corpi e dispositivi. una prospettiva cognitivista

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2 FATA MORGANA

FATA MORGANAQuadrimestrale di cinema e visioni

Pellegrini Editore

Direttore Roberto De Gaetano

Comitato scientifico Dudley Andrew, Raymond Bellour,Sandro Bernardi, Francesco Casetti, Antonio Costa,Georges Didi-Huberman, Ruggero Eugeni, Annette Kuhn,Jacques Rancière, David N. Rodowick, Giorgio Tinazzi

Comitato direttivo Marcello W. Bruno, Alessia Cervini,Daniele Dottorini, Michele Guerra, Bruno Roberti,Antonio Somaini, Salvatore Tedesco, Luca Venzi

Caporedattore Alessandro Canadè

Redazione Daniela Angelucci, Francesco Ceraolo, Massimiliano Coviello,Paolo Godani, Andrea Inzerillo, Carmelo Marabello,Emiliano Morreale, Antonella Moscati, Christian Uva, Francesco Zucconi

Coordinamento segreteria di redazione Loredana Ciliberto (resp.), Simona Busni

Segreteria di redazione Raffaello Alberti, Andreina Campagna,Deborah De Rosa, Patrizia Fantozzi, Giovanni Festa,Greta Himmelspach, Caterina Martino, Clio Nicastro

Progetto grafico Bruno La Vergata

Webmaster Alessandra Fucilla

Direttore Responsabile Walter Pellegrini

Redazione DAMS, Università della CalabriaCubo 17/b, Campus di Arcavacata - 87036 Rende (Cosenza)E-mail [email protected] internet http://fatamorgana.unical.it

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ISSN 1970-5786

Abbonamento annuale ¤ 35,00; estero ¤ 47,00; un numero ¤ 15,00(Gli abbonamenti s’intendono rinnovati automaticamente se non disdetti 30 gg. prima della scadenza) c.c.p. n. 11747870 intestato a Pellegrini Editore - Via G. De Rada, 67/c - 87100 CosenzaPer l’abbonamento on line consultare il sito www.pellegrinieditore.com

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SOMMARIO

INCIDENZE

7 Nel corpo del dispositivo. Conversazione con Tsukamoto Shin’ya a cura di Bruno Roberti

FOCUS

19 Girando in tondo. Cavalli, caroselli e il metacinema del moto meccanico Thomas Elsaesser 33 I mille fiori blu: archeologia del dispositivo Massimo Locatelli 45 Corpi e dispositivi: una prospettiva cognitivista Francesco Parisi 57 L’“acinema” della rete Dario Cecchi 69 Il dispositivo cinematografico tra psicoanalisi e ideologia Ismaela Goss 81 La strategia del cinema Giuseppe Armogida 91 Visione e condivisione: in principio era il cinema Rossana Domizi103 Archeologia dell’impressione di realtà Giancarlo Grossi117 Archivio amatoriale e rimediazione digitale Diego Cavallotti129 Cinema e diritto: dispositivi incrociati Anton Giulio Mancino141 L’ideologia del disincanto e della violazione. La rinegoziazione di una geometria spettacolare Giorgio Avezzù155 Cosmogrammi Nicola Turrini169 Disporre, esporre. La materia cinematografica nell’arte contemporanea Francesco Federici181 Il dispositivo siamo noi Cristiano Dalpozzo

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197 L’occhio e l’oggetto. Appunti sulla visibilità Alessandra Merlo211 Ciprì e Maresco: il dispositivo cinico dell’informe Dalila D’Amico225 Quel che resta del cinema Luca Malavasi

RIFRAZIONI

239 Dispositivo “cinema”. Rivedendo Prénom Carmen Massimo Donà255 Alla conquista dello spazio: Georges Méliès l’esploratore Francesco Giarrusso263 Naturale e artificiale: l’occhio fotografico in Franz Roh Emanuele Crescimanno271 Note sul Dutch angle nelle sintesi e nelle sinfonie di Ubaldo Magnaghi Andrea Mariani279 Critica del dispositivo confessionale: Todo modo Giacomo Tagliani287 Tra appropriazione e “cinematizzazione”: Untitled Film Stills di Cindy Sherman Alessandra Chiarini293 Il paradosso del 3D. La stereoscopia in Viaggio al centro della terra Federico Vitella303 Vedozero. Interrogare il dispositivo dello sguardo Anna Caterina Dalmasso311 Autoriflessività del dispositivo come dialettica intermediale. I Wish I Knew di Jia Zhangke Pietro Masciullo317 Le pratiche di desoggettivazione nel dispositivo video-ludico: Source Code Salvatore Finelli323 Il combine movie di Gondry e i dispositivi ipomediali. The We and the I Vincenzo Tauriello329 Selfie-control. Il dispositivo che fotografa se stesso Marco Dalla Gassa339 OS Paolo Godani

345 Abstract in inglese

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Corpi e dispositivi: una prospettiva cognitivista

