Credo che la ritenga una sorta di tara originaria della società, che al limite si può riuscire a circoscrivere ma mai ad eliminare del tutto. Questo è chiaramente evidente nelle costituzioni analizzate dal Trattato politico. Il loro scopo reale è produrre sistemi sociali che funzionino per suscitare sentimenti positivi, facendo sì che siano essi a motivare le azioni degli uomini, e non l’indignazione. In questo modo Spinoza cerca di ridurre al massimo il ruolo – ugualmente, essa non potrebbe mai più scatenarsi contro determinate persone, ma verrebbe ad assumerebbe una qualità astratta, rivolta genericamente contro chiunque meriti di essere punito, chiunque esso sia, senza alcun’altra specificazione o qualifica. Ma qualunque cosa sia l’indignazione, astratta o meno, è comunque il peccato originale che grava sullo stato. L. B. – L’individuo Stato è dunque malvagio per natura? Esiste una natura cattiva? Matheron – Certamente, ma ad essa si contrappongono molte cose che ne controbilanciano l’azione ricreando una condizione, al limite, di equilibrio. Infatti uno Stato fondato solamente sull’indignazione non potrebbe durare. Al massimo, l’indignazione può dar vita a dei manipoli, come quelli di cui è pieno lo stato di natura, molto simili a quei gruppi che nel far west, per fare un esempio, si formano sull’onda dell’eccitazione per linciare un criminale… L. B. – Riecco Sartre che fa capolino…

Matheron – Sì, infatti, bene, comunque quei gruppi possono essere considerati delle società politiche in statu nascendi, ma che non hanno alcuna capacità di durare. L. B. – La fusione del gruppo, ad un certo punto, decade,…Questo discorso ci permette di passare alla questione dei rapporti di forza esistenti tra sfruttati e sfruttatori. Lei, citando Poulantzas, ha usato nei confronti della definizione dello Stato come: “condensazione materiale di rapporti di forza” queste parole: “Spinoza avrebbe potuto dire la stessa cosa” ( in, Spinoza e il potere, uscito ne La Nouvelle Critique). Ma nello stesso tempo ha affermato che in Spinoza, in effetti, tali rapporti di forza non sono determinanti e di fatto non giocano alcun ruolo, se non sotto forma di trama secondaria, presente sullo sfondo. L’espressione che ha impiegato è categorica: “Dal momento che i servitori sono perdenti a priori, la lotta di classe non è il motore della storia”. Matheron – Sì, ed è un fatto inconfutabile. In Spinoza le cose stanno così. Oggi non penso più che i servi siano perdenti a priori, ma sono ancora convinto che la lotta di classe non sia il motore della storia, non foss’altro perché quest’dea si fonda su una teleologia che ha il suo nucleo centrale nella nozione di contraddizione interna. Per Spinoza, al contrario, una contraddizione è sempre esterna, anche quando sembra interna. P.-F. M. – Lei ha detto in un corso: “Molte cose che possono indicare un parallelo possibile tra la filosofia di spinoza ed il marxismo, ma il problema della contraddizione non ne fa parte”. Matheron – Sì. Per Spinoza la contraddizione può essere interna solo in termini topologici. Si può dire, usando il termine in modo grossolano, che esistono contraddizioni presenti nella società, nel senso che è lì che sono localizzate: esse sono però sempre e comunque esterne rispetto alla essenza della società stessa. Per Spinoza, è un elemento a priori: non ci può essere contraddizione interna all’essenza delle cose (ma anche l’affermazione contraria è ugualmente posta a priori). Una contraddizione può sussistere in ciò che Spinoza chiama: “essenza attuale” di una cosa, ossia nella forma assunta dall’essenza quando, mediante il concorso di cause esteriori, giunge ad assumere esistenza temporale – senza tale concorso i modi finiti non potrebbero esistere, ma da esso possono anche scaturire effetti contrari al contenuto dell’essenza eterna. Una società organizzata politicamente, ad esempio, è un individuo composto da individui mai completamente integrati in esso: tali individui hanno sempre rapporti con il contesto esterno, ad esempio, e tutto ciò produce passioni; oppure, allacciano relazioni interindividuali più o meno indipendenti dal funzionamento complessivo delle istituzioni sociali (e anche questo scatena delle passioni); o, ancora, vanno a formare gruppi più ristretti che costituiscono anch’essi degli individui, anch’essi non completamente integrati, che possiedono a loro volta propri sistemi di passioni. E tutte queste passioni più o meno contraddittorie provocano delle ripercussioni sul sistema istituzionale: in ogni caso, alla fine da tutte queste dinamiche scaturisce un consenso collettivo, per quanto generale e generico: la società approva in linea generale le modalità assunte dal funzionamento dello Stato. Tale consenso ne circoscrive e sottolinea l’essenza: proprio grazie ad esso, così, possiamo definirne il contenuto. Ma in ogni caso non risolve la sostanziale estraneità delle istituzioni dello Stato all’essenza della società. Esse non riescono mai a produrne la piena attuazione. Anzi, spesso sono assolutamente incompatibili con essa, risultando alla fine corpi estranei all’interno della società. Ciò fa sì che tutte le costituzioni politiche abbiano sempre qualcosa di ibrido, di inconcluso. P.-F. M. – Proprio per questo nello stato ebraico i Leviti, assunti al potere al posto dei primogeniti, costituiscono, per dire così, il “verme nel frutto”, un apporto esterno interiorizzato. È possibile quindi, in linea teorica, andare in prima battuta ad analizzare lo Stato ebraico come entità a sé, senza alcun rapporto con questo fatto, per poi introdurlo successivamente, e solo successivamente, come causa della sua rovina. Un marxista direbbe che se questo elemento è la causa effettiva della rovina di uno Stato, è perché fa parte della sua essenza: è essa che detta il processo della sua dissoluzione.

Aggiungerebbe che sarebbe una mistificazione descrivere uno Stato considerando questo fattore come esterno, andandone così a scinderne l’evoluzione in due fasi, una precedente ed una successiva…Chi ha ragione, secondo lei, Spinoza o Marx?

Matheron – Non saprei…Ma Spinoza, in ogni caso, risponderebbe che: “Il fatto che questo Stato si disgreghi” è la prova che l’elemento esterno non fa parte della sua essenza. Riprendendo la stessa metafora, volere che il verme nasca dal frutto una mistificazione totale. Lo stesso problema si pone a proposito dell’individuo umano: rispetto alla sua essenza individuale e al suo “ingenium”… Evidentemente esiste un rapporto, tra l’”ingenium” di un individuo e la sua essenza individuale. Può accadere che l’”ingenium” di un individuo sia completamente compatibile con la sua essenza individuale, che venga del tutto integrato in essa: in un caso del genere si può affermare che l’essenza individuale si arricchisce dell’”ingenium”. Per contro, può accadere che l’essenza individuale si attualizzi attraverso un “ingenium“che mal si accorda con essa. Le passioni nocive danno vita ad abitudini negative (i cosiddetti vizi) Da cosa derivano tali abitudini frutto della passione? Le parti del corpo interagiscono tra loro, ma interagiscono tramite norme di movimento in contraddizione, a volte più a volte meno, con quelle che definiscono l’essenza dell’individuo. Da questo fatto si potrebbe concludere che, al limite, posto l’insieme globale di parti che costituiscono un corpo, da esse verranno a formarsi molteplici individui, tutti coesistenti contemporaneamente in quel singolo corpo. Tali parti diverranno il sostrato unico di svariate connessioni, che si porranno come l’attualità di quel corpo: l’individuo che noi siamo, ma anche quell’individuo che prende forma da questa sorta di innesto, ossia l’abitudine passionale che non s’integra con la nostra essenza. L. B. – Esse comunque formano un solo e medesimo individuo: questo perchè si comunicano il movimento secondo norme che, in quanto tali, vanno riferite ad un regime di perseveranza, la continuità nell’esistenza di un insieme dato. Si può allora definire conatus come ciò che integra tali contraddizioni? Un ente persevera nel suo essere secondo il regime dettatati da esse, diretto alla sua distruzione. Il conatus fa sua, integra, appunto, la contraddizione che può uccidere l’individuo all’interno del suo “ingenium”, disinnescandola con la sua positività. Matheron – Sì. Il conatus soggetto alle passioni è proprio questo. Mi è piaciuto molto ciò che lei ha scritto al riguardo. L. B. – Riprendendo Maîtres et serviteurs dans la philosophie politique classique, lei lì afferma che i « grandi antenati », Grotius, Hobbes, Locke, Rousseau : “Con una costanza assolutamente encomiabile, avevano detto molto chiaramente che esistono, fondamentalmente, due tipi di uomini”. Tale lucidità è accompagnata dallo tentativo di giustificare in termini “giuridici” questo fatto. Tale tentativo è il vero e proprio fulcro della loro fatica intellettuale. E tocca un orizzonte intellettuale così vasto da caratterizzarlo come una vera e propria impresa ideologica. Secondo lei, Spinoza dice la stessa cosa, ma senza tutto il contorno ideologico che gli venne costruito sopra. Matheron – Sì: dice le cose come stanno, ma senza dare giudizi, senza dire che è giusto. Ma le sue costituzioni politiche ammettono la possibilità che i servitori scompaiano: infatti essi non sono indispensabili al loro funzionamento complessivo. Spinoza ritiene del tutto concepibile che nello Stato monarchico, ad esempio, che si caratterizza per l’assenza totale di proprietà fondiaria e per una generale diffusione dell’economia commerciale, ognuno arrivi ad occuparsi della sua piccola impresa familiare, e che questo produca una prosperità tale che alla fine anche i servitori potranno, a loro volta, acquistarne una. In un corso, una volta, ho cercato (e la cosa aveva divertito molto i miei studenti) di immaginare la rivoluzione industriale in una società spinozista, in particolare proprio sotto il regime economico che caratterizza la monarchia. Posta in quel contesto, avrebbe avuto esiti completamente diversi: non ci sarebbe stato proletariato, e conseguentemente neanche capitalismo,

perché non ci sarebbero stati grandi proprietari: nessuno avrebbe potuto cacciare i contadini dalle loro terre. Ci sarebbe stato, invece, uno sviluppo molto più rapido della scienza, e delle sue applicazioni tecnologiche. Le piccole imprese familiari si sarebbero potute facilmente dotare di un equipaggiamento molto sofisticato, computer, che sarebbero già stati inventati, automazione totale, ecc. Tutti avrebbero potuto ottenete quanto gli sarebbe servito senza bisogno di ricorrere a servitori. Poco a poco, i processi innescati da tale organizzazione sociale avrebbero spinto le persone ad unirsi in cooperative, arrivando dunque ad una sorta di socialismo, di sistema collettivo di autogestione! P.-F. M. – Dove sarebbero sfruttati solo le mogli e i bambini, insomma…Bel mondo, quello della piccola impresa familiare… Matheron – Ma è anche il mondo dove si potrebbe ottenere una condizione di lavoro equa, alla pari… L. B. – Alla pari? Nell’articolo Femmes et seviteurs dans la démocratie spinoziste lei parla di un mondo “borghese e fallocrate”… Matheron – Sì. Spinoza pensa che finché saremo soggetti alle passioni, le donne saranno dominate dagli uomini. Non ha spiegazioni, né per se stesso né per noi. Come dice lui, è l’”esperienza” che lo dimostra. In un regime in cui gli uomini sono soggetti alle passioni, in ogni coppia si assisterà necessariamente alla lotta per il potere (come accade per tutti gli altri contesti di vista, dopotutto: la sua capacità di comprensione razionale si ferma qui. Ma che siano gli uomini a vincere sempre e comunque: bene, questo non può essere che constatato. Non dice che è giusto, ma non pensa che questa cosa possa cambiare. Le istituzioni politiche non possono fare altro che “starci dentro”. L. B. – E il ruolo della ragione? Non è il solo modo di superare questa situazione? Matheron – Sì, certo. Ecco perché contesto così duramente coloro che dicono che, per Spinoza, solo gli umani di sesso maschile possono divenire “uomini liberi” nel senso definito dall’Etica. Tutt’altro! Non a caso nel capitolo XX dell’appendice della quarta parte dell’Etica Spinoza immagina un matrimonio tra persone che vivono sotto la condotta della ragione, e dice espressamente che la sua qualità più importante è che esso è fondato sulla libertà d’animo “utriusque viri scilicet et fœminæ” (la libertà d’animo dell’uomo e della donna). Il matrimonio ideale, per lui, è quello fondato sulla libertà di spirito dei due coniugi, chiaramente la libertà intesa nel senso da lui posto. Quindi l’”homo liber” dell’Etica può anche essere una donna: “homo” va inteso nel suo significato generico. E dal momento che Spinoza pone la questione del matrimonio rivolgendosi ad ogni uomo libero, dobbiamo quindi necessariamente supporre che ce ne siano in pari misura in ciascuno dei due sessi. L. B. – É la sola frase di Spinoza su cui possiamo basarci per dire questo. Matheron – Eh sì, è vero, ma non è che abbia poi scritto molto di più su questa questione. P.-F. M. – “Contro chi” lei dice questo? Matheron – Penso a qualcuno che un giorno mi accusò di “occultare” il sessismo che caratterizzerebbe fondamentalmente l’etica spinoziana ne suo complesso. Non contento, in un’altra occasione se ne uscì con le motivazioni di questa sua tesi: pensando di riprendere delle mie riflessioni (senza fare direttamente il mio nome, però, questa volta) sul perché Spinoza giunge a tali conclusioni riguardo alle donne, disse che per Spinoza l’uomo soggetto alle passioni deve

