albona. un centro urbano dell'istria veneta

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AlbonaUn centro urbano dell’Istria veneta

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CIP - Katalogizacija u publikaciji / Catalogazione Sveučilišna knjižnica u Puli / Biblioteca universitaria di Pola

UDK 343.123(497.5 Labin)”1757” 316.3(497.5 Labin)”17” 94(497.5 Labin)”.../17”

DE Luca, Lia Albona : un centro urbano dell’Istria veneta / <autore Lia De Luca ; redattore Tullio Vorano>. - Albona : Unione italiana Comunità degli Italiani “Giuseppina Martinuzzi”, 2014.

Bibliografija: str. 143-151.

ISBN 978-953-97919-5-5

1. Vorano, Tullio

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Ai miei genitori

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1 Presentazione

2 Premessa Abbreviazioni

3 Introduzione

4 L’Istria 4.1 La penisola istriana 4.2 Un breve accenno alla storia dell’Istria 4.3 L’Istria divisa fra Marchesato e Contea 4.4 L’Istria veneta 4.5 Il Settecento

5 Albona 5.1 L’albonese 5.2 La storia della città 5.3 Gli Statuti municipali di Albona 5.4 Il tramonto del patriarcato 5.5 Sotto l’ala del leone di San Marco 5.6 Il XVI e il XVII secolo 5.7 Il XVIII secolo

6 Il processo per insurrezione svoltosi ad Albona nel 1757 6.1 L’antefatto 6.2 Il processo con Rito segreto del Consiglio dei Dieci 6.3 Il processo 6.4 Il livello 6.5 La deposizione di Baldissera Manzoni 6.6 La deposizione di Zuanne Dragogna 6.7 Alla ricerca della verità 6.8 La relazione del capitano e podestà di Capodistria

7 Le questioni emerse dal processo 7.1 La comunità 7.2 La lingua e gli interpreti

Sommario

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7.3 Altri mediatori 7.4 La testimonianza 7.5 La sentenza 7.6 Cenni di diritto veneto

8 Conclusioni

9 Trascrizioni e appendici 9.1 Trascrizione della lettera del Podestà Zuanne Bragadin 9.2 Trascrizione della supplica dell’Università del Popolo 9.3 Terminazione Civran 1632 9.4 Relazione del Podestà e Capitano di Capodistria Lorenzo Paruta 9.5 Gli abitanti di Albona 9.5.1 La popolazione di città 9.5.2 La popolazione di campagna 9.5.3 I funzionari di Capodistria ad Albona per il processo 9.6 Serie completa dei Podestà veneti di Albona e Fianona 9.7 Cronologia istriana 9.8 Carta dell’Istria 9.9 Carta del contado di Albona

10 Bibliografia 10.1 Saggi 10.2 Monografie 10.3 Altre fonti

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Il saggio di Lia De Luca si pone su un filone di studi storiografici di estremo interesse, volto ad indagare la fisionomia di una comunità alla luce soprattutto delle fonti processuali e giudiziarie. Un approccio non sem-plice e non scontato, in quanto la documentazione processuale tende per lo più a cogliere conflitti e tensioni nell’ambito di una comunità, a discapito di valori più diffusi e consolidati che si individuano nel suo tessuto consuetudinario. E se è indubbio che il conflitto fa emergere a tutto tondo talune contraddizioni e contrap-posizioni che attraversano alcuni aspetti importanti della vita di una comunità, soprattutto sul piano politico e religioso, è pur vero che la dinamica conflittuale tende comunque sempre a ricomporsi in quel sistema di valori e di credenze cui, nel suo complesso, fa riferimento la società che la contraddistingue. Il mito e più in generale, l’ordine ideale, come l’ha definito un noto antropologo, tendono infatti a contenere le tensioni esistenti nell’ambito di una comunità, sottolineando i valori culturali, politici ed economici che pongono in relazione gli individui o che li differenziano, nel loro insieme, nei confronti dell’esterno.

Tali aspetti appaiono tanto più rilevanti se riferiti ad una comunità istriana, caratterizzata per lo più da una dimensione culturale alquanto variegata e contraddistinta, sul piano linguistico e giuridico, da rilevanti differenziazioni sociali che agivano evidentemente in profondità sulla stessa sua dimensione politica.

La vicenda che si svolse ad Albona sul finire degli anni ’50 del Settecento è di estremo interesse in quanto la gestione di ben precisi interessi economici detenuti dai maggiorenti locali, furono contestati sul pia-no giuridico e giudiziario dal mondo popolare e contadino. Sullo sfondo il duro contrasto tra città e campagna e il diritto da parte dei rappresentanti di quest’ultima di eleggere i propri rappresentanti (zuppani). Ma pure l’atteggiamento assai poco prudente del rappresentante veneziano (il podestà), che era improvvidamente intervenuto per contenere le tensioni tra nobili e contadini, procedendo all’arresto di alcuni rappresentanti del territorio e manifestando, in tal modo, la sua contiguità politica con l’élite locale.

Le rimostranze popolari e l’inquietudine diffusasi nell’ambito della comunità spinsero il Consiglio dei Dieci ad avviare un processo inquisitorio, affidandolo al podestà di Capodistria Lorenzo Paruta. L’indagine giudiziaria, provvista dei requisiti della segretezza e dei poteri discrezionali assegnati al giudice, mise in rilievo le forti tensioni esistenti nell’ambito della comunità e del territorio, ma fece pure emergere alcuni dei suoi principali protagonisti e talune dinamiche culturali ed istituzionali che contrassegnavano la società di Albona intesa nella sua accezione più ampia.

Il coinvolgimento di protagonisti provenienti dal mondo rurale fece emergere le diversità culturali e linguistiche che, più in generale, caratterizzavano la società istriana dell’epoca. Diversità che, tra l’altro, sotto-linearono la necessità e l’importanza del ruolo dell’interprete. Le rappresentazioni del conflitto furono in tal modo accolte nell’ambito dello scontro processuale all’insegna della diversità e del pluralismo culturale. Ma l’evidenziazione delle diversità linguistiche e culturali interne passò in secondo piano rispetto alle più profon-de divisioni sociali ed economiche, che evidentemente non potevano essere semplicemente contrassegnate dall’opposizione tra città e contado, oppure tra le lingue prevalentemente utilizzate nei due contesti.

In realtà l’emergere del conflitto nell’ambito della comunità delineò chiaramente gli ambiti sociali ed economici del contendere: una caratteristica che è possibile scorgere nelle contrapposizioni interne delle

1 Presentazione

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comunità di antico regime, in cui diritti, pretese, rivendicazioni, si giocavano soprattutto nell’ambiguo versante giuridico consuetudinario, nel quale tradizione ed innovazione contrassegnavano in realtà le trasformazioni avvenute nel contesto sociale che le racchiudeva. La fisionomia culturale e l’espressione linguistica dei prota-gonisti assumevano un certo valore nella misura in cui le rappresentazioni simboliche della comunità, intesa nel suo insieme, perdevano la loro pregnanza sotto la spinta di interessi particolari e circoscritti ad alcuni gruppi più ristretti. Che è quanto avvenne nel corso del conflitto che portò alla formazione del processo stu-diato con attenzione e competenza da Lia De Luca. La sua ricerca ha il merito di aver riproposto la complessità di un conflitto e la fisionomia culturale di una comunità istriana nell’ultimo secolo di vita della Serenissima.

Claudio PovoloUniversità Ca’ Foscari di Venezia

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2 Premessa

Questo mio lavoro ha avuto inizio con l’analisi dettagliata del processo per insurrezione svoltosi ad Al-bona nel 1757. Partendo dal procedimento penale ho approfondito la mia conoscenza della comunità locale, in modo da inquadrare il più possibile gli avvenimenti.

L’opera che segue è basata sulla mia tesi di laurea specialistica in storia della società europea dal medioevo all’età contemporanea: “Un centro urbano dell’Istria veneta. Conflitti e giurisdizione ad Albona nel Settecento”, discussa il 31 marzo 2008 presso l’Università Ca’Foscari di Venezia, relatore il professor Claudio Povolo. Il saggio: “Giurisdizione, cultura e conflitti ad Albona intorno alla metà del Settecento” basato sulla tesi, è stato pubblicato in Acta Histriae, 18, 2010, 4, pp. 937-960.

Durante le mie ricerche mi sono imbattuta in un ostacolo per me insormontabile, una parte della bibliografia sull’argomento è stata scritta in lingua croata o slovena. Non conoscendo nessuna di queste due lingue sono stata costretta, purtroppo, pur conoscendo l’esistenza di alcuni lavori, ad avvalermi unicamente di testi scritti o tradotti in italiano, inglese o tedesco. Di conseguenza la mia bibliografia risulta in parte incom-pleta. Mi scuso pertanto con gli autori croati e sloveni, che hanno scritto opere su questi argomenti, per aver trascurato i loro lavori nella stesura del mio elaborato.

Venezia, 24 gennaio 2014

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Archivi e biblioteche:

ASTRS Archivio di Stato di TriesteASV Archivio di Stato di VeneziaBMCV Biblioteca del Museo Civico Correr di VeneziaDAP Državni arhiv Pazin (Archivio di Stato di Pisino)

Riviste:

ACRSR Atti del Centro di Ricerche storiche di Rovigno AMSI Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia patriaASIM Annales, Annali di studi istriani e mediterranei

Altre:

b(b.) busta/eb. cit. busta citatac(c.) carta/ef. filzam.v. More venetoop. cit. opera citatap(p.) pagina/ev verso

Abbreviazioni

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La mia indagine è iniziata con la lettura approfondita dei tre tomi che compongono il processo penale per insurrezione, svoltosi ad Albona nell’estate del 1757. Volevo ricostruire, attraverso quelle pagine, le vicen-de che avevano coinvolto duecento cinquant’anni fa quella comunità, inserendomi in un filone di studi che tende a considerare il diritto - i documenti che da essa derivano - come letteratura, materiale di grande inte-resse per la ricostruzione storica. In quest’ottica ogni testimonianza diviene un tassello, un punto di vista sugli avvenimenti, la somma delle prospettive dovrebbe permettere allo storico di intravedere l’intero mosaico.1

Il fattore scatenante di tutti gli avvenimenti di quei giorni2 fu una causa civile, allora in corso presso il tribunale della Quarantia Civil Nuova a Venezia, per la riduzione dei tassi d’interesse sui livelli. I contadini di Albona, riuniti nell’Università del popolo, avevano supplicato il Pien Collegio3 di stabilire per legge i tassi d’interesse, in modo da limitare l’arbitrio dei creditori. I signori di Albona, i maggiorenti locali, che prestavano denaro in forma di livello, utilizzarono il nome della comunità cittadina per intentare una causa che fermasse, o almeno intralciasse, la supplica dell’Università del popolo. Questa causa era ancora in corso nell’aprile del 1757, quando l’elezione dei nuovi rappresentanti dei contadini – i procuratori – portò in città quei disordini, ricostruiti, con grande perizia, dal capitano e podestà di Capodistria Lorenzo Paruta, nel processo penale da me esaminato.

Oltre allo scontro sui livelli4, che vedeva contrapposti i creditori locali, sia nobili del Consiglio cittadino sia contadini arricchiti, a coloro che avevano contratto debiti con il sistema dei livelli, molti altri argomenti emergono dalle deposizioni rilasciate durante il processo.

Nel territorio di Albona si parlavano due lingue, una era il veneziano - diviso in dialetto istro veneto e lingua dei rappresentanti della Serenissima - l’altra era il dialetto ciacavo, nei documenti indicato come lingua illirica, una lingua di matrice slava. Più testimoni dimostrarono di comprendere entrambe le lingue, ma fino a che punto si estendeva la loro conoscenza, erano forse bilingui? I signori erano in grado di capire la lingua dei contadini e al contrario gli abitanti delle ville in che rapporti erano con chi viveva in città? Tutte domande interessanti, cui il processo parzialmente risponde, ridandoci un affresco molto vivo delle dinamiche sociali della popolazione albonese. Tra le parole dei testi ascoltati dalla giustizia, emergono rapporti sociali, legami di

3 Introduzione

1 “A witness’s story usually furnishes discrete pieces in a mosaic whose overall shape emerges only as the trial progresses.” Paul Gewirtz, “Narrative and Rhetoric in the Law”, in “Law’s stories”, di Brooks e Gewirtz, Yale University Press (1998) , p.7. “Si può ritenere che il testimone narri una storia, e che comunque una storia possa essere ricostruita sulla base dei verbali dell’interrogatorio” Michele Taruffo, “La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti”, Editori Laterza, Bari, 2009, p. 50.

2 Gli avvenimenti che portarono al processo penale - l’arresto di due rappresentanti dei contadini e l’insurrezione che ne ottenne la liberazione - sono ampiamente descritti nei capitoli che seguono.

3 Il Pien Collegio era composto dalla Signoria (il Doge, i sei consiglieri ducali e i tre capi della Quarantia criminale), dai sei Savi del Consiglio o Grandi, dai cinque Savi di Terraferma e dai cinque Savi agli Ordini. Era un organo giudiziario di grande rilievo, dalle competenze assai vaste. [Povolo, “Processo a Paolo Orgiano”, Roma, Viella, 2003, pp. 645 e 647.] Il Pien Collegio era “il trono della pubblica Maestà ove si dispensano le grazie, e si giudicano materie in via deliberativa, e giudiziaria” Argelati “Pratica del Foro veneto”, Venezia, 1737, fotoriproduzione per la Biblioteca nazionale di San Marco, presso ASV, p.97.

4 Il punto 6.4 di questo elaborato approfondisce l’argomento, chiarendo cosa fossero i livelli ed il ruolo svolto dagli stessi nella società albo-nese.

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parentela e anche gerarchie interne alle stesse ville. S’intravede un’articolata struttura amministrativa che por-tava le lamentele, anche dei contadini che vivevano nei borghi più isolati, al podestà di Albona e attraverso di lui alle autorità veneziane. La campagna non appare come un sistema inerme soggetto ai soprusi dei signori di città, lo stesso processo penale è una prova della capacità di far valere la propria voce, tipica dei contadi, con una forte coesione interna. Dietro ai contadini s’intuisce l’intervento guida di un avvocato, abbastanza bravo, da destreggiarsi con le magistrature veneziane. Portare avanti una causa civile era molto dispendioso, sia per il costo della causa in sé che per il mantenimento a Venezia di coloro che se ne occupavano. La congiuntura economica non era poi così negativa o qualcuno finanziava la causa per scopi personali?

Il processo riporta alla luce un mondo in cui due culture, molto diverse, convivevano ogni giorno, a volte scontrandosi, a volte stabilendo una pacifica collaborazione.

Ho pensato d’introdurre l’argomento con un accenno di storia istriana, in modo da fornire una cornice generale agli avvenimenti emersi dal processo. Dedico poi un capitolo alla città di Albona e alla sua storia, partendo dalle origini fino alla metà del Settecento, anni in cui si svolse l’insurrezione, ricostruisco i momenti più significativi della storia albonese, la nascita del comune, la stesura degli Statuti cittadini, la dedizione a Ve-nezia, etc… Passo poi all’argomento centrale del mio scritto, al processo per insurrezione dedico due capitoli; nel primo ricostruisco gli avvenimenti, attraverso testimonianze e documenti ufficiali nel tentativo… spero di ricreare gli eventi come li vissero i protagonisti, in modo da riportare il lettore, anche se solo per un attimo, tra le sale del palazzo del podestà; nel secondo capitolo dedicato al processo, invece, sviluppo, articolandoli meglio, tutti quegli argomenti teorici appena accennati tra le deposizioni. Tratte le conclusioni, ho pensato di allegare allo scritto la trascrizione, di quelle parti del processo che mi sono sembrate più rilevanti, come la supplica del popolo e la lettera del podestà, che diedero il là al procedimento penale. Ho poi ricostruito, nell’appendice con il titolo Albona nel 1757, gli abitanti del comune e del contado, come emergono dal pro-cedimento penale, in modo da renderne immediata l’identificazione. Ho suddiviso gli individui per luogo di residenza e mansione, dove possibile ho aggiunto l’età; ho inoltre contraddistinto con il segno (t) tutti quei testi che, durante la loro deposizione, richiesero un’interprete. In appendice si trova anche una lista con tutti i podestà che ressero la carica ad Albona e i relativi anni di attività. Per ultimo ho pensato di inserire una tabella con i principali avvenimenti storici che coinvolsero il territorio istriano.

Ricordo qui che l’anno veneziano (more veneto) iniziava in marzo e terminava in febbraio, mentre le ore della giornata si contavano dal tramonto, per mantenere inalterato lo scorrere degli avvenimenti ho con-servato questa suddivisione temporale.

Oggi Labin (Albona) è un comune croato di circa 9.000 abitanti. Nel secolo scorso, grazie all’attività mineraria, la città si è sviluppata ai piedi del monte, così che il centro storico (Stari grad), racchiuso nelle vec-chie mura, è rimasto quasi inalterato. Sono ancora visibili numerosi edifici citati nel processo, come il palazzo Pretorio, sede del podestà, la Loggia o la Porta della città. Oggi il comune è suddiviso in diciotto insediamenti,5 altri abitati fanno oggi comune o rientrano sotto un’altra amministrazione. Il centro storico di Albona è uno dei meglio conservati dell’Istria.

5 Albona (Labin), Bartici (Bartići), Cappelletta (Kapelica), Crainzi (Kranjci), Fratta (Presika), Gondali (Gondolići), Glussici (Gora Glušići), Mar-cegliani (Marceljani), Montagna (Breg), Portalbona [o Porto Rabaz] (Rabac), Portolungo (Duga Luka), Ripenda Cossi (Ripenda Kosi), Ripenda Carso (Ripenda Kras), Ripenda Verbanzio (Ripenda Verbanci), Rogozzana (Rogočana), Salaco (Salakovci) e Vines (Vinež).

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L’Istria è la più grande penisola dell’Adriatico, un triangolo posto tra i golfi di Trieste e Fiume, di poco più di tremila chilometri quadrati. La sua larghezza massima è di quarantanove chilometri, da Parenzo al Mon-te Maggiore. Il punto più lungo, centosedici chilometri, si calcola da Capo Promontore a San Giovanni di Tuba. La regione non ha mantenuto confini politici inalterati nel corso della sua storia, a volte si trovava riunita sotto lo stesso governo, a volte separata da più confini. Durissime guerre combattute nel novecento hanno portato alla divisione attuale. Oggi tre Stati sovrani si dividono il territorio. La parte maggiore della penisola appartie-ne alla Repubblica Croata, la costa da Pirano a Capodistria, con il relativo entroterra è suolo della Repubblica Slovena. La città di Trieste6 è oggi provincia italiana. La storia della penisola è costellata di dure battaglie e di convivenze, più etnie si sono sempre trovate a coesistere, in quel piccolo fazzoletto di terra.

“L’Istria è una vecchia terra le cui origini, il nome ed i primi abitanti sono nella leggenda.” 7

I primi insediamenti nelle grotte del Carso risalgono al periodo Paleolitico. Tito Livio parlò degli istri come di un popolo preindoeuropeo di origine mediterranea.8 L’Istria, punto d’incontro di tre grandi vie com-merciali,9 beneficiò già nei secoli molto lontani di un vivo commercio terrestre e marittimo. Non c’è accordo tra gli storici sulle origini del popolo istriano. I romani si comportarono con l’Istria come con le altre terre di conquista, v’imposero tasse ed espropri e col tempo v’importarono cultura ed amministrazione. Le prime co-munità cristiane fecero la loro comparsa in Istria verso la seconda metà del terzo secolo. Anche nella penisola, la chiesa regolò la propria circoscrizione territoriale in corrispondenza di quella politica. Dove mancavano le magistrature normali, i vescovi assunsero anche funzioni giurisdizionali, aumentando la loro influenza ed il loro potere. Nel corso dell’ottavo secolo i longobardi, approfittando del caos generato dalle lotte interne fra

4 L’Istria

4 .1 La penisola istriana

6 Nella mia breve esposizione della storia dell’Istria, la città di Trieste sarà presa in considerazione solo quando direttamente coinvolta negli avvenimenti della regione.

7 Alberi D.,“Istria storia, arte e cultura”, Lint, S. Dorlingo della Valle (TS), 2006, p. 4.

8 Tito Livio chiamò gli istri “pelasgici” e li considerò una popolazione emigrata dalla Tracia, dall’Istria Pontica e dall’Egeo, che navigando lungo l’Adriatico, si fosse spinta sino alla penisola istriana cui diedero il nome Istria in ricordo della loro terra natia. Cfr. Alberi, “Istria storia, arte e cultura”, op. cit., p. 9.

9 Dalle zone baltiche proveniva la preziosissima ambra, scambiata in Istria con vini, vasi e anfore provenienti dal sud e con l’altrettanto pregiato sale locale.

4.2 Un breve accenno alla storia dell’Istria

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bizantini, s’impadronirono dell’intera Italia e nel 751 anche dell’Istria. Nel 788 Carlo Magno s’impossessò della regione. La penisola fu da allora soggetta all’impero carolingio e in seguito a quello germanico. La signoria franca introdusse in Istria il sistema feudale.10 Con il passare dei secoli, s’intensificarono i rapporti tra le città costiere istriane e Venezia. Interessi e benefici comuni avvicinarono i mercanti delle due sponde dell’Adriatico.11 Tra il 1040 ed il 1070, Enrico III infeudò ad Ulrico I della casa di Weimar la Carniola e l’Istria, creando così la “Marchia Histriae”.12 Numerosi slavi della Carniola, fedeli ai signori germanici, vi si trasferiro-no come coloni. Il duca Lodovico di Baviera nel 1209 rinunciò alla Marca, cedendola al patriarca di Aquileia Volchero. Con l’aumentare del potere veneziano in Dalmazia e nel Levante, cresceva anche il desiderio dei dogi di stringere il vincolo con le città dell’Istria. Tra il 1150 ed il 1180 ogni municipio istriano scelse una sua diversa forma di autogoverno.13 “Il Comune venne costituito nel 1186 a Capodistria, nel 1192 a Pirano, nel 1194 a Parenzo, nel 1199 a Pola, nel 1202 a Trieste e a Muggia.”14 Il secolo fu travagliato da una serie infinita di guerre comunali, che coinvolsero le maggiori città della costa. Il patriarcato, privo dell’appoggio imperiale, era una potenza in lento declino, stretta tra le mire espansionistiche di Venezia e dei suoi stessi avvocati, i conti di Gorizia. L’instabilità regnava sovrana, le guerre tra comuni erano continue e le alleanze cambiavano secondo il bisogno. Nel 1267 Parenzo, temendo Capodistria e i conti di Gorizia, fu il primo comune a votare la dedizione a Venezia. Il senato accettò alle stesse condizioni delle altre terre venete e la città fu annoverata tra i dodici reggimenti della Repubblica. Nulla cambiò nelle istituzioni interne del comune, cessarono solo le cariche di nomina patriarcale, cioè il gastaldo ed i suoi giudici, ed il podestà iniziò ad essere inviato direttamente dal senato veneziano.15 Per tutto il trecento continuarono, con alterne fortune, le guerre tra patriarchi, veneziani e conti di Gorizia. Gli Asburgo approfittarono della debolezza del patriarcato e delle ristrettezze economiche dei

10 Il modo rapace assunto dal duca Giovanni nell’amministrare la penisola, con la connivenza dei vescovi, indusse il patriarca Fortunato di Grado a convocare un’assemblea al Risano nell’anno 804, alla quale presero parte anche messi dell’Imperatore, in cui gli istriani poterono esprimere le loro lamentele ed ottenere una parziale soddisfazione. Per ordine imperiale furono ripristinate le magistrature bizantine, ma solo nei comuni. L’antica consuetudine sopravvisse così nella città, mentre nelle campagne prevalse il sistema feudale. Alcuni villaggi contadini si unirono in “vicinia” riuscendo a mantenere un certo autogoverno; sotto un proprio meriga, gli abitanti continuarono a vivere come coltivatori liberi e non diventarono servi della gleba.

11 Nel 932, furono gli abitanti di Capodistria i primi a rendere omaggio ad un doge veneziano, Candiano, con un tributo di 100 anfore di buon vino ad ogni vendemmia. È del 14 gennaio 932 il “pactum Justinopolitanus”, scritto e firmato dal notaio Georgius con il consenso del popolo. L’atto, scritto in latino, reca il nome di 58 sottoscrittori. Cfr. Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, Collana degli ACRSR, n.14, Venezia-Rovigno, 1997, p.123; Kandler, “Codice diplomatico istriano”, Tipografia Riva, Trieste 1862-65.

12 Il Marchesato fu inizialmente officio, divenne poi beneficio, eredità dinastica e passò infine ai patriarchi di Aquileia. Come officio fu elettivo dal 984 circa fino al 1026. Da quest’anno fino al 1077, fu beneficio a vita; poi fino al 1230 fu ereditario. In Amati e Luciani, “L’Istria. Sotto l’aspet-to fisico, amministrativo, storico e biografico”, Dottor Francesco Vallardi Tipografo-Editore, Milano, 1867, p.17. Per informazioni più dettagliate sui “passaggi di mano” della marca istriana si veda Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., p.128 e successive; Alberi, “Istria storia, arte e cultura”, op. cit, p.35-43.

13 Per le differenti forme di autogoverno delle singole città si veda Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., p.168-169; Alberi nella sua guida sull’Istria dedica ampio spazio alla storia militare e culturale dei centri, anche piccoli, della penisola.

14 Darovec, “Rassegna di storia istriana”, Edi.italiana, Società Storica del Litorale, Capodistria, 1993, p.29.

15 Nel 1269 si dette a Venezia Umago; nel 1271 toccò a San Lorenzo e a Cittanova; nel 1275 fu il turno di Montona, anche se con qualche riser-va. Dopo una breve guerra con il conte di Gorizia si arresero anche Isola e Capodistria, la cui dedizione a Venezia avvenne nel 1279. Nel 1283 fu la volta di Pirano e Rovigno. La Serenissima governava così tutta la costa occidentale istriana, tranne Trieste e Pola. L’interno era territorio dei conti di Gorizia, mentre la costa orientale era divisa tra i conti ed il patriarca di Aquileia. Pola entrò nell’orbita veneziana nel 1331. Mentre Trieste si legò agli Asburgo. Per l’Istria veneta si veda Ivetic E. “L’Istria Moderna” 2010, pp. 36-44, le dedizioni a pp.19-20.

15

conti di Gorizia, per accrescere la loro influenza nell’area. Con un’abile politica diplomatica il casato austriaco “conquistò” parte dell’Istria.16 I continui conflitti tra le tre potenze portarono in Istria continue irruzioni di eser-citi, alle quali si aggiungevano le battaglie locali e le malattie, così per la prima volta, nella seconda metà del Trecento, Venezia approvò un piano per il ripopolamento della terra istriana, promettendo l’esenzione dalle tasse per cinque anni a tutti i nuovi coloni. La fine del patriarcato, che sopravvisse come ente ecclesiastico, ma perse ogni potere temporale, avvenne con la conquista di Aquileia da parte delle truppe veneziane.17

4.3 L’Istria divisa fra Marchesato e Contea

Dalla caduta del patriarcato di Aquileia, Venezia controllò il Marchesato d’Istria, mentre l’Austria la Contea d’Istria unita alla città di Trieste. I due territori seguirono, dalla divisione in poi, il destino dello Stato di cui erano diventati parte. L’area veneta18 si legò alle sorti della Repubblica fino alla sua fine nel 1797, anno in cui i due territori si trovarono nuovamente riuniti, questa volta sotto l’Aquila austriaca. La “zona austriaca”, estesa nell’Ottocento, come detto poco sopra, a tutta l’Istria, subì l’influenza di Vienna fino alla prima guerra mondiale. Il Novecento portò con sé nuove guerre e nuovi padroni. In questo momento i territori finora presi in considerazione si trovano divisa fra tre Stati. Trieste e poco territorio confinante appartengono all’Italia, la costa da Capodistria a Portorose, con tutto il relativo entroterra è territorio sloveno, mentre il restante suolo istriano da punta Salvore ad Abbazia è parte della Repubblica Croata.19 Con la creazione dell’Unione Europea e l’adesione della Repubblica Slovena alla stessa, nel dicembre del 2007, è stata abolita la dogana tra lo Stato Italiano e quello Sloveno, permettendo così la libera circolazione di uomini e merci. Il primo luglio 2013 anche la Croazia è entrata nell’UE .

16 Nel 1364 gli Asburgo strinsero con i conti di Gorizia un trattato di fratellanza, che prevedeva la successione reciproca nei rispettivi territori, se fosse venuta a mancare la discendenza diretta. Anche il conte d’Istria Alberto IV si legò all’Austria con un trattato simile. Nel 1366 Ugo VI di Duino, con un atto di fellonia, si mise al servizio degli Asburgo. Nel 1374, alla morte senza eredi di Alberto IV, i beni del conte d’Istria passarono alla casa d’Austria, la quale nominò suddetto Ugo VI luogotenente. Per L’Istria asburgica si veda Ivetic E. “L’Istria moderna” 2010, pp. 45-52.

17 Il 19 giugno 1420 Filippo Arcelli, condottiero al soldo veneto, prese Udine, subito dopo Cividale ed il 5 agosto la stessa Aquileia. Si combatté anche in Istria, dove Venezia consolidò i suoi possedimenti allargandoli verso l’interno.

18 Ai territori già soggetti alla Repubblica di Venezia si aggiunsero nel 1420 Albona e Fianona, e ad inizio cinquecento Barbana. Ivetic E. “L’Istria moderna” 2010, p.20.

19 È possibile farsi un’idea precisa degli attuali confini istriani e delle strade che attraversano la regione, consultando una cartina stradale; per esempio si veda “Atlante stradale d’Italia. Nord”, Touring Editore, Milano, 2001, carte 20 e 26. Per la suddivisione settecentesca rimando alla carta in conclusione all’elaborato e a Ivetic E. “L’Istria moderna” 2010, p. 6.

16

L’Istria veneta, o marchesato, dal punto di vista amministrativo era suddivisa in Città, Terre, Feudi,20

Ville e Castelli.21 Le sedi vescovili di Capodistria, Cittanova, Parenzo e Pola si fregiavano del titolo di Città.22

Solo i membri del consiglio di queste Città potevano avvalersi del grado di nobili, anche se tutti i “signori dei comuni” si consideravano cittadini, degni di onore e rispetto. Le Terre erano invece: Albona, Buie, Dignano, Fianona, Grisignana, Isola, Montona, Muggia, Pinguente, Pirano, Portole, Rovigno, San Lorenzo, Umago e Valle. Per diventare abitanti della città - non cittadini - era sufficiente risiedere nel comune per almeno cinque anni. La popolazione comunale si divideva in patrizi e plebei. L’irrigidimento dei vari consigli cittadini, su imitazione della Dominante, rese definitiva la divisione. I patrizi amministravano la vita del comune, finendo col considerarsi i veri “cittadini” in contrasto con i popolani ai quali la vita pubblica era solitamente preclusa.23 Ogni città o castello si rapportava direttamente con Venezia, non esisteva alcuna forma sovra comunale di controllo. In un secondo momento la Serenissima tentò di fare dell’Istria una provincia, accentrando alcuni poteri a Capodistria, ma gli scarsi mezzi messi a disposizione del podestà capodistriano rendevano velleitario ogni suo intervento. Ogni comune si reggeva su di un proprio Statuto, che di norma Venezia conservò il più possibile inalterato, usando principalmente le aggiunte, come sistema di revisione giuridica. A capo del co-mune vi era un nobile veneziano, di solito eletto dal Senato,24 con potere amministrativo e giudiziario. Costui era detto Podestà in tutti i comuni, tranne che a Pola, dove era chiamato Conte, ed a Capodistria dove al titolo di Podestà si univa quello di Capitano.25 La carica durava tra i sedici ed i trentadue mesi. Il podestà basava le sue decisioni sulle “Commissioni” ricevute a Venezia e sugli Statuti locali. Il podestà, con la sua piccola corte al seguito, “se era il primo volto dello Stato, era anche e comunque una goccia nel mare istriano: in nove casi su dieci per semplici motivi d’interesse economico doveva per forza adeguarsi a quelle che erano le regole informali della comunità.” 26

4.4 L’Istria veneta

20 Feudi maggiori erano Pietrapelosa e San Vincenti, feudi minori Momiano, San Lorenzo in Daila, San Giovanni della Cornetta, Piemonte, Ca-stagna, Visinada, Calisedo o Geroldia, Fontane, San Michele di Leme, Barbana, e Castel Rachelle, poi Castelnovo e Racizze. Ci furono anche feu-di dati in governo a città o castella vicine, come Castelvenere a Pirano o Torre a Cittanova. I feudi si regolavano con capitoli, patti e convenzioni.

21 I castelli, i principali sono Due castelli e Raspo, avevano statuti e rappresentanti propri, come le Terre.

22 Da qui in avanti userò il termine Città in maiuscolo quando mi riferirò esclusivamente ai quattro comuni sede vescovile, adopererò invece il termine minuscolo come semplice sinonimo di municipio o comune.

23 C’erano ancora delle occasioni particolari in cui il popolo era radunato in piazza ad esprimere la propria opinione e tutte le Ville soggette al controllo cittadino disponevano di procuratori e zuppani, con il compito di rappresentarle presso il podestà veneto. L’argomento sarà trattato in maniera più ampia coll’esempio del comune di Albona.

24 Nel caso del comune di Albona, dopo un periodo in cui era stato concesso alla Terra il grande privilegio di eleggersi il rappresentante, fu il Maggior Consiglio ad occuparsi periodicamente della nomina del podestà.

25 Il Podestà e Capitano di Capodistria doveva vigilare sull’intera provincia, anche se non dispose mai dei mezzi adeguati a compiere bene il suo incarico, era però l’unico rappresentante istriano autorizzato a corrispondere con l’estero. Cfr. Amati e Luciani, “L’Istria. Sotto l’aspetto fisico, amministrativo, storico e biografico”, op. cit, p.19.

26 Ivetic,“L’Istria moderna”, in ACRSR, n.17, Trieste-Rovigno, 1999, p.60.

17

Quando amministrava la giustizia civile e penale, era obbligato a consultarsi con i giudici locali, anche se non era poi tenuto a seguire i loro consigli. Solo a Pola il podestà presiedeva un consiglio di quattro giudici che prendevano collegialmente le decisioni di loro competenza. Si poteva fare ricorso in appello a Venezia presso gli Auditori. A causa delle numerose difficoltà riscontrate dagli istriani per recarsi nella capitale e per snellire il lavoro dei tribunali veneziani, nel 1584 il Maggior Consiglio decise di eleggere due nobili veneziani, che col titolo di consiglieri, dovevano coadiuvare il podestà e capitano di Capodistria nel tribunale d’appello detto Magistrato di Capodistria. Questo tribunale si occupò di giudicare in appello gli atti civili e criminali di tutti i rettori e iurisdicenti dell’Istria. Nel 1636 fu inoltre ingiunto al podestà e capitano di Capodistria di recarsi in visita per la provincia almeno una volta, durante i sedici mesi del suo mandato, coll’incarico di esaminare il comportamento dei podestà locali.27 Le funzioni di controllo sull’igiene pubblica, sull’edilizia e sul corretto funzionamento di strade e ponti, erano affidate ai rappresentanti della comunità. La custodia militare della città era assegnata a turno agli abitanti della stessa. Sottoposte alle municipalità, le ville costellavano le cam-pagne ed erano parte integrante del “sistema urbano”, nel senso che erano le ville a fornire provviste alla città, mentre la città procurava l’artigianato di base. Questi villaggi rurali, godevano di una limitata autonomia, di solito un consiglio dei saggi gestiva le questioni locali dell’intera comunità basandosi sulla consuetudine. Ogni villa nominava, con l’approvazione del consiglio comunale o del podestà, uno zuppano come portavoce delle istanze locali. Lo zuppano, detto meriga in alcuni luoghi, operava coadiuvato da due giudici, detti pozuppi. Per ogni mansione necessaria alla vita civile veniva eletto un responsabile, sia tra i cittadini che nelle ville sotto la giurisdizione del comune. Con il passare dei secoli i comuni prosperarono e le mansioni necessarie al fun-zionamento degli stessi si moltiplicarono. Ogni città in questo seguì una sua storia particolare,28 in tutti i centri maggiori fu istituito un fondaco per la raccolta del grano, si assunsero medici, maestri, fabbri e maniscalchi stipendiati dal comune, alla pubblica sicurezza furono preposti gli sbirri.

La parte veneta dell’Istria contava solo due grandi giurisdizioni feudali ecclesiastiche, Orsera e San Michele al Leme.29 I feudi istriani di una certa dimensione erano per la maggior parte di proprietà delle fa-miglie patrizie veneziane, il feudatario risiedeva stabilmente solo a Momiano, dei conti Rota, e a Racizze, dei Walderstein.30 L’Istria era di norma presidiata da un corpo di circa quattromila soldati reclutati in provincia, detti cernide o cerne. Questi contadini erano comandati da un generale e suddivisi in sei corpi diseguali, dislocati a Capodistria, Pinguente, Buie, Montona, Dignano ed Albona. Ogni cento uomini vi era un “capo di cento”.31 Galee, dislocate nei porti maggiori, avevano il compito di vigilare sulle coste e portare ordini o notizie.

27 Cfr Viggiano, “Note sull’amministrazione veneziana in Istria nel secolo XV”, in Acta Histriae III, Società storica del Litorale, Capodistria, 1994, pp.5-20.

28 L’evoluzione del comune di Albona è tratteggiata nel prossimo capitolo.

29 Orsera appartenne ai vescovi di Parenzo fino al 1778, quando fu incamerata dallo Stato veneto. San Michele a Leme restò invece di pro-prietà dei frati benedettini del monastero di San Mattia di Murano fino al 1772, quando fu acquistata dalla famiglia Coletti di Conegliano. Si veda Ivetic, “L’Istria moderna”, op. cit., p.37.

30 Ibidem

31 Era di stanza in provincia anche un corpo di bombardieri, c’erano artiglieri a Capodistria, a Pinguente, a Pirano ed a Pola. Un corpo di cavalleggieri, che variava tra i quaranta e i cento uomini, si posizionava di solito sulle alture di Raspo e Pinguente. La provincia forniva inoltre ad ogni occorrenza navi e marinai. In Amati e Luciani, “L’Istria. Sotto l’aspetto fisico, amministrativo, storico e biografico”, op. cit., p. 20.

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Le entrate del comune venivano da multe e dazi, differenti da città a città. Nel 1550 fu fondato a Capodistria il Sacro Monte di pietà, con lo scopo di prestare denaro ad un interesse fisso del sei per cento.32 Le antiche corporazioni dei mestieri, imitando la Dominante, si trasformarono in scuole laiche o confraternite; fondate per la devozione al santo cui erano dedicate, si occupavano principalmente di mutuo soccorso. Lo storico Benussi riporta nella sua opera, che queste scuole “erano molto diffuse in ogni luogo. Nell’Istria veneta nel 1740 se ne contavano 670”.33

Le Commissioni dei podestà contenevano le norme da seguire per il commercio marittimo, mentre gli Statuti delle singole città disciplinavano quello terrestre.34 Dalla provincia si esportavano principalmente vino, olio, legna, pietre e sale, in quantità minori anche biade, farine e legumi. La vendita del pesce fresco era libera in tutti i comuni, mentre quello salato doveva passare per Venezia. Per controllare i traffici, il podestà era tenuto a rilasciare ad ogni nave in partenza delle lettere, contenenti una minuziosa descrizione del carico, il veliero di ritorno da Venezia doveva riportare le rispettive “ricevute”, che attestassero l’avvenuta consegna delle merci. Il contrabbando era punito con il sequestro sia del carico sia del naviglio, mentre il contrab-bandiere rischiava da due a quattro anni di carcere più il bando.35 Evidentemente gli istriani non ritenevano particolarmente severe queste norme e i controlli potevano essere facilmente aggirati, perché il contrabbando fu sempre diffusissimo in provincia.36 Il criterio seguito dalle città per regolare i commerci nel loro contado, era quello di garantire viveri a sufficienza ai cittadini; ogni norma aveva l’obbiettivo di favorire l’affluenza di cibo verso il comune. A questo scopo ogni città, solitamente il giorno del santo protettore, organizzava una fiera franca, cui chiunque poteva partecipare senza pagare dazi di sorta.

La provincia doveva corrispondere a Venezia i cavalli del paisanatico, poi tramutati in quaranta soldi di grosso per cavallo,37 e la carratada, imposta che gravava sui buoi da lavoro.38

32 Il Monte di pietà doveva contrastare il potere dei prestatori di denaro privati di origini ebree. Già nel 1430 il governo aveva imposto un tasso d’interesse massimo del 20% sopra carta e del 15% per i pegni.

33 Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, p. 271.

34 Del diritto veneto e della sua applicazione nel territorio, anche istriano, parla approfonditamente Gaetano Cozzi in “Repubblica di Venezia e Stati italiani”, Giulio Einaudi editore, Torino, 1982, in particolare nel terzo capitolo “La politica del diritto nella Repubblica di Venezia”, pp. 238-242.

35 Ibidem

36 La popolazione istriana non percepiva nemmeno come reato il contrabbando, esso era visto come un modo di migliorare la propria vita, aggiungendo qualche soldo alle misere entrate agricole. In effetti, la stessa geografia istriana favoriva il contrabbando, le coste frastagliate e la fitta boscaglia erano difficili da controllare per le misere forza messe in campo dalla Serenissima (una nave sotto il podestà di Capodistria e spadaccini al soldo di privati, facilmente corruttibili o inclini alla violenza). Gli unici commerci severamente monitorati, non sempre con successo, erano il lucroso monopolio del sale e più tardi quello del tabacco, per il resto, tra podestà compiacenti ed omertà locale, si lasciava correre parecchio. Sul contrabbando cfr Ivetic,“Oltremare. Istria nell’ultimo dominio veneto”, ”, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia, 2000, pp.214-222; Bianco, “Contadini, sbirri e contrabbandieri nel Friuli del ‘700. La comunità di villaggio tra conservazione e rivolta (Valcellina, Valcovera)”, Edizione biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 1990 e sempre di Bianco, “Ribellismi, rivolte antifiscali e repressione della criminalità nell’Istria del ‘700”, in Acta Histriae III, Società storica del Litorale, Capodistria, 1994, p.164 e successive.

37 Quaranta soldi di grosso per cavallo per un totale di 352 soldi di grossi, corrispondenti a 176 ducati; Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., p.273.

38 I buoi dovevano aiutare i carregadori nel trasporto del legname diretto all’Arsenale di Venezia, il servizio sempre più gravoso causò però una drastica diminuzione dei bovini in Istria, costringendo la Serenissima a tramutare la prestazione in un tributo in denaro corrisposto da tutti gli abitanti.

19

Le città istriane godevano della cittadinanza veneziana “de extra” che comportava la protezione della Serenissima per persone e navi e la possibilità di negoziare nelle terre e negli scali commerciali veneziani, con tutti i diritti ed i privilegi ad essa connessi. Qualche cittadino particolarmente meritevole ottenne anche la cittadinanza “de intus” che comportava la possibilità di entrare negli uffici pubblici veneziani e di esercitare liberamente alcune arti principali.39

Il governo restava comunque saldamente nelle mani dei patrizi veneziani, i soli ai quali era concesso di accedere al Maggior Consiglio. Anche nei singoli comuni istriani l’ordinamento scivolò presto verso l’oligar-chia, concentrando nelle mani delle famiglie che sedevano nel consiglio comunale tutti i poteri. I popolani, anche se esclusi dalle decisioni, potevano far sentire il loro peso attraverso dei rappresentanti, i quali erano in grado d’influire sulla vita comunale, solo se avevano alle spalle una popolazione molto compatta.

Il territorio non soggetto alle dipendenze di una città o di un castello era detto campagna. La campagna si divideva in paesi (paise da cui paisenatico).

Già nel 1304 Venezia aveva nominato un “capitano del paisenatico” con sede a San Lorenzo al Leme. Questo capitano doveva gestire tutte le questioni militare inerenti la provincia istriana, a lui spettava il control-lo delle truppe - escluse quelle di Capodistria - la difesa della provincia ed il mantenimento dell’ordine e della sicurezza nelle campagne. In alcuni casi fungeva anche da autorità giudiziaria di seconda istanza.

Nel 1394 però, acquistato il castello di Raspo in posizione militarmente strategica, i veneziani vi sposta-rono il capitano.40

Oltre ad occuparsi degli incarichi che avevano contraddistinto il precedente capitanato di Leme, quello di Raspo era particolarmente tenuto a concentrarsi sulla difesa della provincia dagli ingombranti vicini asbur-gici. La presenza nel cuore della penisola di un territorio ostile alla Serenissima, dai confini spesso sfumati, com’era la contea asburgica, favoriva nei fatti il contrabbando, continui contrasti tra contadini e la fuga dei criminali. Tutti problemi che Venezia affrontò numerose volte nel corso del suo dominio.

Quando nel 1511 la sede del capitanato fu nuovamente spostata,41 questa volta a Pinguente, il titolo rimase invariato.

Il Cinquecento si aprì con le guerre d’Italia, che sconvolsero per decenni la penisola. Durante gli anni più neri della Repubblica, in guerra con la Lega di Cambrai cappeggiata da Massimiliano I, l’Istria rimase aperta all’invasore, gli eserciti nemici dilagarono per le campagne, ma non conquistarono nessuna città. La pace con Carlo V aumentò i possedimenti veneziani in terra istriana, i confini rimasero però incerti in alcuni punti, creando nuovi scontri e rivendicazioni.42

39 Sui diversi gradi di cittadinanza in vigore a Venezia cfr Cozzi e Knapton, “La Repubblica di Venezia nell’età moderna”, Utet, Torino, vol I 1986, cap. III “La cittadinanza”, pp.133-140.

40 Raspo divenne la sede nuovamente riunita delle capitanìe di Grisignana e San Lorenzo al Pasenatico, evoluzioni del capitanato di Leme. Angelo Emo fu il primo Capitano di Raspo. Alberi, “Istria storia, arte e cultura”, op. cit., p. 226.

41 Il castello di Raspo era andato distrutto a causa dei ripetuti attacchi delle truppe imperiali durante le guerre d’Italia.

42 La bibliografia relativa alle guerre d’Italia è estremamente vasta, per i risvolti che essa ebbe sull’Istria cfr Alberi, “Istria storia, arte e cultura”, op. cit., pp. 82-87; Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., pp. 305-306; De Franceschi, “Istria, note storiche”, Tip. di G. Coana, Parenzo, 1879, pp. 272-282.

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Riforma e controriforma influenzarono anche la vita religiosa istriana, con ferventi riformisti, come Mattia Flaccio di Albona, ed altrettanto solerti inquisitori.43 Il nuovo secolo portò in Istria anche i turchi, che approfittando della confusione generale avanzarono sia per terra sia per mare. I movimenti dell’esercito turco spinsero nuove popolazioni verso nord. Una di queste, gli uscocchi, principalmente predoni in fuga dalla Bosnia occupata, tra fine cinquecento ed inizio seicento, attaccò più volte la penisola istriana. Gli uscocchi, spesso al servizio dell’Austria,44 depredarono le città e le campagne della penisola. La resistenza opposta dal comune di Albona nel 1559 è così famosa, da essere citata da tutte le fonti.45 Questi pirati rendevano insicuri i viaggi nell’Adriatico e richiesero un notevole dispendio di energie alla Serenissima per sconfiggerli. “Erano questi Uscocchi…come la testa dell’Idra che, troncata, rinasceva e moltiplicava nel sangue, poiché a Segna accorrevano tutti i malfattori ed i banditi delle terre vicine, fossero venete, arciducali o altre, e tutti passavano sotto il nome di Uscocchi”.46 Fu la guerra di Gradisca (1615-1617), che contrappose nuovamente Venezia all’Austria, a mettere fine alle scorribande uscocche.

Nel 1644 Venezia non colse l’occasione di unire sotto il suo vessillo l’intera penisola acquistando la Contea, dall’arciduca d’Austria Ferdinando III attanagliato dai debiti.47 La Serenissima declinò l’offerta, perché ritenne l’acquisizione troppo esosa, se paragonata al ritorno per la città, la contea era infatti improduttiva ed ininfluente sui vettori adriatici. I patrizi erano in ogni caso ben consapevoli dell’importanza delle coste istriane, si desume dalle parole pronunciate da Agostino Barbarigo nel 1669, appena rientrato dall’incarico di podestà e capitano di Capodistria:

[l’Istria] essendo…sotto gli occhi di questa Dominante, è come il suo scudo, alla preservazione della quale tanto più deve in vigilarsi, quanto della sua sicurezza ha da dipender in ogni tempo la conservazione di quest’inclita e miracolosa città [Venezia]48

Per sopperire al continuo spopolamento delle campagne istriane, per combattere l’incolto e nella spe-ranza di migliorare la disastrosa situazione economica della provincia, Venezia intraprese un lungo progetto di colonizzazione. Lungo perché occupò più secoli, non perché fosse pensato in modo organico fin dall’inizio.

43 La vita religiosa della provincia fu sempre rigogliosa, in Istria si stabilirono numerosi i Benedettini, possedettero feudi i Templari, rari e poco prosperi furono invece i monasteri femminili. La popolazione eresse nelle città splendide cattedrali e nelle campagne altrettanto pregevoli chiese. Decorati capitelli fungevano spesso da confine, sia municipale sia tra singole ville. Per gli avvenimenti che caratterizzarono riforma e controriforma in Istria, si veda Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., pp. 309-313; per le misure adottate contro il protestan-tesimo nella penisola, si veda De Franceschi, “Istria, note storiche”, op. cit., pp. 290-295. Alla figura di Mattia Flaccio di Albona è interamente dedicata la nota 127.

44 Gli uscocchi si erano rifugiati a Segna, città fedele all’Austria, e ne avevano fatto il loro quartier generale. L’arciduca Ferdinando II tentò blandamente di fermarli, ma non ebbe successo. Si veda De Franceschi, “Istria, note storiche”, op. cit., pp. 296-231. Per Uscocchi si veda Bracewell C. W. “The Uskoks of Senj: Piracy, Banditry, and Holy War in the Sixteenth-Century Adriatic” Cornell Univ Pr, 2011.

45 La resistenza del comune di Albona viene ampiamente ripresa nel capitolo successivo.

46 Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., p. 319.

47 Alberi, “Istria storia, arte e cultura”, op. cit., p.96.

48 Citazione dalla “Relazione del N.H. Agostino Barbarigo ritornato di podestà e capitano di Capo d’Istria – 13 aprile 1669.” AMSI, VIII (1892), p. 100 e in Ivetic,”L’Istria moderna”, op. cit., p. 31.

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Il risultato finale delle immigrazioni fu una massiccia presenza di coloni di origine slava in Istria. In principio la Serenissima tentò di trasferire nella provincia coloni veneti, ma l’esperienza fallì rapidamente,49 così la Dominante volse il suo sguardo sui rifugiati in fuga dalle pressioni turche. Nel 1463 Venezia trasferì la prima colonia, erano dei dalmati che si stabilirono a Salvore desolata dalla peste.50 A questo “intervento dall’alto” si affiancò l’offerta da parte degli stessi comuni di terreni incolti o di confine, ai coloni intenzionati a coltivarli. Ai nuovi arrivati erano offerte inoltre numerose esenzioni fiscali ed essi erano soggetti alla giurisdizione del capitano di Raspo, non del podestà locale. Molte famiglie in fuga dalle incursioni turche colsero l’occasione per trasferirsi. Sul finire del cinquecento la presenza slava in Istria era una realtà consolidata. Nel 1646 il vescovo Tommasini descrisse San Vincenti come un territorio interamente slavo. La popolazione slava tendeva a fondare ville proprie, anche se col passare del tempo dovette essere sempre più integrata nel “sistema locale”, cosa che si desume sia dai numerosi cognomi slavi presenti nei documenti ufficiali, sia dalle contro-versie che le ultime immigrazioni di fine Seicento crearono tra “vecchi” e “nuovi” immigrati. Probabilmente nel Settecento nelle campagne era abbastanza diffuso il bilinguismo, solo in certe zone particolarmente isolate le comunità slave crearono entità a sé quasi autosufficienti.51 Molti immigrati diventarono fedelissimi sudditi della Serenissima, è il caso di ricordare che le milizie più fidate di Venezia, quelle che si arresero a Napoleone

49 Salimbeni F., a cura di, “Istria. Storia di una regione di frontiera”, Istituto regionale per la cultura istriana, Morcelliania Editrice, Brescia, 1994, p.95.

50 Tra 1470 e 1500 vari comuni della penisola, tra cui Pirano e Capodistria, offrirono terreni incolti a chiunque fosse disposto a coltivarli, fu così che nel 1490 numerosi bosniaci e croati, in fuga dai turchi, si sparpagliano per l’Istria. Nel 1500 Venezia portò a Montona una colonia di morlacchi e nel 1526 altri morlacchi si stabilirono nell’agro di Rovigno fondando Villa di Rovigno. Nel frattempo nel 1532 alcune colonie slave, guidate da un Voivoda, si stabilirono sul Carso. Nel 1540 parecchie colonie di morlacchi passarono da Zara all’agro di Cittanova, Umago e Parenzo, altri sul carso di Pinguente. Nel 1561 il comune di Pola offrì nuovamente dei terreni a chi avesse avuto voglia di coltivarli, i morlacchi accettarono e vi si trasferirono in buon numero dando vita ad un’isola morlacca a nord della città. Nel 1576 la villa di Torre al Quieto venne abitata da fuggiaschi della Dalmazia e di Zara Vecchia. Tra 1570 e 1600 vi furono ulteriori trasferimenti di morlacchi. La presenza slava in terra istriana era ormai così ampia che, nel 1594, il cardinale Girolamo Mattei fu costretto a scrivere da Roma al vescovo di Capodistria, per vietare ai sacerdoti slavi del territorio l’uso della lingua illirica nella celebrazione della messa. Le immigrazioni non terminarono col cinquecento, nel 1601 parecchi abitanti dell’Illirio, per sfuggire agli ottomani, si trasferirono in Istria dove fondarono Altura. Nel 1612 la Repubblica di Venezia invitò altri dalmati a popolare la provincia. Continuarono anche gli arrivi di famiglie morlacche. Tra 1620 e 1630 alcune famiglie albanesi ricevettero vari territori dal capitano di Raspo, al quale erano soggetti per molti anni tutti gli immigrati, questo ed altri privilegi fecero si che la gente locale accettasse malvolentieri i nuovi venuti. Si crearono ampie aree di popolazione prevalentemente slava, come la già citata “zona morlacca” a nord di Pola. Spesso i trapiantati se ne andavano o morivano, quindi erano necessarie sempre nuove braccia per combattere l’incolto. Dopo la guerra nel 1631 Venezia decise di ripopolare l’Istria con gente della Bossina e della Dalmazia. I coloni portavano anche ricchezza, perché spesso si trasferivano con un seguito di moltissimi animali. La stabile presenza slava è confermata anche dall’introduzione nella sua diocesi da parte di Gregorio Gregoric, curato di Costabona, del messale in illirico. Nel 1658 il senato veneto concesse alla colonia di montenegrini domiciliata in Peroi di liturgia ortodossa, di potersi valere nelle sue funzioni ecclesiastiche della chiesa di San Nicolò di Pola. Nuove colonizzazioni si ebbero a fine Seicento, ma questi “nuovi slavi” non incontrarono solo la diffidenza degli “istriani”, ma anche quella dei primi coloni ormai o perfetta-mente integrati o chiusi in comunità, comunque in qualche modo parte della vita locale. Si veda Marsich, “Quando e come vennero gli Slavi in Istria”, in Archeografo Triestino, II serie vol. XIII, tipografia Herrmanstorfer, Trieste, 1887, pp. 411-429; Veronese, “L’immigrazione nell’Istria veneta tra ‘500 e ‘600: problemi giurisdizionali, contese tra communità, conflitti etnici tra originari e forestieri”, in Acta Histriae III, Società storica del Litorale, Capodistria, 1994, pp.181-192; De Franceschi, “L’Istria. Note storiche”, op. cit., pp.348-370. All’argomento è dedicata la mia tesi di dottorato “Venezia e le immigrazioni in Istria nel Cinque e Seicento.” Ho conseguito il titolo di dottore di ricerca in Storia sociale europea dal Medioevo all’Età Contemporanea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia nel giugno 2012, relatori i professori Egidio Ivetic e Giorgio Politi. L’elaborato ha vinto la prima edizione del premio “Achille e Laura Gorlato” indetto dall’Ateneo Veneto. Il saggio “Le immigrazioni in Istria nel Cinquecento e Seicento: un quadro d’insieme” dedicato al lavoro è stato pubblicato in Ateneo Veneto, 2012, CXCIX, terza serie 11/I-IIpp. 49-81.

51 Come si sviluppò la presenza slava in Istria, quando, o se fosse presente da sempre è uno dei grandi nodi del dibattito storiografico sulla regione, le tesi sul peso della componente slava sono molteplici e spesso contrastanti. Purtroppo non conoscendo la lingua croata o slovena sono stata costretta a tralasciare numerose fonti. Per la storia delle immigrazioni in Istria si veda nota precedente.