Francesco Parisi

What we have learned is that human biological brains are, in a very fundamental sense, incomplete cognitive systems. They are naturally geared to dovetail themselves, again and again, to a shifting web of

surrounding structures, in the body and increasingly in the world.Andy Clark

Introduzione

È piuttosto comune e tutto sommato diffusa anche presso i non addetti ai lavori, l’idea che i dispositivi di cui siamo circondati possano essere conside-rati come una sorta di estensione della nostra persona. Il più delle volte questa intuizione è ingenua: la sensazione qualitativa di non potere letteralmente fare a meno dei propri dispositivi tecnologici accompagna l’esperienza quotidiana che viviamo. Ma al di là di questa sostanziale intuizione fenomenica si è sviluppato, in modo sempre più significativo e diffuso, un sistema di idee – filosofiche, artistiche e scientifiche – che ha cercato di dar conto di questo principio, arric-chendo il repertorio concettuale disponibile per la descrizione del fenomeno dell’estensione della cognizione. Come di consueto la sofisticazione teorica ha fatto emergere punti di tensione, problemi e affascinanti “pompe di intuizione” (intuition pump)1, ma ha anche conferito al concetto di estensione una legittimità epistemologica di cui si cercherà di dar conto qui.

Se qualcosa si estende al di fuori del corpo, deve esserci qualcosa che riceva tale effetto, rendendolo possibile; i dispositivi permettono l’estensione ma non si limitano a questa ricezione, retroagendo sul corpo con cui entrano in contatto:

1 D. Dennett, Strumenti per pensare, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2014, pp. 1-16.

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come due facce di una stessa medaglia, il concetto di estensione si accompagna a quello di incorporamento.

Estensione e dispositivo nei media studies

Il concetto di estensione mediale ha attraversato l’intero Novecento, al-ternando picchi di grande visibilità a fasi di forte detrazione. Nella teoria dei media, il più illustre teorico dell’estensione mediale è stato certamente Marshall McLuhan2 a sua volta influenzato dagli studi di Harold Innis e, in generale, dalla singolare occorrenza di circostanze che gli hanno permesso di concepire per la prima volta una peculiare scienza dei media3. Nella sua prospettiva, infatti, i media funzionano come delle vere e proprie protesi del nostro organi-smo che, innestandosi nella relazione soggetto-ambiente, si sostituiscono alla parte organica deputata allo svolgimento di una funzione, accaparrandosela. Il corpo dunque, mettendo in atto una strategia di difesa al fine di trovare un nuovo equilibrio nella relazione mediale, “amputa” la parte del corpo che è stata sostituita dal medium per favorirne un’innervazione4. Quest’ultimo ter-mine ci conduce direttamente a Benjamin, che disseminò in gran parte della sua produzione teorica riferimenti alle caratteristiche dei media, capaci di dare accesso a nuove modalità di percezione, inedite fino ad allora. In realtà, tra gli anni venti e trenta del Novecento, molti artisti e teorici promossero l’idea per la quale l’impatto sensoriale dei dispositivi potesse causare una qualche forma di ampliamento o estensione sensoriale5.

Un altro rilevante ambito di studi che evidenzia gli aspetti protesici dell’im-patto mediale ricade sotto il nome di prosthetic culture6, un ambito che, a

2 Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, tr. it., Il Saggiatore, Milano 2008.3 N. Pentecoste, Marshall McLuhan tra scienza e filosofia. La tentazione post-moderna,

Bevivino, Milano 2012.4 Gli studi di McLuhan sono stati ripresi significativamente da D. de Kerckhove, Brainfra-

mes. Mente, tecnologia, mercato, tr. it., Baskerville, Bologna 1993.5 Una ricostruzione storica e teorica di questa estetica mediale si può trovare in: W. Benja-

min, Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti, A. Somaini, Einaudi, Torino 2012, pp. XXIII-XXVIII; L. Moholy-Nagy, Pittura, Fotografia, Film, tr. it., Einaudi, Torino 2010; Estetica dei media e della comunicazione, a cura di R. Diodato, A. Somaini, il Mulino, Bologna 2011; L. Scacco, Estetica mediale. Da Jean Baudrillard a Derrick de Kerckhove, Guerini, Milano 2004.

6 M. Smith, J. Morra, The Prosthetic Impulse. From a Posthuman Present to a Biocultural Future, MIT Press, Cambridge (MA) 2006; C. Lury, Prosthetic Culture: Photography, Memory and Identity, Routledge, London 1998.

