diritto penale elemento oggettivo del reato penale n. 4 penale... · scientifica (cosiddetta legge...
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Dottrina
Il nesso di causalità
SOMMARIO
1. Le caratteristiche generali. – 2. La teoria condizionalistica secondo la formulazione tradizionale. – 3. La teoria
condizionalistica secondo il modello della «sussunzione sotto leggi scientifiche». – 4. La teoria della causalità
adeguata. – 5. La teoria della causalità umana – 6. L'equivalente normativo della causalità nei reati omissivi impropri. – 7.
Le concause. - 8. La sentenza “Franzese” e i principi da essa desumibili.
1. Le caratteristiche generali
La fattispecie oggettiva di un reato commissivo di evento
ricomprende, tra i suoi elementi costitutivi, il nesso di
casualità che lega l’azione all’evento medesimo: in un
diritto penale ispirato ai principi di materialità (art. 25,
comma 2, Cost.) e di personalità di responsabilità penale
(art. 27 Cost.), l’imputazione di un evento lesivo richiede
che il reo abbia materialmente causato il risultato dannoso
(Garofoli).
Diversamente da altri codici vigenti, il codice penale
italiano contiene una disciplina espressa del rapporto
causale (artt. 40 e 41 c.p.), ma soltanto apparentemente
gli artt. 40 e 41 c.p. hanno contribuito ad agevolare il
compito dell'interprete alle prese col concetto di causalità
penalmente rilevante.
L'art. 40 c.p. richiede che l'evento dannoso o pericoloso,
dal quale dipende l'esistenza del reato, sia
«conseguenza» dell'azione od omissione del reo. Il
problema si pone al momento di individuare i criteri atti a
stabilire le condizioni, in presenza delle quali è corretto
asserire che sussiste il richiesto nesso di
condizionamento: a questo proposito il codice tace,
finendo così con l'affidare al giudice la soluzione del nodo
decisivo.
L'art. 41 c.p. disciplina invece il fenomeno delle
«concause». In proposito, l'attenzione degli interpreti ha
finito col polarizzarsi sulla disposizione contenuta nel 2°
co., a tenore del quale le «cause sopravvenute escludono
il rapporto di causalità quando sono state da sole
sufficienti a determinare l'evento». Al riguardo, non è facile
scoprire — tra l'altro — quale tipo di nesso intercorra tra la
disciplina generale contenuta nell'art. 40, comma 1, c.p. e
la clausola delimitativa della responsabilità in tema di
cause sopravvenute. Il legislatore ha verosimilmente
inteso affermare il principio secondo cui in determinati
casi, malgrado l'esistenza di un nesso condizionalistico,
un'affermazione di responsabilità contrasterebbe con la
logica normativa dell'imputazione penale. Ma anche
questa volta la formula codicistica, lungi dal fungere da
idoneo criterio-guida per l'interprete, abbisogna essa
stessa di essere adeguatamente decifrata.
2. La teoria condizionalistica secondo la
formulazione tradizionale.
Con ogni probabilità i compilatori del codice, nell'affermare
il principio di cui all'art. 40, comma 1, c.p., hanno voluto
recepire una concezione della causalità che va
tradizionalmente sotto il nome di teoria «condizionalistica»
o della condicio sine qua non, elevando al rango di causa
ogni condizione indispensabile al verificarsi di un
determinato evento. Secondo la formulazione tradizionale,
la teoria della condizione sine qua non può essere così
espressa: è causa ogni condizione dell'evento, ogni
antecedente senza il quale l'evento non si sarebbe
verificato. In sostanza, perché la condotta umana funga da
causa, basta che essa integri una delle condizioni che
conducono al risultato preso in considerazione dalla
norma.
Al fine di accertare il richiesto nesso di condizionamento, il
criterio cui si ricorre è quello usualmente definito
«procedimento di eliminazione mentale»: applicando tale
criterio, un'azione è condicio sine qua non di un evento, se
non può essere mentalmente eliminata senza che l'evento
stesso venga meno.
3. La teoria condizionalistica secondo il modello
della «sussunzione sotto leggi scientifiche».
La tradizionale formula della condicio presta il fianco ad
obiezioni critiche. La prima obiezione fa leva sul rilievo che
la formula in esame — di per sé considerata — non
spiega perché, in assenza dell'azione, l'evento non si
sarebbe verificato: mentre proprio il ricorso al metodo
dell'eliminazione mentale presuppone che il soggetto
giudicante sappia in anticipo se in genere sussistano
rapporti di derivazione tra antecedenti e conseguenti di un
certo tipo.
La prima correzione da apportare alla teoria della condicio
deve rendere esplicito il fondamento sul quale poggia il
procedimento di eliminazione mentale: ma è a questo
punto che si prospetta in astratto la scelta tra modelli di
spiegazione causale potenzialmente alternativi.
Secondo un primo orientamento, il giudizio relativo
all'imputazione oggettiva di un determinato evento
resterebbe affidato all'«intuizione» del giudice: a seguire
questa impostazione, la ricostruzione giudiziale del nesso
di condizionamento potrebbe prescindere dalla ricerca di
leggi causali generali, sotto cui sussumere il rapporto tra i
singoli accadimenti oggetto di giudizio. Al fondo di un
simile atteggiamento mentale, sta il convincimento che il
giudice — a differenza dello scienziato — non deve
preoccuparsi di accertare successioni regolari tra
fenomeni concepiti, a loro volta, come accadimenti
ripetibili.
Alle esigenze di tassatività e certezza soddisfa la teoria
condizionalistica corretta secondo il modello della
sussunzione sotto leggi scientifiche. Alla stregua di questo
modello causale, un'azione può essere considerata come
condizione necessaria soltanto se essa rientri nel novero
di quelle azioni che, sulla base di una successione
regolare conforme ad una legge dotata di validità
scientifica (cosiddetta legge generale di copertura),
producono eventi del tipo di quello verificatosi in concreto
(Stella – Fiandaca, Musco). L'impiego del modello in
esame comporta la necessità di chiarire quali siano le
«leggi generali di copertura» accessibili all'organo
giudicante sul terreno del processo penale.
Ora, si distingue tra spiegazioni causali basate su «leggi
universali» e spiegazioni causali fondate su «leggi
statistiche. Le prime affermano che la verificazione di un
accadimento è invariabilmente accompagnata dal
verificarsi di un altro accadimento e, pertanto, soddisfano
nella misura più alta le esigenze di rigore scientifico e
certezza. La seconde asseriscono, invece, che il rapporto
di successione regolare tra due eventi esiste soltanto in
una certa percentuale di casi.
Sicuramente, se si vuole evitare di rendere aleatorio il
perseguimento degli scopi preventivo-repressivi del diritto
penale, è giocoforza ammettere che alle esigenze tipiche
del processo corrisponde anche un accertamento basato
su leggi statistiche.