necessariamente escludere le donne dal potere politico. Chiaramente, le riportò in un senso completamente distorto: dal suo discorso sembrava che fosse Spinoza (e, quindi, tutti gli uomini che secondo lui vivono sotto la condotta della ragione) a volerle escludere dalla comunità degli uomini liberi. Ritengo che questo atteggiamento manchi completamente di fair play, in primis nei confronti di Spinoza, e, in secundis, nei miei. L. B. – Prospettando una società progressivamente sempre più razionale (nel senso di “razionalità politica” definito da Spinoza), necessariamente si getta un ponte verso un percorso liberazione, e questo ne vivifica e sostanzia, in termini politici, la speranza. Ma lei afferma che questo rimane un argomento problematico, in Spinoza: secondo lui, tale desiderio rimarrà sempre e solo una mera speranza. Aggiunge quindi che la speranza è fuori dal sistema di Spinoza: non è direttamente implicata dal conatus, per lei? Il conatus non è un principio di speranza? Matheron – Sì, è un principio di speranza, ma nulla garantisce che la speranza sarà realizzata, perché l’uomo è solamente una piccola parte della natura. P.-F. M. – Perché lei ha scelto come soggetto di lavoro proprio Le Christ et le salut des ignorants? Credo che sia stato il suo libro che ha ricevuto più critiche. Ora non più, certo, ed infatti è un punto di riferimento per coloro che lavorano su Spinoza, ma vent’anni fa lo si è accusato prima di essere un libro marxista, poi un libro cristiano…lo si è accusato un po’ di ogni cosa. Rimane il fatto che la questione che lei affronta in questo libro non mai trovato posto in nessun altro studio: lei ha inaugurato un dominio di ricerca. Matheron – La questione della salvezza degli ignoranti mi interessava, ma non ricordo più esattamente come e perché alla fine me ne sono occupato. Senza dubbio uno dei motivi era che mi sentivo molto arrabbiato con quelli che ritenevano scontato che Spinoza mentisse quando affermava di credere nella salvezza degli ignoranti. Ero convinto che per Spinoza la menzogna fosse un atteggiamento da evitare (è contrario infatti alla sua etica), e che, nel caso avesse pensato qualcosa senza essere in grado di dimostrarlo, avrebbe comunque riflettuto a lungo sulla questione prima di scrivere qualsiasi cosa. Spinoza stesso poi connette strettamente la questione della salvezza degli ignoranti a quella dell’identità del Cristo. Questo mi spinse ad analizzare tutti i testi del TTP in cui parla di Cristo, e quindi, passando di argomento in argomento, mi sono trovato a riflettere sul contesto storico in cui Spinoza scriveva queste cose, su quanto lo aveva storicamente preceduto, ecc. P.-F. M. – É evidente la sua volontà di considerare il TTP un testo profondamente filosofico. Matheron – L’ho sempre pensato. Per me è un fatto che si impone da sé, a priori.

P.-F. M. – Alle analisi de Le Christ non ha mai fatto seguito nulla? In diversi articoli lei ha ripreso, con alcune differenziazioni, gli argomenti di Individu et Communaté, ma mai di Le Christ…Mi corregga se sbaglio: non solo si è scordato di come è arrivato a scrivere il libro…ma poi l’ha anche messo completamente nel dimenticatoio!

Matheron – È così. P.-F. M. – Che sta scrivendo ora? Matheron – Ho diversi libri in lavorazione. È che sono molto pigro. Ho già scritto un capitolo di un libro sul Trattato sull’Emendazione dell’Intelletto. Spero di terminarlo prima che Spinoza esca dal programma per l’aggregazione, ossia per il prossimo anno di questi tempi…Quanto al resto, che poi

sarebbe uno o più lavori sull’Etica, non ho ancora deciso come utilizzare il materiale che ho, se fare un unico libro o diversi volumi. Il materiale che ho sarebbe già un volume, ma una parte di questo potrebbe anche confluire in un testo a se stante: è uno studio che tratta dell’eternità. È quasi pronto, nel senso che devo solo metterlo in “francese corretto”. È il frutto di un corso, il quale a sua volta è lo sviluppo di un articolo sulla vita eterna del corpo. Certo, se metto tutto insieme, questo materiale e l’altro, di cui ora vi dico, viene fuori un bel volumone, un’opera sicuramente completa. Quest’altro materiale raccoglie un lavoro su un’altra questione di cui mi sono occupato molto questi ultimi anni (e che d’altra parte è il soggetto di un corso che ho tenuto un po’ in giro, se non proprio ai quattro angoli del mondo, almeno dal Brasile al Messico): è un’analisi delle tappe che avrebbero portato Spinoza a definire il rapporto tra scienza intuitiva ed ontologia. Si parte dalle prime proposizioni dell’Etica, ma lette alla luce del primo dialogo del Breve Trattato – che secondo me (ma lo pensano allo stesso modo Lachièze-Rey e Delbos, anche se Gueroult e Mignini non sono d’accordo) è la base su cui si fonda tutto l’impianto del pensiero di Spinoza, in cui troviamo la prima apparizione del loro contenuto e quindi la loro genesi. La seconda tappa è costituita dal Breve Trattato in sé e per sé, ed la terza dalla prima appendice al Breve Trattato. La quarta tappa passerebbe dalle lettere II e IV a Oldemburg – che secondo me sono posteriori all’appendice del Breve Trattato (ma questo non è condiviso da tutti) – e la quinta dalla prima redazione dell’Etica (che conosciamo almeno nelle sue prime proposizioni). Infine, mi occupo della seconda redazione dell’Etica. Conto di dimostrare, tra le altre cose, che la teoria degli attributi propri ad una sostanza è presente in tutte le opere anteriori all’Etica: da questo punto di vista mi ritengo completamente “gueroultiano”. È solo partire dall’Etica (e probabilmente solo a partire dalla seconda redazione) che non si deve più parlare di “attributo proprio alla sostanza”, ma di “sostanza considerata rispetto ai suoi attributi”. L’idea che intendo seguire, sperando di riuscire a motivarla, è che in Spinoza sussista una duplice matrice teorica, due linee che man mano Spinoza porta avanti parallelamente o quasi: da una parte troviamo una concezione dell’intelligibilità integrale del reale (di cui man mano Spinoza prende sempre più coscienza), e dall’altra un’ontologia della potenza (che porta a compimento solo nella sua maturità). I due aspetti sono assolutamente legati. Che risultato ne viene fuori? Che è possibile riscontrare nelle prime proposizioni dell’Etica la presenza di una scienza intuitiva, per di più suddivisa in differenti livelli, precipitato delle varie tappe – quelle che prima ho citato - attraversate da Spinoza per arrivare ad elaborare queste proposizioni. Distinguo dunque nelle prime otto proposizioni ed i rispettivi scoli tre livelli, che man mano assumono sempre maggiore qualificazione in termini di “intuizione intellettuale”: uno è costituito da tutte le proposizioni, un altro da alcune proposizioni ed alcuni scoli solamente, ed il terzo dai due scoli della proposizione VIII. Cosa ci permette di constatare, questo? Che quando Spinoza va a trattare delle prove dell’esistenza di Dio, sono all’opera gli stessi tre livelli: ma ora il terzo di loro va a sfociare direttamente in un’ontologia della potenza – nel senso che, se si sviluppa fino in fondo quanto implicato dall’ultima prova (presente nello scolio della prop. II), quanto ne risulta è chiaramente ed assolutamente sovrapponibile al contenuto della proposizione XVI (che concerne la produttività infinita della sostanza). Si può così concludere che, per Spinoza, l’esistenza di Dio, e conseguentemente la sua essenza, non è altro che la sua infinita produttività. Questo significa che la produttività di Dio è ben lungi dall’essere una semplice proprietà derivata, posta da un’essenza ad essa anteriore – non si potrà più quindi dire legittimamente che sarebbe stato questo il disegno di Spinoza. Questa tesi sarà dunque dimostrata, non solo proclamata come in fondo avevo fatto in Individu et communauté – e come d’altra è stato spesso fatto in seguito (al di là di quello che scritto io, chiaramente, soprattutto per l’influenza avuta dagli scritti di Deleuze e Negri). Dopo di che, vorrei indicare che cosa comporti tutto ciò nello sviluppo dell’Etica, ossia tutti i suoi effetti, comprendendo in questa ricognizione anche le prime proposizioni della seconda parte, ossia fino alla proposizione IX. Per me fanno ancora parte di una simile ontologia generale. Se decido di scrivere un solo libro, tutto ciò potrebbe costituirne la prima parte. L’ultima concernerebbe quindi il discorso sull’eternità di cui vi ho detto. E tra le due? Non so: potrei metterci un capitolo intitolato Les avatars du conatus, facendo una specie di sintesi tratta da differenti articoli. Ho scritto molto su

queste questioni, dopo tutto, ivi compreso sulle implicazioni politiche del conatus. Ma bisogna che Dio - ben inteso in quanto esplicato naturalmente dalle cause esteriori! - mi conceda tempo a sufficienza! L. B. – La potenza di un individuo sta negli effetti che produce, i quali a loro volta ne esplicano la produttività: quando lei ha scritto questo in Individu et Communautè, pensava di diventare il capofila di una scuola di studi spinoziani? Matheron – Certamente covavo la segreta speranza – ma non osavo neanche ammetterlo con me stesso - era che il libro fosse accettato da tutti e assunto come riferimento interpretativo essenziale. Ma le cose andarono in tutt’altro modo! L. B. – La segreta speranza che covava forse era quella di scrivere quel libro qualche minuto dopo la sua nascita… Matheron – Questo potrebbe forse succedere se in un futuro lontano arrivassi a realizzare pienamente la mia essenza individuale! Ma, a parte gli scherzi, per molto tempo il libro è stato oggetto di critiche feroci, o ignorato, a parte qualche eccezione – tra cui voi, e ve sono infinitamente riconoscente. P.-F. M. – Più che altro, penso che l’uscita dei Cahiers Spinoza e la rete di studiosi venutasi a creare a partire dal 1977 hanno avuto un effetto moltiplicatore sulla diffusione del suo lavoro. Diciamolo sottovoce: in effetti, già da prima i suoi studi erano ampiamente conosciuti e dibattuti. Al concorso di aggregazione del 1972 c’era Spinoza nel programma: rammento perfettamente che per noi, della nostra generazione, ma anche per quelli più anziani, che ci aiutavano nella preparazione dell’esame, le interpretazioni di Spinoza da prendere in considerazione per affrontare la prova erano due: quella di Gueroult e la sua. E questo nessuno lo metteva in discussione. Ricordo che proprio riguardo a quali letture fare per l’esame ci fu una discussione tra Althusser e gli studenti, in cui Althusser citò il suo nome e quello di Gueroult. Qualcuno disse: “Ah, sì, Matheron, Individu et Communauté va letto, ma Le Christ et le salut des ingorants non è che c’entri molto con l’aggregazione. Althusser aggiunse. “In Gueroult ci sono tutte le proposizioni dell’Etica, anche quelle che Spinoza si è scordato di scrivere. Ma Gueroult e Spinoza rimangono molto distanti l’uno dall’altro. Tra loro non esiste alcuna corrente. Invece, l’elettricità che passa tra Matheron e Spinoza è fortissima. Matheron – Anche Deleuze aveva grande ascendente, al tempo. Ho sempre ammirato moltissimo Deleuze. Era un genio, e, per di più, un genio che sapeva divertire. P.-F. M. – Deleuze ha avuto molta più influenza su ambienti esterni alla comunità degli studiosi di Spinoza, degli specialisti. Mi chiedo, oggi come oggi, non rappresenti per coloro che lavorano su Spinoza una sorta di “stimolante per la mente”, uno che ha avuto buone intuizioni su un certo numero di cose… Matheron – Intuizioni straordinarie…e parlo anche di quelle su Spinoza! L. B. – In effetti, più che Spinoza e il problema dell’espressione, sono state altre le opere di Deleuze che hanno avuto questa funzione di stimolo per gli studi su Spinoza, e penso particolarmente a Differenza e Ripetizione, dove appunto Spinoza è trattato solo marginalmente. Invece, l’influenza sulla comunità degli interpreti del suo lavoro critico è stata specifica, strettamente connessa alle linee interpretative da lei proposte. Credo che la traccia profonda lasciata da esse dipenda anche dalla loro costante attitudine all’apertura, alla riattivazione dell’esigenza di

