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Scheda monografica di sintesi: Distribuzione dell’energia elettrica D D i i s s t t r r i i b b u u z z i i o o n n e e e e t t e e l l e e r r i i s s c c a a l l d d a a m m e e n n t t o o A cura di: Via Mirasole 2/2 40124 Bologna (BO)

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Scheda monografica di sintesi: Distribuzione dell’energia elettrica

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A cura di:

Via Mirasole 2/2 40124 Bologna (BO)

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LA CORRENTE ELETTRICA[1] La storia dell'elettricità prende avvio dalla particolare proprietà di una sostanza, l'ambra, proprietà che sembra fosse già nota sin da tempi assai remoti, tanto che si narra che le donne siriane la impiegassero per togliere pagliuzze e foglie secche dalle loro vesti. Ma il primo uomo che effettuò razionali osservazioni sull'ambra sembra sia stato Talete di Mileto, considerato dalla tradizione come uno dei "sette savi" e riconosciuto quale iniziatore della filosofia, nonché primo astronomo dell'antichità. Talete osservò che l'ambra, strofinata con altra sostanza in grado di riscaldarsi, acquistava la singolare proprietà di attirare piccoli, leggerissimi oggetti; proprio dal nome greco dell'ambra, "electron" questa sua proprietà verrà poi denominata "elettricità". La corrente elettrica è data dallo spostamento degli elettroni liberi da un corpo carico negativamente ad un corpo carico positivamente, quindi è un movimento di cariche elettriche. Quando si parla di corrente, normalmente ci si riferisce alla sua "intensità", ossia al quoziente fra la carica totale attraversante una determinata superficie ed il tempo impiegato per questo attraversamento. L'unità di misura dell'intensità di corrente è l'ampere (A) e la sua definizione è piuttosto complessa, in quanto deriva dall'azione elettrodinamica scoperta dal grande scienziato francese Andrè Maria Ampère. Si dice che una corrente costante di 1A è quella corrente che, attraversando un conduttore rettilineo e filiforme, di sezione infinitesima, e ritornando ad un secondo conduttore, eguale e parallelo al primo alla distanza di 1 metro nel vuoto, origina fra i due conduttori una forza di 2x10-7 N (Newton). Questa forza è quindi proporzionale al quadrato della corrente ed inversamente proporzionale al quadrato della distanza fra i due conduttori. La corrente elettrica può essere "corrente continua" o "corrente alternata". La corrente continua La corrente elettrica è denominata "continua" quando il suo andamento è unidirezionale, con polarità fisse (positiva e negativa) che non vengono mai variate. Il flusso della corrente continua è stato fissato, per convenzione, nel senso del moto delle cariche positive, quindi contrario al reale movimento degli elettroni. Una vera corrente continua è quella generata dalle batterie ma, agli effetti pratici, viene considerata continua anche la corrente proveniente dalle dinamo o da altri dispositivi, anche se in realtà presentano delle fluttuazioni periodiche. La corrente continua è stata la prima ad essere usata e per diverso tempo la si è considerata come unica impiegabile. Dato che la tensione continua è difficilmente variabile nei suoi valori (ad esempio non può essere innalzata od abbassata in modo semplice tramite i trasformatori, come avviene invece per la corrente alternata), la trasmissione a distanza di energia mediante corrente continua non è stata economicamente consigliabile, ma, negli ultimi tempi, la si sta riprendendo in considerazione. Il passaggio della corrente continua in un mezzo materiale dà sempre luogo ad una trasformazione energetica, che ha come conseguenza quattro effetti: termico, chimico, fisiologico e magnetico. 1. Effetto termico: produzione di riscaldamento che può giungere sino all'incandescenza del conduttore (effetto Joule). 2. Effetto chimico: scomposizione, attraversandola, di ogni soluzione acida, basica o salina (elettrolisi e elettrochimica).

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3. Effetto fisiologico: contrazione muscolare, che si manifesta in tutti gli organismi, detta "scossa elettrica". 4. Effetto magnetico: intorno ad un conduttore percorso da corrente si origina un campo magnetico che fa deviare un ago magnetico posto nelle sue vicinanze. Attualmente la corrente continua trova applicazione nella trazione ferroviaria, negli impianti di bordo, elettrochimici e cartari. La corrente alternata La corrente elettrica è denominata "alternata" quando il suo andamento è periodico, ossia le sue polarità vengono periodicamente cambiate, ad ogni suo ciclo (onda intera), secondo un ritmo denominato frequenza, fluendo alternativamente nei due sensi opposti. La frequenza è il numero di cicli compiuti in un secondo e viene misurata in hertz (Hz), in onore dello scienziato tedesco Heinrich Rudolf Hertz: quando parliamo di una frequenza di 50 Hertz, che è quella della tensione che giunge alle nostre case, significa che la tensione e la corrente alternata compiono il loro ciclo 50 volte al secondo. Le frequenze comprese fra 16 e 400 Hz sono dette industriali, quelle fra 20 Hz e 20 kHz sono frequenze musicali o basse frequenze. Nella radio, le frequenze dai 3kHz in poi generano onde elettromagnetiche che vanno dai 3kHz della VLF (very low frequency) ai 300GHz della EHF (extra high frequency). Quando l'andamento nel tempo ha la forma di una sinusoide (forma più usuale) si dice che la corrente, o la tensione, sono "sinusoidali" con una successione di cicli uguali fra loro ed i suoi valori minimo (negativo) e massimo (positivo) sono eguali in valore assoluto. L'intervallo di tempo necessario per compiere un ciclo completo, si chiama "periodo", ed in questo tempo si ha un'onda positiva ed un'onda negativa. Ogni metà ciclo, durante il quale la corrente scorre nello stesso senso, prende il nome di "alternanza" o "semionda". La rappresentazione più efficace di una grandezza alternata (tensione o corrente) è quella "vettoriale". Tracciata una sinusoide, si prende un vettore con origine sull'asse delle ascisse di lunghezza eguale al valore massimo della grandezza alternata e si dispone, all'inizio, orizzontalmente verso destra. Lo si fa poi ruotare intorno al suo punto di origine in senso "antiorario", con velocità uniforme, tale da fargli compiere un giro in corrispondenza di un periodo, ossia nello stesso tempo che dalla grandezza alternata impiega per compiere un’oscillazione completa. In questo modo si ottiene che, in ogni istante, la proiezione verticale del vettore è eguale al valore della grandezza alternata dato dalla sinusoide per l'istante corrispondente. Quindi, dopo un quarto di periodo il vettore avrà descritto un quarto di circonferenza, ossia un angolo di 90°, e sarà in posizione verticale, avendo proiezione massima e positiva. Dopo mezzo periodo sarà a 180°, cioè orizzontale, ma in senso opposto, e la sua proiezione verticale sarà nulla, corrispondentemente al passaggio per lo zero della sinusoide. Dopo tre quarti di periodo il vettore si troverà a 270°, ossia verticale verso il basso, con proiezione verticale massima negativa, e dopo un periodo avrà descritto tutta la circonferenza, cioè 360°, e tornerà alla posizione iniziale, con proiezione verticale nulla. Quindi il vettore ruotante, con la sua proiezione verticale, ci dà, nelle varie posizioni, tutti i valori possibili della grandezza alternata, rappresentandola completamente. Di seguito è riportata la rappresentazione di un periodo della corrente alternata

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La corrente alternata può essere del tipo monofase o polifase (bifase, trifase, esafase). Nelle nostre case è monofase (solo 2 fili), negli impianti industriali è quasi sempre trifase (3 fili). Nella pratica, quello che interessa di una corrente e di una tensione alternata, non è il valore massimo, ma il valore di essa da cui dipende lo sviluppo di energia, sia termica che meccanica; quindi si è stabilito di indicare normalmente il "valore efficace" (I e V maiuscole), corrispondente al valore di quella corrente continua che produrrebbe lo stesso effetto termico. Per corrente e tensione di forma sinusoidale, il "valore efficace" I o V = 0,7 Imax o Vmax. Naturalmente anche il passaggio di una corrente alternata in un mezzo materiale dà sempre luogo ad una trasformazione energetica, che ha come conseguenza quattro effetti: termico, chimico, fisiologico e magnetico, che però si manifestano in modo diverso rispetto alla corrente continua.

• Effetto termico: si manifesta anche per la corrente alternata, ma, dato che il valore della corrente varia continuamente, il calore sviluppato non è costante, pur essendo rispettata in ogni istante la legge di Joule (R • I²).

• Effetto chimico: quando la corrente è alternata, ad ogni elettrodo si sviluppano alternativamente i due ioni di segno opposto, che normalmente si ricompongono; quindi con la corrente alternata non è possibile l'elettrolisi e la separazione dei componenti della soluzione.

• Effetto fisiologico: la corrente alternata è ancora più pericolosa, per il nostro organismo, di quella continua, perché con il suo rapido alternarsi provoca una fortissima contrazione muscolare ed un arresto della circolazione sanguigna.

• Effetto magnetico: il campo magnetico prodotto da una corrente continua è continuo, quello prodotto da una corrente alternata è alternato e quindi un filo percorso da una corrente alternata non produrrà nessun movimento, o al massimo una leggera vibrazione, su di un ago magnetico posto all'interno del campo.

Sfasamento e potenza elettrica Due grandezze alternate (ad es. tensione e corrente) si dicono "in fase" se entrambe raggiungono nello stesso istante il valore massimo ed il valore minimo. Si dicono invece "sfasate" se raggiungono i valori minimo e massimo in istanti diversi.

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Quando sono sfasate, si definisce "in anticipo" quella grandezza che inizia la sua alternanza positiva mentre l'altra è ancora negativa, e "in ritardo" l'altra. Per determinati valori dello sfasamento, si dice che due grandezze sono in "quadratura" quando sono sfasate di un quarto di periodo, e in "opposizione" quando sono sfasate di mezzo periodo. Lo sfasamento fra le due grandezze alternate viene espresso in angoli. Una differenza di fase di 90°, ad esempio, significa che un'onda ha raggiunto il suo massimo valore un quarto di ciclo prima (anticipo) o dopo (ritardo) l'altra. L'angolo di sfasamento nella tecnica non viene normalmente espresso in gradi, ma con il coseno dell'angolo stesso, cos(φ), e si chiama "fattore di potenza". Questo "sfasamento" è provocato dalle caratteristiche del circuito, che può contenere i diversi elementi, ossia resistenza, induttanza e capacità. La potenza elettrica P di un determinato circuito elettrico è data da:

P = V • I da cui V = P/I e I = P/V dove, per la corrente continua, V è il valore della tensione elettrica interessante il circuito, e I la corrente elettrica che percorre il circuito; per la corrente alternata, V ed I saranno invece i valori "istantanei" della corrente e tensione, poiché essi variano istante per istante; inoltre nel caso di corrente alternata occorre introdurre anche il valore del cos(φ), che dipende dallo sfasamento fra corrente e tensione che provoca una diminuzione di potenza; quindi la formula per corrente alternata monofase sarà esattamente:

P = V • I • cos(φ) cioè che la potenza di una corrente alternata, comunque sfasata, è data dal prodotto dei valori efficaci della tensione e della corrente, moltiplicati per il "coseno" dell'angolo di sfasamento. Quindi quando non vi è sfasamento, ossia angolo zero, si avrà:

P = V • I • 1 ma se, ad esempio vi è uno sfasamento di 50°, si avrà invece:

P = V • I • 0,643 e quindi una potenza inferiore. Se poi la corrente alternata è trifase allora la formula varia ancora e sarà:

P = V • I • cos(φ) • √3 Se V e I sono costanti nel tempo, la potenza P corrisponde all'energia assorbita dal circuito nell'unità di tempo. Il lavoro speso per lo spostamento di una carica elettrica è quindi proporzionale all'entità della carica ed alla differenza di potenziale fra gli estremi dello spostamento. La corrente elettrica I corrisponde al flusso delle cariche elettriche nell'unità di tempo, e la tensione elettrica V alla differenza di potenziale fra gli estremi. Corrente continua o corrente alternata? Verso il 1860 scoppiò la "guerra" fra i sostenitori della corrente continua e quelli della corrente alternata. La corrente alternata era nota già da tempo: i primi elementari generatori, come quelli di Pixii e di Dal Negro, erogavano corrente alternata che veniva poi, tramite appositi dispositivi collettori o commutatori, raddrizzata e convertita in corrente continua, come analogamente avveniva per le dinamo. Fra i principali assertori della corrente alternata troviamo Sebastiano Ziani de Ferranti, Nicola Tesla e George Westinghouse e fra quelli della corrente continua William Thomson Lord Kelvin e Thomas Alva Edison.

