aspetti del culto popolare di san rocco a toro. tra storia, leggende, miracoli, sogni e apparizioni...
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Giovanni Mascia
ASPETTI DEL CULTO DI SAN ROCCO A TORO
(Convegno, Toro - Piazza della Chiesa - 16 agosto 2008)
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Il saggio prende le mosse dalla relazione
tenuta a Toro in Piazza della Chiesa il 16 agosto 2008,
in occasione della prima edizione della Tavola della Solidarietà,
imbandita poi di anno in anno dall’associazione “Il nostro paese”,
nell’intento di mantenere in vita la tradizione del Convito,
il pranzo devozionale a beneficio dei poveri, in onore del Santo.
Nel corso della stesura del lavoro
ho contratto forti debiti di riconoscenza con gli amici
che ho avuto il piacere di ricordare via via nel testo.
A essi va la mia gratitudine.
Ai loro nomi vanno aggiunti anche i nomi
di Angioletta Di Girolamo, Antonietta Colledanchise e Donato Martino.
Un grazie speciale va a Enzo, per la sua inestimabile disponibilità.
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INDICE
I - LEGGENDE E FONDAZIONE DEL PAESE p. 4
II - CAPPELLA E CONTRADA SAN ROCCO p. 7
III - IL CULTO DI SAN ROCCO A TORO p. 9
III A – Descrizione settecentesca della chiesa p. 12
III B – Il risveglio della devozione p. 17
III C – Il restauro della cappella nel 1957 p. 22
III D – L’apparizione del 1985 e il restauro del 1987 p. 30
IV – APPENDICE p. 37
Nicola Iacobacci, Coste San Rocco (lirica) p. 37
Nicola Iacobacci, La fondazione della cappella p. 38
Donato Simonelli, Ricerca sul convito di San Rocco p. 39
«Cronaca Vera», 28 agosto 1985, Il Miracolo di Toro p. 41
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I – LEGGENDE E FONDAZIONE DEL PAESE. Una delle più persistenti leggende
popolari toresi ha per oggetto la cappella di San Rocco e le case circostanti,
comunemente indicate a Toro come I Coste Sant’Rocche, Le coste San Rocco. A
dispetto delle dimensioni esigue, la cappella sarebbe stata la chiesa madre di Toro, e le
case circostanti, I Coste Sant’Rocche, il nucleo storico originario del paese. Precisiamo
subito che la leggenda non ha nessun fondamento storico né logico. Fa il paio con
un’altra leggenda dura a morire, quella della favola che riconduce il nome del nostro
paese Toro, alla lotta tra il toro e il leone, lotta che vide vincitore il toro, e convinse gli
antenati a chiamare Toro il paese che stavano fondando. Una favola di nessuna coerenza
etimologica. Vinse il toro, in dialetto u tòre, con la o grave, e i nostri antenati
battezzarono il paese… Ture come diciamo noi o Tuóre (o stretta), come dicono nei
paesi vicini, parola che già nei diversi suoni dialettali si rivela cosa diversa dal toro
animale: Ture (o Tuóre) il paese - u tòre l’animale. La leggenda, forse, è suggerita dallo
stemma comunale settecentesco (toro e leone affrontati), murato sul campanile.
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In verità, il nome del paese non ha niente a che fare con l’animale, ma molto con
le parole latine Toro, toronus, torus, turo, turonus, che significano tutte altura, anzi colle
appuntito e rotondo, con riferimento al territorio in cui sorge l’abitato. Stesso discorso
per i nomi dei comuni vicini. Campodipietra si chiama così perché fondata nel territorio
di una tale Pietra o – molto più probabilmente – nel territorio dove fu rinvenuta una
pietra, cioè una lapide di qualche importanza. San Giovanni prende il nome dal Galdo
ossia dal bosco circostante. Così Toro prende il nome dall’altura conica su cui sorge.
Se Torus, certifica che il paese è sull’altura, si capisce allora che il nucleo
originario del paese non può essere identificato nelle coste San Rocco, che stanno più in
basso rispetto alla sommità della collina. Infatti il nucleo originario è esattamente dove
ci troviamo, qui davanti alla chiesa Madre. Nei documenti di Mille anni fa Toro, come
anche Campodipietra, San Giovanni in Galdo e tutti i comuni del circondario, veniva
detto castello o castro, perché nel latino medievale le parole castellum o castrum erano
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usate per indicare il paese fortificato e munito di mura di cinta, per distinguerlo dai
casales (di qui il toponimo Casale che si rinviene nel nostro e in altri agri), che erano
paesi, o meglio villaggi senza mura fortificate, come per esempio Catello. Il nostro
Castellum di Toro era praticamente inespugnabile. Proviamo a immaginarlo tutto
racchiuso nella chiesa, il palazzo del feudatario, che sorgeva nello spiazzo del
Monumento ai Caduti, e le case di Via di sopra e Via di sotto e niente altro. Solo queste
due strade principali con le rue, le viarelle di collegamento, circondate dalle mura di
cinta di cui ci sono ancora tracce, e dal terreno scosceso, per non dire a picco sulla
vallata. Si entrava in questa fortezza da due porte, quella del Barbacane, o del Piano, che
veniva chiamata anche Porta da Capo, ed era una stradina strettissima e pericolosa sullo
strapiombo del Barbacane, e la porta da Piedi, che sorgeva dove adesso c’è piazzetta San
Rocco. E anche lì lo strapiombo non scherzava, se immaginiamo il luogo sgombro delle
case sottostanti, che sono state edificate dopo, molti secoli dopo.
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II - CAPPELLA E CONTRADA SAN ROCCO. In questo spazio angusto, non
potevano trovare posto altre chiese oltre alla chiesa madre; e difatti non ve n’erano.
Quelle di cui si ha memoria scritta saranno edificate secoli dopo fuori dalle mura: nel
Trecento le chiese di Santa Maria delle Piaghe, San Nicola, San Mercurio, e
successivamente l’Annunziata, e la cappella di Santa Maria di Loreto, a fine
Cinquecento trasformata in convento. Queste chiesette di campagna non potevano
gloriarsi della dignità di parrocchiali, essendo poste oltre il recinto murario dell’abitato,
in epoche non ancora tranquille. Ma anche perché (come la chiesa di San Rocco, forse
seicentesca), erano troppo piccole, non adeguate alla popolazione che, teniamolo
presente, faceva di Toro fino al sedicesimo secolo il decimo tra i Comuni molisani più
abitati, con una densità demografica seconda, di poco, soltanto a quella di Campobasso.