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dopo la Dominante, furono proprio i reggimenti degli Schiavoni, il cui stesso nome ne identificava la prove-nienza.52 “La campagna ebbe in breve una popolazione bilingue. Si parlava l’italiano o lo slavo secondo che il bisogno lo richiedesse.”53 In realtà l’immigrazione in Istria non presentava solo problemi etnici, ma anche ben più gravi mancanze alimentari. La provincia era costantemente in deficit cerealicolo e nel Settecento superò dure carestie solo grazie all’intervento della Dominante. Qualche rettore l’aveva capito e segnalava che la re-gione, era si in grado di ospitare comodamente il doppio degli abitanti, ma non di sfamarli. Il terreno istriano era obiettivamente in molte zone, difficile da lavorare con le conoscenze tecniche del Cinque - Seicento. E il clima non aiutava, con estati molto calde ed inverni battuti dal gelido vento di bora.54

I problemi nel Levante distolsero Venezia dall’Istria, della situazione approfittò Trieste per allargare i suoi commerci a discapito di Capodistria. Nel 1570 l’Istria contribuì alla guerra per Cipro, combattuta tra i veneziani e il sultano Ottomano Selim II, con 430 uomini.55 A nulla servirono gli sforzi istriani, Venezia perse la guerra e l’isola si arrese il 18 agosto 1571. Era l’inizio di una lunga fase di battaglie che avrebbero sgretolato lo Stato da Mar veneziano logorando ampiamente la Repubblica. Vi furono alcune importanti vittorie che portarono fama e orgoglio anche in Istria. Alla battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571) parteciparono anche uo-mini istriani ed in particolar modo si distinse la galea “Il Leone” di Capodistria. Le divisioni del fronte cristiano impedirono una vittoria definitiva, permettendo al turco di riprendersi e ricominciare la sua avanzata. La guerra di Candia durò dal 1645 al 1668 e finì con la perdita dell’Isola.56 L’Istria contribuì anche a questa guerra con più arruolamenti. La partenza di uomini dall’Istria era però controproducente, soprattutto alla luce delle colonizzazioni. Il capitano di Raspo Girolamo Priuli nel 1659, avendo capito il controsenso di quest’operazione, suggerì o meglio implorò il senato che “la levata delle cernide in provincia de Histria fosse più riserbata che fosse possibile.”57 La provincia si privò anche di parecchio denaro, offerto come donazione volontaria alla Dominante nei momenti di maggior bisogno. Persa Candia, Venezia decise d’intraprendere una politica di basso profilo nelle questioni internazionali, ma all’indomani della disfatta turca alle porte di Vienna (14 luglio 1683), si fece coinvolgere in una nuova Lega Santa con la speranza di recuperare le isole perdute. Dopo una serie di battaglie fortunate, la Lega si sciolse, Venezia accettò la pace col Turco (Carlowitz 29 gennaio 1699).

52 Salimbeni,“Istria. Storia di una regione di frontiera”, op. cit., p.96.

53 Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., p.346.

54 Ivetic, “L’Istria moderna”, op. cit., p.75.

55 Albona e Fianona ne mandarono 60.

56 Cfr. Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., p.350.

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La Serenissima non partecipò alla corsa al trono spagnolo e dalla guerra di successione in poi conservò, per tutto il Settecento, una politica di “neutralità armata”. La supposta neutralità non evitò ai territori veneti il passaggio di eserciti e le scorribande dei militari. “In questa guerra più che mai si rese manifesto a quale strazio indecoroso di un diritto che non poteva più essere sostenuto colla forza avesse esposta Venezia la sua inconsulta inerte neutralità.”58 All’inizio del secolo nessuna imbarcazione poteva lasciare i porti istriani senza correre il rischio di cadere in mano francese o austriaca. Venezia non era più la padrona dell’Adriatico. Il se-nato consigliava ai rettori di lasciar correre, di non vedere, per non irritare le due potenze, che ormai giravano liberamente sia per terra sia per mare. Fu la sconfitta francese a riportare la tranquillità, non un intervento veneziano. Con la pace di Utrecht l’Austria ottenne il ducato di Milano e il Regno di Napoli, Venezia si ritro-vò così accerchiata. Il Turco approfittando della debolezza dei sovrani europei, appena usciti dalla guerra, attaccò gli ultimi possedimenti veneziani in Levante. L’Austria intervenne come mediatrice e poi al fianco di Venezia. Anche in questa guerra si distinsero uomini istriani ed in particolare i rovignesi Nicolò Facchinetti e Antonio Benussi.59 La guerra, per le divisioni interne del fronte “cattolico”, non ebbe esito positivo e Venezia accettò la pace, firmata a Passarovitz il 21 luglio 1718, con la quale cedette il Peloponneso alla Sacra Porta. Il 2 giugno 1717 Carlo VI dichiarò libera la navigazione dell’Adriatico, la Serenissima non protestò. Il 18 marzo 1719 sempre Carlo VI dichiarò Trieste e Fiume porti franchi.60 La guerra per la successione in Polonia portò l’Austria ancora più vicina a Venezia con l’annessione del ducato di Toscana e di quello di Parma e Piacenza. Alla guerra per la successione austriaca, nella quale Venezia si mantenne una volta di più neutrale, seguirono alcuni decenni di pace.

Nella seconda metà del Settecento l’economia istriana ebbe un notevole sviluppo. L’inesorabile tra-monto della Dominante aveva lasciato il posto a nuovi mercati in ascesa. Da sempre la provincia istriana aveva subito l’attrazione del mercato austriaco, basti pensare che la moneta più diffusa tra il popolo era il fiorino di Vienna, non il ducato veneziano. Trieste e Fiume attiravano molti prodotti istriani ed il contrabbando facilitava l’esportazione. Bande organizzate gestivano i grossi traffici, ma anche i singoli contadini si adattavano come meglio potevano, trafugando olio, vino o pesce salato. Il centro più rigoglioso della provincia era Rovigno, una città in crescita, le cui navi trasportavano ancora merci avanti ed indietro per l’Adriatico.61 “Ma se Venezia sonnecchiava, vegliavano i suoi nemici, tessendo nuove trame a suo danno.”62 Venezia, paralizzata interna-

57 Ibidem

58 Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., p. 353.

59 Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., p.357 in nota.

60 Per gli avvenimenti di Trieste si veda Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., pp. 372-383.

61 Cfr. Ivetic, “Oltremare. Istria nell’ultimo dominio veneto”, op.cit., e Bianco, “Ribellismi, rivolte antifiscali e repressione della criminalità nell’Istria del ‘700”, in Acta Histriae, III, op.cit., p.164 e succ.

62 Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., p 360.63 Per quanto riguarda le proposte di riforma in materia penale vedi Cozzi, “Politica e diritto nei tentativi di riforma del diritto penale veneto nel settecento”, in “La società veneta e il suo diritto”, Saggi Marsilio Fondazio-ne Giorgio Cini, Venezia, 2000, pp.311 e succ.

4.5 Il Settecento

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mente, non apportò alcuna modifica al sistema amministrativo, anche se non mancarono le proposte.63 L’I-stria fu lasciata sguarnita dal punto di vista militare, ma la vita civile continuò nella solita efficienza. I rettori gestivano la vita locale, scendendo a patti con i signori del posto, mentre il podestà e capitano di Capodistria supervisionava il loro operato. Le piccole podesterie, non solo dell’Istria, diventarono un modo dignitoso per sopravvivere dei patrizi impoveriti, i cosi detti barnabotti. Questi rettori vedevano la loro carica come un modo per arricchirsi ed erano quindi inclini a soprusi e corruzione. Queste figure, forse spesso più per bisogno che per pochezza morale, alimentarono il mito del “podestà lovo”, della sanguisuga venuta da Venezia per spre-mere la gente istriana. Il popolo salutava il nuovo rettore col grido “Evviva il podestà novo, ch’el vecio gera un lovo.”64 I signori locali monopolizzavano le cariche cittadine e con esse il potere all’interno del municipio, al rettore spesso non restava che adeguarsi. I popolani dal canto loro sapevano che “quando li fatti succedono a furor di popolo, niente può accadere,”65 questo era il principio cardine del loro comportamento. Risponde-vano uniti alle angherie più gravi, ben sapendo che, calato il polverone del processo, a conti fatti le pene si sarebbero rivelate ben poca cosa.66

Mentre in tutta Europa fervevano i cambiamenti amministrativi, Venezia mantenne inalterato il suo sistema, l’Istria rimase divisa in 4 Città, 10 Terre, 11 Castelli e 145 Ville. Si conservarono i feudi dislocati sul territorio. Non cambiò neanche il regime tributario.

Venezia intervenne più volte con prestiti in denaro per garantire l’afflusso di cereali in provincia.67 La Serenissima aveva favorito già nel 1623 la ripresa della coltura dell’ulivo in Istria, da allora la produzione di olio divenne una voce importante dell’agricoltura istriana. Il freddo era però sempre in agguato, uccidendo molte piante, in varie annate causò bruschi arresti della produzione. Il gelso fu impiantato a Capodistria con risultati limitati. Venezia salvaguardò sempre i boschi, che fornivano legna preziosa per le sue navi, leggi se-vere ne regolavano il taglio e l’asportazione. Il prodotto principale dell’Istria era il vino. Per lungo tempo fiorì la produzione di un tessuto grezzo detto griso, Venezia ne ordinava, seppur saltuariamente, grossi carichi per le galee. Nella seconda metà del Settecento si sviluppò in Istria un embrione di settore industriale, alcune fabbriche nacquero nei centri maggiori; famoso il tentativo del conte Gian Rinaldo Carli d’impiantare un lani-ficio vicino a Pinguente. Queste fabbriche in gran parte fallirono, sia per le lungaggini burocratiche veneziane, sia per l’agguerrita concorrenza austriaca. Una miniera di carbone fossile fu gestita dalla famiglia Dani presso Albona.

Venezia mantenne inalterate le dure norme commerciali, che imponevano ad ogni nave di fare tappa nella capitale.68 L’olio, dopo essere sottoposto in loco alle decime delle olive ed al dazio del torchio, poteva essere condotto quasi esclusivamente a Venezia. Qui si pagava un dazio di 40 lire per ogni barile, e quindi il prodotto veniva venduto a prezzi e qualità dettate dal monopolio. Il pesce fresco doveva sottostare alla deci-

64 Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., p. 362.

65 Ibidem

66 Il processo ad Albona nel 1757 conferma la correttezza di questo sentimento popolare.

67 Nel 1782 ad esempio stanziò 93.125 ducati per i cereali necessari alla provincia. Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., p. 365.

68 Le sue stesse regole, ormai superate, spinsero i commerci istriani tra le braccia di Trieste, porto felicissimo di accogliere i nuovi venuti.

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ma ed ad alcune tasse locali, dopodiché una parte restava alla pescheria locale ed il resto veniva imbarcato per Venezia. La salatura poteva avvenire solo con sale istriano, gestito dal monopolio statale, e nel luogo dove il pesce era stato pescato. La pena prevedeva confische e castighi.69 Per il vino vigeva severa proibizione di por-tarlo a Venezia, ogni città proteggeva la propria produzione con dazi e divieti. Il comune percepiva un tributo sulla vendita, se questa avveniva in terra straniera si pagava una tassa d’esportazione. La produzione del sale era severamente disciplinata dallo Stato; una parte restava ai proprietari delle saline, che potevano commer-ciarlo per la via di terra, il resto era a disposizione della Dominante. La legna da fuoco doveva essere condotta a Venezia, dove veniva venduta dal Magistrato delle legne al prezzo politico di 4 lire per carro. E così via, tutti i prodotti coinvolti nel commercio marittimo dovevano, salve alcune rare eccezioni, essere portati a Venezia. Il grano poteva essere comprato solo a Venezia o nella terraferma veneta. Su quello comprato all’estero gravava un dazio di lire 5.10 per staio. Tutte queste restrizioni anacronistiche avevano incoraggiato il contrabbando, già di suo fiorente. Tutte le lamentele veneziane in materia rimasero lettera morta. Rovigno chiese alla Sere-nissima, anche con l’appoggio di alcuni rappresentanti nella capitale, di avere gli stessi privilegi di Trieste, in modo da farle una giusta concorrenza, ma Venezia fu sorda a qualsiasi innovazione.

Il naviglio istriano era numeroso, si trattava però soprattutto di piccole imbarcazioni; sul finire della Repubblica l’Istria possedeva 8 legni di grande cabotaggio, 349 legni di piccolo cabotaggio e 260 barche pescherecce.

I vescovi dell’Istria dipesero dal patriarca di Aquileia, da metà quattrocento residente a Udine, fino al 1751. Anno in cui il papa, sotto le pressioni di Maria Teresa, soppresse la sede creando due arcidiocesi, una a Udine e l’altra a Gorizia. I vescovi istriani veneti furono sottoposti a quella di Udine. Nuove sistemazioni di diocesi seguendo i confini nazionali si ebbero sotto Giuseppe II.

Venezia non intervenne con nessuna riforma rilevante, le cose continuarono ad essere gestite “come si era sempre fatto”. Alla caduta della Repubblica, l’Istria passò all’Austria, poi per un breve periodo alla Francia, per entrare definitivamente nei possedimenti asburgici con gli accordi presi al Congresso di Vienna.

69 Tutto il pesce salato doveva essere portato a Venezia dove, pagato il dazio del palo (il 26% del valore del pesce) veniva venduto da chi ne godeva la privativa.

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Situata sul versante orientale dell’Istria, la penisola di Albona è circondata su tre lati dall’acqua, quella del fiume Arsa e dell’omonimo canale a ovest, quella del golfo del Quarnaro a sud e a est. Il nord invece è diviso dalla Liburnia dal profondo fiordo di Fianona e proseguendo della depressione della val d’Arsa, che fino gli anni Trenta del secolo scorso, quando fu prosciugato, era ricoperta dall’omonimo lago o lago di Ce-pich. Questi confini danno al territorio una forma semi rettangolare, con una lunghezza di circa venticinque chilometri e una larghezza, nel punto più ampio, di tredici. L’altipiano, intramezzato da numerose alture, la cui altezza è mediamente di 200 metri sul livello del mare, è di tipo carsico, in passato probabilmente ricoperto da fitte foreste. Su uno dei vari rilievi fu fondata in tempi antichissimi la città di Albona. Nella zona albonese tracce di primi insediamenti umani sono state individuate recentemente nei dintorni dell’ex lago di Cepich e risalgono a circa 10.000 anni prima di Cristo.

70 Per quanto riguarda le proposte di riforma in materia penale vedi Cozzi, “Politica e diritto nei tentativi di riforma del diritto penale veneto nel settecento”, in “La società veneta e il suo diritto”, Saggi Marsilio Fondazione Giorgio Cini, Venezia, 2000, pp.311 e succ.

5 Albona

5 .1 L’albonese

La città di Albona, oggi Labin in croato, fu fondata quasi due millenni prima di Cristo su un’altura di 315 metri a circa due chilometri e mezzo in linea d’aria dalle acque del Quarnaro. I suoi primi abitanti furono dei liburnici dell’antica civiltà dei Castellieri, di origini illiriche o forse precedenti. Questi remoti residenti proba-bilmente attribuirono il nome alla città,70 la quale è sorta sulle rovine del precedente castelliere grossomodo tra il VI e IV secolo prima di Cristo. Molti resti preistorici, rinvenuti durante vari scavi in loco, confermerebbero una presenza umana già verso la metà del secondo millennio avanti Cristo. In occasione dello scavo di una cantina vennero alla luce martelli di selce, un’accetta, una lucerna, una pentola e numerose punte di freccia, molto al di sotto del livello delle antiche sepolture medioevali. Richard Burton, un console inglese a Trieste dilettante di archeologia, durante un suo viaggio in Istria, visitò e descrisse minuziosamente i resti di alcuni ca-stellieri celati dalla boscaglia nei dintorni di Albona. “Da Albona, la mia prima meta è stata il castello di Cunzi, ove sembra di trovarsi alla presenza dell’uomo preistorico…Raccogliemmo una quantità di cotti e frammenti di vasellame imbiancato dal deposito del calcare. Gli oggetti di terra nei castellieri sono per lo più di un solo tipo, spessi, massicci e pesanti. Rotti lasciano vedere una parte centrale oscura spesso quasi nera: è il risultato di una cottura imperfetta su fuoco di spine, all’aria libera, secondo l’uso generale tra i barbari…il mio amico, signor Ernesto Nacinovich…ha scoperto le rovine di un altro castelliere…alte e nude rocce calcaree occupano

5.2 La storia della città

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il centro della zona; la ‘cinta’ era, secondo la regola generale, divisa in due parti disuguali da un muraglione di rozzi blocchi, sei dei quali giacciono ancora sul terreno in direzione nord e sud. Ci sono anche i segni di un’entrata…scavando nel terrapieno si è trovata la caratteristica terra nera, vasellame, parecchi frammenti muniti di manico, ossa umane…”71 la descrizione del Burton continua per varie pagine spinta all’osservazione minuziosa dalla sua personale passione per l’archeologia. Sergio Cella, autore di un libro interamente dedi-cato alla storia di Albona, riporta il commento dello specialista in paleontologia Carlo Marchesetti, il quale nota come il territorio albonese possieda un numero abbastanza considerevole di sedi preistoriche, esplorate diligentemente già da Antonio Scampicchio e da Tomaso Luciani nel corso dell’Ottocento.72 L’albonese Lucia-ni, archeologo dilettante, ebbe il grosso merito di essere stato il primo storico ed archeologo, pare assieme ad Antonio Covaz di Pisino, ad inquadrare esattamente la civiltà dei castellieri come antecedente a quella romana. Verosimilmente questi castellieri erano immersi nei boschi e gli abitanti vivevano dell’allevamento di capre e pecore, integrato talvolta con la caccia e con la pesca. Sembra che apprezzassero molto i maiali e che si servissero poco di bovini ed equini, forse perché richiedevano un impegno eccessivo. Il commercio nacque e fiorì a quell’epoca e la sfera commerciale andò ampliandosi fino a raggiungere il vicino oriente. In una tomba illirica nei pressi di Albona fu ritrovato un elmo greco del VI secolo a.C., che confermerebbe, assieme ad altre scoperte fatte in territorio istriano, i legami commerciali della penisola con la Grecia arcaica e con la Magna Grecia.73La popolazione aumentò e i castellieri di maggiore importanza si trasformarono in vere e proprie città. Risalgono a quell’epoca: Albona, Fianona, Tarstica (Fiume) dei liburni, Nesazio, Mutila e Faveria degli istri. Nel suo libro il Cella dice di loro, con una punta di orgoglio personale: “Forte razza di navigatori furono i Liburni in ogni tempo, ricchi di energia marinaresca e di coraggio bellicoso. I Romani ebbero da loro molto filo da torcere.”74 A questo periodo di grandi uomini di mare risalgono probabilmente i poemi epici alessan-drini nei quali Licofronte, Callimaco e altri illustri autori hanno narrato le leggende degli straordinari viaggi dei marinai greci nell’Adriatico. Fu nel golfo del Quarnaro, nel mare liburnico, che Medea dilaniò il corpo del fratello Absirto per arrestare l’inseguimento dei colchi. Le membra sparse in mare si tramutarono nelle isole Absirtidi, cioè Cherso, Ossero, Veglia e le altre, per confondere gli inseguitori. Al che i colchi, inorriditi e stanchi, decisero di porre fine alla caccia e ripararono in una comoda insenatura, dove fondarono la città di Pola. Altri s’insediarono presso la foce dell’Arsa costruendo città e castelli.75 Secondo il Cella, questi miti sarebbero la prova della portata dei commerci del periodo miceneo e sarebbero stati poi confusi e fraintesi dai greci posteriori, le cui nozioni geografiche – per concorde parere degli studiosi – non giungevano oltre le coste meridionali della Dalmazia.76

71 Burton, “Note sull’Istria”, in Archeografo triestino, IV serie, vol XXV-XXVI, Arti grafiche Smolars, 1963-1964, p. 261.

72 Cella, “Albona” in Histria Nobilissima, vol I, Ed.Capelli, Trieste, 1964, p.21.

73 Alberi, “Istria storia, arte e cultura”, op.cit., p.1719

74 Cella, “Albona”, op.cit., p. 24

75 Versione della fuga di Medea dalle truppe paterne a bordo della nave di Giasone, che avrebbe portato i colchi in Istria, riportata sia dal Cella, “Albona”, op. cit., p.24, che dal Giorgini, “Memorie istoriche antiche e moderne della Terra e territorio di Albona”, in AMSI, vol. XXII, 1906, pp.147-14

76 Cella, “Albona”, op. cit., p.25

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L’invasione dei giapidi di razza celtica, nel IV secolo a.C., mise fine alla florida cultura illirica, confinando i liburni alla stretta fascia costiera del territorio di Albona. Essi riuscirono però a mantenere una certa prospe-rità in città, sfruttando il mare e i commerci. Dagli anfratti della costa albonese i liburni proseguirono le loro scorribande piratesche finendo per infastidire i temibili e sempre più vicini romani. Nel 177 a.C. le truppe di Roma conquistarono l’Istria, non riuscirono però ad assoggettare i liburni, che continuarono ad opporre una tenace resistenza. Le due civiltà convissero per lungo tempo e appena nel 16 a.C. con Ottaviano, fu raggiunta una certa pace. Probabilmente proprio in quegli anni la stessa Albona fu espugnata e forse distrutta.

L’ordinamento di Augusto del 16 a.C. portò il confine d’Italia all’Arsa, unendo Albona e Fianona alla provincia Illirica. La città mantenne comunque lo stato di municipio romano e la successiva “pace romana”, seguita alle conquiste di Augusto, la vide rinascere e le portò anche ampi vantaggi. La sua giurisdizione fu dilatata fino alla catena dei monti Caldiera e oltre il lago d’Arsa. Da Albona passava la strada militare che con-giungeva Pola con Tarsatica.77 La città disponeva di un porto ben protetto nell’insenatura di Portolongo ed era toccata dall’acquedotto che riforniva Pola. Nel 44 d.C. l’imperatore Claudio, reduce dalla missione in Britan-nia, distribuì ai veterani possedimenti nel Norcio e nelle parti montane della Dalmazia e dell’Istria, ne mandò anche in Albona, ascritta da quel momento alla tribù Claudia. Plinio nell’ottanta nominò la città con onore.78

Sicuramente il comune assunse grande importanza in ambito provinciale, il Luciani sull’argomento aggiunse “pare che Antonino elevasse Albona al grado di respublica, le desse cioè l’alto governo di altre comuni, e il diritto di percepire pubbliche imposte.”79 Numerose lapidi rinvenute in città, risalenti al I e II secolo d.C., provano che il municipio era condotto dai duoviri e dagli edili coadiuvati da un consiglio di decurioni. Molte epigrafi ricordano l’illustre famiglia aquileiese dei Gavillii, che ricoprì i magistrati cittadini finora conosciuti. Nel 173 Marco Aurelio fece costruire la “Praetentura Italiae et Alpinum” per difendere il confine orientale, Albo-na divenne parte dell’opera. Per l’Alberi fu in quest’occasione che la città fu elevata al rango di “respublica”.80

Quando nel 324 Costantino, spostando diversi confini, divise l’impero in quattro prefetture, Albona rientrò nell’Istria romana; la regione “Venetia et Histria” fu inserita nella diocesi italiana della quarta prefettura d’Italia. Nello stesso periodo si diffuse sul territorio il Cristianesimo. Si ritiene che la chiesa albonese si sia costituita intorno al VI secolo e sia stata sottoposta in quel tempo alla diocesi di Pedena.81 Nel 324 Teodosio divise l’Impero Romano e Albona, come l’Istria, restò unita all’Italia.

Le prime invasioni barbariche sfiorarono appena il territorio albonese. Al contrario le successive in-cursioni: nel 373 dei quadi e dei marcomanni, nel 380 dei visigoti e nel 487 degli eruli, danneggiarono seria-mente abitazioni e campi. Durante tutto il VI secolo furono i longobardi a compiere ripetute scorribande nel territorio. Il castello di Albona resistette fino alle terribili invasioni degli slavi, sottomessi agli avari, del 592 e 599, quando fu completamente distrutto. Ne parla lo storico dalmata Domenico Zavoreo in un suo passo. In conseguenza alle continue scorrerie dei barbari la popolazione diminuì e la città si chiuse su sé stessa. L’unica

77 Antico nome della città di Fiume, oggi Rijeka in croato.

78 Luciani, “Albona studii storico-etnografici ”, Tipografia dell’Istituto Coletti, Venezia, 1879, p.8.

79 Ibidem

80 Alberi, “Istria storia, arte e cultura”, op. cit., p. 1721.

81 Ibidem

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autorità rimasta era quella ecclesiastica, che così come altrove assunse il controllo del comune. Le guerre gotiche che sconvolsero l’Italia nel VI secolo, nel 539 portarono anche in Istria la dominazio-

ne militare bizantina. Sotto l’influenza di Costantinopoli cadde principalmente l’area delle città occidentali, mentre la zona orientale e con essa Albona, fu lasciata a se stessa e alle scorrerie degli uomini longobardi. L’illustre albonese Tomaso Luciani in relazione a questo periodo aggiunse, che i longobardi, con ulteriori spe-dizioni, entro l’anno 753 s’impossessarono di buona parte dell’Istria, ai bizantini rimase Capodistria insieme a pochi altri luoghi.82 I duchi longobardi riuscirono ad arginare le invasioni slave fermandole al Monte Maggio-re. La situazione di trascuratezza e di oblio per Albona si protrasse fino al 789, quando fu assoggettata da Carlo Magno ed entrò a far parte dell’Istria franca. Tutti i territori istriani di recente conquista - escluse Capodistria, Pirano e Umago ancora in mano bizantina - furono asserviti ai duchi del Friuli, e “anche Albona dovè subire la legge imposta da un vincitore ultrapotente.”83 La soggezione non portò però la pace, perché già nel 791 avari e unni tentarono di oltrepassare il Monte Maggiore e di conquistare i territori franchi. Fu Erico, duca d’Istria e del Friuli, a fermare la loro avanzata. Il duca difese con tenacia i confini del nuovo Regno, finché non perse la vita in combattimento presso Laurana nel 796.

Sotto il dominio franco un numero di famiglie slave, non meglio precisato dalle fonti, si trasferì a vivere nel territorio di Albona. Nell’anno 950 lo stesso Imperatore bizantino scrisse che alcune famiglie croate furono sistemate nel territorio di Albona.84 Le immigrazioni slave dovettero causare attriti con la popolazione locale, poiché la città inviò al Placito del Risano, indetto dall’Imperatore nell’804, ben quindici rappresentanti, per esporre la contrarietà locale a tali insediamenti e per contestare il comportamento corrotto ed arrogante del duca Giovanni.

L’affermarsi del sistema feudale in Istria portò un periodo di stagnazione nelle città e anche per Albona questi non furono secoli floridi; mantenne comunque una certa rilevanza ed un certo numero di abitanti, dato che i dazi versati dal comune erano superiori a quelli della città vescovile di Cittanova. Le famiglie più influenti si riunivano nel Consiglio cittadino. Il diritto politico rimase quello di stampo romano, anche se con notevoli influenze germaniche.

Albona, come l’Istria, rimase sotto l’ala carolingia fino al 952 quando, per mancanza di eredi, l’impero occidentale passò nell’orbita germanica; da allora si susseguirono al comando duchi e marchesi sassoni. Nel frattempo i patriarchi di Aquileia acquisirono sempre più terreni nell’agro albonese, fino a quando verso il 1063 l’intera città non passò sotto il dominio dei patriarchi. Nello stesso periodo, all’incirca verso il 1030, la chiesa di Albona venne staccata dalla diocesi di Pedena per passare sotto il vescovo di Pola. I patriarchi consentirono alla città di reggersi secondo le proprie consuetudini ed interferirono raramente con la lonta-na provincia. In questi secoli le popolazioni di origine romana si ritirarono nei centri fortificati, lasciando le campagne incolte. Numerosi contadini slavi, la cui immigrazione fu favorita sia dai patriarchi che dai duchi germanici, si concentrarono nell’agro tra Pisino ed Albona.

82 Luciani,“Albona studii storico-etnografici ”, op. cit., p.13.

83 Luciani,“Albona studii storico-etnografici ”, op. cit., p.14.

84 Alberi,“Istria storia, arte e cultura”, op. cit., p. 1724.

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Nel 1209 i patriarchi d’Aquileia furono nominati Marchesi d’Istria e ottennero il controllo temporale e spirituale dell’intera regione. Il governo patriarchino fu debole e il territorio continuamente dilaniato da lotte interne tra comuni. La situazione, già instabile a causa della convivenza in un territorio così ristretto delle mire espansionistiche dei conti di Gorizia e della casa d’Austria, era ulteriormente scossa dagli intrighi veneziani. Albona fu direttamente coinvolta quando perse i territori di Barbana e di Rachele conquistati dai conti gori-ziani. Nel 1295 venne occupata dagli uomini del conte Alberto II e restituita l’anno seguente al patriarca in seguito alla minaccia di una guerra aperta. Nel 1326 Drusaccio di Albona e altri diciassette suoi concittadini tentarono di far ribellare la città ai patriarchi per consegnarla ai conti di Gorizia, la rivolta non ebbe successo e i congiurati furono condannati in contumacia. Nel 1330 i Castropola, signori di Pola, coinvolsero gli albonesi nell’assalto al castello di Barbana – già diroccato per una battaglia svoltasi l’anno precedente – in territorio pisinese, ma l’impresa fallì e Albona, con le altre città, fu costretta dal patriarca a risarcire alla contea i danni arrecati a colture e animali. Nello stesso anno Pietro di Pietrapelosa riuscì a conquistare il comune e ne assun-se la reggenza per quattro anni, finché l’avvicinarsi delle truppe del patriarca Bertrando di Sant Genies non lo convinsero a ritirarsi. Il passaggio di Pola a Venezia nel 1331 causò l’isolamento dell’agro albonese in territorio ostile. La città, descritta dal De Franceschi come “un isola di territorio patriarcale,”85 si trovò accerchiata.

Le descrizioni di Albona nell’epoca dei patriarchi non sono tra le più lusinghiere, il De Franceschi parla di “condizione inferiore, quasi rustica” del comune, riferendosi alla situazione a suo avviso molto più evoluta delle città soggette all’Istria veneta.86 Il Cella non ne fu magnanimo e descrisse Albona come “mediocre borgo fortificato”.87 Dario Alberi, autore della più volte citata, ricchissima guida sull’Istria, aggiunge laconico “Albona in quel periodo aveva circa mille abitanti e la sua acropoli si sviluppava appena sotto l’antica chiesa di San Stefano.”88 Il comune riuscì comunque a mantenere in vita qualche tradizione del municipio romano. Nel 1215, alla stipulazione d’un trattato di pace con gli uomini d’Arbe, gli albonesi furono rappresentati da un viceconte (vicario del patriarca) da uno zupano (meriga ossia capo della comunità) e da due giudici, oltre che da alcuni nobiles, membri d’un consiglio ristretto. Un’immagine più ampia delle strutture amministrative del piccolo comune emerge dalla lettura dello Statuto municipale redatto nel 1341, per concessione del patriarca.

85 De Franceschi, “Statuta communis Albonae”, in Archeografo triestino, III° serie Vol. IV, Ed. Società di Minerva, Stabilimento artistico tipo-grafico G.Caprin, Trieste, 1908, p.134.

86 Ibidem

87 Cella, “Albona”, op. cit., p. 55.

88 La citazione da Alberi, “Istria storia, arte e cultura”, op. cit., p. 1726; in realtà è errata, l’acropoli si sviluppò sopra detta chiesa.

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Bartolomeo Giorgini farmacista albonese, che ad inizio Settecento raccolse pazientemente nell’opera “Memorie istoriche antiche e moderne della Terra e territorio di Albona” la storia della sua città, informa i suoi lettori che “in tal guisa passata Albona all’obbedienza della chiesa Aquileiese, governavasi da un vicario (spe-ditovi dal patriarca pro tempore), il quale co’ giudici della comunità amministrava ragione a’ popoli secondo le proprie leggi, le quali con parte del consiglio del dì 17 agosto 1341 furon raccolte e registrate in un codice che forma lo statuto municipale di questa patria, essendo a quel tempo patriarca d’Aquileia Bertrando da San Genese della diocesi di Sciartres, francese, e suo vicario in Albona Stefano q.m Virgilio da Cividal del Friuli, e giudici della Comunità Sebastiano Vulco90 e Bratogna q.m Andrea.”91 Lo studioso Attilio Bidoli aggiunge, che “la commissione incaricata di compilare lo Statuto era composta da membri del Consiglio Comunale esperti in materia”.92 Il risultato non fu un corpo completo di ordinamenti comunali, ma un insieme di leggi penali con alcune norme di procedura relativa, con qualche disposizione di diritto consuetudinario e di diritto civile. Proprio per la loro semplicità e grazie agli scarsi interventi successivi, gli Statuti danno un’immagine efficace del diritto consuetudinario in vigore sotto il Marchesato d’Istria.

Dagli Statuti emerge come organo principale del governo cittadino il Consiglio, il quale si occupava dell’amministrazione del comune e poteva intervenire direttamente in alcuni ambiti della giurisdizione crimi-nale, come ad esempio la concessione della libertà provvisoria a certi inquisiti. Il Consiglio era composto di ventiquattro membri, quasi sicuramente in origine eletti per un tempo limitato dai capi famiglia della città. Già nel XIV secolo lo stesso si era evoluto in una congregazione chiusa, i cui membri si riunivano se uno di loro mo-riva, per eleggere un nuovo consigliere. Le famiglie che facevano parte del Consiglio iniziarono a considerarsi nobili. Al popolo o ad alcuni suoi rappresentanti, era concesso di partecipare a determinate sedute consiliari per esporvi i propri desideri, erano comunque sprovvisti del diritto di voto.

Il Consiglio ogni sei mesi eleggeva fra i suoi membri: due giudici con il compito di reggere il comune in caso di assenza del vicario o poi del podestà, un cameraro che conservava le chiavi della città e aveva l’inca-rico di riscuotere, custodire ed erogare il denaro pubblico, ed un “meriga maggiore (chiamato volgarmente pozupo, ed era senza dubbio l’antico zupano scaduto in dignità e titolo dopo che il vicario patriarcale divenne podestà comunale), che fungeva in certi riguardi da organo esecutivo del Consiglio, ma sopra tutto doveva vi-gilare alla tranquillità e sicurezza pubblica tanto entro il castello che nel suo distretto, coadiuvato da 24 giurati,

89 Si conoscono due versioni degli Statuti di Albona, una copia in latino del XV secolo conservata prima nell’Archivio comunale e poi passata di proprietà alla famiglia Scampicchio, ed una versione in lingua veneta, sempre del XV secolo, studiata dal Kandler a Trieste [Cella, “Albona” in Histria Nobilissima, op. cit., p. 71 in nota] Gli Statuti furono pubblicati due volte. Carlo Buttazzoni diede alle stampe la versione veneta di fine Quattrocento. Mentre Camillo De Franceschi divulgò il codice in latino di proprietà della famiglia Scampicchio. La versione latina dello Statuto è andata smarrita, mentre quella veneta si trova nell’Archivio Diplomatico di Trieste.

90 Il De Franceschi parlando dei due giudici in carica li nomina ser Bastiano del fu Vlachi e ser Bretogna del fu Jedrevaz, ed aggiunge inoltre i nomi di altri partecipanti alla stesura dello Statuto, ser Drusaz del fu Quirino, ser Giusto del fu Marco da Sith e ser Arnusto Lastigna di Domenico detto Bastiano. In De Franceschi, “Statuta communis Albonae”, op.cit., p. 143.

91 Giorgini, “Memorie istoriche antiche e moderne della Terra e territorio di Albona”, in AMSI, op. cit., p.160.

92 Bidoli, “Gli Statuti di Albona”, in La Porta Orientale, luglio-agosto 1938 vol XVI pp.298-312 e gennaio-febbraio 1939 vol XVII pp. 44-71, p.302.

5.3 Gli Statuti municipali di Albona 89

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detti saltarî ossia guardiani campestri, la cui scelta era riservata ai rettori.”93

L’uomo più importante del comune, con potere politico e giudiziario, era il vicario patriarcale. Inviato regolarmente da Aquileia, si occupava di convocare il Consiglio e presiederne le assemblee. Doveva ammi-nistrare la giustizia in tutti i casi civili e criminali più rilevanti, nei quali, coadiuvato dai due giudici, effettuava la ricognizione dei reati, istituiva gli eventuali processi ed infine pronunciava le relative sentenze. Si occupava anche di verificare le ferite e le contusioni, sostituito dai giudici solo nel caso di assenza o grave impedimento. Alle sue dipendenze aveva un camerario fiscale, la cui nomina spettava al marchese, e che si occupava degli interessi economici patriarcali in città, in altre parole incassava le rendite, le decime e le parti di multe o con-fische spettanti al patriarca.

La Comunità di Albona versava ogni anno al patriarca settanta marche di soldi, inizialmente in un’unica rata a Natale, poi in due quote il venticinque dicembre ed il venticinque marzo. Corrispondeva inoltre una tassa di tre marche e cento soldi pro iuribus viduarum et artificium. Al cameraro o viceconte pagava invece una prestazione di lire diciannove di soldi. La Comunità era inoltre obbligata a fornire, in caso di visita, vitto ed alloggio al patriarca o al suo marchese, ma non più di due volte all’anno. Oltre ciò, per il mantenimento del vicario, ogni possessore di un podere era tenuto a corrispondere annualmente un moggio di frumento, uno d’avena e uno di vino, più la decima degli agnelli ed altre regalie di minore entità. Solo in seguito la Comunità si accordò per garantire al vicario, come retribuzione fissa, centocinquanta moggia di frumento, cento di avena e centocinquanta di vino, cui si aggiungevano una pecora ed un formaggio per ogni mandria ovina e la sesta parte delle multe giudiziarie, o un importo fisso di lire cento.94

Molto probabilmente a causa delle continue perdite di territorio e per aumentarne la fedeltà, il patriar-ca Bertrando di San Genies – lo stesso che autorizzò la stesura degli Statuti – concesse agli albonesi il privile-gio di eleggersi il vicario, che da quel momento in poi assunse il titolo di podestà. Sicuramente la nomina del podestà doveva essere soggetta a restrizioni, dai documenti conservatisi però non è possibile stabilire quali. Si può supporre che per l’elezione fosse necessaria la preventiva autorizzazione del patriarca, come a Muggia, e che dovesse essere un uomo a lui gradito. Il popolo partecipava, forse tramite rappresentanti, alla seduta di nomina del podestà, anche se probabilmente solo per esprimere un’opinione.

Gli Statuti di Albona del 1341 furono scritti in latino e ripartiti in due libri, il primo intitolato De pu-blicis iuditiis95 suddiviso in trentasette capitoli, trattava principalmente materie d’interesse pubblico, mentre

93 De Franceschi, “ Statuta communis Albonae”, op. cit., p.136.

94 De Franceschi, “ Statuta communis Albonae”, op. cit, p.137.

95 Da De Franceschi,“ Statuta communis Albonae”, op. cit., pp.151-153.

INCIPIUNT CAPITULA STATUTORUM COMMUNIS ALBONE PRIMI LIBRI DE PUBLICIS IUDITIIS CAPITULUM I De Invocatione dei et sanctorum eius II De electione potestatis vicarii et aliorum rectorum III De sacramento potestatiis et iudicum vel rectorum IIII De inventione iuratorum qui vulgo saltarij dicuntur V De sacramento iuratorum

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il secondo De privatis delictis96 in ventinove, si occupava di disciplinare le attività private. Delitti pubblici, o malefici, erano considerati: l’alto tradimento, il tumulto, l’omicidio, il veneficio, la violazione di domicilio, l’incendio doloso, il furto violento o qualificato, lo stupro e la violenza carnale in genere, la sodomia e la be-stialità, la falsificazione di monete, la fattucchieria e lo spergiuro. Questi crimini comportavano pene corporali. La pena prevista per l’omicidio era la decapitazione se il reo era un maschio, la morte sul rogo se si trattava

VI De hijs qui intraverint vel exiverint terram Albone aliunde quam per portas VII De traditoribus VIII De robatoribus (aggiunta posteriore: et dantibus eis auxilium et extrahentibus de carceribus) VIIII De homicidis X De violatione virginum et mulierum XI De sodomitis sive buzoronis XII De bludesi (corretto poi in: bludesiis) qui pertinent ad locum qui dicitur sith XIII De purgatione fienda qui inculpatos fuerit de homicidio XIIII Qualiter recipiator excusatio malefactorum XV De furtis infra quantitatem XX soldorum paruorum XVI De furtis a XX soldis paruorum usque ad quantitatem X liberarum paruorum XVII De furtis a decem libris ultra XVIII De furtis equorum et bovum XVIIII De furtis animalium grossorum XX De furtis pecudum sive ovium vel caprarum XXI De hiis qui furto subtraxerint aliquas bestias contentas in proximo statuto a tribus usque ad decem XXII De hiis qui furto subtraxerint aliquas bestias de contentas in statuto de furto pecudum sive ovium vel caprarum e decem ultra XXIII De hiis de nocte intraverint furtim in cavardas curtivos vel molendina XXIIII De hiis qui furto subtraxerint porcellum vel trumbum unum apum sive catulum paruum a mandria XXV De hiis qui ignem immiserint in bladum vel habitationem alicuius persone XXVI De hiis qui facerint conventicula illicita causa eundi ad aliquod castrum pro amicitia vel stipendio XXVII De hiis fabricaverint falsam monetam vel expendicterint XXVIII De faturis XXVIIII De hiis qui dederint alicui comestionem vel potationem venenosam XXX De hiis qui facerint tumultum vel rumorem in populo XXXI De hiis qui tractaverint mortem alicuius persone XXXII Qualiter quis cogatur subire legem caldarie XXIII De forma legis caldarie XXXIIII De falsis testibus XXXV De salario hominum christianitatis solvendo tempore legis caldarie XXXVI De dotibus mulierum conservaneris XXXVII Qualiter fiat executio contra rebelles et condempnatos

96 De Franceschi,“ Statuta communis Albonae”, op. cit., p.175.

INCIPIUNT CAPITULA SECUNDI LIBRI DE PRIVATIS DELICTIS CAPITULUM I De blasphemiis dei et sanctorum eius II De vulneribus factis cum sanguinis effusione intra confines

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di una donna. Se il colpevole fuggiva rendendosi irreperibile era bandito in perpetuo ed i suoi beni venivano confiscati, un terzo andava agli eredi dell’ucciso, un terzo alla Chiesa di Aquileia e il restante al comune di Albona; era esclusa però dall’esproprio la dote della moglie del reo contumace. Per il furto invece la pena era correlata al valore della cosa rubata. I delitti privati erano considerati reati minori spesso punibili solo con multe, associate talvolta alla gogna. Rientravano in quest’ambito: la bestemmia, il ferimento e la contusione, la violazione e l’ingiuria contro o dinanzi pubblici ufficiali, la violazione e l’ingiuria privata, i danni campestri ed altri. Per fare un esempio, la pena per la bestemmia era la berlina con un cartello al collo indicante il delitto commesso, sempre che il colpevole non potesse pagare la multa prevista. Nei reati di stregoneria, detti “herbariae”, la pena era a discrezione della curia o del conte, il rogo era previsto solo in caso di omicidio colposo o volontario. I reati “de facturis” venivano puniti esclusivamente con la pena di morte. Giurare il falso in un atto pubblico prevedeva un giorno di gogna ed una multa di 10 lire di piccoli. Coniare monete false era considerato un reato molto grave, per il quale il colpevole veniva bruciato vivo con una moneta falsa al collo. La complicità in un delitto era punita con la stessa pena del responsabile nei casi di violenza contro le donne e nell’omicidio, solo in seguito in caso di tumulti, si crearono pene differenti: al principale fautore dei disor-dini erano concessi quindici giorni per pagare 50 lire d’ammenda, dopo di che se non poteva pagare veniva decapitato, ai complici invece la multa era ridotta a 10 lire.

III De vulneribus factis ultra confines IIII De vulneribus factis in persona offitialium communis Albone V De hiis qui rebellarierint contra camararium vel nuncios communis euntes pro pignone vel pro bestis VI De iniusiis rectorum vel coram rectoribus dicitis VII De percussione coram rectoribus VIII De hiis iniuriam dixerint alicui VIIII De insulto facto manu armata X Qualiter nullus accipiat pignus sua auctoritate sine licentia rectorum XI De nuntiis dandis volentibus accipere pignus XII De hiis qui pignora per vim reacceperit vel furto subtraxerit sine satisfactione XIII De dato dampno in senista communis XIIII De hiis qui inciderint arbores circumdatas elleribus XV De dampnis datis in fratis communis Albone XVI De bestiis pasculantibus vel euntibus per fratam que vulgo dicitur verbe XVII De occupatione vie puplice vel private sive stazii communis XVIII De foro foresis alicuius XVIIII De licentia lignorum non dande sine consensu conscili XX De incisione lignorum sine licentia in contrata Albone XXI De venditione olei extrinsecii XXII De dampnis factis in ortis vel vineis XXIII De razam XXIIII De cartis debiti XXV De salariatis communis volentibus ire extra confines XXVI De custodia castri Albone XXVII De ratione caniparii sive exactioris collecte XXVIII Quod nullus audeat pascere animalia intra confines vinearum vel in vineis XXVIIII De electis per rectores in aliquod offitium communis

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La detenzione non era considerata un tipo di pena, ma solo una misura preventiva e precauzionale da applicarsi ai sospettati e “a tutti i figli maschi dei traditori, anche se solo palesemente indiziati nel reo pater-no.”97 Le pene afflittive stabilite dallo Statuto albonese erano: la pena di morte,98 il taglio d’una mano o di un piede (ai provocatori di tumulti senza armi e per furti da 20 soldi fino a 10 lire), il taglio di un dito per chi rubava negli orti o nelle vigne, il marchio a fuoco di una guancia per i ladri di due o più ovini. La fustigazione seguita da un anno di bando, colpiva il ladro di un ovino o di cose di valore inferiore ai venti soldi. Le donne che rubavano negli orti erano punite con varie frustate.

La logica che sottostava agli Statuti era “se un reo paga, esso è libero; per quanto se insolvente, subisca una qualsiasi pena corporale che lo porta alla morte.”99 Il colpevole una volta pagata la multa tornava membro attivo della società. In caso di pena corporale, se sopravviveva, avrebbe portato il marchio di delinquente per il resto della sua vita.100

Camillo De Franceschi, autore di un’opera interamente dedicata agli Statuti di Albona,101 aggiunse che la pena di morte nella maggioranza dei casi non era commutabile in una pena pecuniaria. Ciò era ammesso nell’omicidio e nello stupro, ma soltanto in seguito ad un accomodamento del reo con i parenti ed eredi della vittima. In caso di omicidio la concordia doveva essere fatta entro otto giorni in forma pubblica nella chiesa maggiore di Albona, alla presenza di tutto il Consiglio e del popolo, il colpevole era obbligato a pagare pro offesa, cioè per l’infrazione della legge comune, 100 lire veneziane dei piccoli al patriarca ed altrettante al Co-mune. In caso di stupro invece non era prevista la composizione pubblica e l’ammenda al Comune era ridotta alla metà per gli autori diretti del maleficio e ad un quarto per gli eventuali favoreggiatori.102 La tortura era riservata ai ladri famosi ed ai sodomiti.

In alcuni casi l’accusato aveva l’obbligo di dimostrarsi innocente attraverso il giuramento solenne o il giudizio di Dio. Nel caso in cui fosse necessario il giuramento, l’imputato doveva presentarsi assieme ad alcuni uomini di buona fama e condizione – da un minimo di tre ad un massimo di ventiquattro – e discolparsi. Po-tevano ricorrere a questa formula di difesa solo persone incensurate e di ottima fama. I recidivi erano assog-gettati al giudizio di Dio, in altre parole alla lex caldarie. Questa forma di giudizio, detta comunemente ordalia, era di chiara influenza germanica. Essa prevedeva che l’accusato estraesse a mano nuda, da un recipiente pieno di acqua bollente, un sassolino legato a una cordicella. Veniva dichiarato innocente solo se la mano, tolte le bende dopo tre giorni in isolamento, non riportava alcun segno di ustione. In caso di colpevolezza

97 De Franceschi, “ Statuta communis Albonae”, op. cit., p.144.

98 La pena di morte comportava l’impiccagione per i traditori, per i ladri violenti o che commettevano furti di valore superiore alle 10 lire e per i sacrileghi. La decapitazione era riservata agli omicidi, ai violentatori e ai provocatori di tumulti con armi. Per le donne lo Statuto prevedeva in ogni caso la morte sul rogo.

99 Bidoli, “Gli Statuti di Albona”, op. cit., p.54.

100 “Un sistema giuridico comunitario incentrato dunque sugli accordi di pace, sulla faida e su una dimensione risarcitoria della giustizia, ma anche incline a ricorrere a pene severe nei confronti degli estranei e dei ceti più poveri […] molto più volto a punire i criminali che non i crimini.” Povolo C. “Dall’ordine della pace all’ordine pubblico” in a cura di Povolo C., “Processo e difesa penale in età moderna”, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 19

101 De Franceschi, “ Statuta communis Albonae”, op. cit.

102 De Franceschi,“ Statuta communis Albonae”, op. cit., pp.144-145.

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subiva la pena relativa al delitto commesso. Questa prova era riservata ad alcuni casi di furto, alla violazione di domicilio, all’incendio doloso e al taglio abusivo di alberi comunali.103

La parte riguardante le norme di diritto privato, anche se molto scarna, rivela maggiori legami con il diritto romano. I contratti, basati sull’accordo tra le parti contraenti, per essere considerati validi dovevano essere redatti da un notaio alla presenza di testimoni. Il testamento aveva valore solo se convalidato da tre testi. Lo Statuto stabiliva inoltre le norme da seguire per i contratti di custodia del bestiame da lavoro, detti soccida, per quelli di compravendita e per la garanzia delle obbligazioni mediante pegno o ipoteca. Un intero capitolo era dedicato alla conservazione della dote. Il patrimonio familiare veniva salvaguardato e in caso di morte prematura dei genitori, esso non poteva essere suddiviso tra i figli prima della loro maggiore età.

Gli Statuti degli altri comuni istriani sotto la dominazione veneziana furono riformati, solo quello di Al-bona non fu mai né riveduto né corretto. Esso rimase in vigore nella sua forma originaria fino alla caduta della Repubblica nel 1797. Nel XVII secolo lo Statuto venne scritto in lingua volgare veneziana, ci si attenne però ad una strettissima traduzione letterale, riportando persino in maniera immutata le formule d’assegnamento delle tangenti dei banni ai patriarchi d’Aquileia.104 Non è possibile stabilire fino a quando furono applicate le leggi più barbare, sicuramente ad un certo punto della storia del comune esse caddero in disuso,105 ma ufficialmente solo il capitolo 33 del primo libro, quello in cui era spiegata l’applicazione della Lex caldariae, venne cassato con due tratti di penna.106 I veneziani conservarono gli Statuti nella loro forma originale, mante-nendo così la parola data al momento della dedizione della città d’Albona alla Serenissima, ovviarono però al problema dell’arretratezza del sistema giuridico comunale con una notevole serie di addizioni.

103 “Il giudizio ordalico, che comprendeva sia il duello giudiziario che altre diverse prove come quelle dell’acqua e del fuoco, era culturalmente e funzionalmente razionale, in quanto si inseriva nel modello processuale germanico caratterizzato da un confronto tra le parti e nel quale il giudice era chiamato solo a decidere quali fossero le prove che avrebbero deciso la controversia. Ma tale confronto si svolgeva innanzitutto attraverso la presentazione di testimoni e di documenti, avvalorati dalla prova solenne del giuramento, che rinviava direttamente al mondo so-vrannaturale.” In Povolo, “Faida e vendetta tra consuetudini e riti processuali nell’Europa medioevale e moderna. Un approccio antropologico-giuridico.” Storica, 55-56, 2013.

104 De Franceschi, “ Statuta communis Albonae”, op. cit., p.147.

105 Nel corso dell’età moderna molti rituali, più o meno violenti, che dovevano censurare i comportamenti ritenuti devianti, scomparvero oppure divennero secondari di fronte all’emergere di una nuova dimensione penale e giudiziaria. Povolo, “Introduzione”, in Acta Histriae 10, 2002, p.XXIX.

106 Bidoli, “Gli Statuti di Albona”, op. cit., p.56.

5.4 Il tramonto dal patriarcato

Il governo di Aquileia col passare del XIV secolo perse sempre più terreno in Istria. Quando nel 1367 il patriarca Marquardo di Randeck, barone Blochingen di Augusta, si recò nella penisola per visitare i territori ancora in suo possesso, l’intera costa occidentale era ormai sotto il controllo veneziano. Il barone fu ugual-mente accolto con tutti gli onori ad Albona, dove soggiornò e ricevette in omaggio svariati doni. In quel tempo,

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forse per ricambiarne la fedeltà, il patriarca Marquardo coinvolse anche un illustre personaggio di Albona, il Lauricha, nella ridefinizione dei confini tra la contea di Pisino e il territorio di San Lorenzo al Leme. Per i suoi servigi lo stesso Lauricha ricevette in dono l’usufrutto della terra di Fianona. La situazione volgeva però rapidamente al peggio per i signori di Aquileia. Venezia premeva con sempre maggiore insistenza dal mare, attirando a se le città con accordi commerciali e lusinghe di autonomia o assoggettandole con la forza, mentre nell’entroterra fremevano i Conti di Gorizia, in teoria rappresentanti del patriarca in Istria, in pratica sempre più affamati di dominio. In questa competizione a tre, Albona si mantenne sempre fedele ai Patriarchi.

Tutta la vita cittadina ruotava attorno alla piazza del mercato e alla Chiesa di San Giusto. Ciò che più premeva ai signori che guidavano Albona era di “restare in vita”, in pratica di conservare quel poco di auto-nomia che erano riusciti ad ottenere e proseguire la loro esistenza in pace. La filosofia di conservare lo status quo funzionò, perché le varie guerre e rappresaglie che per tutto il Trecento travagliarono le cittadine istriane, lasciarono pressoché indenne Albona. Solo nel 1397, quando il patriarca Marquardo si rifiutò di accettare il podestà eletto dal comune e pretese di inviare in città un suo rappresentante, gli abitanti tentarono di ribel-larsi, ma il patriarca impose per l’ultima volta la sua volontà. All’inizio del Quattrocento il patriarcato si trovò coinvolto nelle lotte fra l’Imperatore Sigismondo e Venezia. La guerra, che si scatenò in Friuli e nel Trevigiano per poi dilagare in Istria ed in Dalmazia, segnò la fine del dominio di Aquileia. Il patriarca Lodovico si schierò con l’Imperatore, ma mal difeso dalle truppe dello stesso, vide cadere in mano veneziana prima Udine, poi Cividale ed infine la stessa Aquileia. Le città istriane lasciate sole opposero una ben scarsa resistenza. Solo Pinguente affrontò le truppe veneziane, Albona e Muggia decisero già nel giugno del 1420 di porsi sotto l’ala del leone di San Marco.107 Nelle sue “Memorie istoriche antiche e moderne della Terra e del Territorio di Albona” scritte nel 1733, quando la città era ancora suddita fedele della Repubblica di Venezia, il Giorgini racconta in modo molto apologetico la dedizione del suo comune alla Serenissima, dipingendo il leone di San Marco come portatore di luce in un momento di totale oscurità. Studi successivi evidenziarono in maniera più obiettiva, come la dedizione avesse portato vantaggi sia alla Serenissima che al piccolo comune.

107 Ulteriori informazioni sul patriarcato di Aquileia in Schmidinger H., “Patriarch und Landesherr: die weltliche Herrschaft der Patriarchen von Aquileja bis zum Ende der Staufer”, Hermann Bohlaus Nachf, Graz, 1954; per la notizia relative ad Albona si veda Cella, “Albona”, op. cit., o Luciani, “Albona studii storico-etnografici ”, op. cit.

108 Luciani, “Albona studii storico-etnografici”, op. cit., p.23.

5.5 Sotto l’ala del leone di San Marco

Albona, l’ultimo baluardo patriarcale in Istria, “amante d’indipendenza, ma chiamata dai proprî in-teressi a Venezia,”108 approfittò della confusione portata dalla guerra per risolvere in assemblea il proprio passaggio alla Serenissima. Quando le truppe venete comandate dal marchese Taddeo d’Este si presentarono alle porte della città, furono accolte benignamente dagli abitanti, che avevano già deciso di cambiare padrone.

A tale scopo furono inviati alla Dominante pochi giorni dopo, nel giugno del 1420, cinque plenipoten-

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ziari,109 quinque ambasiadores cum literis credentialibus, cum bulla cerea communitatis, habentes libertatem plena-riam…110 che furono ricevuti dal doge Tomaso Mocenigo, col Senato e con la Giunta. Le trattative si prolunga-rono fino al 3 luglio 1420 quando fu sottoscritta la formale dedizione. Un trattato bilaterale che garantiva agli albonesi dei privilegi, che avrebbero conservato quasi intatti fino alla caduta della Repubblica. Le condizioni espresse dal comune per giurare fedeltà a Venezia erano:

• Che il castello della città fosse conservato intatto, così come i beni dei suoi abitanti.• Che fossero mantenute e rispettate le consuetudini cittadine.• Che i beni della comunità rimanessero tali.• Che le tasse corrisposte alla Serenissima non superassero le settanta marche corrisposte in precedenza al Marchese.• Che il Consiglio potesse eleggere liberamente il proprio podestà, a condizione che si trattasse di un

suddito veneto,111 cui erano corrisposti ogni anno per il mantenimento 150 moggi di frumento, 150 di vino e 100 d’avena a misura del paese, un formaggio ed un castrato per ogni mandria di animali112 e la sesta parte delle condanne.113 Il podestà aveva inoltre l’obbligo di tenere con sé cinque servi e alcuni cavalli.

