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Bruno, N. Lo spazio della percezione e dell’azione 1___________________________________________________________________________
LO SPAZIO DELLA PERCEZIONE E DELL’AZIONE1
Nicola Bruno
Università di Trieste
Per la psicologia dei processi cognitivi, il problema dello spazio riguarda la natura e
l’origine delle conoscenze spaziali che ci consentono di interagire con gli oggetti
nell’ambiente. Si tratta di un problema complesso, la cui soluzione richiede di affrontare
almeno tre sottoproblemi distinti ma interconnessi: (i) “Cosa significa percepire lo spazio?”,
(ii) “Qual è la natura dei processi psicologici che ci consentono di apprezzare le relazioni
spaziali e di controllare le azioni nello spazio?” e (iii) “Quali parti del cervello sono
coinvolte nello svolgimento di questi processi e come interagiscono fra loro?”.
La prima domanda fa riferimento alle caratteristiche distintive dell’esperienza
spaziale, alla sua funzione adattiva nell’evoluzione della specie, e al contesto ecologico in cui
tale esperienza ha luogo (la natura dei corpi, la natura della luce, i limiti intrinseci ai sistemi
biologici). La seconda domanda si riferisce invece ai processi di elaborazione
dell’informazione spaziale che viene raccolta dal sistema percettivo di un organismo
(elaborazione che serve a selezionare ed eventualmente combinare diverse sorgenti di
informazione spaziale, in funzione del tipo di compito svolto). La terza domanda, infine, si
riferisce ai concreti meccanismi biologici del sistema occhio-cervello dedicati
all’elaborazione visuospaziale (la retina, la corteccia visiva primaria, le vie visive superiori e
la loro specializzazione funzionale, la via extrastriata). Risposte parziali a queste domande
erano disponibili già ai filosofi e ai matematici greci. Infatti le basi della geometria proiettiva
erano note già ad Euclide, e risalgono al settecento sia la scoperta della natura della luce (da
parte di Newton) sia quella dell’ottica dell’occhio (da alcuni attribuita a Keplero). Tuttavia, il
problema cognitivo dello spazio comincia a raggiungere la maturità scientifica solo nel
novecento e gli sviluppi più significativi si avranno appena a partire dagli anni cinquanta.
1 In V. Fasoli (a cura di) Spazi, Milano: F. Angeli. Nicola Bruno, Dipartimento di Psicologia, Università diTrieste; via S. Anastasio 12, 34143 TS; email: [email protected].
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Questo capitolo si propone di sviluppare alcune risposte parziali ai tre sottoproblemi
elencati sopra. Inizierò con una presentazione del modello tradizionale della percezione dello
spazio, riconducibile al pensiero del filosofo scozzese George Berkeley, uno degli esponenti
principali dell’empirismo inglese dell’inizio del ‘700. Dopo la presentazione del modello
richiamerò alcuni risultati sperimentali classici che ne mettono in crisi le assunzioni
fondamentali, gettando le basi per quello che possiamo definire il modello standard
contemporaneo della percezione visiva dello spazio. Una rassegna completa dei costrutti
teorici che fanno parte della teoria contemporanea dello spazio percettivo richiederebbe
naturalmente molte più pagine di quelle previste per questo capitolo. Mi limiterò quindi ad
illustrare i tre aspetti che mi sono sembrati di maggiore potenziale interesse per l’architettura,
ossia il concetto di assetto ottico ambientale, la classificazione delle fonti di fonti di
informazione ottica disponibili a un osservatore binoculare e attivo, e il concetto di
integrazione dell’informazione. Per quanto riguarda infine la terza domanda menzionata
sopra, mi limiterò a una breve illustrazione dei due principali canali di elaborazione corticali
che appaiono coinvolti nell’elaborazione di informazione spaziale, di quelle che sembrano
essere le loro funzioni, e delle implicazioni che ciò potrebbe avere sulla nostra maniera di
ragionare sullo spazio, se le ipotesi di interpretazione funzionale contemporanee dovessero
risultare confermate.
Cosa significa percepire lo spazio?
Nel suo celebre Essay on a new theory of Vision, Berkeley2 ha scritto: “It is agreed
by all that distance, of itself and immediately, cannot be seen. For distance, being a line
directed end-wise to the eye, it projects only one point in the fund of the eye, which point
remains invariably the same whether the distance be longer or shorter”. L’affermazione3 di
2 Berkeley, G. (1709/1948). An essay towards a new theory of Vision. In The works of George Berkeley,London, UK: Nelson and sons.
3 “Vi è accordo da parte di tutti che la distanza, in quanto tale e immediatamente, non può essere vista. Ciò acausa del fatto che la distanza, essendo una linea diretta verso l’occhio, proietta uno e un solo punto sul fondo
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Berkeley sembra contrastare con la nostra esperienza: nella nostra interazione col mondo,
abbiamo l’impressione di vedere immediatamente e senza sforzo lo spazio in cui sono situati
gli oggetti su cui possiamo agire. Berkeley ritiene invece che la percezione dello spazio non
sia un dato percettivo immediato, ma dipenda da un processo di ricostruzione non dissimile
da una sorta di ragionamento. L’argomento berkeleyano si basa sulla natura proiettiva del
passaggio di informazione che caratterizza la visione. Perché vi sia visione di un oggetto
nello spazio, è necessario che la luce venga riflessa dalla superficie dell’oggetto stesso e
arrivi alla superficie recettoriale dell’occhio (il “fondo” dell’occhio nelle parole del filosofo,
ossia la retina). Se dunque consideriamo un punto nello spazio tridimensionale e la retta che
congiunge quel punto con l’occhio di un osservatore, risulta evidente che qualsiasi altro
punto che si trovi nello spazio lungo quella retta proietterà sullo stesso punto retinico. Vi
saranno dunque infiniti punti nello spazio a cui corrisponderà sempre uno e un solo punto
sulla retina. Pertanto, nel ragionamento di Berkeley, il sistema visivo non ha maniera di
decidere, a partire dalla singola proiezione retinica, quale di questi infiniti punti gli sta
davanti. Per questo motivo, non può vedere la distanza “of itself and immediately”. Bisogna
ammettere che l’esperienza di distanza risulta da processi successivi alla mera proiezione
sulla superficie retinica.