Scorrendo i registri parrocchiali antichi e i catasti comunali del Seicento, non si
trova mai nessuno accenno alla contrada o alla via o alla calata o alla piazza o al borgo
di San Rocco, insomma a quello che oggi genericamente intendiamo con Coste San
Rocco. La dicitura toponomastica San Rocco semplicemente non esisteva in nessuna
forma (piazzetta, via, borgo, calata, coste). Per ubicare qualche casa che solo dopo il
Cinquecento si cominciò a costruire fuori dalla Porta, dove c’è la nostra chiesetta, si
usava la dicitura Porta da Piedi o Borgo da Piedi oppure in un caso “Inforzo (mpurze) da
Pède” (Catasto 1643). Tra le centinaia e centinaia di casi verificati, è registrato
(precisamente nel Catasto del 1670), solo l’esempio di un Vito Pistillo che, originario
della città di Molfetta e vedovo della torese Angela Di Chinco, viveva in una casa di 3
vani “a San Rocco”. I suoi vicini di casa, invece, erano registrati come abitanti a Porta
da Piedi o a Colle Palermo (oggi Piazzetta San Rocco), questo anche nei catasti a venire,
specialmente in quello fondamentale del 1742.
Perciò le coste San Rocco come le intendiamo oggi non solo non costituiscono il
nucleo originario di Toro, ma addirittura sono state edificate molti secoli dopo la
fondazione del paese, a seguito di uno sviluppo urbanistico abbastanza recente.
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San Rocco, Statua lignea processionale
conservata nella Cappella del Santo a Toro
(Foto Sandro Nazzario)
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III - IL CULTO DI SAN ROCCO A TORO. Essendo edificata fuori dalle mura di
cinta del paese, a ridosso della Porta da Piedi, anche la chiesa di San Rocco è stata
costruita diversi secoli dopo la fondazione del paese, che è anteriore al Mille. Di certo
non prima del Quattrocento, tenuto conto che San Rocco muore nella seconda metà del
Trecento e il suo culto comincia ad affermarsi solo nel Quattrocento inoltrato1. Forse
solo in pieno Cinquecento o a inizio Seicento (nel 1606, stando a una piantina
settecentesca, vedi infra), si edifica la chiesa torese (si legga in appendice, una leggenda
di fondazione di Nicola Iacobacci), e si afferma il culto del Santo, a Toro come in
Molise, dove è assai onorato.
Tra l’altro è il Patrono di diverse località, tra cui Duronia, Montelongo, Palata,
Ripabottoni e Monacilioni: paesi dove sostituì i precedenti patroni dopo la peste che
afflisse il regno di Napoli dal 1526 al 1530, ispirando nei fedeli la gratitudine per essere
stati risparmiati allora dalla morte e la speranza di esserne preservati in altra futura
occasione.
Purtroppo tale speranza, nel caso di Toro, fu vana. Centotrent’anni dopo la peste
cinquecentesca, l’epidemia del 1656 sterminò qualcosa come la metà o addirittura i tre
quarti della popolazione. Proviamo a pensare ai termini della carneficina. Centinaia e
centinaia di toresi morti, famiglie intere distrutte. Case vuote e abbandonate. Dopo tale
ecatombe dalle proporzioni bibliche, i sopravvissuti non avevano particolare motivo per
mantenere accesa e alimentare la devozione verso il santo.
Si spiega perciò come a fine Seicento la chiesa di San Rocco fosse poverissima, la
1 San Rocco (Montpellier, tra il 1346 ed il 1350 – Voghera, notte tra il 15 e il 16 agosto di un anno
imprecisato tra il 1376 ed il 1379), pellegrino e taumaturgo francese. Protettore dalla peste dal Concilio
di Costanza nel 1414, quando fu invocato per la liberazione dall'epidemia propagatasi in città. Il suo
patronato si è progressivamente esteso al mondo contadino, agli animali, alle grandi catastrofi come i
terremoti, alle epidemie e malattie gravissime. Con il passare dei secoli, quale grande esempio di
solidarietà umana e di carità cristiana, è divenuto uno dei santi più conosciuti in Europa e oltreoceano
(patrono di innumerevoli città e paesi), ma è rimasto anche uno dei più misteriosi.
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più povera del paese. Dall’inventario redatto dall’arciprete Fulvio Pillarella nel 1688,
risulta possedere solo una piccola somma di denaro prestata a Giuseppe Capalozza.
Mezzo secolo dopo (stando al Catasto 1742), è proprietaria di due terreni e ha capitali
distribuiti in 11 prestiti, le cui rendite sono impiegate per la riparazione della chiesa.
Sempre poca cosa, tenendo presente che chiese e cappelle allora avevano proprietà
considerevoli.
Con ogni probabilità il lieve incremento si deve a un circostanza precisa. Nel
1700, rendendosi necessario trasformare in cimitero (ovvero ossario), la trecentesca
Chiesa di San Mercurio (situata nei pressi dell’attuale Piazza, U chiane San Mercurie,
che ne ha derivato il nome), alla chiesa di San Rocco fu aggregata la denominazione di
San Mercurio. Come vedremo, fu consacrata dal cardinale Orsini con il titolo di chiesa
di San Rocco e San Mercurio. Pertanto ancora oggi dovrebbe essere chiamata così.
L’incremento dei due terreni e dei capitali, di cui si diceva, probabilmente fu portato in
dote dalla ex chiesa di San Mercurio.
Nel Catasto 1742 si legge anche che la Badia di San Rocco è data in Beneficio del
sacerdote Don Domenico De Vivi di Padulo.
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III A – Descrizione settecentesca della chiesa. Notizie interessanti sulla chiesa di San
Rocco sono conservate in un volume dei cosiddetti “Inventari Orsini”, ovverosia degli
inventari che furono eseguiti nel 1712 parrocchia per parrocchia su disposizione del
Cardinale Vincenzo Maria Orsini, Arcivescovo di Benevento.
Trascriviamo il capitolo “Della Chiesa e sua Descrizzione [sic]”, sottolineandone
in grassetto le tipicità e integrandola con informazioni e confronti con la chiesa attuale:
La chiesa fin ora venerata sotto il titolo di San Rocco della Terra di Toro sta
situata nel luogo detto fuora la porta della Piazza di Sotto, le sue coerenze
sono circum circa Via pubblica. Non si ha memoria della sua fondazione
per essere antichissima [Da precisare che l’asserita “antichissima”
fondazione è contraddetta nello stesso documento dalla pianta redatta
dall’agrimensore Iadanza, che sulla facciata della chiesa, proprio sopra la
nicchia a mezza luna riporta: “1606 fondata”. Arrotondata al 1605, tale data
è stata incisa sulla lapide del restauro del 1957, di cui parleremo], e per
quanto haverne notizia fosse stata edificata ed eretta dalla Devozione de
Cittadini di essa Terra, e perché era angusta fu nell’anno 1703 rifatta a
spese dell’Università di detta Terra, e ridotta nella seguente forma, cioè:
Costa la medesima [chiesa] di una sol nave divisa con Arco di Fabrica
lunga palmi 36./. [9 metri e 52 centimetri circa], e larga palmi 17 [4 metri e
mezzo], come dalla misura e pianta fatta dall’Agrimensore Matthia Jadanza, e
coverta de coppi con soffitta di legno a quatretti dipinti con friso in torno a
fresco dipinto col pavimento di mattoni [Soffitto a cassettoni e pavimento in
cotto sono stati reintrodotti con il restauro Falcione, Anni Ottanta del
Novecento]. Le pareti sono dalla parte di fuora arricciate, e dalla parte di
dentro intonacate, e da tutte due le facce dealbate, e finalmente e illustrata da
due finestrelle di forma quadra, quali riguardano la parte meridionale, munite
con vetri, entro telaio di legno e rezza di ferro.