• Che al Consiglio fosse permesso di eleggere ogni sei mesi due giudici e un camerlengo e che gli stessi fossero obbligati a riunirsi due volte a settimana per amministrare la giustizia.• Che il popolo albonese, non avvezzò alla guerra, non fosse costretto a combattere al di fuori dell’Istria.• Che si potesse liberamente praticare il commercio in Albona.• Che il bando dalla città fosse da considerarsi “in perpetuo”.• Che le entrate della comunità potessero rimanere alla stessa, per pagare gli stipendi, le marche ante cedenti e per altre pubbliche urgenze.• Che non fossero imposte nuove gabelle.Una volta stipulato l’accordo, gli ambasciatori resero i dovuti omaggi alla Serenissima in nome di tutta

la comunità, prestarono giuramento di fedeltà e presentarono alla loro nuova sovrana il primo podestà, tale Cattarino Barbo, il quale fu accettato dalla pubblica autorità e confermato, con l’ordine di governare bene la città “novella suddita”. Subito dopo il nuovo podestà fece rientro in Istria dove, assieme all’allora capitano di Raspo Giovanni Cornaro, entrò in Albona ricevendone tutti gli onori. Era la mattina del 15 luglio quando il supremo comandante Cornaro, letti alla popolazione i capitoli della dedizione e ricevuti complimenti e atti di giubilo da tutti, prese formalmente possesso della città. Ognuno giurò fedeltà alla Repubblica e fu issato il

109 Il Giorgini informa i suoi lettori che come ambasciatori furono inviati a Venezia: il notaio pubblico Gregorio Nicolò q.m Tomaso, Paolo q.m Matteo, il pievano della città don Pietro e i due giudici Benedetto e Giovanni. In Giorgini, “Memorie istoriche antiche e moderne della Terra e territorio di Albona”, in AMSI, op.cit., p.161.

110 Ibidem

111 Venezia accordò ad Albona l’incredibile privilegio di eleggersi il proprio podestà; ma la città vi rinunciò già nel 1464, per i costi esorbitanti che comportava inviare ad ogni elezione, cioè ogni 32 mesi, dei messi alla capitale e per evitare i disordini e il turbamento della quiete pubblica che le elezioni comportavano. La Serenissima decise quindi che da allora in poi il podestà della città fosse eletto dal Maggior Consiglio.

112 Il castrato fu sostituito da cinquanta denari de piccolo dal Doge Francesco Foscari con la Ducale del 10 luglio 1442.

113 Poi commutate in denari 100 de piccolo corrisposti dalla stessa comunità, cui restavano i soldi delle condanne da utilizzare come stipendio per i ministri e per piccoli lavoretti pubblici.

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vessillo con il leone. Alla dedizione di Albona seguì immediatamente quella di Fianona e il capitano di Raspo nello stesso viaggio poté prendere possesso di entrambe. Così ambedue i territori si ritrovarono riuniti sotto la Serenissima Repubblica, della quale rimasero fedeli sudditi sino alla fine.

Oltre ai privilegi sopra citati, Albona ricevette anche la concessione di eleggere il proprio pievano e il cancelliere. Alcuni podestà nel corso dei secoli successivi tentarono di aggirare tale privilegio nominando propri cancellieri, ma la Serenissima fu sempre ferma nel confermare alla comunità questa prerogativa. Varie ducali ribadirono il concetto, tra cui anche quella del 15 maggio 1752 con la quale il Consiglio dei Dieci invitava il podestà in carica ad Albona a rispettare la volontà del Consiglio locale nella scelta del cancelliere.114

Al tempo della dedizione la Serenissima s’impegnò a conservare intatte le leggi della città. Per non infrangere la promessa e aggiornare comunque lo scarno diritto di Albona, Venezia ricorse a delle aggiunte. In totale trentotto capitoli, scritti in continuazione al secondo libro degli Statuti, senza un ordine cronologico o una divisione tematica, rispettando solo il criterio del bisogno. Riguardavano principalmente deliberazioni del Consiglio in materia civile e amministrativa. Il De Franceschi nel suo lavoro di edizione degli Statuti cittadini, per renderne la lettura comprensibile li riordinò a suo giudizio personale.115

114 ASTRS, C.R. Governo in Trieste, Comuni dell’Istria, 1805/II, b. 604.

115 ADDIZIONI DEL SECOLO XV CAPITULUM I De damnis datis per animalia II De prescriptione rerum immobilium III De infamantibus aliquam personam IIII Pars (consilii Albone) circa equos non conducendos in territorium Albone et prosocedis et aliis V Quod habitatores Albone possint tenere equos in soceda VI De dotibus VII De furtis animalium VIII (Quod boves possint pasculare in satchis sed non possint beverare in lachis alienis) VIIII (De pretio piscium) in seguito depennato probabilmente nel 1451 X Contra ponentes pallos circa hortos et vineas XI Quod vicini albonenses prestare debeant fideiussioneem XII (De sartoribus) XIII (De socedis) XIIII (De consciliariis) XV De sententiis videlicet de tempore eas assecurandi XVI De venditione pignorum XVII (De venditione pura sive voluntaria pignorum) XVIII (De restitutione dotis) XVIIII Quod animalia furate sint d. judicum Albone XX De socedalibus XXI De modio communis XXII De rognolatis XXIII De citacione XXIIII De pignoribus non dando XXV (De pasculando in bladis alterios) XXVI De banno

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Nel codice sono riportati in ordine sparso, anche altri documenti d’interesse comunale tra cui l’Atto di dedizione del comune d’Albona alla Signoria di Venezia (3 luglio1420) e una lista di membri del Consiglio di Albona, negli anni 1436 e seguenti, in cui compaiono citati numerosi Lupetin, due Scampich (in seguito: Scampichio o Scampicchio) i Luciani, i Glavinius, i Grubesich, i Perscich (solitamente Persich), i Plamegna, gli Slokim, gli Zincovcic (usualmente Sincovich) e altre famiglie.116

Il territorio di Albona unito a quello di Fianona, dopo la conquista veneziana del 1420, fu considerato nominalmente quale “marchesato di Albona e Fianona”. Per tutto il periodo veneziano i confini del comune di Albona furono stabiliti a occidente con il fiume Arsa, a nord con la signoria di Chersano e Sumberg,117 a nord-est con il comune veneto di Fianona, a sud e a est con il mare.

Albona ebbe numerosi privilegi proprio a causa della sua posizione strategica a ridosso dei territori au-striaci, sarebbe stato molto pericoloso per Venezia perdere, per l’insoddisfazione dei suoi abitanti, un punto così essenziale alla sua linea di confine. Con l’acquisizione del territorio albonese infatti, la Repubblica di San Marco era riuscita a mettere fine alle mire espansionistiche degli Asburgo sulla parte meridionale dell’Istria e a garantirsi una certa tranquillità nell’area con l’accerchiamento del territorio di Pisino,118 operazione che potrà ritenersi conclusa e riuscita nel 1516 con il passaggio di Barbana sotto le insegne della Serenissima. Per

XXVII De donacione XXVIII (De caudam equis incidendo) XXVIIII De instrumentis XXX De concedendo denarios alicui super usuram XXXI De allapa XXXII (De electione officialium communis) XXXIII (De quaternis officialium communis) XXXIIII (De officialibus furis et deceptoribus) XXXV (De expensis officialium) XXXVI (De officio caniparij) XXXVII (De animalibus accipiendis in herbaticum) XXXVIII (De socidis animalium libere accipiendis) più tardi depennato

116 Gli altri documenti contenuti negli Statuti sono: una Ducale del doge Francesco Foscari che concede a Ramberto di Walsee d’importare a Fiume vino e grani e d’esportare animali da macello (13 giugno 1431), una Ducale sempre di Francesco Foscari che conferma la precedente concessione (22 novembre 1442), la Sentenza di Domenico Trevisan, sindaco di Terraferma e dell’Istria, contro Marco Magno podestà di Albo-na e Fianona del 1450 circa, una Lettera dei governatori alle entrate circa il dovuto pagamento dei salari agli ufficiali del comune d’Albona (27 luglio 1454), la conferma da parte di Benedetto Barberigo sindaco di Terraferma di tre capitoli d’interesse comunale del 1523 e una risoluzione di Luigi Contarini, podestà di Albona, sull’esercizio del notariato datata 24 febbraio 1537.

117 I territori di Chersano e Sumberg erano appartenuti al comune di Albona fino al 1367, anno in cui il patriarca Marquardo li scorporò per creare la signoria allodiale di Chersano, unita, anche se di fatto staccata, alla contea di Pisino. In Alberi,“Istria storia, arte e cultura”, op. cit., p.1727.

118 La città di Pisino, con la relativa contea, si trova esattamente nel centro della penisola istriana. Probabilmente fu locus opacinus in epoca romana, già allora territorio abitato, sottoposto alla protezione del castello di Pisinvecchio che lo sovrastava. Caduto l’impero romano, i barbari causarono la fuga delle genti latine nei borghi fortificati e l’abbandono delle campagne. Nel 929 il castello fu donato al vescovo di Parenzo dal re d’Italia. L’advocatus, un procuratore laico con l’incarico di amministrare i beni della chiesa, si trasformò lentamente in un feudatario a tutti gli effetti. Mainhard von Schwarzenburg, sottraendosi all’autorità del vescovo parentino, s’impadronì della rocca di Pisino e fondò intorno ad essa la futura Contea d’Istria o di Pisino. Nel 1158 Mainardo fu nominato Conte d’Istria, ovvero luogotenente del Marchese d’Istria di nomina imperiale. I vescovi parentini furono costretti a legittimarne l’investitura. Nel 1220 per matrimonio la contea entrò a far parte dei beni dei Conti di Gorizia. Nel 1362 la Contea passo, per un accordo tra le parti alla morte senza eredi di Alberto IV, alla linea leopoldiana degli Asburgo. Per maggiori informazioni si veda Alberi, “Istria storia, arte e cultura”, op. cit., pp. 844-877

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il Cella Venezia strinse saldamente a sé Albona e Fianona, inviando loro buoni rettori e ascoltandone richieste e desideri.119

Sotto la Serenissima il comune di Albona conobbe un quindicesimo secolo di relativa calma. La nuova situazione ridiede fiato ai commerci e in città si moltiplicarono le iniziative. Sorsero nuovi edifici, la cinta mu-raria venne in parte ripensata e interamente fortificata. La città crebbe d’importanza e aumentò il numero dei suoi abitanti. Le famiglie più importanti del comune: gli Scampicchio, i Lupetini, i Luciani, i Bertossa, i Battiala, i Paciotti, i Negri, i Dragogna, i Ferri e i Tagliapietre, tutte facente parte del Consiglio cittadino, assunsero il titolo di nobili.120 E con i secoli a questo primo nucleo di “primati cittadini” si aggiunsero altre famiglie, come quella dei Manzini, dei Manzoni e dei Coppe. Nel 1434, con l’appoggio di un Luciani, i frati Minori Conventuali fondarono un loro convento nella vallata sottostante, distante a circa 1,5 km da Albona, che divenne un impor-tante punto di riferimento per la vita religiosa della città. Nel 1485 invece, per volontà di uno Scampicchio e da allora mantenuto a spese della famiglia, fu edificato il primo ospedale per infermi della città.

Il Luciani con evidente enfasi dovuta all’affetto, descrisse così i suoi concittadini “gli abitanti della pic-cola Albona furono sempre gelosi custodi dei loro privilegi o diritti, amanti della libertà, svegliati d’ingegno, valorosi di braccio.”121 Il famoso diarista veneziano Marin Sanudo,122 durante un viaggio fatto in gioventù in Istria, lasciò una descrizione non particolarmente lusinghiera della città:

“Albona è situata su un monte in zima, par uno falcone, bellissimo ad veder de lonzi: circonda atorno mezo mio; fa fuoghi 300, et 350 homeni da fati: è il patron San Zusto, et à chiesia…Questo castello va in asender con vie pericolose et mal da disender. Questo loco è picolisimo; à tre porte: la granda, di la Cisterna, et un’altra non si adopera et è sera-da. À una piaza picola; brutta stantia à il Podestà…Qui tuti Schiavoni, et non sano il latin, cossa che a mi era miranda; li vestiti de grizo; et vano Conselgio, et son 24; le done è magiche tute, ma vano molto a la chiesia…è bon mercado di carne…el Podestà sta 32 mesi…”123

È comprensibile che a un veneziano come il Sanudo, il comune di Albona apparisse piccolo e sgraziato, abituato com’era alla brulicante vita e magnificenza della Dominante. In ogni caso, dedicando svariate righe della sua opera alla piccola città, lasciò ai posteri una descrizione “dal vivo” dell’agro albonese, sicuramente di notevole valenza storica. L’infiltrazione slava, iniziata ai tempi di Carlo Magno, doveva essersi intensificata nei secoli successivi se lo scrittore veneziano rimase basito dalla massiccia presenza di schiavoni in zona.

Le risorse degli albonesi, a quel tempo, si limitavano a prodotti agricoli quali grano e vino, anche se sempre in scarsa quantità, all’allevamento di ovini e bovini da latte e alla lavorazione dei formaggi. Un’entrata

119 Cella, “Albona”, op. cit., p. 76.

120 La maggior parte di queste famiglie occuperà ancora ruoli di rilievo in città al tempo del processo per insurrezione del 1757. Altre, come quella dei Bertossa e dei Paciotti, persero rapidamente potere. Sulle famiglie influenti di Albona si veda Radossi G., “Stemmi di Rettori e di famiglie notabili di Albona d’Istria”, in ACRSR, vol. XXII, Trieste-Rovigno, 1992, pp. 177-231.

121 Luciani, “Albona studii storico-etnografici ”, op. cit., p. 25.

122 Il Sanudo scrisse le sue annotazioni durante un viaggio nella Terraferma veneta, compiuto nel 1483 al seguito dello zio paterno Marco, nominato in quell’occasione Sindaco. Per maggiori informazioni cfr. Viggiano, “Note sull’amministrazione veneziana in Istria nel secolo XV”, in Acta Histriae III, op. cit, pp.16-18; per la parte relativa all’Istria si veda Semi, “Istria e Dalmazia. Uomini e tempi”, Del Bianco Editore, Udine, 1991, pp. 155-156.

123 Semi, “Istria e Dalmazia. Uomini e tempi”, op. cit., p. 155. Il Sanudo è nominato anche dal Cella, “Albona” op. cit., p. 77.

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extra era garantita dalla pesca del tonno, degli sgombri e delle sardelle, sempre abbondanti lungo la costa e dalla vendita della legna da ardere. Alla comunità appartenevano alcune peschiere, che concesse in affitto, producevano una rendita discreta. La selvaggina era abbondante, ma il territorio impervio rendeva difficile la caccia. Durante tutto il Quattrocento ed anche nel primo Cinquecento, furono edificate varie chiese e nume-rosi edifici religiosi nel territorio d’Albona, ma l’opera di maggior rilievo fu sicuramente la ricostruzione del Duomo cittadino. L’edificio trecentesco fu rimaneggiato secondo i canoni estetici del tempo ed al suo interno furono posti quadri e decorazioni di notevole valore.

124 La bibliografia sull’argomento è molto ampia, si veda per esempio Cozzi e Knapton, “La Repubblica di Venezia nell’età moderna”, op.cit., vol I 1986, vol II 1992. Per maggiori informazioni sullo svolgimento della guerra in territorio istriano si veda Alberi, “Istria storia, arte e cultura”, op. cit., pp.84-86; Benussi, “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, op. cit., pp. 303-309.

125 Nel 1496 nella scuola pubblica di Albona insegnava Bartolomeo, figlio di Giovanni Brisenzi, professore di grammatica; nel 1566 era affidata al maestro Lorenzo Otia, predicatore ed organista; nel 1567 la comunità assicurava a Francesco Cipriano Zubanich da Cherso uno stipendio annuo di 50 ducati, che diventarono 60 pur d’impedire al maestro di lasciare la città; nel 1569 Domenico Antonio de Petris fu maestro ed organista con uno stipendio annuo di 69 ducati; il suo successore padre Benedetto Neruccio da Fiume nel 1574 fu assunto con uno stipendio di 90 ducati annui. Cella, “Albona”, op. cit., p.79.

126 Luciani, “Albona studii storico-etnografici ”, op. cit., p. 24.

5.6 Il XVI e il XVII secolo

L’inizio del XVI secolo vide Albona coinvolta, seppur marginalmente, nella guerra tra Venezia e l’Impe-ratore d’Austria Massimiliano I. Nel 1508 le truppe della Serenissima occuparono l’asburgica contea di Pisino, ma già l’anno successivo l’invio di nuove truppe imperiali costrinse i veneziani a ritirarsi. In quell’occasione Albona inviò alcuni uomini, che si unirono all’infruttuosa spedizione di Damiano Tarsia per recuperare l’Istria austriaca. Il tentativo fallì e le truppe furono costrette a ritirarsi a Piemonte, sul Quieto. I podestà albonesi che si susseguirono durante il periodo di guerra, mantennero sempre saldo ed efficace il sistema difensivo della città. Lo sforzo si rivelò estremamente utile durante i difficilissimi anni della guerra della Lega di Cambrai, anni che misero a rischio l’esistenza stessa della Repubblica.124 Il Quarnaro fu saldamente difeso da trecento isolani, cui si aggiunsero trecento uomini forniti da Albona e Fianona, tutti al comando di Gian Francesco Po-lani. In seguito alla tregua di Nojon del 1516, la Serenissima affidò ad Albona l’amministrazione dell’appena conquistato territorio di Barbana. Questo rimase sotto il controllo del comune fino al 1536, quando divenne definitivamente territorio veneto e feudo della famiglia Loredan. Dopo la pace di Vormazia, che portò la fine delle ostilità, la vita ad Albona riprese a scorrere normalmente. Furono edificati nuovi palazzi e nel 1539 fu fondato il Fondaco della città, che doveva fungere principalmente da deposito di grano e farine. Al Consiglio cittadino fu concesso di nominare un collegio di dieci notai. La scuola pubblica, finanziata dal comune, e le scuole religiose diffusero e rinforzarono la lingua e la cultura italiana nel territorio, perché v’insegnarono anche professori ed oratori di fama.125 La scuola era gratuita e aperta a chiunque avesse voluto, e soprattutto potuto, frequentarla. Molto spesso gli studi dei letterati albonesi proseguivano all’Università di Padova, il comune aveva predisposto dei piccoli stipendi per alcuni studenti particolarmente meritevoli,126 una sorta di

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forma primordiale di borsa di studio. Tra il 1559 e il 1587, a causa delle continue minacce turche, la Repubblica rinforzò ulteriormente le

difese della città con la costruzione di cinque torrioni quadrati, congiunti tra loro da lunghi tratti di muro mer-lato. Nuove precauzioni furono prese anche per difendere le porte della città.

In questo secolo la chiesa comprendeva un ampio territorio in cui erano incluse Fianona, Chersano, Cosliacco, Passo e Bogliuno, mentre la parrocchia decanale di Albona aveva sotto di sé le chiese di Fianona, e dal 1632 in poi San Martino in Vetua, San Lorenzo in Produbaz (più antico) o Produbas, Santa Domenica di Dubrova e Santa Lucia di Schitazza. L’agro albonese, sempre nel 1632 era stato suddiviso in nove contrade principali o sottocomuni, chiamati zupanie o zuppanie.

Albona fu coinvolta, come il resto d’Europa, nei fermenti religiosi causati dalla Riforma Protestante, che per un po’ animarono la vita delle chiese e dei monasteri del luogo. Diede anche i natali ad un illustre teologo riformatore, Mattia Flaccio, noto fra i polemisti protestanti come Flacius Illiricus, nato ad Albona nel 1520.127

Fra Baldo Lupetina, sempre di Albona, fu denunciato al Sant’Uffizio per proselitismo nel 1541. Arrestato ed incarcerato, dopo anni di detenzione, visto che non intese ravvedersi, fu affogato nella laguna di Venezia.

Nel 1599 Albona corse un grave pericolo. La notte tra il 19 e il 20 gennaio, ottocento uscocchi,128 pirati al servizio della Casa d’Austria venuti per la via del mare da Segna e dopo aver depredato Rovigno sbarcarono a Porto Longo e assaltarono la città. Le difese resistettero e la valorosa controffensiva albonese scacciò gli invasori, che però ritirandosi si riversarono su Fianona saccheggiandola. Si distinsero per coraggio e capacità organizzative il capo delle ordinanze Pietro de Rino da Capodistria, il cavaliere Gianbattista Negri, il giudice Baldo Lupetina e il pievano Priamo Luciani.129 In seguito allo scampato pericolo, nel 1604 fu riattato il torrione cittadino, per più di un decennio le mura civiche furono sottoposte a lavori di restauro, la fine dei quali è ricordata su una lapide che nomina l’anno 1615. Il comune fu inoltre dotato di dodici cannoni di bronzo. Il Po-destà Alvise Balbi trasformò Albona in una vera e propria fortezza. Agli inizi del Seicento, durante la guerra di Gradisca, che vide nuovamente Venezia contrapposta all’Austria, Albona si rivelò un rifugio sicuro e un’ottima

127 Mattia Flacio Illirico, conosciuto come Matthias Flacius Illyricus, fu un importante riformatore luterano, teologo, linguista, filosofo e storico ecclesiastico, nato ad Albona il 3 marzo 1520 e morto a Francoforte sul Meno l’11 marzo 1575. A sedici anni Flacio abbandonò la città natia per recarsi a studiare a Venezia. Baldo Lupetino, un suo parente, provinciale dell’ordine francescano sull’isola di Cherso e simpatizzante delle idee riformiste, convinse il giovane Flacio a continuare gli studi in Germania, dove il futuro riformatore trascorse poi gran parte della sua vita, dapprima come studente e poi come professore di teologia e della lingua greca ed ebraica. Il Flacio dedicò tutta la vita all’insegnamento, alla diffusione e alla difesa di quello che riteneva il pensiero originale luterano. Nonostante una famiglia molto numerosa riuscì a scrivere oltre 200 libri, libelli e opere varie; tra le opere più note si annoverano: Clavis Scripturae Sacrae (Chiave della Scrittura Sacra), Catalogus Testium Veritatis (Catalogo dei testimoni di verità) e l’Ecclesiastica Historia (più nota come le Centurie di Magdeburgo) che il Flacio preparò con un gruppo di collaboratori. Fu questo la prima opera di storia ecclesiastica scritta da una prospettiva protestante. Il 22 dicembre 1975, per la ricorrenza del 400.mo anniversario della morte è stata aperta nel palazzo ex Francovich la “Raccolta memoriale di Mattia Flacio Illirico”, nell’organizzazione del Museo popolare di Albona e dell’Assemblea comunale di Albona. Oltre alla riproduzione delle più importanti opere flaciane, come pure di alcuni lavori dei suoi biografi, è illustrata la sua vita attraverso immagini e documenti. Particolarmente rilevanti sono la copia del ritratto del Flacio eseguita, su base dell’originale di Jena, dal pittore albonese Eugen Kokot, sempre di Kokot il murale raffigurante la carta geografica d’Istria, dietro l’originale del cartografo Pietro Coppo, databile verso il 1525, ed infine il busto del Flacio, opera dello scultore accademico Mate Čvrljak. Nella città di Albona sono stati finora organizzati alcuni convegni internazionali dedicati alla vita e all’opera di Mattia Flacio Illirico.

128 La storia di questo popolo fu scritta dal vescovo Minucci e da Fra Paolo Sarpi, i quali documentarono minuziosamente tutte le scorrerie commesse in Istria da questi feroci e rapaci pirati tra il XVI ed il XVII secolo.

129 L’assalto degli uscocchi alla città è riportato da molti autori, per esempio in Alberi, “Istria storia, arte e cultura”, op. cit., p.1731; Benussi,“L’Istria nei suoi due millenni di storia”,op. cit., p. 318; Luciani, “Albona studii storico-etnografici ”, op. cit., p. 25.

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base di partenza per le incursioni nel territorio di Pisino. La città subì numerosi attacchi e nel 1617 fu occupata dalle truppe austriache al seguito del generale Marradas. Prima della fine della guerra la città ritornò in mano veneziana. Il comune superò senza eccessivi traumi il conflitto, al contrario della campagna circostante che subì razzie e danneggiamenti.

Nel 1623 dei ladri riuscirono ad introdursi in città e spogliarono il Duomo di alcuni arredi sacri. Fu allora che il capitano di Raspo avviò nuovi lavori di restauro e rinforzo delle mura. Albona aveva tre porte, normalmente l’accesso alla città avveniva attraverso la Porta Maggiore (Porta San Fior) a orari stabiliti. Dopo l’ultima campana della sera, la porta veniva chiusa ed agli eventuali ritardatari non restava che trovare un riparo per la notte o tentare di scavalcare le mura. Introdursi nel comune abusivamente poteva essere molto pericoloso, perché se scoperti la pena prevista dagli Statuti era l’amputazione di una mano o di un piede.130

La porta della città era custodita da cittadini volontari, sostituiti in un secondo tempo da guardie mercenarie. Delle chiavi si occupava il cavedario o merigo, il quale aveva il compito di aprire la porta al sorgere del sole e richiuderla al tramonto. L’aria salubre del promontorio albonese attirava da sempre i vescovi di Pola, i quali spesso passavono dei mesi ad Albona, la loro presenza dava rilievo al comune. Furono convocati anche quat-tro sinodi in città nel 1576, nel 1598, nel 1631 e nel 1633.

Con la pace e la fine delle incursioni uscocche, in città rifiorirono i commerci e ritornò un discreto be-nessere. Della metà del XVII secolo sono la maggior parte degli edifici privati della città, come ad esempio i pa-lazzi Francovich, Coppe e Negri. Nel 1664 fu ammessa nel Consiglio cittadino la famiglia Battiala.131 Le famiglie nobili, o notabili, di Albona raccolsero gloria durante le numerose guerre che Venezia sostenne contro i turchi. Orazio Scampicchio fu Capitano di Ventura contro gli ottomani in Dalmazia e per i meriti acquisiti sul campo, fu nominato Cavaliere di San Marco dal Doge Contarini. Giovanni Domenico Negri combatté per Venezia e dopo anni di servizio per la Spagna, tornò ad Albona, dove divenne Sovrintendente ai confini istriani. Questi uomini fecero onore alle loro famiglie ed anche alla città.

Nell’anno 1651 Albona contribuì alla guerra col turco con una donazione volontaria di 300 ducati,132

un esempio di stima verso la Dominante ed un modo per le famiglie nobili di garantirsi un comportamento benevolo da parte di Venezia. Secondo Bartolomeo Giorgini, in quel tempo le cariche degli ufficiali della co-munità si dispensavano dal Consiglio sia ai nobili sia ai popolani, eccetto la carica di giudici, del conservator delle leggi, del ragionato, dei provveditori e del cancelliere alla sanità, riservate esclusivamente ai nobili. Il Consiglio era composto solo dai membri delle famiglie signorili “avendovi in esso alcun’ingerenza i popolari, se non nel poter esser spettatori.”133

130 De Franceschi, “Statuta communis Albonae”, op. cit., p.144.

131 I conti Tomaso e Giacomo Battiala, un secolo dopo, saranno chiamati a deporre nel processo con Rito del Consiglio dei Dieci, indetto ad Albona per appurare se vi fosse stata o meno un’insurrezione in città.

132 Giorgini, “Memorie istoriche antiche e moderne della Terra e territorio di Albona”, op. cit., p. 165; il Cella parla invece di una donazione, sempre nel 1651, di 500 ducati. In Cella, “Albona”, op. cit., p.116.

133 “Per simboleggiare l’antica lor libertà, sogliono i popolani albonesi ogni primo giorno dell’anno finita la messa solenne nel Duomo, pre-sentare al di loro podestà il minor tra gli uccelli (preso però in quella mattina), chiamato da’ Latini Regulus, serrato in picciol gabbia, la quale aperta dallo stesso rettore lascia che l’uccellino se ne esca, e se questi sen vola a posar il piede ver la cappella maggiore (con vana osservazione) pronosticano l’abbondanza dell’anno entrante; se poi spiega i vanni per l’aere ver la porta maggiore lo tengono augurio infelice.” Giorgini, “Memorie istoriche antiche e moderne della Terra e territorio di Albona”, op. cit., p. 166, anche per la citazione nel testo.

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Nel 1632 per mettere fine alle continue risse che nascevano nei giorni di festa ad Albona tra i villici, il Senato inviò in città il Nobil Uomo Antonio Civran, a quel tempo Provveditore Generale in Dalmazia ed Alba-nia, con il compito di stabilire delle regole per “il buon governo de’ sudditi territoriali.” Il 2 settembre 1632 il Civran sancì con un decreto ufficiale, una terminazione, la suddivisione del territorio in nove comuni, detti zuppanie. Ogni zuppania doveva eleggere un rappresentante, un capo, chiamato zuppano o meriga, il quale agiva nell’interesse del suo territorio di competenza. Dato che le ultime tre zuppanie erano particolarmente estese si nominavano dodici zuppani. Col tempo, proprio a causa di 12 zuppani e di altrettanti rilevanti borghi le 9 zuppanie sono diventate 12. Agli zuppani venivano indirizzati i mandati ed altri ordini pubblici. Lo stesso decreto prevedeva anche che i dodici zuppani si riunissero ogni anno il 25 aprile, giorno della festa di San Marco, nella chiesa di San Sergio fuori le mura per eleggere quattro procuratori, i quali avrebbero rappre-sentato la comunità per un anno. Dalla terminazione in poi le pene previste, se si fossero presentati numerosi dinanzi ai pubblici rappresentanti, sarebbero state molto pesanti.134 Sempre il Civran, con la Terminazione del 1632, suddivise la cura delle anime del territorio albonese in quattro parrocchie filiali, la chiesa della Santissima Trinità di Dubrova detta comunemente di Santa Domenica, quella di San Lorenzo in Produbaz o Produbas, quella di San Martino in Vetua e quella di Santa Lucia di Schitazza. Il pievano e i canonici d’Albona si rifiutarono fermamente di svolgere a turno anche il ruolo di parroci curati nelle nuove parrocchie come avevano ipotizzato il Civran ed il Vescovo di Pola. A causa dello scarso interesse del clero albonese, i contadini iniziarono a nominare da sé il proprio curato. In caso di posto vacante si riunivano in San Sergio, eleggevano una persona a loro gradita e poi chiedevano la dovuta conferma all’ordinario di Pola.135 Oltre alle quattro pievi suddette nel territorio d’Albona s’incontravano numerose altre chiese, le principali erano: il Duomo, la chiesa di Santa Maria della Consolazione, la già nominata chiesa di San Sergio nel borgo a ridosso della città, una chiesa dedicata a Sant’Antonio con un bel cimitero, la chiesa di Santo Stefano, nel cui oratorio vivevano i confratelli del Santissimo Nome di Gesù e l’antica parrocchiale di San Giusto Martire.136 In tutto trentacinque, tutte soggette alla chiesa albonese. Dall’arcidiaconato dipendevano anche le numerose confraternite presenti, sia ad Albona che a Fianona.137 La maggior parte degli abitanti del comune, ma spesso anche dei contadini, faceva parte di una o più congregazioni. Queste avevano il compito di sostenere gli iscritti nel momento di bisogno ed organizzavano gran parte della vita sociale della città. Le Confraternite permettevano l’incontro tra ceti sociali diversi, perché normalmente accoglievano membri di varia provenienza.

134 Proprio l’arresto di due zuppani il 25 aprile 1757, in seguito a tumulti per l’elezione dei procuratori, diede il via all’intero processo per insurrezione. Tra le carte del processo ho rinvenuto anche copia della Terminazione Civran del 2 settembre 1632.

135 Il Giorgini nelle sue Memorie aggiunse: in certi tempi anche la Pieve di Sumberg fu soggetta alla Chiesa di Albona, ma in seguito alla divisione dei confini, con Sumberg passata all’Austria, i padri albonesi conservarono solamente il diritto di inviarvi ogni anno per una proces-sione dei chierici, preceduti da un canonico, con croce e stola, nel terzo giorno delle Rogazioni. Lo zuppano locale era obbligato ad ospitarli per pranzo. La processione portava in dono, per tradizione, dodici capi d’aglio. In Giorgini, “Memorie istoriche antiche e moderne della Terra e territorio di Albona”, op. cit., p.170.

136 Per ulteriori informazioni sulle chiese e sulle reliquie presenti in territorio albonese si veda Giorgini, “Memorie istoriche antiche e moderne della Terra e territorio di Albona”, op. cit, pp.170-172; e Alberi,“Istria storia, arte e cultura”, op. cit., pp. 1718-1773.

137 Le Confraternite presenti in Albona erano 18, le principali erano quelle della Madonna della Consolazione, di Sant’Antonio da Padova, del Santissimo Sacramento, della Madonna del Rosario, di San Giovanni e di Sant’Andrea. Quelle di Fianona invece erano quelle di Santa Barbara, di San Giovanni Battista, di Santo Stefano, della Madonna e di San Giorgio. Si veda Cella, “Albona”, op. cit., p. 117.

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138 Alberi, “Istria storia, arte e cultura”, op. cit., p. 1733.

139 Luciani, “Albona studii storico-etnografici ”, op. cit., p. 27.

140 Nel 1724, alla morte del pievano Francesco Querenghi, il Consiglio d’Albona decise di sostituirlo con il diacono Melchiorre de Negri (figlio di una Balbi patrizia veneta), cui il vescovo di Pola Bottari affiancò, in qualità di economo, l’arcidiacono Cosimo Manzoni. Dopo ventidue mesi circa di vacanza fu dato all’eletto pievano Negri il possesso della diocesi. Il Capitolo ritennè però illegittima l’elezione del Negri, avvenuta al di fuori del Capitolo stesso, e gli negò le rendite connesse al suo ruolo. Solo nel 1728 il conflitto di competenze trovò una soluzione. Venezia decise che al pievano fossero concesse le rendite connesse alla sua carica di capo spirituale. Per maggiori dettagli si veda Giorgini, “Memorie istoriche antiche e moderne della Terra e territorio di Albona”, op. cit., pp. 172-174.

141 Cella, “Albona”, op. cit., p. 115.

La storia del Settecento albonese è stata trascurata dalle fonti. Di solito gli autori si limitano a dire che il comune si mantenne fedele a Venezia e che i nobili locali, preoccupati di conservare i loro privilegi, congelaro-no la situazione impedendo qualsiasi riforma. Per esempio Alberi dedica tre righe, non particolarmente lusin-ghiere, all’intero secolo. “Il Settecento albonese fu una riaffermazione dei privilegi dei nobili che manteneva-no una situazione statica e deleteria da troppo tempo. Il Consiglio cittadino si era arroccato attorno alle poche famiglie nobili che lo componevano. Anche la chiesa non fu da meno.” 138 La situazione non si risolse da sola, ma con la caduta della Repubblica. Tomaso Luciani ignora direttamente l’intero secolo, informa però i suoi lettori che in quel tempo visse in Albona un uomo illustre, Bartolomeo Giorgini “diligentissimo raccoglitore di patrie Memorie, che andarono già per le stampe.”139 Lo stesso Giorgini non dedica grande spazio al periodo, ma per un motivo del tutto diverso, il suo libro fu scritto nel 1733. Non tralascia comunque di delineare am-piamente la situazione creatasi in Albona con la Terminazione Civran del 1632, che doveva essere molto simile a quella dei suoi giorni. L’autore aggiunse la dettagliata descrizione, cui dedica l’intero XI capitolo delle sue Memorie, di una disputa nata nel 1724, tra la Comunità e il Capitolo d’Albona, per l’elezione del Pievano.140

Il Cella riporta maggiori informazioni, anche se il tono non è diverso da quello dei suoi colleghi. Per farsene un’idea basta la frase “come nella buona, così nella cattiva sorte Albona seguì la Dominante.”141 L’autore vede un sistema di governo statico, incapace di sopravvivere ai mutamenti in atto. Nota comunque che un certo fermento illuminista dovesse essere presente anche nella piccola Albona, se Antonio Maria Lorenzini, illustre uomo di cultura locale, scrisse un libro intitolato “Riflessioni sopra il ragionamento di G.G.Rousseau cittadino di Ginevra sopra le origini e li fondamenti dell’uguaglianza degli uomini.”

Dalle pagine del Giorgini emerge tutta la fierezza che l’autore provava come suddito veneto, l’idea che di lì ad una settantina d’anni, non solo la sua amata Albona sarebbe passata all’Austria, ma l’intera Repubblica sarebbe sparita dalle carte geografiche, non lo sfiorava nemmeno. Il pessimismo del Luciani e del Cella può invece dipendere molto dal “senno di poi”, soprattutto dalle pagine del Luciani emerge tutta l’amarezza per il suo tempo e per la situazione della sua patria soggetta alla dominazione austriaca.

Spero con il prossimo capitolo, di aggiungere un piccolo tassello alla storia di Albona. Partendo dal processo per insurrezione del 1757 traccio un affresco della città in quegli anni, tentando di evitare pregiudizi “decadentisti”, spero di gettare nuova luce sulla vita del comune e del suo contado.

5.7 Il XVIII secolo

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Affresco di Albona August Tischbein (1842)

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142 Il fascicolo del processo, composto di tre tomi per un totale di circa 268 carte (alcuni fogli allegati sono privi di numerazione) si trova in Archivio di Stato di Venezia - ASV, Consiglio dei Dieci, Processi criminali delegati a Capodistria, b. 6. Tutte le citazioni letterali che seguono, se non diversamente specificato, sono tratte da questo fascicolo. Il processo è introdotto da un dettagliato sommario, che permette di identificare rapidamente il punto esatto di ogni deposizione, per questo, per non appesantire di note l’elaborato, cito la carta di riferimento solo nei casi che mi sono sembrati più significativi.

143 Dichiarazione rilasciata dal conte Domenico Battialla nella sua deposizione. ASV, b. cit., c. 141.

144 Il Consiglio dei Dieci era la più influente magistratura veneziana. La bibliografia sull’argomento è particolarmente vasta, si veda in parti-colare Cozzi, “Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVII”, Giulio Einaudi editore, Torino, 1982, pp. 147-148, e Cozzi e Knapton, “La Repubblica di Venezia nell’età moderna”, op. cit., 1986 vol I pp.110-113, vol II 1992 pp.175-179.

145 La trascrizione integrale della lettera del podestà di Albona, datata 26 aprile 1757, è riportata in appendice a questo elaborato.

146 In appendice si trova il testo integrale di detta Terminazione.

147 Per non abusare del termine contadini, userò come sinonimo la parola villani o villici, nel senso di abitanti di una villa.

148 La campagna di Albona era suddivisa in dodici ville: Cugno (scritta a volte Cugn a volte Cagn), Cere, Dubrova, Montagna, Poglie, Portolongo, Produbas, Ripenda, Rogozzana, Santa Domenica, Schitazza e Vetua.

149 Il territorio di Albona era suddiviso in quattro parrocchie, la chiesa della Santissima Trinità di Dubrova detta comunemente di Santa Do-menica, quella di San Lorenzo in Produbas, quella di San Martino in Vetua e quella di Santa Lucia di Schitazza. Ad ogni pieve corrispondeva un procuratore.

6 Il processo per insurrezione svoltosi ad Albona nel 1757 142

6.1 L’antefatto

“…di una popolazione unita si deve sempre temere” 143

La sera del 26 aprile 1757 il podestà di Albona Zuanne Bragadin, chiuso nel suo studio, scrisse una lettera urgente indirizzata direttamente al Consiglio dei Dieci144 nella quale denunciava terribili tumulti tra la popolazione della sua città.145 Il podestà, ben cosciente di risvegliare così l’interesse dei consiglieri, descrisse con enfasi gli avvenimenti di quei giorni. In apertura del suo scritto, informò i consiglieri dell’esistenza di una Terminazione146 del Provveditore Generale in Dalmazia ed Albania Antonio Civran, datata 2 settembre 1632 “inalterabilmente osservata”, che disciplinava la vita civile dei villici albonesi, prescrivendo:

“che in cadauno anno, alli 25 Aprile Festività del Glorioso San Marco, ridursi debbano i dodici Zuppani delle ripartite Contrade di questo Territorio in una Chiesa fuori della Terra, per dover mutare nella maggior parte li quattro Agenti, osian Procuratori del Popolo, che con detta Terminazione furono ordinati, e stabiliti.”

La Terminazione Civran, come altre del Seicento, era stata emanata allo scopo di porre fine alle conti-nue risse tra contadini,147 che accadevano regolarmente ad ogni elezione dei rappresentanti locali. Le nuove norme vietavano alla popolazione di raggrupparsi numerosa senza il permesso del podestà. Ogni singola villa della circoscrizione di Albona,148 dodici in tutto, doveva eleggere ogni anno un rappresentante, detto zuppa-no - eventualmente coadiuvato da uno o più giudici, chiamati pozuppi - che partecipasse alla riunione per la nomina dei quattro procuratori.149 Lo zuppano si occupava anche di comunicare ai suoi covillici eventuali

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mandati del podestà o delle autorità veneziane. Il racconto del Bragadin proseguì entrando nel dettaglio degli avvenimenti, che dal suo punto di vista,

sconvolsero il quotidiano fluire della vita cittadina di Albona. Tutto aveva avuto inizio il giorno prima, il 25 aprile festa di San Marco, quando i dodici zuppani del territorio, come di consueto, si erano recati al palazzo podestarile per ottenere il permesso di radunarsi ed eleggere i loro rappresentanti. Il Bragadin scrisse nella sua lettera al Consiglio dei Dieci:

“[la permissione] fu anco prontamente accordata. Non mancò però l’attenzione mia di preavvertirli, con pre-murose esortazioni, acciò cader facessero la scelta in persone le più moderate, e capaci della di loro assistenza.”

Gli zuppani si trovarono così alla chiesa di San Sergio, nel borgo ai piedi delle mura di Albona, per eleggere i procuratori. In occasione di questo raduno il Bragadin accusò apertamente gli zuppani d’insubor-dinazione. Riporta che:

“[gli zuppani] tumultuariamente si solevarono tutti e con detestabile sprezzo, e con voci confuse ed altisonanti, in scandalosa profanazione del Sacro Tempio, proruppero in terribili schiamazzi, dichiarando voler, in onta alle pre-messe fattegli, confermar e stabilire perpetuamente i Procuratori vecchj, che sono appunto li sediziosi fomentatori della strana novità.”

Il Bragadin non era presente ai fatti, ciò che descrisse gli fu riportato dal cancelliere Antonio Frielli, incaricato di sovraintendere insieme al comandante Zammaria Zatton alla riunione degli zuppani. Letta loro la Terminazione Civran, questi la accolsero con strepiti e schiamazzi. Così, spaventato ed impossibilitato a svolgere il suo compito, il cancelliere sciolse l’assemblea, recandosi dal podestà a riferire l’increscioso com-portamento degli zuppani. Il Bragadin li fece convocare per un chiarimento:

“con la lusinga di poterli convincere e ridur al proprio dovere; ma fu vana l’idea, perché resisi eglino vie più baldanzosi e temerarij, dimostrandosi fra questi li più arditi, e sussuranti li due Zuppani Iseppo Micuglian e Vicenzo Faraguna quondam Simon da quali posposto ogni dovuto rispettoso riguardo, scordatisi d’esser sudditi, s’innoltrarono con temerario orgoglio ad esprimersi, ch’essi il ius hanno d’eleggere i Procuratori, e che il Principe non ha in ciò alcun diritto di comandarli.”

Il podestà rimase sconvolto da tanta insolenza e decise di punire una così irrispettosa affermazione, fece arrestare i due “capi della rea facione” Vicenzo Faraguna ed Iseppo Micuglian e congedò gli altri zuppani. Le sue intenzioni, stando alla sua lettera, erano di dar loro una breve punizione, come esempio per coloro che si comportavano in maniera irrispettosa. Gli zuppani assolti però la notte tra il 25 ed il 26 aprile, fecero circolare per le ville la notizia dell’arresto e intimarono i contadini, con la minaccia di una pena di venticinque lire, a comparire in piazza ad Albona la mattina successiva “onde s’unissero, per quei violenti tentativi che premeditavano”. La mattina del ventisei all’apertura delle porte della città, moltissimi contadini affollarono la piazza, guidati da due dei loro vecchi procuratori Gasparo Lupetin detto Buriach e Mattio Belusich quondam Zuanne150 “fomentatori del grave scandalo”. Più di duecento villici si radunarono, chi in piazza, chi di fronte alla porta della città, per richiedere “risolutamente” la liberazione dei due zuppani incarcerati. I contadini si dimostrarono disposti a liberarli con la forza, se fosse stato necessario. Si è trattato di una sollevazione di gente “indocile e prepotente”. Il podestà per mancanza di uomini e per “non cimentare maggiormente il

150 Nell’anno 1757 i procuratori della comunità erano Lupetin Gasparo per San Lorenzo in Produbas, Belusich Mattio quondam Zuanne per la pieve di San Martino, Faraguna Andrea quondam Simon della contrada di Santa Domenica e Fonovich Piero quondam Piero di quello di Santa Lucia. Dalle indagini sostenute durante il processo emerse che il Faraguna ed il Fonovich, al momento del tumulto, si trovavano a Venezia.

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pubblico decoro” prese la decisione di rilasciare i due arrestati. Il rilascio placò il tumulto e i contadini comin-ciarono a defluire lentamente dalla piazza. Molti villici si presentarono in città “con armi ascoste,” per rendere più credibile la minaccia di ricorrere alla forza, nel caso del mancato rilascio del Faraguna e del Micuglian. Il podestà, dopo aver rilevato le “contingenze così ardue e disastrose” in cui era costretto a svolgere il suo ruolo di rappresentante veneziano, terminò la lettera rimettendosi alle decisioni del Consiglio dei Dieci.

Nello stesso periodo il Consiglio dei Dieci ricevette anche una supplica a nome dell’Università del po-polo di Albona,151 nella quale i procuratori e gli zuppani, in rappresentanza dell’intera comunità, spiegavano le ragioni del loro comportamento all’eccellentissimo Principe a agli illustri consiglieri.152 La popolazione era ridotta alla fame:

“aggravata nei suoi poderi da Livelli annuali d’un dodici e tredici percento sopra Capitali somministrati da Signo-ri del Consiglio e da più doviziosi, ha dovuto sofrire orribili tenute, devastazioni, e spogli de Beni intromessi per diffetto de censi, siche non poche famiglie affatto ignude hanno dovuto cercare di vivere ne Stati Austriaco et Ecclesiastico, con scandalo e pernizioso esempio contrario alla sussistenza della Provincia.”

I dodici zuppani capi delle ville e i quattro procuratori del popolo avevano presentato un ricorso per ottenere giustizia, in nome dei poveri contadini. La materia era finalmente arrivata di fronte al Consiglio di Quaranta153 e quindi “non attendeva, che la sua definizione a consolazione degl’oppressi.”

Avvicinandosi il 25 aprile, giorno dell’elezione annuale dei procuratori, come di consueto i dodici zup-pani si erano recati dal podestà di Albona, Zuanne Bragadin, per chiedere l’autorizzazione a riunirsi per no-minare i quattro procuratori, permesso accordato a condizione che non fossero confermati quelli vecchi. Gli risposero con umiltà gli zuppani che era “cosa molto insolita praticarsi” e anzi che avevano assoluto bisogno di riconfermare i procuratori già in carica, perché informati della causa in corso, per la quale erano già stati fatti molti viaggi a Venezia e spesi molti soldi. Il podestà fu irremovibile nel suo divieto, potevano riunirsi, ma solo a condizione di eleggere nuovi procuratori. Proibì la creazione di nuove tasse per sovvenzionare la causa e minacciò anche di farli arrestare se avessero disobbedito. Per non abbandonare la causa comune alcuni contadini si autotassarono, il podestà intese la cosa come una provocazione ed accusò i procuratori “come violatori delle Leggi e sedduttori del popolo”. Zuppani e procuratori decisero così di recarsi a Capodistria, per eludere il podestà locale ed ottenere le licenze necessarie:

“il che accordato, portarono a Sua Eccellenza Podestà di Albona il Decreto e le Requisitoriali, ma sua Eccellenza rispose, che eseguirà e rescriverà, quando piacerà a lui e che, se insisteranno, li farà marcire in una prigione, ed in fatto cosi fu, perché mai permise cosa alcuna, e ciò per divertire la prosecuzione della Causa favoriado [favorendo] le premure dei Signori et opulenti”

151 In appendice si trova il testo integrale della supplica.

152 La supplica è riportata nel processo senza una data di riferimento. La frase riportata nell’ordine di avviare il processo, inviata dal Consiglio dei Dieci al Podestà e Capitano di Capodistria Lorenzo Paruta, “essendosi poi nel giorno presente prodotto al Tribunale sudetto memoriale sul proposito stesso da Procuratori del Popolo, vi resta questo rimesso in copia a semplice vostro lume,” ci informa che l’11 maggio del 1757 la stessa supplica era già nelle mani dei consiglieri.

153 Il Consiglio di Quaranta o Quarantia, dotato agli inizi di grande autorità e prestigio, si evolse fino ad occupare mansioni prettamente giudi-ziarie. Suddiviso in Quarantia criminal e Quarantia civil – a sua volta ripartita in civil nova e civil vecchia - si occupava delle cause penali e civili giudicate in prima istanza nei tribunali di tutto lo Stato. Atti e sentenze vi giungevano in appello grazie all’intromissione condotta dall’Avogaria di comun e dagli Auditori. Si veda in glossario la voce “Quarantie” in “Il processo a Paolo Orgiano” a cura di Povolo, op. cit., p. 646.

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La mattina del giorno della festa di San Marco, il 25 aprile, il Podestà Bragadin mandò a chiamare i dodici zuppani e minacciò di farli arrestare, li trattenne in città e solo verso sera li congedò a quattro per volta; restati Vicenzo Faraguna e Iseppo Micuglian li fece portare in prigione, dove passarono la notte. La notizia dell’arresto raggiunse tutto il popolo, che la mattina seguente si radunò in città per chiedere “umilmente” per voce del Procuratore Belusich,154 la liberazione dei due prigionieri e il permesso di ultimare la causa, per “non restar avviliti a fronte de potenti Signori con queste strane procedure.” Dopo molte preghiere il podestà, a voce, accordò la liberazione dei prigionieri e la conferma dei procuratori attuali sino al termine della causa. Aggiunse però la minaccia di far tremare zuppani e procuratori, oltre all’avvocato difensore della comunità:

“per tale da lui chiamato insolenza e tumulto, quando anzi non fu che una preghiera e una acclamazione di grazie verso Sua Eccellenza per la carità usata.”

La lettera terminava con la supplica al Principe, dei quattro procuratori e dei dodici zuppani in nome dell’intera comunità, di incaricare degli accertamenti del caso solo il “Capo di Provincia”. Ricevute e ponderate le missive, il Consiglio decise di approfondire, istituì allo scopo un processo con il Rito, che fu delegato al Capitano e Podestà di Capodistria, Lorenzo Paruta, al quale fu ordinato di recarsi rapidamente ad Albona per indagare.

154 Dagli interrogatori del processo emergono descrizioni contrastanti del comportamento tenuto quella mattina dal procuratore Belusich.

155 Sulla magistratura veneziana del Consiglio dei Dieci la bibliografia odierna è molto ampia si veda in particolare Cozzi G., “Repubblica di Venezia e Stati italiani”, op. cit. Per avere una descrizione delle sue funzioni dalle parole degli autori che vissero sotto la Serenissima si veda Argelati F., “Consiglio dei Dieci” in “Pratica del Foro veneto”, p. 96.

156 Cozzi G., “Autodifesa o difesa? Imputati e avvocati davanti al Consiglio dei Dieci” in “La società veneta e il suo diritto”, Saggi Marsilio Fon-dazione Giorgio Cini, Venezia, 2000, p.150.

157 Se il Consiglio dei Dieci decideva di occuparsi personalmente del processo, l’intero incartamento doveva essere inviato rapidamente a Ve-nezia e l’imputato, se detenuto, veniva trasferito nelle carceri del Consiglio stesso. Questa procedura era riservata a situazioni particolarmente delicate o di notevole rilevanza politica. Lo stesso imputato, se lo reputava conveniente, poteva richiedere che il processo si svolgesse a Venezia.

Creato nel 1310 come tribunale straordinario col compito di giudicare i crimini gravi commessi con-tro il Comune Veneciarum, all’inizio del Cinquecento il Consiglio dei Dieci era considerato da tutti “l’autorità fondamentale della giustizia penale veneta.”156 Il Consiglio aveva il compito di giudicare tutti i crimini peggiori commessi a Venezia e nel dogado. Inoltre ogni persona incaricata di amministrare la giustizia in territorio veneto, non esclusivamente i rettori, era tenuta ad informare il Consiglio dei reati più rilevanti, di qualsiasi illecito commesso da ecclesiastici e di qualsiasi situazione rischiosa, per la quale non fossero sufficienti le forze locali. Oltre a ciò era concesso ai sudditi di inoltrare delle suppliche allo stesso Consiglio, per denunciare malversazioni commesse dai rettori o giusdicenti locali. Una forma di controllo sufficientemente sviluppata, da informare la Dominante di tutte le principali cause di pericolo o instabilità, che minacciavano la Repubblica. Il Consiglio dei Dieci poteva poi intervenire in vari modi: avocando a sé il caso157 oppure rimettendolo a rettori del dominio.

6.2 Il processo con Rito segreto del Consiglio dei Dieci 155

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Nel processo di Albona il Podestà e Capitano di Capodistria, Lorenzo Paruta, fu incaricato dal Consiglio stesso di portare avanti il processo. Oltre a delegare il caso, il Consiglio stabiliva anche con quale procedura si sarebbero svolte le indagini. Poteva consentire al processo di seguire la normale prassi locale, introdurre la procedura servatis servandis, che si distingueva dall’ordinaria solo per la possibilità di applicare pene più seve-re, oppure poteva decidere di concedere l’applicazione del Rito, la forma processuale che lo stesso Consiglio utilizzava nei processi a sé avocati. “Nel ‘700 la delega del rito del Consiglio dei Dieci veniva concessa con molta larghezza, finivano così per avvalersene anche rettori che non erano affiancati da corte, e che emanavano pertanto la sentenza da soli”158 come Lorenzo Paruta il rettore di Capodistria. Il processo con il Rito segreto del Consiglio dei Dieci era un tipo di procedimento giudiziario di matrice inquisitoria.159 Colui che dirigeva il processo svolgeva personalmente gli interrogatori in un clima di totale segretezza. L’imputato, ufficialmente, non poteva avvalersi dell’aiuto di un avvocato, era tenuto a difendersi autonomamente, non conosceva i nomi dei suoi accusatori e non disponeva di una copia del processo con cui aiutare la propria memoria. L’imputato poteva citare dei testimoni a suo favore ed introdurre carte pubbliche a sua discolpa, ma nessun documento privato era ammesso nel procedimento. Il processo veniva redatto dal cancelliere di fiducia del podestà. Tutti i testimoni erano tenuti a mantenere la segretezza, ma solo i testi ritenuti attendibili dovevano giurare de veritate, ossia di aver deposto il vero.160 I testimoni e gli accusatori non dovevano conoscersi tra loro, era assolutamente escluso il confronto. Il rettore incaricato di condurre il processo aveva l’obbligo di aggiornare costantemente il Consiglio sull’evoluzione dello stesso. La sentenza era emanata, solo dopo aver ottenuto l’approvazione, con l’autorità del Consiglio stesso. Non era possibile fare ricorso contro di essa, ma solo supplicare la grazia. La suprema magistratura veneziana si riservava il diritto di avocare a se il processo e l’imputato, anche a procedimento già iniziato. Gli incartamenti processuali, sia di Venezia che del Dominio, venivano archiviati nella cancelleria del Consiglio.161 La teoria e la prassi non sempre coincidevano, soprattutto nel Settecento, la stretta maglia di segretezza si era allentata notevolmente. La figura dell’avvocato aveva fatto lentamente breccia nel sistema, fino a trovare sul finire del secolo imputati che facevano apertamente riferi-mento all’intenzione di consultare il proprio avvocato prima di rispondere alle accuse.162

Nel caso del processo di Albona alla fase istruttoria non seguì l’inquisizione degli imputati. Il Consiglio ordinò al rettore Paruta di comminare ai principali colpevoli la pena suggeritagli dalla sua coscienza:

158 Cozzi, “Autodifesa o difesa? Imputati e avvocati davanti al Consiglio dei Dieci”, op. cit., p.151.

159 Per maggiori informazioni sul rito inquisitorio si veda in glossario la voce “Rito inquisitorio” in “Il processo a Paolo Orgiano” a cura di Povolo, op. cit., p. 656.