Il modello di Berkeley ha due aspetti sui quali vale la pena soffermarsi. Il primo
riguarda il modello geometrico-proiettivo implicito nella formulazione del problema. Come si
può notare riflettendo sulla motivazione della posizione berkeleyana, il problema dello spazio
viene affrontato a partire da un modello euclideo dello spazio psicologico. In questo modello,
lo spazio viene concepito come posizione rispetto a uno schema di riferimento astratto con tre
assi ortogonali. All’interno di questo schema di riferimento, per definizione vuoto, una
posizione corrisponde a un punto e la distanza di tale punto dall’occhio corrisponde a una
retta. La formulazione berkeleyana presuppone quindi un’analisi puramente locale (limitata a
una zona circoscritta del campo visivo) del passaggio di informazione, veicolato dalla luce
dell’occhio, il quale punto rimane invariabilmente lo stesso sia che la distanza sia maggiore, sia che sia minore.”(Trad. mia).
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ambientale, dagli oggetti alla superficie recettoriale. Sulla base di tale analisi locale, Berkeley
correttamente richiama l’attenzione sulla indeterminatezza di cui rimane gravata
l’informazione disponibile sulla retina (o su qualsiasi altro piano di proiezione).
Il secondo aspetto della teoria di Berkeley riguarda invece il processo psicologico
grazie al quale il sistema percettivo diventa capace di formulare giudizi corretti sullo spazio.
Secondo Berkeley, ciò avviene nel corso dello sviluppo grazie all’interazione fra la vista e il
tatto. Dato che il tatto ci consente, almeno apparentemente, di entrare direttamente in contatto
con gli oggetti, Berkeley ritiene che il nostro sistema percettivo impari a formulare giudizi
corretti sulle distanze grazie a una forma di apprendimento associativo. Alle sensazioni tattili
(supposte veridiche) verrebbero infatti associate sensazioni provenienti dall’occhio durante la
visione di oggetti a determinate distanze. Tali sensazioni sarebbero originate da processi
fisiologici quali la convergenza (quando fissiamo un oggetto all’orizzonte gli occhi sono
paralleli, mentre per fissare oggetti vicini gli occhi formano un angolo di convergenza tanto
maggiore quanto più l’oggetto è vicino) e l’accomodazione (a riposo, la lente mette a fuoco
oggetti lontani, mentre per portare a fuoco oggetti vicini l’occhio modifica la forma della
lente grazie all’azione di muscoli preposti a questo scopo). Supponiamo di fissare un oggetto
a mezzo metro di distanza. Allungando il braccio per toccare l’oggetto, secondo Berkeley
otteniamo informazione veridica sulla sua distanza. In concomitanza con il gesto a livello
oculare vi è una sensazione dello sforzo muscolare necessario a convergere e accomodare per
fissare l’oggetto e metterlo a fuoco. Una volta imparata l’associazione fra la sensazione tattile
e quella oculare, siamo in grado in interpretare correttamente la sola sensazione oculare
anche senza toccare l’oggetto e in tal modo formuliamo giudizi veridici sulla sua distanza.
Il tatto educa la vista?
Il modello contemporaneo della percezione spaziale ha origine dal rifiuto di entrambe
le caratteristiche fondamentali della teoria di Berkeley. Prima di esaminare la formulazione
contemporanea del problema, che rifiuta la concezione dello spazio percettivo come basato su
uno schema di riferimento astratto con tre assi euclidei, consideriamo alcuni risultati
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sperimentali che mettono in crisi l’idea che la visione dello spazio dipende dall’associazione
con le sensazioni tattili. Notiamo, innanzi tutto, come l’ipotesi di Berkeley riguardo alla
primarietà del tatto rispetto alla vista nella percezione spaziale implichi che il tatto dovrebbe
essere sempre veridico nelle senzioni spaziali che ci fornisce. Detto in altre parole,
l’esperienza tattile ci consentirebbe di “sentire” la distanza in modo diretto, mentre
l’esperienza visiva dello spazio sarebbe il risultato di un processo di costruzione mentale. Ma
è proprio vero che il tatto non è il risultato di una costruzione mentale? In realtà vi sono
diversi fenomeni che suggeriscono esattamente il contrario. Ad esempio, nel cosiddetto
fenomeno dell’arto fantasma, soggetti che hanno subito l’amputazione di un arto continuano
a riferire di avere sensazioni tattili (spesso anche dolorose) nel punto in cui era l’arto ora
amputato.
Un noto neuropsicologo, Vilajanur Ramachandran4, ha dimostrato che le sensazioni
all’arto fantasma sono collegate alla stimolazione tattile di altre zone della cute. Ad esempio,
in alcuni di questi pazienti si ottengono sensazioni in specifiche zone della mano fantasma
quando si stimolano parti del braccio immediatamente sopra la zona di amputazione, o
addirittura quando si stimolano zone della pelle del volto. Ramachandran ipotizza che ciò sia
dovuto al fatto che la parte rimanente del braccio, così come parte del volto, inviano segnali a
zone della corteccia somatosensoriale immediatamente adiacenti a quella che riceveva
segnali dalla mano amputata. Le sensazioni all’arto fantasma dipenderebbero dunque da
modificazioni plastiche dei collegamenti fra cute e corteccia in cui, dopo l’amputazione, i
collegamenti delle zone circonvicine a quella non più stimolata la invaderebbero senza
modificare del tutto la codifica originaria della zona stessa, che continuerebbe dunque a
segnalare sensazioni tattili nello spazio dove era presente l’arto amputato. A ciò va aggiunto
che tali “anomalie” della percezione tattile non sono limitate a soggetti in qualche maniera
anormali, come gli amputati. In un altro fenomeno, chiamato “coniglio cutaneo”, si osservano
sensazioni tattili in zone non stimolate di soggetti normalissimi. Basta stimolare tre zone
4 Ramachandran, V.S., Rogers-Ramachandran, D., e Cobb, S. (1995) Touching the Phantom Limb. Nature, 377,489-490
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della cute, ad esempio all’altezza del polso, della parte centrale dell’avanbraccio e del
gomito, con delle vibrazioni puntuali alla giusta frequenza e separazione, per avere
l’impressione di una successione di molte pressioni successive in tutta la cute che separa i tre
punti. Come se un animaletto corresse su per il braccio, appunto. I due fenomeni
suggeriscono quindi che, come per la vista, anche per il tatto vale il principio che la
localizzazione spaziale esperita non corrisponde necessariamente a quella veridica, ma
dipende da un complesso meccanismo di elaborazione che coinvolge zone deputate della
corteccia e dipende dalle condizioni di stimolazione nello spazio e nel tempo.