Si entra a questa Chiesa per una sol porta che riguarda levante con
gambe e architrave di pietra. Si ascende a questa Chiesa per un sol grado di
pietra, sopra della quale entro piccola nicchia vedesi dipinto a fresco
l’imagine si San Rocco [In sostanza immutata la struttura della chiesa rispetto ad oggi con
l’eccezione della finestra posta al disopra della porta di ingresso: al suo
posto c’era una piccola nicchia esterna, con l’immagine di San Rocco in
affresco. Non è detto né risulta chiaramente dalla pianta di Jadanza che la
facciata fosse a fronte quadra come è rimasta in essere fino al restauro degli
Anni Ottanta del Novecento, quando è stato introdotto lo schema a capanna].
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Inventari Orsini, Pianta della chiesa di San Rocco, disegnata dall’agrim. Mattia Jadanza 1712 circa
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Entrando la medesima a man destra vicino la detta porta attaccata nel
muro vi è una fonte di pietra lavorata per uso di acqua santa e nel muro
capitale di essa chiesa vedesi attaccato in esso una cornice lavorata a stucco,
entro di essa vi è un quadro palmi quattro e cinque ove venerasi dipinta
l’effiggia [sic] di S. Mercurio.
[Le dimensioni del quadro 106 x 132 cm, sono all’incirca sovrapponibili al
San Mercurio che atterra Giuliano l’Apostata (101x126), che oggi e a
memoria d’uomo si conserva nella Chiesa Madre, dove nel Settecento non vi
fu inventariato. Va tenuto presente, tuttavia, che un quadro su tavola del San
Mercurio che atterra Giuliano l’Apostata è riportato anche nell’analogo
inventario settecentesco della chiesa dell’Annunziata].
E nel muro laterale dalla parte del Corno del Vangelo [entrando a
sinistra] attaccato in esso vi è un armario di legno serrato con chiave ove si
conservano gli apparati, ed altri seppellettili di essa chiesa. Vedesi anco
attaccato in esso una fonte di pietra lavorata con cannella e chiavetta di
ottone per uso de lavamani, e girella vicino col suo manutergio, i piroli per i
ferrajoli.
[Non esiste più l’armadio di legno, nè l’attaccapanni girevole per
l’asciugamano liturgico (manutergio) e per i mantelli dei preti (ferrajoli),
mentre è perfettamente conservato il lavabo scolpito in pietra].
Nella sommità di d. Chiesa vedesi entro piccolo arco di fabrica, coverta
con pennata alla romana, sta pennente una campanella di bronzo con
batacchio di ferro di peso in tutto rotola dieci, alta palmi uno e mezzo, e per
diametro palmi due con la seguente iscrizione: “Jesus Maria. Fu benedetta
dall’illustrissimo et reverendissimo mons. Francesco Antonio Giannone
vescovo di Boiano colla facoltà dell’ecc.mo sig. Card. Orsini arciv. sotto il dì
8 settembre 1696”. E nella sommità di d. arco vi è una croce di ferro.
[Non è chiaro dove precisamente fosse posizionato il piccolo campanile. Né
chiarisce le cose la pianta dell’agrimensore Jadanza, che sembra
posizionarlo sul muro settentrionale, lato abitato, se non proprio sul culmine
del tetto. Di certo non era posizionato alla sommità della facciata, lato
sinistro, come attualmente e a memoria d’uomo si ricorda. Della campanella
(alta cm. 40 e larga cm 53), è assai interessante la data di consacrazione: 8
settembre 1696. È la stessa data di consacrazione della chiesa madre di Toro,
a tenore del cartiglio in stucco alla base della cupola, che ricorda il
grandioso avvenimento presieduto dal cardinale Orsini:
A.M.D.G.
ECCLESIAM HANC IN HONOREM SS.MI SALVATORIS
SOLEMNI POMPA DICATA
DIE VIII MENSIS SEPTEMBRIS MDCXCVI.
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(A Maggior Gloria di Dio
Questa chiesa in onore del Santissimo Salvatore
con grande magnificenza fu dedicata
l’8 settembre 1696)
Se il vescovo di Boiano-Campobasso, Giannone, nello stesso giorno consacra
la campanella di San Rocco, su delega dell’Orsini, questo significa che
doveva essere assai nutrito il corteggio del cardinale, che era in visita
pastorale a Toro già da alcuni giorni, precisamente dal 4 settembre 1696].
Alla descrizione della chiesa di San Rocco fa seguito la descrizione “Dell’unico
altare” in essa esistente.
L’altare di essa Chiesa sta situato a capo della medesima, posto in isola, lo di
cui stipite è di fabbrica, con spicoli e mensa di tre pezzi di pietra lavorata. Sopra di essa è situato un gradino di pietra lavorata per uso de candelieri e
al di dietro del medesimo vedesi attaccata nel stipite una credenzola di
pietra. Sovra di essa è posata una statua di legno sopradorata di San
Rocco. Si ascende a questo Altare per un grado di pietra oltre il soppedaneo
di legno.
[L’altare di pietra, non era quindi attaccato al muro, come l’attuale in
marmo, che è di foggia ottocentesca. Neppure vi era la nicchia, per
accogliere la statua del santo che invece era poggiata direttamente
sull’altare, tramite una “credenzuola di pietra”, attaccata allo stipite dello
stesso. Con ogni probabilità non si trattava della statua venerata oggi, la
quale sembra anch’essa di concezione e realizzazione ottocentesche].
Ed attaccato nel muro laterale della parte del Corno dell’Epistola vi è la
credenzuola per uso delle caraffine e avanti di esso attaccato da un pilastro
all’altro sopra grado di pietra viene posata la palaustrata di legno con sue portelline similmente di legno.
[Assai interessante e suggestiva la balaustra di legno che separava il
presbiterio con l’altare in pietra sormontato della statua del santo dalla
navata. Nessuna menzione invece delle due statuine, la Pietà e il San Michele
Arcangelo, che oggi sono poste rispettivamente a sinistra e a destra
dell’altare].