Ma una spiegazione statistica del nesso causale deve, per
risultare veramente attendibile, obbedire a precise
condizioni. In sostanza, perché l'evento risulti attribuibile
all'agente, si deve essere in grado di asserire che, in
mancanza del comportamento dell'agente, l'evento stesso
con un alto grado di probabilità non si sarebbe verificato.
Ovviamente, la percentuale di probabilità, variando
necessariamente da caso a caso, potrà essere
determinata soltanto tenendo conto delle peculiarità dei
fenomeni di volta in volta considerati.
Un corretto impiego della teoria condizionalistica
presuppone, altresì, che si determini con sufficiente
precisione il concetto di «evento» come secondo termine
del nesso di condizionamento. Si tratta del problema della
cosiddetta descrizione dell'evento, il quale emerge con
particolare evidenza nei casi di causalità alternativa
ipotetica e di causalità addizionale.
È ormai acquisizione pressoché pacifica che l'evento,
quale secondo termine del nesso di condizionamento, va
concepito come evento concreto che si verifica hic et nunc
(Fiandaca, Musco): ne consegue che, se risulta provato
un nesso di reale condizionamento tra l'azione del reo e
questo evento concreto, a nulla rileva il giudizio ipotetico
che eventi dello stesso genere di quello verifìcatosi
avrebbero potuto prodursi per effetto di cause alternative.
Con particolare riguardo poi alle ipotesi di causalità
addizionale, occorre correggere la formula della condicio
nel senso di riconoscere come cause anche quelle
condizioni dell'evento che, cumulativamente considerate,
costituiscono un presupposto necessario dell'evento
spazio-temporalmente circoscritto, e che lo sarebbero
alternativamente, se l'altro presupposto non esistesse .
4. La teoria della causalità adeguata.
Un'altra concezione molto diffusa nell'ambito della scienza
penalistica è quella che va tradizionalmente sotto il nome
di teoria della causalità adeguata. Si tratta di un modello di
spiegazione causale sorto, in origine, come correttivo alla
teoria condizionalistica. Invero, una rigida applicazione
della teoria condizionalistica risulterebbe eccessivamente
rigorosa: si pensi al celebre esempio di scuola di A che,
con volontà diretta a provocare una lieve ferita, lancia un
sasso a B, emofiliaco, determinandone involontariamente
la morte; A dovrebbe rispondere di omicidio
preterintenzionale, per aver materialmente cagionato
l'evento letale, anche se ignorava del tutto la preesistente
condizione di particolare vulnerabilità di B.
La teoria dell'adeguatezza tende perciò a selezionare
come causali soltanto alcuni antecedenti: cioè è
considerata causa, nel senso del diritto penale, quella
condizione che è tipicamente idonea o adeguata a
produrre l'evento, secondo un criterio di prevedibilità
basato sull'id quod plerumque accidit.
Dal punto di vista dell'accertamento, si ritiene che esso
vada effettuato tenendo conto delle circostanze presenti al
momento del fatto e conoscibili ex ante da un osservatore
avveduto, con aggiunta di quelle conoscenze superiori
eventualmente possedute dall'agente concreto (criterio
della cosiddetta prognosi postuma o ex ante in concreto).
Nonostante sia stata fatta oggetto di progressivi
aggiustamenti, la teoria in esame presta il fianco a serie
obiezioni critiche.
Una prima obiezione fa leva sul rilievo che il ricorso al
criterio dell'adeguatezza non sempre risulta idoneo a
circoscrivere l'ambito della responsabilità penale. Cioè, si
danno ipotesi nelle quali l'azione appare ex ante idonea a
produrre l'evento lesivo, e tuttavia quest'ultimo si verifica in
conseguenza di circostanze imprevedibili (si pensi al noto
caso di scuola di Tizio che provoca una grave ferita a
Caio, il quale poi muore invece a causa di un incendio
dell'ospedale scoppiato per ragioni fortuite: qui, per quanto
la grave ferita appaia ex ante idonea a cagionare la morte
del soggetto passivo, sembra iniquo addossare al feritore
l'evento morte così come si è in concreto verificato).
Peraltro, la stessa idea di adeguatezza, proprio perché
ancorata ai giudizi di probabilità tipici della vita quotidiana,
presenta margini di elasticità suscettibili di dar luogo ad
incertezze applicative.
5. La teoria della causalità umana.
L'idea di fondo, che fa da premessa alla concezione della
causalità umana (Antolisei), è così riassumibile: sono
imputabili all'uomo soltanto gli eventi che egli può
«dominare in virtù dei suoi poteri conoscitivi e volitivi» e
che, perciò, rientrano nella sua «sfera di signoria»; per
contro, non possono ritenersi causati dall'uomo quei
risultati che egli non è in grado di padroneggiare. In
particolare, sfuggirebbero ai poteri di signoria dell'uomo —
per ripetere le parole dell'Antolisei — «non certo tutti gli
effetti anormali, o atipici (...) Ciò che sfugge veramente
alla signoria dell'uomo è il fatto che ha una probabilità
minima, insignificante di verificarsi, il fatto che si verifica
solo in casi rarissimi: in una parola, il fatto eccezionale».
Ai fini dell'accertamento di un rapporto di causalità
penalmente rilevante, pertanto, «occorrono due elementi:
uno positivo ed uno negativo. Il positivo è che l'uomo con
la sua azione abbia posto in essere una condizione
dell'evento, e cioè un antecedente senza il quale l'evento
stesso non si sarebbe verificato. Il negativo è che il
risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali».
Nonostante sia andata diffondendosi anche nella prassi
applicativa, la teoria in esame va incontro ad obiezioni.
Si è notato infatti che il riferimento al concetto di signoria o
dominabilità del fatto in virtù dei poteri conoscitivi e volitivi
dell'uomo, rimanda ad un tipo di valutazione che
caratterizza, più propriamente, la categoria della
colpevolezza. La teoria in esame finisce, dunque, col
sovrapporre tra loro causalità e colpevolezza.
6. L'equivalente normativo della causalità nei reati
omissivi impropri.
La causalità si atteggia in modo del tutto peculiare
nell'ambito dei reati omissivi cosiddetti impropri. Ciò che si
imputa all'omittente è non già di avere materialmente
cagionato un evento lesivo, bensì di non averne impedito
la verificazione. Appunto perché consapevole delle
peculiarità della condotta omissiva, il legislatore del '30 ha
sancito, al 2° co. dell'art. 40 c.p., il seguente principio:
«Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di
impedire, equivale a cagionarlo».
In sostanza, il giudice deve verificare in che modo
l'eventuale compimento dell'azione doverosa avrebbe
influenzato il corso degli accadimenti; e, più in particolare,
se sarebbe valso a impedire la verificazione dell'evento
lesivo — evento, a sua volta direttamente cagionato da un
accadimento naturale o dall'azione di un terzo.