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Gli argomenti a favore della corrente continua sono, all'inizio, in buona parte giustificati. Uno dei principali ostacoli all'adozione della corrente alternata risiedeva nella difficoltà della sua utilizzazione per la mancanza di motori in corrente alternata funzionali, affidabili e con una buona coppia di spunto, mentre erano già disponibili motori in corrente continua che rispondevano a questi requisiti. La fabbricazione delle dinamo, infatti, raggiunge un buon livello qualitativo prima della fine degli anni 1870; le macchine elettriche costruite dal 1880 al 1890 generalmente erogavano tensioni fra 50 e 100V, e venivano impiegate quasi esclusivamente per impianti di illuminazione e per trattamenti galvanici. Comunque anche la dinamo, unico generatore in quel periodo, presentava problemi che sono stati via via risolti: 1. un primo problema era rappresentato dal surriscaldamento e la perdita di

rendimento dovuti alle correnti parassite; 2. il secondo era dovuto al fatto che si doveva ricorrere, per il suo azionamento, alle

macchine a vapore di allora, di tipo orizzontale e a basso numero di giri, che doveva essere aumentato per permettere un buon funzionamento delle dinamo. Questo avveniva attraverso trasmissioni moltiplicatrici a cinghia, fonti di complicazioni meccaniche e di notevoli perdite di energia.

Un parziale miglioramento dell'accoppiamento macchina a vapore-dinamo lo si ha nel 1881 con la macchina a vapore Armington Sims, 175CV a 1350 giri/min, che viene installata nel 1882 nella centrale per l'illuminazione elettrica di Pearl Street a New York, ma una svolta decisiva viene data, nel 1884, dall'ingegnere inglese Sir Charles Algernon Parsons con la sua turbina a vapore con accoppiato un turbogeneratore a corrente continua a 18.000 giri/min. Un altro argomento a sfavore della corrente alternata risiedeva nei problemi della trasmissione a distanza dati dalla reattanza, che non esisteva per la corrente continua, le cui linee di trasmissione risultavano più economiche. Ma gli argomenti a favore della corrente continua, naturalmente salvo le applicazioni in cui essa è, ancora oggi, indispensabile, venivano mano a mano a cadere. Ci si rese presto conto che l'impiego della corrente continua era valido fino a quando la distribuzione dell'energia elettrica era limitata a distanze di poche centinaia di metri, tanto che le centrali di produzione erano realmente al "centro" della loro zona di distribuzione. Questa condizione si rivelava inaccettabile con il diffondersi delle utenze, comprendendo che, se si intendeva utilizzare economicamente l'energia elettrica, essa doveva essere necessariamente generata laddove erano disponibili le fonti di combustibile o quelle idrauliche, per poi essere trasportata nelle zone di utilizzazione. Ma per superare distanze notevoli, senza incorrere in forti perdite, era indispensabile trasportare tensioni elevate che poi dovevano essere abbassate prima di giungere agli utilizzatori; l'unica strada aperta per il futuro era quindi quella della corrente alternata. La strada della corrente alternata divenne percorribile quando si verificarono alcuni fondamentali progressi nelle macchine destinate alla corrente alternata, il più determinante dei quali è la scoperta del campo magnetico rotante da parte di G.Ferraris, nel 1885. Galileo Ferraris, già nel 1855, pubblicò uno studio razionale e completo per dimostrare l'utilità, per il trasporto a distanza dell'energia elettrica, dell'uso del trasformatore, inventato, in forma molto primitiva, nel 1840 da Antoine Philibert Masson e Louis Francois Clement Breguet , ma sino ad allora snobbato.

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In particolare, il trasformatore è un apparecchio statico, ossia senza organi in movimento, basato sul fenomeno dell'induzione elettromagnetica. Esso riceve una corrente alternata sotto una data tensione alternata e la restituisce sotto un'altra tensione di valore anche molto diverso. E' fondamentalmente costituito da un avvolgimento elettrico "primario" che riceve l'energia elettrica producendo un flusso magnetico nel nucleo in lamierino di ferro, sul quale si trova l'avvolgimento "secondario" nel quale la tensione e la corrente sono prodotte solo dalla variazione del flusso nel nucleo magnetico. Se il numero di spire è minore nel primario si ha un trasformatore elevatore, viceversa si ha un trasformatore riduttore. I trasformatori hanno potenze di ogni tipo: si va dai colossi impiegati nelle stazioni in alta tensione di oltre 1 milione di kVA, ai piccoli trasformatori di qualche VA, e da tensioni di 400 kV sino a pochi V. Essendo possibile, mediante i trasformatori, variare molto facilmente il valore della tensione alternata, la trasmissione a distanza dell'energia elettrica mediante corrente alternata si è imposta per la sua praticità ed economicità, limitando le perdite lungo le linee ad alta tensione. Inoltre, attualmente, sia i motori che i generatori in corrente alternata sono costruttivamente più semplici di quelli in corrente continua. In conclusione, con l'affermazione della corrente alternata fu possibile cominciare a produrre e distribuire energia elettrica su larga scala, destinandola anche ad altre utilizzazioni al di fuori dell'illuminazione (elettrolisi, galvanoplastica, elettrometallurgia).

MOTORI ELETTRICI [7] I motori elettrici sono formati da uno statore (parte fissa) e da un rotore (parte rotante) intorno ad un alimentazione, dalla potenza nominale, dalla potenza massima, dall’andamento della coppia motrice al variare del numero dei giri, dalla possibilità di regolazione e dal rendimento energetico. I rendimenti variano in base alla potenza: essi sono compresi tra 0.60 e 0.70 per le piccole potenze (< 01 kW), tra 0.75 e 0.90 per quelle medie e tra 0.90 e 0.98 per quelle grandi. I diversi valori di rendimento sono imputabili più a motivi di carattere commerciale (ai motori di piccola potenza si richiede una certa economicità) che di carattere tecnico. Le tipologie di motori elettrici più diffusi sono: 1. i motori in corrente continua e, 2. quelli asincroni per corrente alternata. I primi sono schematicamente identici alla dinamo e trovano utilizzazione in casi molto particolari, a causa del tipo di alimentazione richiesta. La loro reperibilità sul mercato è limitata alle piccole potenze (< 2 kW). I motori asincroni sono invece concettualmente identici agli alternatori. Sono in genere classificati in base al tipo di corrente (monofase o trifase), alla tensione di funzionamento (220 o 380 V) e al numero di poli (p), il quale caratterizza la costruzione interna del motore. Il numero di giri sviluppato è pari a:

n = 0.95 * n0 = 3000/p [giri/min] ove n0 è nota come velocità di sincronismo. Per potenze inferiori a quella massima, il regime n viene mantenuto per qualsiasi carico, anche a vuoto; se invece il carico supera i valori massimi, la macchina tende a fermarsi.

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I motori a corrente continua sono più flessibili e regolabili, in termini di numero di giri n, di potenza erogata e di coppia. Normalmente sono dotati di un convertitore (inverter), che effettua la trasformazione della corrente alternata in continuo. Tale aspetto è economicamente svantaggioso per le medie e alte potenze, in quanto gli inverter sono costosi (i rendimenti di conversione superano il 90-95%). Nei motori a corrente alternata la regolazione del numero di giri, che di solito è fisso, avviene con la variazione della frequenza o del numero di coppie di poli: nel primo caso si usa un convertitore di frequenza, nel secondo occorre avere un motore con diversi gruppi di polarità inseriti singolarmente, in modo tale da variare n a “gradini”.

LE CENTRALI ELETTRICHE DI PRODUZIONE. Excursus storico e previsioni future [1]

Nel 1887 a Deptford, Londra, viene realizzata la prima centrale elettrica a corrente alternata. Sempre nel 1887 nasce anche la prima centrale elettrica italiana: è quella di Isoverde che sfrutta le acque del fiume Gorzente ed è destinata ad alimentare Genova ma è ancora a corrente continua. Solo nel 1892, la società Ganz & Co., di Budapest, costruisce la centrale di Tivoli per l'alimentazione di Roma, che utilizza un salto di 50 metri del fiume Aniene ed è dotata di sei alternatori, ognuno da 230kW. Nel 1900 le centrali di produzione dell'energia elettrica dilagano in tutto il mondo e le loro potenze aumentano continuamente, grazie ai perfezionamenti degli alternatori e delle turbine idrauliche, a vapore ed a gas ad essi accoppiate. Con la seconda guerra mondiale vengono distrutti moltissimi impianti di produzione di energia elettrica, tanto che alla fine del conflitto gli impianti in Europa, nell'Unione Sovietica e nel Giappone sono pressoché dimezzati: per diversi anni si deve ricorrere al razionamento dell'elettricità. Soltanto gli USA vedono un incremento della loro produzione che passa dai 160 miliardi di kWh del 1940 ai 230 miliardi di kWh del 1945. Dopo il 1950 gli impianti termoelettrici prendono sempre più il sopravvento sugli impianti idroelettrici che cominciano ad avere compiti di regolazione e di completamento per reti alimentate soprattutto da centrali termoelettriche. Acquistano quindi maggiore importanza gli impianti di pompaggio, che impiegano due serbatoi a quote diverse; nei periodi di basso carico gli impianti termoelettrici alimentano anche una macchina idraulica reversibile (funzionante con flusso d'acqua in due sensi) che agisce come una pompa per riempire il serbatoio più in alto che, nelle ore di maggiore richiesta, si svuota e riempie quello più in basso attraverso la stessa macchina reversibile che ora funziona da turbina. Fra il 1950 ed il 1960 nascono i primi impianti termonucleari: la prima vera centrale elettrica nucleare, di soli 5000kW sorge in Unione Sovietica nel 1954, alla quale segue, nel 1956, la prima centrale nucleare europea, a Calder Hall, in Inghilterra, da 90MW. Gli impianti nucleari si diffondono, ed alla fine del 1970, in tutto il mondo, sono installate centrali termonucleari per 200 milioni di kW, pari al 20% della potenza elettrica già installata. In Italia nel 1990 la potenza installata (ossia potenza totale degli impianti di produzione) era di 57.448 migliaia di kW di cui: 1. la percentuale di energia prodotta con impianti termoelettrici era dell’82%, 2. la percentuale di energia prodotta con impianti idroelettrici e geotermici era del

18%, 3. mentre era nulla l’energia prodotta con impianti termonucleari.

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Nel prossimo futuro, per gli impianti termoelettrici esisterà sempre il problema dell'approvvigionamento e del trasporto dei combustibili gassosi, che per mare avverrà mantenendo i combustibili sotto forma liquida, tenendoli a bassissima temperatura, mentre su terra sarà affidato a gasdotti sempre più grandi, con pressioni più elevate, con i quali si supereranno facilmente distanze di oltre 5000 km. Le centrali nucleari avrebbero dovuto rappresentare il futuro della produzione, ma molti dubbi sono ora sorti sulla loro sicurezza e quindi non si può scommettere molto sulla loro ulteriore diffusione. Una soluzione potrebbe venire dai reattori a fusione, che rispetto a quelli a fissione presentano il vantaggio di non dar luogo a depositi di scorie radioattive. Il combustibile fossile, il carbone, sarà sempre più caro, per motivi politici ed economici, mentre gli impianti idroelettrici potranno essere potenziati, soprattutto in molte regioni sottosviluppate, ed è probabile anche una maggior diffusione di piccoli impianti eolici e solari, soprattutto per scopi di riscaldamento e di condizionamento.

STORIA DELLE LINEE DI TRASMISSIONE [1] Con il diffondersi delle centrali elettriche di produzione sorgono anche le prime linee di trasmissione dell'energia elettrica, che sono state oggetto di numerose ricerche e sperimentazioni. Il primo tentativo di trasmettere la corrente elettrica mediante conduttori ad una certa distanza (circa 6km) sembra sia dovuto a William Watson e George Graham nel 1747, ma notizia sicura è il trasporto di 400A a 25V, operato tramite un cavo della lunghezza di 1 chilometro, da Hippolyte Fontaine della ditta Alliance per l'alimentazione in corrente continua di una pompa, esposto nel giugno del 1873 all'Esposizione Mondiale di Vienna. Fra il 1882 ed il 1886 Marcel Deprez, esegue una serie di tentativi di trasmissione di energia elettrica. Nel primo tentativo, nella linea fra Missbach e Monaco, lunga 57 km, impiega conduttori in ferro, con una tensione di esercizio di 1343V, raggiunge un rendimento del 39%. Con l'ultimo tentativo per la linea Creil e Parigi di 56 km, con tensione elevata a 6290V, usa conduttori in rame, ottenendo un rendimento del 50%; tutti questi esperimenti, effettuati impiegando corrente continua, trovano però un notevole ostacolo nelle grandi perdite di energia dovute all'effetto Joule. Fra Torino e Lanzo viene stesa, nel 1884, una linea a 2kV di 40km trasportante 20kW, alimentata da "generatori secondari", praticamente dei trasformatori; le macchine sono installate nei locali dell'Esposizione Internazionale di Torino, tenutasi quell'anno, e mediante la suddetta linea si provvede all'accensione di alcune lampade installate nella stazione di Lanzo. L'inizio dell'uso del trasformatore, soprattutto dopo che Ferraris ne ha sviluppato la teoria, ha, come è intuibile, una grandissima importanza nello sviluppo della trasmissione dell'energia elettrica. I trasformatori vengono perfezionati, nel 1885, dai tecnici Otto Titusz Blathy, Miska Déri e Karoly Zipernoswky della società Ganz di Budapest; nel 1887 appare, per merito di E.Thomson della General Electric, il primo trasformatore in olio, mentre, nel 1890, M.O.Dolivo Dobrowlskij idea il primo trasformatore trifase. Nel 1886 si ha il primo esempio di rete cittadina a corrente alternata, a Buffalo, e la BBC trasporta, nel 1891, 100kW con una tensione trifase di 15 kV per 75 km, dalla centrale sul fiume Neckar di Lauffen a Francoforte sul Meno, raggiungendo un rendimento del 70%. Sempre nel 1891, con l'impiego di trasformatori, viene realizzata la linea ad alta tensione da Tivoli a Roma, lunga 35 km.