Fu consacrato questo altare dall’Ecc.mo Signor Cardinale
Arcivescovo Orsini sotto il dì 27 giugno 1707, e come leggesi in una
Iscrizione intagliata su marmo dentro nicchia di stucco attaccata nel muro
laterale della parte del Corno del vangelo del tenore seguente: Altare hoc in
onorem Dei et SS. Mercurij m. et Rocchi confessoris solemni ritu dedicans
die XXVII junij MDCCVII sacravit fr. Vincentius Maria Ord. Praed.
Episcopus Tusculanus S.R.E. Card. Ursinus Archiepiscopus omnibus vero
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fidelibus die anniversaria consacrationis huiusmodi et praedictorum festis
altare ipsum visintantibus centu indulgentiae dies perpetuo concessit
[Purtroppo rimane solo questa traccia di archivio della lapide che ricordava
la consacrazione dell’altare in onore di Dio, e di San Mercurio martire e San
Rocco confessore, avvenuta per opera del Cardinale Orsini con la
contestuale concessione in perpetuo di cento giorni di indulgenza plenaria ai
fedeli che avrebbero visitato l’altare nella ricorrenza della sua festa].
Inventari Orsini, Descrizione della chiesa di San Rocco, 1712 circa
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III B – Il risveglio della devozione. Con tutto ciò, la devozione verso San Rocco
continuava a essere senza slanci. A provarlo anche la mancata presenza del nome del
santo tra i battezzati toresi. In duecento anni, i registri parrocchiali e i catasti del Sei e
del Settecento, conservano traccia di un solo torese di nome Rocco: è Rocco Di Cicco
(1701-1757), per giunta oriundo, essendo figlio del notaio Luca originario di Matrice.
Calata San Rocco, Lastra fotografica di Inizio Novecento (Archivio Fernando Pietrantuono)
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Poi, con il passare degli anni, il ricordo della smisurata tragedia della peste del 1656 si
affievolisce e a poco a poco la devozione si fa più sentita. Attorno alla piccola chiesa di
San Rocco, nel corso degli ultimi trecento anni, vengono a edificarsi nuove case e il
nuovo borgo trova la propria identità proprio nel culto del Santo, che darà il proprio
nome alla piazzetta soprastante (fino a inizio Novecento, detta Colle Palermo), alla
calata San Rocco e un po’ a tutta la zona che è chiamata popolarmente I coste
Sant’Rocche, Le coste San Rocco. Nella chiesetta all’imbrunire si danno appuntamento
quotidiano le santroccare per la recita del rosario, sotto lo sguardo della statua del
titolare, cui è rivolto il canto tipico
O Rocco proteggi, / lo popolo ognor
lo guidi, lo reggi / fedele al Signor.
La figura del Santo un poco alla volta diventa popolare. Oltre alla statua
processionale, va ricordato il quadro del convento con l’effige di San Rocco con San
Nicola e altri santi (il quadro è datato 1657, l’anno successivo alla peste). La ricorrenza
festiva del 16 agosto è onorata con la messa sul sagrato della cappella, con la
processione delle statue di San Rocco e dell’Assunta e da quasi un secolo con il convito,
il pranzo devozionale in onore del santo che – si racconta – salvò dall’acqua bollente la
piccola figlia di una popolana, che in sogno ebbe la visione del miracolo operato dal
Santo con l’esortazione a imbandire un convito per i poveri, racimolando i soldi
occorrenti con una questua (si legga più avanti una ricerca di Donato Simonelli che ha
accertato in questo evento la nascita del convito di San Rocco). Diversamente da quello
di San Giuseppe, che è assai più antico, è assai più diffuso, il convito di San Rocco può
essere anche a base di carne non cadendo in periodo quaresimale. Ma, con lo sparire
delle vecchie generazioni, entrambi i conviti manifestano un inesorabile declino.
Anche se poco diffuso, il nome Rocco comincia a comparire con maggiore
frequenza nei registri anagrafici toresi. Mentre la ritrovata popolarità del Santo è
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attestata anche dal proverbio di largo uso U caccenille Sant’Rocche. Effigiato ai piedi
del Santo, con la pagnottella in bocca, che rubava quotidianamente alla mensa del
padrone Gottardo per portarla al Santo malato di peste in una capanna, il cagnolino è
l’emblema della persona (il bimbo), che chiede sempre cibo.
Nicola Felice, San Nicola, San Rocco e altri santi, 1657
Toro, Convento di Santa Maria di Loreto
(Foto Dante Gentile Lorusso)
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In dotazione della cappella anche una reliquia del Santo, conservata in una
decorosa ed elegante custodia a cinque lobi, di recente sostituita con un manufatto più
pretenzioso, a cura di padre Tomaso Rignanese, parroco di Toro pro tempore. In assenza
del documento vescovile che attesta l’autenticità del microscopico frammento osseo, la
supponiamo di recente acquisizione, anche sulla scorta della testimonianza di Maria
Annunziata Balori, vedova Colledanchise (Mariettèlle ‘a Sciagurate, 1925), che
custodisce le chiavi della cappella dal 1930, quando ad appena cinque anni è subentrata
alla storica custode, Filomena Tucci maritata De Sanctis (nonna di padre Giacinto).
Toro, Cappella San Rocco, Teca con reliquia ossea del Santo
(Foto Michelangelo Ferretti)
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Posizionato sul tabernacolo, tra le statue di San Rocco e l’Assunta, pronte per la processione,
il nuovo moderno reliquiario con il minuscolo frammento osseo del Santo (Foto Sandro Nazzario)
Mariettella sostiene, infatti, che a far arrivare la reliquia, da Venezia dove è
custodito il corpo santo, è stato il parroco pro tempore Don Camillo Iacobucci nei primi
Anni Cinquanta del Novecento. Sostiene, inoltre, di non essere a conoscenza e
comunque di non aver mai visionato il relativo certificato di autenticità.
Certo è che la reliquia non è inventariata tra quelle in dotazione della parrocchia
di Toro, delle quali fece la ricognizione il cardinale Vincenzo Maria Orsini nel corso
della sua visita pastorale nel luglio del 1693, quando si recò nel nostro paese per la
prima volta, a sette anni di distanza dall’insediamento ad Arcivescovo di Benevento. Né,
come si diceva, vi è traccia del diploma di autentica vescovile nella cospicua raccolta
settecentesca conservata nell’Archivio Parrocchiale del Santissimo Salvatore.