160 I testimoni che giuravano de veritate venivano chiamati giurati ed erano considerati uno dei principali strumenti di prova. Sull’importanza della testimonianza nel processo penale veneziano si veda Cozzi, “Autodifesa o difesa? Imputati e avvocati davanti al Consiglio dei Dieci” in “La società veneta e il suo diritto”, op. cit. e dello stesso autore “La difesa degli imputati nei processi celebrati col Rito del consiglio dei X” in La Leopoldina. Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del 700 europeo ricerche coordinate da Luigi Berlinguer, IX, Crimine, giustizia e società veneta in età moderna, a cura di Luigi Berlinguer e Floriana Colao, Milano, 1989, p.1-87; e Povolo C. “Processo e difesa penale in età moderna: Venezia e il suo stato territoriale” Soc. Ed. Il Mulino, Bologna, 2007.

161 Purtroppo questo ricchissimo fondo archivistico subì una drastica opera di scarto nel secondo decennio dell’Ottocento, per ordine delle autorità napoleoniche; si veda Povolo, “Il processo a Paolo Orgiano”, op. cit., p.VII-XI.

162 Le accuse venivano raccolte al termine dell’indagine inquisitoria nel costituto opposizionale, documento che veniva letto all’imputato e al quale lo stesso doveva fare riferimento per difendersi.

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“rissolviamo con il Consiglio stesso di incaricarvi a far chiamare alla presenza vostra li principali colpevoli delle più osservabili mancanze, e passare contro d’essi a quella correzione, che la prudenza vostra riputerà conveniente et adattata alle respettive trasgressioni.”163

163 Dalla lettera del Consiglio dei Dieci al Podestà e Capitano di Capodistria Lorenzo Paruta, datata 29 settembre 1757. La lettera si trova nelle ultime pagine del terzo tomo del processo, in ASV, Consiglio dei Dieci, Processi criminali delegati a Capodistria, b. 6.

164 Nelle piccole podesterie di provincia non venivano certo inviati illustri letterati a ricoprire la carica di rettore, solitamente si trattava di patrizi impoveriti costretti ad arrangiarsi con lo stipendio che veniva loro corrisposto dalla Repubblica.

165 Durante il processo spesso ci si riferisce al veneziano parlato dalle autorità chiamandolo italiano. Lo stesso podestà Bragadin nella sua deposizione afferma che un tale (Fenich) Tencich detto Lettis, che sapeva l’italiano, gli fece da interprete quel giorno. ASV, b. cit., p. 37v.

L’11 maggio 1757 il Consiglio dei Dieci, nel nome del Doge Francesco Loredan, ordinò al Podestà e Capitano di Capodistria, Lorenzo Paruta, di recarsi immediatamente ad Albona ed istruire il processo con Rito. Il rettore doveva far luce sugli avvenimenti verificatisi in città tra il 25 e il 26 aprile di quell’anno. L’accusa da accertare era insurrezione con armi nascoste, un reato molto grave, per cui in casi estremi era prevista anche la pena di morte. I Consiglieri ordinarono inoltre al Paruta di far scrivere tutto al suo cancelliere e gli conces-sero di promettere la segretezza ai testimoni e l’impunità ad eventuali complici disposti a collaborare, purché non si trattasse del mandante o dell’autore principale del tumulto. Una volta terminante le indagini, il Paruta compilò una chiara relazione, che inviò al Consiglio dei Dieci a Venezia, sulla base della quale i consiglieri decisero il da farsi.

Eseguendo gli ordini il podestà di Capodistria si recò ad Albona, dove il 28 luglio 1757 iniziò le indagini procedendo ad una lunga serie di interrogatori. Le prime persone ascoltate furono le autorità municipali loca-li: il podestà Zuanne Bragadin, il cancelliere Antonio Frielli ed il comandante Zammaria Zatton. Le deposizioni si svolsero separatamente secondo la forma dell’interrogatorio, mentre il podestà Lorenzo Paruta poneva le domande, il suo fidato cancelliere Francesco Bonaldi annotava ogni cosa. La prima deposizione raccolta fu quella del cancelliere Frielli, seguì quella del comandante Zatton ed infine quella del podestà Bragadin. I tre descrissero dettagliatamente gli avvenimenti della giornata del 25 aprile e della mattinata del 26, non sempre però le loro versioni dei fatti furono concordi. La descrizione del podestà si soffermò molto sul com-portamento costantemente minaccioso ed irrispettoso tenuto degli zuppani. Le dichiarazioni del cancelliere si uniformano abbastanza a quelle del podestà. Il Frielli pose l’accento ripetutamente sulla grande paura provata. Dalle parole del comandante, al contrario, non emerge alcuna paura, anzi, lo stesso rimarca più volte il fatto che i contadini fossero disarmati. Il cancelliere introdusse l’interessante problema delle difficoltà di comprensione linguistica tra autorità veneziane e contadini locali. Non si trattava solo di una differenza tra lingua relativamente colta dei rappresentanti veneti164 e dialetto contadino, ad Albona – come in tutte le zone rurali dell’Istria - l’autorità si esprimeva in veneziano,165 mentre la popolazione contadina parlava

6.3 Il processo

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prevalentemente una variante del ciacavo, definito dalle fonti veneziane come “illirico”, una lingua di matrice slava. Molte deposizioni di contadini si tennero alla presenza di Padre Giupponi, cui spettava il compito di permettere alle due parti di capirsi.166 Anche il religioso a sua volta fu tenuto a giurare de referenda veritate e de silentio, le sue traduzioni dovevano essere letterali ed era tenuto alla riservatezza.

Gli abitanti della città di Albona parlavano un dialetto istroveneto abbastanza simile alla lingua dell’au-torità, da non richiedere durante la loro deposizione la presenza di padre Giupponi. Si può immaginare che molti contadini non fossero proprio digiuni di lingua veneta, ma preferissero comunque avere l’aiuto di un interprete per non incappare in spiacevoli incomprensioni con la giustizia. Il podestà Bragadin e il cancelliere Frielli dal canto loro non capivano una parola d’illirico, entrambi dovettero ricorrere ad interpreti per farsi tradurre le affermazioni degli zuppani. Il comandante Zatton invece parlava l’illirico ed ebbe il compito d’in-terpretare la Terminazione Civran per gli zuppani. Tornando al costituto del cancelliere Frielli, questi racconta che quel giorno, dopo aver pranzato dal comandante Zatton, si recò alla chiesa di San Sergio per sovrainten-dere all’elezione dei quattro procuratori. Quando arrivò in chiesa alcuni contadini entrarono con lui, mentre altri restarono fuori dalla porta ed iniziarono a strepitare. I villici volevano riconfermare i vecchi procuratori. Il cancelliere, non capendo l’illirico, fu costretto a farsi spiegare dal comandante il motivo delle lamentele. I due zuppani più rumorosi erano Iseppo Micuglian e Vicenzo Faraguna, “i quali si dimostravano i capi”. Fu il comandante ad indicare al cancelliere i loro nomi. Il Frielli ordinò al comandante di imporre il silenzio per leggere la Terminazione Civran, come gli era stato ordinato dal podestà, e proseguire con l’elezione. Ma i contadini si rifiutarono di eseguire l’ordine dal podestà di cambiare i procuratori. I villici rimasti fuori dalla chiesa si avvicinarono alla porta, parlando così ad alta voce da impedire al cancelliere di leggere la Termi-nazione. Il Frielli ebbe paura: non li capiva, ma pensava che fossero uniformi nel sentimento. Il comandante avrebbe dovuto interpretare la Terminazione per i contadini, così il cancelliere provò a spiegarne al capitano il senso, sperava di riuscire così a calmarli, ma loro non ci badarono. Il Frielli, giacché era impossibile arrivare ad un’elezione e temendo tumulti più gravi, lasciò la chiesa e si recò dal podestà a riferire l’accaduto. Arrivato a palazzo, il cancelliere trovò il Bragadin in compagnia di Baldissera Manzoni, uno del Corpo della comunità.

Per la prima volta nel processo viene citato il signor Manzoni, sicuramente persona molto influente in città, il suo nome ricorre spesso nelle deposizioni, quasi fosse una sorta di ombra del podestà. Probabilmente Baldissera Manzoni rappresentava i signori locali, interessati al fallimento della causa civile in corso a Venezia.

Il Frielli proseguì informando il Paruta, che stava tenendo l’interrogatorio, che il podestà avrebbe vo-lentieri fatto incarcerare tutti e dodici gli zuppani, ma che lui stesso lo dissuase. Il Bragadin decise allora di farli comparire alla sua presenza due alla volta per ammonirli, perché eseguissero la Terminazione Civran; solo se si fossero rifiutati li avrebbe fatti arrestare. Per il cancelliere questa era un’idea “rischiosa e poco decorosa”. Gli zuppani furono radunati sotto la Loggia dal comandante e a due a due vennero condotti alla presenza del podestà. Furono tutti licenziati tranne gli ultimi due, il Micuglian ed il Faraguna. Il cancelliere non era presente al congedo, tornò dal podestà solo mentre questo riceveva gli ultimi due zuppani; il Manzoni si trovava ancora con il rettore.

166 Nella tabella dedicata alla popolazione albonese, tra le appendici in fondo all’elaborato, ho segnato con (t) tutte le persone alla cui depo-sizione era presente, in qualità di traduttore, padre Giupponi.

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Il Frielli raccontò allora al Bragadin ciò che un tale Zuanne Dragogna167 gli aveva riferito, sembrava che i due zuppani in precedenza avessero diffuso per le ville, tramite i pozuppi, l’ordine di radunare molta gente in paese se fossero stati arrestati. Il Dragogna sosteneva di aver saputo degli ordini dai contadini stessi. Il podestà si fidava di lui come esperto degli avvenimenti della campagna. Nessuna altra deposizione conferma la premeditazione, tutte si allineano nel collocare la “chiamata dei villici” nella notte tra il 25 ed il 26 aprile. In ogni caso, sia che il raduno in piazza fosse stato pianificato, sia che sia stato organizzato in una notte, esso testimonia la coesione e la rapidità di intervento dei contadini albonesi. Le cifre oscillano, ma in ogni caso tra i duecento e i quattrocento contadini, spontaneamente o eseguendo gli ordini, si ritrovarono ad Albona la mattina del 26 aprile, per richiedere ed ottenere la liberazione di due loro rappresentanti.

La ricostruzione del cancelliere proseguì con lui che si trovava in compagnia del podestà, di due sol-dati delle cernide e di uno “sbiro”, al quale fu ordinato di arrestare i due zuppani insolenti. I due opposero resistenza solo a parole, soprattutto il Faraguna. Il cancelliere consigliò allora al podestà di chiamare in aiuto il Dminich, capo delle cernide,168 che però si scusò dicendo che non era riuscito a trovare soldati disposti ad intervenire.

La mancanza di soldati può avere varie motivazioni: da una parte i popolani, che servivano come soldati nelle cernide, potevano essersi rifiutati di obbedire all’ordine del podestà, lo stesso Dminich nella sua depo-sizione spiega di aver eluso l’ordine per non introdurre in palazzo uomini armati, la cui fedeltà al Bragadin era tutta da dimostrare, dall’altra esiste sempre la possibilità che lo stesso Dminich in fondo parteggiasse per i due zuppani e non volesse mettere a repentaglio la loro vita. Alla fine convinsero i due ad andare in prigione senza strepiti.169 Per quanto era a conoscenza del cancelliere “altro in quella sera non successe”. La mattina successiva però si radunò in piazza una grande moltitudine di contadini, guardavano attenti, molti si trovavano fuori dalla porta della Terra vicino alla prigione. La milizia era posta a protezione della prigione. Baldissera Manzoni si trovava ancora in compagnia del podestà. Al cancelliere fu riferito da Zuanne Dragogna, che i pro-curatori del popolo Gasparo Lupetin e Mattio Belusich erano presenti tra la folla. Il cancelliere era nuovo in città, per questo non era ancora in grado di riconoscere le persone (una scusa?). Il Dragogna fu fatto chiamare

167 La figura di Zuanne Dragogna ricorre spesso tra le carte del processo, doveva essere una sorta di informatore del podestà. Esperto cono-scitore delle “cose della campagna”, riferì al Bragadin l’umore della folla. Si può anche ipotizzare che fosse una sorta di portavoce privilegiato dei contadini, uno che agiva nell’ombra, senza esporsi mai troppo. Il Dragogna, come il Manzoni, sembra muovere le fila degli avvenimenti da una posizione defilata.

168 In realtà il cancelliere sbagliò persona, sostenendo nella sua deposizione, che il podestà fece chiamare tale Cattaro, caporal dei bombar-dieri. Proseguendo nella lettura del processo si capisce che il Cattaro non era al palazzo del podestà la sera del 25 aprile, al contrario Zaccaria Dminich, capo delle cernide, depose di essersi trovato in palazzo il giorno 25 aprile. Il comandante lo chiamò per ordine del podestà, con lui dovevano recarsi immediatamente a palazzo quattro soldati delle cernide. Dovevano passare per certa porta di dietro chiamata secreta. Eseguì immediatamente. Lì il podestà gli ordinò di trovare altra gente in rinforzo “stantechè due zuppani non volevano lasciarsi ligare per essere tradotti in Priggione”. Disse al podestà che non sapeva dove rinvenire i soldati, perché nella Terra ve ne era uno scarso numero e non si fidava di quelli di fuori, temendo che stessero dalla parte dei due zuppani. Pensando di poterli persuadere chiese al podestà il permesso di recarsi di sotto in caneva, si rivolse loro “con destra maniera” e “in fatto li trovai disposti; solo lagnandosi che non volevano essere legati a guisa di malfattori, profes-sando che non avevano colpa di sorte […] che peraltro erano obbedienti e mi diedero parola di andare in priggione, purchè il sbiro non l’avesse posto le mani indosso.” Conclusero l’accordo sigillandolo con un bacio dato al Faraguna, che parlava, mentre il Micuglian se ne stava tacendo piuttosto mortificato. Riferì la decisione al podestà che si dimostrò compiaciuto. Per sicurezza il Dminich fece serrare la Porta della Terra e tornò dai due zuppani, li trovò “manutentori dell’impegno, sicchè senza strepito e senza che il sbiro le ponesse le mani indosso, sono passati in priggione”. Riferì al podestà, il quale ordinò che la prigione fosse guardata da due cernide, e così fu fatto.

169 Si veda nota 168 per la versione del Dminich dell’arresto dei due zuppani.

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per parlare con i contadini radunati in piazza e persuaderli a ritirarsi, fu autorizzato a promettere che entro sera i due sarebbero stati rilasciati. Zuanne Dragogna si allontanò e al ritorno riferì al podestà di aver parlato con il Lupetin, che si sarebbe anche dimostrato condiscendente, ma il suo collega Belusich al contrario si era fermamente opposto all’accordo. Per evitare maggiori disordini, il podestà si decise dunque a liberare i due prigionieri. In seguito alla scarcerazione il popolo si acquietò e defluì lentamente dalla piazza. Il Frielli aggiun-se un avvenimento importante, neanche accennato dal podestà nella sua lettera al Consiglio dei Dieci: nel dopo pranzo di quella giornata dieci o dodici di quei contadini, probabilmente gli zuppani, si erano recati a casa del cancelliere sostenendo di aver ottenuto dal podestà l’autorizzazione per eleggere liberamente i propri rappresentanti. Gli chiesero di recarsi a San Sergio, ma il Frielli non gli credette, si recò dal podestà per avere una conferma e questi negò di aver concesso loro la licenza, ma ammise di aver detto ai contadini di fare ciò che volevano pur di levarseli di torno. Il cancelliere aggiunse di aver consegnato agli zuppani una copia della lettera che il Consiglio di quaranta aveva ricevuto a nome della comunità. Con questa lettera i dodici si erano recati dal loro avvocato Zammaria Spizza, il quale si era giustificato con il cancelliere dicendo che non era lui il direttore dell’insorgenza ed aveva giurato la sua innocenza.170 Si può ipotizzare, che fu lo Spizza a scrivere la supplica con le ragioni della comunità contadina inoltrata al Consiglio dei Dieci contemporaneamente alla lettera di denuncia del Podestà Bragadin.

L’interrogatorio del cancelliere proseguì con alcune domande fondamentali, che ritornano in tutte le deposizioni. Durante i tumulti c’erano armi, visibili o nascoste? La Giustizia, chi potrebbe interrogare per con-fermare quanto appena deposto? Ha altro da aggiungere? Il cancelliere, come quasi tutti i testi, si tenne vago nel rispondere alla prima domanda, non sapeva dire se qualcuno fosse stato armato quel pomeriggio, ma i villici che aveva visto la mattina erano disarmati.

“Non so che alcuno s’attrovasse proveduto d’armi, mentre nel congresso vi furono solo parole e nella mattina susseguente osservai bensi una moltitudine di villici, ma però tutti disarmati, per quanto è caduto sotto li miei sensi corporei.”

In paese aveva sentito dire che vi fossero armi nascoste appena fuori le mura. Un tale Alvise Negri poteva confermare quanto aveva raccontato. Non sapeva dire se il podestà e i villici avessero mai parlato direttamente, perché non era presente in quel momento. Non sapeva il nome delle persone nel Consiglio cittadino, né da quanti membri fosse composto, perché era “novello del paese”. Seppe però riferire alla giustizia il nome dei dodici zuppani convocati per l’elezione dei procuratori: Domenico Valcich (forse Vlacich?), Domenico Knapich, Nicolò Blasina, Gregorio Rabaz, Gregorio Rusich, Marinco Zuppicich, Nicolò Glubonovich, Mattio Zactila, Iseppo Micuglian, Vicenzo Faraguna, Vicenzo Zuppanich e Zuanne Blasina.171 Non aveva invece idea dei nomi dei pozuppi,172 né sapeva dire se fossero presenti quella mattina. Non vi era l’abitudine di

170 Lo Spizza, che non fu chiamato a testimoniare dal Paruta nel corso del processo, era il legale del popolo, doveva essersi occupato della causa civile in corso presso la Quarantia e per questo era già stato ostracizzato dal podestà, non solo con la proibizione di esercitare la profes-sione forense, ma addirittura di recarsi in chiesa.

171 Durante il processo i nomi degli zuppani, così come quelli della maggior parte degli individui coinvolti nella vicenda, vengono riportati con numerose varianti ortografiche, per non appesantire troppo il testo, ho deciso di considerare per ogni nome la versione ortografica più diffusa ed utilizzare sempre quella. Tutti i nomi sono riportati, con la relativa posizione sociale, nell’appendice “Albona” al termine dell’elaborato.

172 I collaboratori degli zuppani, detti pozuppi, erano uno o due per villa, secondo l’estensione geografica della stessa. Aiutavano lo zuppano portando i suoi ordini e le sue comunicazioni, anche a quei contadini che vivevano particolarmente lontani.

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conservare in cancelleria un registro con i loro nomi. I procuratori non intervennero alla chiesa di San Sergio. Il Frielli non era in grado di indicare da che ville venissero i vari contadini.

Il Paruta interrogò poi il cancelliere sui dettagli della Terminazione Civran173 e sull’andamento delle precedenti elezioni. Il Frielli ipotizzò che le elezioni si fossero svolte il 25 aprile 1756, perché la carica durava un anno. Alla domanda sul possibile movente dell’insurrezione, il cancelliere rispose, che c’era una causa pendente al Consiglio dei quaranta. L’avvocato Spizza gli aveva riferito che i contadini volessero confermare i vecchi procuratori, perché erano già istruiti nella causa in corso tra l’Università e la comunità e per la quale due procuratori si trovavano in quel tempo a Venezia. Il podestà voleva risolutamente che cambiassero i pro-curatori per preservare la legge. Probabilmente aveva intuito la risolutezza dei villici di non voler cambiare i rappresentanti e per questo gli aveva dato la Terminazione Civran da leggere agli zuppani prima dell’elezione.

Il cancelliere aveva preso servizio il 2 marzo di quell’anno, provvisoriamente al suo posto vi era Baldis-sera Manzoni, quale al momento di entrare in servizio gli diede qualche informazione. Nuovamente torna in primo piano la figura del Manzoni, sostituendosi al cancelliere ufficiale nel tempo necessario alla sua nomina, dimostra una volta di più la sua influenza sugli affari della città. Albona aveva conservato fin dalla sua dedizio-ne il privilegio di scegliersi il cancelliere, che quindi non era una persona di fiducia del podestà in carica, ma una figura legata al Consiglio cittadino, che gli dava l’incarico.

Il Manzoni mostrò al Frielli una supplica, presentata alla carica delegata a Capodistria in nome degli avvocati delle quattro parrocchie, con cui imploravano il permesso “di poter gettare una tassa in summa di 100 soldi, per difendere la causa” in corso. Gli mostrò inoltre il permesso e infine gli fece leggere il rescritto, in cui si diceva che detta tassa non potesse riguardare coloro che non avevano interesse nei livelli, che erano appunto la causa del litigio in corso. Nel 1756, i contadini decisero di ricorrere al doge, contro gli interessi esorbitanti che i signori applicavano ai livelli, chiedendo che fossero limitati al 6%.

Questo era tutto ciò che sapeva riferire sull’argomento, ma per maggiori informazioni la Giustizia po-teva rivolgersi ai due giudici della comunità in carica: Nicolò Negri e Giacomo Dragogna, che erano poi coloro che presentarono le lettere contro l’Università.

All’arresto dei due zuppani ricorda che fossero presenti il podestà Bragadin, il Manzoni, il comandante Zatton, lui, uno “sbiro” e due soldati delle cernide. Dopo aver liberato i due zuppani, il podestà convocò il cancelliere e gli dettò la lettera per il Consiglio dei Dieci. Fu il Bragadin ad imporre al cancelliere di scrivere che i villici non volevano eleggere i procuratori e che il Principe in materia non aveva alcun diritto. Fu sempre il podestà a dettargli che i capi della rivolta erano il Lupetin ed il Belusich e che si erano presentati armati.

Il cancelliere accusò apertamente i vecchi procuratori di essere “fomentatori e sediziosi, in quanto loro erano stati li promotori della civil questione”. Il podestà Paruta chiese al cancelliere di consegnare prima possibile una copia della Terminazione Civran, cosa che il Frielli fece il giorno seguente.

Il Paruta, forse provato dalla loquacità del cancelliere - la sua deposizione occupa tredici pagine ed è la più lunga dell’intero processo - o forse per l’ora ormai tarda, si ritirò. Il 29 luglio l’inchiesta proseguì con le deposizioni del comandante Zatton e del podestà Bragadin.

173 La risposta del Frielli coincise con ciò che è riportato nella Terminazione. Essa ordinava che gli zuppani si radunassero per eleggere i loro procuratori il 25 aprile, perché questi si occupassero degli affari dell’Università. Intervenivano solo i 12 zuppani, i quali indicavano il prescelto, quello che veniva nominato più volte risultava eletto. Non c’era un registro dettagliato.

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Zammaria Zatton, di circa quarantacinque anni, era il comandante della Terra. Il 25 aprile il suo com-pito consisteva nel sorvegliare l’elezione dei procuratori, per accertarsi che non si verificassero pericoli per la quiete pubblica. Cosa che fece. La descrizione degli avvenimenti sostanzialmente coincide con quella del cancelliere, aggiunse soltanto che lo zuppano di Portolongo non si presentò ed al suo posto intervenne Ma-rian Chuchiera. Quando gli zuppani si erano recati dal podestà a chiedere il permesso di riunirsi, aveva fatto da interprete il signor Orazio Scampichio. Nella chiesa aveva pregato il cancelliere di leggere la Terminazione, ma gli zuppani si erano fatti sempre più insistenti, anche se solo a parole, così aveva persuaso il cancelliere a mandare a monte ogni cosa, come poi si fece. Subito dopo con il cancelliere si recò dal podestà, dove presto comparvero volontariamente gli zuppani, i quali supplicavano la riconferma dei vecchi procuratori già istruiti nella causa in corso a Venezia contro la comunità; terminata la causa li avrebbero cambiati. Questa testimo-nianza del comandante Zatton è importante, perché non conferma l’accusa mossa dal podestà Bragadin agli zuppani di voler confermare “in perpetuo” i vecchi procuratori. Il podestà voleva assolutamente che fossero cambiati. Ne seguì una breve altercazione e alla fine il podestà disse che era lui il “Padrone e Principe” e che loro dovevano ubbidire.

“Incaricandomi a doverle commettere in pena di lire 25 per cadauno che dovessero retirarsi in forma di seque-stro sotto la Loggia, e così restò anco eseguito”.

In seguito il podestà lo convocò e gli chiese i nomi dei due contadini più insistenti. Rispose con verità, indicandogli Iseppo Micuglian e Vicenzo Faraguna, entrambi zuppani. Il podestà li fece convocare a due a due e congedò tutti senza rimproveri, fino al turno del Micuglian e del Faraguna, quando ordinò che si trattenesse-ro nella sala e che lo sbirro uscisse dalla cucina con quattro soldati delle cernide per arrestarli. I due opposero un po’ di resistenza, al che il podestà gli intimò di ammettere che era lui a comandare, ma loro si rifiutarono. Anche se disarmati, per quanto vedeva il comandante, lo sbirro non sembrava intenzionato ad arrestarli. Così il podestà fece chiamare il caporale dei bombardieri, irreperibile, e poi il vice comandante. Seppe in seguito che i due zuppani erano stati portati in prigione, ma lui non era presente, quindi non può fornire alla Giustizia altri dettagli dell’arresto.

La mattina seguente, il 26 aprile, recandosi verso il palazzo, il comandante vide un gran numero di con-tadini radunatisi davanti alla porta della città. Depose che i villici erano tutti privi di armi. Quest’affermazione così categorica suona un po’ esagerata, come fece lo Zatton a vedere che nessuno era armato? Si può ipotizzare che il comandante aderisse almeno in parte alla fazione dei contadini e che non essendoci stati feriti o scontri gravi, si sia sbilanciato in loro favore.

Tra la folla quella mattina riconobbe Gasparo Lupetin, procuratore del popolo. Raggiunto il cancello, incontrò Zuanne Dragogna e Baldissera Manzoni, che gli ordinarono di riferire al podestà di liberare i due zuppani, perché “v’era del pericolo”. Quindi passò di sopra, dove con il podestà c’era l’altro procuratore del popolo Mattio Belusich in compagnia di un soldato carso.174 Riferì l’ordine e il podestà eseguì immediatamen-te.175 Fece convocare i due alla sua presenza e gli disse, con animo quieto, che li licenziava, perché il popolo voleva così. In seguito i villici lasciarono la piazza senza altri strepiti.

174 Altre deposizioni parlano di un contadino che usava girare vestito come un soldato.

175 Questo particolare riferito dal comandante Zatton, rimarca una volta di più l’influenza che il Manzoni ed il Dragogna avevano sugli affari della comunità.

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La deposizione del comandante sembrerebbe confermare le teorie storiche che considerano i rettori veneziani delle piccole podesterie, nel corso del Settecento, sostanzialmente inermi di fronte al potere dei signori locali, propensi ad assecondarne i desideri per ottenere un certo tornaconto personale.176

Tornando all’interrogatorio del comandante, questo si sbilanciò nuovamente a favore dei rivoltosi, so-stenendo: di non avere la minima idea di come volessero ottenere la liberazione dei due prigionieri, che pro-babilmente il Belusich era lì per supplicare il podestà e che i contadini avevano difeso i due zuppani, dato che:

“erano andati in Prigione, perché avevano voluto sostenere la confermazione dei Procuratori vecchii, quali assistevano alla causa comune contro questa comunità.”

Come a dire, per il bene di tutti. Non sa se fossero diretti da qualche capo, né se in piazza fossero pre-senti anche gli zuppani. Molti contadini, ma non ricorda i nomi,177 gli riferirono che la folla era stata radunata dagli zuppani per ottenere la liberazione dei detenuti.

I due procuratori che in quel tempo si trovavano a Venezia per difendere la causa, erano Piero Fonovich e Andrea Faraguna. Tutto quello che sapeva della lite in corso tra i procuratori e la comunità, era che fosse per i livelli. Il 25 aprile fuori dalla porta della chiesa di San Sergio vide alcuni schiavoni che erano lì per curiosità, non erano armati e volevano la riconferma dei procuratori, perché fosse terminata la causa contro quelli della comunità. Dentro la chiesa oltre agli zuppani si trovava un tal Nicolò Luciani, nobile di questo Consiglio. Nessuno era armato. In chiesa neppure uno proferì parole ingiuriose o di profanazione al sacro tempio. Questa dichiarazione del comandante, se comprovata da altri testimoni, scardinava uno dei capi d’accusa dell’inchiesta.

Il Zatton dichiarò di credere che i villici provenissero da tutte le contrade della Terra, ma individual-mente disse di non averne riconosciuto nessuno - un po’ strano! Era comandante da circa nove anni ed aveva sempre preso parte alle convocazioni degli zuppani, anche se non ricordava cosa si fosse praticato in passato; consigliò alla Giustizia di consultare i registri del cancelliere per conoscere i loro nomi.

Il Comandante nominò come possibili testimoni: il nobile Nicolò Luciani per quanto avvenne in chiesa, il cancelliere Frielli, Zuanne Dragogna, Baldissera Manzoni e i bottegai della piazza.178 Domenico Dusman, il fabbro del luogo, gli aveva raccontato che quel giorno aveva guadagnato circa un ducato, per aggiustare “alcune sterpazze che in lingua italiana si chiamano zapponi.”

Terminata la deposizione del comandante, Lorenzo Paruta decise di interrogare il podestà Bragadin. Lo fece chiamare e per prima cosa gli concesse di esporre il suo punto di vista sull’intera vicenda. Mi è sembrato curioso, che il podestà e capitano di Capodistria, non abbia iniziato le deposizioni proprio sentendo il Braga-din; dalle carte del processo non si può dedurre il motivo di tale decisione, ma azzardando un’ipotesi, forse il Paruta voleva farsi un’idea personale degli avvenimenti, prima di sentire le ragioni del suo collega di periferia. In ogni caso, il 29 luglio, Zuanne Bragadin poté raccontare alla Giustizia la sua versione dei fatti. In un lungo interrogatorio, sempre tenuto con toni cordiali, il podestà ricostruì gli avvenimenti di quei giorni.

176 Dell’argomento parlano ripetutamente sia Ivetic che Bianco nelle opere già citate.

177 L’amnesia è un tratto ricorrente di tutto il processo, i vari testimoni ricordano le informazioni, ma quasi sempre dimenticano chi gliele avesse riferite. In una comunità relativamente piccola e chiusa come quella di Albona, dove è possibile supporre che le frequentazioni delle persone fossero sempre le stesse, quest’amnesia collettiva è perlomeno sospetta.

178 Il calzolaio Bortolo Dragogna, Antonio Lorenzini quondam Antonio Manzev, i sarti Iseppo Signorelli e Antonio Dminich erano presenti ai fatti della mattina.

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La sera del 26 aprile 1757, ottime ragioni lo spinsero a scrivere al Consiglio dei Dieci. La mattina del giorno di San Marco, si erano recati al suo palazzo gli undici zuppani della terra, escluso quello di Portolongo; come al solito chiedevano il permesso di riunirsi in San Sergio, per eleggere i procuratori del popolo. Per-messo che il Bragadin accordò a condizione che cambiassero tre procuratori su quattro, come prescriveva la legge Civran. Gli zuppani parlarono un po’ tra loro, di conseguenza il podestà, che non comprendeva la lingua illirica, chiese ad uno dei tre “accidentalmente presenti” di tradurre per lui.179 Le tre persone “accidentalmen-te presenti” erano Orazio Scampicchio, Domenico Coppe e Domenico Francovich, tutti e tre nobili membri del consiglio cittadino locale. Immaginando che le frequentazioni di un rappresentante veneziano, come il podestà di Albona, non coinvolgessero certo popolani, ma si limitassero all’elite del posto, questo “acciden-talmente” non richiesto, mi sembra avere un che di forzato, doveva essere normale al tempo che il podestà s’intrattenesse con persone di un certo rango; forse il Bragadin voleva introdurre nel procedimento penale, in maniera un po’ goffa, dei testimoni che sicuramente avrebbero deposto a suo favore. Interessante il fatto che i signori locali potessero fungere da interpreti, evidentemente il bilinguismo non era a senso unico, i contadini capivano il veneziano, mentre i nobili albonesi - e sicuramente anche gli strati più umili degli abitanti cittadini - se la cavavano discretamente con l’illirico.180

Proseguendo con la ricostruzione del podestà: gli zuppani si erano dimostrati fermamente risoluti ad infrangere la legge per riconfermare i vecchi procuratori. Non trovando un accordo, il rettore li congedò, spe-rando che fino all’elezione potessero cambiare idea. Avvertì comunque il cancelliere delle loro intenzioni e lo incaricò di portare con sé la Terminazione Civran, in modo da poter dimostrare agli zuppani, che era la legge ad imporre il cambiamento non uno strano capriccio del podestà. Non era presente all’elezione, quello che sapeva gli era stato riferito nel dopo pranzo dal cancelliere. Il Frielli, di ritorno dalla chiesa, gli era sembrato molto scosso ed impaurito.181 Qualcuno, forse il cancelliere forse il comandante, gli indicò Iseppo Micuglian e Vicenzo Faraguna come “i più tenaci”. Ponderata la questione, ordinò al comandante di convocare gli zuppani; questi si presentarono accompagnati da altri contadini, che il Bragadin fece allontanare immediatamente. Gli rimproverò l’inobbedienza alla legge, ma loro si espressero in maniera sempre più temeraria:

“Che in questo non dipendevano dal Principe, ma che erano loro li patroni d’elleggere chi le avvesse piacciuto e che perciò intendevano di riconfermare li vecchi procuratori; confesso il vero che da questa loro avvanzata temerità restai commosso.”182

179 Non deve sorprendere che il rappresentante veneziano locale non conoscesse la lingua parlata da una buona parte dei suoi sudditi, le cariche podestarili erano a rotazione e non duravano mai più di trentadue mesi, troppo poco, perché valesse la pena di apprendere una lingua totalmente diversa dal veneziano e per di più parlata dalle popolazioni di campagna, com’era l’illirico. Diverso il caso dei signori locali, ai quali evidentemente conveniva capire l’idioma dei contadini.

180 Questa situazione mi fa pensare ad una sorta di “bilinguismo passivo”, riscontrabile ancora oggi in molte comunità di confine. Ogni indivi-duo, che parla principalmente nella sua lingua madre, è però in grado di capire la lingua dell’altro, la conversazione avviene così abbastanza fluentemente in due lingue diverse, senza che nessuna delle due s’imponga sull’altra. Probabilmente la forma in assoluto più difficile di comunicazione, ma anche la più egualitaria. Per informazioni sulla situazione linguistica in Istria oggi, si veda Milani Kruljac N., “Lingua e ethos in Istria”, in la Battana “Moderno veneziano: atti dei convegni”, Edit, Rijeka, 1998; della stessa autrice “La comunità italiana in Istria e a Fiume fra diglossia e bilinguismo”, Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume, Università Popolare di Trieste, Trieste-Rovigno, 1990.

181 I timori del cancelliere che le cose degenerassero in un tumulto emergono effettivamente anche dalla sua deposizione.

182 In questa circostanza il podestà Bragadin non informò la Giustizia su chi interpretò per lui le parole degli zuppani. Ipotizzando che si sia occupato della traduzione uno dei nobili del posto, come nell’incontro della mattina, è possibile pensare che costui abbia volontariamente manipolato le parole degli zuppani per aizzare il Bragadin contro i contadini, è solo una congettura, che però ben si adatterebbe all’intricato mondo delle relazioni locali.

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Un’affermazione così grave lo indusse ad ordinare al comandante di intimarli, sotto certa limitata pena, che non ricorda, a trattenersi “in forma di sequestro sotto la Loggia sin ad altro suo ordine”. Risposero in maniera temeraria. Il Bragadin si prese due ore per meditare sul da farsi, dopodiché ordinò al comandante di portarli da lui, a due a due, per congedarli con una breve ammonizione.

Lasciò per ultimi il Micuglian ed il Faraguna e venuto il loro turno, ordinò che fossero condotti in prigione; temendo che facessero opposizione, chiese come rinforzi due soldati delle cernide. Capitò un tale Zaccaria Diminich, capo di Cento, che persuase i due zuppani ad andare in prigione, senza essere legati dallo sbirro. Fece poi custodire la prigione dalle due cernide citate. Altro non successe per quella sera, ma durante la notte capitò dal podestà il cancelliere. Riportava informazioni inquietanti riferitegli dal Dragogna: c’era il rischio concreto che gli zuppani tentassero qualcosa per liberare i due arrestati.183 Il podestà fece chiamare il Dragogna per avere una conferma e questi gli ripeté la minaccia, senza però indicare da chi avesse avuto quest’informazione. Il podestà non pensava che i sudditi sarebbero arrivati ad osare tanto, comunque fece chiamare il Cattaro, caporale dei Bombardieri, e gli ordinò di porre la mattina seguente dodici bombardieri a custodia della Porta della Terra.184 Testimone di quanto è avvenuto Baldissera Manzoni, che stranamente si trovava nella stanza.

Sceso dal letto la mattina del 26 vide dalla finestra, che sotto la Loggia fuori le mura nel borgo,185 si erano radunati circa 60 contadini. Altri venivano dalla strada di Santa Caterina. Ha immaginato che fossero lì per i due detenuti. I “villici s’andavano moltiplicando” ed i più arditi avevano osato entrare in piazza. Fece chiamare il Cattaro rimproverandolo per non aver custodito la porta.186 Fece chiamare il cancelliere e Zuanne Dragogna, discussero e, poiché era stato il Dragogna ad avvertirlo la sera prima, ed era uno che conosceva bene i contadini, gli chiese se avesse riconosciuto qualcuno in quella folla “con cui potesse aver mano”. Lui gli rispose che conosceva più di uno e che sicuramente volevano la liberazione dei prigionieri. Il podestà ordinò così al Dragogna di parlare con uno dei capi per convincerli ad andarsene e se avessero opposto resistenza rassicurarli, che prima di notte i due sarebbero stati liberi. Poco dopo l’emissario tornò dichiarando di aver parlato con Gasparo Lupetin, uno dei Procuratori, e che lo aveva convinto a partire con tutti i villici. Però così non fu. Il cancelliere ed il Dragogna si erano ritirati, così il podestà, perso il suo interlocutore di fiducia, fece chiamare l’altro procuratore, Mattio Belusich, il quale si presentò in compagnia di un certo villano, che vestiva

183 L’intervento del Dragogna è confermato dalla deposizione del cancelliere.

184 Il caporale Cattaro, chiamato in sostituzione del capo dei bombardieri che in quei giorni era ammalato, confermò con la sua deposizione le parole del podestà. La sera del 25 aprile il Bragadin gli diede commissione di destinare 12 bombardieri, perché la mattina seguente custo-dissero la Porta della Terra, senza dirgli di più. Il suo capo principale era ammalato così, con l’assenso del medesimo, il 26 mattina “fui con li dodici bombardieri coperti dal sargente, che si chiama Zuanne Poldrugo quondam Giacomo, al Torione guardando la Porta.” Subito iniziarono ad arrivare i contadini, circa quindici “qualcheduno d’essi provveduto, overo portando chi una manara, chi un pallo di ferro e chi qualche zappone per aggiustare, stanteche quelli di Schitaza li dovevano adoperare per certo lavoro d’escavamento di sassi.” Fu fatto chiamare dal podestà, che lo rimproverò per averli fatti passare, al che gli rispose che fuori nel borgo ce ne erano troppi e che era impossibile fermarli con così poca gente. Soprattutto con moschetti scarichi.

185 La cinta muraria di Albona, oggi ancora visibile, era molto piccola e già nel Settecento la città si era ampiamente estesa al di fuori di essa.

186 Ai rimproveri il Cattaro, secondo il podestà, rispose che i contadini erano troppi per soli 6 uomini, così il Bragadin ordinò di aggiungerne altri 6. In effetti non ricordava se la sera prima avesse ordinato 6 o 12 bombardieri a custodire la porta. Ordinò, su consiglio dello stesso Cattaro, che le 3 o 4 Cernide che “convivono nella Terra” passassero alla custodia della porta di fuori, “che se poi vi fossero andati o no” disse di non poterlo sapere.

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da soldato e che si chiamava Tencich detto Lettis. Quest’ultimo sapeva l’italiano, così fungeva da interprete. I due si comportarono in modo arrogante e spavaldo. Il Belusich era armato di un coltelazzo che portava alla cintura. Dopo aver congedato il procuratore “con la protesta, che della dirrezione tenuta averebbe reso conto alla Giustiza”, fece condurre di sopra i due carcerati. Costretto dagli eventi scelse il minore dei due mali e per non rischiare la vita dei sudditi, dopo una breve ammonizione, licenziò i due zuppani, facendo notare loro che era stata solo la violenza a persuaderlo. Il popolo si calmò e defluì dalla piazza, alcuni se ne andarono seguen-do il Belusich ed esultando per la vittoria. Poco dopo al palazzo del podestà comparve il Dragogna, il quale confessò al Bragadin di non essere più intervenuto per paura e che la colpa del mancato rispetto dell’impegno da parte del Lupetin era del Belusich, che si era opposto alla partenza, assistito da un tal Mattio (Clapsich) Clapcich parente di uno dei due detenuti. Qualcuno disse al podestà che i contadini erano fomentati da uno dei bombardieri “tal Girolamo [Ferbucconich-Ferbocovich] senza un occhio,” il quale convinse gli altri bombar-dieri a “non assistere alla guardia”. Più tardi quella mattina uno degli zuppani, in compagnia di altri cinque o sei villici - forse a loro volta zuppani - tra cui il Lettis vestito da soldato, chiesero udienza al podestà per ottenere il permesso di eleggere i procuratori. Il Bragadin sostenne di non avergli dato ascolto e che quelli dopo un po’ se ne erano andati; nella sua deposizione, però, il cancelliere dichiarò di essersi recato dal podestà, il quale negò di aver concesso loro la licenza, ma ammise di aver detto loro di fare ciò che volevano pur di levarseli di torno.187 Il gruppetto di contadini nel dopopranzo si recò alla casa del cancelliere insistendo perché si por-tasse a San Sergio per assistere all’elezione dei procuratori, osarono sostenere di avere l’autorizzazione, ma il Frielli non si lasciò convincere. A fronte di tanta insolenza il podestà si decise a ricorrere alla Giustizia, ordinò dunque al cancelliere di “estendere le lettere di partecipazione all’Eccelso Tribunale, e così fece”. Le lettere furono spedite il giorno stesso. Terminata la ricostruzione dei fatti, il Paruta lesse al Bragadin la lettera ricevuta dal Consiglio dei Dieci e questi la confermò in ogni sua parte. Vista l’ora tarda il capitano di Capodistria decise di rinviare il resto della deposizione al giorno seguente.

L’indomani il Paruta riprese l’interrogatorio rivolgendo al podestà albonese varie domande per ap-profondire l’argomento. Il Bragadin sostenne di non avere idea del motivo di tanta insistenza da parte dei sudditi. Sapeva che il litigio in corso tra l’Università del popolo e la Comunità d’Albona era nato per colpa dei livelli e che una causa aspettava risoluzione presso il Consiglio di quaranta, ma riteneva la cosa estranea a quell’insurrezione.

“Non so per qual mottivo usassero una tanta insistenza di voler confermare li loro Procuratori; quanto questo, come io penso, non derrivasse dalla litte che corre tra il Popolo e li Nobili; non potendo di più dire.”

Suppose che tra la folla quella mattina ci fossero anche gli zuppani, anche perché sapeva che avevano passato la notte a convincere i villici a scendere in piazza, abusando anche del suo nome e minacciando una pena. Gli era stato riferito che alcuni contadini avessero chiesto di vedere il mandato e siccome gli zuppani non lo possedevano, si fossero rifiutati di scendere in piazza.188 Non sapeva dove fossero i procuratori il 25 aprile, era a conoscenza però del loro scopo, fare gli interessi del popolo. Il Bragadin ipotizzò che i villici provenissero da tutto il territorio, tranne Portolongo, il cui zuppano ricusò d’intervenire. La folla, da lui detta

187 Come detto in precedenza in relazione alla deposizione del cancelliere Frielli.

188 Come testimoni degli avvenimenti di quella notte il podestà Bragadin cita per la Giustizia il pievan di San Martin, il prete don Tommaso (Cerniol) Cergnul della villa medesima, Zammaria Viscovich detto Sturla ed il conte Giacomo Battiala.

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“truppa”, era diretta dal Belusich e dal Lupetin, vide entrambi.Non vide armi, ma qualcuno gli aveva riferito di fucili nascosti in alcune case e che avessero con sé

delle sterpazze (zappe) lasciate anch’esse fuori dalle mura.189 Quella mattina vide comunque dei contadini muniti di mannaia. Secondo lui erano armati, per opporsi con la forza, se non avesse ceduto e scarcerato i due zuppani.190 Il Dragogna inoltre gli aveva riferito che il Belusich era partito, separato dal Lupetin, con dei villici quasi tutti armati di schioppi. Di nuovo il Dragogna, se si presta fede alle parole del podestà, si adoperò per mettere in buona luce agli occhi del Bragadin, il procuratore Lupetin a discapito del Belusich, probabilmente non senza qualche tornaconto personale. Il podestà citò Giacomo Manzoni come testimone del suo racconto sulla partenza “in armi” del Belusich, che coincidenza.

Per ulteriori delucidazioni sulle armi, il podestà consigliò alla giustizia di chiedere ai ristoratori del borgo e agli altri testi da lui introdotti.191

Il Bragadin sapeva che gli altri due procuratori del popolo quella mattina si trovavano a Venezia, ipotiz-zò per assistere al litigio, non aveva idea di quando fossero partiti, sapeva però che la notte del 26 due villici di cui non sapeva il nome avevano lasciato Albona, erano stati però riconosciuti a Rovigno nell’atto della partenza da Domenico Ruccato. Il podestà ipotizzò che si stessero recando a Venezia su consiglio del loro avvocato Zammaria Spizza. Non aveva dubbi, l’avvocato era coinvolto nell’affare. Lo stesso Spizza aveva confessato a Zuanne Dragogna di aver scritto a Venezia, forse per ottenere protezione, mal consigliato del pievano Giuresin. Testimone della confidenza del Dragogna, Giacomo Battiala.

Il Bragadin accusò i due procuratori, Belusich e Lupetin, di essere i fomentatori della rivolta, perché li vide a capo della folla. Quella mattina almeno 300 o 400 villani presero parte all’insurrezione. Non era in grado di riferire chi disse la “pretesa indipendenza dal Principe”, gli sembravano le voci del Micuglian e del Faraguna. La deposizione del podestà Bragadin termina con l’assicurazione alla Giustizia di aver espresso il vero nei dettagli.

Al termine dei tre costituti è trascritta per intero la Terminazione Civran, consegnata dal cancelliere Frielli, come gli era stato ordinato. Terminate le deposizioni del Frielli, dello Zatton e del Bragadin, il podestà e capitano di Capodistria Lorenzo Paruta, si concesse un giorno di riposo, dopo di che, il primo d’agosto, decise di proseguire le indagini. Convocò i due giudici del territorio, Nicolò Negri e Giacomo Dragogna. I due furono interrogati su quanto sapevano degli avvenimenti del 25 e del 26 aprile 1757, ed in particolare sui motivi della causa civile in corso a Venezia. Dalle deposizioni del Negri sappiamo che “ il littiggio è tra li Signori d’Albona, col Popolo, ed anco dei villici, che hanno dato soldo a livello.”192 I signori erano la maggior parte dei benestanti che avevano prestato soldi a livello e “dei commodi villani, che tengono in via attiva denaro a livello”. La causa era stata

189 In una nota a bordo pagina il cancelliere riporta “in velle dixit: e quelli due avevano gli schioppi, ma da me però non conosciuti”, b. 6, c. 35v.

190 Cita come testimoni alle sue parole: Antonio Diminich, Antonio Lorenzini, Giacomo Furlan, Biasio (Zulliani) Zuliani, Iseppo Signorelli, Zuanne Dragogna e Zuanne Marcich. Ognuno di loro fu interrogato nel corso del processo.

191 I bettolini, o ristoratori, che si trovavano nel borgo fuori Albona erano: Zaccaria Dminich, Valentin Lucaz, Zammaria Lucaz e sua moglie, e Domenica vedova Signorelli. La giustizia li interrogò.

192 La causa vedeva schierata l’Università del popolo, cioè i contadini della campagna albonese, contro la Comunità di Albona. Dal processo si capisce che gli abitanti della città di Albona prestarono solo il nome alla causa, perché questa avesse un peso maggiore, ma in realtà la stessa era promossa da alcuni benestanti del posto, signori e contadini arricchiti, che se ne accollavano tutte le spese.

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inoltrata a Venezia, prima presso l’Avogaria e al momento del processo aspettava una risoluzione in Quarantia. L’Università del popolo aveva supplicato il Pien Collegio, perché gli fosse permutato il frumento in soldo. I procuratori avrebbero anche superato l’intento in via deliberativa, senza far causa, ma gli si erano opposti alcuni signori, ai quali la comunità aveva prestato semplicemente il nome.193 Il giudice Negri si premunì d’informare la giustizia che il suo collega Giacomo Dragogna era particolarmente coinvolto, perché anche lui aveva numerosi livelli in via attiva. La causa era fatta dalla comunità solo in apparenza.

“La pendenza è tra privati creditori contro l’Università del Popolo, che riceveva la minorazione delle corrispon-sioni livellarie” anche se “tutti gl’atti sono corsi col nome della Comunità […] per detta causa dalla comunità non fu mai esborzato un soldo; ne ciò sarebbe stato giusto.”

Un tale Testa, o Tasta, era stato incaricato dalla comunità di seguire la causa a Venezia.194

Il giudice Dragogna alla stessa domanda rispose in maniera concisa ed esauriente, anche se il senso delle sue parole suona un po’ diverso. La Comunità, che lui come giudice rappresentava, era in lite con l’Uni-versità e la causa pendeva a Venezia presso il Consiglio di quaranta. Fu il congresso degli zuppani, nell’anno 1756, a decidere di far ricorso a Venezia.

“La causa fu promossa dai villici a motivo dei livelli, che hanno in via passiva verso li Particolari Benestanti, tanto di questa Terra quanto delle ville. [I contadini] si sono presentati in collegio con una supplica, per ottenere in via deliberativa che le venissero minorate l’annuali livellarie corisponsioni e che venisse anco commutato il fommento [frumento] et il vino in danaro, ma essendosi a questa dimanda opposta la Communità” si rivolsero tramite avvo-cato al Consiglio di quaranta. La Comunità in verità non aveva nessun interesse nella causa, il nome fu usato su suggerimento dell’Interveniente a Venezia per coprire i nomi particolari.195 Il Dragogna aggiunse che la causa era comunque sostenuta dai privati e che la comunità non ci rimetteva, perché ogni interessato si era tassato “a misura dei capitali” posseduti. Il cassiere e direttore dei lavori in queste occasioni fu sempre il conte Tommaso Battiala, il quale si occupava anche della corrispondenza con il Testa.

Il giudice Negri proseguì la sua ricostruzione informando il Paruta, suo inquisitore, che il precedente podestà, Pier Antonio Bembo, aveva concesso ai procuratori di tassare i contadini per contribuire alla causa; quando il denaro finì, questi chiesero anche al nuovo podestà Bragadin il permesso di raccogliere fondi, ma quest’ultimo rifiutò l’autorizzazione, i procuratori si rivolsero così a Capodistria, dove ottennero un decreto a loro favorevole, che fu però ignorato dal podestà Bragadin.196 Fu l’avvocato Spizza a dirgli che il podestà di Albona si era rifiutato di concedere ai procuratori il permesso di tassare i contadini.197

193 La comunità cittadina di Albona prestò il nome alla causa “per far cosa grata a Giacomo Battiala, Andrea Scampicchio e Baldissera Man-zoni.”

194 Il Testa viene citato anche dal giudice Dragogna come “Interveniente” della comunità. Nelle mie ricerche tra i documenti della Quarantia ho incontrato più volte Antonio Testa nel ruolo d’interveniente, soprattutto in cause che coinvolsero persone istriane. Per esemio in ASV, Quarantia civil nuova, Spazzi minute originali, bb. 218 e 219.

195 Il Testa è citato anche dal giudice Negri.

196 Zuanne Bragadin occupò la carica di podestà di Albona dal 1756 al 1759, il suo predecessore era stato Pier Antonio Bembo, podestà albonese dal 1753 al 1755. Una lista completa dei podestà di Albona si trova in appendice a questo scritto.

197 L’avvocato raccontò anche al Negri, che a causa del suo aiuto ai procuratori, il podestà lo costrinse a quindici giorni di esilio, poi gli fu con-cesso di tornare, ma non poté riprendere l’esercizio della professione, perché sospettato di aiutare i procuratori nella pendenza sopra citata.

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Il giudice Negri disse di riportare solamente quanto inteso “dalle lamentazioni dei villici”. Lui in quell’oc-casione si era espresso a favore dei contadini, così il podestà aveva professato un aggravio contro di lui. La Giustizia poteva verificare le sue parole presso il cancelliere del Consiglio comunale, Lodovico Dragogna nipote del giudice Giacomo Dragogna.

Come in tutte le piccole comunità del tempo, e non solo, le principali cariche comunali erano ap-pannaggio di alcune famiglie particolarmente influenti in città. Ad Albona dovevano esistere più rami della famiglia Dragogna, o due o più famiglie con lo stesso cognome non imparentate tra loro, perché dalle carte del processo emergono: i Dragogna con uno zio giudice ed un nipote cancelliere del Consiglio, due cariche sicuramente molto prestigiose nel piccolo comune; ricorre poi la figura di Zuanne Dragogna, esperto delle cose della campagna e informatore del podestà, di sicuro influente, ma a mio avviso ancora un po’ nell’om-bra, non da l’impressione di essere un parente stretto dei Dragogna appena citati; esisteva inoltre un quarto Dragogna, tale Bortolo di settantadue anni circa, il calzolaio del paese, lavoro che gli permetteva di vivere dignitosamente, ma non di ambire a cariche influenti nel comune, considerata la mentalità a forte impronta nobiliare del tempo.

Tornando ai due giudici della Comunità la loro ricostruzione degli avvenimenti del 25 e del 26 aprile, coincise grossomodo con quanto deposto dai tre testi già ascoltati. Il Dragogna si limitò ad asserire che la pendenza causò un grave sconcerto quell’aprile:

“Aggisce per legge agli affari del territorio quattro Procuratori che appunto vengono eletti dal corpo dei Zuppani, ma che però devono per la Terminazione Civran essere in cadaun anno nella Festività di San Marco cambiati; successe che in questo anno stante la sudetta litte non intendevano li Zuppani cambiarli, per essere li stessi Procuratori delle loro pretese informati”.

Lui si trovava ad Albona il giorno di San Marco, ma non si recò alla chiesa di San Sergio, mentre il ventisei andò a Porto Rabaz,198 quindi non avendo assistito ai fatti in prima persona, poteva riferire unica-mente quanto gli era stato raccontato. Il podestà voleva il rispetto della legge, così non solo non ci fu alcuna elezione, ma dato l’atteggiamento temerario di molti zuppani, il Bragadin fece incarcerare il Micuglian ed il Faraguna. Gli hanno raccontato che la mattina seguente tra i quattrocento ed i cinquecento villani capitarono in Paese, “proveduti di schioppi e manare” lasciate però fuori dalle mura cittadine, per ottenere la liberazione dei due detenuti. Non aveva idea se fossero capitati là “per suggestione di qualcuno.” Sentì dire che volessero demolire le prigioni e che il podestà preoccupato prese la decisione, per lui del tutto condivisibile, di liberarli. Molti potevano testimoniare la veridicità delle sue parole, in particolare il signor Baldissera Manzoni, sempre presente agli avvenimenti. Secondo il Dragogna la casa dei Conti Battialla era la più interessata alla causa, perché possedeva molti livelli. Tuttavia ad Albona non erano solo i nobili a possedere livelli, anche il Capitolo, le Scuole ed altri particolari ne avevano. Il giudice non era in grado di fornire al Paruta lumi sullo stato della causa o se vi fossero progetti d’accomodamento tra le parti. Al contrario il suo collega parlò di un abbozzo di aggiustamento, preparato per il bene comune in previsione del rientro di due dei procuratori da Venezia.

Alla ricostruzione del Dragogna, il giudice Negri aggiunse che i due zuppani erano stati arrestati, perché

198 La città di Albona fu costruita, in tempi molto remoti, su di un colle alto all’incirca trecento metri; Porto Rabaz, o in seguito Porto Albona oggi Rabaz, si trova sul mare proprio sotto la città, la distanza tra i due centri è di cinque chilometri circa. Per maggiori informazioni sul piccolo centro si veda Alberi, op. cit., pp.1756-1758.

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avevano risposto in modo insolente al podestà e che durante la notte gli altri rappresentanti dei contadini avessero invitato i villici a recarsi in paese per ottenere la liberazione dei detenuti.199 La mattina del ventisei, lui stesso vide trecento o quattrocento contadini riuniti in piazza davanti al palazzo del podestà, con i loro zuppani e con i due procuratori Gasparo Lupetin e Mattio Belusich. Erano tutti disarmati e per quanto scorse non commisero alcun atto violento. Ammise però di aver visto verso sera alcuni contadini muniti di schioppo tornare alle ville. Secondo lui i procuratori dell’Università, in totale quattro uno per Pieve, il 25 aprile non si trovavano in paese, anzi sapeva che due, il Faraguna ed il Fonovich, si trovavano da qualche tempo a Venezia per assistere alla causa. Lo Spizza era il loro avvocato. L’aggiustamento tentato non aveva avuto effetto, perché il podestà non era stato disposto a prestarvi l’assenso. Era il conte Battiala a maneggiare l’intero affare. La parte presa dalla comunità per far la lite non fu approvata da alcuna autorità, perché nessuno si era curato di supplicare per l’approvazione.