ricerca: come se noi fossimo, con lei, immersi in processi senza fine di “produttività spinoziana” (inteso in senso deleuziano!) … P.-F. M. – Mi colpisce che gli ultimi studi su Spinoza, quelli di Henri Laux, di Laurent Bove, di Chantal Jaquet e di Johannis Prélorenzos, come pure il mio, pur presentando tesi differenti, possano essere tutti considerati parte di un quadro unitario: quello definito dai suoi lavori. E l’importanza di questa cosa, fuori dalla Francia, non è che sia stata valutata a pieno. Se si sente parlare i giovani studiosi stranieri, invece, risalta in modo evidente che quest’ascendenza è il tratto che caratterizza la scuola francese. Ma c’è anche qualcos’altro: è che, se si vuole affrontare lo studio di Spinoza con sufficiente rigore, bisogna necessariamente passare dall’orizzonte di ricerca che lei ha inaugurato. Per le persone che frequentano attualmente il seminario dell’ENS, per esempio, non c’è alcun dubbio che Matheron costituisca il punto di riferimento principale ed obbligato per chiunque voglia affrontare lo studio di Spinoza.

Indignazione e conatus dello Stato in Spinoza.

Vorrei sviluppare un’ipotesi di spiegazione, che ho già abbozzato nel 1986, su un apparente paradosso che si riscontra in Spinoza, ed in particolare riguardo all’evoluzione dal TTP al Tp. Da un lato è evidente che nel Tp il contrattualismo nel TTP Spinoza rendeva conto della genesi dello Stato non esiste più. Ma d’altro canto è altrettanto evidente che nel Tp non c’è una spiegazione sostitutiva. Spinoza ci dice, nell’articolo 7 del capitolo I, che: “Le cause e le fondamenta naturali dello stato non vanno ricercate negli insegnamenti della ragione, ma vanno dedotte dalla comune natura, ovvero condizione, degli uomini” – vale a dire, evidentemente, dalla condizione degli uomini in quanto soggetti alle passioni. La spiegazione promessa non figura da nessuna parte, e, soprattutto, non è dove dovrebbe essere, vale a dire al capitolo 2. Spesso se ne è tratta la conclusione che la problematica di riferimento di Spinoza fosse mutata, che Spinoza avesse finito per riconoscere che la società politica è “già sempre data”, e che non avesse nient’altro da dire. Tuttavia, mi è sempre sembrato strano che Spinoza non avesse cercato di spiegare perchè, appunto, la società politica dovesse essere “già sempre data”. Ecco perché ventiquattro anni fa ho tentato una prima volta di colmare questa lacuna mediante con la mia teoria della “imitazione affettiva”, tratta da Etica III. Ma per definire questa teoria avevo utilizzato solamente (conformandomi d’altra parte alle indicazioni date da Spinoza stesso in Tp 1.5) le quattro passioni che costituiscono quanto si potrebbe chiamare “ciclo fondamentale della vita interumana”: pietà, ambizione di gloria, ambizione di dominio ed invidia. La spiegazione che ne avevo tratto mi sembra ancor oggi una spiegazione plausibile, e in gran parte corretta. Ma, presa così com’è, essa aveva l’inconveniente di basarsi su una sorta di calcolo utilitaristico, e non tutti gli uomini fanno questo genere di calcoli. Non era perciò per nulla provato, a rigore, che – essendo la natura umana quello che è – la società politica dovesse necessariamente esistere. Ora come ora penso che nel Tp esista effettivamente un testo, un solo ed unico passaggio che, se interamente esplicitato, possa rendere conto della necessaria esistenza dello Stato: conterrebbe dunque la spiegazione che stiamo cercando. E, inoltre, l’analisi di quest’unico testo ci dice anche la ragione per cui Spinoza non tratta esplicitamente tale spiegazione.

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Il testo è l’articolo 1 del capitolo 6. Ma bisogna leggerlo attentamente, perché si corre il rischio di pensare che non contenga altro che banalità. In questa proposizione, Spinoza dice: “Siccome gli uomini, s’è detto, si fanno guidare dagli affetti più che dalla ragione, anche il popolo viene indotto a naturale accordo non dalla ragione, ma da qualche comune affetto, e vuole essere guidato come a una sola mente, vale a dire (come abbiamo detto all’articolo 9 del capitolo III) da una comune speranza, o paura, o desiderio di vendicare un danno comune. D’altra parte è in tutti gli uomini la paura della solitudine, perché in solitudine nessuno ha la forza di difendersi e di procacciarsi il necessario per vivere; ne consegue che gli uomini per natura desiderano lo stato di civiltà, e non può mai accadere che essi lo sciolgano del tutto”. Il passo, ad una prima lettura, sembrerebbe a rigore suscettibile di un’interpretazione contrattualista: gli uomini che vivono nello stato di natura, temendo i pericoli provocati dalla solitudine, si accordano tra loro per sottomettersi ad una comune autorità. Ed il verbo “convenire” qui impiegato può effettivamente assumere un significato giuridico: quello di “concludere una convenzione”. Tuttavia ad una seconda lettura risulta chiaro che quest’interpretazione non va bene. Spinoza, infatti, non dice solo “convenire”, ma “naturaliter convenire”. È chiaro per qualunque lettore che qui Spinoza si sta opponendo ad Hobbes: se gli uomini si “accordano naturalmente” per vivere in società politicamente organizzate, significa appunto che non hanno bisogno di ricorrere ad un artificio, cioè ad un accordo stipulato formalmente, per ottenere questo risultato. Significa che gli

uomini vivono naturalmente in società: essendo dotati di ragione, ne comprendono da sempre i vantaggi. Di conseguenza, la questione di vivere altrimenti non gli è mai realmente passata per la testa. Ma è proprio così? La fine dell’articolo sembra confermare quest’ipotesi. Ed eppure, ad una terza lettura, anch’essa risulta inefficace. Infatti, l’inizio del passaggio qui presentato indica espressamente che la causa della società risiede unicamente nelle passioni. Spinoza non dice che le passioni avrebbero la funzione di indurre quel timore che a sua volta detta il fine della costituzione di società organizzate agli uomini, ma che la ragione c’indicherebbe i mezzi per raggiungerlo (il riconoscimento dell’autorità di un sovrano). Infatti, in questo caso, avrebbe indicato (come d’altra parte aveva fatto precedentemente, sulla scorta di Hobbes, nel capitolo 16 del TTP) l’origine della società nell’azione della ragione ed in quella delle passioni. Qui, invece, l’intero processo (paura della solitudine, accordo naturale per sfuggirvi, desiderio di obbedire ad una autorità sovrana) è interamente a carico delle passioni. Ma, allora, in cosa consiste esattamente? Quali sono quelle passioni che svolgono la funzione di intermediari tra il suo inizio ed il suo fine? A questa domanda, Spinoza risponde in modo molto ellittico: si contenta di rimandare il lettore all’articolo 9 del capitolo 3. Ora, se si prende quest’articolo, ne viene fuori una grossa sorpresa. L’articolo 9 del capitolo 3 non parla assolutamente delle cause dell’esistenza dello Stato, ma delle cause della sua dissoluzione. Vi troviamo una formulazione analoga a quella presente nel capitolo 6: “E’certo infatti che gli uomini sono naturalmente condotti a coalizzarsi – espressione equivalente a “natura convenire” presente nel capitolo 6 – sia a causa di un comune motivo di timore, sia per il desiderio di vendicare un danno comunemente subito”. In questo caso, però, si tratta di un’intesa che scatta tra uomini assoggettati che si ribellano al loro sovrano. E, contrariamente a quanto succede nel capitolo 6, Spinoza ci spiega in cosa consisterebbe questo “impulso naturale” che conduce i sudditi a coalizzarsi: lo denomina “indignazione”. In effetti, ci dice che: “E siccome il diritto della cittadinanza si definisce in base alla comune potenza del popolo, è certo che la potenza ed il diritto della cittadinanza diminuiscono tanto più, quanto essa dà motivo a molti di coalizzarsi”, ed è per questo che, aggiunge: “Nel diritto della cittadinanza non rientrano quelle cose che suscitano l’indignazione generale”. Il legame tra comune timore, indignazione, coalizione tra coloro che sono assoggettati ad un regime di sovranità, e distruzione dello Stato viene illustrato in modo ancora più lapidario alla fine dell’articolo 4 del capitolo 4, in cui Spinoza esamina gli effetti prodotti quando la tirannia supera determinati limiti: “Gli eccidi di sudditi, le spoliazioni, i rapimenti di ragazze e simili misfatti, mutano il timore in indignazione, e volgono di conseguenza lo stato di civiltà in stato di ostilità (sottolineatura nostra). Ora, se la trasformazione del timore in indignazione muta lo stato civile in stato di guerra, il richiamo presente nella proposizione 1 del capitolo 6 alla proposizione 9 del capitolo 3 sembra indicare che tale processo è però anche in grado di mutare lo stato di guerra in stato di civiltà. Come può accadere tutto ciò? Per capirlo, dobbiamo prima capire come avvenga esattamente tale trasformazione. Innanzitutto, diciamo cos’è l’indignazione. L’Etica la definisce come una forma d’imitazione affettiva: come dice il cor. I di Eth. III, prop. 27, è l’odio che noi proviamo per colui che fa del male ad un essere a noi simile. Proviamo quest’affetto perchè imitiamo i sentimenti della vittima, e lo proveremo in modo tanto più intenso quanto più essa ci somiglia – inteso che, come aveva dimostrato la prop. 22 con il suo scolio, l’imitazione affettiva sarà ancora maggiore se amiamo la persona colpita. È chiaro quindi perché, in un regime tirannico, il comune timore possa trasformarsi in indignazione e sfociare in un rovesciamento dell’oppressore. Un tiranno, per definizione, è colui che governa essenzialmente attraverso il timore che induce nel popolo. Ora il timore implica sempre dell’odio per colui che lo ispira: infatti è una forma di tristezza, e l’odio non è altro che la tristezza accompagnata dall’idea della sua causa esterna. Tuttavia, se ci si accontentasse di questo, saremmo ancora ben lontani dall’avere una spiegazione, perché non si capirebbe ancora da dove nasca il cambiamento: si avrebbe infatti solamente un timore diffuso, vissuto collettivamente. Ognuno, chiuso nella sua solitudine, proverebbe timore per il tiranno, senza