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III C – Il restauro della cappella nel 1957. Alla popolarità di San Rocco e della sua
piccola chiesa, eretta dalla devozione dei cittadini nelle adiacenze della Porta da Piedi
(come per assegnare al santo funzione di celeste guardiano dell’abitato), ha concorso, lo
ripetiamo, la devozione del convito, istituita a seguito del miracolo operato e rivendicato
da San Rocco, apparso in sogno alla madre della bimba salvata dall’acqua bollente.
Successivamente un’altra popolana, Antoniella Felice (1917-2002), assurse a
notorietà in paese come Quélle che ze sonne (o ze sennave) a Sant’Rocche, La donna che
sogna (o sognava) San Rocco. Fu proprio (o anche) grazie a un sogno di Antoniella, che
si provvide al restauro “completo” della cappella, ultimato nel luglio 1957, a spese di
tutta la popolazione, a dar retta alla lapide che fu murata nell’occasione, e rimossa
trent’anni dopo, per essere sostituita da quella che ricorderà il successivo, radicale
restauro del 1987. In realtà la tradizione popolare racconta che alla devota Antoniella era
apparso in sogno il Santo per lagnarsi delle cattive condizioni in cui versava la sua
“casa”, reclamarne l’adeguato restauro, indicando nella persona del benestante Giovanni
Cofelice (detto Carlone), un contadino dedito al commercio di quadrupedi nelle fiere del
circondario, il mecenate che si sarebbe dovuto accollare l’onere della spesa. E così fu.
Interpellato dalla donna, il ciucciaro Giovanni Carlone, sposato e senza figli, si mise
prontamente a disposizione, ma rivendicando la sua incompetenza incaricò a sua volta
un professionista, allora sindaco in carica, il giovanissimo Diomede Ciaccia, a
soprintendere alla progettazione e alla realizzazione dei lavori.
Di tutto questo nell’iscrizione commemorativa non si fa parola. Anzi, nella sua
prolissa e assai poco curata scansione, la lapide del 1957, che oggi è conservata con ogni
riguardo in una grotticella antistante la scalinata della cappella di proprietà di Nicola
Colledanchise (figlio di Mariettella Balori), informava che la “ecclesietta”, eretta dal
“generoso popolo di Toro nel 1605”, fu restaurata con il contributo dell’ “intero
popolo”, e restituita al “rispetto religioso nel luglio del 1957”, per impedire che
“rimanesse negletto uno dei più importanti/ monumenti del culto dei padri”.
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QUESTA ECCLESIETTA FU ERETTA AL SANTO
DELLA PIETADE ROCCO DI MOMPELLIER
NEL 1605 DAL GENEROSO POPOLO DI TORO
ABBANDONATA DA ANNI È STATA COMPLETAMENTE
RESTAURATA E RESTITUITA AL RISPETTO
RELIGIOSO NEL LUGLIO 1957
LA FEDE RELIGIOSA DEI CITTADINI
TORESI NON POTEVA CONSENTIRE CHE
RIMANESSE NEGLETTO UNO DEI PIÙ IMPORTANTI
MONUMENTI DEL CULTO DEI PADRI
I NUOVI DEVOTI AFFIDANO FIDUCIOSI
LA RESTAURATA OPERA AL DIGNITARIO
RELIGIOSO E LA RICONSACRANO AL SANTO
CON ALTISSIMO SENTIMENTO DI FEDE
RELIGIOSA L’INTERO POPOLO HA
CONTRIBUITO AL RINNOVO
TORO 14 LUGLIO1957
Lapide commemorativa del restauro 1957, un tempo sul muro Sud della Cappella San Rocco e dal 1987 conservata dalla famiglia Colledanchise-Balori tenutaria della cappella
(Foto Enzo Mascia)
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Ora a dimostrazione di quanto fin qui siamo venuti esponendo, cioè di come in
realtà fosse stato altalenante il “culto dei padri”, ovvero la devozione torese per San
Rocco nei secoli, va sottolineato che, stando sempre all’iscrizione, il restauro di mezzo
secolo fa si era reso necessario perché l’ecclesietta risultava “abbandonata da anni”.
Vanno fatti, inoltre, una riflessione e un tentativo per comporre il dissidio che
parrebbe insanabile tra la vox populi, secondo la quale fu Giovanni Cofelice a finanziare
l’opera, e il dettato della iscrizione, che, al contrario elogia “l’intero popolo” per aver
“contribuito al rinnovo” della cappella. La riflessione, banale ma non per questo meno
apprezzabile, suggerisce di accogliere sempre, e sempre con cautela ogni informazione,
da qualsiasi fonte provenga. Mentre per sanare il dissidio non pare azzardato ipotizzare
che l’edificante disponibilità di Giovanni Carlone abbia potuto innescare un moto
emulativo nei compaesani, specie nei santroccari, sfociato in una sottoscrizione
popolare, per la magrezza dei tempi più nominale che concreta, e comunque tale da far
ricadere sul facoltoso ciucciaro buona parte ma non tutto il costo dell’opera. È in linea la
testimonianza di Mariettella Balori, che parla di capella restaurata con le “elemosine”
dei fedeli, che si prestarono anche come manovali per assistere il mastro muratore
Giambattista De Sanctis (alias Cola Ciaccia), o mettendo a disposizione arena, acqua
(allora si attingeva ai pozzi o al fiume), legname, e se stessi e le “vetture” del tempo:
asini e muli, per il trasporto del materiale.
D’altro canto, Diomede Ciaccia, interpellato per aiutarci a sbrogliare
completamente la matassa, l’ha ingarbugliata di più, non certo per colpa sua, negando
categoricamente di essere stato delegato da chicchessia a soprintendere al restauro della
cappella, né a titolo personale né in veste di primo cittadino, tanto più che
l’Amministrazione Comunale – in ciò convenendo con l’iscrizione e la vox populi – non
ebbe parte alcuna nel restauro di mezzo secolo fa. E allora? Ipotesi che si somma a
ipotesi: non fu Diomede ma un altro giovane professionista torese, magari un geometra,
il delegato di Giovanni Carlone a soprintendere al restauro della cappella.
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Giovanni Cofelice, alias Carlone, con giacca e cravatta al centro della folla di devoti
Toro, sagrato della Cappella San Rocco, 16 agosto 1957?
(Archivio Sante Martino)
A margine degli stessi lavori di restauro, Annunziato De Rubertis, pittore di San
Giovanni in Galdo (1935, vivente), fu incaricato di dipingere (ma secondo Mariettella, a
restaurare), una immagine del Santo sull’intonaco del soffitto della cappella, allora in
muratura. De Rubertis provvide, ma l’opera non piacque. Aveva raffigurato il Santo in
piedi, mentre i suoi committenti (anche qui il plurale, suggerito dal cartiglio riprodotto
alla base del dipinto, va preso con le molle), pretesero e ottennero che fosse raffigurato
in ginocchio, come Antoniella Felice assicurava di averlo sognato: in veste di pellegrino,
con cappello e bordone, la gamba piagata dalla peste, il cagnolino con la pagnottella in
bocca e, tutto intorno, alcune teste alate di cherubini.