Ugualmente problematica è poi l’assunzione acritica che il tatto educherebbe la vista
a stimare le distanze. In un classico esperimento degli anni ‘60, lo psicologo Irvin Rock5 ha
provato a studiare una situazione di conflitto fra tatto e vista allo scopo di verificare in che
misura il tatto tende a correggere le sensazioni visive. La situazione base era costituita da un
cubo da toccare con le dita (utilizzando uno stratagemma per evitare che le dita fossero
visibili) e da guardare attraverso una lente che lo faceva apparire più stretto. Il soggetto
toccava, guardava, e poi gli veniva mostrata una serie di cubi via via più stretti e doveva
indicare quello che somigliava di più per dimensioni al cubo presentato prima. In queste
condizioni si verifica un fenomeno noto come “cattura visiva”: la vista predomina
completamente sul tatto, ossia il soggetto indica il cubo corrispondente a quello che ha visto
(deformato dalla lente) e non a quello che ha toccato (dimensioni reali). Sembra quindi che,
almeno in queste condizioni, sia la vista a insegnare al tatto e non viceversa.
Evidenza decisiva in questo senso proviene da una linea di ricerca dovuta alla celebre
psicologa dello sviluppo Eleanor Gibson6, ideatrice di un paradigma sperimentale studiato
appositamente per valutare le previsioni del modello di Berkeley. Si tratta del paradigma del
“precipizio visivo”. Tecnicamente, il precipizio visivo non è altro che una sorta di tavolo di
5 Rock, I., e Victor, J. (1964). Vision and touch: an experimentally created conflict between the senses.Science, 143, 594-596.
6 Gibson, E. (1969). Principles of perceptual learning and development. New York, NY: Appleton-Century-Crofts.
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vetro, con metà della superficie coperta da una scacchiera opaca, e i bordi rialzati per evitare
che il partecipante all’esperimento (un bambino o una bambina) possa cadere di sotto. Sul
pavimento sotto il tavolo viene posta di nuovo la stessa superficie a scacchiera, in modo che,
guardando dal lato opaco in basso attraverso il vetro, si abbia una sensazione visiva di
“precipizio”. Tale sensazione è ovviamente in contrasto con la sensazione tattile ottenibile se
si tocca il vetro con la mano. Dunque il precipizio visivo non è altro che una seconda
situazione di conflitto fra vista e tatto, invece che a proposito della grandezza di un oggetto a
proposito della distanza di una superficie di supporto. Nell’informazione tattile, la superficie
di supporto è continua su tutto il tavolo. In quella visiva, invece, è discontinua: a un certo
punto c’è un salto potenzialmente pericoloso. E qui sta l’aspetto cruciale dell’esperimento.
Infatti i partecipanti della Gibson erano in quell’età critica (attorno ai 6-8 mesi) in cui i
piccoli di homo sapiens iniziano a gattonare, ossia proprio nel periodo in cui, sulla base della
teoria di Berkeley, sarebbe lecito attendersi che inizi quel fondamentale processo in cui il
tatto insegna alla vista per quanto attiene alla locomozione. La procedura sperimentale era la
seguente: il partecipante veniva posto al centro del tavolo, in prossimità del confine fra
scacchiera e vetro, sul lato con la scacchiera. A questo punto compariva la madre, che poteva
stare o alla fine del lato con la scacchiera o alla fine del lato col vetro. La madre chiamava la
bambina o il bambino, e lo sperimentatore non faceva altro che classificare il comportamento
di risposta. In queste condizioni, i risultati sono chiarissimi: se la madre sta dal lato “sicuro”,
quello con la scacchiera, tutti i partecipanti gattonano felici fino da lei. Ma se sta dal lato
“pericoloso”, se ne restano dove sono al centro del tavolo. Esattamente il contrario di quanto
prevede il modello di Berkeley, per il quale non ci dovrebbe essere nessuna differenza.
Infatti, nelle due condizioni dell’esperimento l’informazione tattile è la stessa, e la vista non
dovrebbe ancora avere imparato a ricostruire lo spazio e quindi a notare un potenziale
pericolo.
L’assetto ottico ambientale
Il modello contemporaneo della percezione spaziale è basato sul concetto di assetto
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ottico ambientale. L’assetto ottico è un costrutto teorico. Si tratta di un apparato concettuale
che ci aiuta a comprendere come una larga parte delle proprietà spaziali delle superfici
(nell’ambiente) siano preservate nella struttura spaziotemporale della luce che arriva
all’occhio. Per comprendere di cosa si tratta è necessario però abbandonare l’analisi
berkeleiana (in termini di singoli raggi locali) a favore di un approccio più globale.
Tecnicamente, possiamo definire l’assetto ottico ambientale come l’insieme degli angoli
solidi sottesi dalle superfici a un punto di vista. Si consideri un ambiente arbitrario dove sono
presenti oggetti posti sul terreno o su altri oggetti di supporto. Se immaginiamo un punto in
questo ambiente, per ogni superficie di ogni oggetto (inclusa la superficie del terreno e la
“superficie” formata dal cielo) possiamo definire una specie di piramide avente come base la
superficie stessa e come apice il punto immaginato. Se in corrispondenza di questo punto
poniamo adesso l’occhio di un osservatore avremo che l’insieme dei raggi contenuti nella
piramide risultano proiettati sul fondo dell’occhio, formando una “immagine retinica” la cui
grandezza dipende dall’angolo solido formato dalla piramide.
Si noti che questa maniera di concettualizzare la proiezione sulla retina non è ancora
sostanzialmente diversa da quella di Berkeley. Infatti la grandezza retinica di questa singola
proiezione non specifica univocamente né la grandezza né la forma della superficie alla base
della piramide: superfici di diversa grandezza a diversa distanza possono generare angoli
solidi uguali, e lo stesso vale per superfici di forma diversa ma diversamente inclinate rispetto
al punto di vista. Ma l’assetto ottico non consiste di un singolo angolo solido, ma
dall’insieme di questi. Considerando tale insieme, è possibile scoprirvi proprietà di tipo
relazionale che disambiguano, in tutto o in parte, la natura delle relazioni spaziali fra gli
oggetti da cui gli angoli solidi originano e delle relazioni fra gli oggetti e il punto di vista. Ad
esempio, per superfici che sono posate sul terreno al crescere della distanza di queste dal
punto di vista l’angolo solido corrispondente si sposta, nell’assetto ottico, verso l’altezza che
corrisponde all’elevazione da terra del punto di vista (definita, nell’assetto ottico,
dall’orizzonte). Vi sono dunque relazioni spaziali fra angoli solidi nell’assetto ottico cui
corrispondono in maniera regolare relazioni spaziali fra oggetti nel mondo: la struttura
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spaziale della luce nell’assetto ottico specifica la struttura spaziale degli oggetti nel mondo
(entro certi limiti).
