carmelo bene, laddove l’atto strazia l’azione. fata morgana, n. 23, 2014

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FATA MORGANA 73 Carmelo Bene, laddove l’atto strazia l’azione Patrizia Fantozzi V’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai cominciamento. Carmelo Bene «Nulla/ avrà avuto luogo/ se non il luogo» 1 . Mallarméanamente fluttuante, imprendibile, la bellezza irradiata, abbandonata, profondamente tragica 2 del cinema di Carmelo Bene è nella sua impalpabilità, sua evanescenza “insensata” sospesa tra la réverie e la phantasie; nel suo lasciarsi tramare, forse, solo in una costellazione. Extra tempus o dell’impossibile attualità che è poi di tutta l’opera del poeta salentino, e che forse solo è di una certa “grandiosità del vano”; grandezza propria del non andare a segno, del fallire il colpo, del mancare il bersaglio, per dirla con le belle parole di Maurizio Grande 3 . 1 S. Mallarmé, Un colpo di dadi, a cura di G. Quiriconi, Vallecchi, Firenze 1978. 2 Secondo la grande equazione nietzscheana per cui: tragico = gioioso (e che in altri termini suona: volere = creare), ci sembra di poter pensare al cinema di Bene in chiave “tragica” nella misura in cui vi si potrebbe rilevare come una “positività” dell’irresponsabilità; una positività che è solo di ciò che non smette di divenire. In definitiva, un inno alla gioia della molteplicità e del plurale, nel grande naufragio della rappresentazione. È proprio questo essere del divenire come “eterno ritorno” che ci interessa; eterno ritorno come «il ritorno che si distingue dall’andare» e come «contemplazione che si distingue dall’azione», in definitiva, un gorgoglio (terribilmente vitale) a ribollire sotto la scorza di ogni apparenza. Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, tr. it., Einaudi, Torino 2002, p. 38. 3 «Ciò che è vano può essere grandioso? Esiste una grandezza del non andare a segno, del fallire il bersaglio, del mancare il colpo? E ancora. Esiste una grandezza del gesto clamoroso di cui sfuggono le conseguenze? Esiste un’azione che non colga il suo scopo? Si può chiamare azione il gesto che afferma la propria vanità?», M. Grande, La grandiosità del vano, in C. Bene, Lorenzaccio, Nostra Signora s.r.l., Roma 1986, p. 87.

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FATA MORGANA 73

Carmelo Bene, laddove l’atto strazia l’azione

Patrizia Fantozzi

V’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai cominciamento.Carmelo Bene

«Nulla/ avrà avuto luogo/ se non il luogo»1. Mallarméanamente fluttuante, imprendibile, la bellezza irradiata, abbandonata, profondamente tragica2 del cinema di Carmelo Bene è nella sua impalpabilità, sua evanescenza “insensata” sospesa tra la réverie e la phantasie; nel suo lasciarsi tramare, forse, solo in una costellazione.

Extra tempus o dell’impossibile attualità che è poi di tutta l’opera del poeta salentino, e che forse solo è di una certa “grandiosità del vano”; grandezza propria del non andare a segno, del fallire il colpo, del mancare il bersaglio, per dirla con le belle parole di Maurizio Grande3.

1 S. Mallarmé, Un colpo di dadi, a cura di G. Quiriconi, Vallecchi, Firenze 1978.2 Secondo la grande equazione nietzscheana per cui: tragico = gioioso (e che in altri termini

suona: volere = creare), ci sembra di poter pensare al cinema di Bene in chiave “tragica” nella misura in cui vi si potrebbe rilevare come una “positività” dell’irresponsabilità; una positività che è solo di ciò che non smette di divenire. In definitiva, un inno alla gioia della molteplicità e del plurale, nel grande naufragio della rappresentazione. È proprio questo essere del divenire come “eterno ritorno” che ci interessa; eterno ritorno come «il ritorno che si distingue dall’andare» e come «contemplazione che si distingue dall’azione», in definitiva, un gorgoglio (terribilmente vitale) a ribollire sotto la scorza di ogni apparenza. Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, tr. it., Einaudi, Torino 2002, p. 38.

3 «Ciò che è vano può essere grandioso? Esiste una grandezza del non andare a segno, del fallire il bersaglio, del mancare il colpo? E ancora. Esiste una grandezza del gesto clamoroso di cui sfuggono le conseguenze? Esiste un’azione che non colga il suo scopo? Si può chiamare azione il gesto che afferma la propria vanità?», M. Grande, La grandiosità del vano, in C. Bene, Lorenzaccio, Nostra Signora s.r.l., Roma 1986, p. 87.