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Annunziato De Rubertis, San Rocco, 1957
Toro, soffitto della Cappella del Santo (Foto Archivio Sante Martino)
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Nel cartiglio, teso dai due cherubini effigiati ai piedi del Santo e del cagnolino, era
annotato:
POPULI TAURINI DEVOTIONE DE RUBERTIS A.D. MCMLVII FECIT
(A devozione del popolo di Toro De Rubertis fece nell’Anno del Signore 1957)
Ora, giacché in precedenza ci siamo soffermati sulla curiosa leggenda di
fondazione del paese, la cui etimologia è messa in riferimento errato con il toro animale,
pare opportuno rilevare qui come il genitivo “Taurini” utilizzato dal pittore, al
nominativo “taurinus”, è sbagliato, dal momento che il nome latino del paese non è
Taurus o Taurum, ma Torus o Torum (scritto anche Thorus o Thorum), come
comprovato dai documenti antiche e dalle antiche mappe. Quindi più correttamente
andava scritto “Populi Torensis (o Thorensis)” in luogo di “Populi Taurini”.
Ben più grave, stando alla testimonianza della custode Balori, l’uso del verbo
“fecit” (fece), al posto del verbo “restauravit” (restaurò), che a suo dire sarebbe stato più
giusto usare. Come già accennato, Mariettella sostiene con convinzione che l’intervento
del pittore fu sollecitato non perché provvedesse alla creazione di un’opera nuova ma al
restauro di una scena già esistente, che lei ricorda da sempre dipinta sul soffitto della
cappella.
Sia come sia, un’ultima voce popolare racconta che, durante la travagliata
esecuzione del lavoro, lo sfortunato De Rubertis subì il furto dell’attrezzatura e dei
colori, che aveva lasciato nottetempo incustoditi nel piccolo tempio di cui conservava
momentaneamente l’unica chiave. Abbiamo creduto opportuno registrarla, per
sottolineare sotto quale stella nefasta il pittore realizzasse (o restaurasse) l’opera
(modesta in verità), che comunque non è più visibile dal 1987, perché nascosta dal
soffitto a cassettoni installato quell’anno, nel corso del restauro della cappella,
propiziato da un avvenimento eccezionale di cui si dirà.
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La statua di San Rocco nel tosello allestito nei pressi della Cappella.
In primo piano, la compunzione di Antoniella Felice, del marito e della figlia
Dietro di loro la custode della Cappella, Marietella Balori, con il fazzoletto bianco
(Toro, 16 agosto 1957?, Archivio Concepcion Sivilla, Venezuela)
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Toro, Anni Cinquanta del Novecento (16 agosto 1957?), Processione di San Rocco
Antoniella Felice davanti alla statua,, nella posizione solita del rappresentante del Clero
(Archivio Michele Paternuosto)
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III D – L’apparizione del 1985 e il restauro del 1987. Antoniella Felice aveva sognato
in tempi non sospetti, sempre negli anni Cinquanta del secolo scorso, che a Toro e nella
Cappella di San Rocco sarebbero confluiti pellegrini in massa. Ed è ciò che è avvenuto
una trentina di anni dopo, a far data da domenica 16 giugno 1985, quando durante la
processione del Corpus Domini toccò a un altro Felice, Luciano detto Cavaliere, di
vedere l’immagine miracolosa dell’Ecce Homo riflessa nella nicchia di San Rocco, a
capo dell’unico altare, dove era stata rimossa la statua del Santo, per permettere i lavori
di manutenzione alla cappella. Anche altri videro qualcosa in fondo alla nicchia. La
notizia si divulgò in modo altrettanto miracoloso e quella estate, a Toro si riversarono
fiumane di persone.
Il condivisibile atteggiamento di prudenza che l’arcivescovo di Campobasso,
mons. Pietro Santoro, con lodevole tempestività in sopralluogo a Toro, all’indomani
dell’ “apparizione”, raccomandò ai fedeli con le parole: “Bisogna credere per vedere,
non vedere per credere”, al fine di scoraggiare forme deleterie di pubblicità e pericolosi
entusiasmi, se da un lato diede occasione al GR1 della Rai di annunziare con enfasi ad
effetto “In un paese del Molise tutti vedono Cristo, tranne uno… il Vescovo”, dall’altro
lato non impedì allo stesso pastore della diocesi una decisione che alla prova dei fatti si
rivelò inadeguata.
Prese le distanze e forte della buona fede e della serietà del popolo di Toro, non
giudicando illecita la curiosità creata e, tutto sommato, sottovalutando la portata
dell’accaduto, mons. Santoro stabilì che la nicchia restasse vuota e la cappella aperta, in
custodia dei fedeli. Purtroppo la scelta, unitamente al grande risalto che la stampa, la
radio e la televisione diedero al caso, e all’iniziale disinteresse dell’amministrazione
comunale capeggiata dal sindaco Filippo Salvatore, portò al caos.
Resta memorabile il pomeriggio di domenica 30 giugno 1985, quando centinaia di
automobili rimasero imbottigliate per ore sotto il sole, ostruendo completamente le vie
di accesso al paese mentre, senza che fosse presente un vigile urbano, un carabiniere, un
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qualsiasi responsabile dell’ordine pubblico, tra la folla dei visitatori, accalcati nei pressi
della cappella, spazientiti per il gran caldo e l’interminabile attesa, volarono ingiurie e
improperi, e si passò alle vie di fatto. Pur risolvendosi, per fortuna, in esiti insignificanti,
la circostanza spalancò gli occhi di chi credeva di potere ignorare l’entità del fenomeno.
I parroci di Toro e della zona, fin qui curiosi, interessati e aperti al dialogo, cambiarono
bruscamente tono e, forse ispirati dall’alto, assunsero una posizione molto critica nei
confronti del “miracolo”, con grave sconcerto, sarebbe meglio dire scandalo, dei fedeli.
L’amministrazione comunale, all’iniziale periodo di latitanza, fece seguito con
l’assunzione provvisoria di due giovani per regolare il traffico, mettendo in programma,
ma non realizzando, l’apertura di due aree destinate al parcheggio e istituendo sensi
unici e divieti di accesso che, pur se rispettati in parte, attenuarono un poco il disagio del
traffico eccezionale. Rimandò tuttavia l’adozione di provvedimenti definitivi al
pronunciamento dell’autorità religiosa. Intanto, giocò la carta della improvvisa
vocazione turistica del paese con il collocare dovunque affrettate indicazioni stradali, a
volte inesatte, a volte addirittura grottesche, come quella di retrodatare a un assurdo XIII
secolo la cappella dedicata a San Rocco, all’epoca non ancora nato.