Questo sostanzialmente quanto dissero i due giudici della comunità nelle loro deposizioni. Il giudice Negri sembra essere se non favorevole alle ragioni dei contadini, almeno più minuzioso nella sua ricostruzio-ne dei fatti. La reticenza del giudice Dragogna può essere imputata probabilmente ad un suo coinvolgimento maggiore nella causa in corso. Emergono in ogni modo la figura del conte Battiala, come “signore dei signori” della città, ed il peso dei livelli sulla vita quotidiana della popolazione.

199 Il giudice Negri citò come testimoni delle sue affermazioni gli aiutanti degli zuppani, ossia i pozuppi.

200 “Precarie e livelli erano infatti contratti che potevano intercedere fra persone della più varia condizione sociale, cadere su beni di qualunque entità e natura, essere di qualunque durata, con canone di qualsivoglia valore o specie, con o senza obbligo di miglioramento dei fondi; in altre parole senza alcuna specifica determinazione sostanziale….nei primi secoli del suo uso il contratto livellare non conobbe alcuna limitazione…la differenziazione sostanziale del contratto livellare da altri contratti analoghi, deve ritenersi avvenuta in epoca molto più recente, e seguendo vicende diverse nelle varie regioni d’Italia…comunque sia, presenta sempre una struttura tipica caratterizzata dal rapporto fra concedente e concessionario, in quanto la concessione appare in netta prevalenza sul contratto; piuttosto che un accordo o incontro di volontà eguali, sul piano di quello che è l’ordinario terreno contrattuale, abbiamo da un canto una preghiera o petizione, e dall’altro una concessione benigna, spesso gratuita o semigratuita, e conseguentemente anche il regime del rapporto è caratterizzato da vincoli di subordinazione, che segnano in modo vario le inferiorità del concessionario di fronte al concedente…” si veda Benedetto M.A., voce “Livello” in Novissimo Digesto italiano, Torino, 1957, p. 987-990. Molti studiosi si sono dedicati all’argomento, per esempio Povolo C., “Enfiteuti e livellari: i protagonisti di una crescita” estratto da “La popolazione delle campagne italiane in età moderna”, Torino: S.I.D.E.S., Editrice Clueb, Bologna, 1987; oppure Corazzol G.,“Fitti e livelli a grano: un aspetto del credito rurale nel Veneto del 500”, Franco Angeli Editore, Milano, 1979.

Nella Repubblica di Venezia al termine livello corrispondevano differenti forme contrattuali. Il linguag-gio giuridico veneto classificava come livello:

1. Una compravendita: una persona per ottenere un prestito vendeva ad un’altra un suo bene ad un prezzo stabilito. Questo scambio poteva riguardare anche beni mobili, ma solitamente si concentrava su proprietà fondiarie.

2. Una concessione perpetua rinnovabile: in questo caso un individuo vendeva il censuo annuo su di un suo bene, a condizione che il compratore s’impegnasse a concedergli il beneficio d’usufrutto sullo stesso bene, in cambio del pagamento di un canone annuale, per un periodo solitamente di ventinove anni proro-

6.4 Il livello 200

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gabili. In questo tipo di contratto le tasse restavano a carico del venditore. Il compratore godeva del diritto di prelazione, nel caso in cui il venditore avesse effettivamente deciso di vendere. In pratica la persona non vendeva il bene in quanto tale, ma il censo annuo (il provento, il reddito che un certo bene produceva) con la dicitura “un annua livellaria pensione.” In effetti non si trattava di una vera vendita, ma di un contratto di prestito.

3. Una promissio francandi: contratto simile al precedente con l’aggiunta dell’impegno del compratore a sollevare il venditore/conduttore dall’onere del canone, qualora fosse riuscito a versare una somma cor-rispondente al prezzo di vendita. La restituzione poteva anche avvenire in più rate, in qualsiasi momento o solo dopo un certo numero di anni, dipendeva dagli accordi stipulati tra le parti al momento di sottoscrivere il contratto. Le spese notarili erano di solito a carico di chi richiedeva il prestito.

4. Un livello perpetuo inaffrancabile: il caso in cui fosse il padrone a concedere a livello una cosa sua, spesso un terreno, a condizione che il beneficiario gli versasse ogni anno un certo canone. Il livellario acqui-stava così dei diritti sull’uso del bene, ma non sulla sua proprietà. Diritti perpetui ed ereditari, che potevano decadere solo in caso di mancato pagamento dell’affitto.201

Il livello francabile fu il vero protagonista del Settecento istriano. Espressione di un densissimo sostrato di piccoli proprietari terrieri, era conseguenza e contemporaneamente causa dell’estrema parcellizzazione della campagna istriana.202 Dalle prime righe della supplica inoltrata dai sudditi albonesi al Consiglio dei Die-ci,203 si può dedurre che molti contadini locali per superare periodi di carestia, avessero fatto ricorso a prestiti in denaro da parte dei signori del luogo aprendo dei livelli sui loro terreni. Molto spesso nel Settecento il livello assumeva infatti l’aspetto, di un recupero in più rate di una proprietà in precedenza ceduta per coprire dei debiti, oppure per attingere a liquidi da investire su altri fondi.204 I signori richiedevano indietro l’intera somma investita, sulla quale ogni anno i contadini pagavano gli interessi. Se questi ultimi non riuscivano a tenere fede all’impegno e restituire il denaro entro cinque anni, erano costretti a cedere definitivamente la proprietà al signore, riducendosi quindi in miseria, o ad aprire un nuovo livello. Il contadino poteva impe-gnare campi o case, ma in caso di necessità anche singole vigne o piante di ulivo. Era una spirale di debiti da cui era difficile uscire, raramente il livellario arrivava ad affrancare il proprio podere, molto più di frequente, una stagione agricola infruttuosa o una gelata improvvisa, facevano si che il contadino fosse costretto ad ab-bandonare le sue terre.

Chi concedeva una somma a livello francabile era o un notabile/signore o un popolano arricchito.205

201 Le voci 1, 2 e 3 da Corazzol, “Fitti e livelli a grano”, op. cit., pp. 15-16, la voce 4 da Povolo, “Enfiteuti e livellari: i protagonisti di una crescita”, op. cit., p. 446.

202 Ivetic, “Oltremare”, op. cit., p. 271. Ivetic considera il livello istriano del settecento una forma peculiare di affitto, date le incredibili difficoltà incontrate da un contadino che avesse voluto riscattare il suo podere, ibidem, p.274.

203 “La povera Università tutta e Popolo di Albona, trovandosi aggravata nei suoi poderi da livelli annuali d’un dodici e tredici percento sopra capitali somministrati da Signori del Consiglio e da piu doviziosi” dalla supplica trascritta in appendice punto 9.2.

204 Si veda Ivetic,, “Oltremare”, op. cit., p. 266.

205 In Istria vivevano solo poche famiglie ebree, che operavano principalmente a Pirano e Capodistria, in Ivetic, “Oltremare”, op. cit., p. 222; non vi è quindi nessuna matrice etnica nei trambusti di Albona, anzi i contadini sembravano ben coscienti, che anche alcuni di loro si stavano arricchendo sulle spalle degli altri.

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Anche alcune confraternite laiche concedevano prestiti sotto forma di livello ai propri soci. Nella provincia istriana l’interesse sulla somma prestata di solito non superava il 6%, che era poi il canone richiesto dai contadini albonesi nella loro supplica. Essi volevano inoltre poter pagare i prestatori in denaro e non più in frumento, il termine “fomento” ritorna spesso nelle deposizioni. Probabilmente i signori speculavano guada-gnando dal canone fisso in natura, richiedendo una quantità costante di cereale, senza adeguarla all’effettivo valore commerciale. Il problema dei canoni in natura non era certo nuovo alle magistrature veneziane, la lotta tra Consigli cittadini conservatori e contadinanze aveva portato all’approvazione di numerose leggi particolari. Niente di valido per tutto lo Stato, ma solo risposte contingenti alle singole istanze locali.206 A metà del XVIII secolo l’economia istriana era in evoluzione; perfino nella rurale Albona, questi canoni fissi, così inadatti alle fluttuazioni del mercato, avevano fatto il loro tempo. Con più di un secolo di ritardo sulle campagne dell’entro-terra veneto, anche le lamentele dei contadini albonesi raggiunsero le più alte cariche dello Stato Marciano. Gli stessi villici (più precisamente il loro avvocato) erano coscienti di ciò, dato che nella loro supplica, inviata al doge nel 1756, scrissero:

“In tale stato prostrati al Trono Augusto di Vostra Signoria li quattro Procuratori del Popolo, con la scorta della parte presa e facoltà impartitali dall’Università medesima nella riduzione de capi delle Vicinie li 9 giugno 1756, umil-mente implorano che a solevo di detta Università e Popolo Regni la Severità Vostra con la sua Paterna Carità e Giustizia prescrivere quell’annua censuale contribuzione sopra li capitali dati e che venivano dati a censo in quell’Università e Territorio d’Albona, che trovarà consona al giusto e dal sentimento delle Sovrane Leggi, onde non abbiano più luoco l’arbitrij degl’oppulenti, e come fu decretato negl’anni 1551, 1553 e 1556 per la Città di Vicenza, Bassano, Verona e Terra d’Asolo e Territorio. Grazie”

206 Vedi Corazzol, “Fitti e livelli a grano”, op. cit., p. 22 e successive.

207 Quella dei Manzoni sembra essere una tra le famiglie più influenti ad Albona a metà Settecento. L’importante famiglia nobile dei Manzini, non venne coinvolta in questo processo.

208 Al termine della sua deposizione il Giudice Dragogna fu invitato a presentare alla Giustizia: la supplica del 9 giugno dell’Università del po-polo di Albona, la Parte dello stesso, copia della ducale del 24 novembre, le lettere avvogaresche di sospensione datate 30 novembre, la Parte del Consiglio del 6 febbraio, l’atto d’Intromissione in sudetto a favore della Comunità e le lettere del Consiglio di quaranta. Tutti i documenti furono diligentemente allegati al processo.

6.5 La deposizione di Baldissera Manzoni 207

Terminato l’esame di tutte le carte presentategli dal giudice Dragogna208 e valutati i fatti emersi dagli interrogatori, il 3 agosto 1757 il podestà e capitano di Capodistria, Lorenzo Paruta, chiamò a deporre 27 per-sone informate sull’accaduto. Il 5 agosto il primo ad essere ascoltato dalla Giustizia fu Baldissera Manzoni, un uomo di circa 55 anni, già più volte citato nelle precedenti deposizioni come persona a conoscenza dei fatti.

Il pomeriggio del 25 aprile il Manzoni si trovava con il podestà Bragadin, quando capitò il cancelliere, in compagnia del comandante, a riferire il comportamento tenuto dagli zuppani durante l’assemblea nella chie-sa di San Sergio ed il loro rifiuto di rispettare la Terminazione Civran, nonostante l’ordine ricevuto dal podestà.

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“e che loro avendo sostenuto d’essere Patroni indipendentemente per quanto importava quest’affare.”Il cancelliere, il comandante e anche lo stesso Manzoni se ne andarono, ma quest’ultimo tornò poco

dopo a palazzo; era presente, infatti, quando il podestà fece capitare in sala tre degli zuppani, che aveva fatto radunare sotto la Loggia; era seguita un’altercazione tra questi ed il Bragadin. Gli zuppani furono licenziati a tre a tre209fino agli ultimi tre rimasti, Mattio Zactila lo zuppano di Cere fu licenziato, gli altri due, i più temerari nel precedente incontro, Iseppo Micuglian e Vicenzo Faraguna, furono fatti arrestare dallo sbiro. Opposero un po’ di resistenza, il Micuglian disse che non erano ladri né assassini e non meritavano la prigione. Il Faraguna disse che avrebbe perso la vita piuttosto che lasciarsi legare. Il Manzoni comunque non vide armi. Giacché opponevano una certa resistenza, il podestà fece chiamare Zaccaria Dminich capo di Cento con altri soldati, il quale “con destra maniera” li persuase ad obbedire alla giustizia. Il Manzoni, oltre ad avere un’ottima memoria, incline al dettaglio, dimostra una buona conoscenza della gente di campagna, citando per nome molte delle persone di cui parla. Quella sera era presente - che novità - quando Zuanne Dragogna espresse al podestà i suoi timori per ciò che sarebbe potuto accadere la mattina successiva. Il Dragogna temeva “qualche tumultuazione di villici”. Pertanto il podestà convocò il caporal dei Bombardieri Nicolò Cattaro, cui affidò l’in-carico per la mattina a venire di far custodire da dodici bombardieri la Porta della Terra.

La mattina del 26 aprile il Manzoni si trovava a casa, quando capitò il conte Tommaso Battialla di ritorno dalla campagna, il quale gli raccontò di aver visto una grande moltitudine di villici dirigersi verso la porta; si era affacciato alla finestra e aveva visto che:

“li villani sfilavano d’ogni parte e che s’incamminavano verso di questa Terra”. Osservò in borgo circa cento villici privi di armi e circa trenta in piazza anch’essi disarmati.Si recò dal Bragadin e lo consigliò di chiamare Zuanne Dragogna, esperto mediatore, per farli allon-

tanare dalla città. Il Dragogna accettò di intercedere per il podestà presso i contadini, tanto più che asserì di conoscere tale Lupetin, uno dei procuratori. Dopo qualche tempo il Dragogna tornò, con la notizia che il Lupetin era favorevole al ritiro, a patto che entro sera i due prigionieri fossero rilasciati. Nel frattempo il Manzoni ebbe la commissione dal podestà “di passare in volta per traspirare la risoluzioni dei villici”, eseguendo notò che i villici erano aumentati, in quel momento potevano essere anche trecento, diretti specialmente dal procuratore Belusich, andavano avanti e indietro senza violenza o sopraffazione; “anzi che fui da quelli salutato” riferì al podestà, il quale mandò il Dragogna a scoprire, perché non se ne andavano. Questo parlò con il Lu-petin, il quale si disse “persuaso di partire quanto inascoltato”. Il Belusich ed un tale Clapcich avevano assunto il controllo della folla e si rifiutavano di partire. Nella sua ricostruzione il Manzoni sminuisce un po’ il ruolo del Dragogna trasformandolo in una sorta di emissario del podestà, privo di effettiva influenza sui contadini, tesi che sembrerebbe sostenuta dall’andamento della protesta. Il Manzoni fa chiaramente i nomi dei capi della rivolta, accusando il Belusuch e il Clapcich di dirigere la folla. Le sue parole scagionano il Lupetin, prova di un rapporto privilegiato del procuratore con i signori della città.

Il Manzoni vide un tale Zorzi Dobrich detto Zanco camminare festoso tra la folla. Dalla casa di suo genero vide i contadini parlare con gli zuppani incarcerati, riconobbe il Belusich, che

era molto alto; vide le carceri aprirsi e i due prigionieri uscirne, dopodiché la moltitudine dei villani si ritirò, abbandonando lentamente la piazza. Seppe da Biasio Zuliani, che fuori del borgo il Clapcich girava tra i villici

209 Il Manzoni fu l’unico a parlare di “tre per volta”, gli altri testimoni parlano di due zuppani introdotti di volta in volta al cospetto del podestà.

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raccogliendo denaro, forse per far ricorso. Dopo pranzo, mentre si trovava in compagnia di Giacomo Battiala, vide dalla finestra che molti villici entravano ed uscivano da casa dell’avvocato Spizza.

Lungo la strada vide contadini muniti di fucili, sia la mattina sia più tardi, ma nella piazza nessuno era armato. Seppe poi che li avevano lasciati in casa di Valentin Lucaz ed Antonia vedova di Domenico Lucaz, con la quale coabitava Zaccaria Dminich, entrambi osti. Era usanza dei contadini capitare liberamente in paese provvisti di schioppo, non sa dire perché quel giorno li abbiano riposti nelle sudette case, forse perché “in soggezione della Giustizia”, li avevano però tenuti a portata di mano in caso di bisogno. Il Manzoni fu il primo ad informare il Paruta dell’usanza locale dei contadini di girare armati, di cui forse era già a conoscenza. Uno degli osti interrogati riferì alla Giustizia, che quel giorno non si era verificato niente di anomalo, anzi, molti più fucili venivano depositati nella sua osteria durante la fiera.

Tornando alla deposizione del Manzoni, il Dragogna gli aveva riferito inoltre la minaccia da parte dei contadini di abbattere la prigione se fosse stato necessario.210 Il podestà gli aveva raccontato di aver licenziato i due zuppani, per evitare altri problemi ai villici, “dubitando che succedesse qualche funesta conseguenza”. Non sapeva dire se quella mattina fossero presenti tutti gli zuppani, riconobbe però Domenico Knapich, Do-menico (Vulacich) Vlacich e Gregorio Rabaz; era presente nel dopopranzo del venticinque quando capitarono di fronte al podestà a gruppi di tre, li distinse tutti, erano: Mattio Zattila (o Zactila) zuppano di Cere, Zuanne Blasina zuppano di Rogozzana, Marinco Zuppicich da Ripenda, Vicenzo Zuppanich da Montagna, Iseppo Mi-cuglian zuppano di Produbas, Vicenzo Faraguna zuppano di Dubrova, il sostituto di quello di Portolongo, gli pare tal Bastianich detto Cicuta e Gregorio Miletich zuppano di Vetua.211

Non azzardò ipotesi su chi avesse potuto suggestionare i contadini, i fratelli Milevoi ed il prete Tom-maso (Cerniol) Cergnul di Cere gli hanno raccontato di aver ricevuto, nella notte tra il 25 ed il 26, l’ordine di recarsi ad Albona la mattina seguente. Aggiunsero inoltre, che i villani chiedevano il mandato del podestà, altrimenti non si sarebbero presentati. Lo stesso poteva riferire il pievano di San Martino. Il Dragogna aveva raccontato al Manzoni che i contadini non avevano idea del motivo della convocazione, lo avevano scoperto solo la mattina in piazza. Altri suoi conoscenti furono intimati a presentarsi in piazza, ma nessuno aveva obbe-dito.212 Quella notte gli zuppani minacciarono una pena di 25 lire e la vita ad alcuni, se non si fossero recati la mattina seguente ad Albona. Vide il comandante, ma non ricorda di avergli dato alcuna commissione.

Quella mattina i bombardieri custodirono malissimo la porta della città, anzi un tale Girolamo (Forbu-conich) Ferbocovich, detto Lonich, invitava gli altri soldati a non obbedire al podestà, particolare che gli aveva riferito il Dragogna. Non aveva idea del motivo di questo comportamento, ma tutti descrivevano il Lonich come “uomo piuttosto torbido ed inquieto”. Più tardi quella mattina vide lui stesso che alcuni soldati avevano abbandonato la guardia, per andare in giro a esasperare gli animi dei contadini.213

210 Il Dragogna nella sua deposizione non confermò queste parole.

211 Altrove lo zuppano di Vetua viene citato come Gregorio Rusich, nome che considero più attendibile.

212 Il Manzoni fece numerosi nomi al Paruta, il quale interrogò tutte le persone citate.

213 Il Manzoni disse alla Giustizia che Zuanne Dragogna, Domenico Valcich detto Brighella, Domenico Dirindin e Tommaso Rusich detto Baja “tutti e tre Cernide di questa terra” potevano confermare le sue parole riguardo al comportamento tenuto del bombardiere Lonich quella sera, mentre per quello della mattina il Paruta poteva sentire il calzolaio Bortolo Dragogna, Antonio Lorenzini, che aveva una bottega in piazza, e il sarto Antonio Dminich.

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Il Paruta chiese allora al Manzoni se era a conoscenza del motivo di tanto trambusto, quest’ultimo rispose di non esserne certo, probabilmente gli zuppani erano irremovibili nel voler riconfermare i vecchi procuratori, perché questi potessero proseguire la causa pendente al Consiglio di quaranta “tra l’Università del popolo e questa nostra Comunità”. Il motivo della causa era la contribuzione dei Livelli d’un mozzo di frumento sopra un capitale di 20 ducati. I procuratori si erano rassegnati al Pien Collegio con un memoriale,214 perché fosse decretata la minorazione e quindi “per parte nostra, che vale a dire della comunità fu presa parte di far litte”.

Si fece procura al signor Antonio Testa a Venezia, l’avvocato segnò l’Atto d’Intromissione, indi fu proget-tato l’aggiustamento di ridurre ogni corresponsione al 6%, accettarono, ma dalle lettere da Venezia sembrava che il rappresentante dei procuratori andasse tergiversando la conclusione, d’un progetto da lui medesimo proposto. La comunità non aveva alcun interesse nella causa, ma erano stati consigliati ad usarne il nome dall’Interveniente di Venezia.

“questa non deve avere né beneficio né maleficio, da noi personalmente vengono supplite l’occorenti spese. La stessa ci prestò solo il nome per confronto all’Università.”

Il Manzoni era particolarmente interessato alla causa in corso, perché possedeva molti livelli. Soddi-sfatto dalle risposte ottenute il Podestà e Capitano di Capodistria congedò Baldissera Manzoni, per iniziare l’interrogatorio dell’uomo “esperto nelle cose della campagna.”.

214 Il Pien Collegio (si veda nota 3) ricevette la supplica e la rimise al giudizio dei consiglieri, che decisero all’unanimità di richiedere informa-zioni “giusto le Leggi” al podestà e capitano di Capodistria. In ASV, Collegio, Commesse di fuori 1756, b. 503.

215 Il podestà però era già stato informato del rischio di tumulti popolari dal Cancelliere Frielli.

6.6 La deposizione di Zuanne Dragogna

Zuanne Dragogna al momento dell’interrogatorio aveva all’incirca cinquantasei anni, conosceva bene sia il mondo dei signori sia quello dei contadini e veniva spesso interpellato per saggiare gli umori del contado albonese. Considerate tutte le volte in cui il suo nome era comparso nelle precedenti deposizioni, il Paruta decise di ascoltarlo per avere la sua ricostruzione di quelle due intense giornate.

Il 25 aprile verso sera, mentre rientrava dalla campagna, giunse al Dragogna la notizia che il podestà fosse intenzionato a far arrestare due zuppani: Vicenzo Faraguna ed Iseppo Micuglian, che in quel momento si trovavano nel palazzo. Quella sera origliò la conversazione tra Marco Faraguna ed un contadino, il fratello di Vicenzo voleva convincere il villano a restare ad Albona quella notte, perché “la mattina dopo il popolo sarebbe capitato in piazza.” Ascoltate queste parole passò in cancelleria, dove riferì al Frielli ciò che aveva sentito. Più tardi poi quella sera, mentre si trovava in palazzo con il Manzoni, riferì al podestà ciò che aveva origliato.215 Si ritirò e andò a dormire.

La mattina dopo accadde ciò che lui aveva previsto. Il paese si riempì di villici, potevano essere circa

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quattrocento, provenienti da tutte le zuppanie,216 non gli sembrarono diretti da alcun capo, però sfilavano a cinque o sei alla volta e capitarono in città “senza armi di sorte alcuna”. Sapeva che i contadini provenivano da tutte le zuppanie, perché conosceva molto bene il territotorio. Il podestà, posto in soggezione da una tale insorgenza, fece chiamare il Dragogna e lo incaricò di mediare con qualcuno di quei contadini, per persuaderli ad andarsene; il Bragadin gli permise di garantire, che se i villani si fossero ritirati senza creare disagi, i due detenuti sarebbero stati liberi prima di sera.

Pertanto il Dragogna tornò in piazza, dove vide seduti su una panca i due procuratori217 che parlavano tranquillamente tra loro. La situazione gli sembrò molto calma e sotto controllo. Si avvicinò ai due e li invitò in casa sua per parlare con loro. Una volta in casa li fece accomodare e s’informò sui loro intenti, gli chiese espli-citamente se avessero l’intenzione di buttar giù le prigioni. Il Lupetin negò un simile disegno, disse “che Iddio guardi di far tali cose”, volevano solo presentarsi al podestà, per supplicare la liberazione dei due zuppani.

Come da ordine del Bragadin, comunicò ai procuratori che il rappresentante al momento dormiva e non poteva riceverli; li esortò, quindi, ad allontanare i villici, con la promessa giurata, che gli zuppani sareb-bero stati liberi entro sera. Il Lupetin:

“restò pienamente persuaso d’adoprarsi per far partire quei villici; ma il Belusich si manifestava per verità d’un sentimento diverso.”

Il Belusich non intendeva lasciare il paese senza i due prigionieri, anzi eccitava gli animi dei contadini, contro il parere del Lupetin. Una volta di più le colpe del comportamento dei contadini ricaddero tutte sul Be-lusich, il procuratore Lupetin fu invece scagionato, le sue intenzioni erano buone, ma non fu ascoltato. Alcuni villici, tra cui un tale Domenico Cos morto da quattro giorni, minacciarono addirittura di uccidere il Lupetin per tradimento. Il procuratore di conseguenza lasciò il paese per “timore d’esser trucidato”.218 Il Dragogna andò oltre sostenendo che il Lupetin fosse in realtà estraneo a quanto accaduto quella mattina, era capitato in piazza, perché così gli era stato comandato di fare in nome del suo zuppano Domenico Vlacich; lo aveva raccontato lo stesso Lupetin al Dragogna quella mattina.219

216 La zuppania era il territorio di competenza di un zuppano, la campagna di Albona era suddivisa in dodici zuppanie: Cugno (scritta a volte Cugn a volte Cagn) il cui zuppano era Nicolò Glubonovich e il cui pozuppo non venne coinvolto nel processo; Cere, che per zuppano aveva Mattio Zactila o Zattila e per pozuppo Domenico Prodoglian; Dubrova, zuppano il detenuto Vicenzo Faraguna e pozuppo Zuanne Stemberga detto Bobach; Montagna, il cui zuppano era Vicenzo Zuppanich e il cui pozuppo non fu coinvolto; Poglie, zuppano Domenico Vlacich e pozuppo Domenico Vlacich; Portolongo, il cui zuppano Nicolò Blasina non partecipò agli avvenimenti, perché infermo, e fu sostituito da Martin Ba-stianich detto Cicuta (altrove si dice invece che fosse intervenuto da sostituto Marian Chuchiera) e dal pozuppo Antonio Ivecovich; Produbas, zuppano l’altro detenuto Iseppo Micuglian e pozuppo Mattio Dundara; Ripenda, zuppano Marinco Zuppicich e pozuppo Domenico Belaz o Belusich; Rogozzana, zuppano Zuanne Blasina e pozuppo Simon Viscovich; Santa Domenica, pozuppo non coinvolto e zuppano Domenico Knapich; Schitazza, zuppano Gregorio Rabaz e pozuppi Zorzi Schichev o Schiacar e Gregorio Tomicich; ed infine Vetua, zuppano Gregorio Rusich e pozuppo Marin Miletich detto Matecincich.

217 I due procuratori erano Gasparo Lupetin e Mattio Belusich. Zuanne Dragogna è l’unico a fornire alla giustizia la descrizione di questo colloquio, perché i due procuratori non furono mai chiamati a deporre.

218 Il Dragogna usò le comode parole di un morto, che chiaramente non poteva confutare la sua deposizione, per mettere Gasparo Lupetin in buona luce di fronte alla Giustizia. Le varie testimonianze a favore del procuratore evidentemente sortirono l’effetto voluto, perché il Lupetin non fu accusato di nulla al termine del processo.

219 Mi sembra poco credibile che un procuratore fosse totalmente estraneo all’organizzazione di una manifestazione del genere, che poi prendesse ordini dal suo zuppano senza contestarli mi sembra ancora meno verosimile. Ipotizzerei che il procuratore Lupetin fosse molto più legato agli interessi dei signori di città, che a quelli dei contadini che avrebbe dovuto rappresentare.

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Il procuratore Lupetin gli disse che i villici si erano persuasi di partire, che avrebbero bevuto un bicchie-re, pagato una tassa per inviare un messo a Venezia a riferire al difensore del popolo quello che era successo e se ne sarebbero andati. Zuanne Dragogna sostenne di aver saputo delle divergenze tra i due procuratori solo in un secondo momento, infatti soddisfatto si era recato immediatamente dal podestà a riferirgli l’accor-do preso con il Lupetin e si era preparato a partire per tornare in campagna. Una volta nel piazzale però si era reso conto che i villici invece di diminuire andavano aumentando; qualcosa non era andato secondo gli accordi.

Tra la folla riconobbe il parentado del Faraguna, tra i quali il benestante Mattio Clapcich220 che si disse del tutto contrario alla partenza dei sudditi. Nel frattempo i contadini si spostarono in piazza:

“come pecore, un tale Domenico Verbanaz faceva molto chiasso e sollecitava gli altri all’ingresso.”Il Dragogna si mischiò con i contadini ed arrivò alla cancellata dove Baldissera Manzoni ordinò al co-

mandante di presentarsi al podestà, per riferirgli di liberare immediatamente i due zuppani, in modo da evitare ulteriori disordini, “benché se ne stassero quei villani in piazza senza far motto ed incantati.” Il comandante eseguì e il podestà poco dopo ordinò la scarcerazione dei due prigionieri. Quanto appena raccontato dal Dragogna era stato riferito alla Giustizia in maniera leggermente diversa dal comandante Zatton,221 l’esperto delle cose della campagna sembra voler sminuire il suo ruolo di fronte alla Giustizia. Il Manzoni dal canto suo negò di aver dato degli ordini al comandante. Sostenendo l’ipotesi che il comandante non avesse avuto alcuna ragione di inventarsi tale ordine, il Dragogna ed il Manzoni sembravano tenerci molto a restare nell’ombra. Essi avevano una forte influenza sul podestà, al punto che poterono dargli un ordine, seppur velato, ma non vollero assolutamente che la cosa risultasse dai verbali del processo. Probabilmente temevano che la Giustizia potesse ritenerli in qualche modo “coinvolti” nell’insistenza con cui il podestà richiedeva il cambio dei vecchi procuratori.

Tornando alla deposizione del Dragogna, i due zuppani liberati ringraziarono il podestà e tra l’esultanza del popolo lasciarono il paese. Partiti i contadini, tornò subito dal podestà per giustificarsi per la mancata riuscita dell’accordo; aggiunse che il Clapcich andava in giro sostenendo che le sue promesse erano solo una scusa per guadagnar tempo e che se non avessero fatto così, i due zuppani sarebbero stati trasferiti nelle carceri di Capodistria222 il procuratore Lupetin gli aveva riferito le parole del Clapcich. Era felice che non fosse accaduto alcun male quella mattina.

Il Dragogna sapeva che quella notte in nome degli zuppani, fu ordinato un po’ a tutti i contadini di recarsi in piazza la mattina seguente, uno per casa, se non avessero obbedito, avrebbero dovuto pagare una multa di 25 lire; alcuni in pena della vita. Non fu spiegato ai contadini il motivo di tale raduno.

220 Il benestante Mattio Clapcich, probabilmente malvisto in città, fu uno dei pochi contadini non zuppani contro cui la giustizia prese dei provvedimenti al termine del processo.

221 Raggiunto il cancello il comandante Zatton aveva riferito di aver incontrato il Dragogna ed il Manzoni e che i due insieme gli avessero ordinato di riferire al podestà di liberare i due zuppani, perché “v’era del pericolo”. Il comandante aveva riferito l’ordine, che il podestà aveva prontamente eseguito.

222 Visto il comportamento tenuto dal Bragadin durante tutto il processo, il Clapcich poteva anche avere ragione, non era da escludere che il podestà avesse promesso la libertà dei due detenuti entro sera, solo per guadagnare tempo. Non è possibile capire dal processo se le accuse al Dragogna di “fare il gioco del podestà” avessero un qualche fondamento. In ogni caso mi sembra certo, che con la sua deposizione il Dragogna sperava di mettere in grossi guai il benestante Mattio Clapcich, cosa che parzialmente gli riuscì.

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Lui non aveva idea del perché i contadini fossero capitati ad Albona – bizzarro per uno informato sempre di tutto - sapeva però che quella mattina il Belusich aveva minacciato di abbattere le prigioni, se i due detenuti non fossero stati liberati. Il Dragogna informò il Paruta che il Belusich disse la stessa cosa anche al Manzoni. Il procuratore Belusich, al momento della scarcerazione, si trovava in piazza; fu convocato dal podestà, ma non ha idea di cosa si siano detti. Si mormorava che i due zuppani fossero stati arrestati per aver risposto in maniera temeraria al podestà e per aver insistito nel voler riconfermare i procuratori, fintantoché durava la pendenza a Venezia.

Non vide armi, il “popolazzo” discorreva che vi fossero due carri di schioppi lasciati fuori nelle osterie del borgo, ma lui non sapeva niente di armi nascoste. Si diceva che il Belusich avesse un coltello al fianco e che, su suggerimento di qualcuno, l’avesse deposto prima di entrare in piazza.

Non vide i due procuratori quando lasciarono la piazza quella mattina, ma i loro animi erano opposti, quindi immagina che anche il loro comportamento sia stato tale.223

Conosce un tal Zorzi Dobrich detto Zanco, sentì dire in giro che fosse presente quella mattina, ma non lo vide. Sapeva però che nel dopopranzo il Dobrich si era recato dal podestà, con altri contadini, per chiedere il permesso necessario per eleggere i procuratori, il Bragadin gli aveva risposto “che facessero ciò che avessero voluto”. Il Dragogna non li vide, perché si era nascosto per evitare ritorsioni, ma riconobbe comunque la voce del Dobrich. Il Lupetin, dieci giorni dopo, gli aveva raccontato:

“che quel Dobrich aveva fatto del sussuro e che se non fosse lui capitato con alcuni altri di Schitazza, li villici sarebbero partiti”.

Conosceva l’avvocato Zammaria Spizza, ma non ricordava di avergli parlato di questo quella mattina, solo dopo lo aveva consigliato di abbandonare la difesa dei contadini, ma lo Spizza si era opposto, dicendo che era un avvocato e voleva sostenere chi più gli piaceva. Lui lo aveva consigliato di abbandonare la difesa dei villani per non incorrere nell’indignazione del podestà, poiché sapeva che la cosa gli recava dispiacere.224 Con-ferma di avere riferito al podestà di alcuni discorsi avuti con lo Spizza, in cui quest’ultimo gli aveva raccontato di essere stato bandito “e che non poteva ne pur andar a messa”. Non aveva idea di quando questo fu bandito né perché, alcuni giorni dopo però lo vide in città. Ignorava se lo Spizza avesse in qualche modo guidato i villici in quei giorni.

La causa:“corre tra l’Università e il corpo nobile di questa Terra per occasione dei livelli, mentre l’Università vorebbe che le

venisse minorata la corrisponsione livellaria, e questa pendenza è stata portata al Consiglio di 40”. I contadini, fatta eccezione del Belusich, non si comportarono in modo violento, “parlavano quietamente

in chiappi225 tra di loro.” Quella mattina si trovava al cancello e con gli occhi dominava la piazza, nessuno tra i

223 Quella mattina riconobbe anche lo zuppano di Poglie Domenico Vlacich, di altri non sa. Però Antonio Dminich gli raccontò che Domenico Knapich, lo zuppano di Santa Domenica (la zuppania di Mattio Clapcich) gli aveva chiesto dei soldi in prestito per pagare una tassa. Come te-stimoni di quanto aveva finora affermato citò i contadini Antonio Vlacich, Zammaria Viscovich, Matte Lacich (probabilmente Vlacich), Domenico Vlacich e Antonio Bersezan, tutti chiamati a deporre dal Paruta.

224 Le parole esatte del Dragogna furono: “in quanto non incontrasse nell’indignazione di Sua Eccellenza, perché sapevo comprendere, che a lui le spiaceva che li diffendesse e che scrivesse a loro favore in Venezia”.

225 Schiapo o chiapo: branco, vedi Boerio, “Dizionario del dialetto veneziano”, Seconda edizione, Premiata tipografia di Giovanni Cacchini Editore, Venezia, 1856. Ristampa anastatica, Aldo Martello Editore, Milano, 1971, p. 625.

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villici faceva intendere qualcosa riguardo ai due detenuti, se ne stavano quieti guardando il palazzo. E dopo la liberazione lasciarono in fretta la piazza.

Dei bombardieri custodivano la Porta, ma solo in apparenza, perché: “benchè avessero l’armi in mano, lasciavano entrare ed uscire chi voleva; anzi che uno d’essi bombardieri, che si

chiama Girolamo Ferbocovich, nella sera precedente […] procurava di disuaderli [a difendere la Porta].”Non sapeva altro di lui; la giustizia poteva chiamare a deporre sull’argomento Piero Tonetti da Fianona,

che si trovava con il Ferbocovich quella sera.

226 In ordine di deposizione: il cancelliere Frielli, il comandante Zatton, il podestà Bragadin, i due giudici Negri e Dragogna, Baldissera Manzoni e Zuanne Dragogna.

227 Interessante il fatto che Nicolò Luciani non possedesse livelli né in forma attiva né in forma passiva. Nella sua deposizione il Luciani ammise di non saper scrivere ed appose una croce al posto della firma. In ASV, b. cit., carte 80v-84. Forse Nicolò faceva parte della nobiltà impoverita ed aveva più di qualche rancore verso i “signori cittadini”.

6.7 Alla ricerca della verità

Ascoltate le sette persone maggiormente informate dei fatti,226 il Paruta proseguì la sua indagine inter-rogando tutti coloro che potevano in qualche modo aiutarlo nella ricostruzione degli avvenimenti. Tra il 5 ed il 14 agosto 1757, il podestà e capitano di Capodistria ascoltò ben novanta deposizioni; tutte aggiunsero qualche piccolo tassello alla storia. Il Paruta iniziò la sua ricerca interrogando prima i nobili ed i soldati, passò poi ai gestori di negozi sulla pubblica piazza e ai locandieri, fino ad interrogare tutti gli abitanti di Albona coinvolti in qualche modo negli avvenimenti di quei due giorni, ascoltò anche le dichiarazioni dei quattro pievani; estese infine le sue indagini alle ville di campagna coinvolgendo i contadini.

I dati che emersero dalle lunghe ore d’interrogatori, furono più o meno gli stessi già accennati dalle precedenti deposizioni. Tutte le testimonianze si trovarono concordi nell’asserire che nessuno entrò armato in città il giorno del tumulto.

Fatta eccezione per il giovane conte Tommaso Battialla, che si prese un bello spavento: “in quanto convien aver soggezione d’una moltitudine di villici; massime perché seco noi tengono qualche ani-

mosità per li livelli, che ci devono pagare”,tutte le altre deposizioni furono concordi nel descrivere i contadini come pacifici, a tratti disorientati,

magari esultanti una volta ottenuta la liberazione dei due prigionieri, ma sempre rispettosi del decoro e della città. Le persone legate ai signori della città accentuarono, talvolta, il numero dei villici e la paura provata. Dalle dichiarazioni dei negozianti della piazza si percepisce una certa preoccupazione per una folla così nume-rosa, ma non un’avversione verso i contadini. La gente interrogata sembra aver temuto la massa incontrollata, quando però la Giustizia scese nel particolare chiedendo lumi su singoli contadini, nessuno ammise di aver avuto timore per la propria vita. Il nobile Nicolò Luciani227 assicurò la Giustizia che durante l’incontro nella chiesa di San Sergio, non ci fu alcuno scandalo. Aggiunse, che per soddisfare la sua curiosità, si era sempre recato all’elezione dei procuratori e negli altri anni non era mai stata letta agli zuppani alcuna Terminazione,

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era la prima volta che anche lui ne sentiva il contenuto, “quindi però per lo più cambiavano il maggior numero dei procuratori e qualche volta nella maggior parte li con-

fermavano per quanto mi pare; ma è cosa certa che in questo proposito facevano ciò che le piaceva senza contrasto.”La deposizione del Luciani, anche se non sminuì l’importanza della Terminazione Civran, che comun-

que imponeva effettivamente il cambio del maggior numero dei procuratori, suscita più di qualche dubbio sulla trasparenza del comportamento del podestà Bragadin. Al contrario il conte Giacomo Battialla sostenne la versione del podestà, dichiarando di aver visto in piazza “un osservabilissima insurrezione dei villici”, accusò apertamente gli zuppani di essere gli artefici della rivolta e dichiarò:

“Vidi bensì che nel regresso in quella sera moltissimi di quei villici erano proveduti del schiopo; quando che nella mattina né in Piazza né in Borgo non havevano armi, per quanto è caduto sotto le mie osservazioni, a riserva di Mattio Belusich a cui vidi nella scarsella a parte destra un pistola et a parte sinistra un lungo coltello, e con tale figura so che si presentò anco nella mattina medesima dinanzi Sua Eccellenza Podestà.”

Giacomo Furlan, l’agente del conte Giacomo Battialla, vide con i suoi occhi moltissimi villici, poi ag-giunse cinque o sei muniti di schioppi. Il Furlan sostenne anche di aver sentito dire a un tale Lucaz, ma non citò testimoni a favore, che tutti i signori “fossero buttati a pezzi compreso il Podestà” 228 aggiunse comunque che i contadini riuniti in piazza erano disarmati. La deposizione del Furlan può essere considerata attendibile, sicuramente tra i contadini riuniti in piazza, si trovava qualche “testa calda” pronta alla rissa se le cose fossero degenerate.229

I locandieri, accusati di aver nascosto delle armi nelle loro bettole, si giustificarono dicendo che: “è costume inveterato che li villici nella maggior parte, quando si portano in questa Terra, prima d’introdursi

dentro le Porte lasciano in Borgo li proprii schioppi, e così dietro a tale consuetudine anco nella mattina delli 26 aprile decorso vi furono nella mia casa sette in otto schioppi” 230

anzi, aggiunsero che i contadini ve ne avevano lasciati molti di più durante la fiera. Le risposte degli osti potevano anche essere dettate dal timore di un’accusa di complicità, è comunque plausibile che i contadini usassero girare armati per difendersi dai pericoli della campagna e che di norma deponessero i fucili in un luogo sicuro prima di entrare in città. Il fabbro Dusman dichiarò di aver lavorato parecchio quel giorno, molti contadini avevano approfittato dell’obbligo di presentarsi in città, per portare gli arnesi di campagna, zappe, zapponi o altro, ad aggiustare. Marizza Donada, che si occupava dell’ospitale appena fuori dalle mura di Albo-na, dichiarò che nessuna arma era stata nascosta lì quel giorno. Dei contadini chiamati a testimoniare alcuni dissero di non aver nulla da riferire alla Giustizia, ma la maggior parte ammise di aver ricevuto da pozuppi o loro emissari, l’ordine di recarsi in città la mattina del ventisei “uno per casa”, se si fossero rifiutati sareb-bero incorsi in una multa di venticinque lire. Non gli era stato spiegato il motivo della convocazione. Alcuni aggiunsero che non gli fu chiesto di portare armi. I più dichiararono di essere rimasti a casa, mentre quelli

228 ASV, b. cit., c. 116.

229 Nella sua deposizione Zammaria Viscovich rammenta di aver sentito un tale Simon Vlacich quondam Zuanne, il quale “s’espresse che voleva i zuppani in libertà e che lui sarebbe stato il primo ad assalire Sua Eccellenza Podestà, e col prenderlo per gola, se però non gli avesse lasciati li suoi zuppani, fu però altamente sgridato”. In ASV, b. cit., c. 176.

230 Questa dichiarazione fu rilasciata da Zaccaria Dminich, ma le parole degli altri locandieri vi si allinearono. ASV, b. cit., c. 159.

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che ammisero di essersi recati in piazza, aggiunsero che appena scoperto il motivo del raduno erano rincasati. Tutti erano d’accordo nello scagionare i pozuppi, questi avevano semplicemente obbedito agli ordini dei loro zuppani. Nella sua deposizione Mattio Viscovich della Zuppania di Schitazza, accusò il pozuppo di averlo attirato in piazza con una scusa.231

Colorita la deposizione di don Tommaso (Cargol) Cergnul, della Villa di San Martin Zuppania di Cere, il pievano riporta un dialogo avuto il 29 giugno con lo Spizza, nel quale l’avvocato si lamentò con lui:

“che era stato da Sua Eccellenza Podestà bandito dal tribunale e credo anche dalla Piazza, per mottivo che lui aveva assistito al popolo sudetto; raccontandomi che aveva formato in precedenza un memoriale da essere presentato all’Eccelso Consiglio dei Dieci contro il Podestà sopra l’interesse dei Zuppani e Procuratori e che l’aveva anco speditto in Venezia; soggiungendo che se al popolo le fosse corso sangue, ne pure agl’altri le sarebbe corsa acqua, esagerò contro Baldissera Manzoni nobile di questo Consiglio, pretendendo che il Podestà operasse a di lui suggestione.”

Secondo don Cergnul, inoltre, l’intimidazione doveva essere stata fatta in nome del podestà, perché in caso contrario i contadini si sarebbero rifiutati di obbedire. Il pievano, con la sua deposizione, sembra voler aggravare la posizione degli zuppani, quest’astio potrebbe aver avuto una spiegazione personale, il Cergnul era infatti in lite con uno degli zuppani ed i due non si parlavano da tempo.232

I testi, che risposero alla domanda, si dimostrarono concordi nel ritenere che il motivo dei trambusti di quei giorni fosse la causa in corso a Venezia per i livelli,233 i contadini volevano conservare i vecchi procuratori fino alla sentenza, perché questi conoscevano già la materia della vertenza – due si trovavano a Venezia – eleggerne di nuovi avrebbe voluto dire nuove spese e molto tempo perso. Le deposizioni erano ugualmente concordi nel ritenere la causa sostenuta dai signori, usando il nome della Comunità, perché di maggiore im-patto emotivo.234 Il pievano don Antonio Stepancich della Parrochia di San Martino, si dimostrò convinto delle buone intenzioni degli zuppani, anzi informò la giustizia di aver suggerito agli stessi di confermare i vecchi procuratori, perché considerava:

“che detta conferma potesse essere utile all’interesse della povertà, perché forse cambiandoli poteva la causa restare arrenata.”

231 Dalla deposizione di Mattio Viscovich: “Nella mattina delli 26 aprile passato decorso, circa il levar del sole, capitò alla mia casa Zorzi Schicar nostro pozuppo ad intimarmi che per ordine del zuppano, sotto la pena di lire 25, dovessi in quella mattina medesima capitare in questa Terra, per indi passare a fare una stradda nella pertinenza di Portolongo, e mi disse che doveva capitare anzi uno per casa; dietro a detta intimazione di compagnia di Martin Zuppanich, di Lorenzo Dundara e di Gregorio Dobrich ci siamo incamminati verso questa Terra, ed arrivati alla casa di Giacomo Furlan, col quale mi sono incontrato sopra la strada, fui dallo stesso avvertito che andavo contro il Prencipe, che vale a dire contro il Podestà; il che da noi inteso ci siamo immediate restituiti alle nostre case […] Non posso render conto che fondamento lui [il Furlan] avesse di dirmi quanto ho deposto; dico bene che egli s’esprese, che tanta gente, cioè che v’era in confusione tanto popolo, atteso l’affare dei zuppani.” In ASV, b. cit., c. 214v. I tre compagni confermarono il racconto del Viscovich.

232 Don Cergnul alla domanda se avesse parlato di quanto avvenne in aprile con lo zuppano di Cere, rispose “Non ho mai conferito in questo affare col Zuppano; essendo corso qualche tempo che esso meco non parla, attesa certa displicenza che corre.” In ASV, b. cit., carta 164.

233 Lo stesso conte Tommaso Battialla depose che si era spaventato: “in quanto convien aver soggezione d’una moltitudine di villici, massime perché seco noi tengono qualche animosità per li livelli che ci devono pagare, e che la contesa col Podestà era derivata attesoche loro, contro il sentimento della Terminazione Civrana, volessero confermare li Procuratori vecchi;” in ASV, b. cit., c. 157. Molte altre deposizioni confermano il legame tra la causa allora in corso a Venezia e gli avvenimenti di quell’aprile.

234 Spesso i fautori del pagamento in natura sostenevano, che questo era l’unico modo per garantire un costante afflusso di cibo a prezzi ragionevoli alla città. Questa corrente di pensiero trasformava i contadini da nemici dei signori a nemici della città nel suo complesso. Si veda Corazzol, “Fitti e livelli a grano”, op. cit., p.73. I cittadini albonesi non sembrano vedere nei contadini dei nemici. Almeno per il processo in questione non mi pare ricorra il dualismo città-campagna.

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Come in un gioco di scatole cinesi, le varie deposizioni portarono nuovi nomi alla Giustizia, nuovi testi-moni da interrogare, finché le domande del Paruta non raggiunsero anche gli abitanti delle ville più isolate del contado di Albona. Solo le frazioni di Montagna235 e Santa Domenica rimasero escluse dal processo, nessun contadino di quelle zuppanie fu chiamato a deporre. Probabilmente dopo il novantesimo interrogatorio, il capitano e podestà Lorenzo Paruta ritenne di aver raccolto abbastanza materiale, per scrivere una dettagliata relazione che il 2 settembre inviò al Consiglio dei Dieci.

235 Il conte Giacomo Battialla nella sua deposizione dichiarò “Dico bene una cosa che mi fa orrore ed è ciò che mi raccontò Zammaria Viscovich” lungo la strada per venire ad Albona aveva udito alcuni villani di Montagna imbestialiti “sopra le notizie che avevano avuto della retenzione, esageravano che volevano ammazzar il Podestà ed anzi uno dei medesimi, parlando con gli altri, lo prometteva, che lui sarebbe stato il primo a prender per il collo detto Podestà e soffocarlo, indi gettarlo fuori dal pergolo”. I contadini di Montagna quindi parteciparono al raduno in piazza, ma probabilmente il Paruta non sentì la necessità di chiamarli a testimoniare o non ottenne nomi precisi da citare.

236 La trascrizione integrale della Relazione del podestà e capitano di Capodistria si trova tra gli allegati a questo elaborato.

237 In più occasioni il capitano e podestà Paruta fu costretto a sospendere le deposizioni, perché bloccato a letto da “febbre periodica”. Il medico condotto di Albona, Domenico Antoni dottor Drazij, firmò i certificati che attestavano l’infermità del rappresentante capodistriano.

238 Dalla relazione del Paruta: “Mi sembra in primo luogo chiamata la candidezza dell’animo mio a dover svelare alla publica matturità la causa motrice, che impegnava li Zuppani a sostenere con vigoria la confermazione dei quattro vecchi Procuratori del Territorio, in confronto dell’aperto dissenso del zelante rettore, quale nella mattina appunto delli 25 aprile decorso, nell’occasione che sono comparsi a ricercarle il permesso della convocazione, le venisse questa accordata, a condizione però che avvessero esseguita la Terminazione Civran, cui ordinava che detti Procuratori dovessero essere cambiati nella maggior parte; ma che li Zuppani non rassegnandosi al preciso commando, autorizzato dalla Legge, le rispondessero che volessero confermare li vecchi Procuratori, non perpetuamente come viene spiagato nella pertecipazione 26 aprile, ma sin a tanto fosse ultimata la pendenza restante al Consiglio eccellentissimo di 40 Civil Novo, tra l’Università d’una e l’apparente e fitizio nome della Communità di questa Terra dall’altra.”

6.8 La relazione del capitano e podestà di Capodistria 236

Terminate le deposizioni dei testimoni il Paruta raccolse in venticinque pagine le sue attente valuta-zioni. Il caso, affidatogli dal Consiglio dei Dieci, era molto delicato ed aveva richiesto indagini scrupolose ed approfondite, ricerche che il Paruta ritenne di aver svolto in modo imparziale e zelante, nonostante la sua salute fosse alquanto cagionevole.237

“Ben gravissimi per verità comparivano a vista di dette lettere [del Bragadin] li caratteri dei delitti nelle stesse, respettivamente imputati ai Zuppani delle dodeci ripartite Contrade del Territorio et alli due Procuratori del popolo; né può negarsi che nell’esposte circostanze non comparisce il primo d’inobbedienza dolosa e punibile alla providenza della Legge, con profanazione del Sagro Tempio, et il secondo parimenti non odorasse di sedizione e di lesa Meastà Temporale.”

Il capitano e podestà di Capodistria iniziò la sua relazione riassumendo per i consiglieri gli avvenimenti che lo avevano portato ad Albona, passò quindi ad analizzare la lettera d’accusa inviata dal Bragadin al Consi-glio dei Dieci, demolendo le gravi insinuazioni in essa contenute.

Per il Paruta era vero che la mattina del 25 aprile gli zuppani si erano rifiutati di cambiare i procuratori, ma solo fino al termine di una causa in corso a Venezia, non in perpetuo come aveva sostenuto il Bragadin.238 Il rappresentante ricostruì per i consiglieri in modo accurato i fatti principali riguardanti la causa civile in corso

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a Venezia “per mottivo dei Livelli”. Era quella causa il motivo all’origine di tanta agitazione in città. Lo scontro per l’elezione dei procuratori aveva lo scopo di ostacolare o favorire la causa stessa.

Dopo aver ricapitolato le sue indagini, riguardo agli avvenimenti verificati nella chiesa di San Sergio, il podestà di Capodistria concluse di non aver rilevato alcuna profanazione della chiesa da parte degli zuppani.

“di voler perpetuamente confermare li vecchi Procuratori, ma con tumultazione e profanazione del Sagro tempio e coll’imputato spaleggio dei villici. Estesa perciò l’accurata Inquisizione sopra di questo primo articolo d’accusa, non la trovo per verità comprobata nell’esposte sue circostanze.”

Il Paruta citò i costituti del cancelliere Frielli, del comandante Zatton e di vari altri testimoni oculari per confutare le parole del podestà Bragadin.

La ricostruzione del podestà proseguì con gli avvenimenti che portarono all’arresto del Micuglian e del Faraguna, così com’erano emersi dalle varie deposizioni ascoltate. Su questo punto le indagini del Paruta confermano quanto asserito dal podestà Bragadin, un testimone gli aveva confermato le affermazioni degli zuppani riguardo al loro diritto di comandare su queste questioni. Non era chiaro, se avessero effettivamente coinvolto anche il principe nella loro affermazione, ma sicuramente avevano accusato il podestà locale di interferire con un’elezione che spettava loro di diritto. La Terminazione Civran dava ragione al podestà sulle regole per la nomina dei procuratori.

Dopo una dettagliata ricostruzione delle deposizioni raccolte su quest’argomento, il podestà proseguì la sua relazione passando all’accusa di tumulti:

“ora discende l’umiltà mia a rifferire con eguale purità le risultanze in linea dell’importante e serioso punto, che riguarda l’insurrezione della mattina 26 del mese stesso, giorno appunto in cui restò segnata dal rettore la partecipa-zione, sopra di cui versano li presenti miei studi.”

Anche in questo caso il podestà capodistriano ricostruì minuziosamente gli avvenimenti chiamando in causa numerose testimonianze ed infine concluse, che in effetti un gran numero di contadini si fosse riunito in piazza quel giorno, ma senza armi e senza moti di violenza.239

L’unico che si presentò armato fu il procuratore Belusich, che secondo più testimoni era munito di un coltello e si comportava come se fosse il capo di quei campagnoli.

Dalle sue indagini era emersa l’usanza dei contadini di recarsi ad Albona armati e depositare i fucili nelle locande appena fuori dalle mura, cosa che fecero anche quel giorno.

“Con le deposizioni di sopra passate non solo addunque è caduta l’imputazione, che li villici avvessero portate seco l’armi et gl’instrumenti rurali per far violenza alla Pubblica autorità; ma molto meno s’ha potuto verificare, che li detti nella mattina delli 26, che comparvero unitamente in quella Piazza, s’attrovassero proveduti d’armi ascoste, anzi che consta ad evvidenza, che prima d’entrarvi nella Terra, quelli che s’attrovavano proveduti dello schioppo, in conformità al pratticato, lo deponessero nelli Borghi; ne meno s’è comprobato, che si facessero intendere, di voler ris-solutamente in libertà li due Zuppani, come accena a Vostre Eccellenze il Nobil Homo podestà nella sua partecipazione 26 Aprile.”

239 “Il numeroso concorso del popolo proveniente dalle Contrade del Territorio della Terra, m’è risultato pienamente da moltissime deposizioni giurate e non giurate dei testii e contesti assunti, e trovo appunto che posto in soggezione questo Nobil Homo Podestà dalla comparsa di detta popolazione, quale tutta unita si fosse lasciata vedere raccolta in Piazza verso il mezzo giorno, priva però d’armi e senza che desse alcuna dimostrazione di violenza, rissolvesse ad ogni modo il rettore d’ordinare che venissero licenziati li due rettenti Zuppani, penetrato pure da quanto le venisse rassegnato dal Comandante.”