Figura 1. L’assetto ottico ambientale relativo a due
punti di vista occupati in successione da un osservatore
mobile. (Adattato da Gibson, 1979).
Non è forse sorprendente che il padre del concetto di assetto ottico sia stato lo
psicologo James J. Gibson, marito di Eleanor, che fra gli anni ‘50 e la fine degli anni ‘70 si è
reso protagonista di una profondo lavoro di rianalisi dell’informazione potenzialmente
contenuta nella luce che arriva all’occhio7. È infatti largamente merito di Gibson se oggi la
psicologia della percezione non può più trascurare di considerare prima di tutto la struttura
dell’assetto ottico (l’”informazione ottica”) nello studiare i problemi di percezione spaziale.
Un eccellente esempio del progresso che l’approccio gibsoniano ha comportato per lo studio
dello spazio è l’analisi delle relazioni spaziali fra gli angoli visivi sottesi dagli oggetti e
quello sotteso dal terreno su cui stanno. Tipicamente, l’angolo visivo sotteso dal terreno
riempie la maggioranza del campo visivo e ha un limite naturale all’orizzonte, la cui
posizione corrisponde all’altezza da terra degli occhi dell’osservatore.
7 Gibson, J. J. (1979). An ecological approach to visual perception. Boston: Houghton- Mifflin.
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Uno dei più brillanti allievi di Gibson, lo psicologo Harold Sedgwick8, ha mostrato
come il rapporto geometrico fra le porzioni di angolo visivo al di sotto e al di sopra
dell’orizzonte possono fornire informazioni sulla grandezza relativa degli oggetti sul terreno,
indipendentemente dalla distanza. E più di recente Ooi9, all’università del Tennessee ha dato
una dimostrazione estremamente convincente del ruolo del terreno come fonte di
informazione per la percezione dello spazio e della inadeguatezza del modello berkeleyano.
Nell’esperimento della Ooi, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, i partecipanti
osservavano un oggetto posto a una certa distanza e, dopo essere stati bendati e ruotati di 90
gradi, dovevano camminare alla cieca per una distanza pari a quella dell’oggetto appena
osservato. La Ooi ha confrontato due condizioni di base. Nella prima di queste, la condizione
di controllo, il terreno fra il partecipante e l’oggetto era continuo, senza interruzioni, e in
queste condizioni le persone riescono a riprodurre facilmente la distanza corretta. Nella
seconda, invece, fra i partecipanti e l’oggetto c’era un buco abbastanza profondo e largo, il
che produceva una interruzione nell’assetto ottico ambientale per la parte corrispondente alla
struttura del terreno. Un po’ come un pezzo di spazio vuoto berkeleyano, per intenderci. In
queste condizioni, a differenza del controllo, si osserva una robusta tendenza a sovrastimare
la distanza: ad esempio, con un oggetto posto a 3.7 m le persone mediamente camminano
fino a quasi 5 m. Il risultato è in accordo con l’idea che la distanza percepita dipenda dalla
variazione regolare, presente nell’assetto ottico, degli angoli solidi corrispondenti alla
struttura del terreno. Tenendo conto dell’altezza dal terreno dei propri occhi e di questo
gradiente, il sistema percettivo ricaverebbe la distanza mettendo in atto l’equivalente
biologico del calcolo di una semplice relazione geometrica. Con il buco, la variazione
graduale non è più disponibile, il calcolo non è possibile, e si verifica l’illusione di
sovrastima.
8 Sedgwick, H. (1986). Space perception. In K. R. Boff, L. Kaufman, & J. P. Thomas (Eds.), Handbook ofperception and human performance (Vol. 1, pp 1-57). New York, NY: Wiley.
9 Sinai, M.J., Ooi, T. L., e He, Z.J. (1998). Terrain influences the accurate judgement of distance. Nature, 395,497-500.
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Processi di elaborazione di informazione spaziale
Ma cosa intendiamo quando facciamo riferimento all’”equivalente biologico del
calcolo di relazioni geometriche?” Nello studio contemporaneo dei processi cognitivi,
l’elaborazione di informazione da parte della mente umana viene concettualizzato come una
forma di “computazione naturale” basata su dati provenienti dai sistemi percettivi. In questo
tipo di approccio dunque percepire lo spazio significa in un certo senso ricostruire, a partire
da specifiche fonti di informazione ottica, la posizione relativa nell’ambiente delle superfici
di supporto, degli oggetti e del nostro corpo. Per comprendere la natura di questo processo,
un gran numero di ricerche in psicologia cognitiva si sono occupate di descrivere le proprietà
dell’assetto ottico potenzialmente informative riguardo allo spazio (i cosiddetti “indici”
spaziali), nonché di comprendere gli ambiti in cui queste proprietà possono essere
effettivamente utili. Sembra ormai chiaro che alcuni dei sistemi deputati all’elaborazione
spaziale hanno una componente innata, rilevabile sperimentalmente già dopo pochi giorni di
vita. Altri aspetti del funzionamento di questi sistemi sembrano invece svilupparsi nel corso
del primo anno, in stretto rapporto con la maturazione del sistema nervoso e con lo sviluppo
delle competenze motorie. Una classificazione di massima viene presentata nella sottosezione
successiva. Più di recente inoltre molti ricercatori hanno cominciato ad occuparsi del
problema di come diversi indici spaziali potrebbero venire combinati, o “integrati”, al fine di
ottenere una rappresentazione maggiormente accurata e precisa dello spazio. Ad alcune
ricerche in questo ambito è dedicata la seconda parte di questa sezione.
Fonti di informazione sullo spazio
La capacità di svolgere compiti spaziali dipende dalle fonti di informazione spaziale
presenti nella struttura spaziotemporale dell’assetto ottico, le quali hanno rilevanza minore o
maggiore a seconda che si consideri lo spazio peripersonale (nel cui ambito l’interazione con
gli oggetti è possibile senza spostarsi), lo spazio dell’azione (interazione possibile con
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locomozione), o lo spazio panoramico (oggetti a distanza).