L'accertamento del nesso omissione-evento poggia,
dunque, su di un giudizio ipotetico o prognostico: cioè,
supposta mentalmente come realizzata l'azione omessa,
ci si chiede se, in presenza di essa, l'evento lesivo si
sarebbe verificato ugualmente oppure sarebbe venuto
meno. Proprio al fine di accertare l'attitudine dell'azione
doverosa, di fatto non realizzata, a impedire l'evento
lesivo, il giudice dovrà rinvenire la legge scientifica o
regola di esperienza, in base alla quale sia giustificato
asserire che, ove ricorrano determinati antecedenti,
vengono meno effetti del tipo di quello verificatosi in
concreto (anche il giudizio ipotetico in questione va,
dunque, orientato secondo il modello della sussunzione).
Una volta rinvenuta la «legge di copertura» adatta ai casi
di specie, il giudice potrà procedere all'applicazione della
formula della condicio che, sul terreno dell'illecito omissivo
improprio, va articolata nel seguente modo: l'omissione è
causa dell'evento se non può essere mentalmente
sostituita dall'azione doverosa, senza che l'evento venga
meno (Pagliaro - Fiandaca, Musco).
A questo punto, rimane da accennare al problema del
«grado di certezza» raggiungibile in sede di accertamento
della causalità omissiva.
Invero, facendo leva sul rilievo che i giudizi ipotetici sono
per loro natura esposti ad inevitabili margini di incertezza,
la dottrina maggioritaria ritiene che, in sede di
accertamento del nesso di condizionamento tra la
condotta omissiva e l'evento, non si possa raggiungere lo
stesso livello di rigore esigibile nell'accertamento del
nesso di causalità inteso in senso stretto: per cui,
nell'applicare la formula della condicio, ci si accontenta di
esigere che l'azione doverosa, supposta come realizzata,
sarebbe valsa ad impedire l'evento con una probabilità
vicina alla certezza.
7. Le concause.
Il legislatore italiano disciplina espressamente il fenomeno
del convergere di più cause nella produzione di un
medesimo evento.
L'art. 41, comma 1, c.p. stabilisce al riguardo che il
«concorso di cause preesistenti o simultanee o
sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od
omissione del colpevole, non esclude il rapporto di
causalità fra l'azione od omissione e l'evento». Com'è
agevole osservare, il principio contenuto nella disposizione
testé richiamata non rappresenta altro, se non una logica
conseguenza dell'accoglimento della teoria
condizionalistica verosimilmente fatta propria dal nostro
legislatore nell'art. 40, comma 1, c.p.
Coerente con la recezione della teoria condizionalistica
risulta, altresì, la disposizione di cui al 3° co. dell'art. 41,
dove si afferma che la causa preesistente o simultanea o
sopravvenuta può anche consistere in un «fatto illecito
altrui»: invero, nell'ottica dell'equivalenza delle condizioni,
non fa alcuna differenza che la concausa sia
rappresentata da un accadimento naturale ovvero da una
azione umana.
Delle disposizioni contenute nell'art. 41 c.p., la più
controversa sul piano interpretativo è quella del 2° co., la
quale stabilisce che le «concause sopravvenute
escludono il rapporto di causalità quando sono state da
sole sufficienti a determinare l'evento».
Introducendo la disposizione in esame, il legislatore ha
inteso fare riferimento a fattori eziologici che intervengono
«congiuntamente» ad una precedente azione del soggetto
della cui responsabilità si discute: solo che si tratta di
fattori in grado di «interrompere» l'originario nesso
intercorrente tra questa precedente azione e l'evento
lesivo che si verifica. La formula di cui all'art. 41 cpv. è
stata dai compilatori del codice pensata con riferimento ai
casi di cosiddetto decorso causale atipico, cioè
caratterizzati da una evoluzione degli eventi non
riconducibile agli schemi di una ordinaria prevedibilità.
Basti ricordare il caso di scuola del ferito che muore per
l'incendio scoppiato nell'ospedale successivamente al
ricovero. Se così è, la ratio sottesa all'art. 41 cpv. va
evidentemente ravvisata nell'intento di introdurre un
temperamento volto a correggere l'eccessivo rigore di un
accertamento causale rigidamente ancorato alla formula
condizionalistica.
Secondo parte della dottrina (Antolisei-Mantovani), la
disciplina dell'interruzione del nesso causale contenuta
nell'art. 41 c.p.v. dovrebbe, per ragioni di giustizia
sostanziale, essere analogicamente estesa alle cause
«preesistenti» o «concomitanti» da sole sufficienti a
cagionare l'evento.
8. La sentenza “Franzese” e i principi da essa
desumibili
La sentenza n. 27 (relativa al caso Franzese) pronunciata
dalle Sezioni Unite il 10.7.2002 e depositata l'11.9.2002
(C., S.U., 10.7-11.9.2002), ha riordinato l’intera materia del
nesso di causalità, attraverso una lettura che:
1) fa leva sulla teoria condizionalistica ritenuta desumibile
dall'art. 40 c.p. e temperata dalla teoria della causalità
umana;
2) ammette l'impiego di frequenze probabilistiche (anche
medio-basse) solo se siano effettivamente pertinenti
all'accertamento concreto del fatto, ma ricolloca la
questione sul piano probatorio dei criteri di accertamento
degli elementi costitutivi del fatto, superando la
confusione, operata da alcune precedenti pronunce, fra
prova del fatto e qualificazione del fatto;
3) enfatizza la diversità fra certezza giuridica e certezza
scientifica;
3) riconosce che i requisiti di determinazione del rapporto
causale non sono diversi da quelli utilizzabili per la
determinazione di qualsiasi altro elemento di fattispecie,
incluse le generalizzazioni basate sull'esperienza del
senso comune.
Una serie di sentenze ha recepito, facendone
applicazione, i principi espressi dalla sentenza 27 del
2002. In particolare, la IV Sezione (C., Sez. IV, 3.10-
15.11.2002) ha precisato che la certezza predicata dalla
sentenza Franzese è la "certezza processuale", che il
giudice può conseguire, secondo un procedimento logico,
valorizzando tutte le circostanze del caso concreto, al pari
di tutti gli altri elementi della fattispecie sottoposti al suo
accertamento. Sotto questo profilo, la "certezza
processuale" non deve comunque coincidere con la
oggettiva e scientifica certezza (C., Sez. IV, 6.3.2012, n.
17758; C., Sez. IV, 9.2.2006; C., Sez. IV, 25.5-12.7.2005;
C., Sez. IV, 8.6.2005; C., Sez. IV, 2.3.2005; C., Sez. IV,
21.12.2004; C., Sez. IV, 18.3.2004; C., Sez. IV,
3.10.2002).
Si ricordi, infine, che secondo la più recente
giurisprudenza di legittimità, il giudizio di alta probabilità
logica non definisce il nesso causale in sé e per sé, ma
piuttosto il criterio con il quale procedere all'accertamento
probatorio di tale nesso, il quale, diversamente da quanto
accade per l'accertamento di ogni altro elemento
costitutivo del reato, deve consentire di fondare, all'esito di
un completo e attento vaglio critico di tutti gli elementi
disponibili, un convincimento sul punto, dotato di un
elevato grado di credibilità razionale (Cass. pen., sez. IV,
12 febbraio 2014, n. 9695).