preoccuparsi minimamente della sorte degli altri. Inoltre, dal momento che non è possibile tiranneggiare tutti i sudditi nello stesso momento, l’odio verso il tiranno rimarrebbe un fatto episodico. Ciascuno odierebbe il sovrano in solitudine, in solitudine gli augurerebbe tutto il male possibile, ed in solitudine coverebbe la sua vendetta, senza intravedere alcuna via d’uscita alla sua situazione. Ecco ciò che accadrebbe nel caso in cui gli eccessi del sovrano non passassero la misura, o non fossero condotti alla luce del sole, oppure quando il tiranno fosse stato così abile da costruire una situazione in cui ogni suddito, ripiegato su se stesso, si guarda bene dal parlare di ciò che gli accade per paura di essere denunciato, cercando di trarsi d’impaccio a spese degli altri: sotto il regime dispotico dei Turchi, dice Spinoza nella prop. 4 del capitolo 6, i sudditi vivono in una simile condizione di solitudine. Ma quando i misfatti dei dirigenti divengono troppo grandi per poter essere tenuti nascosti, quando tutti cominciano a conoscere la condizione degli altri ed a parlarne, l’indignazione appare necessariamente, e questo muta completamente il quadro: l’indignazione monta ancora ed ancora per le vessazioni che vede accade, e di cui sente parlare in ogni momento. Di conseguenza, ognuno è costantemente spinto a provare odio per il sovrano e a volere il suo male. E tutti, nel momento stesso in cui, subendo le sofferenze della tirannia, vedono che anche gli altri si indignano per la loro sorte, cominciano ad avere coscienza di non essere più soli di fronte al tiranno, e di poter contare sull’aiuto degli altri: una resistenza collettiva diviene quindi possibile. Perciò, cosa accade ora? Di due cose l’una: o il tiranno comprende il pericolo che corre il suo regime, e fa marcia indietro accordando qualche concessione ai suoi sudditi, dando così al suo potere il tempo di stabilizzarsi nuovamente, per poi ricominciare a vessarli come prima (cosa che porterà di nuovo i sudditi a sollevarsi contro di lui, ecc.).Va detto che, nonostante tutto, queste oscillazioni assicureranno una sorta di equilibrio, di approssimativa auto- regolazione del corpo sociale. Oppure, il sovrano si ostinerà a vessarli, ed allora l’insurrezione sarà all’ordine del giorno. Supponiamo ora che l’insurrezione non comporti solo il rovesciamento del tiranno, ma provochi una sorta d’eterna guerra civile, una frammentazione generale della società in una miriade di piccole guerre locali: ne risulterebbe la dissoluzione complessiva di tutti i rapporti sociali. Spingiamoci oltre, facendo un vero e proprio esercizio di immaginazione: supponiamo che tutti gli individui, regressi allo stato di natura, perdano ogni ricordo della vita in società. Ricorrere ad una simile ipotesi non significa, di principio, tradire le intenzioni di Spinoza: non più che definire la sfera come un semi cerchio che ruota intorno all’asse costituito dal suo diametro (cfr. TIE, 72), o dedurre le proprietà dell’amore intellettuale verso Dio, che è in sé eterno, ipotizzando che abbia avuto nascita nel tempo, che sia venuto all’esistenza nella durata (cfr. Eth. V, prop. 33, schol.). Spinoza, d’altra parte, motiva ampiamente l’uso del condizionale controfattuale nel paragrafo 57 del Trattato sull’emendazione dell’intelletto. Quindi, stabilita la legittimità di quest’ipotesi, pur nel suo carattere fittizio, cosa succede, se ci si ritrova nello stato di natura? Secondo la proposizione 1 del capitolo 6, come abbiamo visto, la società organizzata politicamente va necessariamente a ricostituirsi. Inoltre, se prendiamo sul serio i riferimenti dati da Spinoza all’articolo 9 del paragrafo 3, bisognerà per forza dire che essa si ricostituirà per un processo analogo a quello che ne ha causato la dissoluzione: questo vuol dire, appunto, che l’indignazione genera lo stato nello stesso modo in cui provoca le rivoluzioni. Ora, stante quello che si è detto ora, non ci sarà nessun problema a capire come si svolgano le cose. Consideriamo un insieme di individui viventi l’uno accanto all’altro. Poniamo che essi non facciano alcun uso della loro ragione, e non abbiano idea di cosa sia una società organizzata politicamente. La teoria spinoziana delle passioni permette immediatamente di dedurre (come ho fatto nel 1969) che ciascuno di loro entrerà in rapporto con gli tutti altri sulla scorta del ciclo costituito dalla pietà, dall’ambizione di gloria, dall’ambizione di dominio e dall’invidia: se uno di loro si trovasse in difficoltà, un altro gli verrebbe in aiuto per pietà, continuerebbe ad aiutarlo per ambizione di gloria, ne approfitterebbe per tentare di imporgli i suoi desideri e valori (al bisogno attraverso la violenza), e finirebbe per tentare di portargli via i beni che lo aveva aiutato a

procurarsi. Tutto ciò si verificherà da capo una moltitudine di volte, mutando solo i protagonisti che prendono parte al ciclo. Se ci fermiamo qui, eliminando dalla nostra ipotesi ogni riferimento ad un calcolo utilitaristico (cosa che non avevo fatto con la dovuta decisione nel 1969) nulla di nuovo potrebbe prodursi: ogni individuo aggredito resterebbe solo di fronte al suo aggressore, come ogni suddito dei tiranni turchi resta solo di fronte al suo padrone. Questa situazione potrebbe continuare indefinitamente, cambierebbe solo di volta in volta il ruolo di aggressore e di aggredito. Ma, appunto, la coppia aggressore – aggredito non è mai un’entità isolata. Infatti, quando accade un’ aggressione troviamo sempre dei testimoni che, per imitazione affettiva, vanno ad indignarsi contro colui che ritengono essere l’aggressore, portando aiuto a colui che considerano vittima. Così, in un tempo che può anche essere estremamente breve, si arriva al seguente duplice risultato: da una parte, ognuno si dovrà fare i conti in quanto aggressore con l’indignazione degli altri, andando così a considerarli sui potenziali nemici; e, d’altra parte, ognuno beneficerà in quanto vittima dell’aiuto di tutti, indotto dall’indignazione, andando così a ritenere ogni altro individuo suo potenziale alleato. Ciascuno, quindi, avrà timore degli altri, e nello stesso tempo spererà nel loro aiuto. Una sola e stessa cosa avrà l’effetto di ispirare timore e speranza in tutti gli uomini. E quale sarà questa cosa? La potenza (cfr. T.p. 3.3). Ciascuno si troverà incessantemente nella condizione di provare indignazione, ma sarà anche permanentemente disposto a venire in auto di coloro che riterrà vittime di un’aggressione: la potenza di tutti sarà una realtà affettiva in parte temibile ed in parte positiva, per la sua capacità di alleviare le sofferenze. Questa situazione, del tutto possibile, potrebbe impiegare poco tempo a realizzarsi. In effetti, a partire da questo punto, ogni volta che due individui entreranno in conflitto, ognuno chiamerà in suo soccorso gli altri, poiché saprà che tutti lo verranno ad aiutare. Ed ognuno degli altri risponderà all’appello, poiché sarà già disposto in questo senso: ognuno, imitando i sentimenti del contendente che sentirà più somigliante, s’indignerà con l’altro, che avvertirà meno somigliante, e lo attaccherà. Chiaramente, per essere somigliante ad un altro un uomo dovrà avere più meno gli stessi desideri e gli stessi valori, oltre a possedere più o meno le stesse cose. Di conseguenza, a parità di condizioni, la vittoria arriderà a quello dei due che sarà maggiormente conforme al modello sociale più diffuso: colui che se ne distaccherà sarà schiacciato, e dissuaso dal minare di nuovo il legame collettivo. In questo modo, dopo un certo numero di ripetizioni del ciclo, un determinato regime di consenso comincerà a formarsi, ed andranno ad imporsi delle norme, comunemente accettate, riguardanti ciò che ognuno può desiderare e possedere senza pericolo per gli altri: esisterà quindi una potenza collettiva della moltitudine che assicurerà la sicurezza per coloro che si conformeranno alle norme accettate, e che si occuperà di reprimere i devianti. Ciò significa che, conformemente alla definizione spinoziana di “imperium” (“diritto che si definisce in base alla potenza del popolo”, Tp. 2.17), ci troveremo di fronte, anche se ancora informe, allo stato nascente, per così dire, ad un imperium democraticum. Tale imperium, una volta sorto, tenderà a perpetuarsi autonomamente. Infatti ognuno, indotto dalla speranza o dal timore, accorderà a questo regime il potere di disporre delle sue proprie forze. Questo permetterà alla potenza della moltitudine di rinnovarsi continuamente e di continuare ad ispirare timore e speranza, ecc. Tutto ciò, ben inteso, potrebbe alla fine far sì che questa democrazia, informe ed informale, arrivi ad acquisire una organizzazione istituzionalizzale: la moltitudine potrà assolvere l’impegno di conservare l’imperium facendo affidamento solo su se stessa, mediante la definizione di regole di funzionamento atte a consolidere i costumi. O, al contrario, la moltitudine si scontrerà con dei problemi troppo difficili da risolvere, ed essa rimetterà la conservazione dell’imperium ad un individuo, o ad un piccolo gruppo di individui (cfr. Tp 7.5, inizio). Ma, a parità di condizioni, il processo di auto riproduzione della società sarà sempre lo stesso, così come il meccanismo che lo innesca.

Ecco cosa suggerisce il richiamo all’articolo 9 del capitolo 3 presente nella proposizione 1 del capitolo 6. Ben inteso questa ipotesi, per il suo carattere fittizio, non spiega assolutamente come si siano effettivamente e storicamente costituite le varie tipologie di società: ci mostra solo perchè, anche nella situazione più sfavorevole (nel caso assolutamente fantastico ed irreale di individui del tutto sprovvisti di esperienza politica, completamente ed esclusivamente soggetti alle dinamiche incontrollate delle passioni, cioè incapaci del benché minimo uso, anche solamente strumentale, della ragione), una società organizzata politicamente dovrà in ogni caso, malgrado tutto, sorgere. È chiaro ora perché, a fortori, la sua esistenza deve necessariamente essere ammessa in tutti gli altri casi possibili e reali. Inoltre, diviene comprensibile di quale tipo di necessità è all’opera nel processo di costituzione della società. In effetti, se si dice: “La società politica è necessaria perché gli uomini sono soggetti alle passioni”, tutto ciò è indubbiamente vero, ma rimane equivoco. Se lo interpreta come: “occorre che ci sia una società politica per far sì che gli uomini vivano sotto la condotta della ragione, dal momento che essi non vi si dirigono spontaneamente”, si commetterebbe un grande errore: in realtà, ciò al limite spiegherebbe la ragione per cui un filosofo accetterebbe la società politica e cercherebbe di migliorarla, ma non direbbe assolutamente nulla sulla causa che ne determina l’esistenza. Allora bisogna dire che: “gli uomini sono soggetti alle passioni, e la società politica esiste necessariamente in conseguenza dalle dinamiche passionali”.