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All'inizio del 1900 l'energia elettrica non è ancora ben sfruttata per i problemi connessi alla sua trasmissione e distribuzione, poiché la tensione massima disponibile è di soli 15-20 kV, valore che permette di raggiungere distanze di circa 15-20 km. Solo la diffusione dell'impiego del trasformatore, permettendo l'innalzamento della tensione, consentirà il raggiungimento di maggiori distanze, ma la cosa diviene possibile non immediatamente, dato che occorrerà attendere che siano disponibili cavi, isolatori e materiali vari che possano resistere a tensioni elevate. Fra il 1910 ed il 1920 aumentano le tensioni prodotte (si arriva a 130.000 V) ed il trasporto dell'energia elettrica raggiunge distanze di circa 150km, ma esiste una grande confusione circa la frequenza impiegata, che va da 16 2/3 Hz a 60 Hz, e la tensione dopo l'ultima trasformazione va da 100 a 300 V. Nel 1936 la linea con la maggiore tensione di esercizio, 287 kV e della lunghezza di 425 km è quella di Boulder Dam in Colorado. Durante la seconda guerra mondiale, in Europa, più del 50% delle linee elettriche, e degli impianti di produzione dell'energia elettrica, vengono distrutti e di conseguenza anche lo sviluppo trasmissione di energia si interrompe. Fra il 1960 ed il 1970 si assiste ad un nuovo grande progresso nella trasmissione di energia a grande distanza: nel 1961 nell'Unione Sovietica entrano in funzione le prime linee a 500 kV, adottate poi negli USA, nel 1965. Nel 1962 nell'Unione Sovietica si effettuano esperimenti su una linea a 800 kV in corrente continua, con installazione alle due estremità di due impianti per la conversione continua-alternata e viceversa, e negli USA, seguendo la stessa tecnica, si installano due linee a 750 kV continui, che collegano da nord a sud la costa del Pacifico. Nel novembre del 1965 però il colossale black-out che oscura le province nord-orientali degli USA, getta acqua sul fuoco dell'entusiasmo per le grandi interconnessioni, poiché di fronte ai grandi vantaggi che esse possono offrire si ha il pericolo di far mancare energia su regioni vastissime. Le tensioni di linea continuano ad aumentare e nel 1976 in Russia, fra Kasachstan e Tambow, entra in funzione una linea a 1500 kV che trasporta ben 6000 MW per circa 1000 km. Ma nel prossimo futuro si prevede che il trasporto dell'energia elettrica incontrerà sempre più problemi, anche per l'occupazione e l'ingombro dello spazio da parte delle linee aeree. Si impiegheranno tensioni superiori a 1,5 milioni di volt, sempre che l'effetto corona lo permetta (l'effetto corona è così chiamato perché crea attorno ai conduttori di una linea elettrica una corona luminosa, dovuta alla ionizzazione dell'aria intorno al conduttore, quando la tensione supera la rigidità dielettrica dell'aria; quest'effetto, fonte di perdite e di disturbi, può essere evitato limitando la tensione) e si ricorrerà probabilmente alla tensione continua, che non presenta problemi di stabilità statica della rete e di sovratensioni di manovra: con tensioni continue di 1,5 milioni di volt si potranno trasportare su una linea 10 milioni di kW ad una distanza di 3000 km. I cavi di energia Naturalmente, soprattutto per quanto riguarda le linee interrate, il progresso nella costruzione dei cavi gioca un ruolo molto importante. Similmente a quanto è accaduto per la telegrafia, anche le prime linee di distribuzione di energia sono di limitata lunghezza e quasi esclusivamente aeree: sino al 1880 i cavi sotterranei sono impiegati solo per scopi di illuminazione elettrica.

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In definitiva sono cavi assai simili a quelli telegrafici, impiegabili per tensioni di esercizio sino a 110 V in corrente continua, con conduttori in rame ed hanno solitamente una sezione sino a 300 mm². I cavi per il trasporto di energia elettrica, però, presentano altri problemi. Infatti, la potenza elettrica P, che il cavo deve trasportare, è data dal prodotto della tensione V e della corrente I

P = V • I e la perdita di potenza Pk che si verifica nel cavo, dovuta alla sua resistenza R è data da:

Pk = I² • R = P²/ I² • R Da ciò deriva che all'aumentare della potenza da trasportare, si ha un aumento della perdita di potenza Pk, sotto forma di calore, e per ovviare all'inconveniente si deve elevare la tensione di esercizio V nello stesso rapporto della potenza, e/o ridurre in modo corrispondente la resistenza. Sin dall'inizio i costruttori di cavi si trovano di fronte a precisi criteri ai quali sottostare se vogliono trasmettere potenze elettriche di un certo rilievo su lunghi tratti, ossia: sopportabilità di elevate tensioni e piccola resistenza, cioè grande sezione; criteri che, naturalmente, sono validi ancora oggi. I cavi di energia si differenziano quindi immediatamente da quelli telegrafici e i costruttori li considerano, soprattutto per quanto riguarda la loro produzione, come appartenenti a due ben distinte categorie. Nel 1885 si trovano sul mercato cavi trifasi per 5,6 kV, i cui conduttori sono isolati con juta e gomma; per ottenere un migliore sfruttamento della sezione, E.Guilleaume propone, nel 1893, i cavi a settore, che hanno un buon successo anche se, a causa di perdite di linee di campo, non possono superare i 30 kV di esercizio. Verso la fine del secolo appaiono i primi cavi che sostituiscono il costoso isolamento in juta e gomma con la carta che, grazie a procedimenti di paraffinazione e di impregnazione con oli speciali, viene avvolta in molti strati sottili, garantendo un ottimo isolamento. Naturalmente, aumentando i valori della tensione e della potenza da trasportare, anche i cavi sono stati adeguati alle sempre maggiori esigenze. Le realizzazioni più significative del settore sono:

• nel 1902 la società Land-und Seekabelwerke di Colonia fornisce cavi per 50 kV di esercizio e 100 kV di prova;

• nel 1923 la Pirelli di Brugherio realizza un cavo con isolamento ad olio in pressione per 130 kV;

• nel 1951 la svedese Liljeholmens Kabelfabrik realizza un cavo a 380 kV; • nel 1954 la stessa Società svedese arriva a 425 kV; • nel 1975 viene posato un cavo sottomarino lungo 140 km a 500 kV, per il

collegamento fra la penisola dello Jutland e la Norvegia. IL TRASPORTO E LA DISTRIBUZIONE DELL'ENERGIA ELETTRICA [1,

8] Il sistema elettrico di una centrale, di qualsiasi tipo sia l'impianto, comprende i collegamenti elettrici e le apparecchiature elettriche poste fra i morsetti di uscita dell'alternatore e le sbarre dalle quali partono le linee di trasporto. Dai morsetti di uscita dell'alternatore si dipartono le sbarre di collegamento con un trasformatore, detto "trasformatore di macchina", che ha il compito di elevare la tensione erogata dall'alternatore sino al valore richiesto per la rete di trasmissione.

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L'uscita del trasformatore di macchina, mediante un apposito collegamento aereo, si allaccia, attraverso due sezionatori e l'interruttore di macchina o di parallelo, alle sbarre della stazione elettrica, dalle quali partono le sbarre di trasporto dell'energia elettrica. Accanto ad ogni centrale si trova una stazione elettrica, che eleva il valore della tensione erogata dagli alternatori e provvede ad inviarla alle linee di trasporto per la sua distribuzione. La stazione elettrica provvede ad elevare la tensione erogata dagli alternatori, che può andare dai 6 ai 20 kV, perché, se si volesse trasportare elevate potenze alle basse tensioni di uscita degli alternatori, mantenendo le perdite di potenza e le cadute di tensione entro limiti accettabili, si sarebbe costretti ad impiegare conduttori con una sezione enorme. Basta fare un piccolo calcolo, ricordando la formula di Ferraris P = V * I * cos(•). Se si dovesse trasportare l'energia prodotta da due gruppi di 320.000 kW ognuno, con la tensione dell'alternatore di 15 kV, si avrebbe una corrente I (con cos(•) = 1) di 640.000 : 3 x 15 (3 trattandosi di trifase), il che corrisponde a 24.663 A. Se invece, ferma restando la potenza di 320.000 x 2 kW, la tensione fosse di 380 kV, si avrebbe 640.000 : 3 x 380, ossia soltanto 97 A. Tenendo conto che gli odierni conduttori possono trasportare circa 2 A per millimetro quadro, occorrerebbe per il primo caso un conduttore di 12.330 millimetri quadri di sezione, (circa 126 mm di diametro) mentre per il secondo caso sono sufficienti 487 millimetri quadri (circa 25 mm di diametro). Nelle moderne stazioni elettriche, che sono situate nei pressi di ogni centrale di produzione dell'energia elettrica, si trovano quindi i trasformatori elevatori, gli interruttori e sezionatori dei trasformatori e delle linee di partenza. Le linee aeree sono di solito trifasi e realizzate con conduttori nudi, sospesi ad isolatori e sorrette, a seconda della tensione, da pali in legno o cemento armato, o da tralicci, o torri di acciaio. I conduttori delle linee di trasporto ad alta tensione sono normalmente formati da un'anima centrale in corda di acciaio zincato sulla quale sono avvolti uno o due strati di fili in lega di alluminio (95%) più magnesio e silicio. L'anima di acciaio è dimensionata per resistere alle sollecitazioni meccaniche possibili, come azione del vento, al peso dovuto alla neve, alle formazioni di ghiaccio e, naturalmente, al peso stesso dei conduttori. In queste linee ad alta tensione si impiega l'alluminio anziché il rame, benché quest'ultimo abbia una conducibilità decisamente migliore, esclusivamente per questioni di costo. Gli isolatori, che si trovano sulle linee elettriche, hanno il duplice compito di sorreggere i conduttori e di isolarli elettricamente nei confronti del sostegno metallico, e quindi devono rispondere a requisiti di elevata resistenza meccanica e di altrettanto elevato potere di isolamento. Questi isolatori, per le linee di trasporto ad alta tensione, sono in porcellana o in vetro temperato, hanno una forma di campana con la parte inferiore molto allargata che ha diverse scanalature circolari per impedire il trascinamento dell'acqua. Sulle linee non esiste un solo isolatore, ma diversi, collegati uno all'altro, tanto più numerosi quanto più alta è la tensione della linea. Per sapere approssimativamente quale è il valore della tensione della linea, si devono contare gli isolatori e moltiplicare per 15; se ad esempio gli isolatori sono 10, la tensione sarà di 10x15 = 150 kV.

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I sostegni per le linee ad alta tensione sono dei tralicci metallici con montanti collegati fra loro mediante traverse per una perfetta stabilità e robustezza. I due tipi fondamentali di questi tralicci sono quello a "pino" e a "delta". Nel traliccio a "pino", alla struttura portante sono fissati, a varie altezze con una distanza tale da garantire un ottimo isolamento in aria fra un conduttore e l'altro, dei bracci (3 perché in presenza di tensioni trifasi), destinati a sorreggere i conduttori. Il traliccio a "delta" ha la parte superiore a forma di Y con una trave orizzontale alla quale vengono sospesi i conduttori. In questi tralicci, al di sopra dei tre conduttori di linea, si trovano uno o due cavi; si tratta di cavi in acciaio che sono collegati a terra in prossimità di ogni traliccio e sono chiamati "funi di guardia". Il loro compito è quello di proteggere i conduttori di linea contro le sovratensioni di origine atmosferica, ossia contro le scariche dovute ai fulmini: sono praticamente i parafulmini delle linee elettriche. Tutto il complesso delle linee che provvedono al trasporto dell'energia elettrica ad alta tensione si chiama "rete primaria di trasporto". La rete italiana dell'ENEL, in base alla tensione di esercizio, ha la seguente suddivisione:

• rete a 380 kV, che comprende le grandi linee di trasporto e di interconnessione della penisola;

• rete a 220 kV, che comprende le linee che costituiscono la struttura a maglia della rete di trasporto;

• rete a 130 kV, che comprende le linee minori con funzioni di distribuzione dell'energia alle grandi e medie utenze industriali, che assorbono potenze dell'ordine di migliaia di kW, derivandosi direttamente dalle linee di trasporto e provvedendo in proprio alla costruzione delle cabine di trasformazione dell'alta tensione in media e bassa tensione.