Dottrina
Le scriminanti
SOMMARIO
1. Le caratteristiche generali. – 2. In particolare: la legittima difesa – 3. Segue: lo stato di necessità – 4. Scriminanti
tacite
1. Le caratteristiche generali.
Le c.d. cause di giustificazione (altrimenti definite con i
termini cause oggettive di esclusione del reato o
scriminanti o cause di liceità) possono in generale
essere definite come situazioni in presenza delle quali
una azione od omissione, di regola sanzionata dal
diritto penale, viene considerata lecita perché
autorizzata o addirittura imposta dall'ordinamento
giuridico.
Mentre una siffatta definizione generale risulta
essenzialmente condivisa in dottrina, risultano
controversi, all'opposto, due temi.
In primo luogo, appare controversa la posizione delle
cause di giustificazione nella struttura del reato.
Volendo semplificare al massimo, la questione è legata
alla presenza, nel dibattito dottrinale, di due
fondamentali opzioni dommatiche. Per i fautori della
c.d. concezione bipartita nel reato andrebbero
essenzialmente individuate due componenti: il fatto
oggettivo tipico e la colpevolezza. In quest'ambito
visuale, le cause di giustificazione assumerebbero il
ruolo di elementi negativi del fatto oggettivo tipico; per
l'integrazione di quest'ultimo sarebbero, di
conseguenza, altrettanto necessarie sia la presenza di
tutti gli elementi positivi richiesti dalla legge per la
esistenza del delitto, sia la mancanza di cause di
giustificazione.
Per i fautori della c.d. concezione tripartita l'analisi del
reato andrebbe scomposta nel graduale accertamento
di tre componenti rappresentate, innanzitutto, dalla
tipicità (intesa come mera conformità di un dato
comportamento e di una data situazione di fatto a
quanto vietato ai sensi di una disposizione
incriminatrice); in secondo luogo, dalla antigiuridicità
obiettiva considerata come una componente costitutiva
autonoma del reato, ed indicante un rapporto di
contraddizione tra il fatto e l'intero ordinamento
giuridico; in terzo luogo dalla colpevolezza formula con
la quale vengono designati tutti gli elementi che
caratterizzano il collegamento soggettivo fra fatto e suo
autore e dai quali dipende la possibilità di muovere
all'agente un rimprovero per aver commesso il fatto
antigiuridico. In questa prospettiva, la presenza delle
cause di giustificazione impedirebbe il giudizio di
antigiuridicità obiettiva; le cause di giustificazione
designerebbero, di conseguenza, l'insieme delle facoltà
o dei doveri derivanti da norme, situate in ogni luogo
dell'ordinamento, che autorizzano o impongono la
realizzazione di questo o quel fatto (v. Grosso, Cause di
giustificazione, in EG, VI, Roma, 1988; Romano,
Comm. Romano, PG, I, 520; De Francesco, Sulle
scriminanti, in SIur, 2000, 270).
La differenza fondamentale tra bipartizione e
tripartizione consiste quindi proprio nel posto
assegnato, nella struttura del reato, alle cause di
giustificazione.
Sotto un secondo profilo costituisce oggetto di
discussione il fondamento delle cause di giustificazione.
Al riguardo può dirsi che alla base delle cause di
giustificazione sembra stare una valutazione
comparativa di interessi: da un lato l'interesse tutelato
dalla norma penale, dall'altro l'interesse che sta alla
base dell'azione giustificata. La funzione politico
criminale delle cause di giustificazione sembra così
sintetizzabile: in certi casi, pure in presenza di un
comportamento in via astratta indicato come offensivo
di determinati beni, si potrebbe manifestare l'esigenza
di non applicare la sanzione penale proprio per la
presenza, alla base dell'azione giustificata, di un altro
interesse meritevole di tutela.
2. In particolare: la legittima difesa (art. 52 c.p.)
La legittima difesa si colloca fra le cause di
giustificazione che escludono, già su un piano obiettivo,
la configurabilità di un fatto di reato.
Per quanto riguarda il fondamento della scriminante si
ritiene che questo vada innanzitutto riconosciuto nella
insopprimibile esigenza di autotutela che si manifesta
nel momento in cui, in situazioni nelle quali lo Stato non
è in grado di assicurare una pronta ed efficace
protezione dei beni giuridici individuali, viene
riconosciuta, entro limiti ben precisi fissati dalla legge,
una deroga al monopolio statuale dell'uso della forza
(per tutti: Romano, Comm. Romano, PG, I, Milano,
2004, 534; Fiore, Diritto penale, parte gen., I, Torino,
1993, 320; Grosso, Difesa legittima e stato di necessità,
Milano, 1964, 308; Padovani, 497), con un conseguente
bilanciamento di interessi contrapposti (nella specie:
interesse minacciato dell'aggredito, da un lato, e
interesse leso dell'aggressore, dall'altro).
Il diritto proprio o altrui rappresenta, come è stato
efficacemente sottolineato (Padovani, Difesa legittima,
500), l'elemento di raccordo tra i due poli attorno ai
quali ruota il fatto tipico commesso dal soggetto che si
difende: la situazione aggressiva e la reazione
difensiva. Ed invero il «diritto proprio o altrui»
rappresenta, al contempo, l'oggetto contro cui si dirige
l'offesa ingiusta ed in favore del quale si esercita la
difesa.
A questo proposito è concordemente riconosciuto in
dottrina che l'espressione utilizzata dall'art. 52 sia
idonea a ricomprendere non soltanto diritti soggettivi in
senso stretto ma, più in generale, qualunque situazione
giuridica attiva avente ad oggetto beni non soltanto di
natura personale (vita, integrità fisica, libertà, onore
ecc.), ma anche patrimoniale (proprietà o altri diritti
reali, possesso, diritti di godimento) [per
esemplificazioni: Grosso, Legittima difesa (dir. pen.), in
ED, XXIV, Milano, 1974, 36; Padovani, Difesa legittima,
500]. Fra i diritti a carattere patrimoniale, peraltro,
sembrano potersi comprendere anche i diritti di credito
aventi ad oggetto prestazioni di dare quando vi sia il
concreto pericolo che il soddisfacimento del diritto di
credito venga definitivamente frustrato dalla condotta
del debitore. In ipotesi di questo tipo, nonostante
qualche perplessità avanzata in dottrina (Viganò, in
Comm. Dolcini, Marinucci, 792; sul punto v. anche
Padovani, La condotta omissiva nel quadro della difesa
legittima, in RIDPP, 1970, 675) è da riconoscere
(ovviamente a condizione che la condotta difensiva
appaia necessaria e proporzionata) la applicabilità della
scriminante, in quanto viene pur sempre in gioco una
condotta finalizzata a difendersi (attraverso il
conseguimento della prestazione dovuta) contro il
rischio di un definitivo pregiudizio del proprio
patrimonio. Per ipotesi di difesa di diritti a carattere
patrimoniale: C., Sez. V, 14.3.2003; C., Sez. I,
11.5.1981; C., 24.1.1967; C., Sez. I, 17.5.1954.