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Tuttavia, una domanda si impone: perché Spinoza non parla esplicitamente in questi termini nel Tp.? Perché non cita in alcun modo questa genesi ipotetica dello Stato, che rende conto in termini ontologici della necessità della sua esistenza? Perché si è contentato di suggerircela, con quel piccolo richiamo all’articolo 9? In realtà, quello che abbiamo per le mani basta e avanza per capire il motivo di tutto questo, ed i motivi sono due: uno negativo e l’altro positivo. Innanzitutto la ragione negativa: Spinoza, in realtà, non aveva veramente bisogno di spiegare la genesi dello Stato. O, che è lo stesso, si potrebbe dire che non avesse fatto altro per tutto il Tp. In effetti, la proposizione 9 del capitolo 3 ha mostrato che l’indignazione, quando non comporta la distruzione di una determinata organizzazione statale, gioca in realtà un ruolo regolativo. regola il funzionamento della società, obbligando il sovrano ad adottare comportamenti più misurati, restituendo solidità alla sua potenza. La proposizione 1 del capitolo 6 ha mostrato allusivamente che l’indignazione non è semplicemente una valvola di regolazione, ma che essa ricopre uno ruolo costitutivo rispetto all’esistenza, alla realtà stessa dello Stato. Ora è facile notare come questi due ruoli non siano in realtà propriamente distinti. In effetti la spiegazione suggeritaci da Spinoza autorizza l’idea che lo stato di natura, inteso in senso stretto, non possa esistere, e che di conseguenza non esista, in realtà, alcuna genesi della società politica con quella condizione come punto di partenza. Questo non vuole dire che gli uomini non possano magari trovarsi prima o poi in una situazione simile a quella comunemente denominata “stato di natura”. Ma ciò significa appunto che il presunto “stato di natura”, contrariamente a quanto pensavano Grozio ed Hobbes, e successivamente Locke e Rousseau, non è, appunto, assimilabile in nessun caso ad uno “stato”: non ha le caratteristiche di uno “status”, di una situazione stabile, dotata di contenuti propri, da cui si dovrebbe necessariamente uscire a favore di una forma organizzata di società. Lo stato di natura, in realtà, specificato che sarebbe imploso spontaneamente se fosse realmente esistito, non è altro che la genesi stessa della società politica: non è ciò a partire da cui si realizza la genesi dello Stato, ma costituisce uno dei momenti che scandiscono l’auto genesi della società, la sua auto riproduzione e auto regolazione, nel caso in cui si verifichino condizioni altamente negative: nel caso di uno squilibrio estremo (la dissoluzione di una particolare conformazione statale sotto l’effetto dell’indignazione), il processo di riconduzione all’equilibrio viene ad avere caratteristiche non meno estreme (la ricostituzione di una conformazione statale altra sotto l’effetto dell’indignazione). Tra questo processo e l’ordinaria dinamica intrinseca alla società di fatto non passa alcuna

differenza. Semplicemente, nella maggior parte dei casi lo scarto tra processo di squilibrio e di riequilibrio è di minore entità: i dirigenti commettono degli eccessi, i sudditi si indignano con loro, ma i dirigenti hanno paura di essere rovesciati e prendono delle misure che garantiscono il ritorno nei ranghi della maggior parte dei sudditi. Questo implica che tale parte di popolazione, ossia la frazione maggioritaria, andrà nuovamente ad indignarsi, ma non contro i dirigenti, bensì contro quella parte di società che manifesta ancora ostilità nei loro confronti (dei dirigenti). Il processo in atto, come si vede, è fondamentalmente lo stesso: in entrambi i casi sussiste una oscillazione regolare tra indignazione contro l’ordine stabilito (che generalmente rimane una lontana minaccia, ma che a volte, nei casi estremi, può provocare realmente un rovesciamento di sistema), e indignazione contro i nemici dell’ordine (generalmente rivolta contro coloro che sfidano l’ordine esistente, in auge prima del tumulto e che, dopo di esso, è andato in qualche modo a riconsolidarsi. A volte, però, in casi estremi, l’indignazione si rivolge contro il regime che ne ha sostituito un altro): lo stato di natura costituisce quindi il punto estremo raggiunto dall’indignazione, quello toccato nei casi più sfavorevoli. Tale regolare oscillazione non è altro che il conatus della società organizzata politicamente: lo sforzo ostinato e tenace per perseverare, contro tutto e tutti, con ogni espediente possibile, nel suo essere. Diviene allora evidente che per “genesi della società”, al di là di ogni domanda sull’origine, va inteso il processo tramite cui essa, di per sè, si produce e riproduce in permanenza, ogni giorno, sotto i nostri occhi. Questo processo è esattamente quello che avrebbe condotto gli uomini ad uscire da un ipotetico stato di natura, se fosse esistito – esattamente come la perfezione implicita nell’amore intellettuale verso Dio rimane a rigore assolutamente la stessa anche ammettendone la nascita terrena. Ecco perché la definizione di imperium come: “diritto che si definisce in base alla potenza del popolo” è una definizione propriamente genetica: essa non fa che esprimere in sintesi il processo di auto costituzione e ri - costituzione dello Stato. Tuttavia, anche accettando il fatto che Spinoza non aveva avuto bisogno di trattare separatamente la genesi dello Stato, pure rimane l’impressone che non sarebbe stato inutile, se non altro perché così avrebbe potuto pienamente mostrare quanto fossero differenti i termini in cui si doveva porre la questione. Che abbia effettivamente avuto questa intenzione lo dimostra d’altra parte il discreto richiamo alla proposizione 9 del capitolo 3. Ma come spiegare un simile atteggiamento? Perché Spinoza si accontenta ad un piccolo rimando? Sembra quasi questa concezione andava divulgata con estrema prudenza: come se fosse meglio i lettori, o almeno quelli intellettualmente e moralmente in grado di recepirli, intuissero i suoi argomenti, senza mostrarli in modo esplicito. Ed è a questo punto, precisamente, che possiamo e dobbiamo far intervenire la ragione positiva del suo silenzio. La ragione si impone da sè è, ma è anche difficile da accettare. Da una parte, infatti, l’indignazione – l’abbiamo appena visto - gioca un ruolo essenziale nell’auto costituzione della società; ma, dall’altra, Spinoza ha detto espressamente in Eth. IV prop. 51 schol. che l’indignazione è sempre necessariamente cattiva: affermazione da assumere in toto, come è richiesto da una lettura a tutti gli effetti rigorosa. Esistono passioni di per se stesse malvagie, ma indirettamente buone (l’umiltà, il pentimento, la vergogna, ecc., cfr. Eth. IV prop. 54, schol.): l’indignazione non è tra esse. Al contrario, essa è necessariamente malvagia perché è comunque una forma di odio, che come tale mina i rapporti interumani. L’odio: “Non può mai essere buono” (Eth. IV prop. 45) – l’odio spinge necessariamente a distruggere colui che viene odiato, cosa assolutamente contraria alla ragione, che invece risiede nel desiderare per gli altri quello che desideriamo per noi stessi (Eth. IV prop. 37). Non è quindi possibile ipotizzare l’esistenza di diversi tipologie di indignazione, alcune migliori di altri, come potrebbe essere ad esempio l’indignazione rivoluzionaria contro un tiranno. Anche ammettendo che l’indignazione possa giocare un ruolo positivo per la società, non potrà comunque mai averlo rispetto agli individui che ne provano gli effetti. Proprio per questo, essa, in quanto tale, è negativa per la società, introducendo nella società dei germi di discordia che

compromettono di fatto gli effetti positivi che potrebbe avere: non c’è alcuna differenza, da questo punto di vista, tra i massacri di settembre durante la Rivoluzione Francese e l’assassinio dei fratelli de Witt, concesso che Spinoza avrebbe senza dubbio dato il suo assenza alla Rivoluzione Francese. Ma allora, posto che l’indignazione non è altro che la modalità costitutiva del conatus dello Stato, questo non comporta l’esistenza, all’interno delle radici stesse della società, di qualcosa di irrimediabilmente malvagio? Sembra proprio che le cose stiamo così. Infatti, se andiamo a vedere in cosa consista l’imperium democraticum nel suo stato nascente, come abbiamo fatto prima – imperium democraticum caratterizzato dall’esercizio ancora informe ed informale della potenza da parte di una moltitudine in piena mobilitazione – risulta evidente come il suo funzionamento non presenti nulla di idilliaco: la forma elementare della democrazia, secondo Spinoza, è il linciaggio. E tutte le società di fatto, in forma più o meno evidente, conservano, chi più chi meno, traccia di questo fatto. È pure vero che Spinoza nei suoi progetti di costituzione ha fatto un grande sforzo di cancellare questa traccia, concependo dei meccanismi istituzionali in grado di assicurare la massima auto regolazione del corpo politico basandosi su sentimenti positivi piuttosto che sull’odio. Ma anche in queste forme più civilizzate di autoregolazione l’indignazione continua a sussistere, se pure ridotta ad un ruolo del tutto marginale. Tutto ciò è assolutamente evidente nel caso della teocrazia ebraica: una delle sue principali espressioni è infatti l’”odio teologico” che produce, o per meglio dire che coltiva, nella stessa quantità dei comportamenti sociali positivi. Anche se esso ricade soprattutto sugli stranieri nemici di Dio, ciò non toglie che ogni cittadino viva costantemente sotto la sua minaccia, con la consapevolezza che alla minima deviazione dottrinaria sarà l’odio a prendere il posto dell’amore nell’animo dei suoi compatrioti, che si rivolteranno tutti contro di lui. Negli Stati illustrati dal Trattato Politico grande spazio ed attenzione sono rivolti ai sentimenti positivi: ma anche lì l’indignazione salta fuori, se pure sullo sfondo. Certo, Spinoza, nello stesso scolio di Eth. IV, prop. 51, ci dice che il sovrano che condanna un cittadino – come anche il giudice che condanna a suo nome – non è motivato dall’indignazione ma dalla pietas. Ma certamente non intende qui riferirsi con “pietas” a quella virtù di cui aveva parlato nello scolio 1 di Eth. IV prop. 37 (“Il desiderio di fare del bene che proviamo sotto l’impulso della ragione”) perché, salvo eccezioni, i sovrani ed i giudici sono uomini soggetti alle passioni esattamente come tutti gli altri: ha dunque aver usato la parola il suo senso tradizionale, quello di: “amor di patria”. Di fatto, i giudici di cui si parla nel Tp, e quindi le formazioni statali di cui tratta, amano e devono amare la loro patria, se non altro per i concreti vantaggi che tutto ciò procura loro: a loro vanno infatti i proventi delle multe che infliggono (Tp. 6.29 e 8.41). Ma, precisamente, se uno ama la sua patria e i suoi concittadini perché indottovi da un regime fondato sulle passione, deve anche necessariamente indignarsi con coloro che commettono dei reati, minando la pace civile. Nulla quindi differenzia in questo senso coloro che, in generale, ritengono che il funzionamento della giustizia debba svolgersi seguendo delle regole di correttezza. Solo, cosa accade in questo caso, proprio di forme più evolute di civiltà? Che l’indignazione diviene un elemento astratto: essa si rivolge specificamente a coloro che commettono delitti, secondo procedure giuridicamente accertate, piuttosto che indirizzarsi alla cieca, discrezionalmente, contro gli individui ritenuti, a torto o a ragione, colpevoli di aver effettuato dei torti. Perciò, coloro che hanno commesso un reato verranno condannati solo dopo averne accertata la colpevolezza mediante una procedura definita ed in vigore. Ma, anche in questo caso, si tratterà comunque di indignazione. È impossibile che accada altrimenti: anche nell’imperium democraticum più perfetto, di cui Spinoza non ha fatto in tempo di darci la teoria, le cose andranno così. Sono interamente d’accordo con quanto è stato detto sulla potentia mutitudinis e gli effetti emancipatori di un suo pieno esercizio, ma occorre ricordare che, nell’imperium democraticum, si tratta di una potenza che grava su ciascun membro del popolo preso individualmente, esercitata spesso appunto contro ciascuno. Vero è che una comunità di saggi condotti dall’amore intellettuale verso Dio potrebbe e dovrebbe prendere decisioni collettive, assunte democraticamente: si avrebbe allora una democrazia senza imperium. Non saremmo più di fronte ad un vero e proprio Stato. L’esistenza di

un imperium, implica l’esistenza della repressione, anche se minima. Essendo gli uomini soggetti alle regime delle passioni, è impossibile desiderare una simile repressione senza provare un indignazione, anche virtuale, contro tutti coloro che meritano di subirla. Non che l’indignazione sia indispensabile all’esercizio della repressione, ma ne è un sottoprodotto ineludibile. Esiste quindi effettivamente qualcosa di radicalmente cattivo nella natura dello Stato. Non fanno eccezione quelli che presentino la modalità di costituzione più efficace, costruiti in modo da essere altamente adatti allo sviluppo della ragione, in cui il “lato buono” sia nettamente prevalente su quello cattivo. Non si tratta di un’aporia teorica: tutto ciò si deduce dalla teoria di Spinoza, e niente in essa lasciava credere che le cose potessero andare diversamente. Senza dubbio Spinoza ha ritenne che tutto questo fosse un po’ troppo pesante da digerire per i lettori, e pensò bene di non calcare troppo la mano, segnalando discretamente una verità su cui pensava di tornare forse in un secondo momento. Forse, chissà, questa è una delle ragioni per cui il Tp. rimase incompiuto.