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partire da studi di derivazione cyber-antropologica7, ha sviluppato un’episte-mologia con cui prova a investigare il confine sempre più irriconoscibile tra il corpo e la tecnologia che ci circonda: il corpo tende a estendersi nel mondo e, contemporaneamente, il mondo travalica le limitazioni corporee attraverso le tecnologie. Esemplare da questo punto di vista la produzione artistica del performer Stelarc, che si è fatto trapiantare nel braccio del tessuto biologico a forma di orecchio ottenuto dalle sue stesse cellule, collegandovi poi una ricetrasmittente per rendere funzionale l’apparato. Altrettanto interessante è l’operazione del cyberattivista Neil Harbisson che, affetto da acromatopsia fin dalla nascita – una patologia che non permette di vedere i colori – si è fatto impiantare direttamente nell’osso occipitale un’antenna che gli consente di discriminare la tonalità e la saturazione dei colori mediante una traduzione delle frequenze visive in frequenze audio. O ancora, in ambito visuale, la serie TV Black Mirror che, analizzando gli effetti dei media sulla società, in due episodi affronta le tematiche dell’estensione mediante i dispositivi8. In ambito esteto-logico l’autore forse più rappresentativo è stato John Dewey, il quale concepì un’estetica fortemente caratterizzata dal rapporto che l’individuo ingaggia col suo ambiente mediante la relazione stabilita con la tecnica9.

Dal carattere fortemente eterogeneo degli studi che sono stati selezionati e che rappresentano un ambito certamente ristretto del panorama teoretico disponibile su questi temi, emerge già il carattere multiforme del concetto di estensione. Infatti, quando ci riferiamo a termini come “estensione”, “amplia-mento”, “protesi” e ad altri termini simili, ci riferiamo a una costellazione di concetti che non identificano un fenomeno unico e chiaramente descrivibile. Ciò accade non solo perché molti autori si sono espressi in merito, ma anche perché il processo stesso che stiamo cercando di analizzare non ha un carattere immediatamente riconoscibile e può significare cose diverse: in che senso, dunque, ci estendiamo nei dispositivi? Oppure, ancor più opportunamente, in che senso i dispositivi estendono le nostre facoltà estetiche?

Per gli scopi di questo lavoro, il termine estensione deve essere inteso nella sua duplice accezione: un’estensione può essere un accrescimento quantitativo di una capacità già posseduta dagli individui o causare una trasformazione

7 Cfr. D. Haraway, Manifesto cyborg: donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, tr. it., Feltrinelli, Milano 1995.

8 Cfr. F. Parisi, Black Mirror e l’(en)azione mediale, in “Fata Morgana”, n. 23 (2014), pp. 181-186.

9 Cfr. P. Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Raf-fello Cortina, Milano 2014; cfr. anche Id., Esperienza estetica e anestesie dell’esperienza, in Esperienza estetica. A partire da John Dewey, a cura di L. Russo, Aesthetica Preprint, Palermo 2007, pp. 163-173.

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qualitativa, ovvero generare una capacità completamente nuova, mediante l’implementazione mediale. La distinzione tra estensione quantitativa e qua-litativa è importante per sottolineare un aspetto che speriamo sarà chiaro più avanti: i dispositivi non si limitano a causare un evento mentale ma possono esserne parte costitutiva. Nel caso in cui questo accade, allora l’estensione darà luogo a qualcosa di ontologicamente nuovo che sarebbe impossibile senza la presenza del dispositivo e, dunque, dell’estensione su di esso che ne consegue.

Anche sul termine dispositivo è necessario fare qualche precisazione. Nella tradizione foucaultiana, ripresa nei celebri saggi di Giorgio Agamben e Gilles Deleuze, un dispositivo è «qualunque cosa abbia in qualche modo la capaci-tà di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi»10. Nell’epistemologia foucaultiana, dunque, i dispositivi non sono semplicemente gli oggetti fisici che permettono l’attuazione di un processo tecnologico, ma l’insieme delle concretizzazioni, sia fisiche sia simboliche, dei sistemi di potere.

Molto più modestamente, l’analisi che si propone qui verte invece precisa-mente sulla relazione mediale che il soggetto stabilisce con il dispositivo fisico con cui interagisce. Si cercherà di capire in che modo la relazione che i soggetti stabiliscono con i dispositivi generi una sorta di dinamica di estensione e di incorporamento da un punto di vista prettamente cognitivo.

Il genere di relazione protesica che si sta delineando non coinvolge un sistema simbolico che ne caratterizza l’attuazione, né qualunque sistema di norme, convenzioni, regole o codici: la relazione protesica di cui si discuterà si stabilisce prima di (e a prescindere da) qualsiasi direttiva sociale o normativa. È importante precisare questa distinzione con la terminologia foucaultiana per sgomberare il campo da possibili fraintendimenti: il dispositivo, in questa sede, è l’aggeggio, il meccanismo, l’arnese che, interagendo con il corpo, ne modifica aspetti della cognizione. È una relazione naturale quella che sarà analizzata, è il modo in cui Homo sapiens articola la propria prestazione cognitiva nel mondo in virtù del processo di mediazione. Il restringimento dell’ambito di indagine ai dispositivi fisici, infine, deve essere considerato come il primo passo di un percorso di riflessione che punta all’analisi del dispositivo nella sua accezio-ne più ampia: la separazione che stiamo proponendo tra dispositivo fisico e dispositivo simbolico va considerata, quindi, come una cautela teorica dovuta alle enormi implicazioni che deriverebbero dalla sua mancata considerazione.