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È proprio a questa grandezza come vacuità dell’atto che qui ci si vorrà riferire. Grandezza che non vuole saperne di lasciarsi proferire e che prima stordisce poi sgambetta l’azione laddove questa, al contrario, vorrebbe piut-tosto affermarsi come prefigurazione, profezia, gettito di presupposizioni, «insieme legato di gesti, atti, circostanze, orientamenti»4.

Grandezza del gesto (clamoroso e sovranamente indifferente) che volu-tamente rinuncia a inscriversi in un progetto quale che sia per annunciare piuttosto l’avvento di uno stato di grazia possibile solo nella menomazione, nella negatività, nella crisi5.

Guai a non esser (dis)graziati da questo privilegio! Privilegio unico che è dell’essere senza fondamento, del mancarsi (a forza di slegamenti): sfrontato inavvenir.

Si potrà dire di questo cinema che se ha avuto luogo e avrà luogo, sarà (stato) solo in virtù di uno spossessamento proprio come uno stupore che non si è mai lasciato (e non si lascia) “dire” altrimenti che a boccaperta, volando… 6, lasciando montare quella stupefazione che è del suo stesso autore nell’indicibile sprezzo di far mostra di sé «con tutto quello sforzo gladiatorio-idiota che ne segue»7.

E su una (ri)scoperta infanzia del cinema («perché l’infanzia è stupore»8) ci sembra Carmelo abbia voluto fondare la stessa vacanza («vacance»9) dei suoi film, spalancati al desiderio come a quel punctum caecum in cui ogni ordine rappresentativo è destinato a cadere in rovina per lasciare emergere null’altro che la “donazione” intesa propriamente nel senso di un’aisthesis: una “sensazione” di stampo baconiano, in grado di far nascere kantianamente un’“anima” solo sullo sfondo di una sparizione sempre possibile10.

4 Ibidem.5 «Non ci si salva, non si diventa minori che attraverso la costituzione di una disgrazia o

di una difformità. È l’operazione della grazia stessa», G. Deleuze, Un manifesto di meno, in C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata 2012, p. 92.

6 Cfr. C. Bene, A boccaperta, Linea d’Ombra, Milano 1993, pp. 83-897 C. Bene, Ebbene sì, Gilles Deleuze!, in C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, cit., p. 117.8 C. Bene, Sono apparso alla Madonna, Bompiani, Milano 2010, p.11.9 Lo spazio della “vacanza” sul modello della pagina bianca mallarméana è propriamente

indicato da Lyotard in Discorso, figura come il luogo d’elezione del “poetico”. Spazio-ricettacolo, anarchico per eccellenza (nel senso proprio di “senza-capo”, di movimenti e spostamenti privi di ogni centro d’ordine; pulsante di pure forze genetiche, è spazio lontano da ogni “sorveglianza”: da qui l’opera d’arte ci comunica essenzialmente il suo carattere aperto, “vivente”, di organismo animato da forme e forze dinamogene interne e sorretto da un’economia combinatoria “aperta”.

10 «L’arte grazia l’anima condannata alla pena di morte, ma a condizione che essa non lo dimentichi», I. Kant, Critica del giudizio, tr. it., Laterza, Roma-Bari 1963, p. 209.

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Partiamo allora da alcune considerazioni dello stesso Bene:

Quel che conta nell’arte non è il prodotto artistico ma il prodursi dell’artefice in rapporto al quale, qui Jacques Derrida è impeccabile, l’opera non è che una ricaduta residuale, un escremento-nell’etimo-ciò che si separa e cade dall’organismo vivente della vita. L’arte è la vita come irripetibilità dell’evento, vivente una sola volta. E perciò l’opera è il materiale morto, è il cadavere evacuato dell’evento. Il destino d’ogni opera d’arte non è nell’opera, è arte all’opera, è il prodursi dell’artista che trascende l’opera. È la sensazione che ci investe davanti alle tele di Francis Bacon11.

Produrre invano e produrre sensazionalmente: non è forse questo il de-stino del turbine? Il destino stesso dell’eccesso? Non avere un avvenire e non avere neanche un passato ma solo un divenire; un divenire e nient’altro: solo un “mezzo” (tra un inizio e una fine insignificanti) attraverso il quale comunicare con altri tempi, altri spazi12. Ancora, spazio siderale… (eccetto forse una costellazione13).