Per comprendere la natura di tali fonti di informazione è utile distinguere innanzi tutto
fra le fonti di informazione di questo tipo e i cosiddetti indici “fisiologici” di distanza. Con
quest’ultimo termine si fa riferimento ai meccanismi dell’accomodazione e della
convergenza, che erano noti già a Berkeley (vedi la sezione precedente), ma hanno in realtà
rilevanza marginale per il complesso della percezione spaziale. Ad esempio, si può
facilmente mostrare che l’angolo di convergenza dei due occhi è praticamente pari a zero
quando un soggetto fissa un punto a più di 6 m di distanza, e in generale varia molto poco per
distanze superiori a circa 0.5 m. Inoltre non sembra possibile ottenere giudizi affidabili di
distanza per punti luminosi visti al buio con un occhio solo da una posizione fissa10, una
condizione in cui l’informazione potenziale si riduce alla sola accomodazione. Per fonti di
informazione presenti nella struttura spaziotemporale dell’assetto ottico intendiamo invece
quelle proprietà relazionali degli angoli solidi, descrivibili per mezzo della geometria
proiettiva, che possono essere messe in relazione
10 Mon-Williams, M., e Tresilian, J. R. (1999). Some recent studies on the extraretinal contribution to distanceperception. Perception, 28, 167-181.
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Figura 2. Occlusione, grandezza relativa, altezza sul piano pittorico
e parallasse di movimento nella struttura spaziotemporale degli
assetti ottici relativi a un osservatore che occupa sequenzialmente le
posizioni marcate 1, 12 e 24 mentre guarda verso tre panelli
quadrati a diverse distanze sul terreno. Line of sight: direzione
dello sguardo. (Adattato da Bruno e Cutting, 1988).
con proprietà spaziali dell’ambiente. Tali fonti di informazione possono essere suddivise in
tre categorie principali: monoculari pittoriche, monoculari legate al movimento, binoculari.
Vediamo brevemente di cosa si tratta.
Per fonti di informazione monoculari pittoriche intendiamo quelle proprietà
dell’informazione ottica che possono essere riprodotte in un quadro o una fotografia. Si tratta
di informazione necessariamente monoculare, in quanto un’opera figurativa non può che
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simulare la struttura dell’assetto ottico da uno specifico punto di vista e in un preciso istante
nel tempo11. L’insieme di metodi che chiamiamo “prospettiva” possono essere interpretati
come tecniche per sfruttare la potenziale informazione pittorica in un quadro o in un disegno
tecnico allo scopo di far vedere a un potenziale fruitore la tridimensionalità di un ambiente o
di un edificio.
Ad esempio, al crescere della distanza e a parità di altre condizioni oggetti sul terreno
occuperanno, nell’assetto ottico, posizioni via via più elevate e vicine all’orizzonte (altezza
sul piano pittorico) e corrisponderanno ad angoli solidi via via più piccoli (grandezza
relativa). I micro-angoli sottesi dagli elementi sulla grana delle superfici (texture) avranno
densità, compressione e grandezza in funzione della loro posizione sulla superficie e
dell’orientamento di questa rispetto al punto di vista. Superfici opache che sono posizionate
nell’ambiente dietro altre superfici opache avranno, nell’assetto ottico, angoli solidi
parzialmente interrotti dall’angolo creato dalle superfici davanti ad esse (occlusione). Per
superfici molto distanti, come quelle delle montagne, i margini dell’angolo solido
corrispondente tenderanno a diventare sempre meno contrastati quanto maggiore la distanza
(prospettiva aerea). L’importanza dell’informazione pittorica nella percezione spaziale viene
spesso sottostimata. Se è vero infatti che alcune fonti di informazione sono utili solo a
definire relazioni ordinali, non metriche (si pensi all’occlusione), e che altre fonti di
informazione sono utili solo a valutare distanze estreme (come nel caso della prospettiva
aerea), l’utilizzo tecnicamente sofisticato dell’informazione pittorica può produrre esperienze
spaziali anche molto realistiche -- sempre a patto che l’osservatore venga posto non troppo
lontano dalla posizione in cui si trova il punto di vista utilizzato per creare la
rappresentazione pittorica. Inoltre è possibile dimostrare che in alcune condizioni
l’informazione pittorica modifica in maniera drammatica l’effetto di altri tipi di
informazione. Ma una discussione di questo specifico tema ci porterebbe su un terreno troppo
11 In un certo senso esperienze come quella del cubismo o di certi quadri futuristi possono essere interpretatecome tentativi di presentare simultaneamente la struttura spaziale di più assetti ottici. Si noti tuttavia che inquesto caso la struttura multipla non può essere simulata sulla tela, ma solo suggerita attraverso unacombinazione di forme astratte.
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tecnico rispetto agli scopi di questo scritto.
Le informazioni monoculari legate al movimento sono costituite da tutte le
modificazioni che hanno luogo nella struttura dell’assetto ottico in conseguenza del
movimento del punto di vista rispetto a oggetti fermi, di oggetti rispetto a un punto di vista
fermo, o di entrambe le cose (che è poi il caso generale). In modo un po’ impreciso, possiamo
pensare al cinema per avere un esempio di manipolazione sistematica di indici legati al
movimento (oltre ovviamente che di indici pittorici). Rispetto al caso di un osservatore in un
ambiente reale c’è tuttavia una importante differenza: guardando un film si sta fermi, mentre
nell’ambiente reale gli indici legati al movimento dipendono dalla nostra attività esplorativa,
ossia da come ci muoviamo rispetto agli oggetti. Questo ha due conseguenze: che lo spazio
visto al cinema viene vissuto comunque come uno spazio rappresentato, non come
un’esperienza realistica, e che un buon regista ha a disposizione uno strumento espressivo
molto potente, ossia la possibilità di simulare strutture spaziotemporali da cui un soggetto
verrebbe stimolato, se si muovesse in una certa maniera in un certo ambiente. Secondo alcune
teorie dell’esperienza estetica, la duplice consapevolezza che deriva dal sapere di essere fermi
in una certa posizione ma allo stesso tempo dal venire stimolati in maniera coerente
coll’occupare altri punti di vista è alla base della risposta emotiva che provocano certe forme
di arte visiva12.
Un buon esempio di informazione spaziale legata al movimento è la cosiddetta
parallasse di movimento. Supponente di fissare un oggetto mentre vi state spostando
nell’ambiente. In conseguenza del vostro spostamento, il vostro occhio occuperà una serie
successiva di punti di vista diversi. Verrete perciò esposti a una variazione continua nella
struttura dell’assetto ottico, pensabile come una serie di spostamenti relativi fra gli angoli
solidi nell’assetto. In particolare, tutti gli oggetti più lontani di quello fissato si sposteranno
otticamente nella direzione del vostro movimento, mentre tutti gli oggetti più vicini si
sposteranno nella direzione opposta. Non solo. Tali spostamenti avranno velocità ottiche
12 Kubovy, M. (1986). The psychology of perspective and renaissance art. Cambirdge, UK: CambridgeUniversity Press.
Bruno, N. Lo spazio della percezione e dell’azione 16___________________________________________________________________________
proporzionali alla distanza nell’ambiente dall’oggetto fissato: tanto maggiore la distanza,
tanto maggiore la velocità. Vi sono convincenti prove del fatto che il nostro sistema
percettivo è sensibile all’informazione contenuta in queste velocità relative e la usa per
ricostruire la struttura 3D dell’ambiente13.