Le grandi linee di trasmissione italiane sono a 220 kV per una lunghezza di circa 11.300 km e a 380 kV per circa 8.230 km; è previsto, per il prossimo futuro, un aumento a 1000 kV; esistono poi altre linee a 120÷150 kV per 31.158 km, a 40÷80 kV per 6.084 m. Si riporta, a titolo di esempio, la mappa della distribuzione dell’energia elettrica in Provincia di Bologna, suddivisa per tensione di esercizio [8].

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La massima potenza che può essere trasportata da una linea ha un limite nelle perdite che si verificano, dovute all'effetto Joule nei conduttori, nella temperatura dei conduttori e nelle variazioni di tensione, ossia nella stabilità di tutto il sistema. La potenza trasportabile cresce all'incirca con il quadrato della tensione e diminuisce in ragione inversa alla lunghezza della linea: quindi per migliorare il rendimento della trasmissione occorre elevare il più possibile la tensione. A titolo di esempio, una linea con tensione di 220 kV e della lunghezza di 400 km, può arrivare a trasportare circa 150 MW. Una rete elettrica ben funzionante non è la cosa più semplice del mondo: infatti le sue funzioni non sono solo quelle, relativamente facili, di trasportare l'energia dalle centrali di produzione alle stazioni di smistamento, ma anche quella di realizzare il collegamento fra diversi punti per creare una vera e propria "maglia" che possa garantire al massimo la continuità del servizio, ossia l'impossibilità di interruzioni di lungo tempo. Un dato che deve essere mantenuto il più possibile costante è la tensione che, a causa della caduta di tensione su linee e trasformatori dipendente dalla corrente, deve essere regolata nel tempo: questo viene ottenuto mediante apposite apparecchiature, i variatori di tensione. Il sistema di distribuzione inizia a valle degli impianti di produzione e di trasporto dell'energia elettrica; tale sistema, con le sue stazioni e cabine di trasformazione ed una fittissima rete di linee a media e bassa tensione, provvede ad alimentare gli utenti. Le linee di distribuzione a media tensione hanno tensioni di esercizio di 10, 15, 20 e 30 kV, che verranno unificate a 15 o 20 kV; sono destinate all'alimentazione di utenze la cui potenza va da qualche decina di kW in su (piccole industrie) che devono provvedere in proprio alla costruzione della cabina di trasformazione media/bassa tensione. Le linee di distribuzione a bassa tensione sono quelle relative alle piccole utenze, soprattutto quelle domestiche e sono quindi quelle che arrivano alle nostre case: nel

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territorio italiano il totale della lunghezza delle linee di distribuzione a media e bassa tensione è di oltre 878.000 km. La tensione delle linee a bassa tensione è unificata in 220 V per il monofase, che è il valore presente nel nostro impianto domestico, e di 380 V per il trifase. Le linee di distribuzione a media e bassa tensione possono essere aeree o interrate: la seconda soluzione è più costosa, ma a volte viene preferita per motivi di sicurezza o di disponibilità di spazio. L'alta tensione trasportata dalle linee a 220 e 380 kV viene abbassata alla periferia di grandi centri abitati da parte delle sottostazioni terminali di trasformazione, le quali alimentano la rete di distribuzione a media e bassa tensione. Nello schema elettrico di una sottostazione di trasformazione si individuano una linea in arrivo ad alta tensione, ognuna con il proprio interruttore ad alta tensione, con i grandi isolatori verticali, e i sezionatori, un sistema di sbarre ad alta tensione al quale possono essere collegati uno o più trasformatori, un trasformatore che abbassa l'alta tensione, all'uscita del quale si ha un altro sistema di sbarre a media o bassa tensione, dal quale partono le linee di distribuzione. Nel nostro paese le sottostazioni primarie AT/MT (alta tensione/media tensione) sono 1263, tutte telecomandate; quelle secondarie MT/BT (media tensione/bassa tensione) sono 281.484. Quindi, a partire dall'uscita del trasformatore alta/bassa o alta/media tensione inizia il sistema di distribuzione. Alla stazione primaria di trasformazione, alla quale arriva la linea ad alta tensione, ad esempio a 220 kV, sono collegate, ad anello, le cabine di distribuzione che costituiscono l'anello primario. Le cabine abbassano la tensione a valori fra 10 e 30 kV, con la quale alimentano la rete secondaria e le cabine di trasformazione. Le cabine di trasformazione sono quelle disseminate in città che abbassano ulteriormente la tensione a 380 V trifase e a 220V monofase per le nostre case. Al livello inferiore della cabina sono visibili i trasformatori, entrambi con ingresso a 10 kV, uno con uscita 380 V trifase e l'altro a 220 V monofase, con relativo quadretto di controllo e comando. Al livello superiore sono situati i dispositivi interruttori e sezionatori e le uscite delle due linee a 380 V e 220 V.

L'ELETTRICITÀ NELLE NOSTRE CASE [1, 2] La linea con tensione di 220 V monofase proveniente dalla cabina di trasformazione arriva alle nostre case. All'ingresso di casa, di solito esternamente all'appartamento, nello scantinato, o all'ingresso del palazzo, si trova subito un interruttore generale che ha due scopi: il primo è quello di togliere l'alimentazione a tutto l'appartamento per motivi di sicurezza quando si deve intervenire sull'impianto, il secondo è quello di limitare l'assorbimento di potenza, grazie al dispositivo automatico che lo fa scattare quando si supera la massima potenza assegnata per contratto. Subito dopo l'interruttore generale si trova il contatore elettrico, che indica l'energia elettrica assorbita dall'appartamento, e sulla base della sua indicazione viene poi fatturato l’importo da pagare. Dopo il contatore inizia l'impianto. Solitamente in anticamera si trovano degli interruttori di protezione, ognuno dei quali sovrintende ad un certo piano o settore della casa: essi, in caso di anomalia, come sovraccarichi di corrente o corto circuiti, intervengono prima dell'interruttore generale, togliendo l'alimentazione al settore da loro controllato.

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Dopo gli interruttori di settore parte una coppia di fili che fanno il giro di tutto l'appartamento, mentre nelle varie stanze sono presenti delle derivazioni che vanno agli interruttori che fanno accendere le lampade al centro della stanza o alle prese, alle quali possiamo collegare gli utilizzatori che ci servono. La tensione alternata presente nella casa ha un valore di 220 V ed una frequenza di 50 Hz. La corrente alternata che percorre i fili del nostro impianto dipende dalla potenza degli utilizzatori che adoperiamo:

P = V x I, da cui I = P / V, ossia la corrente è data dalla potenza divisa per la tensione. Per semplicità possiamo tralasciare il cos(•) ammettendo che non ci siano sfasamenti fra la corrente e la tensione. Se si accende una lampadina con potenza di 40 Watt, si avrà una corrente di 40/220 = 0,181818 ampere, ma se si inserisce un aspirapolvere con potenza di 1000 Watt, si avrà una corrente di 1000/220 = 4,545454 ampere. Quando l’interruttore generale, tarato per la maggior parte degli usi domestici a 3000 Watt (3 kW), ossia per una corrente di 3000/220 = 13,6 ampere, scatta, significa che si ha, in quel momento, acceso troppi utilizzatori e che si è superato il valore di taratura dell'interruttore. L'interruttore scatta anche quando si verifica un "corto circuito", ossia quando i due fili dell’impianto sono in diretto contatto fra di loro, come può accadere quando si logora il cordone del ferro da stiro, o con una presa o una spina difettosa, o quando inavvertitamente vengono messi in contatto. Nel punto di contatto si sprigiona una scintilla e la scarica può bruciare il filo o fondere una parte della spina, perché in quell'istante la corrente ha raggiunto valori elevatissimi; se non intervenisse l'interruttore staccando l'alimentazione, potrebbe bruciare tutto l'impianto e scatenare un incendio. Chiaramente la potenza degli utilizzatori che si adoperano ha un aspetto anche economico: infatti quello che il contatore segna, e che poi viene conteggiato nella bolletta della luce, è l'energia elettrica assorbita (consumata) dalla casa. L'energia elettrica non è altro che la potenza moltiplicata per il tempo e viene calcolata in kilowattora, ossia in 1000 watt per ora. Se nel giro di 24 ore si lascia accesa una lampada da 60 watt per 4 ore, la lavatrice da 600 watt ha lavorato per 2 ore, lo scaldabagno elettrico da 1000 watt è rimasto inserito per 5 ore, quel giorno si ha consumato 60x4 + 600x2 + 1.000x5 = 6.440 wattora ossia 6,440 kilowattora (kWh). Regolamentazione delle tariffe per l’energia elettrica in Italia In Italia le tariffe dell'energia elettrica sono regolamentate dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas (AE). La deliberazione AE n. 228/01 del 18 ottobre 2001, modificata dalla n. 262/01 del 15 novembre 2001 ha stabilito i nuovi criteri, oggi in vigore, che distinguono le opzioni in:

• opzioni di TRASPORTO: comprende il costo del servizio di trasmissione, distribuzione, misura, fatturazione e gestione dei clienti. Tale servizio viene reso dal Distributore a parità di condizioni, ai clienti vincolati e liberi.

• opzioni di VENDITA: comprende il costo di generazione di energia elettrica. Nel mercato vincolato il servizio di vendita viene reso dal Distributore in base a prezzi amministrati dall'AE; il Distributore ha facoltà di offrire opzioni

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speciali "di vendita" ai clienti vincolati. Nel mercato libero, invece, tale servizio viene reso dal Trader a prezzi liberamente concordati con i Clienti.

La normativa stabilisce che ciascuna azienda distributrice di energia elettrica sottoponga ogni anno all'AE, entro il 30 settembre, le opzioni tariffarie che intende applicare alla propria clientela nell'anno successivo. I vincoli fissati dalla AE sulle opzioni tariffarie e sui relativi ricavi sono sottoposti a verifica da parte dell'Autorità stessa. In caso di superamento dei limiti prefissati, è prevista la restituzione dell'eccedenza ai clienti; in tal caso i criteri di restituzione sono gli stessi sia per i clienti vincolati che liberi. Le aziende distributrici di energia elettrica devono definire almeno un’opzione tariffaria base per ciascuna delle tipologie di clienti indicate dall'AE:

• Clienti per usi diversi dalle abitazioni in bassa e media tensione • Illuminazione pubblica in bassa e media tensione • Clienti in alta tensione.

L'unica eccezione a questa regola riguarda gli usi domestici, le cui tariffe, denominate D2 per i "residenti" fino a 3 kW e D3 per tutti gli altri domestici, sono direttamente stabilite dall'AE. Le aziende distributrici possono però offrire, facoltativamente, alla propria clientela altre opzioni tariffarie in aggiunta alle opzioni base. Tali opzioni sono denominate dall'AE "opzioni ulteriori" per la clientela usi domestici e "opzioni speciali" per la restante clientela non domestica. Anche queste opzioni tariffarie ulteriori e speciali devono essere convalidate dall'AE. I clienti possono scegliere, tra le opzioni disponibili, quella che ritengono più conveniente. Ogni bimestre, le aziende distributrici di energia elettrica adeguano in aumento o in diminuzione, i prezzi di tutte le tariffe ai clienti vincolati in base ai criteri predefiniti dall'AE. Tali criteri tengono conto delle variazioni del cosiddetto "costo di produzione" dell'energia elettrica, in parte determinato dal costo dei combustibili.

EMISSIONI DI CAMPI ELETTROMAGNETICI [3, 7, 8] Attualmente sono disponibili molti studi sugli effetti dei campi elettromagnetici sulla salute umana, ma l’impressione è che ci sia molta cautela nell’esprimere giudizi definitivi sui loro risultati. In particolare non esiste uniformità di vedute sui presunti danni “a lungo termine”, vale a dire la presunta associazione tra esposizioni prolungate a campi di debole intensità e l'insorgenza di patologie rare, in particolare la leucemia infantile. Infatti nonostante non siano stati trovati legami diretti tra cancerogenicità ed emissioni dei campi elettromagnetici, si aspettano altre evidenze scientifiche prima di trarre conclusioni, di divulgare notizie allarmanti ma soprattutto di approvare misure restrittive e normative mirate. Tuttavia il mondo tecnico-scientifico concorda sulla pericolosità alle esposizioni a campi magnetici intensi (> 5000 µT). Di seguito vengono riportate due fonti distinte, che affrontano l’argomento delle emissioni dei campi elettromagnetici: il primo è più recente ed è stato redatto dall’Enel, il secondo invece è stato redatto dall’Arpa dell’Emilia-Romagna. Si può notare che nonostante venga da entrambi analizzato principalmente lo stesso studio, condotto dal National Institute of Environmental Health Sciences (NIEHS) degli Stati Uniti e ripreso dall’OMS, si evidenzia un atteggiamento diverso ed un’interpretazione soggettiva della definizione “possibile cancerogeno” attribuita al campo elettromagnetico dal NIEHS: l’Enel esclude in modo quasi definitivo ogni legame tra la leucemia e le emissioni dei campi elettromagnetici, l’Arpa prende atto della mancanza attuale di prove scientifiche in merito, ma non esclude la possibilità che

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questo legame causa-effetto possa emergere dagli studi futuri ed in corso e dai relativi dati. Effetti sulla salute [3] Gli effetti dei campi elettromagnetici sulla salute umana sono sostanzialmente riconducibili a due ampie categorie: 1. EFFETTI ACUTI O A BREVE TERMINE, che si manifestano come stimolazioni

del sistema nervoso e visivo allorché la densità di corrente indotta nelle cellule supera la soglia di stimolazione (> 100 mA/m2). Sono effetti ben accertati e documentati che si verificano per campi molto più intensi di quelli riscontrabili nella vita quotidiana (> 5.000 µT) e che costituiscono la base per raccomandazioni a carattere protezionistico elaborate da autorevoli organismi internazionali competenti.