Nel senso che la scriminante in questione
riguarderebbe la tutela di un concreto diritto posto in
pericolo da un'offesa ingiusta, e che, pertanto, il
generico valore, costituito dalla famiglia (salvaguardare
l'unità della famiglia), rimarrebbe un'astrattezza ove non
si concretizzi in un diritto soggettivo e non risultino,
ancora, gli altri elementi del pericolo attuale e
dell'ingiustizia dell'offesa cfr. C., Sez. V, 2.12.2003 (nel
caso di specie la scriminante della legittima difesa era
invocata dal marito che aveva fatto installare un
apparecchio per intercettare le telefonate della moglie,
sospettata di una relazione extraconiugale).
Il riferimento legislativo a un diritto "proprio o altrui"
sembra postulare la riferibilità dell'interesse da
difendere a un soggetto determinato. Resterebbero, di
conseguenza, fuori dalla portata applicativa della
scriminante azioni finalizzate alla difesa di beni a
carattere collettivo o superindividuale riferibili in via
esclusiva allo Stato-ordinamento (ordine pubblico,
economia pubblica, ambiente, buon costume).
La aggressione nei confronti della quale viene
riconosciuta la legittimità di una condotta difensiva deve
concretizzarsi, per espressa statuizione normativa, nel
«pericolo attuale di una offesa ingiusta».
Per quanto riguarda il requisito del pericolo attuale, il
giudizio circa l'esistenza del pericolo va fatto su basi
rigorosamente oggettive e, quindi, tenendo in
considerazione tutte le circostanze del caso concreto
(anche se conosciute successivamente al fatto), purché
presenti al momento della condotta offensiva; queste
debbono apparire idonee, secondo la migliore scienza
ed esperienza, a provocare o ad aggravare quegli
eventi lesivi che si vogliono scongiurare attraverso
l'azione difensiva (in questo senso: Mantovani, PG,
258). In merito al requisito della attualità del pericolo
(che possiede indubbiamente una funzione selettiva
delle ipotesi di legittima difesa ammissibili) va
preliminarmente osservato che la reazione difensiva è
pacificamente da escludersi allorché il pericolo sia
ormai cessato senza tradursi in una effettiva lesione
ovvero si sia realizzato in una conseguenza lesiva non
più neutralizzabile o non più suscettibile di
approfondimento.
Allo stesso modo, la attualità del pericolo può essere
ritenuta presente nelle ipotesi in cui la lesione appaia
cronologicamente imminente, e nei casi in cui
l'aggressione, già iniziata, sia ancora in corso di
attuazione (in quanto in questo caso la legittima difesa
può consentire di scongiurare ulteriori eventi dannosi).
Secondo parte della dottrina e della giurisprudenza
deve ritenersi ammissibile la legittima difesa anche: 1)
nei casi in cui l'offesa non appaia ancora
cronologicamente vicina ma sia comunque necessario
agire, senza avere alcuna possibilità di rivolgersi
all'autorità, approfittando di una occasione favorevole
(che rischia di non più ripetersi), per evitare un danno
futuro ma certo (c.d. legittima difesa anticipata
sintetizzabile nell'espressione "ora o mai più": sul punto,
v. Marinucci, Cause, 141; Marinucci, Dolcini, PG, 256);
2) nell'ipotesi in cui l'offesa sia già realizzata ma
l'azione difensiva appaia necessaria per evitare il suo
definitivo consolidamento (v. Frosali, 306, contra,
Viganò, in Comm. Dolcini, Marinucci, 779).
Il pericolo attuale deve avere ad oggetto una offesa
ingiusta. L'espressione vale a sottolineare innanzitutto
che il pericolo di lesione deve derivare da una condotta
umana. Per quanto riguarda il requisito dell' ingiustizia è
pacifico, in dottrina, che questa non debba
necessariamente tradursi in un comportamento
costituente reato, mentre tale è sicuramente l'offesa
arrecata contra jus (cioè quella vietata e sanzionata,
non necessariamente con sanzione penale,
dall'ordinamento giuridico). All'opposto è
concordemente esclusa la legittima difesa nei confronti
delle offese arrecate jure cioè nell'esercizio di una
facoltà legittima o nell'adempimento di un dovere.
Fra questi due estremi si collocano quelle offese che
senza essere suscettibili di sanzione per chi le compie
non sono realizzate in adempimento di un comando
giuridico, né sono oggetto di una esplicita norma
autorizzativa. In questa categoria rientrano le
aggressioni non colpevoli perché realizzate da soggetti
privi di dolo o di colpa o da soggetti non imputabili, le
aggressioni realizzate da soggetti immuni (ma sul punto
v. le attente precisazioni di Padovani, Difesa legittima,
508) e, secondo taluni, anche le aggressioni realizzate
da chi agisce in stato di necessità o in esecuzione di un
ordine illegittimo vincolante. In questa costellazione di
casi, tutti accomunati da un'offesa arrecata non jure, la
dottrina che accoglie un concetto ristretto di "ingiustizia"
da limitare esclusivamente alle offese arrecate contra
jus ritiene che l'unica scriminante applicabile alla
condotta di autotutela possa essere lo stato di
necessità nei limiti assai più rigorosi che sono propri di
tale ipotesi (Manzini, II, 390). Chi ritiene, invece, di
ricondurre al concetto di ingiustizia anche le offese
arrecate non jure, nel senso al quale si è appena fatto
cenno, propone senza difficoltà l'applicabilità della
legittima difesa (Mantovani, PG, 258; a risultati analoghi
perviene, in tali ipotesi, Pagliaro, PG, 441).
In giurisprudenza, nel senso che non sarebbe ingiusta,
ma anzi sarebbe lodevole, la violenza esercitata da un
privato cittadino - pure in assenza dei presupposti che
legittimerebbero l'arresto da parte del privato in
flagranza di reato - per bloccare un borseggiatore in
fuga anche dopo che questi ha abbandonato la refurtiva
(con la conseguenza che la reazione violenta del
borseggiatore per riconquistare la libertà non sarebbe
legittima difesa ma integrerebbe il reato di rapina
impropria) v. C., Sez. II, 7.7.2004.
Perché l'offesa realizzata attraverso l'azione difensiva
possa essere giustificata sono necessari, accanto ai
caratteri dell'aggressione sopra esaminati, anche
precisi requisiti della reazione. Il tenore testuale dell'art.
52 impone, in proposito, di considerare attentamente tre
distinti requisiti: la "costrizione", la "necessità", la
"proporzione fra difesa e offesa".
Per quanto attiene al requisito della costrizione,
secondo la dottrina dominante la "costrizione" sarebbe
da intendere oggettivamente, come indicativa della
situazione in cui l'aggredito viene a trovarsi per la
sussistenza del pericolo, e la conseguente necessità di
evitare che esso si tramuti in danno; una tale situazione
sarebbe apprezzabile da un «osservatore esterno,
indipendentemente da ogni eventuale rappresentazione
della realtà materiale da parte dell'autore del fatto
tipico» (testualmente: Grosso, Difesa, 240. Nello stesso
senso: Romano, PG, I, 560; Padovani, Difesa legittima,
509).