10 G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma 2006, pp. 21-22; cfr. anche G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, tr. it., Cronopio, Napoli 2007; M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, tr. it., Einaudi, Torino 1993; Id., Archeologia del sapere, tr. it., BUR, Milano 1999.

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Superare il contesto

Sulla scia di un profondo ampliamento della conoscenza e di una forte ibri-dazione dei saperi, sono apparsi più o meno recentemente tentativi di studio della tecnologia – intesa come entità universale governata da leggi ricorrenti – che puntano all’identificazione di principi generali più che alla descrizione delle occorrenze contestuali; o, per meglio dire, che cercano di comprendere i fenomeni tecnologici attuali inscrivendoli in una dinamica superiore a qualunque forma di pianificazione umana o culturale.

Così Kevin Kelly, ad esempio, per parlare della tecnologia conia un nuovo termine, il technium, che non solo include la cultura, le istituzioni e i concetti filosofici, ma soprattutto «comprende gli impulsi generativi delle nostre inven-zioni che stimolano ulteriori produzioni di strumenti»11. La necessità di creare un nuovo termine è giustificata dal fatto che ancora non esiste una definizione pacificamente accettata di tecnologia, né tantomeno una teoria altrettanto ampia che ne descriva il funzionamento. Il nome, per Kelly, costituisce la base per un progetto ambizioso. Dello stesso avviso Brian Arthur, quando nel cercare un principio che identifichi la tecnologia come processo universale, propone un parallelismo con l’evoluzione biologica, in cui ogni tecnologia sorge per combinazione con altre preesistenti, solo se sussistono nicchie di opportunità in grado di accoglierla12.

Nuovi processi e nuove possibilità estetiche scaturiscono dall’interfaccia-mento tra uomo e tecnologia e il confine tra interno ed esterno diventa sempre più sfumato. La dinamica di estensione mediale è solo un lato della medaglia, di cui l’incorporamento costituisce l’altra faccia. La tecnologia più potente che rappresenta questa dinamica è ovviamente il linguaggio: «La creazione del linguaggio rappresentò la prima singolarità per gli esseri umani»13. Non tutte le tecnologie sono come il linguaggio: la maggior parte di esse, in primo luogo, esiste fuori dal corpo ed è l’esito di una produzione artificiale; ma nella prospettiva dell’estensione mediale che si sta delineando, l’analogia tra il lin-guaggio e gli altri “dispositivi” è rintracciabile nel ruolo retroattivo che sia il primo sia i secondi svolgono per la nostra cognizione14.

11 K. Kelly, Cosa vuole la tecnologia, tr. it., Codice, Milano 2011, p. 14.12 Cfr. B. Arthur, La natura della tecnologia. Che cos’è e come evolve, tr. it., Codice, Milano

2011, pp. 147-167. 13 K. Kelly, Cosa vuole la tecnologia, cit., p. 28; cfr. a proposito del carattere costitutivo

del linguaggio in una prospettiva evolutiva A. Pennisi, A. Falzone, Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive, il Mulino, Bologna 2010.

14 Sul concetto di linguaggio come tecnologia retroagente cfr.: A. Clark, Being There. Putting

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Programmati per estenderci

Il progetto epistemologico dell’estensione mediale non riguarda soltanto i media studies, ma coinvolge diversi ambiti di sapere anche molto distanti teore-ticamente. Il collegamento più consueto è solitamente stabilito con il paradigma della mente estesa proposto da Andy Clark e David Chalmers15. In un articolo ormai famoso i due autori sostengono la tesi per cui se un dispositivo svolge una funzione che se avvenisse nella testa considereremmo un’operazione mentale, allora quel dispositivo può essere considerato a tutti gli effetti un’estensione della mente. Questa tesi è molto dibattuta in letteratura16 e il suo punto debo-le consiste nel concepire un’idea di cognizione troppo ancorata a paradigmi funzionalisti secondo cui la mente risiede esclusivamente nel cervello ed è il frutto di soli elementi computazionali. Per la plausibilità dell’accostamento che si sta proponendo qui, invece, è decisivo che nel concepire un’idea di cogni-zione si tenga conto – costitutivamente – del ruolo del corpo e dell’ambiente. Ecco perché non è la mente a estendersi, come vuole l’approccio esternalista-funzionalista, ma la cognizione, intesa come attività dinamica e complessa che riguarda l’attività consapevole del soggetto nella sua interezza, non solo gli aspetti cognitivi in senso stretto.