2. IPOTESI DI EFFETTI A LUNGO TERMINE dei campi magnetici, ossia la presunta associazione tra esposizioni prolungate a campi di debole intensità e l'insorgenza di patologie rare, in particolare la leucemia infantile. L'esistenza di un nesso di casualità tra l'esposizione ai campi magnetici e l'insorgenza di tali patologie tumorali, non è tuttavia dimostrata dalle attuali conoscenze scientifiche.

Gli studi del mondo scientifico in materia di campi elettromagnetici sono di conseguenza orientati ad accertare l'eventuale esistenza di tale nesso di casualità per gli effetti a lungo termine. I primi studi sono degli anni '50 e da allora a oggi sono stati prodotti più di 12.000 lavori di cui circa 3.000 solo a partire dal 1995. I più recenti lavori sono:

• Canada 1999. McBride e altri (Am. J. Epidemiol.) hanno effettuato indagini epidemiologiche su 399 casi con 399 controlli e misure di campi elettrici e magnetici effettuati nelle stanze da letto e monitoraggio continuo dell'esposizione personale. I risultati evidenziano nessuna relazione tra le misure dei campi elettromagnetici e i rischi di leucemia.

• USA 1999. NIEHS (National Institute of Environmental Health Sciences) ha presentato al Congresso USA le conclusioni di 6 anni di studi e indagini condotti su oltre 600 pubblicazioni. Il rapporto fa seguito al documento del GdL che nel luglio 1998 definiva i campi elettromagnetici come "possibile cancerogeno". Lo studio evidenzia deboli associazioni epidemiologiche e che la mancanza di evidenze di studi di laboratorio fornisce soltanto un supporto scientifico marginale all'ipotesi che l'esposizione ai campi elettromagnetici causi un qualche danno alla salute. NIEHS conclude che tali risultanze sono insufficienti per giustificare normative aggressive quali standard stringenti o programmi di interramento di linee elettriche, precisando che dovrebbero peraltro essere incoraggiate misure di riduzione dell'esposizione che siano di basso costo e sicure, ivi compresa l'educazione del pubblico e delle comunità al fine della riduzione delle esposizioni.

• Gran Bretagna 1999. Nel dicembre 1999 sono stati pubblicati i risultati del più grande studio epidemiologico (coordinato da Sir Richard Doll) mai condotto sulla leucemia infantile (2.226 casi e altrettanti controlli). Lo studio ultimo in ordine di data conclude che non si riscontra nessuna associazione tra l'esposizione ai campi elettromagnetici e l'insorgenza di tumori recitando testualmente: "We found no evidence that magnetic fields associated with the electricity supply increase the risks of childhood leukemia, malignant brain (or other central nervous system) tumours, or any other childhood cancer."

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• Organizzazione Mondiale della Sanità. Le autorità di tutela che agiscono per conto dell'OMS (IRPA/INIRIC - ICNIRP) concludono che "attualmente non c'è alcuna evidenza convincente circa effetti cancerogeni di tali campi e questi dati non possono essere usati come base per sviluppare linee guida per l'esposizione" per i possibili effetti a lungo termine. Gli stessi organismi hanno riconfermato nel 1998 i livelli di riferimento già adottati per gli effetti acuti di 100 µT per il campo magnetico e 5 kV/m per il campo elettrico.

• In Italia antecedentemente a tali studi, l'ISS ha fornito nel 1995 e nel 1998 valutazioni sul rischio relativo (RR) di leucemia attribuibile all'esposizione a campi elettrici e magnetici generati dalle linee elettriche (RR=1 significa nessun rischio).

In particolare, nel 1998 il rischio relativo è stato ottenuto tramite metanalisi (valutazione complessiva delle indagini epidemiologiche disponibili) ottenendo un valore compreso tra 1.2 e 1.57 (nel 1995 era 2.1) concludendo che il numero di nuovi casi di leucemia in Italia dovuti all'esposizione ai campi è di 0.5 - 1.3 /anno (nel 1995 erano 2.5/anno). Alla luce pertanto degli ultimi studi citati il potenziale fattore di rischio già di per sé molto basso tenderebbe a ridursi ulteriormente.

EFFETTI SANITARI DEI CAMPI ELETTROMAGNETICI [8] Premessa La valutazione dei rischi sanitari dei campi elettromagnetici è un processo estremamente complesso, sia per il grande numero di pubblicazioni scientifiche molto eterogenee e quasi sempre non esaustive che afferiscono alla tematica, sia per il carattere multidisciplinare della tematica stessa. Rispetto alle valutazioni di singoli ricercatori o di gruppi specialistici (ad esempio di biologi, o fisici, o epidemiologi), che pure abbondano in letteratura, assumono quindi particolare rilevanza le valutazioni espresse da commissioni e gruppi di lavoro interdisciplinari, sia perché un'analisi collettiva consente di confrontare e contemperare giudizi che altrimenti comporterebbero inevitabilmente un notevole grado di soggettività, sia perché in queste sedi collegiali confluiscono competenze diverse, come quelle biologiche, mediche, epidemiologiche, fisiche e tecnologiche. Gruppi di studio sono stati costituiti da diversi governi nazionali e organizzazioni internazionali; tra queste ultime rivestono particolare importanza l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e la Commissione Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni Non Ionizzanti (ICNIRP). Quest’ultima ha emanato nel 1998 delle linee guida per la protezione dei lavoratori e della popolazione dall'esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici nell'intervallo di frequenze tra 0 Hz (campi statici) e 300 GHz. Un'analisi dei documenti prodotti dalle diverse commissioni cui si è fatto cenno mostra una sostanziale convergenza nelle loro conclusioni. Un loro approfondito confronto, alla luce delle accresciute conoscenze scientifiche intervenute nel tempo trascorso tra la pubblicazione dell’uno o dell’altro, richiederebbe uno spazio eccessivo rispetto all'esigenza di sintesi di queste note. Ciò considerato, si farà riferimento nel seguito prevalentemente ai documenti prodotti dall’OMS. Quest'ultima ha avviato nel 1996 un Progetto Internazionale CEM (campi elettromagnetici), che esplicitamente prevede tra le sue attività la revisione critica della letteratura scientifica sugli effetti biologici dell'esposizione a campi elettromagnetici. Nell'ambito del progetto, l'OMS cura anche la pubblicazione di note informative sui diversi aspetti delle problematiche connesse ai campi elettromagnetici; queste note,

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regolarmente tradotte in Italiano a cura dell'Istituto Superiore di Sanità sotto il titolo di "Promemoria", sono disponibili al pubblico anche sulla rete Internet (www.who.int/peh-emf/). Ad esse si farà prevalentemente riferimento nei paragrafi seguenti per le valutazioni di sintesi della letteratura. A queste valutazioni sembra comunque opportuno far precedere alcuni criteri fondamentali universalmente adottati dalla comunità scientifica e più volte ribaditi dall'OMS. Criteri fondamentali di valutazione * Soltanto gli studi scientifici accreditati possono essere inclusi nella letteratura scientifica di riferimento. Come accreditati si intendono gli articoli pubblicati su riviste che prevedano un vaglio critico preventivo da parte di esperti di riconosciuta competenza (il cosiddetto processo di peer review). Possono anche essere inclusi, previo giudizio di valore, rapporti di istituti nazionali o internazionali di riconosciuto prestigio; * le valutazioni sui diversi effetti biologici o sanitari devono basarsi sull'insieme dei lavori scientifici pertinenti, e non sui dati di singole ricerche; * i risultati degli studi (soprattutto quelli biologici o epidemiologici, caratterizzati da grandi variabilità) dovrebbero essere confermati da repliche indipendenti delle indagini, prima che si possa parlare di effetti documentati. Ciò non toglie, ovviamente, valore a nuovi risultati, che possono avere il significato di indicazioni talvolta importanti e di stimolo per ulteriori ricerche; * è fondamentale la distinzione tra effetti biologici ed effetti sanitari. Questo aspetto è stato più volte precisato dall’OMS, che nel suo Promemoria n.182 Campi elettromagnetici e salute pubblica. Proprietà fisiche ed effetti sui sistemi biologici così definisce i due effetti: * Un effetto biologico si verifica quando l’esposizione alle onde elettromagnetiche provoca qualche variazione fisiologica notevole o rilevabile in un sistema biologico. * Un effetto di danno alla salute si verifica quando l’effetto biologico è al di fuori dell’intervallo in cui l’organismo può normalmente compensarlo, e ciò porta a qualche condizione di detrimento della salute. Si rimanda allo stesso Promemoria per ulteriori considerazioni in merito. Campi elettrici e magnetici a frequenza estremamente bassa (ELF) Il Promemoria dell'OMS n. 205 Campi elettromagnetici e salute pubblica: campi a frequenza estremamente bassa (ELF) fa esplicito riferimento, per la valutazione dei possibili effetti sanitari a lungo termine, ad un ampio rapporto prodotto nel 1998 dal National Institute of Environmental Health Sciences (NIEHS) degli Stati Uniti. Rimandando per maggiori dettagli al testo completo del rapporto NIEHS, disponibile anche sulla rete Internet (www.niehs.nih.gov/emfrapid/) si riporta di seguito il testo pertinente del promemoria citato. Nel giugno 1998, il NIEHS ha convocato un gruppo di lavoro internazionale per una revisione critica dei risultati della ricerca. Il gruppo di lavoro, usando i criteri stabiliti dall'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (International Agency for Research on Cancer, IARC), ha concluso che i campi ELF debbano essere considerati come un "possibile cancerogeno per l'uomo". "Possibile cancerogeno per l'uomo" è la più bassa di tre categorie ("cancerogeno per l’uomo", "probabilmente cancerogeno per l'uomo", "possibilmente cancerogeno per l'uomo") usate dalla IARC per classificare l'evidenza scientifica relativa ad agenti potenzialmente cancerogeni. La IARC ha due ulteriori classificazioni dell'evidenza scientifica: "non classificabile" e "probabilmente non cancerogeno per l'uomo", ma il

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gruppo di lavoro del NIEHS ha ritenuto che vi fosse abbastanza evidenza per eliminare queste categorie. "Possibile cancerogeno per l'uomo" è una classificazione usata per denotare un agente per il quale esista una limitata evidenza di cancerogenicità nell'uomo ed un'evidenza meno che sufficiente negli animali da esperimento. Quindi la classificazione è basata sulla solidità dell'evidenza scientifica, non su quanto l'agente sia cancerogeno, ovvero su quanto elevato sia il rischio. Quindi "possibile cancerogeno per l'uomo" significa che esiste una limitata evidenza credibile che suggerisca che l'esposizione a campi ELF può provocare il cancro. Mentre non si può escludere, in base all'evidenza disponibile, che l'esposizione a campi ELF causi il cancro, sono necessarie ulteriori ricerche, focalizzate e di alta qualità, per risolvere il problema. La conclusione del gruppo di lavoro del NIEHS si basava soprattutto sul fatto che quegli studi epidemiologici che suggeriscono che la residenza in prossimità di elettrodotti dia luogo ad un aumento del rischio di leucemia infantile mostrano una certa coerenza. Elementi a sostegno di questa associazione sono stati trovati negli studi che collegavano l'incidenza di leucemia infantile alla vicinanza alle linee ed ai campi magnetici nelle case, questi ultimi misurati nell'arco di 24 ore. Inoltre, il gruppo di lavoro ha trovato una limitata evidenza di un aumento anche dei casi di leucemia linfatica cronica in ambienti di lavoro. E' opportuno sottolineare che il gruppo di esperti ha analizzato anche una lunga serie di effetti sanitari diversi dal cancro; nel giudizio del gruppo per nessuno di questi l'evidenza scientifica raggiungeva il livello di adeguata. Due studi epidemiologici particolarmente importanti per le dimensioni e per la metodologia impiegata sono stati pubblicati dopo il rapporto NIEHS (Linet et al. 1998; McBride et al. 1999). I loro risultati sembrano indebolire l'ipotesi di una cancerogenicità dei campi magnetici, ma nessun gruppo di lavoro ha finora effettuato, o aggiornato, una revisione critica della letteratura che tenga conto di questi due contributi. Si deve peraltro sottolineare che in un prossimo futuro è attesa la pubblicazione dei risultati di uno studio epidemiologico britannico di grande rilevanza. Entro breve tempo sono attese anche le conclusioni di un gruppo di studio europeo incaricato di analizzare congiuntamente, nei limiti consentiti da protocolli di indagine diversi, i dati degli studi svolti fino ad ora. E’ verosimile che enti governativi e organizzazioni internazionali attendano questi risultati, oltre a quelli di studi di altra natura (in vitro e in vivo) tuttora in corso, per commissionare nuove valutazioni di sintesi, su basi più consistenti. In particolare, nell'ambito del progetto più volte citato, l'OMS prevede nel 2001 una valutazione (effettuata congiuntamente alla IARC) degli effetti cancerogeni dei campi ELF, mentre nel 2002 seguirà una valutazione di altri possibili effetti sanitari. Campi Elettromagnetici a Radiofrequenze e Microonde Il promemoria n.183 dell'OMS Campi elettromagnetici e salute pubblica. Effetti sanitari dei campi a radiofrequenza si conclude con le seguenti osservazioni:

• L'esposizione a campi RF può causare riscaldamento o indurre correnti elettriche nei tessuti corporei. Il riscaldamento costituisce la principale interazione dei campi RF ad alta frequenza, al di sopra di circa 1 MHz. Al di sotto di circa 1 MHz, l'azione dominante dell'esposizione a RF è l'induzione di correnti elettriche nel corpo.