Tuttavia, in più occasioni, la giurisprudenza ha
sottolineato la necessità di una componente soggettiva
nella condotta di chi si difende, caratterizzata dalla
consapevolezza della aggressione e dalla volontà di
reagire all'offesa: cfr. C., Sez. I, 24.11.1978; C., Sez. I,
23.11.1977; C., Sez. I, 16.11.1977.
Anche mantenendo un'interpretazione rigorosamente
obiettiva del termine "costrizione" è tuttavia possibile
attribuire ad esso un significato autonomo rispetto al
diverso requisito della "necessità". A questo proposito
va segnalata la presa di posizione di chi sottolinea
(Padovani, Difesa legittima, 510) che il requisito
esprimerebbe la necessità che l'alternativa conflittuale
fra l'offendere e l'essere offeso risulti "subita" dal
soggetto che si difende. Mentre il requisito della
"necessità" andrebbe valutato solo "dopo"
l'aggressione, il requisito della costrizione andrebbe
valutato nel momento, per così dire, "genetico" della
situazione scriminante.
Sulla base di questa interpretazione del requisito in
parola, la costrizione (e quindi la scriminante della
legittima difesa) andrebbe esclusa ogniqualvolta
l'alternativa conflittuale fra l'offendere e l'essere offeso
risulti intenzionalmente provocata dal soggetto che
invoca la scriminante o da lui consapevolmente
accettata. La legittima difesa va quindi esclusa, perché
il soggetto non è "costretto" a subire l'alternativa fra
difendersi o essere offeso, nei casi di provocazione
intenzionale, di volontaria partecipazione ad una rissa,
di accettazione di una sfida a battersi.
Nel caso di provocazione non intenzionale (cioè non
preordinata a scatenare l'aggressione del provocato
allo scopo di poterlo offendere invocando la legittima
difesa), invece, non vi sarebbero ragioni per negare la
possibilità di invocare la legittima difesa in presenza di
una aggressione da parte del provocato (Padovani,
Difesa legittima, 504; Grosso, Difesa, 79).
Per la esclusione della legittima difesa nei casi di
partecipazione ad una rissa cfr. C., Sez. I, 14.12.1992;
C., Sez. I, 24.9.1987; C., Sez. I, 14.1.1986. Per i casi di
sfida lanciata o accolta escludono l'applicabilità dell'art.
52: C., Sez. I, 27.11.2012-31.1.2013, n. 4874; C., Sez.
I, 31.10.1995; C., Sez. I, 10.10.1995; C., Sez. I,
4.5.1992. Per C., Sez. V, 24.6.2008, n. 31633, in caso
di lesioni volontarie reciproche non ricorre la legittima
difesa qualora i due contendenti si siano lanciati
contemporaneamente alla reciproca aggressione.
La legittima difesa viene invece riconosciuta quando
l'avversario, nel caso di una sfida che avrebbe dovuto
aver luogo senza armi, ne abbia improvvisamente fatto
uso (C., Sez. I, 19.10.1982), o in ipotesi in cui la
reazione del provocato appaia assolutamente
imprevedibile e sproporzionata (C., Sez. V, 20.12.1984;
C., Sez. I, 26.9.1984).
Nel senso invece che la configurabilità della legittima
difesa, a differenza di quanto avviene con riguardo allo
stato di necessità, non è di per sé esclusa dalla
volontaria accettazione di una situazione di pericolo ma
solo dalla già prevista necessità di dover fronteggiare
quel pericolo mediante la commissione di un reato cfr.
C., Sez. I, 9.1.2004.
Si può passare ora all'esame del requisito della
necessità. Come ritenuto dalla dottrina prevalente il
requisito in parola comporta che la applicazione della
scriminante deve essere esclusa innanzitutto allorché il
soggetto aggredito abbia la possibilità di difendersi
senza offendere l'aggressore oppure, ove ciò non sia
possibile, allorché la difesa possa essere realizzata con
una offesa meno grave di quella arrecata (per tutti:
Mantovani, PG, 260). Inoltre, la condotta difensiva, in
tanto può essere considerata necessaria, in quanto
appaia idonea a neutralizzare il pericolo (Grosso,
Difesa, 24; Padovani, Difesa legittima, 511. Contra,
Viganò, in Comm. Dolcini, Marinucci, 801).
Alla luce di queste premesse può essere affrontata la
questione della applicabilità della scriminante a chi,
potendo fuggire, si difende. Conformemente all'opinione
espressa dalla dottrina più recente (Mantovani, PG,
261; Romano, Comm. Romano, PG, I, 557; Pagliaro,
PG, 442; Fiandaca, Musco, PG, 288; Antolisei, PG,
304) ispirata anche alla logica del bilanciamento fra
interessi contrapposti sottesa all'intero settore delle
scriminanti, va accolta una soluzione intermedia che
escluda l'applicazione della scriminante allorché la fuga
appaia agevole, non rischiosa per l'aggredito o per i
terzi, non particolarmente vergognosa. Viceversa la
scriminante andrebbe riconosciuta allorché la fuga
esporrebbe l'aggredito o altri a probabili offese di una
certa gravità o possieda connotati particolarmente
negativi assumendo il valore di un deplorevole
cedimento alla delinquenza.
Per ipotesi in cui la legittima difesa è stata esclusa in
considerazione della possibilità di una fuga agevole e
non pregiudizievole verso beni dell'aggredito o di terzi
cfr. C., Sez. I, 10.2.1984; C., Sez. V, 28.5.1982. Per
ipotesi in cui la legittima difesa è stata esclusa in
considerazione della possibilità di realizzare una
efficace difesa con una condotta meno lesiva per
l'aggressore rispetto a quella realizzata cfr. C., Sez. I,
24.11.1978; C., Sez. I, 10.4.1978.
Oltre che necessaria la difesa deve risultare
proporzionata all'offesa.
Al riguardo la dottrina non ha mancato di sottolineare
l'autonomia di tale requisito rispetto a quello della
necessità e la sua funzione ulteriormente selettiva ai fini
della identificazione dei casi in cui la scriminante può
essere riconosciuta. Può essere, infatti, presente la
necessità senza la proporzione, e viceversa potrebbe
sussistere la proporzione ma non la necessità
(Mantovani, PG, 262).
Circa i criteri da utilizzare per formulare il giudizio di
proporzione, la dottrina dominante ha ormai da tempo
ripudiato quella interpretazione che desumeva la
proporzione dal rapporto fra i mezzi usati dall'aggredito
e quelli a sua disposizione. Una volta rifiutato il criterio
dei mezzi viene concordemente sottolineata in dottrina
l'importanza centrale che, ai fini del giudizio di
proporzione, assume la valutazione del confronto fra il
bene dell'aggredito (posto in pericolo dall'aggressore) e
quello dell'aggressore (sacrificato dalla reazione
difensiva).