Se è vero infatti che l’atto si distingue dall’azione essenzialmente per il suo appartenere alla stessa serie dell’evento (tanto nel senso di eruzione spontanea quanto nel senso di “congiuntura puntuale” di gesti inevitabili tra loro percorsi da un irrefrenabile dinamismo), si può dire allora che in ogni loro singola porzione le pellicole di Bene non facciano che scorrere, dilacerandosi sotto i nostri occhi, sul bordo della propria rottura o in una sorta di rovesciamento che sempre continua in rivolgimento.

È questo, in fondo, il lavoro estetico del desiderio: il dirottamento, lo sfregamento, lo scuoiamento. Circolazione “sensibile” di energia che è poi di ogni autentico corpo a corpo immediatamente riconoscibile come quel rumoreggiare del continuo e che solo può venire a consistere in variazioni di superficie, ancora Maurizio Grande:

Un movimentato divenire che ha le caratteristiche dell’istanta-neità, banale o straordinaria, automatica o esplosiva, sorda o urlante, normalizzata o squilibrata ma che comunque attiva e costituisce il tempo-movimento, dove gli istanti sono le porzioni temporali di

11 C. Bene, trascrizione da Carmelo Bene in Carmelo Bene, 4 momenti su tutto il nulla, serie di quattro puntate registrate nel 2001 per il programma Rai 2 “Palcoscenico”.

12 G. Deleuze, Un manifesto di meno, in C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, cit., p. 90.13 S. Mallarmé, Un colpo di dadi, cit.

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un’attività ininterrotta; una specie di durata istantanea della «gestua-lità della materia», del vivente fatto attualità, del tempo sottratto al senso e alla definizione del cambiamento duraturo e significativo14.

E se ciò accade è solo perché, innanzitutto, un atto sempre deriva da un corpo, e cioè da un vivente, dunque da un soggetto «preso in una rete di pres-sioni, di interferenze, in una compresenza formicolare o muscolare o nervosa, o atmosferica di concomitanti»; poiché un atto, al contrario di un’azione sempre pronta a negare l’accadere, sta a tradire sempre immancabilmente la manifestazione di un volere, sì, un volere ma solo come emersione in superficie di una necessità: null’altro che «il farsi strada di una pulsione»15.

Nel concentratissimo periodo (solo pochi anni dal 1967 al 1973) che lo vede prodigiosamente deragliare verso il cinema, ci pare che Bene abbia dato carne e vita e desiderio al progetto lyotardiano di uno schermo cinematogra-fico finalmente re-investito da un autentico trasporto libidico. Contro tutti i processi di normalizzazione attuati dal cinema istituzionale narrativo, nel suo celebre saggio dedicato al cinema16, Jean-François Lyotard espone la sua idea di pirotecnica alludendo al caso del bambino che accende il fiammifero per il puro piacere dell’esplosione di luce/calore e non per accendere il gas:

Un fiammifero acceso si consuma. Ma se con esso accendete il gas, grazie al quale scaldate l’acqua per farvi il caffè di cui ogni mat-tina avete bisogno prima di andare al lavoro, il suo non è un bruciare sterile, ma un movimento che appartiene al circuito del capitale: merce-fiammifero – merce-forza lavoro – denaro-salario – merce-fiammifero. Tuttavia, quando un bambino accende la capocchia rossa del fiammifero solo per vedere, senz’altra ragione, lo fa perché ama il movimento, i colori che sfumano l’uno nell’altro, le luci che esplodono in tutto il loro splendore, la morte del pezzetto di legno, lo sfrigolio. A lui, dunque, piacciono le differenze sterili, quelle che non portano a nulla, che non sono ammortizzabili e compensabili, a lui piacciono le perdite e ciò che il fisico chiamerebbe degradazione di energia17.

Proprio sulla scia di alcune suggestioni derivanti dall’idea lyotardiana di “pirotecnica” ci sembra di poter assimilare allora senza troppa fatica il

14 M. Grande, La grandiosità del vano, cit., p. 91-92.15 Ivi, p. 89.16 J.-F. Lyotard, L’acinema, in “aut aut”, n. 338 (2008). 17 Ivi, p. 19.