Figura 3. Il concetto di disparità binoculare.
L’informazione spaziale binoculare, infine, risulta dalla rilevazione delle differenze
fra gli assetti ottici disponibili ai due occhi. L’esistenza di tali differenze era già nota ad
Euclide ed è discussa da Leonardo. Tuttavia risale alla prima metà dell’ottocento la
dimostrazione definitiva che opportuni disegni a tratto presentati separatamente ai due occhi
(utilizzando uno strumento ancora oggi detto stereoscopio) potevano generare un’esperienza
del tutto realistica e convincente di tridimensionalità. Le differenze fra gli assetti ottici
presentati ai due occhi di un soggetto vengono chiamate disparità binoculari e rappresentano
la base, oltre che di numerosissime ricerche scientifiche, anche di molti giochi da salotto
come i cosidetti “viewmaster” (sostanzialmente, stereoscopi giocattolo) di moda qualche
decennio fa o le immagini dette “magic eye” in cui è possibile visualizzare oggetti 3D
mettendo in registro la fissazione binoculare con la disparità nascosta in una nuvola di punti
apparentemente casuali. Non c’è dubbio che la disparità binoculare abbia un ruolo essenziale
13 Caudek, C., & Proffitt, D. R. (1993). Depth perception in motion parallax and stereokinesis. Journal ofExperimental Psychology: Human Perception and Performance, 19, 32-47.
Bruno, N. Lo spazio della percezione e dell’azione 17___________________________________________________________________________
per la valutazione di distanze e il controllo di azioni nello spazio peripersonale. Per
convincervi di questo, provate ad afferrare un oggetto circa mezzo metro davanti a voi
tenendo un occhio chiuso.
L’integrazione dell’informazione spaziale
Nell’ambiente naturale, la struttra spaziotemporale degli assetti ottici contiene sempre
contemporaneamente molte delle fonti di informazione menzionate sopra. Per questo motivo,
appare plausibile pensare che il sistema visivo umano non si limiti a utilizzare le diverse fonti
per ottenere ricostruzioni spaziali separate dell’ambiente, ma combini l’informazione fornita
dalle diverse fonti in un’unica rappresentazione. Un lavoro di integrazione di questo tipo
avrebbe oltretutto il vantaggio di superare i limiti intrinseci di ogni singola fonte, ottenendo
una rappresentazione che dovrebbe risultare maggiormente accurata e precisa. Non è difficile
dimostrare che tale attività di integrazione ha effettivamente luogo. Ad esempio, molti
risultati sperimentali dimostrano che le stime di distanza e di distanza relativa si modificano
al crescere del numero di fonti di informazioni disponibili14.
Una dimostrazione particolarmente efficace di come il sistema percettivo combini
informazioni spaziali proviene da alcune osservazioni sulla stanza distorta inventata da
Adalbert Ames a Princeton15. Si tratta di uno spazio chiuso, proprio come una vera e
propria camera d’appartamento, dotato di una porta attraverso la quale è possibile entrare e
di finte finestre dipinte sulle pareti. Al contrario di una normale stanza d’appartamento,
tuttavia, la camera di Ames ha una pianta trapezoidale e su una delle pareti la stanza ha uno
spioncino, attraverso il quale è possibile osservare l’interno. In cosa consiste l’illusione è
presto detto. Due oggetti di uguali dimensioni, posti nella stanza nei due angoli visibili
dallo spioncino, appaiono di dimensioni completamente diverse. Infatti la posizione dello
14 Bruno, N., & Cutting, J. E. (1988). Minimodularity and the perception of layout. Journal of ExperimentalPsychology: General, 117, 161-170. Künnapas, T. (1968). Distance perception as a function of availablevisual cues. Journal of Experimental Psychology, 77, 523-529.
15 Ittelson, W. H. (1952). The Ames demonstrations in perception. Princeton, NJ: Princeton University Press.
Bruno, N. Lo spazio della percezione e dell’azione 18___________________________________________________________________________
spioncino, la forma delle pareti, e quella delle finte finestre sono studiati in modo che, dal
punto di vista obbligato, la parete di fondo sembri formare angoli di 90 gradi con le pareti
laterali. Come se la stanza avesse una normale pianta rettangolare. Questo il fatto che rende
conto dell’illusione: dato che il sistema percettivo cerca di combinare le informazioni
presenti nella struttura della luce in una stima coerente di distanza, grandezza, e posizione
nello spazio, e dato che con questa stanza la soluzione a cui arriva è quella di una pianta
rettangolare, i due oggetti (che sono fisicamente uguali) vengono trattati come se fossero
alla stessa distanza dal punto di vista. Ma siccome in realtà sono a distanze diverse, i
corrispondenti angoli solidi sono diversi, per cui i due oggetti appaiono di diversa
grandezza.
Un esperimento di Gehringer e Engel16 dimostra che l’illusione dipende proprio dal
fatto che, nell’attribuire una grandezza ai due oggetti, il nostro sistema tiene conto
dell’informazione di cui dispone relativamente alle relazioni spaziali presenti nella stanza.
Utilizzando una camera simile a quella progettata da Ames, ma con una apertura
sufficientemente grande da consentire di inserirvi la testa, questi due ricercatori hanno
chiesto a un gruppo di soggetti di scegliere, fra un gruppo di oggetti presentati al di fuori
della stanza, quello che aveva grandezza uguale a quella di un oggetto test presentato al suo
interno. La procedura veniva ripetuta in quattro condizioni diverse. Nella prima condizione,
simile alle condizioni tipiche di osservazione per la stanza di Ames, i soggetti guardavano
l’oggetto test con la testa immobilizzata da un supporto e una benda sopra un occhio. Nella
seconda condizione, la benda veniva rimossa in maniera che i soggetti potessero osservare
la stanza con due occhi. Nella terza condizione, la benda veniva indossata di nuovo, ma il
supporto per la testa veniva rimosso, in maniera da consentire al soggetto di muovere la
testa. Infine, nella quarta condizione, anche la benda veniva rimossa.