Nel dare concreta attuazione a questa comparazione si
è, peraltro, sottolineato come non ci si possa limitare ad
un confronto astratto fra i beni (v. Grosso, 32; Fiore C.,
Fiore S., 314) ma occorra procedere ad un giudizio di
natura essenzialmente dinamica che tenga altresì
conto: 1) della circostanza che l'esigenza di autotutela
sulla quale si fonda la scriminante comporta,
inevitabilmente, che il bene dell' aggressore finisca con
l'apparire meno degno di tutela rispetto al bene
dell'aggredito ( v. Mantovani, PG, 263; Romano,
Comm. Romano, PG, I, 559); 2) di ogni circostanza
concreta che possa apprezzabilmente influenzare il
giudizio di proporzione come l’intensità del pericolo
minacciato nei confronti dell'aggredito; le caratteristiche
dell'aggredito stesso e rapporti di forza fra questo e
l'aggressore; il tempo e luogo dell'azione (per
approfondimenti ed esemplificazioni sul punto:
Fiandaca, Musco, PG, 289; Mantovani, PG, 263;
Romano, PG, 559; Padovani, Difesa legittima, 513); 3)
dei mezzi a disposizione della vittima (Romano, 524;
Contento, 345). In argomento v. anche Pierdonati, La
proporzione nella difesa legittima: il "momento" e la
"base" del giudizio, in IP, 2003, 587.
Per l'applicazione della regola di esperienza secondo
cui colui che è reiteratamente aggredito reagisce come
può, secondo la concitazione del momento, con la
conseguenza che non è tenuto a calibrare l'intensità
della reazione, finalizzata ad indurre la cessazione della
avversa condotta lesiva, salva l'ipotesi di eventuale
manifesta sproporzione della reazione cfr. C., Sez. V,
24.2-27.6.2011, n. 25608.
Il panorama dottrinario e giurisprudenziale appena
prospettato relativamente al requisito della proporzione,
sembra esigere una attenta riconsiderazione in
conseguenza della entrata in vigore della L. 13.2.2006,
n. 59 che, aggiungendo due commi all'art. 52, introduce
una sorta di «presunzione legale del requisito della
proporzione» che scatterebbe in presenza di talune
condizioni espressamente e tassativamente indicate.
Sennonché, nonostante lo scopo chiaramente
ricavabile dalla lettura della rubrica stessa dell'unico
articolo della legge («Diritto alla autotutela in un privato
domicilio»), non sembra che siano stati raggiunti
risultati particolarmente rivoluzionari rispetto al
precedente quadro normativo.
Fra i principali elementi di contraddittorietà della norma
va segnalato innanzitutto il fatto che i commi aggiunti
dalla riforma del 2006 sembrano, per un verso,
configurare una scriminante che sembra caratterizzata
da vistosi elementi di autonomia rispetto alla
tradizionale ipotesi di cui al primo comma. Ed invero, un
chiaro elemento di "rottura" rispetto alla logica propria
della tradizionale scriminante prevista dall'art. 52
sembra proprio rappresentato dalla «presunzione di
proporzione» che scatterebbe in presenza di taluni
requisiti tassativamente individuati:
a) nella commissione di una violazione di domicilio ai
sensi dell'art. 614 c.p. da parte dell'aggressore;
b) nella presenza legittima del domicilio da parte
dell'aggredito;
c) nell'uso di un'arma legittimamente detenuta o di altro
mezzo idoneo a fini difensivi;
d) nel fine di difendere la propria o altrui incolumità
ovvero i beni propri o altrui a condizione che, in questa
seconda ipotesi non vi sia desistenza e vi sia pericolo di
aggressione.
Sennonché è facile avvedersi che la pretesa di
superare, attraverso una presunzione legale, i rigorosi
limiti fissati dall'art. 52 c.p. nella sua versione originaria,
finisce con l'essere quasi completamente
ridimensionata. Per un verso, infatti, la presunzione di
cui al terzo e al quarto comma, incidendo soltanto sul
requisito della proporzione, non fa venir meno
l'esigenza di accertare, perché la scriminante sia
effettivamente operativa, la presenza di tutti gli altri
requisiti di liceità della condotta difensiva previsti
dall'art. 52, 1° co. e, in particolare, il requisito della
"necessità". Ma anche la stessa «presunzione di
proporzione» introdotta dalla nuova legge non sembra
possa mai legittimare la uccisione dell'aggressore o una
reazione difensiva che si risolva in una grave lesione
della sua incolumità fisica quando venga in gioco il
pericolo di una offesa al solo patrimonio dell'aggredito.
In giurisprudenza, per una applicazione della norma in
esame alla luce delle recenti modifiche cfr. C., Sez. V,
14.5.2008, n. 25653; C., Sez. I, 8.3.2007, n. 16677; C.,
Sez. IV, 29.9.2006; C., Sez. V, 28.6.2006 che
confermano come la nuova normativa non abbia, in
realtà, inciso in modo significativo sui tradizionali canoni
interpretativi e applicativi della scriminante.
Per l'affermazione che la presunzione di proporzionalità
tra offesa e difesa, stabilita al 2° co. dell'art. 52, si
applica anche nel caso di legittima difesa putativa cfr.
C., Sez. I, 9.2-23.3.2011, n. 11610.
Si segnala come, da ultimo, la Suprema corte, ha fatto il
punto sulla c.d. legittima difesa domiciliare, stabilendo
che, la causa di giustificazione prevista dall'art. 52,
comma secondo, cod. pen., così come modificato
dall'art. 1 della legge 13 febbraio 2006, n. 59, non
consente un'indiscriminata reazione nei confronti del
soggetto che si introduca fraudolentemente nella
dimora altrui ma presuppone un pericolo attuale per
l'incolumità fisica dell'aggredito o di altri (Cass. pen.,
sez. IV, 14 novembre 2013, n. 691).
Nel caso di specie la Corte ha escluso la configurabilità
della scriminante per essersi l'aggressore introdotto non
nell'abitazione ma in altro fabbricato in costruzione ad
essa attiguo, sempre di proprietà dell'aggredito, dal
quale, tuttavia, non sarebbe stato possibile raggiungere
con immediatezza la casa di quest'ultimo.
3. Segue: lo stato di necessità (art. 54 c.p.)
La scriminante dello stato di necessità ruota attorno al
requisito del pericolo, che esprime la seria possibilità
che si verifichi il danno grave alla persona contemplato
dall'art. 54. Fonte del pericolo può essere tanto un
evento naturale quanto un fatto dell'uomo, allorché la
reazione sia diretta non contro l'aggressore, ma contro
il terzo. La sussistenza della situazione di pericolo va
accertata riportandosi al momento del fatto e tenendo
conto di tutte le circostanze effettivamente esistenti,
anche se non conosciute dall'agente. Va, però,
osservato che, in virtù dell'art. 59, 4° co., l'erronea
opinione circa l'esistenza di una situazione di pericolo in
realtà insussistente esclude ugualmente la punibilità a
titolo di dolo, residuando la responsabilità per il delitto
colposo eventualmente previsto dalla legge, ove l'errore
sia determinato da colpa.