Raddoppiarono in tal modo i guadagni di bar e negozi, ma la popolazione già
gravata dell’annoso, pesante e mai risolto problema della mancanza d’acqua in estate,
venne a imbattersi in spiacevoli realtà moderne che raffreddarono l’euforia per
l’improvvisa popolarità: traffico, frastuono, gas di scarico, automobili parcheggiate
ovunque, sui marciapiedi, davanti agli usci di casa, sporcizia, rifiuti lasciati in sacchetti
di plastica lungo il ciglio della strada…
Anche l’inedito piacere di leggersi sui giornali, ascoltarsi in radio e vedersi in
televisione, fu di breve durata. I toresi sperimentarono sulla propria pelle la potenza dei
moderni sistemi di informazione e finirono per indignarsi per le esagerazioni, le
deformazioni, la facile ironia e l’irrispettoso sarcasmo. Furono ossessionati dalla trita
filastrocca del paesello da favola “arroccato come tanti sulle montagne”, con le vecchie
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Toro, Cappella di San Rocco, Nicchia del Santo
Nei riflessi del fondo, alcuni fedeli credettero di vedere le fattezze dell’Ecce Homo
(Foto Mercurio Iacobucci, 1985)
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donne che ricamano nei vicoli stretti, la “minuscola cappella che profuma solo dei fiori,
tanti”, “il silenzio irreale”, “i bambini curiosi che spiano e ridono”, “le donne in
grembiale” ecc. ecc.
Con stupore appresero che proprio loro, i dipendenti della Rai del Molise, che da
sempre si erano proposti come i poetici cantori di un Molise di maniera, avevano deciso
a maggioranza in assemblea di evitare all’evento una diffusione a scala nazionale al fine
di impedire ulteriori speculazioni sulla superstizione e sulla arretratezza culturale della
nostra gente. Credevano, gli ingenui toresi, che solo argomentazioni tecniche fossero
alla base della scelta, convinti che solo la maggiore o la minore singolarità e importanza
della notizia ne condizionasse il grado di diffusione, impararono invece a misurare con
altro metro, a confrontarsi con le preoccupazioni, le sofferenze e l’iniziativa di quanti,
rinunciando al compito di dare le notizie, assumevano quello non richiesto e gravoso
della tutela della immagine e del buon nome della Regione e dei corregionali.
I nostri uomini della strada, confusi, incerti, disorientati, cercarono risposte e
sicurezza nel numero, nella maggioranza, in chi la pensava come loro, nel partito del
credenti o in quello degli scettici, pretendendo un si e un no.
Miracolo?
A poco a poco cessarono il chiasso e il polveroso turbinio e con l’autunno tutto
rientrò nella normalità.2 Se un miracolo c’è stato ventitre anni fa a Toro, è stato il
miracolo del già ricordato restauro radicale della cappella, che introdusse diversi
elementi di novità: alcuni dei quali, nel rispetto dell’inventario settecentesco, qui in
precedenza trascritto, come il pavimento di cotto e il soffitto a cassettoni (sotto il quale,
purtroppo, è rimasto nascosto il San Rocco di Annunziato De Rubertis). In linea con lo
stesso documento, anzi ispirata specificamente dalla piantina allegata, è anche la
2 Abbiamo seguito in questa ricostruzione del “miracolo” a Toro un nostro articolo, A proposito
dell’apparizione a Toro, apparso non firmato, il 6 ottobre 1985, sul numero 27 del settimanale «Molise
Oggi».
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finestrella a mezza luna con il davanzale leggermente più lungo dell’arco, con la quale è
stato sostituito il precedente oblò, posto sulla porta di ingresso della Cappella, ben
ribadendo tuttavia quello che abbiamo già sottolineato, e cioè che nel Settecento c’era
una piccola nicchia a mezza luna con l’effige di San Rocco, non una finestrella. Più
controversa, invece, la scelta di riportare la facciata quadra con terminazione a linea
retta in una tradizionale facciata a spioventi, tanto più che la pianta dell’agrimensore
Jadanza resta abbastanza equivoca in proposito. Sia come sia, del restauro radicale si
incaricò, nel 1987, a due anni dall’apparizione, la famiglia dei costruttori Falcione, in
memoria del congiunto Luigi, come attesta la lapide dettata da chi scrive, posta sulla
parete sud della chiesetta (dalla quale parete era stata rimossa la lapide del 1957):
A.M.D.G.
QUESTA CHIESETTA
CHE LA DEVOZIONE POPOLARE ERESSE
IN ONORE DI SAN ROCCO
E MANTENNE NEI SECOLI DECOROSAMENTE
LA FAMIGLIA FALCIONE
VOLLE RESTAURARE E ABBELLIRE
IN MEMORIA DEL COMPIANTO LUIGI
MCMLXXXXVII
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Infine, nel maggio 2005, è stata benedetta la bella porta bronzea della chiesa, con
l’effige di San Rocco malato visitato dall’angelo. Fu realizzata a spese dei devoti dallo
scultore Piero Casentini, su proposta dell’artista Michele Paternuosto, torese di Roma.
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Per i toresi, e per i santroccari in particolare, la devozione verso il santo e l’affetto
per la chiesa a lui dedicata sono diventati forti al punto, come si diceva, da innescare la
leggenda dell’antichità del borgo e della chiesa, reputata chiesa parrocchiale addirittura,
quasi a voler dimostrare che sono i santroccari e non altri i toresi veraci. Abbiamo visto
che le cose non stanno proprio in questi termini, ma si perdona volentieri e di buon
grado ai nostri concittadini che obbediscono a uno slancio di devozione e di affetto per
San Rocco e per la sua minuscola chiesa.
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IV – APPENDICE.
1. A dimostrazione della popolarità di San Rocco a Toro, va ricordato che Nicola
Iacobacci (1935, vivente), affermato poeta e scrittore nativo del nostro paese, dal
quale è andato via a nove anni, nel 1944, aveva intitolato alle Coste San Rocco la
poesia che dà il titolo al libro della raccolta pubblicata a Milano nel 1974 dalla
casa editrice La Prora.
Dov’è il cavallo a galoppo
che corre alla fonte
delle Coste San Rocco;
e quel ragazzo dai piedi scalzi,
in groppa, le mani nella criniera,
il cuore tra le pietre del viottolo!
L’ombra del mattino cresceva
sotto le ali nere del falco
nei mucchi di fieno
sulla serpe bagnata di lumache.
Il vento gioca nei canneti
come il pastore che trae dalle labbra
un suono di metallo.
E il vento è la voce dei morti
che sussurra parole antiche
e gonfia bacche di querce
per il collo di ragazze.