16 Gehringer, W. L., e Engel, E. (1986). Effect of Ecological Viewing conditions on the Ames’ distorted roomillusion. Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance, 12, 2, 181-185.
Bruno, N. Lo spazio della percezione e dell’azione 19___________________________________________________________________________
Figura 4. Sinistra: come appaiono due persone nella stanza di Ames. Destra: la
vera struttura 3D della stanza e le condizioni di osservazione. (Adattato da
Sekuler e Blake, 1994).
Le quattro condizioni consentono al soggetto di acquisire sempre maggiore
informazione riguardo alle relazioni spaziali presenti nella stanza: nella prima condizione,
queste sono limitate agli indici prospettici presenti in una singola vista; nelle altre, vengono
aggiunte informazioni provenienti dalla parallasse binoculare (la differenza fra le viste ai
due occhi) e dalla parallasse di movimento (la differenza fra viste successive).
Coerentemente con l’idea che la grandezza percepita dipende dalle relazioni spaziali,
l’illusione di Ames si riduce, da un errore di quasi l’80% nella prima condizione, fino a solo
il 20% nella quarta condizione, con la seconda e terza su livelli intermedi.
Il cervello visivo: percezione e azione
Nel sistema visivo umano e di molti altri animali, l’informazione ottica codificata
dalla retina viene inviata al lobo occipitale della corteccia (grossomodo dove abbiamo la
nuca) passando per una struttura intermedia detta nucleo genicolato laterale. Fino a circa la
metà del ventesimo secolo, i neuroscienziati ritenevano che la corteccia occipitale, sede delle
aree visive primarie, costituisse l’unica area del cervello deputata all’elaborazione di
informazione visiva. Questo quadro è cambiato drasticamente negli ultimi decenni. Oggi
Bruno, N. Lo spazio della percezione e dell’azione 20___________________________________________________________________________
sappiamo infatti che almeno la metà della corteccia del cervello primate (più di due dozzine
di aree distinte) è coinvolta in qualche maniera nell’elaborazione visiva. In particolare, si è
compreso che dal lobo occipitale il flusso di informazione si biforca e prosegue da una parte
lungo una via detta ventrale che arriva alla corteccia inferotemporale, dall’altra lungo la via
detta dorsale verso la corteccia parietale posteriore. Osservazioni sui deficit di
comportamento riscontrati in scimmie con lesioni alle aree parietali e temporali17 avevano
originariamente suggerito che le due proiezioni avessero a che fare con la distinzione fra le
funzioni legate al ricoscimento e all’interfaccia con il linguaggio (la via ventrale o via del
“cosa”), da una parte, e quelle legate alla localizzazione spaziale (la via dorsale o via del
“dove”), dall’altra.
Dati successivi, tuttavia, hanno suggerito la possibilità di una interpretazione
alternativa delle funzioni svolte dalle due vie visive. Secondo tale interpretazione più recente,
basata su osservazioni di pazienti neurologici con lesioni parietali o temporali, entrambe le
vie avrebbero a che fare con la localizzazione e la codifica di proprietà spaziali, ma
differirebbero per la specifica funzione che tale tipo di codifica deve svolgere18. In
particolare, sono stati osservati casi di pazienti con danni ventrali che hanno difficoltà nel
riconoscere e nominare oggetti comuni (ad esempio, dire che un oggetto è una tazza), ma non
hanno nessun problema a svolgere azioni dirette a questi oggetti (ad esempio, prendere la
tazza e bere). Allo stesso tempo sono noti casi di pazienti con danni dorsali che riescono a
riferire verbalmente sulle caratteristiche visive di uno stimolo (ad esempio, l’orientazione di
una fessura), ma falliscono quando devono fare un’azione basata su quella caratteristica (ad
esempio, ruotare il polso in maniera appropriata e infilare la mano nella fessura).
L’associazione fra determinati deficit comportamentali e certe localizzazioni della lesione
corrisponde molto bene a quanto ci si aspetterebbe in base all’interpretazione funzionale più
17 Ungerleider, L.G., e Mishkin, M. (1982). Two cortical visual systems. In D. J. Ingle, M.A. Goodale e R.J.W.Mansfield (Eds), Analysis of visual behavior, 549-586. Cambridge, MA: MIT press.
18 Milner, A. D., & Goodale, M. A. (1993). Visual pathways to perception and action. Progress in BrainResearch, 95, 317-337.
Bruno, N. Lo spazio della percezione e dell’azione 21___________________________________________________________________________
recente: i danni dorsali lasciano intatto il riconoscimento ma danneggiano l’azione, mentre i
danni ventrali danneggiano il riconoscimento salvando le funzioni visuomotorie.
Milner e Goodale, i padri della nuova interpretazione19, arrivano addirittura a
suggerire che noi avremmo non uno, ma due sistemi visivi ben distinti. Il primo, il sistema
ventrale, sarebbe più lento e servirebbe all’elaborazione delle relazioni spaziali fra oggetti
visibili allo scopo di rilevare le caratteristiche utili a evidenziarne le proprietà invarianti
(forma, grandezza, relazioni fra parti) all’interno delle trasformazioni proiettive cui possono
essere sottoposti con il variare continuo dei punti di vista che caratterizza l’osservatore
mobile. Tali proprietà invarianti sono appunto indispensabili per consentire il
riconoscimento. Il secondo sistema, quello dorsale, sarebbe invece veloce e deputato alla
pianificazione e al controllo delle azioni nello spazio. Questo secondo sistema elaborerebbe
informazione spaziale allo scopo di evidenziare le relazioni fra l’ambiente e il corpo
dell’osservatore piuttosto che all’interno degli oggetti stessi, e sarebbe in grado di funzionare
anche in maniera indipendente dalla coscienza.
Risposte visive e risposte visuomotorie in soggetti non patologici
L’interpretazione funzionale descritta sopra suggerisce che il nostro sistema visivo
potrebbe avere due sistemi di elaborazione distinti per la percezione visiva cosciente e per la
guida visiva di azioni nello spazio. Come abbiamo visto, lo studio di alcuni casi
neuropsicologici sembra supportare la distinzione. Ma l’evidenza a favore della distinzione
non è limitata ai casi di pazienti con lesioni cerebrali. Molti ricercatori infatti hanno notato
che un sistema di guida delle azioni, se indipendente dalla coscienza, potrebbe produrre
risposte visuomotorie con caratteristiche diverse dai giudizi forniti in maniera consapevole
attraverso il linguaggio o altra procedura adatta a riflettere l’esperienza consapevole.