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lavoro cinematografico di Carmelo Bene alla grande arte dell’artificiere, nella sua capacità (unica) di produrre degli autentici “simulacri del godi-mento”, facendo ricorso al mezzo del nastro quasi a volerne rianimarne la sua intima anima incandescente, da dispiegare e lasciar bruciare invano. Basti pensare al convulso sfavillio in cui le pulsioni vi si lasciano, qui, accadere – en dépense – finalmente libere da ogni oppressione di ordini imperante in ogni cinema di consumo, nell’applicazione del nichilismo ai movimenti apparentemente “senza valore” e definito propriamente in senso stretto “produttivo”18. Considerare come quello di Bene possa essere defi-nito, invece, propriamente un cinema di vacillamenti, di impurità, sempre pronte a depositarsi, preziose, a intarsiare quella pelle così fine (la pellicola nella teologia negativa beniana) in quello che non può non apparirci infine un vero e proprio atto di ostensione: Hoc est corpus meum.

Di un essere-tutto-corpo, sempre in mancanza del corpo, di cui il perso-naggio di Bene sembra continuamente voler rendere testimonianza a forza di s-piegamenti e ri-piegamenti nel proprio sudario, senza mai consegnarsi che al solo miracolo del «non essere mai stato». Ferita era la benda e non la piaga.

[…] Una ferita? E svolgi questa benda, svolgi, svolgi: bianco bian-co men bianco un po’ di rosso rosso rosso più rosso (è qui la piaga?) Svolgi svolgi men rosso meno rosso meno rosso Bianco bianco più bianco e via la benda Niente19.

Che se il cinema di Bene ha un corpo, lo si potrà scoprire davvero solo in levitare. «Quando corpus morietur/ fa cut animae donetur/Paradisi gloria…»20.

18 «Non rivendichiamo un cinéma brut, come l’art brut di Dubuffet. Non facciamo parte di un’associazione per la salvaguardia dei provini e la riabilitazione del non montato. Per quanto… Pensiamo che se il vacillamento viene eliminato, lo sia per la sua non conformità, che venga rimosso al tempo stesso, per proteggere l’ordine dell’insieme (del piano e/o della sequenza e/o del film) e per negare l’intensità che veicola. L’ordine dell’insieme ha per scopo solo la funzione del cinema: che ci sia ordine nei movimenti, che i movimenti si facciano in ordine, che facciano ordine. […] Questa oppressione consiste nell’applicazione del nichilismo ai movimenti. Nessun movimento, indipendentemente dalla sua provenienza è dato all’occhio-orecchio dello spettatore per quel che è: una semplice differenza sterile in un campo visivo-sonoro. Al contrario, ogni movimento proposto rinvia ad altro. Si iscrive come un più o un meno sul libro dei conti che è il film, ha valore perché in relazione ad altro, perché è dunque una risorsa potenziale e vantag-giosa», ivi, pp. 18-19.

19 C. Bene, Sono apparso alla Madonna, cit. p. 150.20 Id., A boccaperta, cit. p. 62

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E allora non resta forse che l’amore per giocare alla “piccola morte” per chi non è neppure mai nato: «Non vi si muore mai dal morire»21; è quanto sembra volerci dire disperatamente tra i fragori dei vetri esplosi e le fiam-me delle macchine incendiate, il plurincidentato poeta di Capricci (1969). Ancora a proposito di un’interessante equivalenza tra lo “sfinimento” del corpo del personaggio beniano e lo stesso corpo del film, riportiamo qui alcune considerazioni di Jacques Aumont:

La concezione beniana del personaggio consiste nel ricreare un corpo a partire da ciò che egli è, confrontandolo con le sole forze vitali, lasciando scorrere attraverso il corpo il flusso della vita. Ma questo passaggio incessante, questa continua sottomissione a un’energia, una forza superiore, semplicemente lo esaurisce. Il personaggio è attraversato da forze vitali che lo esauriscono: questa potrebbe essere anche una definizione del film, di tutti i film di Bene, che sono per così dire delle esplosioni di una forza figurativa che esauriscono la forma (anche nel senso che in essi tutto è stato esaustivamente speri-mentato) […] Il cinema di Bene è questo esercizio pulsionale che si può comprendere solo attraverso un uguale esercizio (dell’attenzione, della tensione), e che rende lo spettatore esausto: non uno spettatore stanco, ma che ha dato tutto il possibile22.