• Una revisione dei dati scientifici svolta dall'OMS nell'ambito del Progetto internazionale CEM (Monaco, Novembre 1996) ha concluso che, sulla base

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della letteratura attuale, non c'è nessuna evidenza convincente che l'esposizione a RF abbrevi la durata della vita umana, né che induca o favorisca il cancro.

• Comunque, la stessa revisione ha anche evidenziato che sono necessari ulteriori studi, per delineare un quadro più completo dei rischi sanitari, specialmente per quanto concerne un possibile rischio di cancro connesso all’esposizione a bassi livelli di campi RF.

Le stesse valutazioni sono riportate nel Promemoria n.193 Campi elettromagnetici e salute pubblica. I telefoni mobili e le loro stazioni radiobase che, come il titolo indica, tratta il problema specifico della telefonia cellulare, particolarmente sentito dal pubblico. A tale riguardo è di tutta evidenza che le preoccupazioni dei cittadini nascono molto più dalle antenne fisse per il servizio (tecnicamente indicate come stazioni radio base) che dal telefono in sé, nonostante quest'ultimo esponga l'utente a campi molto più intensi. Per quanto riguarda le stazioni radio base, alle conclusioni sopra riportate in merito alla pericolosità dei campi elettromagnetici a radiofrequenza in generale, se ne devono aggiungere altre relative alle particolari condizioni di esposizione. Le caratteristiche di direzionalità dei fasci emessi e le basse potenze di uscita fanno sì che i livelli di campo in tutte le reali situazioni di esposizione siano estremamente bassi, tali da non prefigurare allo stato attuale delle conoscenze effetti biologici significativi. Queste considerazioni, espresse in un articolo del Notiziario ISS nel 1996, praticamente coincidono con quelle successive dell'Istituto Svedese di Protezione dalle Radiazioni. Importanti ricerche sono in atto o in programma per il prossimo futuro. Tra queste sembra opportuno segnalare uno studio epidemiologico sull'associazione tra l'uso di telefoni cellulari e tumori della testa e del collo. Allo studio, coordinato dalla IARC, partecipano gruppi di ricerca di 14 paesi, tra cui l'Italia. Sulla base di questi studi, l’OMS e la IARC effettueranno nel 2003 una valutazione degli effetti cancerogeni dei campi elettromagnetici a radiofrequenza, mentre per il 2004 è prevista la valutazione di eventuali altri effetti sulla salute.

Normativa sulle emissioni di campi elettromagnetici negli ambienti circostanti [8].

Si riporta in estrema sintesi la principale normativa europea, nazionale e regionale riguardante le emissioni dei campi elettromagnetici. NORMATIVA EUROPEA

• Raccomandazione 1999/519/CE del 12 luglio 1999 NORMATIVA NAZIONALE

• Legge quadro n.36 del 22 febbraio 2001 Radio Frequenze e Microonde

• DM 381 del 10 Settembre 1998 • Linee Guida Attuative del DM 381/98 • Decreto Legge del 23 gennaio 2001 n.5 • DPCM del 28 marzo 2002 (pdf 185 kb) • Decreto Legge del 4 settembre 2002 n.198 (pdf 183 kb)

ELF • DPCM del 23 Aprile 1992 • DPCM del 28 Settembre 1995

NORMATIVA REGIONE EMILIA – ROMAGNA • Legge Regionale n.30 del 30 ottobre 2000

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• Direttiva applicativa della L.R. n.30/00 • Legge Regionale n.30 del 25 novembre 2002 • Indirizzi per l'applicazione della L.R.25 novembre 2002, n.30

ELF • Legge Regionale n.10 del 22 Febbraio 1993 • Direttiva applicativa della L.R. n.10/93

Nuove soluzioni per ridurre gli effetti dei campi magnetici. Il campo magnetico per sua natura non si presta facilmente ad azioni di schermatura, per cui tutte le azioni tese alla riduzione dell'esposizione della popolazione a tali campi non può che avvenire tramite riduzione delle emissioni da parte delle sorgenti. Per quanto riguarda gli impianti per il trasporto e la distribuzione di energia elettrica (linee) i metodi attualmente conosciuti per ottenere una riduzione delle emissioni a parità di prestazione degli stessi sono sostanzialmente due: 1. riconfigurazione dello schema dei conduttori (con conseguente sviluppo di nuovi

tipi di sostegni); 2. aggiunta di circuiti di compensazione passiva. La riconfigurazione dello schema dei conduttori consiste nell'intervenire sulla geometria della linea (disposizione dei conduttori di fase) o tentare di compattare la linea stessa riducendo le distanze tra le fasi. Terna adotta già da tempo soluzioni con pali tubolari a mensole isolanti che, oltre a minimizzare l'aspetto visivo dei tralicci, consente la predetta compattazione delle fasi ed una conseguente riduzione dei campi magnetici di circa il 20-30 % rispetto alla soluzione tradizionale. Tuttavia per problemi di natura meccanica e d'isolamento elettrico, l'impiego di tale tecnologia risulta limitato a specifiche installazioni e non può essere esteso a tutta la rete di Trasmissione Nazionale. È possibile invece ottenere risultati più marcati (dimezzamento dei valori di campi) utilizzando la tecnica split-phase, ossia suddividendo ciascuno dei tre fasci di conduttori in due o più fasci. Tale tecnologia presenta un'unica applicazione sperimentale in Svezia, probabilmente perché un impiego diffuso nelle reti ad alta tensione, comporterebbe un notevole appesantimento ambientale dovuto ai maggiori ingombri delle strutture ed all'incremento del numero di conduttori. L’aggiunta di circuiti di compensazione passiva è una tecnica di riduzione dei campi magnetici che consiste nel realizzare, mediante l'infissione di ulteriori sostegni, un anello che circonda una o più campate di un elettrodotto esistente. In base alle leggi dell'elettromagnetismo tale anello è sede di una forza elettromotrice indotta che consente la circolazione di una corrente tale da apporsi a quella che normalmente fluisce nei conduttori principali, realizzando così una sorta di compensazione dei campi magnetici generati. L'effetto di riduzione dei campi è tale da dimezzarne all'incirca i valori. I limiti di tale tecnologia sono sostanzialmente legati al notevole incremento dell'impatto visivo delle nuove strutture oltre che alla impossibilità di poter ottimizzare le geometrie dell'anello per ridurre i campi lungo tutto il tracciato dell'elettrodotto, consigliandone l'utilizzo esclusivamente per risanamenti puntuali di singoli edifici (case sparse). Tali consistenti limitazioni fanno sì che al mondo esistano due sole applicazioni in esercizio negli Stati Uniti. L'interramento delle linee di alta tensione, al di là delle problematiche tecniche ambientali ed economiche che esso comporta, è solo parzialmente un metodo di riduzione dei campi magnetici in quanto a causa della maggior vicinanza al suolo delle linee interrate rispetto alle linee aeree, si apprezzano effetti contrastanti sui campi.

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Nelle immediate vicinanze dei tracciati dei cavi si misurano valori di campo magnetico addirittura superiori rispetto alla soluzione tradizionale, tale situazione si inverte allontanandosi a distanze superiori a una decina di metri.

IL TELERISCALDAMENTO[4] Definizione ufficiale del teleriscaldamento utilizzata dalla certificazione UNI n.

8887 [4] "Sistema di teleriscaldamento a cogenerazione. Insieme degli elementi funzionalmente associati atti a realizzare e controllare un processo di cogenerazione, nonché a trasferire, in parte o integralmente, il calore generato al sistema degli utilizzatori termici non ubicati presso la centrale o sistema di cogenerazione. Convenzionalmente inizia:

• con le flange del sistema di misura o stoccaggio (o altro elemento di confine ben definito) relative all’adduzione dei fluidi o solidi partecipanti alla combustione;

• con i punti di ingresso di energia termica, elettrica o meccanica assorbita per gli ausiliari, qualora detta energia sia fornita da altri sistemi;

• con gli apparati comunque ricevitori di energia e/o di fluidi necessari per realizzare il processo;

e termina: • alle flange (o altro elemento di confine ben definito) verso il sistema degli

utilizzatori termici; • coi terminali di fuoriuscita per la dispersione dei fluidi trattati o del calore

inutilizzato; • al giunto verso la macchina operatrice, in caso di produzione di energia

meccanica; • ai morsetti di uscita del sistema (al netto di tutti gli assorbimenti interni); se

l’interconnessione con altri sistemi elettrici avviene tramite trasformatori i predetti morsetti coincidono con i terminali di ingresso (lato generatori) e trasformatori.

Il sistema di teleriscaldamento a cogenerazione comprende quindi, oltre alla centrale di cogenerazione, anche la/e eventuali rete/i di distribuzione del calore, comprensive di quanto pertinente la circolazione dei fluidi vettori del calore stesso".

IL RISCALDAMENTO URBANO [4, 5] Il teleriscaldamento è un servizio energetico urbano costituito da un impianto centralizzato che produce acqua calda a 90°C (mediante il calore prodotto congiuntamente all'energia elettrica o comunque recuperato da processi industriali, da incenerimento di rifiuti urbani, da falde geotermiche, da biomasse legnose od altro) e la distribuisce in vari punti della città. L'acqua, trasportata attraverso una rete di tubazioni precoibentate e interrate, giunge fino agli edifici allacciati. Qui, tramite uno scambiatore, l'acqua cede il calore all'impianto condominiale e consente di riscaldare gli ambienti e di usufruire di acqua calda per uso domestico ed igienico-sanitario. Una volta ceduto il calore, l'acqua del teleriscaldamento, scesa a circa 70°C, ritorna in centrale per essere riportata alla massima temperatura e per ricominciare il suo viaggio. Il teleriscaldamento porta direttamente nelle case il calore per il riscaldamento e l'acqua calda sanitaria senza bisogno di avere caldaie, bruciatori, serbatoi per il combustibile e canne fumarie.