Tra queste ipotesi, assume una rilevanza particolare l’approccio che viene definito approccio enattivo della cognizione17. In realtà a tal proposito è neces-sario fare una precisazione: l’approccio enattivo è ancora in via di definizione e ha una storia epistemologica relativamente recente, ma è caratterizzato da alcune assunzioni di principio che lo collocano all’interno di una galassia concettuale ben definita e che, se volessimo etichettare col nome più ampio possibile, potremmo chiamare neurofenomenologica18. Questo ambito di stu-di racchiude in sé tutte le caratteristiche di un modello epistemologico della scienza cognitiva che lo contraddistinguono significativamente rispetto ad altri

Brain, Body, and the World Together Again, MIT Press, Cambridge (MA) 1997, pp. 193-218; M. Di Francesco, G. Piredda, La mente estesa. Dove finisce la mente e inizia il resto del mondo?, Mondadori Università, Milano 2012, pp. 130-140.

15 Cfr. A. Clark, D. Chalmers, The Extended Mind, in “Analysis”, n. 58 (1998), pp. 7-19.16 Cfr. M.C. Amoretti, La mente fuori dal corpo. Prospettive esternaliste in relazione al

mentale, Franco Angeli, Milano 2011; F. Parisi, Enazione mediale. Esternalismo e teorie dei media, in “NeaScience”, n. 2 (2013), pp. 183-189.

17 Cfr. A. Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2011.

18 Cfr. Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, a cura di M. Cappuccio, Mondadori, Milano 2006; F.J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, La via dimezzo della conoscenza, tr. it., Feltrinelli, Milano 1992.

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modelli teorici: l’aspetto essenziale riguarda la necessità di spiegare la mente non come un’entità sganciata dal corpo, ma come inestricabilmente legata a esso e all’esperienza cosciente che scaturisce da questa relazione.

In altre parole, l’approccio enattivo concepisce lo studio della mente im-prescindibilmente da un sistema che include non solo il cervello – come era stato nei modelli cognitivisti precedenti – ma anche un corpo che a sua volta agisce in un ambiente19. L’implicazione di un corpo nella spiegazione dell’at-tività cognitiva ha ricadute concettuali molto forti perché obbliga a concepire un sistema cervello-corpo-ambiente nella cui attuazione complessiva bisogna rintracciare il funzionamento dell’esperienza cosciente. Non è possibile in questa sede affrontare sistematicamente né la diversità degli approcci che rappresentano l’area neurofenomenologica, né tantomeno i punti critici che ognuno di essi porta con sé rispetto ad altri modelli teorici nell’ambito della filosofia della mente20. Ciò che conta per la nostra discussione è accettare l’ipo-tesi basilare dei modelli enattivi per cui possiamo: comprendere la cognizione solo se concepiamo il cervello come parte di un sistema che include il corpo e l’ambiente; accettare l’idea che il sistema stesso possa reclutare elementi artificiali – dispositivi, media o, come vengono chiamati nella letteratura che tratteremo tra poco, tools – capaci di modificare costitutivamente il sistema stesso, che può estendersi mediante un processo di incorporamento.

Dispositivi che estendono: retroazione mediale e costituzione

Se concepiamo la mente come risultante della complessa e dinamica relazio-ne del sistema cervello-corpo in un ambiente, possiamo facilmente intuire come un dispositivo possa entrare a far parte del sistema. La componente “ambientale” del sistema descritto, infatti, non è una costante stabile e duratura, ma offre condizioni variabili che incidono più o meno profondamente sugli individui.

Qui saranno presentati una serie di studi che dimostrano, in modo si spera abbastanza convincente, la dinamica di estensione e incorporamento. L’effetto

19 In realtà l’accostamento tra tutte queste “etichette” è tutt’altro che pacifico, poiché non c’è assoluta uniformità. Ciò che accomuna questi approcci è certamente l’idea di fondo di una mente incarnata che agisce da una prospettiva in prima persona: per un confronto dettagliato cfr. M. Rowlands, The New Science of the Mind. From Extended Mind to Embodied Phenomenology, MIT Press, London 2010, pp. 51-84.

20 Per una discussione critica sui tipi di esternalismo cfr. M.C. Amoretti, La mente fuori dal corpo. Prospettive esternaliste in relazione al mentale, cit.; per una panoramica delle questioni epistemologiche legate all’approccio enattivo cfr. Enaction. A New Paradigm for Cognitive Science, a cura di J. Stewart, O. Gapenne, E.A. Di Paolo, MIT Press, Cambridge 2010.

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che i dispositivi esercitano sugli individui da un punto di vista della costitu-zione della cognizione può essere definito retroazione mediale, un principio di automazione che, retroagendo sul soggetto, ne modifica costitutivamente l’esperienza fenomenica. Vediamo in che modo.