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Il podestà Bragadin aveva accusato gli zuppani di premeditazione, ma il Paruta riferisce al Consiglio dei Dieci, che stando alle sue indagini, l’ordine di radunare i contadini in piazza la mattina seguente fu dato mentre tutti gli zuppani si trovavano in sequestro sotto la Loggia; ciò avvenne avanti l’arresto del Micuglian e del Faraguna, ma non così tanto prima da giustificare la premeditazione. Lo scopo del raduno, secondo il podestà capodistriano, fu o ottenere la liberazione degli arrestati o raccogliere i soldi per inviare una supplica a Venezia o ottenere la conferma in carica dei vecchi procuratori.240 La popolazione non era intenzionata ad abbattere le prigioni o peggio. C’era stata qualche affermazione violenta, tra l’altro non confermata da più testi, ma era da imputare all’ardire personale di qualche scalmanato, non ad un sentimento diffuso tra la folla. Numerosi testimoni, giurati e non, raccontarono di essere stati convocati in piazza per la mattina del 26 aprile dai pozuppi, su commissione degli zuppani. Negarono però di essere a conoscenza del motivo di tale riunione. Quei testi che invece erano a conoscenza del motivo dell’ordine, depongono di non aver obbedito e di essere rimasti a casa quella mattina.

Dagli interrogatori il Paruta seppe che i contadini, dopo la liberazione dei due zuppani, avevano co-munque raccolto dei soldi per inviare un messo a Venezia con una supplica per il Consiglio dei Dieci:

“continua a deponere [un testimone], che nonostante però la liberazione delli due Zuppani venisse gettata la tansa stessa e che lui per detto conto avesse esborsati soldi dieci, per spedire un messo alla Dominante, e s’uniforma la deposizione del Testimonio non giurato a carta 112, nella quale si legge, che anzi v’andasse Domenico Faraguna, indicato nell’essame a carta 215 e che esigesse la Tansa; dessumendosi poi che stante il di lui arrivo in Venezia venisse a cotesto Eccelso Sacrario ressegnato il memoriale a nome dell’Università e Popolo d’Albona, che Vostre Eccellenze si sono degnate d’unire alle Ducali di Commissione 2 maggio a mio semplice lume.”

Il Paruta si scusò per aver annoiato i consiglieri con il suo discorso un po’ prolisso, ma la materia era grave e meritava tutte le sue attenzioni. Non avendo rilevato quelle gravi mancanze formulate dal Bragadin nelle sue accuse, il podestà capodistriano decise di non procedere all’arresto degli indagati, in attesa di ulte-riori ordini da parte del Consiglio dei Dieci. 241

Il Consiglio lesse la relazione, si complimentò col Paruta per la sua precisione e chiarezza e gli ordinò di convocare i principali colpevoli per punirli, in modo adeguato alle circostanze, tenendo conto però che dal processo non erano emerse prove a sostegno delle gravi accuse mosse dal podestà Bragadin.

“Non corrispondenti però nell’imputazioni più essenziali le rissultanze che dalla relazione sudetta si sono des-sunte, a quanto ci espose nelle suaccenate lettere il sunominato pubblico rappresentante; rissolviamo con il Consiglio stesso di incaricarvi a far chiamare alla presenza vostra li principali colpevoli delle più osservabili mancanze e passare

240 Dalla relazione del Paruta: “Quindi poi intimatomi parimenti intorno a quei modi, che furono respettivamente tenuti nella convocazione dei villici e dalle molteplici deposizioni giurate, e non giurate, rissulta che tutto fosse stato dirretto o alla licenziazione dei Zuppani dal sequestro, o alla liberazione delli due carcerati dalla priggione, o all’essazione di una tansa per far ricorso a Venezia, o alla confermazione dei vecchi Procuratori.”

241 “Con la presente divota mia relazione averò /forse/ stancato la toleranza sempre clementissima di Vostra Santità e di cadauno di Vostre Eccellenze, ma non poteva dispensarsi certamente la rettitudine de miei pensamenti e la delicatezza di mia coscienza, di non portare alla conoscenza dell’Eccelsa autorità ogni circostanza che nell’estesa dell’accurata inquisizione m’è rissultata, nell’importanza d’un argomento premuroso ed interessante, che se d’un canto riguardava l’impegno di pressidiare con possente mano l’osservanza della Legge Civran e di tutellare con l’esemplarità del castigo il decoro di chi pressiede nella publica rappresentanza, dall’altro era poi giusto, che le delinquenze a cognizione della Giustizia dovessero comparire nella sua semplice verità e non colorite con sublimati ed enormi caratteri, che poi nella formazione più impegnata e sincera del processo non mi sono rissultati, in vista di che meditai corrispondente alla giustissima intenzione di cotesto Eccelso Consiglio, di tenere in sospesa la retenzione circa i colpevoli, sinché sia per derrivarmi dall’oracolo della Publica Sapienza un nuovo precetto, che sarà dalla mia sommessa dipendenza con studio di vigilanza e di zelo esseguito.”

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contro d’essi a quella correzione, che la prudenza vostra riputerà conveniente et adattata alle respettive trasgressioni.”

Il Paruta stilò una lista di dodici colpevoli, le persone maggiormente implicate nei fatti di quei giorni, che convocò alla sua presenza:

• Iseppo Micuglian zuppano di Produbas • Vicenzo Faraguna zuppano di Dubrova • Mattio Belusich il procuratore da Vetua • Mattio Clapcich da Santa Domenica • Domenico Verbanaz sempre da Santa Domenica • Zorzi Dobrich detto Zanco da Schitazza • Lorenzo Lucaz da Bergodaz da Rogozzana • Domenico Knapich zuppano di Santa Domenica • Ive Scopaz • Giacomin Faraguna • Simon Vlacich • Zorzi Schiacar pozuppo di Schitazza

Un procuratore, tre zuppani, un pozuppo e sette contadini privi di mansioni ufficiali.

Tra le carte del processo non è contenuto alcun documento che ci tramandi cosa ne fu di questi dodici, l’ultima annotazione è del Paruta e riporta la convocazione degli imputati. Si può ipotizzare che il Capitano e Podestà di Capodistria risolse la faccenda con una bella predica agli inquisiti. Il comportamento del Bragadin aveva chiaramente irritato il governo veneziano, il podestà aveva gestito male tutta la questione; sin dall’ar-resto dei due zuppani si era dimostrato arrogante e presuntuoso, convinto di poter usare arbitrariamente il potere che gli era stato affidato in nome della Serenissima Signoria. Invece di rappresentare il “buon governo veneziano”, come avrebbe dovuto, il Bragadin aveva agito favorendo apertamente, non senza un tornaconto personale, le mire dei Signori del Consiglio cittadino. Il Bragadin non fu di sicuro l’unico podestà ad abusa-re della sua posizione,242 ma fu particolarmente pasticcione, agì causando troppo clamore e surriscaldando fuor di misura gli animi. La Repubblica non poteva permettersi di perdere il consenso dell’intero contado albonese, doveva tentare la riappacificazione. Era escluso che il procedimento penale, richiesto dallo stesso Bragadin, terminasse con una punizione per il podestà, si risolse però con un nulla di fatto, alla fase istruttoria non seguì il processo vero e proprio, la giustizia non interrogò mai, almeno in via ufficile, gli indagati. Se i do-dici colpevoli comparirono davanti al Paruta, non sono rimaste tracce dell’incontro all’interno del fascicolo. Il processo si svolse come un rito, con l’intento preciso di riequilibrare le forze in campo, ricomporre le tensioni, riportando la situazione locale allo status quo. I colpevoli furono ufficialmente richiamati all’ordine, in modo che non scordassero la loro posizione di sottoposti. Il procedimento penale non portò la “giustizia” ai conta-

242 Sui problemi del patriziato povero nel Settecento si veda Megna L., “Riflessi pubblici della crisi del patriziato veneziano nel XVIII secolo: il problema delle elezioni ai reggimenti”, in “Stato, società e giustizia” a cura di Cozzi, Jouvence, Roma, 1985, volume II, pp. 253-300.

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dini, nel senso che nulla cambiò nei rapporti economico politici della città, ma la figura del podestà Bragadin ne uscì sminuita, anche agli occhi degli stessi signori di Albona. Il podestà albonese non poteva comportarsi arbitrariamente, perché la Serenissima non avrebbe appoggiato in modo incondizionato le sue decisioni.

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243 Tutto l’albonese nel 1766, quindi neanche dieci anni dopo il processo, contava 4.643 abitanti. Ivetic, “Oltremare”, op. cit., p. 399.

244 In Bianco, “Contadini, sbirri e contrabbandieri nel Friuli del Settecento”, op. cit., p. 16.

245 Si veda Ivetic, “Oltremare”, op. cit., pp. 276-288.

246 Probabilmente, che duecento contadini si siano radunati in piazza quel giorno, è la versione più credibile, essendo quella riportata da più testimonianze.

Nel 1757 Albona era un piccolo comune istriano della provincia veneta, ma la sua vita civile sembra essere stata molto attiva e ben organizzata. Il territorio soggetto alla città era suddiviso in quattro pievi, a loro volta ripartite in dodici ville o zuppanie. Ogni zuppania eleggeva un rappresentante, lo zuppano, con il compito di gestire la villa, questo si avvaleva dell’aiuto di uno o più pozuppi, a seconda dell’estensione territoriale della stessa. ll 25 aprile, giorno della festa di San Marco, i docici zuppani si riunivano nella chiesa di San Sergio subito fuori le mura cittadine, per eleggere quattro procuratori, uno per pieve. I procuratori rappresentavano per un anno gli interessi delle ville presso la comunità cittadina. Un sistema forse non effi-cientissimo, ma che garantiva a tutti un minimo di rappresentanza, giacché, se si considera l’esiguo numero di abitanti di ogni villa,243 questi dovevano per forza conoscersi tutti tra loro. Il grado di autonomia di ogni zuppania dipendeva dalla distanza dal comune di riferimento e dalla consistenza numerica della stessa. In Istria esistevano anche alcune comunità di contadini completamente indipendenti, soggette direttamente al capitano e podestà di Capodistria, come tutta la provincia o al capitano di Raspo, ma non nell’agro albonese. Come emerso dalle ricerche del professor Furio Bianco, la comunità di villaggio costituiva la struttura fonda-mentale della società contadina.244 Teoricamente i capi famiglia del villaggio si riunivano per scegliere il loro portavoce, in realtà i membri delle famiglie più influenti a livello micro locale, occupavano a rotazione il ruolo di zuppano, controllando così gli affari della piccola comunità. Difficilmente uno zuppano restava in carica per più anni consegutivi, c’era sempre una certa rotazione, anche se magari solo di facciata. Lo zuppano, con l’autorizzazione del podestà, poteva imporre tasse, organizzare raduni e dare ordini.245 In situazioni normali, cioè quando disponeva del mandato podestarile, la sua autorità non veniva messa in discussione. Diverso il caso di un comando imposto arbitrariamente, come quello del raduno del 26 aprile; stando alle deposizioni dei contadini, molti di loro si rifiutarono di obbedire agli ordini, certo visto il rischio insito nel procedimento penale, è facile presumere che nessun teste si sarebbe autoaccusato, è più che comprensibile che gli inter-rogati rispondano alla Giustizia in modo vago o accampando molteplici scuse. D’altronde l’alto numero di partecipanti all’insurrezione, dai duecento ai quattrocento villici,246 deve far pensare che l’adesione alla “chia-mata” sia stata notevole, duecento persone sono sempre un bel numero, ma in un bacino demografico scarso come quello albonese, diventano una “truppa”, come da dichiarazione del podestà Bragadin. Se l’obbedienza allo zuppano fosse stata sempre cieca ed assoluta, i testi avrebbero mentito spudoratamente, probabilmente

7 Le questioni emerse dal processo

7.1 La comunità

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247 La credenza istriana è riportata da Gorlato, “Vita istriana”, Zanetti, 1954, p.16.

248 “In tutte le zone marittime prive di particolari risorse accade che nei vari periodi dell’anno il medesimo lavoratore pratichi due o tre attività diverse, tale tendenza trova il suo più completo sviluppo lungo tutta la fascia costiera dello Stato veneto: pesca in alto mare o in valle, agricoltura, piccolo cabotaggio e, dove si può, lavoro nelle saline e contrabbando. Le variazioni stagionali, la sterilità della terra e la scarsa resistenza che gli oliveti, massimo prodotto dei littorali, possono opporre al gelo, fanno sì che ben difficilmente una sola di queste attività basti ad assicurare il sostentamento d’un nucleo familiare.” Berengo, “La società veneta”, Sasoni editore, Firenze, p. 67.

249 Una disputa per un carico di vino, che nel 1765 coinvolse il Podestà e Capitano di Capodistria e due procuratori del contado albonese, dimostra la tendenza ad eludere le regole, comune a tutta la società contadina; in ASV, Camerlengo del Consiglio dei Dieci, Raspe dei Rettori, b. 12.

250 Si veda Starec R., “Mondo popolare in Istria”, Collana degli ACRSR, vol. 13, Trieste-Rovigno, 1996, p. 30.

l’autorità del rappresentante locale subiva, saltuariamente, qualche contestazione. I procuratori dovevano essere gerarchicamente superiori agli zuppani, ma le parole riportate dal Dragogna, con cui lo stesso informò la Giustizia che il procuratore Lupetin si era recato in piazza la mattina del ventisei su ordine del suo zuppano, danno un’idea più elastica delle gerarchie. Non credo che i procuratori prendessero ordini dagli zuppani, sono più propensa a pensare che il Dragogna stesse manipolando la realtà per un suo tornaconto personale, ma il fatto che possa insinuare la cosa, è indice di per sé della grande influenza che gli zuppani esercitavano sui villici. Probabilmente i procuratori avevano una posizione dignitosa in città, nei loro rapporti con il comu-ne, ma senza l’appoggio degli zuppani, non erano poi così influenti sul contado.

Ogni circoscrizione aveva la sua storia e il suo differente assetto sociale. Le ville che si affacciavano sul mare, come Rabaz e Portolongo, erano abitate principalmente da pescatori e piccoli mercanti, il commercio permetteva di integrare le scarse rendite agricole.

Il territorio albonese disponeva di 8 porti: Rabaz, Portolongo, Santa Marina, San Giovanni in Besca, Val di Tonni, Val Bonazza, Traghetto e Stallie. L’agricoltura era diffusa ovunque fosse possibile coltivare, ma il terreno carsico a macchia mediterranea non dava abbondanti raccolti. Un’idea delle difficoltà affrontate dai contadini, non solo albonesi, emerge chiaramente dal detto popolare “chi getta via le briciole del pane, dopo morto, dovrà raccoglierle tutte”, sintomo della parsimonia con cui bisognava affrontare la vita.247 Per inte-grare le rendite agricole, i villici albonesi si dedicavano anche alla pastorizia, alla coltivazione dell’ulivo e del vino. Ogni contadino produceva più prodotti, che poi vendeva al mercato locale o ai mercanti provenienti da fuori.248 I contadini albonesi, come la maggior parte della popolazione istriana, non dovevano essere immuni dalla pratica del contrabbando.249 A metà Settecento Albona ed il suo contado subivano soprattutto l’influenza di Fiume e del suo porto in espansione.

La città di Albona, come tutti i comuni, forniva l’artigianato, quei beni che il singolo non poteva auto produrre e momenti di svago. Sempre più spesso, accanto agli oggetti di produzione locale, nelle case dei pescatori e dei mercanti, ma anche in quelle dei contadini più agiati, si trovavano vari oggetti provenienti da ambienti non istriani, come le pentole del Friuli o i boccali della Romagna, acquistati alle fiere o nelle botteghe cittadine.250 Sia in città che in campagna il maggior collante sociale erano le confraternite laiche, le scuole, esse fornivano assistenza sia economica che sociale. Di norma queste associazioni non si basavano sul ceto sociale, ma sui beni materiali, era quindi possibile che un signore del consiglio facesse parte della stessa confraternita di un “contadino arricchito” o di un mercante facoltoso. Erano un punto d’incontro sociale. Ad

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251 Un esempio era la Scuola della Beata Vergine della Consolazione, una vera istituzione creditizia, le cui entrate annue verso fine Settecento si aggiravano intorno alle 3.500 lire, in parte derivate da livelli. La confraternita poteva tranquillamente competere con il comune o il fontico, in quanto a liquidità. Una scuola più piccola, ma comunque dalle entrate consistenti era quella di Santo Stefano. I libri di cassa di entrambe le scuole sono conservati al DAP; si veda Ivetic, “Oltremare”, op. cit., p. 395 nota 233.

252 È probabile che dei signori assumessero anche gli atteggiamenti, il modo di vestire e di parlare. Da sempre un individuo quando sale di un gradino sociale tende ad imitare il modo di porsi del nuovo ceto di riferimento, anche gli arrichiti di Albona si saranno adeguati a questa tendenza. D’altra parte la città, per quanto piccola, offriva maggiori opportunità e garantiva, grazie alle sue mura, un livello superiore di sicu-rezza personale.

253 Ivetic nei suoi saggi sull’economia istriana sottolinea ripetutamente come ad un periodo di crescita fossero seguiti da metà Settecento in poi alcuni decenni di recessione. Ivetic, opere citate.

254 Il contado albonese si presentò compatto al cospetto della giustizia veneziana, in processo non emersero screzi di matrice etnica.

255 In Ivetic, “Oltremare”, op. cit., p. 384.

Albona vi erano grosse scuole che agivano come vere e proprie banche.251 Spesso queste confraternite presta-vano ai soci denaro con il sistema del livello, un contadino talvolta preferiva impegnare i propri beni con una scuola, piuttosto che con un privato, in modo di garantirsene in caso di rovesci finanziari, almeno l’usufutto come socio. Alcune confraternite avevano anche fini più prettamente corporativi o di assistenza agli indigenti; erano ugualmente diffuse in città come in campagna. Per quanto riguarda lo spaccato sociale fornito dal processo per insurrezione, non parlerei di una netta divisione in città ricca e fonte di privilegi da una parte, contro campagna povera e oppressa dall’altra; sicuramente i signori di Albona, membri del consiglio cittadino, tramavano per ottenere ottimi guadagni dai livelli, ma non erano i soli. Spesso i contadini chiamati a testi-moniare, depongono che la causa in corso era contro i signori e “altri opulenti”. Il Consiglio cittadino, ormai cristallizzato da decenni, non comprendeva più tutte le famiglie abbienti di Albona, probabilmente i consiglieri mantenevano un rigoroso controllo sugli “affari comunali”, ma negli affari economici subivano la concorrenza dei nuovi ricchi, sia di città sia di campagna. La contrapposizione città-campagna regge da un punto di vista “puramente mentale”, nel senso che i contadini arricchiti, agli occhi dei loro compaesani, diventavano subito altro, benestanti, non più vicini di casa, ma Signori.252

Ai prestatori conveniva richiedere pagamenti in natura, giacché non ne adeguavano il valore agli ef-fettivi prezzi di mercato. E se i livellari non riuscivano a far fronte al loro debito, il creditore o concedeva un nuovo prestito o diventava il proprietario del bene soggetto al livello. I signori ci guadagnavano comunque. La causa civile in corso in Quarantia rinvia a una collettività divisa in due, con da una parte gli abbienti, che con la connivenza del podestà locale, tenevano ben salde le redini dell’economia cittadina, dall’altra i contadini “normali”, che vedevano sgretolarsi le loro risorse a causa della forte crescita demografica. Il podere che aveva sostenuto il padre, non era sufficiente a garantire la sopravvivenza di due figli con le rispettive famiglie. I villici si trovavano così costretti a ricorrere ai prestiti. Oppure in un caso diverso, ma che portava comunque alla stessa situazione, un contadino in seguito ad alcuni raccolti andati bene, si era arrischiato a compiere degli investimenti in proprietà o per migliorare i suoi campi, delle stagioni negative gli impedivano poi di saldare il debito contratto.253 L’Università del popolo di Albona,254 l’espressione di un centinaio di capifamiglia riuniti in un unico corpo pronto a contrattare anche duramente alcune istanze con i vertici del comune255 decise di sup-plicare il Pien Collegio, perché calmierasse gli interessi, in modo da limitare i soprusi e l’arbitrio dei signori. Per farlo ricorsero all’aiuto di un avvocato preparato sull’argomento, il quale citò gli interventi presi negli anni

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256 La supplica inoltrata il 24 novembre 1756 dall’Università del popolo di Albona: “Aggravata all’estremo la povera Università tutta d’Albona e suo Territorio nella Provincia dell’Istria dalla pesante ingiusta contribuzione annua in via di censo di fomento mozza cinque, sono stera tre e mezzo misura Veneta, overo di mozza dieci vino, sono barille sette circa misura veneta, sopra ogni ducati 600 di capitale, che senza appoggio di veruna legge, ma solo con aperto abuso e corutella, di più tempo sogliono gl’oppulenti e benestanti, che somministrarono il capitale nell’indigenza di quei miserabili loro estorquere, fa piangere alla maggior parte di tutti li loro beni opressi da creditori in pagamento di simili capitali e censi nelle congiunture delle maggiori loro calamità e scarsi raccolti, perché non avessero modo d’alcuna diffesa e le restanti famiglie, che possedono ancora qualche avanzo de beni aggravati de simili censi, vegono imminente la loro totale caduta, neccesitati andati in difetto de censi, massime nella sterilità de raccolti, si perché sono gravosi, come anco perché quando non sono corrisposti da debitori al tempo di San Martino, vengono maggiormente aggravati li livellari nelle misure, volendo esigger il fomento a staro colmo, per rapirli quando trovano l’opportunità or una parte or l’altra de propri beni con gravissime spese e straggi. In tale stato prostrati al Trono Augusto di Vostra Santità li quattro Procuratori del Popolo, con la scorta della parte presa e facoltà impartitali dall’Università medesima, nella riduzione de Capi delle Vicinie li 9 giugno 1756, umilmente implorano che a solevo di detta Università e Popolo, degni la Severità Vostra con la sua paterna carità e giustizia prescrivere quell’annua censuale contribuzione sopra li capitali dati e che veniranno dati a censo in quell’Università e Territorio d’Albona, che trovarà consona al giusto e del sentimento delle Sovrane leggi, onde non abbiano più luoco l’arbitrii degl’oppulenti, e come fu decretato negl’anni 1551, 1553 e 1556 per le città di Vicenza, Bassano, Verona e Terra d’Asolo e Territorio. Grazie” in ASV, Consiglio dei Dieci, Processi criminali delegati a Ca-podistria, b. 6, cc. 52-53v.

257 Dalla deposizione del giudice Negri: “La Causa corre in Venezia, quale prima era all’Avogaria e poi in Quarantia; li Signori non occore nominarli, mentre sarebbero molti, che vale a dire la maggior parte dei benestanti, che hanno dato soldo a livello, nei quali v’entra anco il Capitolo e dei commodi villani, che tengono in via attiva danaro a livello. Fu prima come dissi all’Avogaria, stanteché li Procuratori del Popolo hanno presentato un ricorso, perché le fosse permuttato il fomento in soldo, quali intendevano di superare l’intento in via deliberativa senza far causa; si sono perciò opposti a tale divisamento del Popolo alcuni di questi Signori ai quali la Communità le prestò solamente il nome, ed anzi mi sovviene che l’Interveniente Testa ha speditto a questa parte la formula da tenersi nel Consiglio per incaminar la Litte contro li Procuratori; ed in fatto, con Parte del Consiglio che fu presa non mi sovviene il tempo preciso, le fu impartita la facoltà a detto Interveniente Testa, commorante in Venezia, di poter impugnare le pretese del detto Popolo et a favore apparente della Communità, che nella pendenza non può avere certamente alcun interesse, ma come dissi le abbiamo prestato il nome per far cosa gratta al Conte Giacomo Battiala, al Signor Andrea Scampicchio et al Signor Baldissera Manzoni, che ci fecero l’istanza e son concorso a compiacerli, tanto più che ciò premeva al mio collega Signor Giacomo Dragogna, che ancor lui tiene dei livelli in via attiva […] che la causa venga fatta dalla Communità si rifferisce ad una sola apparenza; dico che la pendenza è tra privati creditori contro l’Università del Popolo, che ricercava la minorazione delle corresponsioni Livellarie e la comutazione da fomento e vino in danaro […] è cosa per altro vera che tutti gl’atti sono corsi col nome della Comunità, ma alle spese occorenti poi è stato per detta causa supplito col dennaro dei particolari, che si sono tanssati a misura dei capitali che possedevano; e questo tutto andava passando nelle mani del Battiala.”

cinquanta del Cinquecento dalla Serenissima in favore dei contadini della Terraferma veneta.256 Il tono dello scritto ovviamente si addice ad una supplica, la situazione è descritta come disperata, se il Principe non inter-verrà, i contadini moriranno di fame o peggio si daranno alla macchia. Inviare una supplica a Venezia aveva dei costi notevoli, per non parlare della causa che ne seguì - che però fu avviata dai signori - i villici dovevano disporre di qualche risorsa, forse il benestante Mattio Clapcich, coinvolto nel processo dal Dragogna, forniva sostanziali appoggi nella Dominante e contributi economici ai villici, questo spiegherebbe la necessità di farlo incriminare.

La popolazione di città restò sostanzialmente estranea alla causa e ai trambusti che ne seguirono. Era vero che per evitare che si trovasse un aggiustamento dopo la supplica dell’Università del popolo, la comunità di Albona aveva deciso di fare causa, ma dalle deposizioni si capisce chiaramente - molti testi lo dicono senza giri di parole - che la comunità aveva prestato solo il nome ai veri fautori del procedimento, cioè i signori e gli opulenti. Riassumendo la deposizione del giudice Negri, il litigio era tra “li Signori d’Albona, col Popolo ed anco dei Villici, che hanno dato soldo a Livello.” Prima fu all’Avogaria, dove i Signori col nome della Comunità presen-tarono ricorso, perché i procuratori del popolo avevano supplicato in Pien Collegio, che gli fosse permutato il frumento in soldo e intendevano superare l’intento in via deliberativa senza far causa; gli si erano quindi opposti alcuni Signori, ai quali la comunità aveva prestato solamente il nome, per fare una cosa gradita a Giacomo Battiala, Andrea Scampicchio e Baldiserra Manzoni.257 Nel 1757 la causa giaceva in Quarantia, dove aspettava una risoluzione. Il litigio era fatto dalla comunità solo in apparenza. “La pendenza è tra privati creditori

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258 In Starec, “Mondo popolare istriano”, op. cit., p. 23.

259 All’argomento è dedicato il mio saggio “L’interprete nella dimensione della testimonianza: il caso istriano” in Acta Histriae, 19, 2011, 1-2, pp. 141-156.

260 Un ordine del doge nell XVI secolo aveva imposto ai figli delle famiglie aristocratiche di Capodistria di imparare lo slavo, sia la variante slovena che quella croata, a Venezia si stampavano libri in croato, i briganti istriani potevano avvalersi in tribunale dei traduttori dal veneziano in croato. Rakovac, “L’istriano ‘Tananaj’ e ‘Patatrac’”, La Battana. Atti dei convegni, numero speciale, n. 5, Fiume, EDIT, 1998, p. 58.

contro l’Università del Popolo, che riceveva la minorazione delle corrisponsioni livellarie” era vero che “tutti gl’atti sono corsi col nome della Comunità” però le spese erano a carico dei privati, “per detta causa dalla comunità non fu mai esborzato un soldo; né ciò sarebbe stato giusto.” Molte altre deposizioni ripetono il concetto, tutti nell’albonese sapevano che la comunità poco aveva a che fare con la causa, erano stati i Signori, per favorire i loro interessi, ad usarne il nome in tribunale. Interrogati dalla Giustizia, gli abitanti di città non mostrarono nessuna avver-sione verso i contadini, alcuni ammetterono di aver provato un certo timore “della gran folla”, ma nessuno accusò apertamente qualche villico di minaccie o comportamenti violenti. Anzi, il fabbro si compiacque per i buoni affari conclusi quel giorno ed anche i locandieri si dichiararono soddisfatti per aver avuto tanti clienti. Nel complesso la città mi sembra aver reagito in modo molto tranquillo all’avvenimento, forse anche molti popolani avevano contratto debiti con i signori ed erano quindi favorevoli all’azione degli zuppani.

Un secondo tema di particolare interesse per l’ambiente istriano, emerso dall’analisi delle carte del processo, è quello della lingua. La popolazione dell’albonese, città e campagna, era suddivisa principalmente in due gruppi linguistici, quello veneziano e quello “illirico”. Di norma la città parlava istro veneto, dialetto che aveva soppiantato lentamente l’antica lingua istro-romanza, mentre il contado, in seguito ad antichissime immigrazioni di popolazioni slave, parlava una variante del dialetto croato “ciacavo settentrionale.”258 Durante il processo, molti contadini deposero alla presenza di un traduttore, sempre lo stesso, questo indicava come la loro conoscenza della lingua veneziana non fosse sufficiente per affrontare un interrogatorio della Giustizia, ma non credo che basti per affermare che i contadini non sapessero l’istroveneto.259 Probabilmente capivano qualche parola, l’essenziale per destreggiarsi in città, non certo per deporre in tribunale.

Dal processo si ricava che le uniche due persone completamente digiune di lingua slava ad Albona fossero il podestà, ed è semplice intuire il perché, ed il cancelliere, il quale disse di essere appena entrato in carica. Già il comandante Zatton era in grado di parlare entrambe le lingue abbastanza bene, visto che avrebbe dovuto tradurre la terminazione Civran per gli zuppani. I signori del luogo chiamati in causa erano in grado di fare da interpreti per il podestà, questo significa che a loro volta non erano digiuni di lingua slava. 260 Riguardo alla popolazione cittadina non ci sono riferimenti chiari, essi non ricorsero ad un interprete durante le loro deposizioni, fino a che punto sia arrivata la fase di “ripulitura del dialetto” svolta dal cancelliere duran-te le trascrizioni, non ci è dato saperlo. Comunque nelle risposte rilevate dai testi non compaiono parole di

7.2 La lingua e gli interpreti

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261 Fa eccezione il termine “grad” usato ripetutamente dai testimoni durante il processo.

262 “Quando in uno spazio geografico così ristretto funziona un repertorio linguistico così ricco, le influenze reciproche ed i passaggi di campo sono inevita-bili.” Milani Kruljac, “Lingua e ethos in Istria”, op. cit., p. 48.

263 Dalla deposizione di Domenico Gobich caporal delle cernide. ASV, Consiglio dei Dieci, Processi criminali delegati a Capodistria, b. 6, c. 125.

derivazione slava,261 solo qualche termine nel dialetto locale, ma anche questi sono molto rari. In ogni caso i cittadini devono pur aver “capito” i contadini in piazza quella mattina, visto che riportano di discorsi origliati e di sentito dire. Ne viene che o i villici parlavano il veneziano o i negozianti di Albona l’illirico, oppure, e io propendo per quest’ultima possibilità, entrambi sapevano quel tanto di entrambe le lingue che bastava per intendersi.262

I rappresentanti dei contadini sembravano capire il veneziano, infatti, il conte Tommaso Battialla depo-se che la detenzione dei due zuppani fu:

“ordinata da Sua Eccellenza perché loro [il Faraguna ed il Micuglian] gl’avessero risposto al Podestà, come quelli che hanno cognizione della lingua italiana, che essi comandavano e che tutti gl’altri zuppani indicassero questo loro sentimento col battersi colla mano il petto.”

Non sempre dalle deposizioni fatte si capisce in che lingua stessero avvenendo i discorsi, per esempio Zammaria Viscovich sostiene che:

“li Zuppani per verità parlavano nella loro nativa lingua illirica, ma Marian il Cuchiela, che tiene benissimo cognizione dell’italiana, le andava di tratto in tratto interpretando […] senza punto mettervi del suo […] con fedeltà l’andava spiegando il di loro sentimento; che se simile fosse il suo non lo so.”

Se ne deduce che gli zuppani non sapessero parlare il veneziano, comunicarono in ciacavo con il capo Dminich poco prima dell’arresto? È probabile, la famiglia Dminich (in seguito diventati Diminich) provenivano dalla zona di Produbas ed erano di ceppo slavo. Il fatto che gli stessi testi non si premuniscano, nella maggior parte dei casi, d’informare la giustizia sulla lingua usata durante i discorsi, è a mio avviso una prova di come fosse naturale per la popolazione locale, almeno quella in uno strato intermedio, comunicare in entrambe le lingue, forse alternandole o forse utilizzando entrambi la propria madrelingua simultaneamente. Dal pro-cesso emerge però che il procuratore Belusich non fosse in grado di esprimersi in veneziano, infatti si recò dal podestà con un uomo vestito da soldato, che gli serviva da interprete “stanteché esso non tiene la lingua italiana.”263 Strano che l’unico traduttore disponibile fosse un contadino che girava sempre armato e vestito da soldato, il Lettis sembra avere più l’aria della guardia del corpo che dell’interprete. Probabilmente il procura-tore Belusich voleva impressionare il podestà, utilizzando a suo vantagio la scusa dell’interprete.

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264 La campagna di Albona era suddivisa in quattro parrocchie, i cui pievani erano don Antonio Dusman per la Pieve di San Lorenzo (Produbas, Poglie e Rogozzana); don Tommaso (Cargol o Cerniol) Cergnul e don Antonio Stepancich per la Pieve di San Martino (Cugno, Cere, Vetua); don Antonio Giuresin (dietro Giuresin probabilmente si nasconde il soprannome Jurazin con cui venivano indicati i Chirghiassich, divenuti poi Chirsich) per la Pieve di Santa Domenica (Santa Domenica, Dubrova e Ripenda); e don Giuseppe Cattaro per la Pieve di Santa Lucia (Schitazza, Montagna e Portolongo).

265 Per una storia dell’avvocatura si veda La Torre M., “Il giudice. L’avvocato e il concetto di diritto”, Rubbettino, Soveria Manelli, 2002, in par-ticolare il secondo capitolo; Alpa G. e Danovi R., “Un proggetto di ricerca sulla storia dell’avvocatura”, il Mulino, Bologna, 2003; Bellabarba M., “Le pratiche del diritto civile: gli avvocati, le ‘Correzioni’, i ‘conservatori delle leggi’”, in Storia di Venezia, vol.VI “Dal Rinascimento al Barocco”, Ist.dell’Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1994.

266 Ai processi penali tenuti con il Rito dal Consiglio dei Dieci ho dedicato il secondo paragrafo del sesto capitolo di questa tesi.

267 Il professor Cozzi ed il professor Povolo hanno dedicato molti lavori alla giustizia veneta ed alcuni in particolare al ruolo dell’avvocato, si veda Cozzi G., “Autodifesa o difesa? Imputati e avvocati davanti al Consiglio dei Dieci” in “La società veneta e il suo diritto”, Saggi Marsilio Fonda-zione Giorgio Cini, Venezia, 2000; Cozzi, “Politica e diritto nei tentativi di riforma del diritto penale veneto nel settecento”, in “La società veneta e il suo diritto”, Saggi Marsilio Fondazione Giorgio Cini, Venezia, 2000; Povolo C., “Un sistema giuridico repubblicano: Venezia e il suo Stato territoriale (secoli XV-XVIII) in “Il diritto patrio tra diritto comune e codificazione”, Atti del Convegno internazionale di Alghero, 4-6 novembre 2004, Università degli Studi di Roma, Viella, 2006. Altre opere sono citate in bibliografia.

Esiste poi un tipo diverso d’interprete, quello che media tra due culture, come l’avvocato o il pievano. Entrambi sono il punto d’incontro tra mondi diversi. Lo Spizza metteva in contatto i contadini albonesi con il complesso ambiente delle magistrature veneziane, mentre i pievani264 collegavano le loro parrocchie con il centro e fungevano da collante per fedeli di lingua diversa.

Lo Spizza faceva parte della “media borghesia” di Albona, ma si schierò con i villici e li aiutò a destreg-giarsi con le magistrature veneziane. L’avvocato scrisse la supplica consegnata in nome dell’Università del po-polo al Pien Collegio, il podestà credeva che ci fosse lui dietro alle manovre dei contadini e non esitò a punirlo con il bando. Probabilmente aveva ragione, i contadini albonesi si mossero molto bene a Venezia, ottenendo l’attenzione delle più alte cariche dello Stato, questo voleva dire grosse spese ma anche buone conoscenze. L’avvocato era una figura ambigua, nell’Antico Regime come oggi, da un lato lo si voleva paladino dei deboli, una sorta di pre-giudice che avrebbe dovuto difendere esclusivamente gli innocenti, dall’altra divenne il ca-pro espiatorio di tutti i mali della Giustizia, sua era (è?) la colpa se i processi andavano avanti all’infinito, lui con i suoi artifizi imbrogliava il giudice rendendo il colpevole innocente.265 La letteratura si è sbizzarrita nel creare colorite figure di legali, basti pensare all’Azzeccagarbugli del Manzoni, il cui nome dice tutto. Il diritto veneto con i suoi patrizi, che a rotazione coprivano la carica di giudici, era avverso alla specializzazione insita nel diritto comune, ma i tempi degli avvocati “inesperti” erano solo un ricordo, all’epoca dello Spizza ormai la figura dell’avvocato civile “esperto in diritto veneto e comune” era la norma e anche nei processi inquisitori con il Rito del Consiglio dei Dieci,266 dove era ufficialmente proibito, faceva capolino tra le righe la figura del difesore specializzato.267

I pievani conoscevano bene i loro fedeli - al Cergnul molti contadini chiesero consiglio il giorno della convocazione - la Giustizia li considerò delle fonti attendibili, per ricostruire la composizione del territorio e lo spirito dei contadini. Don Stepancich, anche se il cognome rinvia ad origini slave, parlava bene la lingua veneta, poiché non ricorse all’interprete durante la sua testimonianza. Il pievano confessò al Podestà Paruta

7.3 Altri mediatori

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268 Il signor Domenico Francovich era uno dei nobili membri del Consiglio cittadino.

269 Nelle mie ricerche in ASV mi sono imbattuta nel testamento di padre Antonio Dusman dal quale si evince che non fosse proprio poverissi-mo, gli eredi si scontrarono in tribunale per spartirsi la sua eredità. ASV, Avogaria di comun, Lettere di Rettori, Vicarii e Magistrati agli Avogadori, Albona, Podestà 1505-1792, b. 3510.

270 Redfield R., edizione italiana “La piccola comunità. La società e la cultura contadina”, Rosenberg & Sellier, Torino, 1976, edizione originale “The Little Community and Peasant Society and Culture”, The University of Chicago, 1956, p. 265 dell’edizione italiana.

271 Tutti i testi al termine della loro deposizione erano tenuti a giurare de silentio di mantenere il segreto sul procedimento e su quanto detto.

di aver consigliato gli zuppani di non cambiare i procuratori:“Io non ebbi altra parte se non quella di suggerire ai Zuppani, che confermassero li vecchi Procuratori […] per-

ché consideravo che detta conferma potesse essere utile all’interesse della povertà, perché forse cambiandoli poteva la causa restare arrenata, e perciò il mio fine fu buono.”

Questa dichiarazione, che non ebbe conseguenze per don Stepancich, rende l’idea degli stretti rapporti che intercorrevano tra il pievano e gli zuppani della sua parrocchia. Il parroco intratteneva anche rapporti con i signori di città - lo stesso Stepancich racconta di aver conversato con il signor Francovich268 la mattina del ventisei - fungendo così da tramite tra le varie realtà. Don Antonio Dusman, della pieve di San Lorenzo, dove-va far parte dei benestanti ed avere parecchi interessi nella causa per i livelli, infatti è l’unico dei quattro ad esprimere la convinzione che i contadini sarebbero passati ai fatti se i due detenuti non fossero stati liberati. Il Dusman era anche imparentato con la famiglia dei Battiala e con i Manzoni.269 Come in tutti i centri piccoli (ma forse anche grandi) le principali famiglie del luogo erano unite da stretti legami di parentela.

I pievani nel loro piccolo avevano anche il compito di filtrare, attraverso la predica domenicale, la “cultura alta” che proveniva dai vertici della chiesa e del comune, per renderla comprensibile ai contadini, che a quei dettami si rifacevano nella vita di tutti i giorni. “In ogni civiltà si riscontra una tradizione grande, che fa capo a poche menti riflessive, e una tradizione piccola, appartenente ad una moltitudine generalmente aliena alla riflessione” i parroci, come i maestri e gli avvocati, mettevano in contatto le due culture.270

7.4 La testimonianza

La vera protagonista del processo e di queste pagine è la testimonianza, nel senso che senza le nume-rose deposizioni rilasciate dagli abitanti del comune e del contado di Albona, non sarebbe stato possibile rico-struire gli avvenimenti. Sono i testimoni a ricomporre con le loro parole gli eventi di quei giorni per il podestà di Capodistra. Il Paruta, proprio per accertare i fatti, ricorse all’interrogatorio di moltissimi testi. Il cancelliere, il podestà, il comandante, alcuni nobili, i popolani ed i contadini, tutti sfilarono davanti alla Giustizia per rendere al Paruta la loro versione degli avvenimenti. Il processo con il Rito del Consiglio dei Dieci garantiva ai testimoni la segretezza,271 nessuno avrebbe saputo niente del contenuto delle loro deposizioni e non sareb-bero mai stati costretti ad un confronto diretto. Questo in teoria, perché poi nella pratica, quanta segretezza si potesse realmente mantenere in una piccola città, durante un processo che coinvolgeva gran parte della popolazione, non è dato saperlo. È probabile che i contadini di una stessa zuppania – convocati tutti assieme

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272 Ad esempio la deposizione di Domenico Cusincich detto Cocot quondam Bortolo (per la verità i Cocot hanno il soprannome Cusin o Cusin-cich, nella deposizione il cancelliere deva aver invertito le cose), colono della famiglia Querenghi, che abitava nei pressi di Albona. La giustizia lo interrogò sugli avvenimenti del 26 aprile, in particolare sulle armi nascoste, le sue risposte furono laconiche: “Non posso render alcun conto alla Giustizia intorno il particolare sopra di cui sono stato ricercato; mentre che nella mattina delli 26 aprile decorso m’attrovavo a lavorare in campagna; né so che alcuno volesse riservar nella mia casa armi, né so d’aver mai parlato nel proposito su di cui mi trovo interrogato dalla Giustizia. Lavoravo in poca distanza da questa Terra nelle piantade del mio parone Querenghi, che s’attrovano attacco la Chiesa di San Gallo.” Il Cusincich nella sua deposizione usufruì dell’interprete. ASV, Consiglio dei Dieci, Processi criminali delegati a Capodistria, b. 6, c. 228.

273 Citazione di un’affermazione del professor Povolo, che mi sembra particolarmente calzante.

274 Per fare un esempio, il podestà Bragadin ritornò spesso sulla minaccia, il cancelliere si sentiva minacciato nella chiesa di San Sergio, lui si sentì minacciato dalle parole degli zuppani, la folla minacciò di abbattere le prigioni. Liquidò invece molto rapidamente la domanda della Giustizia sulle armi, non ne ha viste però ha sentito dire che fossero state nascoste da qualche parte.

lo stesso giorno! – sapessero ognuno della “chiamata” degli altri, magari percorsero anche la strada assieme, giacché alcune zuppanie distavano vari chilometri da Albona. Di fatto le deposizioni si sorreggono a vicenda, anzi si possono intravedere due orientamenti, quello a favore dei contadini e quello contrario. I signori, anche se non tutti, più che altro i padroni di livelli in forma attiva, con le loro parole vogliono supportare i timori del podestà Bragadin, mettono in luce l’agressività dei villici, anche se non esagerano. Danno l’impressione di non volersi sbilanciare troppo, probabilmente il processo aveva scosso gli equilibri della città e i signori speravano in un ritorno allo status quo.

La popolazione di Albona si tenne abbastanza neutrale, la folla li aveva spaventati, ma avevano visto di peggio. I contadini o non c’erano e non hanno sentito niente, una testimonianza “di comodo” molto diffusa per non essere coinvolti, oppure hanno semplicemente eseguito gli ordini degli zuppani, per non incorrere nella pena. In effetti le deposizioni dei villici fecero ricadere la colpa di tutto sugli zuppani, la comunità non si presentò compatta in difesa dei suoi rappresentanti, magari questi non erano molto graditi, perché a loro volta rappresentavano solo interessi particolari, o forse la paura di essere coinvolta in un procedimento legale aveva portato la comunità a fornire un colpevole, mitigandone contemporaneamente la colpa. La fluidità con cui si accordano le varie deposizioni mi fa pensare a numerose riunioni clandestine per stabilire una linea comune, sia in una fazione che nell’altra. Bisogna anche considerare che quello contadino era un mondo fatto di spazi comuni, al centro della vità c’erano la famiglia e la comunità, questo è uno dei motivi per cui le singole testimonianze tendevano a confondersi con la testimonianza collettiva. In fondo era ogni singola villa a riferire la “sua versione” dei fatti.

Da questo flusso uniforme di dichiarazioni infatti, si discostano alquanto i coloni o quei villici che vive-vano particolarmente isolati.272 Le testimonianze sono l’unico elemento che permette alla Giustizia di ricostru-ire la verità processuale, sono “il raccordo immediato con il contesto sociale entro cui si è verificato il fatto”273

non sono comunque la verità, ma una prospettiva di ciò che è accaduto. Le testimonianze non avevano tutte lo stesso peso, quelle più importanti erano giurate, si dividevano poi in chi aveva visto, chi aveva sentito e chi aveva solo “sentito dire.” Più testimonianze confermavano lo stesso fatto, maggior peso questo assumeva agli occhi della Giustizia. Chi testimoniava imprimeva (e lo fa tuttora) inevitabilmente parte della sua perso-nalità alle sue dichiarazioni, selezionava cosa dire e cosa omettere, infondeva maggior enfasi ad un concetto rimarcandolo più volte o glissava su un’affermazione.274 Chi testimoniava poteva rifarsi a valori diversi rispetto a quelli di riferimento di colui che poneva le domande, per esempio la piccola comunità dava grande impor-

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275 Si veda Povolo, “La piccola comunità e le sue consuetudini”, relazione introduttiva al seminario “Per una storia delle comunità. (Ricordando i primi anni ’80),” Este, 2002. pp. 6-7.

276 Il Berengo distingue tra “rustiche insurrezioni”, in cui un intero villaggio si mobilita per ottenere giustizia con i sindaci in testa chiamato dal suono delle campane a martello, e i moti nei comuni, dove il malcontento tende a seguire le vie legali “o si esaurisce nella manifestazione di alcuni ‘tumultuanti’ che si assembrano nella piazza del paese”. In Berengo, “La società veneta”, op. cit., p.113. I disordini di Albona seguirono la dinamica dei sommovimenti comunali.

277 I patrizi veneziani erano consapevoli dei rischi cui si esponeva la Repubblica in caso di cattiva amministrazione, il nobile Nicolò Donà, nel suo “Ragionamenti”, ricorda l’importanza delle capacità economiche nelle aristocrazie: “sono necessari ministri che chiamiamo economici; e questi sono quei che formano la economica istruzione: la quale se in ogni forma di governo è necessaria molto più lo è nella Aristocrazia. Perché nella Monarchia il Sovrano ha un diritto quasi privato sopra l’erario, onde pare che a voglia sua ci possa disporre, e nella Democrazia come tutti comandano, possono tutti inserirsi nella economia. Ma nelle Aristocrazie nelle quali dal governo si raccoglie il danaro de particolari e pubblicamente si tiene, resta luogo alla plebe di sospettare di fedeltà dei Nobili che amministrano il soldo dell’erario contribuito anche da essa.” In “Ragionamenti politici intorno al governo della Repubblica di Vinecia”, manoscritto, Venezia, 1734, presso la BMCV, codice Cicogna 2586, cc. 39-40.

tanza al sentito dire, al contrario della Giustizia che non poteva basare le sue accuse sulle dicerie,275 anche se poteva venirne influenzata! Ci sono poi fatti che i testi nascondono volontariamente, perché li metterebbero in cattiva luce o peggio. Purtroppo il filtro della scrittura, con cui i processi sono arrivati fino a noi, ci impedi-sce di conoscere l’intonazione della voce, le pause, i tentennamenti o la postura del corpo, tutti “segnali non verbali”, che potevano aiutare molto l’inquisitore. La ripulitura del cancelliere inoltre, eliminò tutti gli errori grammaticali, i termini dialettali e le imperfezioni, che tanto avrebbero potuto dirci sulla comunità albonese di metà Settecento. Le testimonianze vanno quindi esaminate con occhio critico, confrontate, rilette, non pos-sono ridarci la Verità, ma sono ciò di cui disponiamo che più si avvicina agli eventi.

7.5 La sentenza

Il processo penale termina sostanzialmente nel nulla. Dopo aver raccolto un bel numero di deposizioni, il capitano e podestà di Capodistria stilò per il Consiglio dei Dieci una dettagliata relazione, con cui smentì nei fatti le gravi accuse mosse dal Podestà Bragadin ai contadini albonesi. Restava però il sommovimento popola-re,276 un’azione già punibile di per sé. Il Paruta decise così di non proseguire all’arresto dei principali indiziati e rimettersi alle decisioni del Consiglio. I Dieci gli ordinarono di convocare i principali colpevoli – dodici in tutto, non solo zuppani – e somministrare loro la pena che avesse ritenuto adeguata. Il processo termina così; non ci sono informazioni su cosa successe dopo, ma si può ipotizzare che il Paruta abbia convocato i dodici, per poi rilasciarli, una volta pagate le spese del processo, con un bello spavento ed una ramanzina.

Il processo ebbe fin dall’inizio un carattere “esplorativo”, la giustizia non voleva riparare ai torti subiti, ma tastare il terreno per capire se l’insubordinazione fosse nei confronti di un podestà malversatore o della Serenissima.277 I villici albonesi non mettevano minimamente in discussione il sistema sociale, non volevano sostituirsi ai padroni, chiedevano solo che i tassi d’interesse rientrassero in una cifra accettabile e non nel cap-pio economico che invece erano. Il rito aveva quindi una funzione riequilibratrice. Il podestà Bragadin aveva esagerato con i suoi intrallazzi e la situazione gli era sfuggita di mano, cosa che sicuramente irritò moltissimo i Signori dei palazzi veneziani. Ora bisognava riportare rapidamente la calma, senza mettere a rischio la fedeltà

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278 Esiste una nutrita bibliografia sul diritto veneto, per questo brevissimo escursus si veda Bellabarba M., “Le pratiche del diritto civile: gli avvocati, le ‘Correzioni’, i ‘conservatori delle leggi’”, in Storia di Venezia, vol.VI “Dal Rinascimento al Barocco”, Ist.dell’Enciclopedia italiana fon-data da Giovanni Treccani, Roma, 1994, pp.795-824; Cozzi, “La società veneta e il suo diritto”, Saggi Marsilio Fondazione Giorgio Cini, Venezia, 2000; Cozzi G., “Repubblica di Venezia e Stati italiani”, Giulio Einaudi editore, Torino, 1982; Cozzi G., a cura di, “Stato società e giustizia nella Repubblica veneta”, Jouvence, Roma, 1985; Cozzi G. e Knapton M., “La Repubblica di Venezia nell’età moderna”, Utet, Torino, vol I 1986, vol II 1992; Povolo C., “Un sistema giuridico Repubblicano: venezia e il suo Stato territoriale”, in “Il diritto patrio tra diritto comune e codificazione”, Atti del Convegno internazionale di Alghero, 4-6 novembre 2004, Università degli Studi di Roma, Viella, 2006; Povolo C., “Il processo Guarnieri”, Knjižnica Annales 13/ Biblioteca Annales 13, Società storica del Litorale, Koper, 1996; Povolo C., “Particolarismo istituzionale e pluralismo giuri-dico nella Repubblica di Venezia. Il Friuli e l’Istria nel Sei-Settecento” in Acta Histriae III, Koper, 1994; Povolo C. e Chiodi G., “L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia”, Cierre Edizioni, Verona, 2004.

279 In Cozzi, “Repubblica di Venezia e Stati italiani”, op. cit., p. 219.

280 Cozzi, “Repubblica di Venezia”, op. cit., p. 220.

281 Ci si accorse in più occasioni dei problemi che creava il disordine della legislazione, più riforme furono suggerite e si realizzarono anche alcuni riordini parziali, ma nella sostanza non vi furono mai interventi radicali. Per il Cinquecento si veda Bellabarba M., “Le pratiche del diritto civile: gli avvocati, le ‘Correzioni’, i ‘conservatori delle leggi’”, in Storia di Venezia, vol.VI “Dal Rinascimento al Barocco”, Ist.dell’Enciclopedia ita-liana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1994, pp.795-824; per il Settecento Cozzi, “Politica e diritto nei tentativi di riforma del diritto penale veneto nel Settecento”, in “La società veneta e il suo diritto”, Saggi Marsilio Fondazione Giorgio Cini, Venezia, 2000, pp. 311 e succ. In Istria nel 1683, per ordine del podestà e capitano di Capodistria Valerio de Riva, vide la luce l’opera “Leggi, decreti e terminazioni del Serenissimo Maggior Consiglio, dell’Eccellentissimi Pregadi, dell’Eccellentissimo Consiglio dei Dieci e dei pubblici rappresentanti con la pubblica approva-zione concernenti il buon governo dell’Istria”. Il piano dell’opera prevedeva tre libri, frutto del lavoro dei due dottori di legge Olimpo Guardo e Santo Grisonio, ma alla fine solo due tomi furono dati alle stampe. Nel 1757 il podestà Paruta, lo stesso del processo, patrocinò l’edizione “Leggi statuarie per il buon governo della provincia dell’Istria”, il testo si rifaceva all’opera del 1683 con l’aggiunta di tutte quelle terminazioni emanate nel frattempo dai pubblici rappresentanti. Si veda Povolo, “Particolarismo istituzionale e pluralismo giuridico nella Repubblica di Venezia.”, op. cit., pp. 30-33.

di un intero contado. Albona in fondo era una zona di confine sulla quale le mire dell’Austria incombevano di continuo.

7.6 Cenni di diretto veneto 278

Venezia possedeva un suo diritto peculiare, che aveva tratto origine dal diritto comune e dalle attività giornaliere dei mercanti veneziani. Un diritto pratico e in origine chiaro, fatto di leggi comprensibili ai più ed avverso a qualunque forma di tecnicismo dottrinale. Il diritto veneto si basava sugli Statuti del doge Tiepolo. Nel 1242 il doge aveva affidato ad una commissione di quattro uomini illustri il compito di “prendere in mano tutta la legislazione, di vagliarla, di integrarla, di riordinarla, e di redigere infine un corpo statuario, gli Statuta del Comune Veneciarum.” 279 alla fine ne erano usciti cinque libri ed un appendice dedicata alla procedura. Questi statuti subirono alcune correzioni all’inizio del XIV secolo e l’aggiunta da parte del doge Dandolo di un sesto libro, che raccoglieva leggi sue e di altri dogi. Seguirono altri ampliamenti, fatti però in modo sempre più casuale e disordinato. Inoltre gli Statuti non includevano buona parte della legislazione veneziana, non rientravano in esso le promissioni ducali, le leggi di diritto marittimo, i capitolari delle magistrature e le varie leggi emanate nei secoli dai consessi legislativi.280 Nonostante il caos di leggi che alla fine si venne a creare, un groviglio spesso contradditorio e in cui non doveva essere facile districarsi, la Serenissima non rinunciò mai alle fondamenta del suo diritto. Gli Statuti rimasero in vigore fino alla fine della Repubblica.281

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282 A Venezia politica e amministrazione della giustizia erano intimamente legate. Giudici erano infatti esclusivamente quei patrizi che sedevano in Maggior Consiglio. Solo loro potevano essere eletti, da loro simili, a ricoprire le varie cariche, che comportavano anche mansioni giudiziarie, ma non esclusivamente. Spesso giudice di prima istanza era lo stesso podestà locale, che aveva quindi funzioni sia giudiziarie che amministra-tive. Il patrizio Nicolò Donà nei suoi Ragionamenti parlando dei magistrati scrisse “In tre classi io penso distinguere i magistrati criminali. Nella prima è l’Eccelso Consiglio di dieci con i due magistrati che s’estraggono da lui; l’uno è quello de Capi dello stesso Consiglio, l’altro è il supremo di Vostre Eccellenze. Nella seconda sono gli Avogadori di comun, la Quarantia Criminale civil vecchia et altri Magistrati inferiori, cioè Signori sopra la Sanità, Signori di notte al criminal, Signori sopra la Bestemia, etc. Nella terza poi sono i Rettori delle città, castelle e terre di tutto lo Stato.” In “Ragionamenti politici”, op. cit, BMCV, codice Cicogna 2586, c.109.

283 Per le informazioni sull’amministrazione della giustizia in Istria si veda Viggiano A., “Note sull’amministrazione veneziana in Istria nel secolo XV”, in Acta Histriae III, Società storica del Litorale, Capodistria, 1994, pp.5-20; Povolo C., “Particolarismo istituzionale e pluralismo giuridico nella Repubblica di Venezia”, op. cit., pp. 21-36; Povolo C., “Il processo Guarnieri”, Knjižnica Annales 13/ Biblioteca Annales 13, Società storica del Litorale, Koper, 1996.

284 Ricordo qui che Albona ebbe il grande privilegio di non subire riforme ai suoi statuti, solo aggiunte.

285 Solo lo Statuto di Capodistria richiamava esplicitamente il diritto veneto, ma non nella gerarchia delle fonti, di cui era privo, in un capitolo del libro primo dedicato al diritto penale. In Cozzi, “Repubblica di Venezia”, op. cit., p. 238.