La funzione teorica della democrazia in Hobbes e Spinoza

I

Non ho l’intenzione di trattare la questione della democrazia in Hobbes e Spinoza nel suo complesso, perché costituisce un argomento troppo vasto. Tutti sanno, per esempio, che Hobbes preferisce la monarchia alla democrazia, mentre per Spinoza vale esattamente l’opposto. Sarebbe facile mostrare in dettaglio come Spinoza si prenda cura di confutare uno per uno tutti gli argomenti di Hobbes, ispirandosi tra l’altro ampiamente alle critiche precedentemente fatte da P. del Court nel suo Balance Politique. Ma non è questo l’aspetto della questione che voglio esaminare: mi contenterò di presupporlo, tenemndolo sullo sfondo. Il problema che voglio affrontare non concerne tanto il giudizio dato da Hobbes e Spinoza sulla democrazia, quali ne siano praticamente i vantaggi o gli inconvenienti, ma il ruolo teorico da essa giocato all’interno delle rispettive dottrine riguardanti i fondamenti generali della legittimità politica. Detto altrimenti: in che misura, nell’uno come nell’altro, il ricorso alla democrazia è indispensabile per fondare teoricamente la legittimità delle altre forme di sovranità? Vedremo come, rispetto a questo, Hobbes Spinoza abbiano avuto un’ evoluzione nello stesso tempo uguale ed diversa: parallela rispetto alle premesse, ma inversa rispetto alle conclusioni. Per ben comprendere il significato della questione occorre che prima diciamo qualcosa sulle sue origini. Esse, in un certo senso, risalgono a ben prima della apparizione delle nozioni di “sovranità” e “contratto sociale”. Vanno ricercate in un principio molto vecchio, che faceva capo a un tradizione molto lunga, e che al tempo di Hobbes e Spinoza costituiva un vero e proprio luogo comune, e come tale era impiegato usualmente: il principio secondo cui la comunità politica in quanto tale, ossia in quanto persona collettiva, detiene la più alta autorità umanamente concepibile. San Tommaso d’Aquino, ad esempio, ci dice che il consenso prodotto dal popolo intero ha più potere, in materia legislativa, di quanto possa vantare il principe stesso con tutta la sua autorità: infatti, il principe è abilitato a legiferare solo in quanto rappresentante della moltitudine, rappresentandone la personalità giuridica (“in quantum gerit personam multitudinis”, Summ. Theol., I a II, Q 97, A 3). Ben inteso, in San Tommaso non esiste né sovranità né contratto sociale, ma, nel momento in cui queste due nozioni appariranno, mostrandosi nella loro correlazione, si dovranno fare i conti con tale principio tradizionale, facendo tutt’uno con esso. In questo modo si definiranno le condizioni di possibilità, il quadro teorico che sta a monte della questione con cui si confronteranno poi Hobbes e Spinoza. Colui che pose per la prima volta in termini sistematici il problema fu Grozio. In effetti, contrariamente a quanto detto da Rousseau nel cap. 5 del libro 1 de Il Contratto Sociale, Grozio è ben consapevole che un popolo che intenda darsi un re deve innanzitutto costituirsi in quanto popolo. Quello che ha indotto in errore Rousseau, è che Grozio tratta tale questione dividendola in due parti, collocate tra l’altro in contesti differenti dell’opera, ponendo per prima inoltre la parte terminale del processo di costituzione della sovranità, piuttosto che quella iniziale. Nel capitolo 5 del libro II del De Jure Belli ac Pacis, Grozio spiega appunto come si costituisce un popolo. Un popolo si costituisce mediante un contratto di associazione: un insieme di capifamiglia si accordano per formare una società organizzata politicamente, in modo da assicurare la pace civile e la sicurezza comune. Ognuno di loro trasferisce quindi alla comunità in quanto tale, relativamente a queste finalità, il diritto posseduto naturalmente di condurre in piena autonomia le proprie azioni –ogni decisione presa a maggioranza esprimerà perciò la volontà della comunità stessa: cosa che caratterizza quest’organizzazione sociale, di fatto, come una democrazia. In queste condizioni, conformemente al principio tradizionale sopra citato, il popolo, esprimendosi attraverso l’assemblea, ha sui suoi membri la più alta autorità umanamente concepibile, ossia una sovranità assoluta. Il popolo è sovrano, come lo era, rispetto a se stesso, l’individuo nello stato di natura. La sua sovranità è necessariamente assoluta rispetto al suo contenuto: essa si estende infatti per definizione alla totalità delle questioni di pubblico interesse. Essa però è anche assoluta rispetto alla

sua durata, poiché nulla vi può porre fine se non una precisa decisione del popolo. Il popolo, che possiede sovranità assoluta sui suoi membri, può decidere di trasferirla a qualcun altro utilizzando la modalità che ritiene più opportuna: ciò che si possiede a titolo assoluto, lo si può concedere a chiunque si voglia, tutto o in parte, con o senza condizioni: e questo vale tanto per il potere come per qualunque altra proprietà. Da questo principio nasce la possibilità di stipulare un contratto di successione, i cui aspetti sono stati d’altro canto complessivamente analizzati da Grozio nel capitolo 3 del libro I. Il popolo sovrano, se lo vuole, può trasferire incondizionatamente e totalmente la sua sovranità ad un re o ad un consiglio aristocratico, che assumerà allora lo status di sovrano assoluto, senza alcuna restrizione. Tale cessione può avvenire anche sotto il vincolo di determinate condizioni, poste dal popolo, che il re o il consiglio si impegneranno di rispettare. In questo caso, la sovranità del re e del consiglio avrà carattere assoluto rispetto al contenuto, ma non più rispetto alla durata, poiché decadrà in caso di violazione degli accordi. Infine, il popolo potrà decidere di cedere solo una parte delle prerogative della sovranità, e di conservare la parte restante (riservandosi, ad esempio, il diritto di stabilire le imposte): in questo caso la sovranità in termini assoluti non sarà detenuta da nessun soggetto dotato di autorità statuale. Dunque sussistono diverse possibilità: dato che la sovranità democratica è necessariamente assoluta, le altre forme di sovranità possono prendere, “assolutamente”, ossia a partire da tale principio assoluto, le forme più diverse: quale di queste forme verrà precisamente applicata dipenderà dalle clausole poste dal contratto stipulato. Hobbes e Spinoza si confrontano con i problemi posti da tali questioni. Ammettono entrambi, in accordo con Grozio e per ragioni analoghe, il carattere necessariamente assoluto della sovranità democratica: Spinoza non ha prodotto alcuna innovazione in questo senso. Ma le conclusioni che traggono sono molto diverse da quelle di Grozio: il tentativo da essi compiuto è di ridurre le diverse tipologie di sovranità ad una forma che le raccolga tutte, chiaramente di segno diverso: per Spinoza è una forma giuridica essenzialmente riferibile alla democrazia assoluta, per Hobbes tale forma prende un carattere esattamente opposto alla democrazia assoluta. Tutto questo venne ottenuto in due modi: negando la tesi di Grozio secondo cui la monarchia e l’aristocrazia derivavano dalla democrazia; e, all’opposto, mantenendo, ma reinterpretandola, la validità di questa tesi. Di conseguenza ne nascevano tre possibili opzioni teoriche, che riassumerò così: 1. le altre forme di sovranità derivano dalla democrazia, che così trasmette loro il suo carattere assoluto; 2. esse non derivano dalla democrazia, ma si costituiscono esattamente nello stesso modo, e di conseguenza, sono necessariamente assolute; 3. esse derivano dalla democrazia, e, di conseguenza, non essendo altro che sue derivazioni, non possono essere in nessun caso considerate assolute. In verità, secondo logica è concepibile anche una quarta posizione, ma non è stata mai presa in considerazione né da Hobbes né da Spinoza: di fatto, Hobbes passa dalla prima alla seconda posizione, mentre invece Spinoza, attuando una trasposizione concettuale che è il segno più evidente dell’originalità del suo orientamento, passa dalla seconda alla terza.

II La prima posizione è trattata da Hobbes nel De Cive. Non sono convinto che l’abbia adottata a cuor leggero. Ritengo che sia stato obbligato ad adottarla per eliminare le difficoltà indotte dalla teoria del contratto sociale, in particolare per i termini in l’aveva posta. In effetti non c’era in nessun modo, mantenendo un adeguato livello di rigore, per risolverli. Preciso che tale impasse riguarda esclusivamente le Repubbliche istituite: per questo non tratterò delle Repubbliche acquisite, che invece non presentano alcun problema. Per quanto riguarda le Repubbliche istituite, il meccanismo che regola il contratto sociale, descritto nel paragrafi 6 e 7, trova applicazione apparentemente senza problemi: la sua definizione sta tutta nel processo di trasferimento di diritto. Degli individui prendono l’impegno reciproco di lasciare ad un solo uomo, od ad un’unica assemblea, il diritto, da loro posseduto naturalmente, di libera disposizione e di libero impiego delle proprie forze. Lo scopo è di ottenere la pace civile e una comune scurezza. Da ciò risulta il carattere assoluto di ogni sovranità, quanto al suo contenuto:

la finalità a cui si rivolge la stipula del contratto sarebbe irrealizzabile se la volontà espressa dal popolo nel contratto, come un corpo unico, non si fosse rivolta alla totalità degli affari di pubblico interesse. Ma chi vuole il fine vuole anche i mezzi: perciò ogni divisione della sovranità è da escludere. Ma ciò non implica, come preciserà Hobbes al paragrafo 13 del capitolo 6, che il popolo sia obbligato sempre e comunque ad obbedire al sovrano. D’altra parte, nessun teorico dell’assolutismo ha mai fatto una simile affermazione. Da una parte, infatti, il popolo ha il diritto di resistere al sovrano nel caso che sia minacciato di morte da lui o dia l’ordine di suicidarsi: sussite l’obbligo a fornirgli i mezzi per uccidere gli altri, ma non a suicidarsi o a lasciarsi uccidere. Ogni impegno di questo genere decade automaticamente e non può essere ritenuto parte del contratto sociale. D’altra parte, in termini più generali, si possono concepire un’infinità di casi in cui la nostra disobbedienza non farebbe venir meno alcuni dei poteri prerogativa del sovrano che la sottoscrizione del contratto sociale obbligava di assegnargli. Per esempio, dice Hobbes, se il sovrano condannasse a morte mio padre e mi ordinasse di procedere con l’esecuzione, io avrei il diritto di rifiutarmi di farlo. In ogni caso il sovrano troverà dei professionisti in grado di realizzare tale compito: di fatto, io mi sono impegnato solamente a far sì che abbia i mezzi per realizzare l’esecuzione dei condannati a morte, ivi compreso mio padre, ma ho assolto il mio impegno in proposito pagando le imposte – grazie alle quali potrà reclutare tutti i boia che vorrà. Ma è a questo punto che vengono fuori le difficoltà. Infatti per Hobbes - si badi bene che questo è un punto capitale - il sovrano ha tutti i diritti, e li possiede comunque, anche nel caso in cui il popolo non fosse obbligato a rispettarli: possiede ad esempio il diritto assoluto di mettermi a morte se mi rifiuto di procedere all’esecuzione di mio padre. Non commetterebbe alcun’ingiustizia nei miei confronti, se si avverasse una simile eventualità. Ma tutto ciò è giustificato, almeno nel De Cive, mediante una ragione puramente negativa: il sovrano non è parte in causa rispetto al contratto sociale, stipulato, prima dell’istituzione della corona, esclusivamente tra soggetti individuali: di conseguenza, non è obbligato ad assolvere nessun impegno: infatti, chi non abbia trasmesso i suoi diritti li conserva tutti, come nello stato di natura. Perché è logicamente impossibile che il sovrano possa essere parte in causa nella stipula del contratto sociale? Perché quando si possiedono dei diritti, si ha anche sempre il diritto di rinunciarvi, e ma il sovrano non può avere “diritto” alla sovranità poiché non può rinunciarvi. Il sovrano non può assumere alcun impegno incompatibile con l’esercizio della sua sovranità: se promettesse, ad esempio, di mantenere delle imposte solo previo consenso dei suoi sudditi, tale promessa sarebbe nulla perché assumerebbe il significato di una accettazione e nello stesso tempo di una negazione delle prerogative della sovranità, che gli spettano necessariamente in quanto re. Significherebbe volere qualcosa di contraddittorio, e non è logicamente accettabile. Ma che succederebbe se il sovrano assumesse un impegno diverso, un impegno che non limiterebbe per nulla l’esercizio della sua sovranità, come ad esempio impedire per sempre che i figli eseguano le condanne a morte dei padri? O, in termini più generali, che succederebbe se s’impegnasse a non punire mai coloro che rifiutano di obbedire ad ordini su cui non verte alcun vincolo di obbedienza? Perché non potrebbe farlo? In questo caso, non sussisterebbe alcuna contraddizione: anche rispetto alla logica rigorosa dei capitoli 5 e 6 del De Cive, un impegno di questo genere sarebbe pienamente valido, in termini giuridici: sono le sue conseguenze che sarebbero catastrofiche. L’autorità del sovrano resterebbe assoluta rispetto al suo contenuto, ma non lo sarebbe più rispetto alla durata: se il sovrano dovesse mai arrivare a violare gli impegni assunti, ci sarebbe immediata rescissione del contratto e, di conseguenza, i sudditi potrebbero ritenersi liberi da ogni obbligo. Si ritornerebbe allo stato di natura, cosa che l’istituzione della sovranità intendeva appunto evitare. Occorre perciò ammettere che il contratto sociale di cui tratta il De Cive non è, preso in se stesso, lo strumento giuridico più adeguato alle finalità che dovrebbe assolvere: è necessario dunque che altri elementi lo vengano ad integrare. Hobbes ne tratta nel capitolo 7. Li introduce ricorrendo all’ipotesi di una forma giuridica originariamente democratica. Ogni società politica istituita, dice, è alla sua origine necessariamente democratica (stante il fatto che si tratta di una precedenza storica, ma piuttosto di una precedenza logica). Per il solo fatto che degli individui si riuniscano per designare insieme un comune regime