Questa previsione sembra confermata da diversi studi che hanno confrontato
l’impressione cosciente di distanza lungo il terreno con una risposta visuo-locomotoria
19 Milner, A. D., & Goodale, M. A. (1995). The visual brain in action. Oxford, England: Oxford UniversityPress.
Bruno, N. Lo spazio della percezione e dell’azione 22___________________________________________________________________________
consistente nel camminare ad occhi chiusi fino a un oggetto dopo averlo osservato20. Se il
terreno si estende senza interruzioni dal punto di vista all’oggetto (si noti la differenza con la
situazione utilizzata dalla Ooi, descritta nella sottosezione sull’assetto ottico), e in assenza di
altri oggetti nel campo visivo, la valutazione consapevole della distanza dal punto di vista
all’oggetto tende a mostrare una sottostima, variabile da soggetto a soggetto, ma in generale
abbastanza forte: su un gruppo di una ventina di persone, si osserva tipicamente una
sottostima media attorno al 10% della distanza reale. Al contrario invece la risposta visuo-
locomotoria non mostra alcuna sottostima sistematica fino ad almeno venti metri21. Il
risultato è soprendente, perché suggerisce che la rappresentazione spaziale che produce
l’esperienza consapevole di distanza non è la stessa che viene usata per programmare lo
spostamento che verrà poi eseguito ad occhi chiusi. Detto in altre parole, ciò che “pensiamo
di vedere” non è quello che poi guida le nostre azioni nello spazio.
Tecnicamente, la sottostima della distanza orizzontale lungo il piano sagittale (asse
“z”) rispetto al piano frontale (asse “x”) è un esempio di anisotropia dello spazio percepito ed
una ulteriore dimostrazione dell’inadeguatezza del modello euclideo per comprendere la
natura dello spazio della percezione e dell’azione. Si immagini di tracciare un quadrato su un
terreno ben livellato e di osservarne i lati dopo essersi posizionati su uno degli angoli. A
causa della compressione dell’asse z, il lato che ci parte da sotto i piedi sembrerà più corto di
quello di fronte a noi, e in generale il quadrato sembrerà un rettangolo schiacciato nella
direzione sagittale. Ovviamente cambiare angolo e direzione dello sguardo modificherà la
direzione dello schiacciamento.
Un altro tipo di anisotropia si verifica nel confronto fra le estensioni in orizzontale
(“x”) e in verticale (“y”). Come si può facilmente verificare tracciando una T con gambo e
testa di uguale lunghezza su una lavagna, l’asse x in questo caso appare schiacciato rispetto
20 Loomis, J. M., Da Silva, J. A., Fujita, N., & Fukusima, S. S. (1992). Visual space perception and visuallydirected action. Journal of Experimental Psychology: Human Perception & Performance, 18, 906-921.
21 Thomson, J. A. (1983). Is continuous visual monitoring necessary in visually guided locomotion? Journal ofExperimental Psychology: Human Perception & Performance, 9, 427-443.
Bruno, N. Lo spazio della percezione e dell’azione 23___________________________________________________________________________
all’asse y. La compressione orizzontale-verticale è anch’essa un effetto piuttosto robusto.
Stimabile attorno al 6% di compressione in x per tratti disegnati, può arrivare a più del 10%
in ambienti reali22 (ad esempio, stimando la lunghezza dei lati di edifici). Sorprendentemente,
tuttavia, anche ne caso della compressione orizzontale-verticale la distorsione scompare se,
invece di una risposta visiva consapevole, si misura una risposta motoria eseguita alla cieca
dopo avere osservato uno stimolo. Ad esempio, se si chiede a un soggetto di afferrare con
l’indice e il pollice la barretta verticale o orizzontale di una T in rilievo, l’apertura fra le dita
non è minore in orizzontale come ci aspetterebbe in base alla compressione percettiva. E non
finisce qui. Altri tipi di anisotropie dello spazio includono la percezione dell’inclinazione del
terreno, che tende sistematicamente ad essere sovrastimata (le salite sembrano più ripide di
quanto non siano veramente), e la percezione dell’estensioni di superfici parzialmente
occluse, che sembrano più strette di quanto non siano veramente (“restringimento amodale” o
illusione di compressione di Kanizsa). Anche in queste situazioni è stato dimostrato che
alcune risposte visuomotorie non mostrano le distorsioni dei giudizi consapevoli23.
La ricerca contemporanea sulla percezione dello spazio è caratterizzata, in questo
momento, da un vivace dibattito sulla generalizzabilità e sulla causa di queste dissociazioni
percezione-azione osservabili nelle risposte di soggetti non affetti da patologie neurologiche.
Va detto innanzitutto che non tutte le risposte visuomotorie risultano sempre dissociate
dall’esperienza consapevole. La dissociazione tende ad essere evidente soprattuto con
risposte veloci, di tipo quasi-balistico, eseguite senza controllo visivo una volta iniziata
l’azione. Carey ha caratterizzato questo tipo di azione con gli aggettivi “veloce, stupida,
egocentrica”24, riferendosi appunto alle caratteristiche di azione che non richiede
22 Yang, T. L., Dixon, M. W., & Proffitt, D. R. (1999). Seeing big things: Overestimation of heights is greaterfor real objects than for objects in pictures. Perception, 28, 445-467.
23 Proffitt, D. R., Bhalla, M., Gossweiler, R., & Midgett, J. (1995). Perceiving geographical slant.Psychonomic Bulletin & Review, 2, 409-428. Bruno, N. e Bernardis, P. (2002). Dissociating perception andaction in Kanizsa’s compression illusion. Psychonomic Bulletin & Review, 9, 723-730.
24 Carey, D. P. (2001) Do action systems resist visual illusions? TRENDS in Cognitive Sciences, 5, 109-113.
Bruno, N. Lo spazio della percezione e dell’azione 24___________________________________________________________________________
pianificazione consapevole, viene eseguita automaticamente e utilizzando una codifica
egocentrata della distanza. Sembra quindi evidente che la distinzione fra due sistemi visivi
indipendenti, uno dedicato esclusivamente alla guida delle azioni e uno dedicato
esclusivamente alla percezione consapevole, sia una distinzione eccessivamente schematica.
La possibilità che in alcune condizioni percezione ed azione siano dissociate rimane tuttavia
di grande interesse, non solo teorico ma anche, da un punto di vista pratico, per la
progettazione di spazi da utilizzare da parte di soggetti umani più o meno mobili.