Sull’altura
dove i briganti armati d’archibugio
tornano, di notte, ad appostarsi al gréppo,
la vecchia canta la sua nenia
e dagli occhi di pietra
della fanciulla rapita
sgorga la fonte verde di muschio e di memorie.
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2. Nel romanzo L’unghia incarnita, Fratelli Conte, Napoli 1992, Nicola Iacobacci
immagina per la cappella di San Rocco una fondazione leggendaria, innestata su
avvenimenti tragici che hanno contraddistinto la storia di Toro: carestie e terremoti.
Viveva in paese in un grande palazzo fra tante case piccole e scure un
signore ricco e potente. Appena il sole sorgeva, bagnava di luce l’ampia
terrazza che correva intorno tra archi e ringhiere. E vasi di fiori e stucchi sulle
cornici del tetto dove le rondini posavano il volo. C’era stato suo padre, in
paese. E suo nonno. Nello stesso palazzo. Tra sete e broccati. E nespole fuori
stagione.
C’era un signore. E uomini. E muli. Nei campi. Per la stanchezza del
giorno. E il signore era sempre più ricco. E gli altri sempre più poveri. Povertà
e ricchezza. Alberi che hanno in comune la stessa radice. Il ricco aveva ampi
granai. E gli altri una madia con crusca e poca farina. E ghiande per la fame del
giorno.
Non era una favola. Una semplice favola per tener buoni i bambini. A
giugno cominciò la pioggia. Sottile. Caparbia. Nuvole. Vento. Il grano stentava
a gonfiarsi nelle spighe appena formate. La primavera, gelida, continuava a
mordersi la coda. Poi la stagione, improvvisa, portò il caldo afoso. I contadini
sarchiavano il grano liberandolo dall’erba e dal loglio. Avevano una maglia di
lana e un fazzoletto a scacchi intorno al collo per asciugarsi il sudore. E una
ciotola di creta con un sorso di vino. E cantavano. Per vincere il caldo. E
l’arsura. E una vita di stenti.
Ai primi di luglio il tempo indietreggiò come un cavallo imbizzarrito. Il
cielo si era chiuso in un sudario grigio. Tornò il vento. E la pioggia. Un volo
basso di corvi portò la tempesta. Tuoni. Lampi. E la pioggia si mischiò alla
grandine. E la grandine al vento. Nei campi giacevano le spighe abbattute dai
colpi di flagello. Il tempo non vede mai quel che succede. Passa. Come passano
le tortore. O il sole sopra le montagne.
In autunno i contadini tornarono a zappare. Ma non c’era grano per la
semina. Bastava che il signore ne desse un poco ad ognuno per vivere tutti in
un mondo più giusto. Ma il signore era ricco perché gli altri erano poveri. E i
poveri cambiarono la terra con il grano.
L’anno dopo, a luglio, un volo di corvi tornò sulla costa. E la terra tremò.
E le case crollarono. Crollò anche il palazzo con l’ampia terrazza e gli stucchi e
i vasi dei fiori.
Lo trovarono sotto una trave con un’ampia ferita al ginocchio.
Tre giorni durò il pianto in paese. Tre giorni e tre notti per i morti
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bruciati sopra cataste di legna. Anche sua figlia bruciò. Quando accesero il
rogo sentì uno strappo violento come se gli avessero tolto una parte del corpo.
Una costola. O il cuore. Per evitare contagi non si eressero tombe e sepolcri.
Solo cenere e fuoco. E i cipressi a ricordo dei morti.
Il ricco smaniava. Dalla ferita violacea usciva il sangue in un flusso
continuo. Cominciò la febbre. E il delirio. E vide San Rocco toccargli il
ginocchio. E guarì. E in onore del santo edificò la cappella (pp. 38–40).
3. Una ricerca di Donato Simonelli del 2008 ha legato l’usanza piuttosto recente del
convito di San Rocco a Toro alla vicenda miracolosa che, intorno agli Anni Venti
del secolo scorso, interessò una povera popolana, che abitava nei pressi della
cappella di San Rocco. Si chiamava Teresinella de Tjtte (di Titta, Giambattista),
madre di cinque figli. “La sua famiglia versava in condizioni molto misere e la
donna incontrava grandi difficoltà a portare avanti la sua prole, anche perché era
malata di epilessia…”.
Un giorno, Teresinella, come era consuetudine del tempo, era intenta a
cuocere, sul fuoco acceso nel camino, la verdura nell’apposita caldaia di rame,
tenendo in braccio la figlioletta più piccola. All’improvviso ebbe un attacco
epilettico e finì col braccio nell’acqua bollente, riportando una seria
menomazione alla mano destra. La bambina fortunatamente non ebbe alcuna
conseguenza.
La donna, anche in questo stato, non si perse d’animo e cercò nel
migliore dei modi di andare avanti.
Una notte sognò San Rocco il quale le ricordò il pericolo scampato dalla
bambina e l’avvenimento dell’acqua bollente e le chiese di preparargli un
piatto di fagioli, uno di verdura e uno di maccheroni con la mollica di pane.
La donna rispose subito, con grande rammarico, che, pur volendo, non
era in condizione di poter esaudire la richiesta del santo, perché non possedeva
nulla, tanto da non poter sfamare adeguatamente neppure i propri figli.
Il Santo, a tal punto, le ordinò di fare una questua, in suo nome, per tutto
il paese e aggiunse che sicuramente la gente sarebbe stata molto generosa e lei
avrebbe potuto soddisfare non solo il suo desiderio, ma avrebbe raccolto tanto
cibo per sfamare a lungo anche i suoi figli.
La donna fiduciosamente seguì le indicazioni avute in sogno e nei giorni
successivi si mise in giro per la questua.
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Tutto avvenne come le era stato predetto dal santo.
Con molta solerzia preparò il pranzo così come richiesto e lo condivise
non solo con tutta la sua famiglia, ma con tante altre persone bisognose.
In seguito altre famiglie, per grazie ricevute, seguirono il suo esempio.
Nacque così il convito di San Rocco, con la finalità di avere a tavola
come commensali persone povere e bisognose del proprio paese e il forestiero
che, senza preventivo invito, si presentava in quella casa.
Intorno agli anni Sessanta un’altra donna torese raccontava di sognare
spesso S. Rocco che chiedeva di diffondere maggiormente la devozione del
convito. Molti raccolsero l’invito della donna e, dal momento che le condizioni
economiche erano migliorate, fu modificata la caratteristica iniziale del
convito: alle tre pietanze originali ne furono aggiunte altre, tra cui gli spaghetti
con le acciughe e il baccalà origanato.
La tradizione del convito si è protratta per tanti anni, ma nell’ultimo
periodo, a causa, forse, del ricambio generazionale, solo pochissime famiglie la
mantengono ancora in vita.