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Ancora oggi nella prevalenza delle città al riscaldamento provvede ogni edificio per conto proprio. Il calore per il riscaldamento viene quindi prodotto separatamente dall’elettricità o da altri processi industriali, con notevole spreco di energia. Per capire l’origine di tale spreco bisogna analizzare la produzione di energia elettrica e l’attuale sistema di riscaldamento urbano. Nelle centrali termoelettriche, bruciando fonti primarie (olio, carbone, gas metano), la caldaia trasforma l'acqua in vapore, che, azionando una turbina, genera energia elettrica per le abitazioni e per le industrie. Il vapore, allo scarico della turbina deve essere condensato perché il ciclo termodinamico possa funzionare e ciò avviene raffreddando il vapore con acqua di mare o di fiume. Questo sistema di produzione comporta ingenti perdite energetiche: si trasforma il potenziale energetico della fonte primaria per poco più del 40% in energia elettrica, mentre la parte restante viene necessariamente perduta in ambiente per la natura del ciclo produttivo Le caldaie singole in edificio, che richiedono una costante manutenzione, bruciano altro combustibile primario per produrre acqua calda per il riscaldamento invernale degli ambienti e per uso igienico-sanitario. Questo sistema di produzione utilizza nell’arco dell'anno non più del 75% dell'energia immessa e dissipa la parte del combustibile qualitativamente più pregiata (quella parte che nella combustione si manifesta ad alta temperatura, una temperatura ben lontana dai 20°C a cui si riscaldano gli ambienti). Il teleriscaldamento, invece, permette un uso razionale dell'energia, sostituendo alla tradizionale produzione separata di energia elettrica e calore, un sistema integrato di produzione combinata a più elevata efficienza energetica globale, che riduce i problemi di gestione o di sicurezza per il singolo cittadino e l'impatto ambientale. Il riscaldamento urbano consente di utilizzare tutte le fonti energetiche disponibili, integrandole efficacemente. Nella centrale di cogenerazione è possibile bruciare combustibili diversi a seconda della maggiore convenienza economica del momento e della disponibilità sul mercato. E' anche possibile utilizzare il calore di recupero da vari processi industriali, da forni inceneritori di rifiuti, o da altre fonti energetiche. Il riscaldamento urbano garantisce quindi una notevole affidabilità del servizio e la stabilita' del costo del calore. Il teleriscaldamento, in quanto presuppone la produzione centralizzata del calore in una o poche centrali di grosse dimensioni, consente di realizzare centrali di produzione combinata elettricità-calore (centrali di cogenerazione), processo impensabile finche' si provvede alla produzione di calore per riscaldamento presso ogni singolo edificio. Una centrale di cogenerazione, dunque, bruciando combustibile fossile, produce energia elettrica e calore, consentendo di utilizzare una frazione cospicua dell'energia primaria contenuta nel combustibile, ben superiore a quella consentita dalle produzioni separate (modalità di produzione del "sistema convenzionale sostituito"). Ma non solo: la produzione centralizzata del calore consente di utilizzare fonti rinnovabili altrimenti disperse. Ci riferiamo al calore derivante dall'incenerimento dei Rifiuti Solidi Urbani, alle biomasse (sottoprodotti agricoli, scarti dell'industria del legno, ecc..), alla geotermia. Il trasporto del calore, dalla centrale ai punti di consegna presso i singoli edifici della città o del quartiere, avviene mediante acqua calda posta in circolazione entro condotte interrate, posate sotto le sedi stradali.

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In ciascun edificio la caldaia viene disattivata e sostituita da un semplice scambiatore di calore, a mezzo del quale l'energia termica e' ceduta all'impianto di distribuzione interna dell'edificio, che rimane inalterato. Con questo sistema e' possibile estendere il servizio calore ad intere e diverse aree urbane, rendendolo quindi un vero e proprio servizio pubblico, similmente all'acquedotto o alla rete elettrica cittadina. Ogni utente misura e controlla il proprio consumo di calore: ciascun edificio in genere mantiene l'attuale individualità termica, in quanto, in corrispondenza del punto di consegna, vengono installate apposite apparecchiature di regolazione ed un contatore di calore che misura il consumo effettivo, lasciando libero ciascun utente di gestire autonomamente i propri consumi.

I VANTAGGI DEL TELERISCALDAMENTO [4] Vantaggi per il cittadino:

• E' gradito dall'utente che ne apprezza la semplicità, la comodità, la sicurezza, in quanto non si distribuisce combustibile bensì acqua calda.

• Non sono più necessarie tutte le infrastrutture legate ai tradizionali sistemi individuali di produzione interna del calore: la caldaia, la cisterna del gasolio, la canna fumaria, gli scarichi di sicurezza, tutte le infrastrutture che occupano spazio e richiedono investimenti per la loro manutenzione oltre che di periodiche e costose manutenzioni.

• Le apparecchiature della sottocentrale sono semplici e quindi gli oneri di manutenzione si riducono al minimo, rispetto a quelli di una centrale termica tradizionale con caldaia.

• Viene eliminato l'onere di acquisto del combustibile (metano, gasolio, olio combustibile), ma si paga il calore "già pronto all'uso" a consumo effettuato.

Tutte le aziende che gestiscono reti di teleriscaldamento in Italia praticano all'utente finale una tariffa calore equiparata al costo del calore prodotto tramite combustione in una caldaia di edificio alimentata a gas naturale, che risulta il combustibile certamente meno costoso tra quelli utilizzati per il riscaldamento degli edifici. Tenuto conto dei sensibili minori costi di gestione che una sottocentrale di scambio termico richiede rispetto alla centrale termica sostituita (estrema semplicità impiantistica; nessuna necessita' del conduttore; assenza di canna fumaria, ecc.) il costo finale del calore da teleriscaldamento risulta ovunque inferiore a quello di qualunque altro vettore energetico commerciale oggi disponibile sul mercato. Ma i vantaggi per l'utente non sono solo economici: l'assenza di combustibili e di fiamme dirette in locali annessi agli edifici da riscaldate, sostituiti dalla fornitura diretta di acqua calda o surriscaldata, rendono il teleriscaldamento un sistema intrinsecamente sicuro ed esenta da rischi di scoppi ed incendi. La combustione, infatti, viene realizzata presso la centrale di cogenerazione, ubicata in luogo lontano dalle abitazioni e comunque sotto il controllo di personale specializzato. Vantaggi per l'ambiente e la collettività: 1. Permette di attuare una razionale politica nell'uso delle fonti energetiche con

ampia possibilità di adattamento alle mutevoli situazioni del mercato energetico nazionale ed internazionale.

2. Raggiunge ottimi risultati di efficienza e di risparmio. 3. Contribuisce validamente al miglioramento della qualità dell'aria negli ambiti più

compromessi che sono i centri urbani. 4. Il camino della centrale sostituisce i camini delle singole case nella città. L'elevata

efficienza dei generatori impiegati nella centrale cogenerativa e la costante

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sorveglianza degli stessi da parte di personale specializzato, contribuiscono, unitamente alla presenza di efficaci depuratori dei fumi di scarico, ad un determinante beneficio ambientale.

Notevole è il risparmio energetico conseguibile dai singoli Stati: con la cogenerazione al servizio del riscaldamento urbano in Italia è potenzialmente conseguibile un risparmio pari a quasi il 25% della domanda complessiva di energia per riscaldamento. E' evidente come il risparmio in questo settore possa svolgere un ruolo importante nel conseguimento degli obiettivi della politica energetica nazionale, che tende a ridurre l'attuale dipendenza energetica in generale e dal petrolio in particolare:

• Possiede una valenza strategica di dubbio interesse. • La realizzazione di sistemi di riscaldamento urbano, a più grande contenuto

tecnologico rispetto al preesistente, determina inoltre, quale beneficio indotto, lo sviluppo di nuove attività per l'industria termoelettrica e meccanica del Paese, e quindi lavoro qualitativamente avanzato.

In sostanza, i presupposti che giustificano la realizzazione di sistemi di teleriscaldamento (alimentati da impianti di cogenerazione o da fonti rinnovabili) sono innanzi tutto:

• il risparmio di energia primaria di origine fossile; • la riduzione dell'impatto ambientale connesso alla produzione di energia

termica ed elettrica. La riduzione dell'impatto ambientale e' anzi diventato, oggi, prioritario rispetto ai problemi di puro risparmio energetico. Basti ricordare le alterazioni climatiche connesse alle emissioni di gas ad effetto serra (CO2 in primo luogo), in larga parte dovute proprio all'utilizzo dei combustibili fossili. Non a caso le norme attuative degli accordi internazionali miranti alla riduzione dei gas serra (Protocollo di Kyoto) indicano proprio nel teleriscaldamento uno degli strumenti più efficaci ai fini della riduzione delle emissioni di anidride carbonica. L’installazione di una centrale di cogenerazione (con annessa realizzazione di una rete di teleriscaldamento) basata su una turbina a gas da 10 MWe e 15 MWt (quindi in grado di teleriscaldare un grosso quartiere da circa 10-12.000 abitanti) produce, rispetto alla produzione separata delle stesse quantità di calore ed energia elettrica, un risparmio energetico e una riduzione di emissioni in atmosfera. Per un impianto di questa potenzialità si possono ottenere approssimativamente le seguenti riduzioni in termini di risparmio energetico ed emissioni evitate (rispetto alla produzione separata delle stesse quantità di calore ed energia elettrica): Risparmio di energia fossile primaria:

4.400 Tep/a con un risparmio del 32% Emissioni evitate:

Ossidi di Azoto (NOx) - 82 t/a con una riduzione del 70% Biossido di Zolfo (SO2) - 208 t/a con una riduzione del 100% Anidride Carbonica (CO2) - 18.800 t/a con una riduzione del 46%.

IMPIANTO DI TELERISCALDAMENTO [4, 6, 7] L’impianto di teleriscaldamento si compone principalmente di:

• una o più centrali termiche ove viene prodotto (in modo semplice e combinato) il calore. Vi si trovano tutti gli impianti per il trattamento ed il movimento del fluido vettore: nel caso più frequente, di acqua calda surriscaldata. Vi sono installati: l’impianto di trattamento dell’acqua, il vaso di espansione, eventuali accumulatori e le pompe di circolazione;

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• ogni centrale è normalmente composta da più unità produttive per ragioni di modularità di costruzione e di esercizio e per funzioni di riserva;

• una rete di trasporto e distribuzione realizzata con due tubazioni affiancate di uguale diametro: una per la mandata ed una per il ritorno;

• un complesso di sottocentrali, una per ogni utenza o gruppo di utenze, ove viene regolato e misurato il trasferimento di calore dalla rete cittadina all’impianto di riscaldamento interno all’edificio.

Negli impianti moderni si adottano centrali con scambiatore “acqua-acqua”. Il fluido distribuito, quindi, rimane in circolo mentre il calore è trasferito all’impianto interno. La centrale di produzione può essere sostituita (od integrata) con l’apporto di energia termica proveniente da

• pozzi geotermici (es.: Ferrara); • “cascami energetici” di provenienza industriale (es.: Mantova); • impianti termorecuperatori da combustione di rifiuti (es.: Brescia, Bologna,

Modena); • caldaie alimentate da scarti di legname (es.: Val Pusteria - biomasse); • centrali termoelettriche (es.: Torino).

Impianti semplici L’impianto di teleriscaldamento si definisce semplice quando la centrale è costituita esclusivamente da caldaie con sola produzione di calore per usi vari (riscaldamento, acqua sanitaria, ecc.). Le caldaie possono essere: 1. a vapore, con scambiatore vapore di caldaia/acqua di rete; 2. ad acqua calda o surriscaldata nel caso in cui l’acqua di rete si riscaldi

nell’attraversare direttamente le caldaie. Un esempio tipico di impianto semplice è il teleriscaldamento a biomassa. Il combustibile, stoccato in un silo o in un magazzino, viene introdotto in caldaia mediante impianti di caricamento automatici. Sistemi di controllo elettronici regolano sia l’apporto di combustibile sia la quantità di aria comburente necessaria per garantire una combustione completa del legno e la copertura sicura ed efficiente del carico termico. Il calore dei gas combusti viene poi trasmesso all’acqua del circuito interno e, da essa, al liquido termovettore circolante in rete. Gli impianti descritti, a partire da una potenza di circa 4MW, sono solitamente dotati di un impianto di condensazione, che rende possibile il recupero del calore contenuto nei fumi all’uscita dalla caldaia, la riduzione delle emissioni di polveri e l’eliminazione delle emissioni visibili di vapore acqueo. Dove un tale impianto non è presente, il rispetto dei limiti delle emissioni di polveri è garantito da un multiciclone o da un elettrofiltro. La realizzazione di un progetto di teleriscaldamento a biomassa in un comune presenta numerosi vantaggi: in termini generali essa permette di contribuire alla riduzione della dipendenza energetica dall’estero e delle emissioni di gas ad effetto serra (la biomassa si inserisce infatti nel ciclo naturale della CO2, restituendo all’ambiente durante la combustione o la decomposizione l’equivalente della CO2 che ne ha prelevato durante la crescita). D’altra parte va evidenziata una situazione di convenienza economica spesso dubbia, e strettamente dipendente dalla situazione locale di disponibilità del materiale, di densità di allacciamenti e di dimensionamento, che va quindi valutata attentamente in fase di progetto.