286 Sulle commissioni dei rappresentanti veneziani in Istria si veda Pansolli L., “La gerarchia delle fonti di diritto nella legislazione medioevale veneziana”, Milano, 1970, pp.248-265; “Commissioni dei Dogi ai Podestà veneti nell’Istria con introduzione del Prof. Bernardo Dr Benussi”, in AMSI, Parenzo, 1887.

Nel prologo agli Statuti lo stesso doge Tiepolo indicava la gerarchia delle fonti, che il “buon giudice ve-neziano” doveva applicare: in primis gli Statuti, ove questi non fossero stati sufficienti l’analogia o una consue-tudine approvata, e se tutto ciò non fosse bastato l’arbitrium del giudice. Si era formalmente e volutamente escluso il diritto romano (quindi imperiale) dalle fonti. Il giudice non era libero di dirimere le cause a suo piacimento, si credeva che un patrizio disponesse, sia per la sua esperienza che per una sua predisposizione morale innata, di quella saggezza e quel senso pratico che lo avrebbero “ben consigliato” nell’emettere le sue sentenze.282 I veneziani, come ho già detto, erano avversi a qualsiasi tecnicismo, contrari ai giuristi e timorosi che la giustizia potesse trasformarsi in qualcosa di oscuro, comprensibile solo a pochi iniziati. Venezia non impose mai il suo diritto alle città suddite, ma questo si fece comunque strada nella prassi quotidiana dei tribunali, subendone le influenze. Lo scontro tra diritto veneto e diritto comune, quello delle grandi città della Terraferma, terminò solo con la fine della Repubblica e l’inizio dell’epoca dei codici.

La politica del diritto veneziana fu sempre estremamente duttile, molto elastica, improntata ad una pluralità di forme nell’esercizio del potere. In Istria283 fu data grande importanza alla gerarchia delle fonti, come per il dogado, Venezia, riformando gli Statuti delle città suddite, aveva operato in modo che non ci fosse riferimento al diritto imperiale.284 La gerarchia era quella “classica”: statuti locali, analogia o consuetudine e, in mancanza di tali elementi, l’arbitrium; non si faceva apertamente riferimento agli statuti veneziani, ma l’arbitrio del giudice dava molto potere al rettore inviato dalla Dominante.285

I rettori all’inizio del loro mandato ricevevano inoltre delle Commissioni, brevi istruzioni o formulari, comprendenti i criteri cui essi si sarebbero dovuti strettamente attenere al momento di emanare una senten-za, nel rivolgersi ai loro subordinati, nel regolare in sostanza i vari momenti della loro attività.286 Niente era lasciato al caso e anche se formalmente si concedeva molta libertà, in pratica s’inseriva nella prassi il diritto veneto con la figura del “rettore giudice”. Difficilmente un patrizio poteva dimenticare la sua formazione al momento di emanare una sentenza. Nella Terraferma veneta, dove la tradizione di diritto comune era molto più radicata, i rettori delle città più grandi erano coadiuvati da una corte di cui facevano parte anche i sa-

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287 in Cozzi, “Repubblica di Venezia”, op. cit., pp. 279.

288 I due giudici in carica ad Albona nel 1757 erano Nicolò Negri e Giacomo Dragogna.

289 In Viggiano, “Note sull’amministrazione veneziana”, op. cit., p. 10.

290 In Povolo, “Particolarismo istituzionale e pluralismo giuridico”, op. cit., p. 33.

291 Agli Auditori vecchi competevano gli appelli dai tribunali di Venezia, del Dogado e del Dominio de mar; ai nuovi competevano gli appelli dei tribunali di Terraferma. In G. Cozzi, “La politica del diritto nella Repubblica di Venezia”, in “Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII”, Torino, Einaudi, 2000, p. 288.

292 Cozzi, “Repubblica di Venezia”, op. cit., p. 290.

pientes locali,287 qualcosa di simile, anche se in scala notevolmente minore, era prevista dalle Commissioni di Valle e da quelle di Albona, esse prevedevano l’assistenza di elementi locali all’attività del rappresentante veneziano. Nel caso di Albona si trattava di due giudici nominati tra i signori locali dal Consiglio cittadino.288

“Nel sistema giuridico veneziano un’importanza fondamentale nelle modalità d’intermediazione tra la capitale ed i centri soggetti era attribuita alla struttura degli appelli. Attraverso la formalizzazione ed il con-trollo sullo strumento dell’appello si rendeva possibile disciplinare dal centro sia l’attività dei rappresentanti veneziani in loco, che gli atteggiamenti dei governati.”289 Inizialmente erano due le magistrature che rappre-sentavano, per l’Istria, come per il resto del Dominio, questa funzione: gli Auditori novi e l’Avogaria di comun. Ai primi era attribuito il compito di recepire, nel corso della loro carica ordinaria di sedici mesi, gli appelli rivolti alla Serenissima in materia civile da ogni angolo del Dominio. Al termine del loro mandato gli Auditori erano tenuti a svolgere l’opera di sindacamento degli atti dei rettori. Agli Avogadori era invece demandato il giudizio di legittimità sugli appelli in materia penale. Nel Quattrocento dovevano anche garantire l’osservanza dei patti/statuti, poteri poi esautorati dal Consiglio dei Dieci. Nel 1584 venne istituito il tribunale d’appello di Capodistria,290 il cui rettore, coadiuvato da due consiglieri eletti a Venezia, poteve ricevere anche l’incarico dal Consiglio dei Dieci di portare avanti processi con il suo Rito segreto. L’autonomia dei rettori dei centri minori della penisola subì così un ridimensionamento, che causò numerosi attriti nei secoli seguenti.

I processi d’appello teminavano a Venezia presso la Quarantia. Nel XV secolo, per far fronte all’impegno crescente causato dalle nuove acquisizioni territoriali, la Quarantia venne suddivisa, nel 1441, in Quarantia penale e civile; un’ulteriore divisione nel 1491 creò la Quarantia al civil novo (l’altra assunse da allora la de-nominazione di vecchia). Era compito degli Auditori, suddivisi a loro volta in vecchi e nuovi,291 di introdurre quelle sentenze che ritenevano idonee alla Quarantia, per le altre confermavano la precedente sentenza. Le decisioni delle Quarantie erano definitive. Erano appunto gli Auditori nuovi, la magistratura itinerante, che si era occupata degli appelli anche in Istria. Per essere eletti in Quarantia bastava essere patrizi e avere trent’an-ni, per diventare Auditori, bisognava anche essere stati prima in Quarantia.292

La causa civile alla base dei disordini di Albona, nel 1757, giaceva in Quarantia in attesa di giudizio. Non sono riuscita a rintracciare in archivio una sentenza, probabilmente il pocesso per insurrezione decretò la morte del procedimento civile.

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Il processo per insurrezione aveva seguito l’iter classico dei processi col Rito del Consiglio dei Dieci. Il podestà Bragadin aveva fatto ricorso al Consiglio per i gravissimi crimini commessi dalla popolazione di Albona, i contadini albonesi avevano implorato lo stesso Consiglio di affidare l’indagine ad una carica esterna al comune, il Consiglio aveva apparentemente accolto le suppliche del popolo, ma probabilmente era una prassi consolidata, delegando il processo al rettore di Capodistria. Il Paruta aveva svolto con solerzia le sue indagini, inviando infine una relazione allo stesso Consiglio, perché prendesse le dovute decisioni.

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293 Gli abitanti delle ville del territorio albonese si recavano volentieri alla domenica in città per ascoltare le tradizionali stride a suon di trom-ba e tamburo, quando il comandador leggeva tutte le decisioni importanti del podestà, le sue sentenze emanate nei vari processi, i contratti stipulati (anche i livelli francabili) e tutto ciò in veneto e nella “lingua illirica” come dicono le fonti venete. Alle stride assisteva di solito “una moltitudine di popolo” e poi il cancelliere segnava due persone importanti quale testimoni dell’avvenimento. Che i villici vi si recassero anche per divertimento si evince da una lapide datata 1662, la quale riporta che in quell’anno si dovette lastricare a nuovo il pavimento della loggia, perché quello precedente era stato ridotto in polvere “dalle danze dei villici.” Negli anni Trenta del secolo scorso detta lapide si trovava nel lapidario sotto la Loggia, mentre ora si trova nell’atrio del palazzo Francovich.

8 Conclusioni

L’analisi del processo penale mi ha permesso di mettere in luce alcuni interessanti aspetti della vita, sia rurale che cittadina, nell’Istria veneta del Settecento. Aiutandomi con numerose fonti e grazie ai libri scritti dagli esperti, ho cercato di ricostruire le dinamiche che hanno coinvolto, ormai più di duecento cinquant’an-ni fa, la piccola comunità albonese. Ai contrasti tipici tra signori e contadini, alla base dell’insurrezione, si sommava la peculiarità della campagna istriana. Ad una città prevalentemente istro veneta, si contrapponeva una campagna sostanzialmente slava; i due mondi comunicavano tra loro attraverso i canali istituzionali ed attraverso gli interpreti.

Interpreti di tipo linguistico, come il padre Giupponi, che tradusse per la giustizia le deposizioni di quei contadini che non erano in grado di spiegarsi in lingua veneta, ma anche di tipo politico culturale, come l’av-vocato Spizza, che guidò abilmente le rivendicazioni dei contadini nei palazzi veneziani, in modo da ottenere l’attenzione del Consiglio dei Dieci. Un altro interprete, non specificatamente albonese, era il cancelliere inca-ricato di redigere il tomo processuale, costui trascrisse le dichiarazioni dei testimoni, depurandole di tutti quei termini dialettali, che sicuramente si accompagnavano alle deposizioni di persone di cultura medio bassa. Attraverso questi mediatori i due mondi comunicavano, non si trattava infatti, a mio avviso, di universi chiusi e paralleli, ma di realtà fluide che si rapportavano l’una all’altra a seconda del bisogno. Dalle deposizioni si comprende come i villici si recassero spesso in città, per far aggiustare una zappa, per vendere o comprare qualcosa, o anche solo per bere in compagnia.293 La comunicazione doveva avvenire per forza in una delle due lingue, se non in entrambe. Dal processo non si riesce a capire quale fosse la conoscenza reale del veneziano dei contadini che richiesero un interprete, appare chiaro invece che la maggior parte dei “signori di città” conosceva bene anche la lingua slava, poiché spesso si occupavano di tradurre le parole degli zuppani per il podestà. Il Bragadin, come il cancelliere Frielli, non conosceva l’illirico, ma i due sembrano essere gli unici tra le persone direttamente coinvolte nei disordini di quell’aprile, completamente digiuni di lingua slava.

Il comportamento del podestà Bragadin, troppo apertamente a favore dei signori locali, aveva sbilan-ciato gli equilibri del comune. Il processo portato avanti dal podestà e capitano di Capodistria si assunse il compito di ristabilire la situazione iniziale. Né a favore dei signori né espressamente dalla parte dei contadini, il Paruta condusse con solerzia le sue indagini, raccogliendo un gran numero di deposizioni e redigendo infine un’accurata relazione, che di per sé portarono ad un nulla di fatto. Coloro che avevano partecipato più atti-vamente all’insurrezione non subirono alcuna vera punizione, non furono condannati alla galera né messi al bando, probabilmente ascoltarono una bella ramanzina su quale fosse il loro posto nella società e sul rischio che avevano corso con una così aperta insubordinazione, con ogni probabilità accompagnata dalla minaccia

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di condanne ben più gravi, se una cosa del genere si fosse ripetuta. Il podestà Bragadin occupò la sua carica fino al 1759, anno in cui fu normalmente sostituito al termine del suo mandato.294

La comunità albonese non era comunque nuova ai procedimenti penali, nemmeno a queli tenuti con il Rito del Consiglio dei Dieci, un altro processo, per un motivo totalmente diverso,295 si era svolto in città appena nel 1752 ed altri seguirono prima della caduta della Repubblica.

Sicuramente altre fonti porteranno alla luce nuovi aspetti della vita del contado albonese o daranno una nuova prospettiva ad alcune tematiche da me affrontate, il mio è un tassello di un mosaico molto più grande, che però permette di squarciare il velo del tempo, per farsi un idea degli avvenimenti che coinvolsero la piccola comunità istriana di Albona nel lontano 1757.

Al termine del mio scritto colgo l’occasione per ringraziare il professor Povolo per i continui suggeri-menti ed incoraggiamenti, ringrazio inoltre il professor Bianco per le dritte sull’Archivio di Trieste ed il profes-sor Pezzolo per gli aiuti in campo economico.

Voglio ringraziare il professor Tullio Vorano per essersi interessato a questo lavoro e averne agevo-lato la pubblicazione e l’amico Gianfranco Volpi che gli ha consigliato il mio saggio.

Ringrazio il personale dell’Archivio di Stato di Venezia e quello dell’Archivio di Stato di Trieste, oltre ai bibliotecari delle biblioteche di Ca’ Foscari, della biblioteca civica Joppi di Udine e in modo particolare ringra-zio il personale della biblioteca Hortis di Trieste, le mie ricerche sarebbero durate molto più a lungo senza il loro prezioso aiuto.

Un grazie particolare lo devo ai miei genitori per il sostegno morale ed economico in tutti questi anni di studio. Ringrazio inoltre Vaina per la sua ospitalità a Trieste e Matteo per il suo aiuto con il computer e per aver ascoltato più volte senza lamentarsi la storia degli abitanti di Albona.

294 Il podestà Bragadin fu sostituito da Diego Corner; quello di Diego non è un nome tipicamente veneziano, ma l’ho trovato confermato in tutte le fonti che ho consultato.

295 Un processo per deflorazione che vedeva coinvolti un ecclesiastico ed il fratello; in ASV, Consiglio dei Dieci, Processi criminali delegati a Capodistria, b. 2.

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296 Nella trascrizione ho cercato di attenermi il più possibile al testo originale, per renderne meno difficoltosa la lettura mi sono limitata ad utilizzare criteri di punteggiatura moderni.

9 Trascrizioni296 e appendici

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297 ASV, Consiglio dei Dieci, Processi delegati a Capodistria, Albona, b. 6, cc. 1-3.

Illustrissimi et eccellentissimi Signori colendissimiQuando l’audacia e la rilassatezza de sudditi s’avvanzi sino ad oltraggiare nella pubblica rappresentanza

la Giustizia, non so ravvisare altro compenso, che quello derivar può dalla temuta autorità di cotesto Eccelso Sacrario. Con riverita Terminazione 2 settembre 1632 dell’eccellentissimo Antonio Civran fu Proveditore Generale in Dalmazia et Albania delegato dall’eccellentissimo Senato, qual fu sempre mai inalterabilmente osservata, vien prescritto, che in cadaun anno, alli 25 aprile festività del glorioso San Marco, ridursi debbano i dodici Zupani delle ripartite Contrade di questo Territorio in una chiesa fuori della Terra, per dover mutare nella maggior parte li quattro agenti, osian Procuratori del popolo, che con detta Terminazione furono ordinati e stabiliti. Caduto nel giorno d’eri il fissato tempo, in cui seguir doveva il cambiamento, comparvero al solito alla mia presenza gli attuali dodici Zupani per ottenere il mio concerto alla loro radunanza; che da me gli fu anco prontamente accordata. Non mancò però l’attenzione mia di preavvertirli, con premurose esortazioni, acciò cader facessero la scelta in persone le più moderate e capaci della di loro assistenza. Instruito pure con uniformi commissioni questo ministro Cancalliere, che seguito dal pubblico Comandador, in ordine alla enunziata terminazione all’ora determinata di’eri si è nel luoco consueto della chiesa di San Sergio, fuori la porta di questa Terra, conferito, nella quale pur si radunarono li preaccennati dodici Zuppani col spalleggio però di numeroso stuolo de loro convillici, fermatisi alla porta d’essa chiesa in attenzione dell’esito di quel congresso, non senza dar sospetto di precedente concerto. Adempiendo pertanto l’offizio suo il Cancelliere, dopo averli fatta la lettura e spiegato loro l’articolo che precisamente gl’incarica la muta delli Procuratori stessi ed averli egualmente ammoniti all’osservanza della legge, nell’atto che devenir dovevano alla nomina, tumultuariamente si solevarono tutti e con detestabile sprezzo e con voci confuse ed altisonanti, in scandalosa profanazione del Sacro Tempio, proruppero in terribili schiamazzi, di-chiarando voler, in onta alle premesse fattegli, confermar e stabilire perpetuamente i Procuratori vecchi, che sono appunto li sediziosi fomentatori della strana novità. Resasi dunque insuperabile e costante la loro ostinazione, e temendo il ministro di qualche peggior conseguenza, si trovò in neccesità di retirarsi, onde rimase per tutto ciò senza effetto la disposizione. Raccolte da me le reprobe procedure dei contumati Zuppani, li feci nuovamente con-venire alla mia presenza, con la lusinga di poterli convincere e ridur al proprio dovere; ma fu vana l’idea, perché resisi eglino vie più baldanzosi e temerarii, dimostrandosi fra questi li più arditi e sussuranti li due Zuppani Iseppo Micuglian e Vicenzo Faraguna quondam Simon, da quali posposto ogni dovuto rispettoso riguardo, scordatisi d’esser sudditi, s’innoltrarono con temerario orgoglio ad esprimersi, ch’essi il ius hanno d’eleggere i Procuratori e che il Principe non ha in ciò alcun diritto di comandarli. Penetrato l’animo mio da cosi strabochevole sentimento, qual’esigge tutto il riflesso, poichè va ad offendere l’istessa Maestà Sovrana, ho riputato di mio impegno non la-sciar correr in esempio senza qualche correzione il scandaloso ardire, e perciò, licenziati tutti gl’altri, feci arrestare li due sunomati Faraguna e Micuglian, capi della rea fazione, per darle un brieve castigo. Abusando non ostante i già assolti d’una tale indulgenza, fecero a tutta notte correr circolare per le ville l’aviso del seguito fermo delli due, ingiongendo la comminativa a villici di lire venticinque, onde s’unissero per quei violenti tentativi che pre-

9.1 Trascrizione della lettera del Podestà Zuanne Bragadin 297

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meditavano, così che questa matina, contro ogni suposto, all’aprir delle porte della Terra, si fecero veder calati, sotto la condotta e direzione delli Procuratori loro, Gasparo Lupetina detto Buriach e Mattio Belussich quondam Zuanne, sedutori e fomentatori del grave scandalo, duecento e più villani con armi ascoste, buon numero de quali schieratisi nella pubblica piazza in faccia al Palazzo Pubblico, fermatisi gli altri a fronte della Porta della Terra, si fecero intendere di voler risolutamente in libertà li due Zuppani arrestati, divotando l’intenzione di progredire con la soprafazione a violenze più gravi. Prima questa rappresentanza omninamente di forze, per resistere all’i-naspettata solevazione di gente indocile e prepotente, e col riflesso di non cimentare maggiormente il pubblico decoro, ho colto, per consiglio di prudenza, il partito di rilasciare dall’arresto li due Zuppani, quali diedero moto alla tumultuazione, che con tal mezzo si sedò.

Costituita per tanto in contingenze così ardue e disastrose questa rappresentanza, posta in soggezione di non poter esercitar il proprio diritto, contro sudditi inobbedienti e non punto rassegnati al suo Principe, convien rivolgermi, con l’ossequiosa partecipazione del grave emergente, alla venerata suprema autorità dell’Eccellenze Vostre per quei neccessarii compensi, che la maturità loro credesse addattarvi. Grazie.

Albona 26 aprile 1757Zuanne Bragadin Podestà congiunto

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298 ASV, Consiglio dei Dieci, Processi delegati a Capodistria, Albona, b. 6, c. 5.

Serenissimo Principe, Illustrissimi et eccellentissimi Signori Capi del Eccelso Consiglio di Dieci La povera Università tutta e popolo di Albona, trovandosi aggravata nei suoi poderi da livelli annuali d’un

dodici e tredici percento sopra capitali somministrati da Signori del Consiglio e da piu doviziosi, ha dovuto sofrire orribili tenute, devastazioni e spogli de beni, intromessi per diffetto de censi, siché non poche famiglie affatto ignu-de hanno dovuto cercare di vivere ne Stati Austriaco et Ecclesiastico, con scandalo e pernizioso esempio contrario alla sussistenza della Provincia.

Li dodici Zuppani, Capi delle contrade o siano ville, e li quattro Procuratori del popolo soliti ellegersi ogni anno nella Festività di San Marco, portarono a nome de poveri tutti i loro ricorsi da una si dannata et enorme corutela, sopra quali ricorsi ridotta finalmente la materia al Consiglio Eccelso di 40 non attendeva che la sua definizione, a consolazione degl’oppressi et a sollievo e redenzione di tutto quel misero spaventato popolo.

Approssimandosi li 25 corrente a tanto giorno sebbene del gloriosissimo San Marco, conforme al solito li dodici Zuppani si portarono da Sua Eccelenza Podestà d’Albona per chieder permissione di far li soliti quattro Pro-curatori; e che lo permise con questo, che non fossero confermati li vecchi, cosa molto insolita praticarsi le rispo-sero, però con umiltà, i poveri Zuppani, che anzi erano in necessità della confermazione, perché informati della detta causa nella quale avevano fatti dispendii e molti viaggi alla Dominante, in cui s’attrovano, così le chiesero permissione di poner anche parte per unir soldo da spender, e tutto le fu assolutamente negato, minacciando di voler metter priggione essi poveri Zuppani. Partiti dunque senza poter ottener cosa alcuna, erano in desperazione per ritrovarsi senza modo di diffesa et in caso di esser oppressi dall’opulenza dei Signori.

Mossi per tanto alcuni dall’apprensione dell’universale pericolo, corrisposero gratuitamente da per sé qualche picciula summa, per non abbandonare la causa commune. Sua Eccellenza Podestà prese da ciò motivo d’inquisire contro li Procuratori medesimi, come violatori delle leggi e sedduttori del popolo, perché avessero contro il suo divieto gettata tansa, cosa non vera.

Pensarono i poveri Zuppani e Procuratori portarsi all’eccellentissima carica di Capodistria per ottenere le necessarie licanze, il che accordato, portarono a Sua Eccellenza Podestà di Albona il decreto e le requisitoriali, ma sua Eccellenza rispose, che eseguirà e rescriverà, quando piacerà a lui e che, se insisteranno, li farà marcire in una prigione, ed in fatto cosi fu, perché mai permise cosa alcuna e ciò per divertire la prosecuzione della causa favoriado le premure dei Signori et opulenti nel Conseglio di 40 che non sia fatta novità stante pendenza.

Venuta la festa di San Marco Sua Eccellenza Podestà mandò la mattina a chiamare li dodici Zuppani a Palazzo e li minacciò di volerli metter prigione, e trattenuti in città per divertire qualunque riduzione, verso ora di vespero solamente, andò licenziandoli a quattro per volta; e licenziati li primi fece di mano in mano venir li secondi, sin che restati Vicenzo Faraguna e Iseppo Micuglian verso sera, li fece per il sbiro mandar priggioni, in cui pernottarono.

9.2 Trascrizione della supplica dell’Università del Popolo 298

106

Pervenuta a tutto il popolo la notizia del successo, s’unirono disperati e piangenti circa quattrocento per-sone affatto inermi e si portarono alla città la mattina 26 cadente aprile e umilmente, col mezzo del Procuratore Bellusich, fecero pregare Sua Eccellenza voler concedere la libertà a due poveri retenti Zuppani, premendo a mi-serabili ultimare la loro causa e non restar avviliti a fronte de potenti Signori con queste strane procedure. Doppo molte preghiere Sua Eccellenza, vocalmente e senza decreto, accordò la liberazione dei retenti e la conferma dei Procuratori attuali sino alla decisione della vertenza. Ma minacciò che avrebbe fatto tremare i poveri Zuppani e li Procuratori stessi, non meno che il povero avvocato difensore del commun per tale da lui chiamato insolenza e tumulto, quando anzi non fu che una preghiera e una acclamazione di grazie verso Sua Eccellenza, per la carità usata.

Prostrati però noi poveri Procuratori e Zuppani, rappresentanti detta umilissima e divotissima popolazione, fedelissima a piedi del trono di Vostra Santità con la fronte per terra, imploriamo che venga proveduto dalla Sua Sovrana Sapienza ad ulteriori sconcerti ed afflizione a quel povero fedelissimo popolo da Vostra Eccellenza, per quanto mostra assai malveduto e vengano, se così piace a Vostra Santità, dal solo Capo di Provincia rillevate, con purità e sincerità, le cose che tutte certamente successe sono, col pieno della dovuta fedeltà, obbedienza e rassegnazione grazie.

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299 ASV, Consiglio dei Dieci, Processi delegati a Capodistria, Albona, b. 6, cc. 40-42v.

Emanata il 2 settembre 1632 dal nobil homo Antonio Civran, fu Provveditore Generale in Dalmazia e Albania, stabiliva il mettodo per l’elezione dei Procuratori dell’Università del Popolo di Albona.

Noi Antonio Civran per la Serenissima Repubblica di Venezia Provveditore generale in Dalmazia et AlbaniaEmmissiiPrimo. Che questo Territorio d’Albona tutto, sia e s’intenda diviso e ripartito in nove contrade o communi,

conforme alla seguente notta.Secondo. Che gl’homeni contadini di cadauna di queste contrade o communi debbano eleggere ogn’anno

per la maggior parte li Meriga o Zuppani distinti nella seguente notta, così che siano del tutto dodeci.Terzo. Cadauno di questi Meriga o Zuppani, o se saranno due senza altro magior numero di persone, possa

o possano aggitar o trattar tutto quello che bisogni alla sua contrada o commune, non dovendo, né potendo, con tumultuaria moltitudine far queste funzioni; ma per se soli, con la modestia ben dovuta, sotto pene severe e gravi.

Quarto. Ad essi Zuppani o Meriga dovevano esser indrizzati li mandati et altri ordini pubblici per il conta-nuto della contrada o commune di cadauno d’essi.

Quinto. Li predetti dodici Meriga o Zuppani debbano essere immediate fatti, e poi la prima festività sia permesso a questi dodici dall’illustrissimo Signor Podestà di radunarsi in una delle chiese loro comode fuor della Terra, alla presenza del cancelliere di Sue Eccellenze o coadiutore, qual però non debba dar voto, nella qual debbano ellegger quattro loro aggenti, li quali intervenir debbano senza altra tumultuaria comozione per tutto il territorio e possano rappresentar li loro gravami, aggitar, proccurar e trattar le cose loro in questa Terra e Terri-torio per la maggior parte dinanzi l’illustrissimo et eccellentissimo Rappresentante.

Sesto. Ad essi quattro aggenti innavenire rimanghi anco la cura di congregar li dodici del territorio predet-to, ogni volta che il bisogno di trattar alcuna cosa estraordinaria lo ricercasse, con la presenza del Cancelliere o coadiutore, come di sopra. Incarichiamo però loro per debito espresso, di far congregar li detti dodeci Zuppani o Meriga ogn’anno la festività di San Marco, per muttar per la maggior essi aggenti, procurando che siano persone le più proprie et adeguate che possano avere.

Settimo. Dall’illustrissimo Signor Podestà non possa esser loro negata la congregatione del detto territorio, con le somme cautelle e maniere sudette, per dover Sua Signoria illustrissima saper prima quello che dovevano trattar, il che doverà esser d’intorno agl’aggravi loro.

Ottavo. Se voranno trattar o aggitar cosa alcuna fuori di questa Terra o Territorio, debbano farlo con previa congregazione de sudetti territoriali, et elezione d’una persona che possa leggitimamente intervenir per essi.

9.3 Terminazione Civran 1632 299

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Nono. Stante le quali buone e sufficienti regole, proibiamo che nell’avvenire non possano altro trattar, né intervenir, né componer in luoco alcuno per nome universale delli territoriali sudetti, che li loro intervenienti, cioè li Merighi o Degani o Zuppani, e tanto per la sua contrada o comune, e concorrendovi più contrade li quattro aggenti, eletti per il numero delli dodeci predetti, e quando doveranno comparir fuori del territorio, quelli che saranno deputati, sempre per la maggior parte delli dodeci medesimi.

Decimo. E se alcuno avesse ardimento, oltre li predetti et i loro avvocati, di comparir in numero dinanzi a pubblici rappresentanti, o altrove, incorrevano in pene severissime, che contro chi si sia saranno vivamente essercitate.

Undicesimo. Se non trovassero avvocati, debbano volendone esser loro dati anco con la via de mandati de Illustrissimi rettori, ad ellezione loro, acciò siano sempre diffesi. Rimaner però debbano sottoposti alle gravezze ordinarie, né con questa terminazione resti ad essi derrogato, perchè mira in primo luoco, che se sovverchiamente sono aggravati possono in ogni tempo, con modi quieti convenienti e propri, usar delle loro ragioni.

Dodicesimo. Dichiarando noi ancora, che se li dodici Zuppani o Merighi predetti, non potranno per impedi-mento riddursi al perfetto numero delli dodici, per le raggioni predette, possono far la loro convocazione in nove, la qual anco in tal numero s’intenda legittimamente congregata.

Comettemo con la sudetta auttorità dell’eccellentissimo Senato che le presenti siano publicate, registrate in questa cancelleria predetta e fatte pontualmente esseguire et al presentante restituite.

EmissiiData in Albona li 12 settembre 1632

Antonio Civrani Provveditore Generale

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300 ASV, Consiglio dei Dieci, Processi delegati a Capodistria, Albona, b. 6, cc. 236-261.

Serenissimo PrencipeIllustrissimi et eccellentissimi Signori Capi dell’Eccelso Consiglio di DieciLa Commissione di cotesto Eccelso Consiglio, dalla mia venerazione inchinata nelle ducali 2 maggio pas-

sato decorso, meritava l’impegno più rigoroso ed assiduo delle mie applicazioni, tanto in riflesso alla dignità del comando, quanto nella conoscenza che riguardava un’argomento, che meritamente impegnava la Pubblica autorità, non solo a precettare alla mia sommessa obbedienza la formazion del Processo coll’Autorità e Rito suo sin ad offesa, ma che ha voluto inoltre con maturità di consiglio e con fermezza di pensamento la Pubblica Rappresentanza a questa parte, con l’incarico di far seguire a misura delle rissultanze, anco il cauto arresto delle persone che fossero comparse in maggior colpa.

Quindi perciò versare ben si doveva con applicatissimo studio e con purità d’animo, nel verificare con legali modi quanto era occorso nella Chiesa di San Sergio di questa Terra, all’occasione che seguir doveva l’ellezione dei Procuratori del popolo, giusto alla terminazione Civran, 1632 2 settembre, e quanto posteriormente circa alla necessità del rilascio dalle carceri delli due retenti Zuppani, in riguardo all’insurrezione di duecento e più villici, con armi nascoste, quali s’asserivano sedotti e fomentati dalli due Procuratori Gasparo Lupetin detto Buriach e Mattio Bellusich quondam Zuanne, individualmente nominati nelle lettere di questo nobil homo Rappresentante 26 aprile prossimo passato. Ben gravissimi per verità comparivano a vista di dette lettere li caratteri dei delitti, nelle stesse respettivamente imputati ai Zuppani delle dodeci ripartite contrade del territorio et alli due Procu-ratori del popolo, né puo negarsi che nell’esposte circostanze non comparisce il primo d’inobbedienza dolosa e punibile alla providenza della legge, con profanazione del Sagro Tempio, et il secondo parimenti non odorasse di sedizione e di lesa Meastà temporale.

Per la chiara inteligenza addunque della gelosa matteria ho meditato corrispondente agl’oggetti della Giustizia, di prendere prima di tutto in serio essame le suscritte lettere 26 aprile decorso, onde dietro agl’articoli divisi e contenuti nelle medesime, poter con esattezza estendere l’accurata inquisizione sopra ogni circostanza aggravante, per rassegnarne con fondamento di verità del rissultato a cotesto Eccelso Consiglio la giurata mia divotissima relazione.

A carta 1 trovo che nella partecipazione questo nobilo homo Rappresentante rassegna con distinto fer-vore alla conoscenza di Vostra Serenità, essere stato già provvidamente statuito, con la terminazione Civran 2 settembre 1632, che in cada anno nel giorno delli 25 aprile, si dovessero ridure li dodeci Zuppani del territorio in una chiesa fuori della Terra, per cambiare nella maggior parte li Procuratori del popolo, che con detta statuaria terminazione furono appunto ordinati. Quindi perciò rappresenta che si sono rassegnati nel giorno prefisso li 12 Zuppani alla di lui presenza per ottenere il concorso, che indi le venisse accordato, accompagnandolo però dall’esortazione acciò cader facessero la scelta in persone le più moderate e capaci della loro assistenza. Espone d’aver parimenti instruito con uniformi commissioni il di lui Cancelliere, quale fosse passato poi accompagnato dal ministro Comandante nella Chiesa di San Sergio, luoco consueto, dove appunto in quel giorno delli 25 si fos-

9.4 Relazione del Podestà e Capitano di Capodistria Lorenzo Paruta 300

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sero radunati li suaccenati 12 Zuppani, col spaleggio però di numeroso stuolo di convillici, che si fossero fermati alla porta d’essa chiesa, in attenzione dell’esito di quel congresso, non senza sospizione di precedente concerto; ed esso il primo capo dell’imputata verità.

Indi con eguale impegno di vigilanza e di zelo s’applica a rillevare a Vostre Eccellenze, che avendosi adem-pito dal Cancelliere il proprio ufficio, con la lettura della legge, nell’atto che passar dovevano alla nomina, tu-multuariamente si fossero tutti sollevati e con detestabile sprezzo e con voci confuse ed altisonanti, in scandalosa profanazione della Casa d’Iddio, prorompessero in teribili schiamazzi, dichiarando di voler, in onta alle premesse suscritte, confermare e stabilire perpetuamente li Procuratori vecchi, che li rappresenta alla Santità Vostra tutti indiferentemente nella brutta figura di sediziosi e fomentatori della strana novità; e questo sarà appunto il secon-do articolo dell’imputazione.

Passa poi a rifferire, che essendo stata riconosciuta insuperabile e costante la di loro ostinazione e sul timore di qualche peggior conseguenza, si trovasse il ministro Cancelliere in necessità di ritirarsi, onde rimanesse per tutto ciò senza effetto la disposizione.

Che raccolte avendo le ree procedure dei contumaci Zuppani, novamente li convenisse alla di lui presenza, ma che poi fosse vana l’idea, perché resisi vie più temerari, si dimostrassero fra questi li più arditi e sussuranti li due Zuppani Iseppo Micuglian e Vicenzo Faraguna quondam Simon, quali s’avvanzassero ad esprimersi, che essi avevano il gius d’eleggere li Procuratori e che il Prencipe non avvesse in ciò alcun diritto di commandarli; e questo sarà parimenti a riflessi della Publica Sapienza il terzo articolo della delinquenza imputata.

Che commosso pertanto l’animo suo avvesse riputato del di lui impegno, di non lasciar correr in essempio senza qualche correzione, il scandaloso ardire, quindi perciò licenziando tutti gl’altri, ordinasse che fossero arre-stati li due Faraguna e Micuglian, come capi della rea fazione, nel divisamento di darle un breve castigo.

Che abusando i già assolti di una tale indulgenza a tutta notte facessero correr avviso circolare per le ville del seguito fermo, comminando ai villici la pena di lire 25, onde si fossero uniti per quei violenti tentativi che premeditavano, cosiché nella mattina delli 26 aprile, all’aprir delle porte di questa Terra, si facessero veder calati sotto la direzione e condotta dei loro Procuratori, Gasparo Lupetin detto Buriach e Mattio Bellusich quondam Zuanne, sedutori e fomentatori del grave scandalo, duecento e più villani con armi ascoste, buon numero dei quali si fossero schierati nella Publica Piazza, dirimpeto al Publico Palazzo, fermatisi gl’altri a fronte della Porta della terra, si facessero anco intendere di voler rissolutamente la libertà delli due Zuppani arrestati, dinotando l’intenzione di progredire con la soprafazione a violenze più gravi; ed ecco pure il gravissimo punto dell’insurre-zione partecipata.

Rappresenta finalmente con dette di lui lettere, che attrovandosi spoglio di ressistenze e con il riflesso di non cimentare maggiormente il publico decoro, quindi però cogliesse, per consiglio di prudenza, il partito di rila-sciare dall’arresto li due Zuppani, quali avessero dato moto alla tumultuazione, che con tal mezzo si fosse sedata.

Risvegliate pertanto alla Pubblica remminescenza l’osservabili imputazioni contenute nelle lettere di parte-cipazione, sarà poi mansione dell’officio mio di rassegnare alla gravissima auttorità di cotesto Eccelso Consiglio, con quella parità e candore che sempre sono corrispondenti alla Pubblica clementissima Sovrana intenzione, quanto col legale mezzo della formazion del processo m’è rissultato in linea del serioso argomento.

Mi sembra in primo luogo chiamata la candidezza dell’animo mio a dover svelare alla publica matturità la causa motrice, che impegnava li Zuppani a sostenere con vigoria la confermazione dei quattro vecchi Procuratori

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del territorio, in confronto dell’aperto dissenso del zelante Rettore, quale nella mattina appunto delli 25 aprile de-corso, nell’occasione che sono comparsi a ricercarle il permesso della convocazione, le venisse questa accordata, a condizione però che avvessero esseguita la terminazione Civran, cui ordinava che detti Procuratori dovessero essere cambiati nella maggior parte, ma che li Zuppani, non rassegnandosi al preciso commando auttorizato dal-la legge, le rispondessero che volevano confermare li vecchi Procuratori, non perpetuamente come viene spiagato nella pertecipazione 26 aprile, ma sin a tanto fosse ultimata la pendenza vertente al Consiglio eccellentissimo di 40 Civil Nuovo tra l’Università d’una e l’apparente e fitizio nome della Communità di questa Terra dall’altra, come m’è rissultato a carta 91, 95 e 127 da tre testimoni non giurati, per essere del Corpo del consiglio, tutti uniformi rispetto la massima dei Zuppani, ma il terzo di questi peraltro insciente del mottivo per cui volessero confermarli.

A carta 52 s’osserva, che nell’anno 1756 12 giugno venisse presa parte, sopra supplica 9 del mese stesso, presentata al precessor Podestà dai Procuratori del popolo Pietro Fonovich quondam Piero del sestrier di Santa Lucia in Schitazza, Mattio Belussich quondam Zuanne della Pieve di San Martin, Andrea Faraguna quondam Simon del sestrier di Santa Domenica e Gasparo Lupetin di quella di San Lorenzo in Produbas, di ricorere a piedi di Sua Serenità per implorare il giusto compenso alla gravosa contribuzione annuale, che pagavano quelli dell’Università ai particolari, d’un mozzo fomento, sono due terzi di stara uno veneziano, sopra il solo miserabile capitale di ducati 20 da lire 6 per ducato.

A carta 52 quindi però dietro la suscritta parte trovo, che nel di 24 novembre susseguente venisse nell’eccel-lentissimo Pien Collegio presentata a nome dell’Università tutta d’Albona e suo Territorio, divota supplicazione con cui imploravano che la Paterna Carità e giustizia di Vostrà Serenità degnasse di prescrivere quell’annuo censuale contribuzione sopra li capitali dati a censo in quest’Università e Territorio, onde non avvessero più luoco gl’arbitri degl’oppulenti, e come era stato decretato negli anni 1552, 1553 e 1556 per le città di Vicenza, Bassano, Verona e Terra d’Asolo e suo Territorio.

Rimarco dalla ducale del giorno stesso, che venisse a questa divota rappresentanza comesse dagl’eccel-lentissimi Signori Savii l’Informazioni sopra detto memoriale, che indi fossero poi sospese con lettere avogaresche 30 del detto mese, a carta 54, attesa la citazione per intromissione dell’accettazione, rilasciata sopra l’istanze del carpito nome di questa Communità, quale però non avesse nella pendenza alcun interesse, benché nel consiglio di questa Terra li 6 febraio decorso, come a carta 54, venisse presa parte di sostenere li propri diritti e raggioni contro il ricorso dell’Università, quando poi si raccoglie dalli due constituti delli Giudici della communità, assunti a carte 43 47, che dalla medesima fosse stato unicamente prestato il nome ai particolari creditori in via attiva dei capitali, che erano stati di tempo in tempo concessi a livello affrancabile.

A carta 55 osservo poi l’atto d’Intromissione in absenza dell’Università dell’accetazione della sudetta sup-plica, parimenti 12 febraio al Consiglio eccellentissimo di 40 Civil nuovo, con le successive lettere in data delli 12, perché dai Procuratori del popolo non venissero pratticate novità contrarie alla pendenza di giudizio.

A carta 57 trovo altre lettere obbedienziali 23 marzo susseguente, impetrate col nome della Comunità e contro l’Università, che poi sotto li 23 aprile venissero notificate ai Procuratori suscritti, e quindi due giorni doppo a tenor della legge si convocassero li Zuppani, quali però in prevenzione si presentassero a ricercare al nobil homo Podestà la permissione della detta convocazione, dove appunto si lasciassero intendere che volevano confermare li vecchi Procuratori, durante la pendenza, come rissulta dalle deposizioni indicate e dall’altre ancora che a suo tempo sarò nel doveroso impegno di rassegnare alle considerazioni purgatissime di Vostre Eccellenze.

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Ha meditato pertanto la delicatezza de miei pensamenti, che fosse di mio preciso dovere di non lasciare all’oscuro cotesto Augusto Concesso intorno la vera causa, da cui poscia sono derivati li gravi sconcerti, sopra dei quali, con studio di vigilanza e di fervore, han versato le mie applicazioni.

A carta 40 trovo in fatto che la terminazione Civran, 1632 2 settembre, al capitolo sesto incarica li quattro Procuratori del popolo di far congregar li 12 Zuppani ogni anno nella festività di San Marco, per muttar per la maggior parte essi procuratori, procurando che siano persone le più proprie et adeguate che possano avere, ed esso che il spirito della legge nel statuire il cambiamento annuale dei Procuratori, ebbe in solo oggetto il miglior vantaggio del popolo.

Questa convocazione, s’osserva dalli costituti et essami assunti, che venisse ricercata al Rappresentante nel giorno delli 25 aprile decorso, non dalli quattro Procuratori, due dei quali anzi s’attrovassero in Venezia per assistere alla pendenza, come si legge a carta 24, ma bensì dalli Zuppani ora inquisiti; e questi sono quelli che appunto osservo nella partecipazione 26 aprile, imputati della grave colpa che avessero perpetrata nel giorno di San Marco, non solo con la recredenza d’esseguire la sudetta terminazione e di voler perpetuamente confermare li vecchi Procuratori, ma con tumultazione e profanazione del Sagro tempio e coll’imputato spaleggio dei villici.

Estesa perciò l’accurata inquisizione sopra di questo primo articolo d’accusa, non la trovo per verità com-probata nell’esposte sue circostanze.

A carte 8 e 20 li constituti medesimi di questo ministro Cancelliere Giovanni Antonio Frielli e di Zammaria Zatton Comandante, che sono quelle persone già intervenute per sentimento della legge nella convocazione suscri-ta, non concordano in ogni sua parte con la partecipazione.

Rappresenta benissimo il Cancelliere d’esser intervenuto in quella Chiesa di San Sergio per l’effetto sudeto, dove entrato udisse lo strepito di sole parole di quei villici, che non seppe enumerarli, indi rilevasse che le parole derivassero, perché fossero nella risoluzione di confermare li vecchi Procuratori; comprendesse, che tutti fossero di unanime sentimento, ma che però si dimostrassero in figura di capi e li più insistenti Iseppo Micuglian e Vicenzo Faraguna, quali parlessero nel loro idiome illirico con maggior vigore; quindi pure osservasse che fuori dalla porta della chiesa v’essistessero degl’altri villici, quali parlassero altamente, senza raccogliere le di loro espressioni ri-spetto la lingua; indi l’imponesse ai detti Zuppani silentio, onde poter leggere la terminazione Civran; s’affaticasse il Comandante per acquietarli, ma continuassero a parlar alto e che, osservando una specie di tumultazione e prevedendo di non poterli superare, concepisse in pari tempo nella di lui fantasia qualche timore; indi perciò si levasse senza permettere ad essi alcuna ballotazione, giacché era stato in prevenzione precettato dal nobil homo Podestà di doversi levare, allorché detto congresso avesse ricusato di passare all’elezione di nuove persone nell’impiego suscrito.

Dal constituto del Comandate viene in qualche miglior modo indebolita la sublimata imputazione, s’unifor-ma però il di lui detto rispetto alla recredenza; spiega che esaggerassero, che loro fossero li patroni d’eleggere li Procuratori a piacere e che cercassero riconfermarli, sin a tanto che la causa in Venezia fosse stata definita; che però in quella Scuola di San Sergio non rilevasse che venisse fatta la minima espressione ingiuriosa o di profa-nazione alla chiesa, che s’attrovassero quei Zuppani senza armi e che pure fuori dalla detta scola vi fossero dei Schiavoni, parimenti spogli d’armi, ma che però ricercassero ai detti Zuppani la confermazione dei procuratori, sin’à che fosse stata terminate la litte contro quelli della Communità.

A carta 80 assunta la deposizione di testimonio giurato, dalla stessa si rilleva che lui attrovandosi presente

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in quell’occasione nella suscrita chiesa, udisse che li Zuppani venissero ammoniti dal Cancelliere a cambiare nel maggior numero li Procuratori, che le rifletesse, che tale fosse appunto la volontà del nobil homo Podestà e che di tal modo prescriveva la terminazione Civrana, ma che essi andassero rispondendo che volevano confermare li vecchi Procuratori, sin’à tanto che avessero consumata la litte in Venezia, e che poi si sarebbero rassegnati a tutto ciò che le fosse stato comandato, ma che poi, in vista delle repplicate del cancelliere, adducessero che finalmente loro erano li paroni d’eleggere quelli che avvessero voluto; continua a deponere che non seguisse certamente alcun strepito, che parlassero fra d’essi nella ferma massima di confermare li Procuratori, a fronte di qualun-que insinuazione che le venisse fatta dal detto Cancelliere, verso di cui però sempre parlassero rispettosamente, benché le rifletesse che se non avessero cambiato li Procuratori, sarebbero stati condannati in prigione, overo in galera; che s’attrovassero proveduti dei loro bastoni, ma senza armi; conviene che due di quei Zuppani parlassero più degl’altri, l’uno dei quali anzi si chiamasse Vicenzo Faraguna e l’altro non venisse da esso giusto conosciuto, quali sostenessero con vigore la confermazione, senza punto offendere con parole né il Regimento né il Cancellie-re, e senza alcuna profanazione della chiesa, ma che tutto il discorso tendesse nel far rimarcare la necessità di confermare li Procuratori, sinoché si fosse terminata la pendenza in Venezia.

Concorda detto singolare testimonio che fuori di quella chiesa v’essistessero alcuni contadini, che dassero ben a conoscere d’attenderne l’esitto, quelli però se ne stessero quieti; assicura la Giustizia, per conclusione del di lui esame, che in quell’incontro non succedesse alcun scandalo, ma che il tutto si fosse ristretto alla recredenza di cambiare li Procuratori, come voleva il Cancelliere, quale poi riccusasse, in vista della loro insistenza, di per-mettere ad essi alcuna ballotazione.

A carta 10 dalla continuazione del constituto del Cancelliere s’osserva, che doppo essersi sciolto dalla Scuo-la di San Sergio, passasse in Palazzo a refferire il rissultato al nobil homo Podestà, quale s’alterasse gravemente, sicché in quel momento meditasse di far carcerare tutti li votanti Zuppani, quindi però sembrasse strano al mini-stro il cimento e perciò procurasse di divertire il divisamento, in riserva di nuova ammonizione ai detti Zuppani.

A carta 21 nel constituto del Comandante parimenti si legge, che sciolto col Cancelliere dalla suscritta Scola, nel tempo medesimo comparissero dinanzi al Podestà li detti Zuppani, dai quali venisse supplicato ad accordarle la confermazione dei quattro vecchii Procuratori, stante la causa che pendeva in Venezia contro la Comunità, perché quando poi fosse stata ultimata averebbero allora cambiati li stessi.

Quindi però il nobil homo Podestà le rispondesse, che assolutamente voleva che restassero cambiati et indi insorgesse una specie d’altercazione, le facessero perciò alcuni d’essi Zuppani rimarcare, che intendevano d’essere paroni d’eleggere quei Procuratori che fossero stati di loro piacere, sopra di che il nobil homo Rettore di nuovo s’alterasse, esprimendo che lui fosse parone e Prencipe, e che però dovevano inmancabilmente obbedire; indi pure in quel momento incaricasse detto Comandante a precettare li stessi Zuppani, sotto la pena di lire 25 per cadauno, di retirarsi in forma di sequestro sotto la Pubblica Loggia e così venisse da essi eseguito, sopra di che pure concorda il giurato testimonio a carta 172.

Ricercasse poco doppo il Rettore intorno li nomi delli due Zuppani, che insistevano più degli altri nel pre-teso libero jus d’eleggere li Procuratori, e rillevando che si chiamassero Iseppo Micuglian da Produbas e Vicenzo Faraguna da Dubrova, che appunto erano stati quelli che avevano entro la Scuola di San Sergio dimostrata maggior insistenza di tutti gl’altri, e che dal Frielli suo Cancelliere gl’erano stati in prevenzione nominatamente indicati, così allora risolvesse di far capitare alla di lui presenza ripartitamente li Zuppani, e finalmente quando

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fossero arrivati li Micuglian e Faraguna, comandasse che dalla cucina sortisse un sbiro, che se ne stava nascosto assieme con soldati cernide, et indi ordinasse allo stesso ministro alla di lui presenza, come dal costituto a carta 11, il di loro fermo.

Continua a rappresentare che questi due Zuppani non si rassegnassero al comando del Rappresentante, e concorda parimenti il testimonio non giurato a carta 59, che anzi osassero della resistenza e con espressioni di lamento esagerassero, con aperta recredenza a costo della vita; depone che li stessi per altro comparissero spogli d’armi.

A carta 88 testimonio giurato depone, che sopra le ricerche del nobil homo Podestà, si fosse nella sera di quel giorno conferito in Palazzo, trovasse li due Zuppani essistenti, non più di sopra nella salla, ma di sotto nella camara, quali però venissero costuditi dall’officiale e dalle cernide e che insinuatosi destramente con li stessi, rilevasse che non dissentissero di rassegnarsi al commando, purché dal sbiro non le fossero state poste le mani indosso, nel preteso perpetuo rossore che avrebbero riportato apresso gl’altri villici; quindi però con detta condi-cione si fossero rassegnati nelle priggioni, come conviene altro testimonio giurato a carta 151, che si persuades-sero ad obbedire e cio che non potesse superare il Rettore con la forza riuscisse al testimonio con l’insinuazioni e con la buona maniera, come pure s’osserva essere stato rappresentato a carta 11.

A carte 136 e 170 furono assunte due deposizioni, la prima non giurata e la seconda con giuramento, sopra quanto s’osserva rassegnato nella partecipazione et indicato poi nel costituto del detto Rappresentante a carta 29, intorno il riflessibile punto dell’esposta indipendenza, che restò imputata precisamente alli due Zuppani.

Dal primo si raccoglie, che appunto nel suscritto giorno delli 25 aprile in quel Pubblico palazzo, attro-vandosi li Zuppani del territorio alla presenza del Rettore, indi venissero ammoniti dallo stesso ad esseguire la terminazione Civran, su di che loro insistendo, s’avvanzassero a rispondere che erano patroni, e continua a deponere detto non giurato, che il Rappresentante riportasse in risposta delle parole ardite et insolenti; concorda pure il testimonio giurato a carta 170, quale depone d’haver riconosciutio in detto giorno nella salla del Pubblico palazzo, poco prima dell’vespero, undici Zuppani del territorio ed un tal Marian Cuchiela sostituto del duodecimo Zuppano di Portolongo, quali sostenessero il jus d’eleggere li Procuratori, indi rilevasse che fossero intenzionati di confermare li vecchi sin’un altro anno, stante la pendenza che asserissero d’avere in Venezia per occasione dei livelli, sicché venissero interpelati dal Rettore, se loro comandassero oppure il Prencipe, e che le venisse dalli stessi risposto che appunto essi comandavano, le quali espressioni venissero fatte da due o tre di loro, fra dei quali appunto detto testimonio riconoscesse Iseppo Micuglian e Vicenzo Faraguna; indi continua a deponere che detti Zuppani parlassero in lingua illirica, ma che fedelmente le venisse interpretato nel nostro idioma dal Cuchiela, sostituto per quello di Portolongo. Nella divota confidenza pertanto d’haver supplito all’incarico, rispetto alli primi due articoli imputati nella partecipazione 26 aprile decorso agl’inquisiti Zuppani, ora discende l’umiltà mia a rifferire con eguale purità le risultanze, in linea dell’importante e serioso punto che riguarda l’insurrezione della mattina 26 del mese stesso, giorno appunto in cui restò segnata dal Rettore la partecipazione, sopra di cui versano li presenti miei studi.

Il numeroso concorso del popolo proveniente dalle contrade del territorio della Terra, m’è risultato piena-mente da moltissime deposizioni giurate e non giurate dei testimoni e contesti assunti, e trovo appunto, che posto in soggezione questo nobil homo Podestà dalla comparsa di detta popolazione, quale tutta unita si fosse lasciata vedere raccolta in piazza verso il mezzo giorno, priva però d’armi e senza che desse alcuna dimostrazione di violen-

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za, rissolvesse ad ogni modo il Rettore, d’ordinare che venissero licenziati li due rettenti Zuppani, penetrato pure da quanto le venisse rassegnato dal Comandante.

A carta 23 detto ministro rappresenta, che da persona nominata in processo venisse incaricato a conferirsi nel palazzo, onde avvertire il nobil homo Podestà, che in vista al pericolo temuto, licenziasse li due Zuppani, e che sopra tale rapporto ordinasse il rilascio, et indi subito il popolo declinasse dalla piazza.

A carta 69 testimonio non giurato depone che alla vista di quei villici, che li calcolasse al numero di 400, venisse lui prescelto dal nobil homo Podestà a trattare, onde persuadere i villani al retiro dalla Terra, con la facoltà d’impegnarsi, che nella sera sarebbero stati licenziati li due retenti, quando però avesse lui conosciuta l’insistenza nel volerli liberati.

Che dietro anco all’incarico e nel ritorno che avesse fatto nella piazza, osservasse li due Procuratori Gaspa-ro Lupetin detto Buriach e Mattio Belussich quondam Zuanne, che tra essi quietamente parlassero; né per anco a quell’ora fossero capitati nella Terra li villici a risserva di pochi, quindi però detto essaminato ordinasse a detti Procuratori, che conferirsi dovessero alla di lui abitazione, dove rilevasse dalla voce del Lupetin che l’intenzione fosse stata di presentarsi alla Pubblica rappresentanza, onde supplicare la liberazione dei due Zuppani, sopra le quali espressioni le rispondesse che il Rettore riposava; attesocche tale appunto avvesse ricevuta la commissione di far credere in prevenzione dal madesimo Rettore. Indi sopra l’impegno che sarebbe seguita la liberazione dei due retenti Zuppani avesse anco persuaso detto Procuratore Lupetin a partire dal paese coi villici, si manifestasse però il Belussich suo colega di un sentimento diverso, anziché si lasciasse intendere di non voler dalla Terra stac-carsi senza li due arrestati Zuppani, continua a deponere che detto Belussich controperasse a quanto andasse disponendo il Lupetin per la partenza dei villani, come restasse in quella mattina medesima avvertito da detto Lupetin, quale avvertisse detto essaminato del contegno del detto Belussich, tutto contrario al suo; rilevasse in risposta dal sudetto Lupetin che il popolo si fosse persuaso di partire, tosto che si fosse gettata una Tansa di circa ducati 12 per spedire un’espresso a Venezia, a render inteso il diffensor del Popolo di quanto era occorso; quindi poi si trovasse deluso, attesoché arrivassero in seguito degl’altri villici, anco del parentado del retento Zuppano Faraguna, venisse perciò impedita la partenza, in cui vi fosse Mattio Clapcich da Santa Domenica, che venisse da detto testimonio esortato ad unirsi col Procuratore Lupetin, onde adoparsi affinché li villani si fossero restituiti alle proprie case, fermo sempre l’impegno della licenziazione, le rispondesse però detto Clapcich, presente detto Lupetin, che non sarebbe stata cosa buona che fosse comparso in paese tanto popolo inutilmente; attesoché poi si lasciasse intendere che nel nobil homo Rappresentante, vi fosse stato il divisamento di spedire in quella successiva notte li due Zuppani nelle carceri di Capodistria, e che l’impegno o proggetto ad altro non tendesse, che a guadagnar tempo, come le venisse poi raccontato dal suscritto Lupetin, che per sentimento di detto testimonio in quell’insurrezione non avesse reità, stanteché fosse capitato in quella mattina sopra l’intimazione penale che le fosse stata fatta nella notte delli 25 venendo li 26 aprile a nome del suo Zuppano Domenico Vlacich da Poglie.