di sovranità, s’impegnano a rispettare ed a sottomettersi alle decisioni della maggioranza. Questo vale anche nel caso in cui il regime scelto consista nella nomina di un re. Di conseguenza, il regime che in realtà essi primariamente istituiscono, anche solo per un istante infinitesimo, è di fatto una democrazia. Ora, è evidente che nel caso specifico della democrazia il sovrano non può assolutamente essere parte in causa del contratto sociale. Infatti per “sovrano” si deve intendere ora l’insieme del popolo in quanto persona collettiva: ossia una persona che non esiste allo stato di natura, e con cui, conseguentemente, non è possibile intavolare alcuna trattativa. Quindi nel regime che nasce dalla decisione democratica il sovrano non è gravato da alcun impegno che derivi dalla decisione presa dal corpo democratico. È anche vero però che, una volta concretizzatosi il trasferimento di sovranità, il re o il consiglio democratico possono prendere degli impegni con l’assemblea del popolo: ma tali impegni varranno solo nei confronti di tale organismo collettivo, non verso i singoli individui che lo costituiscono, perché è con esso che avviene l’effettiva stipula del contratto. Nel momento in cui avviene il trasferimento di sovranità, l’assemblea del popolo in quanto persona collettiva cessa di esistere. Quindi, in ogni modo, per il re ed il consiglio aristocratico qualsiasi obbligo decade nell’istante stesso della nomina. I sudditi, invece, da parte loro sono obbligati a prestare obbedienza, perché essendosi vicendevolmente impegnanti all’obbligo di obbedienza verso l’assemblea del popolo, hanno anche implicitamente assunto l’impegno di obbedire all’ordine che prescrive la sottomissione al re, o al consiglio aristocratico, essendo questi dotati dello stesso livello di sovranità dell’assemblea. Ecco il processo tramite cui, dunque, avviene il trasferimento del carattere necessariamente assoluto della democrazia originaria alle altre forme di governo. Ma questa soluzione non è ancora abbastanza soddisfacente per Hobbes. Potrei mostrarne (ma non lo farò!) tutte le debolezze, tutte le ambiguità ed errori, tutti i passaggi inficiati da una logica zoppicante (circa una dozzina). In effetti, tutto ciò dipende dal fatto che nel De Cive la dottrina della personalità giuridica non aveva ancora avuto definizione. Ma, in ogni modo, risulta evidente che la preminenza teorica accordata alla democrazia dispiaceva ad Hobbes: troppo paradossale probabilmente gli appariva far scaturire il regime più adeguato, quanto a forma di sovranità, da quello meno adeguato. Credo che derivi da questo la revisione cui sottopose la sua dottrina del contratto sociale, che poi sfociò nelle tesi de Il Leviatano. Nel capitolo 17 de Il Leviatano il contratto sociale non è più definito unicamente in termini di trasferimento di diritto: si sostanzia essenzialmente in un’autorizzazione, che va poi ad implicare, ma non direttamente a prescrivere, il trasferimento di diritto. Come Hobbes spiega nel capitolo 16, permettere a qualcuno di compire un’azione a mio nome, significa riconoscere quest’azione come propria, significa cioè, nel caso in cui la persona scelta, cosa che ne determina lo status di rappresentante giuridico, compia effettivamente quest’azione, assumerne la piena responsabilità giuridica: questo vale in tutti i casi in cui il rappresentante agisca. Tutto ciò non significa che si perda il diritto di fare o non fare tale determinata azione, al contrario, tale diritto verrà mantenuto perché è in virtù di tale diritto che potrà agire colui che mi rappresenta. Egli non agisce in virtù del suo diritto, ma in virtù del diritto assegnatogli da un’altra persona, la quale, proprio per questo, ne resterà detentrice. Il solo diritto che viene meno, è quello di negare di essere stato l’autore di tale azione, una volta compiuta. Il contratto sociale assegna a questo meccanismo validità generale: i soggetti concordano (la quale cosa, come per ogni accordo, ha effetti giuridici irreversibili) di concedere la loro autorizzazione, senza eccezioni, a tutte le azioni del sovrano, purché abbiano esplicitamente o indirettamente a che fare con la pace civile e la difesa comune, cosa di cui il sovrano risponde e di cui deve fare pubblica dichiarazione di fronte al popolo (cosa che abilmente non mancherà mai di fare, naturalmente). Da tutto questo Hobbes deduce, nel capitolo 18, che un sovrano, secondo quanto dettato dall’impegno sottoscritto, assume un mandato che esclude assolutamente ogni azione arbitraria o discrezionale, e tutto ciò per una ragione completamente diversa da quella presente nel De Cive: il carattere originario della democrazia non c’entra più nulla, ora. Il sovrano s’impegna a fare o a non fare una determinata azione. Una volta che l’impegno assunto si tradurrà in azione, la responsabilità non potrà essere attribuita al sovrano, ma ricadrà su

ognuno dei suoi sudditi: per questo il sovrano non viola alcun accordo. Il sovrano ha il diritto di fare tutto senza mai commettere ingiustizia, perché, giuridicamente, non è responsabile delle sue azioni.

Macome stanno le cose rispetto all’autorizzazione concessa al sovrano? Essa deriva dal fatto che alcune azioni (non tutte) sono direttamente riferibili alla nostra responsabilità civile, e come tali c’impegnano. Il fatto che il sovrano dia un ordine, comporta da parte sua un obbligo specifico: egli deve fare precisa dichiarazione che il diritto di cui si avvale in vece del popolo e per sua rinuncia è rivolto ad assicurare la pace e la difesa comune. Giuridicamente, però, è come se tale dichiarazione fosse compiuta da ogni individuo costituente la comunità: ognuno afferma di rinunciare a tale diritto in vista di tale scopo. Tutto questo ha, com’è detto nel cap. 16, gli stessi effetti posseduti dalla tradizionale dichiarazione di rinuncia al proprio diritto naturale, né più né meno. Hobbes conclude, nel capitolo 21, che la concessione di una simile autorizzazione ricade interamente sulla responsabilità di tutti i cittadini, impegnandoli esattamente nei termini definiti dal contratto sociale di cui parla nel De Cive. Questo comporta che, dal momento che non è possibile prendere l’impegno di suicidarsi, ognuno conserverà sempre il diritto di resistere al sovrano, nel caso che manifestasse l’intenzione di ucciderlo, e questo anche se ognuno di fatto gli ha concesso l’autorizzazione a farlo. Inoltre, essendo ogni impegno nullo se non ha rapporto con le finalità definite pubblicamente in sede di contrattazione, ognuno mantiene il diritto di disobbedire al sovrano, se tale disobbedienza non lo priva dei mezzi di assicurare la pace civile e la difesa comune, e questo anche se il sovrano è autorizzato, in base all’accordo stipulato, a procedere ad una punizione. Hobbes ha risolto ne Il Leviatano il problema del De Cive eliminando ogni riferimento alla tesi, ipotetica, dell’esistenza di una originaria dimensione istituzionale dello stato civile sotto forma di regime democratico. Secondo quanto definito in sede di teoria della legittimità, tutte le forme di sovranità sono sullo stesso piano: sono tutte egualmente assolute, non perché derivino dalla democrazia, ma perché istituite da uno stesso atto, quello che concede l’illimitata autorizzazione al sovrano di compiere le azioni che ritiene più opportune in relazione al fine definito all’accordo – e tale accordo è ora giuridicamente impeccabile, non presentando il bisogno di alcuna integrazione: risulta ne è che sia semplicemente preferibile, quando è possibile, istituire una monarchia.

III

Perciò, detto questo, come si caratterizza la posizione di Spinoza? Tutti conoscono, chiaramente, il gigantesco lavoro di trasposizione concettuale da lui compiuto sulla nozione di diritto. Il diritto, secondo Spinoza, non è altro che la potenza. Quest’affermazione va presa alla lettera. Avere il diritto di fare un’azione significa esattamente desiderare di farla, possedere la capacità fisica ed intellettuale di farla, non avere nessuno ostacolo esteriore che sia d’impedimento alla sua esecuzione: di conseguenza, significa poter compiere effettivamente l’azione in questione. Non svilupperò oltre questo punto: lo darò per acquisito. Spinoza si è servito di questo nuovo concetto di diritto per reinterpretare, disgregandola dall’interno, la teoria del contratto sociale di Hobbes. Credo che questo sia stato compiuto in due fasi distinte: nel TTP Spinoza ha tradotto in termini di potenza il processo che nel De Cive pone il contratto sociale, giungendo però a dei risultati che rispecchiano in parte i contenuti de Il Leviatano, almeno nei presupposti teorici; nel Tp ha invece tradotto in termini di potenza il processo che ne Il Leviatano porta alla stipula del contratto sociale, giungendo però stavolta a risultati che richiamano in parte la concezione presente nel De Cive. Attenzione: richiamano solamente, ben inteso, ossia presentano contenuti analoghi, vista la trasposizione che, da un altro punto di vista, muta del tutto il quadro concettuale di riferimento di Spinoza. Nel capitolo 16 del TTP il contratto sociale è effettivamente definito solamente in termini di trasferimento di diritto, come nel caso del De Cive, e proprio per questo Spinoza parla ancora di “contratto”, ma “trasferimento di diritto” va in realtà a significare “trasferimento di potenza”.