Mirabile eccezione di un cinema che non avrebbe potuto darsi altrimenti se non come “gratuità”, appunto, pura degradazione di energia, pura inten-sità. Pura stupefazione a stracciare ogni marca di valore. Puro chiasso per il chiasso che ancor prima della spasmodica lotta vissuta in palcoscenico da un Macbeth infettato dagli stessi umori delle vesti e degli stracci, Bene ci consegna attraverso quello che lui stesso ha voluto definire una «musica per gli occhi»23: il cinema, appunto.

21 Id., Ebbene sì, Gilles Deleuze!, cit., p. 121.22 J. Aumont, Pulsioni e destini di pulsione. Breve introduzione a Carmelo Bene, in Carmelo

Bene. Il cinema, oppure no, a cura di F. Baglivi, M. Coletti, Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma 2012, p. 27. L’articolo originale è stato pubblicato sul trimestrale on line “La Furia Umana”, n. 7 (2010) col titolo Pulsions et destins de pulsions, Brève introduction à Carmelo Bene, http://www.lafuriaumana.it/index.php/archives/42-lfu-7

23 «Nostra Signora dei Turchi è un melodramma, ma non per la melodia che arriva alle orecchie, per la melodia che arriva agli occhi […] Verdi ha creato un’arte drammatica per le orecchie, non per gli occhi. Io faccio il contrario. Verdi creava azioni per le orecchie, io creo musica per gli occhi», N. Simsolo, Entretiens: Carmelo Bene: Capricci, in “Cahiers du cinéma”, n. 213 (1969), cit. in Carmelo Bene. Contro il cinema, a cura di E. Morreale, Minimum Fax,

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Cinema di pura voluttà assai difficile da esaudire (l’evento non giunge mai dove è atteso); e il godimento è davvero tutto nello sfrigolio della capoc-chia del fiammifero accesa dal bambino solo per vedere, senz’altra ragione.

Volare sì, assistere; e «assistere con tutta l’anima, guardare con tutta l’anima24» c’incanta Bene nel suo volo notturno in Nostra Signora. E così, da questo «essermi come Pinocchio rifiutato alla crescita»25 (dunque, sa-remmo tentati a leggere, da questo mio tenermi ben lontano dal circuito del capitale) non amare altro che il movimento, tanto da poter vedere in esso i colori sfumare l’uno nell’altro e le luci esplodere finalmente in tutto il loro splendore: scoprire così come solo sa morire un pezzettino di legno. Ogni scoppio a preannunciare una festa di fuochi, una festa d’incendi, nelle pellicole beniane, è sempre ineluttabile principio di dissolvimento. E in virtù di questo, certo, insieme, il suo motivo d’incanto.

Cinema, allora, come «gioco del soggetto che gioca perverso con l’im-magine, come si fa con il più futile dei balocchi»; «l’obiettivo giocato come il caleidoscopio dei bambini che nello stupore orecchiano ben altro».

Perché il cinema? Si è sempre maldestramente equivocato, prima ancora ch’io mi filmassi o filmassi l’impossibilità di filmare altro dal set, già ai miei esordi teatrali, che io battessi una strada avanguardisti-ca dell’immagine di contro alla parola. A sconfessare questo ci provai con cinque film in cui il silenzio è sovrano e il logos decisamente estromesso. Cinema: regno dell’immagine. Mi provai a eccedere l’immagine pur di dissipare il malinteso della mia preavventura tea-trale. Cinema: gioco del soggetto che gioca perverso con l’immagine, come si fa con il più futile dei balocchi. L’obiettivo giocato come il caleidoscopio dei bambini che nello stupore orecchiano ben altro, la

Roma 2011, p. 34.24 «Dormiva. Quando era stanco dormiva a bocca aperta. Come un cretino. Sarebbe stato

felice di saperlo. Le notti, le avrebbe trascorse a mirarsi dormire. Vivere è in fondo assistere a una disgrazia o a una festa, ma solamente assistere, coinvolti fino a un certo punto, testimoni al massimo e non più. Basta togliere l’aria, non contare più sui muscoli, non camminare perché si hanno le gambe. Volare. Assistere. Assistere con tutta l’anima, guardare con tutta l’anima. Appassionarsi come a un caso altrui. Vergognarsi dei propri problemi. Indulgere. Essere buoni con se stessi. Dov’è un carcere liberare una farfalla. Ucciderne una invece di andarsene. Volare. Dormire. Volare addormentati, per amare senza essere amati, o anche riamati. Decidere soprattutto quando non dipende da noi, e se dipende da noi, ubbidire. Dormire comunque. O semplicemente tradire». Trascrizione del monologo da Nostra Signora dei Turchi.