Indi depone che nel frattempo che discorresse in modo d’insinuazione con il suscritto Clapcich, in disparte dalla moltitudine del popolo, improvvisamente questo tutto raccolto passasse dal borgo in cui prima esisteva nella piazza, a guisa però di tante pecore, e concorda il testimonio giurato a carta 123, quale depone che nell’ingresso poi della terra non vedesse che alcuno vi fosse alla testa, mentre entravano nella figura d’anemali e tutti in flotta ed aggrapati, ma senz’armi; osservasse il non giurato, che in prevenzione al scioglimento dal borgo, un tal Dome-nico Verbanaz quondam Vittorio, parimenti di Santa Domenica, sollecitasse gl’altri villani all’introduzione; quindi

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detto essaminato si framischiasse fra d’essi villici ed arrivato alla cancellata, allora appunto venisse ordinato al Comandante che passasse parola al nobil homo Rappresentante, perché lasciasse uscire dalle priggioni quei due Zuppani, nella sola apprensione di qualche violenza, benché se ne stessero quei villici in detta piazza senza far motto ed incantati, e che brieve fosse la loro dimora; venissero dietro a tale notizia licenziati, indi passassero a ringraciare il Rettore e con l’universale esultanza del popolo in mezzo lo stesso partissero.

Continua a deponere a carta 75 che in quella medesima mattina, in prevenzione all’arrivo grandioso dei villici, avesse raccolto dalla voce del Procuratore Belussich, che se li due Zuppani non fossero stati licenziati, sareb-bero state sforzate le priggioni, quale anzi tenesse un coltello al fianco, che poscia, a suggerimento di persona non nominata, lo deponesse, prima di capitar col popolo nella piazza; non concordando però in questo particolare il costituto del nobil homo Rettore a carta 36, nel quale rappresenta che in quella mattina appunto, avendolo fatto chiamare, attesocché l’avvesse osservato in mezzo di quella numerosa popolazione, quindi perciò comparisse alla di lui presenza con aria altera e proveduto al fianco d’un coltellazzo; ad altri due testimonii non giurati, a carta 125 e a carta 136, pure convengono che s’attrovasse lo stesso in quella mattina armato; il primo depone che comparso dinanzi al Podestà, osservasse che detto Belussich tenesse nascosto un coltello, indi le venisse dal Rettore ricercato cosa lui volesse con tanta gente, al che detto Belussich le rispondesse che pregava per la libertà dei due Zuppani, che essistevano nelle carceri, e che indi con pieno concorso del Rettore venissero anco licenziati, non le permettesse ad essi però il bacio della veste; l’altro testimonio, a carta 136, depone che in quella mattina in piazza né in borgo quei villani comparissero con armi, benché poi nel ritorno alle loro ville moltissimi s’attro-vassero provveduti dello schioppo, come concorda l’altro testimonio parimenti non giurato a carta 64, ma bensì che il Belussich nella mattina delli 26 s’attrovasse proveduto a parte destra d’una pistola et a parte sinistra d’un lungo coltello e che con tale figura sapesse lui testimonio, che si presentasse al nobil homo Podestà, quale nel suo detto non concorda rispetto la pistola.

A carta 63 testimonio non giurato depone che quei villici nella mattina suaccennata, venissero diretti dal Belussich, quale si dimostrasse più impegnato degl’altri; li calcolasse quei Villici circa al numero di 300, quali però s’attrovassero disarmati e che sparsi per la piazza e per li borghi camminassero, senza però far motto né parola che indicasse la minima soprafazione; vedesse, lui essaminato, che alla testa di quella numerosa popolazione vi caminasse un tal Zorzi Dobrich detto Zanco da Schitazza; et il testimonio giurato a carta 129 conviene che nel borgo per verità si fosse ridotta una moltitudine di gente, che niente però rissolveva se non capitava il sudetto Dobrich, quale fosse stato di passaggio dinanzi la casa di detto essaminato, col seguito di dieci persone. Alcune ore prima del mezzogiorno, verso il quale si fosse restituito nel piazzale, fomentasse quei villici a rissolvere et ad introdursi nella Terra, ma s’attrovassero senza armi, a risserva di qualche instrumento rurale; continua a depone-re che fossero tutti quei villici uniti, né che alcuno figurasse il posto di capo; il testimonio a carta 121 non giurato depone che venissero principalmente dirretti dalli due Procuratori et il nobil homo Rappresentante, a carta 35, si spiega con un sentimento medesimo.

A carta 103 e a carta 104 da due giurate deposizioni, rissulta che appunto nella mattina delli 26 aprile decorso, s’osservasse la numerosa popolazione che fosse proveniente dal territorio; il primo d’essi calcola che quei villici potessero essere circa al numero di 200, non vide che alcuno d’essi avessero armi, a riserva del Belus-sich, quale tenesse il coltello al fianco, oltre d’alcuni villici di Schitazza, che seco avessero il solito suo manerino, senza di cui non caminassero per costume; detto testimonio conviene col non giurato a carta 63, che Zorzi Dobrich,

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nell’introduzione dei villici, caminasse avanti in figura di capo, l’altro testimonio, a carta 109, conviene di aver in quella mattina osservato il grosso numero di circa 200 villani nella piazza dirrimpetto al palazzo, che poi udisse una voce derrivante dal palazzo medesimo cui ricercasse chi fosse il capo di quella gente, et indi vedesse a salire le scalle di quello il Belussich e poco doppo l’osservasse parimenti a descenderle, et indi ravisasse in libertà li due Zuppani Micuglian e Faraguna; continua a deponere che alcuno di quei villici non andasse proveduto d’armi, tuttoche per costume li villici del territorio capitassero proveduti anco di schioppo e d’altri instrumenti offendenti; che la dirrezione fosse assai quieta, non vedesse lui testimonio che alcuno pratticasse atto che indicasse violenza, né facessero ad alcuno molestia, ma che fossero capitati in piazza per vedere liberati li Zuppani, per quanto venisse discorso.

A carta 82 testimonio giurato parimenti conviene che li villici in quella mattina comparsi in paese fossero al numero di 200, questi però se ne stassero nella maggior parte in borgo, ma che finalmente essendosi uniti, s’introducessero appunto in paese, dalle di cui porte pocco doppo l’osservasse ad uscire, attesa la libertà che fosse stata data alli suscriti due Zuppani.

A carta 93 s’uniforma similmente la deposizione giurata di conteste, quale s’attrovasse presente, quando li villici, però senza armi, andassero dentro e fuori del paese, ma che poi verso il mezzo giorno detti entrassero nella Terra senza far alcuno strepito, dalla quale circa un’ora doppo uscissero, nelli quali vi ravvisasse il Zuppano Faraguna e si dicesse che v’entrasse il suo compagno.

A carte 114, 120 e 152 tre testimonii non giurati parimenti concordano con tutti gl’altri rispetto all’insurre-zione dei villici, il primo depone che in essi v’entrasse un tal Lorenzo Lucaz, quale seco lui si spiegasse in quell’in-contro, che meglio sarebbe stato che tutti venissero gettati in pezzi, e depone che queste espressioni si riferissero alli Signori della Terra et alla medesima persona del nobil homo Podestà; continua a deponere inoltre, a carta 115, che nel borgo osservasse che tra li molti villici ve ne fossero cinque in sei proveduti di schioppo, ma che poi, essendosi ingrossati detti villani, l’osservasse tutti spogli e che l’avvessero riposti, anzi che s’attrovasse lui presente alle sgrida che venissero date dalli due Zuppani di Schitazza e di Montagna ad un giovane che allora fosse di passaggio e che proveduto dello schioppo, s’incaminava verso il piazzale che essiste fuori in borgo. L’altro pure di detti tre non giurati depone, che quando li villici si sono circa il mezzo giorno introdotti nella Terra, non avessero armi e tutti concordemente li testii giurati e non giurati convengono in detto punto.

Altro testimonio a carta 122 depone con giuramento, che in prevenzione all’universale introduzione delli suscritti contadini nella piazza, alcuni di detti separatamente s’introdussero con degl’instrumenti inservienti ai lavori della campagna, non sapendo per altro render conto intorno l’uso o se l’avvessero portati al fabro per farli aggiustare; continua a deponere che detti numerosi villici venissero diretti d’otto Zuppani del territorio e da due Procuratori dello stesso, e che li villici si fossero introdotti per cavar fuori dalle priggioni gl’altri due Zuppani, le quali espressioni le raccogliesse da villici, doppo che erano stati licenziati, e le rillevasse ancora dalla voce del Zuppano Domenico Knapich e dal villico Ive Scopaz, in tempo che mangiassero nella di lui bettola; depone che vi fossero stati due soli schioppi in di lui casa, ivi lasciati secondo il costume dei villici.

A carta 144 altro testimonio non giurato concorda col sudetto, quale depone che si fosse incontrato col predetto Domenico Knapich Zuppano di Santa Domenica, quale gl’avvesse fatto la confidenza, che se non veni-vano licenziati li due Zuppani, fossero rissoluti di rompere le priggioni, onde liberarli; et a carta 112 non giurato parimenti depone, che un tal Giacomin Faraguna venisse nella mattina deli 26 aprile intimato in pena di lire 25

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a conferirsi a questa parte e che, restituito alla di lui villa quella sera, confidasse poi al detto testimonio, che se il Podestà non licenziava li Zuppani le averebbero rotte le priggioni, intendendo di rifferirsi ai villani; tiene peraltro detto testimonio, che tale espressione venisse fatta per ostentazione e bravura, tanto più che lo conosce di lingua lunga.

A carta 170 testo giurato depone che in quella mattina s’incontrasse per la strada di fuori in tre villici, che s’incaminassero verso questa parte, uno d’essi, che si chiamasse Simon Vlacich, si lasciasse intendere che voleva li Zuppani in libertà e che lui sarebbe stato il primo ad assalire il Podestà, quale però venisse immediate sgridato d’un compagno e suggerito dall’altro a pensare in altro modo, e depone che per altro tutti tre s’attrovassero privi d’armi.

Quindi poi avendo con sempre eguale e constante rettitudine estesa l’inquisizione anco sopra l’inputazione a carta 35 del processo formato sin ad offesa.

Trovo che questo nobil homo Podestà rappressenta d’haver inteso a dire, che li villici avvessero lasciati li schioppi in alcune case dei borghi della Terra e che parimenti portassero seco delle sterpazze e che pure queste fossero state poste in salvo fuori della Terra, e che intanto fossero comparsi provedduti d’armi e di sterpazze, nel divisamento di superare l’autorità publica con la forza, qualora non le fosse stata dallo stesso accordata la libertà alli due retenti Zuppani, come intendesse lui nobil homo Rappresentante a discorere, non sovenendole peraltro da chi.

A carta 84 testimonio giurato depone che in quella mattina delli 26 aprile, osservasse ad introdursi dentro le porte da circa 15 villani, che capitassero due o tre alla volta, portando seco, chi una manara, chi un pallo di ferro e chi qualche zappone, per il respettivo aggiustamento di detti instrumenti, attesoché li villici di Schitazza dovessero adoperarli per certo lavoro di escavamento di sassi occorenti ad una calcara per la Chiesa di Santa Lucia, che è appunto la di loro parochia.

A carta 97 e a carta 98, assunte le giurate deposizioni dei contesti, concordano l’aggiustamento dei suscritti instrumentii; il primo d’essi depone che in quella mattina alla di lui bottega vi fosse stato un’insolito lavoro e che fossero capitati da circa venti contadini, per far aggiustare ferri inservienti ai lavori della campagna, individuando anzi nominalmente li stessi, e depone che fossero stati caltri d’aratro, delle sterpazze o siano zapponi, palli di fer-ro, dei picconi atti a romper sassi e delle manare, li quali tutti instrumenti rurali avessero bisogno d’esser accon-ciati; deponendo d’avere accomodati quelli che il tempo in quella mattina le permetteva e che gl’altri rimmassero in sua bottega e che indi posteriormente quei villici capitassero a ricceverli; l’altro giurato parimenti depone, che in quella mattina fossero capitati alla di lui bottega da dieci in dodeci persone, per accomodar l’indicata qualità di ferri e che anzi alcuni d’essi villici, coll’oggetto di portar seco a casa detti instrumenti aggiustati, si fermassero sino la sera.

A carta 126 testimonio giurato depone che in quella mattina lui benissimo osservasse, che nel Piazzal del borgo otto ovvero dieci di quei villici tenessero li schioppi, nei quali anzi riconoscesse un tal caporal Matte Sbrigo da Santa Domenica, cui andasse proveduto di schioppo e spada, ma che fattagli da esso ammonizione, sicché non passasse un quarto d’ora che più non si vedesse un arcobugio, nonostante che la popolazione sempre più andasse ingrossando, e che circa il mezzo giorno, nel passaggio che facessero li villici dalli borghi alla piazza entro la Terra, non vi fosse alcuno che tenesse armi, a risserva di qualche instrumento atto al lavoro della campagna.

A carta 122 altro non giurato depone, che sino l’ore due di sole di quella mattina, s’osservasse che li villici

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capitassero proveduti d’armi e d’instrumenti di campagna, quali arrivassero nel piazzal del borgo, e che tutti doppo le salvassero, sicché più non vedesse che avvessero seco armi, a risserva di qualcheduno, non da esso conosciuto, che tenesse l’arcobugio e qualche instrumento di campagna; depone però inoltre che buona parte dei territoriali, quando capitano in paese, sono soliti lasciare giù l’armi prima d’introdursi nella piazza.

A carta 131 e a carta 159, da due testij l’uno giurato e l’altro non giurato, rissulta che appunto in quella mattina delli 26 da alcuni villici fossero stati lasciati delli schioppi nelle respettive loro bettole; il primo di detti con suo giurato depone, che a misura del praticato, nell’occasione che li villici si conducono in questa Terra, venis-sero anco in quel giorno deposti nella sua bettola sette overo otto schioppi, dei quali non le venisse fatta alcuna consegna, per essere inveterato costume dei villani, che nel passaggio per il borgo li depongono nella sua bottega e se li ripigliano nel restituirsi alla loro ville, senza articolare col parone della casa ne meno una parola; l’altro non giurato parimenti concorda essere di consuetudine, che li villici del territorio nella maggior parte quando arrivano in questa Terra, prima d’introdursi entro le porte della stessa, lasciano in borgo le proprie armi e che dietro appunto al praticato nella suscritta mattina ve ne fossero stati lasciati altri sette ovvero otto nella bettola da esso testimonio essercitata, e continua poi a deponere, che osservasse degl’altri villici proveduti di schioppo, ma che fosse poi cosa vera, che in confronto della fiera in quel giorno ve ne fossero pochi, ma piuttosto che quelli contadini s’attrovassero nella maggior parte proveduti chi di legno e chi di manerino, a misura dell’ordinario pratticato dalli medesimi.

Con le deposizioni di sopra assunte, non solo addunque è caduta l’imputazione che li villici avvessero portate seco l’armi et gl’instrumenti rurali per far violenza alla pubblica autorità, ma molto meno s’ha potuto verificare che li detti nella mattina delli 26, che comparvero unitamente in quella piazza, s’attrovassero proveduti d’armi ascoste, anzi che consta ad evvidenza, che prima d’entrarvi nella Terra, quelli che s’attrovavano proveduti dello schioppo, in conformità al pratticato, lo deponessero nelli borghi; ne meno s’è comprobato che si facessero intendere di voler rissolutamente in libertà li due Zuppani, come accena a Vostre Eccellenze il nobil homo Podestà nella sua partecipazione 26 aprile, che indi poi dalla Giustizia ricercato sopra questo grave punto, rispondesse, a carta 38, che lui avendo interpelata la persona già prescielta a disponere i villani alla partenza dal paese, le rispondesse che volessero la libertà dei due Zuppani, e sopra l’altro parimenti dell’armi ascoste, che l’avvesse egl’inteso, ma però non venisse d’indicare la persona per mancanza di memoria, come egli accena.

Intimate per le mie attente indagazioni, sopra il punto serioso del partecipato circolare avviso con penalità imputato a quei Zuppani, che già fossero stati assolti, che vale a dire, licenziati dal sequestro; quindi però dalle rissultanze del processo si raccoglie che la deliberazione dell’avviso circolare per le ville fosse presa in prevenzione alla carcerazione delli due Zuppani ed in tempo che appunto tutti s’attrovavano in forma di sequestro sotto la loggia.

A carta 11 del medesimo constituto del Frielli, Cancelliere di questo Reggimento, e dalle due deposizioni non giurate a carta 69 e 136, si dessume che l’ordine di detto circolare avviso, che fu diffuso nelle Zuppanie del territorio, venisse rilasciato in tempo appunto che li Zuppani essistevano in sequestro, d’ordine del nobil homo Podestà, e trovo in prosecuzione dell’accurata inquisizione, che poi questo venisse nella maggior parte esseguito dai Pozuppi delle ville, che sono li serventi dei Zuppani, come depone il giurato testo a carta 176.

Quindi però detto Cancelliere rappresenta che rillevasse, da persona assunta a carta 69, che li Zuppani essistenti in sequestro avvessero spedite circolari commissioni per le ville, onde capitasse gente in questa Terra

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per liberarli dal sequestro, lo che pare communicasse subito al nobil homo Rappresentante ed in prevenzione alla priggionia dei due Zuppani; concorda poi il testimonio, che avvesse conferito con detto cancelliere, attesocché, essendosi trovato nella sera delli 25 aprile in piazza nel momento che Vicenzo Faraguna ed Iseppo Micuglian s’attrovavano in salla del palazzo per essere retenti, rillevasse dalla voce di Marco Faraguna, fratello del detto Zuppano, che insinuava ad altro contadino a non partire dalla Terra, mentre nella successiva mattina sarebbero capitati li villici uno per casa, e s’uniforma l’altro pure a carta 136, quale depone che disceso dal palazzo nel giorno di San Marco e che essendo di passaggio per dove appunto v’esistevano li Zuppani in forma di sequestro, rillevasse che Vicenzo Faraguna dasse l’ordine ad un Pozuppo, cui dovesse immediate andare in giro per il territo-rio ad incaricare li villici, perché dovessero nell’alba delli 26 attrovarsi in questa Terra.

A carta 191 e 193 assunte due non giurate deposizioni dalle stesse parimenti rissulta, che la massima di convocare li villici del territorio nella Terra, venisse presa in tempo che li Zuppani s’attrovassero sotto la loggia e non doppo la priggionia delli Micuglian e Faraguna, dal che poi si desume che tale deliberazione nel suo nascere mai poteva essere diretta a violare le priggioni, quando per anco non poteva essere a cognizione delli stessi, che dovesse succedere la carcerazione.

Il primo di detti testimonii, con precisione, depone che nel giorno di San Marco, verso sera, osservasse tutti li Zuppani del territorio che essistessero in vicinanza alla publica loggia e che chiamato da Gregorio Rabaz e da Iseppo Micuglian, il primo Zuppano di Schitazza e l’altro di Produbas, venisse da entrambi lui pregato ad avvertire li respettivi loro pozuppi ad ordinare, che nella mattina seguente fossero capitati in questa terra li villici uno per casa, perché rilevassero il mottivo del sequestro; non le dassero commissione che restasse comminata alcuna pena, né che venisse speso il nome d’alcun’altro, incontrasse perciò lui essaminato la premura del secondo, ma non del primo, attesa la distanza della strada.

Dall’altra deposizione si raccoglie che in quella sera stessa delli 25 aprile vi fosse stato lui presente, quan-do li undici Zuppani che s’attrovavano in questa piazza in forma di sequestro, unitamente pure a Marian Cuchiela sostituto del Zuppano di Portolongo, tutti d’uniforme consentimento, dessero ordine a Marco Tomicich figlio del Pozuppo di Schitazza, perché intimasse che li villici dovessero capitare nella successiva mattina in questa Terra; e testimonio giurato a carta 227 depone d’essere stato nella medesima sera intimato dal sudetto figlio del Pozup-po, indi continua a deponere, detto non giurato, che venisse il popolo chiamato per la confermazione dei vecchi Procuratori; ed a carte 45 et 49 convengono li due medesimi costituti delli Giudici della communità, che intanto li Zuppani volessero confermare detti Procuratori, in quanto che fossero instruiti della causa pendente al Consiglio eccellentissimo di 40 Civil Nuovo, depone il suscritto testimonio a carta 193, che vi fosse nei Zuppani il divisamento, che li villici potessero superare dal nobil homo Podestà la facoltà di confermare li Procuratori e che dietro a tale lusinga ordinassero la chiamata del popolo, ma che poi, accaduta la retenzione delli due, venisse cambiata l’idea e che tutti gl’undici Zuppani, attrovandosi nella mattina delli 26 in questo luoco, compresi anco li due retenti, li nove essistevano in libertà avvessero rissolto di ricercare in gracia li detti carcerati al nobil homo Podestà, e che tale appunto fosse l’universale intenzione delli villici; e s’uniforma pure la non giurata deposizione a carta 206 in questa ultima parte.

Quindi poi intimatomi parimenti intorno a quei modi che furono respettivamente tenuti nella convocazione dei villici, e dalle molteplici deposizioni giurate e non giurate rissulta, che tutto fosse stato dirretto o alla licenzia-zione dei Zuppani dal sequestro, o alla liberazione delli due carcerati dalla priggione, o all’essazione di una tansa

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per far ricorso a Venezia, o alla confermazione dei vecchi Procuratori.A carte 182, 184, 185 e 186, rissulta dalle tre prime che nella Zuppania di Cere, circa il levar del sole del

giorno 26 aprile passato, venisse praticata dal Pozuppo Domenico Prodoglian l’intimazione, che in pena di lire 25, dovessero comparire i villici in quella medesima mattina, uno per casa, in questa Terra; il primo depone che detto Produglian le dicesse che l’ordine l’aveva ricevuo da Mattio Zactila suo Zuppano e che il mottivo della chiamata era perché fossero stati carcerati due Zuppani e che perciò fosse intenzione del suo Zuppano, che li villici capitas-sero in Albona uno per casa, perché poi quando dal nobil homo Podestà fosse stata ricusata la liberazione, fosse stata gettata una tansa per ricorer al Prencipe, come poi venisse anco fatto in quella mattina, benché fossero stati li Zuppani licenziati; il secondo di detti testimoni s’uniforma rispetto la pena, il mottivo e la tansa; il terzo non ren-de conto intorno la pena; il quarto testimonio parimenti depone, che nella precedente giornata essendosi trovato in questa Terra circa l’ore 23, osservasse in vicinanza la loggia li Zuppani del territorio in sequestro e che perciò venisse pregato dal sudetto Zuppano Mattio Zactila, coll’unanime consentimento di tutti gl’altri di lui colleghi, a capitare nella susseguente mattina in questa Terra, perché volevano gettare una tansa per spedire un messo a Venezia a far ricorso, stantecché dicessero di non trovare a questa parte Giustizia; non seccondassero peraltro con la comparsa alcuno delli suscritti essaminati l’intimazione.

A carte 187, 188 e 189 da tre deposizioni, due giurate e la terza non giurata, si raccoglie che parimenti nalle Zuppania di Vetua venisse nella mattina delli 26 aprile, col mezzo del Pozuppo Marin Miletich, pratticata ordina-zione, che dovessero li villici nella mattina medesima capitare nella Terra di Albona, uno per casa.

Quello non giurato depone d’haver inteso communemente a discorrere per la villa, che il Pozuppo sudetto /non sa con qual ordine/ avesse pratticata circolare intimazione per la Zuppania, perché dovesse capitare, qui appunto in Albona, un uomo per casa, per ricercar in gracia al nobil homo Podestà, che liberasse li Zuppani che erano stati sequestrati di suo ordine nel giorno precedente, due dei quali anzi fossero stati posti in priggione; altro giurato conviene d’essere stato in quella mattina delli 26 ordinato dal sudetto Pozuppo, quale tenesse l’ordine dal suo Zuppano, Gregorio Rusich, di pratticare una simile chiamata ad uno per casa, per addimandar in gracia li Zuppani che essistevano in priggione; il terzo giurato concorda d’essersi trovato presente alla sudetta ordinazione e che udisse che la chiamata delli villici nella Terra avvesse in oggetto di supplicare per gracia la liberazione dei Zuppani, non venisse comminata alcuna pena; non fosse però alcuno delli sudetti essaminati capitati in quella mattina in questo luoco.

A carta 190 altro testimonio giurato depone, d’essersi in quella mattina delli 26 incontrato per strada in un cognato del sudetto Zuppano Gregorio Rusich, quale alla sfugita le dicesse che dovesse, lui essaminato, capitare in questa Terra, le comminasse anco certa pena, indicandole che il mottivo era perché s’attrovasero in priggione li Zuppani.

A carte 199, 200, 201, 203 e 230 assunte cinque deposizioni, due giurate e tre senza giuramento, intorno appunto la dirrezione che era stata pratticata in linea del presente argomento nella Zuppania di Produbas, e dell’uniformità delle medesime, a cognizione della Giustizia rissulta che venisse anco in essa esseguita l’intima-zione, affinché uno per casa dei villici fosse comparso nella suaccenata mattina in Albona; il primo d’essi depone d’esser stato intimato, circa un’ora di notte del giorno di San Marco, col mezzo di Mattio Dundara Pozuppo per commissione del suo Zuppano Iseppo Micuglian, sotto pena di lire 25, attesocché li Zuppani s’attrovassero in sequestro, e concorda con tutti gl’altri rispetto al divisamento di supplicare la loro liberazione dal concorso gra-

122

cioso del nobil homo Podestà; altro, parimenti giurato, conviene d’essere stato intimato nella successiva mattina delli 26, sotto la medesima pena, ma però col mezzo d’un fratello del Pozuppo, a doversi conferire in Albona, senza indicarle il mottivo, ma che non sono poi comparsi, nonostante la comminata penale; il terzo, non giurato, s’uniforma d’esser stato intimato e che il Pozuppo le dicesse pur ad esso che una simile intimazione, per rapporto all’incarico che l’avvesse dato il suo Zuppano Micuglian, dovesse pratticarla agl’altri villici, onde uno per casa fos-se capitato in Albona, continua a deponere d’haver obbedita l’intimazione e che arrivato in questa Terra, trovasse il suo Zuppano con altro collega in Priggione, dal quale venisse insinuato a ricercare in gracia dal Podestà la loro liberazione e che tale appunto fosse il sentimento degl’altri Zuppani del territorio, quali s’attrovassero in quella mattina di compagnia degl’altri villici, che indi passero tutti nella piazza e che appunto la gracia fosse stata con-cessa dal nobil homo Podestà al Procuratore Belussich, con la liberazione delli due retenti Zuppani, convengono anco li testimonii quarto e quinto, quali depongono che erano stati pur essi intimati dal suscritto Pozuppo, l’uno dessi però non venisse, perché s’attrovava gravemente amalato, e l’altro capitasse in paese, senza prima essere conscio del mottivo, ma sul timore della pena, dove poscia rilevasse la causa in cui non volesse egli avverne inge-renza, venisse quindi però sollecitato dal Dundara all’esborso di soldi dieci, per sua porzione di tansa per spedire un messo a Venezia a far ricorso, quale doppo le raccontasse, che l’intimazione penale ad esso pratticata fosse derivata per rapporto alla commisione del di lui Zuppano Micuglian, perché avvesse intimato a uno per casa, e che detta convocazione avesse in oggetto che il popolo passasse all’elezione dei Procuratori.

A carte 204 e 205 da due giurate deposizioni uniformi si raccoglie, che similmente nella Zuppania di Poglie venisse diffusa la circolare ordinazione; il primo di questi depone, che nella sera delli 25 aprile capitasse alla di lui casa Mattia, moglie del Zuppano Domenico Vlacich, ad ordinarle che nella susseguente mattina dovesse attro-varsi in questa Terra, attesocché li Zuppani del territorio s’attrovavano in sequestro e le dicesse che dovevavano intervenire uno per casa, affine però di ricercare la gracia al nobil homo Rappresentante; l’altro testimonio giu-rato parimenti s’uniforma, quale depone che nella mattina verso l’alba capitasse alla di lui casa detta femmina, a pregarlo che si fosse portato nella stessa mattina in Albona, per ottenere la gracia suscritta, giacché doveva capitarvi uno per casa; questi però non venissero, attesoché la donna s’attrovasse spoglia del mandato precetivo della Giustizia.

A carta 210 teste non giurato depone, che nella mattina delli 26 aprile, fosse comparso alla di lui casa Martin Cicuta, Pozuppo di Portolongo, quale d’ordine di Nicolò Blasina Zuppano, l’intimasse che in pena di lire 25 dovesse il di lei marito attrovarsi, circa il mezzo giorno, in questa Terra, non l’indicasse però né il mottivo né cosa dovesse operare, ma bensì che l’asserisce che doveva capitare nella Terra stessa uno per casa.

A carta 217 d’altra giurata deposizione si rimarca, che anco li villici della Zuppania di Ripenda, in quella mattina delli 26 capitassero in questa Terra, e lui conteste anzi depone d’essere stato nella mattina stessa, circa le tre ore di sole, ordinato ad intervenirvi da Domenico Belaz Pozuppo, non l’indicasse però il mottivo, né da chi derrivata fosse la commissione.

A carta 215, 219, 220, da tre altre deposizioni, la prima non giurata e due con giuramento, consta che anco nella Zuppania di Dubrova fosse precorsa la circolare intimazione; depone il primo che nella sera delli 25 aprile fosse comparso alla di lui casa il Pozuppo Zuanne Stemberga ad intimarle, che d’ordine di Vicenzo Faraguna suo Zuppano, sotto la pena di lire 25, fosse capitato nella successiva mattina in questa Terra, attesoché fossero stati posti in priggione due Zuppani, le dicesse che doveva capitarvi uno per casa; continua a deponere d’essere anco

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comparso nella Terra medesima, dove esborsasse soldi dieci per sua porzione di tansa nelle mani d’Antonio Fara-guna, per far ricorso a Venezia, e ciò in prevenzione alla liberazione dei due Zuppani, e che seguisse la tansa per l’effetto sudetto nelle mani di detto Antonio; l’altro testimonio giurato depone d’essere stato nella mattina delli 26 ordinato dal Zuppano Domenico Knapich di doversi capitare, per esservi bisogno di gettare una tansa, stante la carcerazione delli due Zuppani e per far ricorso a Venezia, palesandole che già doveva intervenire uno per casa, indi lasciasse un simil ordine alla casa d’altra persona e poi subitto si stacasse; venissero quindi poi assunte le deposizioni delli contesti, a carta 221 e 223, convengono circa la comparsa di detto Knapich alle respettive loro case nella suscritta mattina; dall’altra, pure giurata, si rileva che in quella mattina, circa due ore di sole, venisse intimato dal predetto Stemberga Pozuppo, d’ordine del suo Zuppano, sotto la pena di lire 25, senza però indicarle il mottivo né ciò che avesse dovuto in essa Terra esseguire allorché fosse comparso.

A carte 214, 224, 225 e 226 quattro giurate deposizioni s’uniscono, che anco nella Zuppania di Schitazza fosse stata pratticata l’intimazione, affinché li villici fossero comparsi uno per casa in questa terra, depongono concordemente, che in quella mattina delli 26 capitasse alle respettive loro casa Zorzi Schiacar [probabilmente un soprannome] Pozuppo, quale l’intimasse, che d’ordine del suo Zuppano, sotto la pena di lire 25, dovessero passare in Albona, l’indicasse un pretesto, che dovessero portarsi poi al lavoro sopra una strada soggetta ad altra Zuppania, ma che poscia arrivati tutti quattro di compagnia in questo borgo, le venisse da persona svelato il pretesto et indi avvertiti, senza più oltre avvanzarsi, recedessero, come concorda la persona suscritta nel suo esame a carta 114.

A carta 232 altro giurato parimenti depone, che nella mattina delli 26 aprile circa l’ore due di sole, fosse capitato alla di lui abitazione il suo Zuppano di Rogozzana, Zuanne Blasina, a dirle che dovesse comparire nella medesima mattina in questa Terra, per addimandare in gracia a nobil homo Podestà la liberazione delli due retenti Zuppani, perché poi quando non le fosse stata accordata, vi fosse il divisamento di gettare una tansa per far ricorso a Venezia; continua a deponere, che nonostante però la liberazione delli due Zuppani, venisse gettata la tansa stessa e che lui per detto conto avesse esborsati soldi dieci per spedire un messo alla Dominante, e s’u-niforma la deposizione del testimonio non giurato a carta 112, nella quale si legge che anzi v’andasse Domenico Faraguna, indicato nell’essame a carta 215, e che esigesse la tansa, dessumendosi poi, che stante il di lui arrivo in Venezia, venisse a cotesto Eccelso Sacrario ressegnato il memoriale a nome dell’Università e popolo d’Albona, che Vostre Eccellenze si sono degnate d’unire alle ducali di commissione 2 maggio, a mio semplice lume.

Con la presente divota mia relazione averò /forse/ stancato la toleranza sempre clementissima di Vostra Serenità e di cadauno di Vostre Eccellenze, ma non poteva dispensarsi certamente la rettitudine de miei pensa-menti e la delicatezza di mia coscienza di non portare alla conoscenza della grandissima eccelsa autorità ogni circostanza, che nell’estesa dell’accurata inquisizione m’è risultata, nell’importanza d’un argomento premuroso ed interessante, che se d’un canto riguardava l’impegno di pressidiare con possente mano l’osservanza della legge Civran e di tutellare con l’esemplarità del castigo il decoro di chi pressiede nella publica rappresentanza, dall’altro era poi giusto, che le delinquenze a cognizione della Giustizia, dovessero comparire nella sua semplice verità e non colorite con sublimati ed enormi caratteri, che poi nella formazione più impegnata e sincera del processo non mi sono risultati, in vista di che meditai corrispondente alla giustissima intenzione di cotesto Eccelso Consiglio di tenere in sospesa la retenzione contro i colpevoli, sinché sia per derrivarmi dall’oracolo della publica sapienza un nuovo precetto, che sarà poi dalla mia sommessa dipendenza con studio di vigilanza e di zelo esseguito.

124

Haverò pertanto il conforto d’haver potuto supplire alla grave e spinosa mansione, con tutti i numeri d’un’intiera parità e sollecitudine, a fronte di due repplicati attacchi di febbre periodica recorente; né ebbero in oggetto le mie assidue applicazioni, che di servire all’eccelso comando, con quell’esatezza che è della pubblica volontà e che meritamente si conviene, allorché si tratta d’ogni publico affare e specialmente quando si versa sopra le sostanze e la vita dei sudditi. Grazie

Albona in publico servitio, li 4 settembre 1757

125

9.5 Gli abitanti di Albona

Analizzando le carte processuali ho elaborato questo schema degli abitanti di Albona e dintorni, che nel 1757 furono coinvolti nelle indagini del podestà e capitano di Capodistria Lorenzo Paruta, le per-sone sono raggruppante in base all’area di residenza e alla mansione, dove possibile ho indicato anche l’età al momento del processo e in alcuni casi il soprannome.

Il simbolo (t) accanto al nome indica che quel teste usufruì di padre Giupponi, che tradusse per la Giustizia. Q.m equivale a quondam, “figlio di” nel caso che il genitore sia deceduto.

9.5.1 La popolazione di città

Carica o ruolo Nome EtàPodestà Zuanne Bragadin -Cancelliere del podestàCancelliere del Consiglio cittadino

Antonio FrielliLodovico Dragogna (nipote di Giacomo)

--

Comandante Zammaria Zatton q.m Antonio 45Giudici del Territorio Nicolò Negri

Giacomo Dragogna 5857

Capo delle Cernide Zaccaria Dminich q.m Lorenzo 60Tamburo delle Cernide Biasio Zulliani q.m Biasio 61Caporal delle Cernide Domenico Gobich detto Mome 53Fante di sanità e soldato delle Cernide

Domenico Calavich [Colarich?] q.m Anzolo Coppe

40

Soldati delle Cernide Antonio Cattaro di Zuanne Domenico Dirindin q.m MattioGirolamo Ferbocovich Tommaso Rusich q.m Mattio detto BajaDomenico Vulacich [Vlacich?] q.m Gasparo detto Brighella

2032-

23

32Caporal dei BombardieriSargente dei Bombardieri

Nicolò Cattaro q.m. Z. Piero Zuanne Poldrugo q.m Giacomo

49 58

126

301 Le due pubbliche levatrici compaiono in un altro processo: ASV, Consiglio dei Dieci, Processi delegati a Capodistria, Albona, b. 2.

Nobili privi di titolo Domenico Coppe q.m Angelo Domenico Francovich q.m Vicenzo Nicolò Luciani q.m Nicolò Baldissera Manzoni q.m Gasparo Orazio Scampicchio q.m Z. Paolo Andrea Scampicchio q.m Vittorio

2433

71 555367

Conti Giacomo Battialla q.m Tommaso Tommaso Battialla q.m Tommaso

6225

Agente di Giacomo BattiallaServe in casa BattiallaServe il Conte Tommaso

Giacomo Furlan di Giacomo Domenico Tencich q.m Giacomo (t)Antonio Rudan d’Antonio

346018

Cittadino Alvise Negri q.m Z. Batta 46Callegher (calzolaio) Bortolo Dragogna q.m Zammaria 72Fabbri Zorzi Dusman q.m Zuanne

Domenico Dusman q.m Franco 6654

Sarti Antonio Dminich q.m Stefano Giuseppe Signorelli q.m Domenico

3626

Beccher (macellai) Zammaria Lucaz (in seguito Lucas) q.m Valentin Iseppo Barilovich q.m Andrea

5339

Armarolo Giacomo Manzoni q.m Zuanne 47Bettolini Valentin Lucaz q.m Valentin

Barbara Lucaz (moglie di Valentin) Zaccaria Dminich q.m Stefano Antonia ora Dminich (vedova Lucaz) Giacoma vedova di Domenico Signorelli

3733274058

All’Ospitale Marizza Donada Andrea Donada (suo figlio)

70-

Notaio pubblico ed archivista Zuanne Mercioli q.m Francesco 45Avvocato Zammaria Spizza -Medico condotto Domenico Antoni dottor Drazij -Pubbliche Levatrici301 Franceschina moglie di Francesco Dapas

Isabella moglie di Gasparo Lupettini-

-Bottega in Piazza Antonio Lorenzini q.m Ant. Manzev 42Persone influenti (non meglio identificate)

Zuanne Dragogna q.m Gasparo 56

127

Zuppania ZuppanoCugno (Cagne, Cugn, Cagn) Nicolò GlubonovichCere Mattio Zactila/ZattilaDubrova Vicenzo FaragunaMontagna Vicenzo ZuppanichPoglie Domenico VlacichPortolongo Nicolò BlasinaProdubas (Produbaz) Iseppo MicuglianRipenda Marinco ZuppicichRogozzana Zuanne BlasinaSanta Domenica Domenico KnapichSchitazza Gregorio RabazVetua Gregorio Rusich

Zuppania Pozuppo/iCugno -Cere Domenico Prodoglian

Dubrova Zuanne Bobach detto Stemberga Montagna -Poglie Domenico VlacichPortolongo Martin [Bastianich detto] Cicuta

Antonio Iuevonich (Ivecovich)Produbas Mattio Dundara Ripenda Domenico Belaz/BelusichRogozzana Simon ViscovichSanta Domenica -Schitazza Zorzi Schichev/Schiacar [forse un soprannome]

Gregorio/Ghergo Tomicich Vetua Marin Miletich detto Matecincich

9.5.2 La popolazione di campagna

128

Pieve Procuratore302

San Martino Belusich Mattio q.m ZuanneSanta Domenica Faraguna Andrea q.m SimonSanta Lucia Fonovich Piero q.m PieroSan Lorenzo in Produbas Lupetin Gasparo

Pieve Zuppanie PievanoPieve di San Lorenzo Produbas, Poglie, Rogozzana don Antonio Dusman Pieve di San Martino Cere, Cugno, Vetua don Tommaso Cergnul

d. Antonio StepancichPieve di Santa Domenica Santa Domenica, Ripenda,

Dubrovadon Antonio Giuresin

Pieve di Santa Lucia Schitazza,Montagna, Portolongo

don Giuseppe Cattaro

Zuppania Nome Età

Cugno (Cagn,Cugn) De Rossi Domenico detto Cussaz (t)Micuglian Domenico q.m Simon (t)Micuglian Marin di Domenico (t)

506730

Cere (Cave) Cergnul Mattio (Matte) q.m TommasoFaraguna Zuanne q.m Zorzi (t)Miletich/Milavic Domenico detto Giuresco q.m ZorziMiletich Martin detto Giuresco q.m Domenico (t)

30485058

Dubrova(Dabrocca, Dubrocca)

Bicich Zuanne q.m Zuanne (t)Bresaz Zuanne q.m Piero (t)Martincich Antonia/Domenica moglie di Zorzi (t)Zustovich Domenico q.m Mattiazzo (t)Zustovich Mattia moglie di Domenico (t)Antonio Faraguna fratello del Zuppano

3026505030-

Montagna - -

302 I Procuratori Faraguna e Fonovich, durante il Processo, si trovano a Venezia per seguire la causa in Consiglio di Quaranta.

129

Poglie Vlacich Domenico di Simon detto Testich (t)Vlacich Gasparo q.m Domenico (t)

4033

Portolongo Cragnaz Antonio q.m Marin (t)Cragnaz Gasparo q.m Domenico (t)Cragnaz Maria moglie di Gasparo (t) Ivecovich Zammaria q.m Franco (t)Zuliani (Zulliani) Biasio di Biasio

2568666036

Produbas Cobaicich Simon di Marin (t)Dminich Giacomo q.m Marin detto TerremotoDminich Lorenzo q.m Simon (t)[V]Lacich Matte q.m Marin (t)Viscovich Micula q.m Domenico detto CrostyViscovich Zammaria q.m Zuanne detto SturlaViscovich Zuanne q.m Mattio (t)Vlacich Antonio di Domenico (t)

5061636040456122

Ripenda Bersezan (Bercezan) Antonio q.m Antonio (t) 50

Rogozzana Siscal Sime q.m Giacomo (t) 72

Santa Domenica Mattio Clapcich (Clapsich) benestante -

Schitazza Bachiaz Stanissa q.m Franco (t)Batilana (Battellana) Domenico q.m Ive (t)Dundara Lorenzo q.m Marin (t)Dobrich Gregorio q.m Piero (t)Viscovich Mattio q.m Mattio (t)Zuppanich Martin q.m Zuanne (t)

524058555028

Vetua Scampichio Zuanne q.m MattioZuliani Domenico q.m DomenicoZuliani Elena moglie di MattioZuliani Zuanne di Mattio (t)

3547-

20

130

303 La località di Rogozzana è stata aggiunta a margine dopo “adiacenze di questa Terra”, ASV, Consiglio dei Dieci, Processi delegati a Capodi-stria, Albona, b. 6, c. 209.

Nome Luogo/Lavoro EtàCocot Domenico dettoCusincich q.m Bortolo (t)

colono Querenghi 40

Dusman Simonq.m Domenico (t)

colono Negri sotto la Torre 50

Giuricich Marcoq.m Giacomo

San Mauro sotto Albona 30

Milevoi Antonioq.m Martin (t)

Adiacenze di questa Terra (Rogozzana)303 26

Milevoi Domenicoq.m Martin (t)

Adiacenze di questa Terra 38

Milevoi Ive q.m Martin (t) Adiacenze di questa Terra 30

Da Fianona

Tonetti Pietro q.m Fiorin 44 anni

9.5.3 I funzionari di Capodistria ad Albona per il processo

Podestà e capitano di Capodistria

Lorenzo Paruta

Cancelliere del podestà e cap. di Capodistria

Francesco Bonaldi

131

La serie completa dei Podestà veneti di Albona e Fianona, compilata da Tomaso Luciani, pubblicata nel 1864 sulla rivista “Istria” dal Kandler e riportata, con alcune modifiche, da Sergio Cella in nota all’ottavo capitolo del suo libro “Albona” in “Histria nobilissima”; con alcune integrazioni da Netto Giovanni, “I reggitori veneti in Istria (1526-1797)” in Atti e Memorie della Società istriana di archeologia e storia patria, vol. 95 della raccolta (XLIII della N.Serie) Trieste, 1995, p.125-175

Podestà eletti dalla comunità di Albona

1420 – 1422 Caterino Barbo1422 – 1424 Nicolò Pizzamano1424 – 1425 Bernardo Gisi1425 – 1427 Zuanne Querini1428 – 1430 Girolamo Lombardi1430 – 1431 Antonio Morosini1432 – 1434 Marco Centani1434 – 1435 Giacomo Diedo

1436 – 1437 Francesco Querini1438 – 1440 Bernardo Foscarini1441 – 1443 Matteo Lion1443 – 1446 Gerolamo Renier1447 – 1449 Pietro Marcello 1449 – 1451 Marco Magno1451 – 1453 Lodovico Falier1454 – 1456 Andrea Diedo1457 – 1458 Molino Donà1458 – 1462 Francesco Bondulmier1463 – 1464 Girolamo Lombardo

Podestà inviati dal Maggior Consiglio

1464 – 1466 Francesco Michiel1467 – 1469 Francesco Venier1469 – 1471 Marino Gradenigo

9.6 Serie completa dei Podestà veneti di Albona e Fianona

132

1471 – 1474 Alessandro Lion1474 – 1475 Domenico Michiel1476 – 1477 Zuanne Longo1477 – 1479 Lodovico Marcello1479 – 1481 Antonio Contarini1482 – 1485 Giuseppe Lion1485 – 1488 Sebastiano Badoer1488 – 1490 Domenico Cappello1491 – 1493 Francesco Valier1493 – 1495 Lorenzo Loredan1496 – 1498 Pietro Gisi1499 – 1501 Alvise Bembo1502 – 1504 Alvise Giusto1505 – 1507 Zuanne Venier1508 – 1510 Filippo Minio1510 – 1512 Michele Foscarini1513 – 1515 Alvise Foscarini1516 – 1519 Urbano Bollano1519 – 1522 Giacomo Loredan1522 – 1524 G. Francesco Bragadin1525 – 1527 Marino Malpiero1527 – 1529 Francesco Morosini1530 - 1532 Marco Antonio Lolin1533 – 1535 Filippo Zeno1535 – 1537 Alvise Contarini1537 – 1540 Lorenzo Minio1540 – 1541 Girolamo Valier1541 - 1544 Giovanni Tiepolo1544 – 1546 Pietro Coppo304

1546 – 1549 Girolamo Marcello1549 – 1552 Nicolò Gritti1552 – 1554 Marco Dandolo1554 – 1556 Domenico Manolesso

304 Il Netto, op. cit., nel 1544 indica come Rettore Pietro Cocco.

133

1557 – 1559 Pellegrino Bragadin1560 – 1562 Paolo de Cavalli1562 – 1564 Zammaria Muazzo305

1565 – 1568 Angelo Muazzo1568 – 1570 Baldissera Trevisan1570 – 1572 Gerolamo Zantani1573 – 1575 Marco Venier306

1576 – 1578 Fantin Lippamano1578 - 1580 Giuseppe Diedo1580 – 1582 Marco Molin1582 – 1586 Francesco Grimani1587 – 1590 Alvise Muazzo1591 – 1593 Nicolò Semitecolo1593 – 1595 Marco Antonio Morosini1596 – 1599 Marino Molin1599 – 1601 Alvise Paruta1601 – 1603 Piero Grimani1604 – 1606 Girolamo Duodo1606 – 1608 Alvise Balbi1609 – 1611 Lorenzo Avanzago1612 – 1614 Pietro Alvise Barbaro1616 – 1617 Francesco Bollani1617 – 1619 Antonio Bragadin1620 – 1622 Orazio Benzoni

1623 – 1625 Vincenzo Briani1625 – 1627 Andrea Zane1627 – 1629 Antonio Diedo1630 – 1632 Angelo Dolfin1632 – 1634 Francesco Manolesso1635 – 1637 Francesco Trevisan1638 – 1640 Z. Francesco Pasqualigo1640 – 1642 Cesare Balbi

305 Muazzo o Mudazzo.

306 Il Netto, op. cit., indica Alvise Venier e non Marco Venier.

134

1642 – 1644 Andrea Balbi1645 - 1648 Marco Loredan1648 – 1650 Marin Boldù1651 – 1653 Zuanne Dolfin1654 – 1656 Lucio Balbi1657 – 1659 Nicolò Bembo1659 – 1661 Nicolò Dandolo1662 – 1664 Vincenzo Foscarini1664 – 1666 Andrea Balbi1666 – 1669 Giacomo Pisani1669 – 16721672 - 16741674 - 1676

Nicolò BadoerLodovico VetturiMarco Badoer

1677 – 1679 Bortolo Molin1680 - 1682 Angelo Orio, morto ad Albona1682 – 1684 Giulio Pasqualigo1685 – 1687 Lucio Balbi1687 – 1690 Andrea Priuli1690 – 1691 Alvise Barbaro, morto ad Albona1692 – 1694 Francesco Pasqualigo1694 - 1697 Angeli Balbi1697 – 1700 Francesco Pasqualigo1700 - 1702 Zan Battista Querini1702 – 1705 Girolamo Balbi1705 – 1708 Francesco Balbi1708 – 1710 Francesco Pasqualigo1710 – 1713 Alvise Bon1713 – 1715 Girolamo Balbi1716 – 1717 Marco Balbi1718 – 1721 Francesco Venier1721 – 1723 Marchiò Balbi, morto ad Albona1723 – 1726 Zuanne Corner1726 – 1728 Antonio Minio1728 – 1731 Zuanne Premarin1731 – 1734 Giulio Zane1734 – 1736 Ferigo Bembo

135

1736 – 1739 Francesco Nadal1739 – 1742 Nicolò Bon1742 – 1744 Francesco Bembo1744 – 1747 Bernardo Barbaro1747 – 1750 Zuanne Soranzo1750 – 1751 Zan Francesco Corner, morto ad Albona1751 – 1753 Nicolò Corner1753 – 1755 Pier Antonio Bembo

1756 – 1759 Zuanne Bragadin1759 – 1761 Diego Corner1761 – 1764 Pietro Soranzo1764 – 1767 Angelo Corner1767 – 1770 Santo Muazzo1770 – 1772 Giacomo da Mosto1772 – 1774 Anzolo Corner, morto ad Albona1774 Anzolo Maria Orio, vice podestà1774 – 1775 Alvise Corner, morto ad Albona1775 Anzolo Maria Orio, vice podestà1775 - 1777 Angelo Corner1777 – 1780 Carlo da Riva1780 – 1783 Saverio da Mosto1783 – 1785 Agostino Pizzamano1786 - 1788 Girolamo Soranzo1788 – 1791 Carlo da Riva1791 – 1793 Pietro da Mosto1794 – 1796 Giovanni Antonio Venier1796 - 1797 Giuseppe Priuli

136

Data Avvenimento

221 a.C. Gli istri entrano in contatto con i romani

177-178 a.C

Guerra dei romani contro gli istri. Caduta di Nesazio

129 a.C. Fondazione delle colonie di Pola e Trieste

16 a.C. Augusto porta all’Arsa il confine dell’Italia

324 d.C.Costantino divide l’Impero in quattro Prefetture e sposta il confine istriano alla Fiumara incorporando anche Tarsatica, l’odierna Rijeka

476 Caduta dell’Impero Romano d’Occidente

489- 539 Dominazione Ostrogota

539 Nascita dell’Esacrato di Ravenna

556-698 Scisma dei tre capitoli

751 L’Istria diventa territorio Longobardo

774 Inizio del dominio dei Franchi

778 Il duca Giovanni introduce il feudalesimo in Istria

804 Placito del Risano

932 Capodistria paga per prima un tributo annuo a Venezia

933 Pace di Rialto tra Venezia ed alcune città istriane

952 Il Friuli e l’Istria vengono infeudate al duca di Baviera

976 L’Istria passa al duca di Carinzia

1040 L’Istria diventa Margraviato dei Weimar

1077 L’Istria viene ceduta agli Eppenstein

307 Ho compilato questo schema rifacendomi alle fonti consultate; in particolare Bari L., “L’Istria ieri e oggi. Note geografiche, storiche ed etniche”, Edizioni <Italo Svevo>, Trieste, 1984; Alberi D., “Istria storia, arte e cultura”, Lint, S. Dorlingo della Valle (TS), 1997-2001; per gli ultimi avvenimenti della storia contemporanea le aggiunte sono mie.

9.7 Cronologia istriana 307

137

1096 Alcuni crociati diretti in Terrasanta passano dall’Istria

1102 Burcardo di Moosburg nuovo Signore dell’Istria

1112 L’Istria passa agli Sponhheim

1145 Pola e Capodistria alleate di Venezia

1149Alcune città della costa istriana diventano tributarie di Venezia.I dogi si fregiano del titolo di “duces totius Istriae”

1173 L’Istria passa agli Andechs

1208 Marchese d’Istria Ludovico duca di Baviera

1209La Contea di Pisino passa ai conti di Gorizia.Il patriarca di Aquileia Volchero insignito del Marchesato d’Istria

1267 Guerra tra Capodistria e Parenzo, che si dà a Venezia

1269-83Dedizione delle città di Umago, Cittanova, Capodistria, Isola e Pirano a Venezia

1291 Pace di Treviso tra Patriarca di Aquileia e Venezia

1331 Pola si dà in sudditanza a Venezia

1332 Dedizione di Valle a Venezia

1348 Ribellione aperta di Capodistria al patriarca di Aquileia

1374 La Contea di Pisino passa alla Casa d’Austria

1379-81La guerra di Chioggia tra Genova e Venezia coinvolge l’Istria.Battaglia di Pola

1381 Pace di Torino

1420Fine del potere temporale dei patriarchi di Aquileia.Venezia domina l’Adriatico.Dedizione del comune di Albona a Venezia

1537 Prime incursioni uscocche in Istria

1599 Celebre resistenza della città di Albona alle orde uscocche

1617Pace di Madrid Terminano le incursioni uscocche

138

1664 Venezia rifiuta di acquistare la Contea di Pisino

1757 Si svolge ad Albona il processo per insurrezione

1789 Rivoluzione francese

1797 Cade la Repubblica di Venezia

1797 L’Istria veneta entra nei possedimenti degli Asburgo

1805Pace di PresburgoL’Istria diventa Ducato del Regno d’Italia

1809 Insurrezione dell’Istria contro i francesi

1810 L’Istria diventa Provincia Illirica dell’Impero francese

1815Congresso di ViennaL’Istria viene assegnata all’Austria

1848 Pola diventa Piazza di Guerra e porto principale della Marina Austro-ungarica

1861 Dieta del Nessuno

1876 Costruzione della ferrovia Trieste-Pola

1899Assemblea dei comuni a Trieste per denunciare la politicaaustriaca

1914-18 Prima guerra mondiale

1918 L’Istria diventa provincia italiana

1921 Fascismo al potere in Italia

1939-45 Seconda guerra mondiale

1947Pace di ParigiL’Istria passa alla Jugoslavia. Esodo degli italiani

1954Memorandum di LondraLa “zona b” è data in amministrazione provvisoria alla JugoslaviaLa “zona a”, intorno a Trieste, rientra a far parte dell’Italia

1974 La Jugoslavia dichiara, unilateralmente, la “zona b” territorio nazionale

139

1975Accordo di Osimo, trattato di pace tra Italia e Jugoslavia.L’Istria vienne divisa tra le due Repubbliche di Slovenia e di Croazia e il confine amministrativo tra le due repubbliche jugoslave viene fissato sul Dragogna

1989Crollo del potere comunista, convocate libere elezioni nelle Repubbliche della Federazione Jugoslava. Sia Croazia che Slovenia scelgono un governo pluripartitico

1990 Inizo di aspri contrasti tra il governo serbo e quello croato

1991Slovenia e Croazia si proclamano Repubbliche sovrane indipendenti.Il confine sul Dragogna diventa confine di Stato.La Croazia entra in guerra con la Serbia e l’Istria croata ne viene coinvolta

1995 Con gli accordi di Dayton termina il conflitto

1996 La Slovenia firma l’Accordo di Associazione e Stabilizzazione, contestualmente presenta la domanda di adesione all’Unione Europea

1998 La Slovenia apre i negoziati di adesione alla UE

2001 La Croazia firma l’Accordo di Associazione e Stabilizzazione

2003Il Consiglio Europeo approva la domanda di adesione della Slovenia. La Croazia presenta la domanda di adesione all’UE

2004 La Slovenia diventa paese membro dell’UE

2005La Croazia apre i negoziati di adesione, entra in vigore l’Accordo di Associazione e Stabilizzazione

20071 gennaio la Slovenia adotta come moneta ufficiale l’Euro21 dicembre la Slovenia entra nello spazio di Schengen, cessano i controlli alla frontiera tra Italia e Slovenia per i cittadini dell’UE

2008 La Slovenia presiede per la prima volta l’UE

2013 1 luglio ingresso della Croazia nell’UE

140

9.8 Carta dell’Istria 308

308 In Starec R., “Mondo popolare in Istria”, op. cit., p.25.

141

309 La cartina del territorio di Albona è opera mia.

9.9 Carta del contado di Albona 309

142

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152

ALBONA. UN CENTRO URBANO DELL’ISTRIA VENETA.

AUTORELia De Luca

PRESENTAZIONEClaudio Povolo

EDITOREUnione Italiana

Comunità degli Italiani «Giuseppina Martinuzzi» Albona

PER L’EDITOREDaniela Mohorović

REDATTORETullio Vorano

DESIGN E IMPOSTAZIONE GRAFICALeo Knapić

STAMPAVetva Graph

N. Tesle b.b., 52223 Raša - Arsia

TIRATURA300 copie

La stampa di questo volume è stata realizzata grazie al contributo del Ministero degli Affari Esteri Italiano in applicazione delle convenzioni stipulate tra il MAE e l’UI

ISBN 978-953-97919-5-5