Spinoza non fa altro che applicare tale principio al caso specifico: un insieme di individui che vivono allo stato di natura decidono di comune accordo di trasferire ad un sovrano tutta la potenza posseduta per difendersi. In altri termini decidono di creare una volta per tutte, e possibilmente in modo irreversibile, un rapporto di forza basato su conduzioni del tutto diverse, tale da assegnare al sovrano una potenza invincibile. Spinoza, qui, fa l’esempio della democrazia. Man mano verrà a precisare che solo di un esempio si tratta: quanto implicato della mia ipotesi, dirà, potrà essere applicato parola per parola anche a tutte le altre forme di sovranità, senza eccezione alcuna. Ed effettivamente tali implicazioni permetteranno a Spinoza di risolvere in modo agevole il problema su cui si era arenato il De Cive, senza ricorrere all’idea della democrazia come stato civico originario. L’ipotesi di Spinoza, infatti, è che il sovrano, chiunque sia, non sia responsabile di nulla, e che i sudditi siano tenuti ad obbedirgli in tutto e per tutto. Infatti, per voler sottoscrivere un accordo che impegni giuridicamente il sovrano in quanto soggetto responsabile delle sue azioni, i sudditi dovrebbero mantenere una quantità di forza sufficiente a costringerlo ad essere conseguente. Ma questo è proprio ciò che non hanno voluto fare dal momento che, come specifica l’ipotesi fatta, gli hanno trasferito tutta la loro potenza. Eppure, nonostante che Spinoza impieghi l’espressione “obbedire in tutto e per tutto”, i sudditi non saranno soggetti ad obblighi maggiori rispetto a quelli prescritti dal De Cive e da Il Leviatano. Essi infatti sono obbligati a prestare obbedienza solo a quanto gli è ordinato in quel preciso istante. È poco verosimile che un sovrano, chiunque esso sia, dia degli ordini talmente assurdi da non poter essere eseguiti (tipo far eseguire le condanne a morte dai figli dei condannati): generalmente non sono così stupidi da non sapere che se facessero una cosa del genere, il paese diverrebbe in breve tempo ingovernabile. Perderebbero così quella potenza invincibile che ne definisce lo status ed è alla base della sovranità da essi posseduta – cosa che, di nuovo, negherebbe l’ipotesi iniziale. Spinoza precisa semplicemente, contro Hobbes, che in democrazia tale pericolo sussiste ancor meno che in tutti gli altri regimi, perché è assolutamente impossibile che un gran numero di uomini si mettano d’accordo per fare una cosa assorda. Quindi, almeno in apparenza, tutto è risolto: reinterpretando in termini di potenza l’ipotesi teorica del contratto sociale fatta dal De Cive, Spinoza va a concludere, come ne Il Leviatano, che, rispetto ai loro fondamenti, tutte le forme di sovranità sono sullo stesso piano. La democrazia è preferibile perché in essa i sudditi sono più liberi, ma, in termini di costituzione giuridica e di legittimità, essa non conserva alcun privilegio teorico. Ed eppure la questione non è chiusa per niente. Infatti le precedenti conclusioni sono valide nella misura in cui l’ipotesi presentata dal capitolo 16 si dimostri conforme alla realtà. Ora Spinoza dice all’inizio del capitolo 17 che tale ipotesi teorica non è mai stata interamente oggetto di reale verifica pratica, per quanto venga in apparenza continuamente dimostrata: i termini di tali dimostrazioni si rivelano all’esame approssimati ed approssimativi. In effetti tale ipotesi è astratta poiché trascura le resistenze messe in campo dalla natura umana, così come la teoria della caduta dei corpi trascura la resistenza dell’aria. In realtà nessuno trasferisce la totalità della sua potenza: in ogni società esistente i sudditi conservano sempre forza sufficiente ad indurre timore al sovrano. Occorre dunque fra i conti con quanto tralasciato in prima battuta. Poste tali premesse, si evidenzia un primo problema (che Spinoza affonda nelle parti successive al capitolo 17 del TTP) : che cosa viene effettivamente trasferito? Cosa può essere trasferito? E come si fa a renderlo oggetto di un trasferimento irreversibile? Da tale problema ne scaturisce un altro, ancora più importante, rispetto al quale Spinoza, almeno nel TTP, non dice una parola: in definitiva, cos’è esattamente un trasferimento di potenza? Spinoza analizza questa nozione nel Tp. Il risultato è in prima battuta piuttosto sorprendente. In effetti, se si trasferisce ad altri la propria potenza, ci si trova sottoposti alla potenza da essi posseduta. Spinoza ci dice nel paragrafo 10 del capitolo 2 che si giunge ad essere sottoposti alla potenza altrui in due casi, e in due casi solamente: quando si è incatenati, disarmati e imprigionati; o quando si desidera effettivamente agire secondo i desideri di colui a cui siamo sottomessi, perché costui è stato in grado di ispirarci timore o speranza. Il primo caso non ha alcun rapporto con un trasferimento di diritto, perché la volontà non vi interviene per nulla. Nel secondo caso, al contrario,

la volontà entra in gioco: si mette volontariamente la propria potenza a disposizione di un’altra persona. C’è stato realmente un trasferimento? No, certo. La potenza resta fisicamente in possesso di colui che la possedeva: la potenza non la si lascia mai, ma la si mantiene sempre in proprio possesso. Proprio perché la si conserva, colui sotto il cui comandi ci si viene a trovare ha sempre bisogno del consenso dei suoi sudditi per realizzare i suoi scopi. Ci troviamo quindi di fronte a qualcosa di molto simile all’autorizzazione di cui parla Il Leviatano. Ne Il Leviatano, come abbiamo visto, si autorizzava un’altra persona ad gire in proprio nome, accordandogli il possesso di un diritto di cui si restava comunque detentori. Tale persona utilizzava il diritto accordatogli per compiere un’azione: in termini giuridici, però, l’azione era in realtà eseguita da colui che aveva sottoscritto l’accordo, il quale, sempre in termini giuridici, non aveva alcun diritto di contestare la sua effettiva responsabilità riguardo alla sua esecuzione, se pure per trasposta persona. Ora, anche se si cambia “diritto” con “potenza”, e “giuridicamente” con “fisicamente”, le cose non cambiano: si concede il proprio assenso a che un'altra persona utilizzi una potenza che resta comunque mia. Egli l’utilizza per realizzare un’azione, ma tale azione è colui che ha sottoscritto l’accordo, fisicamente, che la compie, senza avere alcuna possibilità di contestare questo fatto, del tutto evidente. L’unica differenza che sussiste rispetto a Il Leviatano è che tale autorizzazione non del tutto irreversibile: appena la speranza ed il timore cessano, si smette di mettere la propria potenza a disposizione di un altro: egli perde così ogni prerogativa di sovranità. In effetti, il processo tramite cui si autorizza un terzo ad assumere una condizione sovrana comunque è descritto in termini in definitiva equivalenti in Hobbes ed in Spinoza. Quando un gran numero di persone concedono nello stesso istante l’assenso a che una sola persona detenga la sovranità, si ha effettivamente trasferimento di potenza. Allo stesso modo ne Il Leviatano Hobbes afferma che tale consenso implica un trasferimento di diritto. In entrambi i casi assistiamo ad una modificazione dei rapporti di forza: colui che ne beneficia, e per tutto il tempo che ne benefica (e non di più), assume una potenza sufficientemente grande per ispirare timore o speranza ad ognuno dei membri del gruppo di cui fa parte. In questo modo, determina la automatica reiterazione del meccanismo che porta i sudditi ad accordargli l’uso della propria potenza individuale, presa singolarmente: questa autorizzazione comporta un trasferimento, che a sua volta causa la riproduzione dell’autorizzazione, ecc. ecc. Questo processo, descrittoci nel paragrafo 17 del capitolo 2, è di fatto una definizione genetica di sovranità: il diritto che sta alla base della sovranità non è definito dalla potenza del sovrano, ma dalla potenza della moltitudine. Chi possiede la sovranità non è il sovrano, ma la moltitudine. Il sovrano non ne è che un momentaneo detentore: ne ha il possesso nella misura esatta in cui la moltitudine accetta di metterla a sua disposizione. Senza di essa, non potrebbe fare nulla, e di conseguenza non avrebbe alcun diritto: tutto ciò che fa in quanto sovrano, è in realtà la moltitudine che lo fa, esattamente come ne Il Leviatano tutte le azioni del sovrano erano in realtà compiute dai sudditi. Ben inteso, contrariamente a quanto succede in Hobbes, pur essendoci una similitudine rispetto al processo di autorizzazione al trasferimento di potenza, ciò non significa che tale possesso venga assegnato una volta per tutte, e che quindi la potenza collettiva vivifichi sempre tutte le azioni del sovrano. Essa è concessa volta per volta, singola azione per singola azione, in seguito ad un accordo con la maggior parte dei sudditi, che accettano cos’ di cooperare passivamente o attivamente alla sua riuscita. È per questa ragione che il Tp non parla più di “contratto sociale”: la società politica non è creata da un contratto, essa è generata ad ogni istante da un consenso continuamente rinnovato. Tale interpretazione in termini di potenza della concezione del contratto sociale presente ne Il Levitano conduce Spinoza, senza che questo implichi alcun paradosso, a riprendere la tesi della preminenza della democrazia presente nel De Cive. Certo si tratta anche, come dice Spinoza nel paragrafo 12 del capitolo 8, di una preminenza storico – cronologica. Ma essa ha le sue ragioni molto più in profondità, in una preminenza non solo logica, ma soprattutto ontologica: sono un po’ gli stessi termini che motivano l’anteriorità della sostanza rispetto alle affezioni. Spinoza ci indica questo concetto nel paragrafo 5 del capitolo 7. Nessuno, dice, cede di buon grado l’autorità ad un altro: se non altro perché l’ambizione di dominio e l’invidia sono passioni generalmente estese. Di

conseguenza, aggiunge, la moltitudine non trasferirà mai la propria sovranità ad un solo uomo o più in generale ad un qualsiasi istituto se potrà realizzare autonomamente al suo interno un regime basato sull’accordo generale. Perché allora esistono regimi non democratici? Per l’intervento di due fattori: da una parte, la potenza di una moltitudine che desidera vivere di comune accordo, che è spinta di conseguenza a trovare un terreno di intesa collettiva tra i suoi membri, e che tende dunque ad organizzarsi democraticamente; dall’altra, delle cause esteriori che le impediscono di realizzare direttamente tale sua tendenza intrinseca, obbligandola a realizzarla per vie traverse, ricorrendo alla figura di un mediatore. Ogni società politica ha quindi due cause: un conatus democratico, che, fatto salvo tutto il resto, sfocerà nell’istituzione di un’organizzazione democratica, e le cause esteriori che modificano tale conatus, provocando in esso affezioni di natura non democratica. Ora, dal momento che tra fatto e diritto non esiste alcuna dicotomia, ogni esplicazione causale è nello stesso tempo elemento di legittimazione giuridica. Quindi, come nel De Cive, la legittimità di tutte le altre forme di sovranità deriva da una cessione di diritto effettuata dal regime democratico. A differenza del De Cive, però, le altre forme di sovranità non possono mai essere assolute. Nel De Cive, in effetti, la democrazia, in quanto regime originario, si poneva come causa transitiva degli altri regimi: sparendo nel momento stesso in cui dava vita ai suoi effetti, trasmetteva loro la totalità dei suoi caratteri. Nel Tp, al contrario, la democrazia ha un ruolo di causa immanente: l’origine è sempre presente perché il conatus democratico non cessa mai di funzionare, pena l’impossibilità di ogni forma statuale. Da ciò risulta che in ogni regime non democratico la sovranità risulta necessariamente condivisa (di fatto, e quindi di diritto), essendo detenuta in pari tempo dai legittimi possessori e dal suo detentore. Non si tratta, ben inteso, di una condivisione in termini verticali: in questo caso, tutti gli attributi della sovranità sono nelle mani di un solo uomo o di una sola assemblea. Si tratta invece di una condivisione in termini orizzontali: la messa in opera delle prerogative della sovranità dipende ogni volta, ed in riferimento ad ogni caso nella sua particolarità, dalla decisione del sovrano ma anche dalla accettazione attiva o passiva della moltitudine. Nella monarchia ciò è del tutto evidente: i re sono sempre nudi, come spiega bene il paragrafo 5 del capitolo 6. Ma anche l’aristocrazia, dice Spinoza nel paragrafo 4 del capitolo 8, deve tener conto della pressione popolare, anche in se essa si esprime in modo del tutto informale: l’aristocrazia è regime più vicino all’assoluta e piena espressione della potenza della moltitudine, per quanto non può mai raggiungerla, anche tocche le vette più alte di perfezione. Solo nella democrazia la potenza raggiunge la sia espressione assoluta perché in essa possessore e detentore coincidono. Ogni forma particolare in cui si incarni la sovranità può essere definita in termini di potenza della moltitudine, in quanto, però, detenuta da un entità sovrana limitata: “potentia mutitudinis quatenus”. La sola sovranità assoluta, è invece, la: “potentia mutitudinis quatenus a mutitudine ipsa tenetur”.