Lo spazio che ci circonda non è mappato dal cervello in modo uniforme, ma è funzionale alla posizione del corpo rispetto allo spazio stesso. Tra le molteplici mappe spaziali costruite dal cervello, la mappa spaziale rappresentata nella corteccia ventrale premotoria (area F4) è del tutto particolare. Generalmente molti neuroni di quest’area si attivano in concomitanza a movimenti della testa e del braccio, ma l’aspetto interessante è che gran parte dell’area è formata da neuroni bimodali, definiti così perché rispondono sia a stimoli visivi mediante campi ricettivi visivi sia a stimoli tattili mediante campi ricettivi somatosenso-riali. Questi ultimi codificano la sensazione del tocco, mentre i campi ricettivi visivi codificano anche lo spazio che si trova in una certa prossimità dall’area somatica interessata: questo significa che i neuroni bimodali dell’area F4 map-pano allo stesso tempo tattilmente un’area del corpo e visivamente un’area dello spazio che è adiacente al campo ricettivo tattile. In altre parole questi neuroni non rappresentano lo spazio in base a coordinate ambientali prestabilite, ma permettono una percezione spaziale peripersonale – ovvero una percezione della regione immediatamente prossima alla porzione di spazio occupata dal corpo – che differisce nettamente da tutto il resto21.

Questa scoperta ha aperto la strada a interessanti prospettive di studio. Se lo spazio che ci circonda non è codificato dall’attività neurale allo stesso modo, allora bisogna capire come funzionano i meccanismi che regolano la discriminazione spaziale. È grazie all’incremento di questi studi che noi oggi abbiamo approfondito concetti già noti in psicologia, come “schema corporeo” e “spazio peripersonale” che, sebbene abbiano una storia antica, possono solo ora essere compresi a fondo da una prospettiva neuroscientifica e psicobiologica. Lo schema corporeo è la rappresentazione che ci facciamo della dimensione e della posizione del corpo e delle sue parti, è una sensazione che ci è molto familiare e che ci permette di muoverci con accuratezza senza prestare parti-colare attenzione; lo spazio peripersonale è invece lo spazio che circonda il corpo e che si trova a una certa distanza da esso, generalmente a una distanza che permette la raggiungibilità con gli arti senza ulteriori movimenti22.

Cosa c’entrano lo schema corporeo e lo spazio peripersonale in relazione

21 Cfr. G. Rizzolatti, L. Fadiga, L. Fogassi, V. Gallese, The Space Around Us, in “Science”, n. 277 (1997), pp. 190-191.

22 Per una review: L. Cardinali, C. Brozzoli, A. Farnè, Peripersonal Space and Body Schema: Two Labels for the Same Concept?, in “Brain Topography”, n. 21 (2009), pp. 252-260.

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all’estensione mediale? La risposta risale a quasi vent’anni fa, quando uno studio condotto da Atsushi Iriki e colleghi23 sui macachi dimostrò che se si addestra l’animale a usare un rastrello per recuperare del cibo, si assiste a una cosa per certi versi sorprendente: i ricercatori notarono che i campi ricettivi somatosen-soriali non mappavano più aree del corpo, ma includevano anche il rastrello. Più precisamente, gli studiosi scoprirono che i neuroni dei campi ricettivi visivi non si attivavano quando lo stimolo era in prossimità della mano, ma quando era in prossimità dell’estremità del bastone. In pratica l’uso del dispositivo aveva esteso, letteralmente, lo spazio peripersonale del macaco adattandolo alla nuova possibilità motoria resa possibile dal rastrello. Da questo studio pioneri-stico, si fece strada l’idea che l’uso di un dispositivo potesse determinare una rimappatura spaziale mediante l’estensione delle rappresentazioni corporee.

La ricerca ha proseguito il suo cammino e gli studi si sono concentrati sull’uomo. Anche per quanto ci riguarda, infatti, ci sono evidenze che dimo-strano la plasticità della costruzione spaziale. Anna Berti e Francesca Frassinetti hanno condotto un esperimento24 su un paziente affetto da eminegligenza spazia-le unilaterale – una sindrome che impedisce di percepire gli stimoli provenienti dalla porzione di spazio controlaterale rispetto all’emisfero cerebrale colpito – al quale è stato somministrato un semplice test in cui doveva dividere in due parti uguali una linea retta, tracciandone un’altra perpendicolarmente. In realtà il test era effettuato su due linee, poste una a distanza ravvicinata (nello spazio peripersonale) e l’altra a una distanza tale che poteva essere raggiunta solo con un puntatore laser (nello spazio extrapersonale). Essendo affetto da eminegli-genza spaziale unilaterale sinistra (causata da un danno all’emisfero destro), il paziente P.P. tendeva a tracciare una linea molto spostata sulla destra, poiché era in grado di percepire solo la metà di destra della linea e l’effetto era molto maggiore per la linea vicina rispetto a quella lontana. Ma quando al paziente è stato chiesto di ripetere l’esperimento usando un lungo bastone, invece del laser, la distorsione spaziale della linea lontana risultò essere simile a quella della linea vicina: anche in questo caso, il bastone ha determinato l’estensione dello spazio peripersonale, estendendo di conseguenza la limitazione patologica25.