25 C. Bene, Sono apparso alla Madonna, Vie d’(h)eros(es), Longanesi, Milano 1983, ora in Bompiani, Milano, 2006, p. 88.

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musicalità delle immagini, effetti ottici della phoné. Invece del rac-conto, questo bricolage di suoni e immagini destinato a una citazione di racconto, questa miriade di segni alla deriva dell’onda sonora che detta il movimento. Tutto giocato in perfetto a-sincrono, nell’idio-sincrasia tra “musicalità” e “musica”, che non sempre coincidono26.

Pellicola da tormentare, pellicola da calpestare: «Sì, noi abbiamo messo la pellicola sotto i piedi», come accade letteralmente per la formidabile sequenza in bianco e nero di Nostra Signora dei Turchi (1968). Carmelo ha voluto raccontarci a questo proposito: «La calpestavamo proprio coi coltelli, con le lamette da montaggio. La sfregiavamo e poi la bruciavamo con le sigarette»27. Non ci si può installare sulla banda libidinale labirin-tica contorta elettrizzata terremotata28. Ed è vero che se c’è qualcosa di immediatamente percepibile nel cinema di Bene è come uno strazio che si compie sulla pelle delle cose; che solo può realizzarsi a livello di superficie; tant’è che possiamo udirne distintamente il continuo sfrigolare: movimen-tato divenire. È questa la dimensione del fluire della superficie e del suo «puntualizzarsi in una continuità gestica, in un’attività che cancella il suo stesso mettersi a punto»29, come ha scritto ancora Grande riprendendo il Deleuze di Logica del senso, per far riferimento a una certa simultaneità del divenire la cui peculiarità sarebbe proprio quella di schivare il presente: l’evento come ferita inferta allo “stato delle cose”.

Gli eventi riguardano la pelle delle cose, le mutazioni non profonde, il galleggiamento dell’essere fra attributi che ne specificano la singola-rità senza intaccarne l’orrida appartenenza a un genere. Per questo gli eventi sono terrificanti; perché riguardano la maniera di essere, e non la produzione di realtà […]. Il divenire pertanto appartiene all’ordine degli atti che non si fanno azione, all’ordine dei verbi che esprimono la superficie, l’affiorare della pelle dei corpi, il farsi pelle dei corpi30.

Banditismo del cinema beniano, quest’affermazione ostinata della banda (o della benda). Tanto che a scriverla, un dolore, fa quasi tremare la mano. Ma non si tratta di un dolore triste e soprattutto questo non comporta mai

26 C. Bene, ivi, p. 88.27 C. Bene, E. Ghezzi, Discorso su due piedi (il calcio), Bompiani, Milano 2007, p. 39.28 Cfr. J.-F. Lyotard, Economia libidinale, tr. it., PGreco, Milano 2012.29 M. Grande, La grandiosità del vano, cit., p. 92.30 Ivi, p. 98.

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con una perdita di forze. Tutt’altro. È piuttosto qualcosa che va ad incidersi come l’impronta del dispendio di una grande quantità di energie impiegate per rendere sopportabile qualcosa che non lo è affatto, «qualcosa che forse è proprio questa accumulazione di potenza» per citare ancora Lyotard.

Figure di vita e figure di morte, di vivi-morti e di morti-vivi (e donne e madonne) si accumulano, si sovrappongono sulla banda libidica delle pelli-cole beniane, e il loro furor è divino; il divino è furor. Figure che sono esse stesse questa energia, la quale non può derivare loro che da una sofferenza da eccesso. Sofferenza, spasimo, di un corpo sterile che solo s’offre come carne stessa in posa. Proprio Bene dal canto suo non si stanca mai di dire: «Siamo un corpo, non abbiamo un corpo»: e questo è un fatto.

Contro ogni corpo pieno di grazia e ogni grazia del corpo, il dis-graziato Nostro è corpo sempre arrischiato e mai “autore” di una qualche azione; consegnato all’atto il suo disfare rivela piuttosto quella dinamicità che è solo del banale-vivente, una gesticolazione affannata e affannosa sempre in vista dello scopo più vicino, dell’obiettivo più immediato.