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La potenzialità complessiva installata dev’essere pari al fabbisogno dell’utenza alla punta del carico, aumentata della riserva, quest’ultima variabile a seconda della conformazione della centrale stessa, e cioè del numero e della taglia delle caldaie. L’opportunità di suddividere la potenza complessiva su più unità deriva, anche per impianti di modeste dimensioni, dalla convenienza di esercire il più possibile, per tutto il periodo di funzionamento, le caldaie a carichi elevati con conseguenti alti rendimenti. Per caldaie di grosse dimensioni, complete di preriscaldatori d’aria, si arriva a rendimenti superiori al 90%. Il rendimento effettivo medio annuo delle caldaie di condominio è invece un dato estremamente variabile. Concorre a farne abbassare il valore una molteplicità di fattori tra i quali: il dimensionamento eccessivo della caldaia, e quindi una marcia a carichi troppo parzializzati, la cattiva regolazione, la scarsa manutenzione, l’insufficiente coibentazione, il funzionamento a temperatura troppo alta, la combinazione caldaia-preparatore d’acqua calda per uso igienico-sanitario, ecc. Si può pertanto stimare, in via prudenziale, che la differenza di rendimento fra le utenze funzionanti con impianto autonomo a gas o a combustibile liquido e quello delle stesse utenze allacciate al teleriscaldamento, si localizzi almeno intorno al 15%. Le perdite di distribuzione non superano il 6-8%, in termini annui. Un tale tipo di impianto si giustifica in via definitiva solamente laddove la densità abitativa è tanto alta da assicurare l’erogazione dell’energia termica prodotta tramite una rete poco estesa e quindi poco costosa. Rimane la validità di un tale tipo di produzione concepito per assolvere ad una funzione transitoria ed integrativa in un più vasto progetto di teleriscaldamento basato principalmente su una produzione combinata di energia elettrica e di calore. Più precisamente:

• funzione transitoria: nel senso che la produzione di calore mediante caldaie semplici è destinata ai primi anni di avviamento della gestione, per permettere lo sviluppo della rete e l’acquisizione dell’utenza;

• funzione integrativa: nel senso che, una volta a regime, detta produzione è destinata ad integrare la produzione combinata di base, quale copertura delle “punte” di richiesta termica invernale e delle “code” di servizio estivo; soprattutto laddove ed allorquando queste ultime non sono tali da giustificare il mantenimento in esercizio dei gruppi di produzione combinata. Ciò si verifica soprattutto quando l’erogazione estiva coinvolge esclusivamente la fornitura di acqua per usi igienico-sanitari.

Naturalmente è opportuno massimizzare l’impiego dei gruppi combinati. Ciò è conseguibile con l’acquisizione di forniture in grado di regolarizzare il diagramma di assorbimento naturale per solo riscaldamento civile. È particolarmente importante l’acquisizione di utenze termiche industriali caratterizzate da un diagramma di prelievo poco variabile nel tempo. Anche l’introduzione di utilizzazioni del calore di rete per alimentare impianti di condizionamento ad “assorbimento” agisce in senso positivo. Impianti combinati Un notevole salto di qualità, rispetto all’impianto semplice è presentato da quello combinato che corrisponde al caso in cui la centrale è dotata di gruppi che producono contemporaneamente energia elettrica e calore da cedere alla rete di teleriscaldamento. La “combinazione” della produzione elettricità-calore nel campo del teleriscaldamento può essere ottenuta in vari modi. I principali sono:

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• centrali con turbina a vapore a contropressione con condensatore caldo ed eventuale spillamento: il calore per la rete di teleriscaldamento viene prelevato dal condensatore e dagli eventuali spillamenti;

• centrali con turbina a gas: il calore per la rete di teleriscaldamento viene ottenuto dal raffreddamento dei fumi di scarico e/o degli stadi di compressione;

• centrali con gruppi Diesel: il calore per la rete viene ottenuto dal raffreddamento dei gas, dell’acqua e dell’olio del motore;

• cicli combinati gas-vapore Il vapore prodotto dal recupero del calore dei gas di scarico della turbina a gas può venire utilizzato per azionare una turbina a vapore, aumentando così la quantità di energia elettrica generata dall’impianto. La turbina a vapore può essere a condensazione, a derivazione e spillamento o a contropressione, a seconda che si desideri massimizzare la produzione di energia elettrica o ricavare vapore per usi di processo o teleriscaldamento. Gli schemi di impianto di un ciclo combinato turbina a gas/turbina a vapore sono molteplici, potendosi avere diverse soluzioni per la turbina, come già accennato, e per la caldaia a recupero. Sotto quest’ultimo aspetto si può operare la seguente suddivisione:

• cicli a recupero semplice; • cicli con post-combustione; • cicli a combustione totale;

Il ciclo con recupero semplice prevede l’installazione, allo scarico della turbina a gas, della caldaia a recupero, provvista di economizzatore, evaporatore e surriscaldatore. Il vapore così prodotto viene poi inviato alla turbina, che, come già detto, può essere di tipo a spillamento o a contropressione. Nel caso di impianti a condensazione, circa il 65-70% dell’energia elettrica prodotta dal ciclo proviene dalla turbina a gas, mentre il rimanente 20-25% viene ricavato dalla turbina a vapore. Il ciclo con post-combustione differisce dal precedente per la presenza di bruciatori supplementari all’interno della caldaia. Nel caso di impianti a condensazione, l’energia elettrica prodotta dal ciclo proviene per circa il 60% dalla turbina e per la rimanente parte dalla turbina a vapore. Nel ciclo a combustione totale i gas di scarico della turbina a gas vengono convogliati, come aria di combustione, ai bruciatori di un generatore di vapore tradizionale. In impianti di questo tipo, con turbina a vapore a condensazione la turbina a gas produce circa il 20% dell’energia elettrica totale del ciclo e la turbina a vapore l’80%. Di norma una centrale è composta da gruppi cogenerativi e da gruppi semplici. Infatti, come già accennato, la notevole pendenza iniziale del diagramma di durata delle erogazioni di calore rende più conveniente coprire le punte del carico termico con caldaie semplici. La parte più significativa, in senso quantitativo, dell’energia termica erogata proviene ovviamente da gruppi cogenerativi. Gli impianti combinati rappresentano uno dei modi più significativi per attuare il principio dell’”energia totale” (total energy) che propone l’utilizzazione del calore normalmente perso nei processi di produzione termoelettrica. Tale calore può essere utilizzato, in una rete di teleriscaldamento, sia per riscaldamento invernale che per raffreddamento estivo (per mezzo di gruppi ad assorbimento). Le reti

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La rete di distribuzione è la parte più costosa dell’impianto di teleriscaldamento: si stima che il suo costo possa incidere sull’investimento complessivo per una quota compresa tra il 50% e l’80%. Il sistema di distribuzione può utilizzare diversi tipi di fluidi: la tendenza in Italia è quella di utilizzare acqua calda (80-90°C) o leggermente surriscaldata (110-120°C). Il sistema di distribuzione può essere diretto o indiretto. Nel primo caso, un unico circuito idraulico collega la centrale di produzione con il corpo scaldante (termosifone o piastra) dell’utente. Viceversa, nel secondo caso, sono presenti due circuiti separati, mantenuti in contatto attraverso uno scambiatore di calore. Il sistema diretto comporta un minore investimento e minori perdite di calore. Il sistema indiretto più utilizzato in Italia, a fronte di maggiore costi di investimento e di esercizio, comporta una serie di vantaggi significativi: consente, infatti, di utilizzare componenti a bassa pressione per l’impianto dell’utente, prevede una manutenzione semplificata e garantisce l’individuazione delle perdite. Inoltre rende più efficiente la regolazione e la contabilizzazione del calore. Le moderne reti di distribuzione del calore sono composte da coppie di tubazioni in acciaio (mandata e ritorno) opportunamente isolate e protette, posate direttamente nel sottosuolo come quelle idriche o del gas. Un tempo era indispensabile prevedere una serie di “punti di dilatazione” in grado di far fronte alle escursioni provocate dal salto di temperatura fra impianto funzionale a regime piuttosto che a freddo. Oggi questo non è più necessario in quanto i tubi sono “pre-tesi” e capaci di assorbire direttamente tali sollecitazioni. Per diametri modesti si utilizzano da qualche anno anche condotte in materiale flessibile, disponibile in rotoli di parecchie decine di metri. Detta tecnologia permette di adottare soluzioni semplici a fronte di percorsi accidentati con costi assai contenuti. Le perdite sono basse: 3-5°C al punto più lontano e 6-8% dell’energia immessa. Dal sistema di trasporto si dipartono gli allacciamenti. Trattasi di piccole tubazioni che conducono alle sottostazioni d’utenza. In queste (di dimensioni molto inferiori alle corrispondenti centrali termiche di condominio) si trovano lo scambiatore di calore, per la separazione del fluido vettore dell’acqua del circuito interno, ed il complesso di misura.

IL RISCALDAMENTO URBANO IN ITALIA: situazione al 31/12/2000 [4] Il quadro che emerge dai dati relativi all'anno 2000 comunicati dalle aziende che gestiscono reti di riscaldamento urbano in Italia e' il seguente:

• al 31 Dicembre 2000 l'utenza servita ha raggiunto i 117 milioni di m3 riscaldati;

• l'utenza termica allacciata a sistemi di riscaldamento urbano ha subito nel 2000 un incremento sostanzialmente non dissimile dagli anni precedenti, sono stati allacciati, infatti, circa 7,5 milioni di m3 (con un incremento del 7% rispetto all'anno precedente). L'estensione delle reti di riscaldamento urbano in Italia ha cosi' raggiunto i 1091 Km di rete primaria (+95 km rispetto al '99).

Al 31 Dicembre 2000 risultano installate 18.594 sottocentrali d'utenza (di cui ben 1532 installate nel corso del 2000). La potenza termica impegnata presso l'utenza ha raggiunto il valore di 3.623 MWt; l'incremento rispetto al 1999 risulta di 270 MWt; corrispondente a +8,0%. A fronte dei dati positivi sopra evidenziati, bisogna tuttavia rimarcare che le nuove reti sono state tutte realizzate da soggetti già operanti nel settore del riscaldamento urbano e sono ubicate in centri urbani ove già esistono episodi di teleriscaldamento.

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Gli impianti di teleriscaldamento in Italia sono concentrati nell'Italia settentrionale e la quasi totalità della volumetria teleriscaldata (circa 110 milioni di m3, pari al 94% della volumetria totale) è localizzata in quattro regioni:

• Lombardia 51,0 milioni di m3 pari al 43,4% del totale nazionale, • Piemonte 30,4 milioni di m3 pari al 26,0% del totale nazionale, • Emilia Romagna 18,7 milioni di m3 pari al 16,0% del totale nazionale, • Veneto 9,7 milioni di m3 pari al 8,3% del totale nazionale.

Al 31 Dicembre 2000 le centrali di produzione installate in Italia sono state in grado di erogare complessivamente 730 MWe e 3002 MWt (di cui 1025 MWt in cogenerazione). La tipologia e la potenzialità delle centrali di produzione dell'energia e' costituita prevalente da impianti di cogenerazione alimentati da combustibili fossili e da caldaie di integrazione e riserva di tipo convenzionale. Non è trascurabile la presenza di impianti di incenerimento RSU (Bologna-Frullo, Brescia, Como, Cremona, Ferrara, Reggio Emilia), mentre viene data scarsa importanza agli impianti utilizzanti altre fonti rinnovabili. La turbina a vapore e la turbina a gas costituiscono, in termini di potenza installata, le tipologie di unita' di cogenerazione prevalenti, seguono gli impianti a ciclo combinato gas-vapore. Il gas naturale costituisce ancora, nel 2000, la fonte principale di energia utilizzata nei sistemi di riscaldamento urbano (circa il 66%); seguono il carbone con il 13,3%, l'incenerimento RSU con il 13%, l'olio combustibile con il 6,5%. Le altre fonti rinnovabili rimangono sempre marginali: 0,7% da recuperi industriali e 0,8% da geotermia. Nell'anno 2000 le centrali di teleriscaldamento in esercizio in Italia hanno prodotto 2.749 GWh elettrici e 4.340 GWh termici. L'energia utile, cioe' al netto delle perdite di rete ed autoconsumi di centrale, ammonta rispettivamente a 1.519 GWhe e a 3.854 GWht, corrispondente al 92% ed all'89% dell'energia prodotta. L'energia termica prodotta in cogenerazione costituisce il 66% dell'energia totale immessa in rete; l'energia di integrazione prodotta a mezzo di caldaie semplici costituisce il 22%, mentre il restante 12% e' costituito da "fonti rinnovabili". Nel 2000 i sistemi di riscaldamento urbano operanti in Italia hanno conseguito un risparmio di energia primaria di circa 277.000 Tep, corrispondente a circa il 27% dell'energia consumata dai "sistemi convenzionali sostituiti" (caldaie di edificio e sistema elettrico nazionale). Inoltre in Italia prosegue, meno lentamente che in passato, lo sviluppo del teleraffrescamento. Per quanto attiene la distribuzione di acqua refrigerata prodotta presso la centrale del gestore della rete (i sistemi di "teleraffrescamento" propriamente detti), tale servizio incontra non pochi problemi tecnico-economici. Per quanto attiene, invece, la produzione periferica di acqua refrigerata a mezzo di gruppi frigo-assorbitori alimentati dalle reti di teleriscaldamento, la diffusione è molto efficace. La tecnologia prevalente e' quella che prevede il trasporto di calore presso l'utente e la produzione locale di acqua refrigerata mediante gruppi frigoriferi ad assorbimento (alimentati sia da acqua surriscaldata che da acqua calda). FONTI E RIFERIMENTI [1]: http://www2.enel.it/home/enelandia/storia_nj/menu.htm

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[2]: http://www.enel.it/eneldistribuzione/index.asp [3]: http://www.enel.it/it/terna/azienda/html/pr_piano.htm [4]: http://www.airu.it [5]: http://www.amps.it [6]: http://www.puntoenergia.com [7]: http://www.energialab.it/ (ingg. Doria, Forni, Puglioli, Andretta) [8]: http://www.arpa.emr.it/elettrosmog/