Altri esperimenti hanno mostrato come anche nel caso di individui sani, l’uso di dispositivi modifica la costruzione dello spazio. Uno dei test più utilizzati per

23 Cfr. A. Iriki, T. Michio, I. Yoshiaki, Coding of modified body schema during tool use by macaque postcentral neurones, in “Neuroreport”, n. 7 (1996), pp. 2325-2330.

24 Cfr. A. Berti, F. Frassinetti, When far becomes near: Remapping of space by tool use, in “Journal of Cognitive Neuroscience”, n. 12 (2000), pp. 415-420.

25 Per una review cfr. A. Maravita, A. Iriki, Tools for the body (schema), in “Trends in Co-gnitive Sciences”, n. 8 (2004), pp. 79-86.

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testare la capacità che gli esseri umani hanno di integrare le informazioni pro-venienti dal mondo esterno è il cosiddetto compito di congruenza crossmodale, un test che misura la capacità di capire se stimoli percettivi differenti (visivi o tattili) sono congruenti tra loro, per esempio se provengono dallo stesso punto dello spazio o se colpiscono la stessa parte del corpo. Nei setting sperimentali più consueti26 ai soggetti viene chiesto di tenere in mano due cubi muniti di LED e di due stimolatori tattili posti rispettivamente in uno dei vertici superiori del cubo e nel corrispettivo vertice inferiore. I partecipanti devono afferrare il cubo posizionando l’indice sul vertice superiore e il pollice su quello inferiore; in ogni sessione uno stimolo vibro-tattile viene somministrato in uno dei quattro vertici toccati dai soggetti in contemporanea a un lampo LED proveniente da uno degli stessi vertici. Ai soggetti è richiesto di individuare, il più velocemente possibile, da dove provenga lo stimolo tattile, cercando di ignorare l’effetto di distrazio-ne visivo. I diversi esperimenti hanno mostrato come l’effetto di congruenza crossmodale – ovvero quando il lampo LED induce i soggetti a credere che lo stimolo tattile provenga dallo stesso vertice da cui proviene la luce LED – sia molto maggiore quando il lampo si trova in prossimità dello stimolo tattile, cer-tificando ancora una volta l’ipotesi che, perché vi sia congruenza crossmodale, è necessaria una certa prossimità nella somministrazione dello stimolo27.

Che succede nel compito di congruenza crossmodale quando l’esperienza è mediata da dispositivi? È stato dimostrato che l’uso di bastoni (nel caso specifico mazze da golf) opportunamente adattati per presentare le condizioni sperimentali precedenti, contribuisce a modificare l’integrazione visuo-tattile. Due condizioni sperimentali sono state vagliate: se ai soggetti viene chiesto di effettuare un test di congruenza crossmodale del tutto analogo al precedente ma reggendo due bastoni parallelamente tra loro, i risultati replicano quanto già si sapeva: se gli stimoli visivi che fungono da distrattori provengono dallo stesso lato da cui proviene lo stimolo tattile, allora la congruenza crossmodale sarà tale da consentire buone prestazioni. Ma l’aspetto interessante si osserva quando ai soggetti viene chiesto di incrociare i bastoni in modo tale che la mano destra regga il bastone che punterà sul lato sinistro, e viceversa. Sorprendentemente, dopo un periodo di addestramento che serve ai soggetti per incorporare il bastone rendendolo estensione del braccio, si nota come la congruenza crossmodale

26 Per una review cfr. C. Spence, F. Pavani, A. Maravita, N. Holmes, Multisensory contribu-tions to the 3-D representation of visuotactile peripersonal space in humans: evidence from the crossmodal congruency task, in “Journal of Physiology”, n. 98 (2004), pp. 171-189.

27 M. Baccarini, A. Maravita, Beyond the Boundaries of the Hand: Plasticity of Body-Space Interactions Following Tool Use, in The Hand, an Organ of the Mind, a cura di Z. Radman, MIT Press, Cambridge 2013, pp. 77-99.

Francesco Parisi

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sia più elevata quando il distrattore si trova sull’altro lato rispetto alla mano28!In un altro esperimento pensato per testare l’ipotesi che anche lo schema

corporeo possa essere alterato dai dispositivi, i ricercatori hanno ipotizzato che, facendo usare un rastrello di 40 cm per afferrare degli oggetti, i movimenti ese-guiti dai soggetti immediatamente dopo la fase di training avrebbero mostrato delle caratteristiche cinematiche condizionate dal prolungamento del braccio. La procedura prevedeva la registrazione di azioni di presa sia a mano libera sia usando il rastrello, utilizzando dei marcatori a infrarossi nei punti salienti per la configurazione del movimento: gli effetti selettivi dell’uso dei dispositivi – relativi per esempio alla fase di movimento ma non alla presa – rispetto alle azioni a mano libera, suggeriscono che l’impiego per un certo periodo di uno strumento induce una modificazione dello schema corporeo. Per testare la permanenza dell’effetto, nell’ultimo dei quattro esperimenti ai soggetti veniva chiesto di indicare a occhi chiusi con il loro indice sinistro (non soggetto a training) il punto del braccio destro (soggetto a training) in cui credevano di sentire un tocco: i risultati hanno mostrato un’alterazione significativa della rappresentazione somatosensoriale29.