Divenire così tra i cretini il più cretino: se a frate asino avessero regalato una mela metà verde e metà rossa, per metà avvelenata, lui che aveva le mani di burro, non l’avrebbe forse perduta di mano? «Lui non poteva perdersi o salvarsi, perché senza intenzione, inetto»31. Corpo handicappato sì, rampi-cante negli effluvi di fiori (Nostra Signora dei Turchi), straziato, bruciato (Capricci), naufragato nell’opulenza delle pietre preziose (Salomè, 1972), precipitato nella vertigine del tempo Kronos (Un Amleto di meno, 1973).

Di un continuo, vorticoso, movimento destinato a sorgere dalle macerie di anima e corpo ha scritto Jean-Paul Manganaro, facendo riferimento proprio a un «movimento multiplo, verticale, orizzontale, diagonale, che vuole interro-gare ad ogni costo e cancellare i dati di una realtà troppo piatta – quella di un io che non smette di dirsi nelle sue sconfitte»32. Una furia dinamica, dunque, che non conosce estasi e che sentiamo davvero come accaderci addosso.

C’è, in questa serie irradiata di modi diversi di morire in versi, la ricerca di un “peso” che riesca a comporre «questa dimensione fuori dal tempo, fuori dallo spazio che gli viene costantemente assegnato» che in altri termini vuol dire far passare delle «materie indicibili in una sfera che soltanto la creazione artistica può captare, dove la totalità negata s’inserisce e si arresta in una “divina illusione”, che è una delle descrizioni possibili dell’atto teatrale o cinematografico». Per questo occorre un atto di fede (e questo fa ridere gli

31 Trascrizione del monologo da Nostra Signora dei Turchi.32 J.-P. Manganaro, Homo illudens, in “La Furia Umana”, n. 7 (2010), http://www.lafuriau-

mana.it/index.php/archives/42-lfu-7

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idioti); è sufficiente radicarsi nel cielo, foss’anche nel cielo dell’arte.

Dobbiamo credere al corpo, ma come al germe di vita, al seme che fa spaccare i selciati, che si è conservato, perpetuato nella sacra Sindone o nelle bende della mummia e che testimonia la vita, in que-sto mondo così com’è. Abbiamo bisogno di un’etica o di una fede, e questo fa ridere gli idioti; non è un bisogno di credere a qualcosa d’altro, ma un bisogno di credere a questo mondo qui, di cui gli idioti fanno parte33.

In conclusione; un corpo è sempre frutto del caso, nel senso nietzscheano del termine, un “pensiero” addirittura più meraviglioso della vecchia anima. Un pensiero tragico. Un corpo tragico, quello di Carmelo: corpo di giullare, corpo di poeta. E tragico è pure il colpo di dadi proprio nella sua gaiezza dinamica, nel suo voler affermare null’altro che una necessità. Quando i dadi vengono lanciati, il tavolo della terra trema e si spezza perché il col-po di dadi è affermazione molteplice. Questa potenza è come il fuoco: il fuoco è l’elemento che gioca, l’elemento delle metamorfosi. Torna, allora, la pirotecnica: tra le mani il bambino schiocca il fiammifero, tra le mani il giocatore sfrega i dadi.

Di uno stupore che non si lascia dire e che infiamma ogni singola pellicola di Bene abbiamo detto. Con Lyotard, abbiamo voluto ribattezzarla infantia. Da qui ci sembra d’aver fatto un po’ più luce su una frase di Deleuze che nel suo saggio dice di Carmelo: egli «dà libero corso a un’altra materia»34. E aggiunge che quest’altra materia è qualcosa di irrappresentabile, qualcosa che non si lascia ri-scrivere; noi aggiungeremmo qualcosa come una carne intrisa d’infinità. E allora quest’“altra materia” non è forse la vita che solo è in divenire? Parafrasando lo stesso Bene, la sola vita che conta davvero, proprio in quanto ci manca?35

Noi non ci apparteniamo È il mal de’ fioriTutto sfiorisce in questo andar ch’è star inavvenirNel sogno che non sai che ti sognaretutto è passato senza incominciare‘me in quest’andar ch’è stato.

33 G. Deleuze, L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano 1989, p. 193.34 Ivi, p. 89.35 C. Bene, Mal de’ fiori, Bompiani, Milano 2000.

Patrizia Fantozzi