Estensioni fisiche, estensioni simboliche

Gli esperimenti appena visti dimostrano come l’uso di certi dispositivi retroagisca costitutivamente sul modo in cui interagiamo con l’ambiente. La distinzione tra schema corporeo e spazio peripersonale ha fornito un’indicazione importante: i dispositivi si “agganciano” come vere e proprie protesi al corpo e ne estendono la portata. La retroazione mediale estende percezioni soggettive mediante un processo di incorporamento: è cioè il sistema cervello-corpo ad acquisire la presenza somatosensoriale e motoria del dispositivo in seguito alla quale aumenta lo spazio peripersonale.

Cosa vuol dire, dunque, che i dispositivi costituiscono la nostra esperienza? Come suggerisce l’approccio enattivo, la cognizione è un processo dinamico che coinvolge cervello, corpo e ambiente: l’ambiente naturale, però, è arricchito da dispositivi che, retroagendo sul corpo, attuano processi cognitivi che altrimenti non esisterebbero. La cognizione si costituisce tramite la mediazione nel sen-so profondo per cui se un oggetto si aggancia al corpo, diventa parte di esso,

28 Cfr. A. Maravita, C. Spence, S. Kennett, J. Driver, Tool-use changes multimodal spatial in-teractions between vision and touch in normal humans, in “Cognition”, n. 83 (2002), pp. B25-B34.

29 Cfr. L. Cardinali, F. Frassinetti, C. Brozzoli, C. Urquizar, A.C. Roy, A. Farnè, Tool-use induces morphological updating of the body schema, in “Current Biology”, n. 19 (2009), pp. R478-R479.

Corpi e dispositivi: una prospettiva cognitivista

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letteralmente: la rimappatura neuronale causata dall’estensione dello spazio peripersonale o dalla modificazione dello schema corporeo è un’alterazione che precede la coscienza del soggetto e sulla quale non è possibile esercitare alcun controllo. In questa prospettiva la costituzione mediale diventa interessante, proprio perché crea condizioni di possibilità percettivo-estetologiche che non sarebbero possibili senza i dispositivi. Non si tratta di un rapporto di causa-zione per cui un certo dispositivo causa un comportamento, ma di un rapporto costitutivo grazie al quale il soggetto accede a un universo fenomenico reso disponibile dal processo di mediazione che, retroagendo, crea ulteriori condi-zioni di partenza in un continuo circuito che ci accompagna dall’inizio della nostra storia evolutiva30. Il principio dell’estensione mediale diventa dunque qualitativamente significativo nel momento in cui l’interazione tra soggetto e dispositivo dà luogo a un processo estetico altrimenti irrealizzabile.

I dati presentati nel testo aprono uno scenario di estremo interesse teorico: dimostrano efficacemente la naturale attitudine degli esseri umani ad accogliere i dispositivi nella costituzione dell’esperienza cognitiva. Inoltre legittimano un interrogativo: questa mole di dati può indurci a coltivare l’idea che l’estensione mediale possa attuarsi anche con “dispositivi simbolici” e non riguardare soltan-to l’estensione fisica? È impossibile offrire una risposta in questa sede, poiché la ricerca è ancora in una fase iniziale e l’eterogeneità epistemologica obbliga alla cautela. Tuttavia alcuni studi di caso rendono l’approccio dell’estensione mediale particolarmente illuminante: le implicazioni delle enormi espansioni percettivo-estetologiche causate dalla digitalizzazione degli ambienti e dalle tecnologie indossabili sono certamente un punto di partenza prezioso perché rendono relativamente perspicuo il problema del limite tra corpo e tecnologia31. L’ambito del visuale appare anch’esso estremamente fecondo: la rilettura de-gli effetti delle immagini sulla nostra cognizione in chiave enattiva aprirebbe scenari teorici molto promettenti32. Si tratta, in ultima analisi, di tradurre su un piano differente – e certamente molto più complesso e sfaccettato perché interagente con dinamiche che si attuano a un livello simbolico – la portata delle acquisizioni che i dati offerti stabiliscono efficacemente.

30 L. Malafouris, How Things Shape the Mind: A Theory of Material Engagement, MIT Press, Cambridge (MA) 2013.

31 Si pensi ad esempio alla prospettiva estetologica proposta da P. Montani, Tecnologie della sensibilità, cit., pp. 86-93; sulle wearable technologies cfr. anche S. Nucera, Corpi in-tessuti. Evoluzioni e mutamenti delle pratiche vestimentarie, Aracne, Roma 2014.

32 Per una introduzione al problema cfr. F. Parisi, Arte, mediazione, cognizione, in Filosofia della fotografia, a cura di M. Guerri, F. Parisi, Raffaello Cortina, Milano 2013, pp. 205-220.

Francesco Parisi