Il pericolo deve essere attuale. Secondo la lettura
restrittiva il pericolo postulerebbe l'imminenza del
verificarsi del danno. Secondo la lettura estensiva, più
ancorata alla lettura della legge, il pericolo attuale è il
pericolo semplicemente presente. Anche dal punto di
vista della ratio non vi sono ragioni di limitare la portata
della lettura. Pericolo attuale, dunque, è pericolo
attualmente presente, concetto intermedio tra i due
estremi dell'imminenza del danno e della mera
previsione circa il possibile futuro insorgere di una
situazione di pericolo (nel senso di cui al testo, Comm.
Romano, I, 571; Fiandaca, Musco, 306, che mettono in
evidenza come talora sia opportuno agire
anticipatamente per impedire l'aggravamento delle
potenzialità lesive insite nella situazione pericolosa; per
la nozione più restrittiva, Grosso, Difesa, 80).
A differenza della legittima difesa, riferibile alla tutela di
qualsiasi diritto, lo stato di necessità è contemplato
dalla legge esclusivamente per la salvaguardia di sé od
altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona.
Con interpretazione estensiva, la dottrina ha ammesso
la riferibilità dell'istituto alla tutela di altri beni personali,
come la libertà personale, fisica o morale, la libertà
sessuale, la riservatezza, il pudore, l'onore, da
considerarsi beni fondamentali della persona, alla luce
della tavola costituzionale dei valori (Comm. Romano, I,
570; nello stesso senso, Antolisei, 311; Fiandaca,
Musco, 309; Grosso, Difesa, 179; Pagliaro, PG, 447; in
senso contrario, Contento, 346; Nuvolone, Il sistema,
198). A partire dalla seconda metà degli anni '70,
comunque, è prevalso l'orientamento teso ad allargare
la sfera dei diritti personali suscettibili di tutela, sì che
hanno trovato ingresso nel sistema non soltanto il diritto
alla salute ex art. 32 Cost., bensì anche il diritto al
lavoro, all'abitazione, a una vita dignitosa, sul
fondamento del principio solidaristico statuito dall'art. 2
Cost.
Il termine cui relazionarsi per valutare il danno non è la
probabilità della lesione, ma l'intrinseca intensità
dell'offesa. È evidente che sussiste la gravità del danno
quando il bene in pericolo è di rango qualitativamente
elevato. (Mantovani, 269).
La giurisprudenza di legittimità, contemperando la tutela
dei diritti fondamentali della persona con il principio di
legalità, ha ammesso la riferibilità all'art. 54 c.p. di tutte
le situazioni che minacciano la complessa sfera dei
bisogni primari della persona, ivi compresa l'esigenza di
un alloggio. Per altro verso, però, ha ribadito che tale
interpretazione estensiva del danno grave alla persona
postula la rigorosa circoscrizione dell'esimente «ai soli
casi in cui siano indiscutibili gli altri elementi costitutivi
della stessa, in particolare la necessità e l'inevitabilità
tenuto conto delle complesse esigenze di tutela dei beni
dei terzi, che, coinvolti involontariamente dallo stato di
necessità, non possono essere compressi se non in
condizioni eccezionali, chiaramente comprovate». (C.,
Sez. III, 18.3.1983).
In tema di bisogno di alimenti, cure mediche,
abitazione, la Corte suprema circoscrive l'applicabilità
dell'esimente ai casi in cui la indilazionabilità e cogenza
del bisogno non lascia all'agente alternativa diversa da
quella di violare la legge (C., Sez. VI, 5.7.2012, n.
28115, che ha escluso l'esimente in un caso di illecita
occupazione di immobile da parte di una donna in stato
di gravidanza e con minacce di aborto e del di lei
coniuge, entrambi svolgenti regolare attività lavorativa;
cfr. anche C., Sez. II, 17.1.2008; C., Sez. II, 27.6.2007;
C., Sez. VI, 24.11.1993; C., Sez. I, 11.11.1986; C., Sez.
III, 7.10.1981; C., Sez. I, 9.3.1981; C., Sez. IV,
22.1.1976; C., Sez. VI, 12.12.1975; C., Sez. VI,
18.4.1967; C., Sez. VI, 30.1.1967).
L'esimente è esclusa quando l'agente abbia
volontariamente causato la situazione di pericolo che
costituisce il presupposto dello stato di necessità.
L'interpretazione del requisito relativo alla "non
volontarietà" della causazione è controversa. Secondo
la corrente maggioritaria, l'esimente esula quando
l'agente abbia dato causa al pericolo sia con dolo sia
con colpa (Grosso, Il requisito della produzione non
volontaria del pericolo nello stato di necessità e nella
difesa legittima, in Studi in onore di F. Antolisei, II,
Milano, 1965, 71; Fiandaca, Musco, 307; Mantovani,
268; Comm. Romano, I, 571). Altra corrente tende a
identificare causazione volontaria con causazione
dolosa del pericolo (Bettiol, Pettoello Mantovani, PG,
394; Pagliaro, 447; perplesso Molari, 62).
Sull'essenzialità nell'esimente di cui all'art. 54 del
requisito che il pericolo non sia stato causato
dall'agente cfr. C., Sez. VI, 3.3.2011, n. 11696, in tema
di violazione degli obblighi di assistenza familiare
quando l'indisponibilità dei mezzi necessari sia dovuta,
anche parzialmente, a colpa dell'obbligato.
Quanto all'interpretazione del requisito relativo
all'inevitabilità del pericolo, mentre non è controverso
che lo stato di necessità è escluso allorché il pericolo
possa essere sicuramente paralizzato attraverso il
compimento di altre condotte lecite, ovvero attraverso
rimedi civilistici o amministrativistici, v'è contrasto in
ordine alla ammissibilità dello stato di necessità quando
la condotta diversa da quella lesiva non sia valutabile
come certamente impeditiva, presentando minori
possibilità di salvaguardia del bene in pericolo rispetto
alla condotta lesiva del bene. Per risolvere il problema
si è ricostruito lo stato di necessità in modo elastico, a
seconda del rapporto di proporzione in concreto
esistente tra il bene sacrificato e il bene salvaguardato.
Se il primo è di rango modesto e il secondo ha grande
valore, lo stato di necessità dovrebbe essere
riconosciuto anche quando la condotta lesiva avrebbe
soltanto maggiori possibilità di salvaguardare il bene
rispetto alla condotta alternativa lecita (De Francesco,
238).
Sull'esclusione dell'inevitabilità in caso di sottrazione di
figlio minorenne da parte del padre, in rapporto
conflittuale con la madre, sull'asserita necessità di
evitare al figlio un intervento chirurgico ritenuto
pericoloso e superfluo, essendo sufficiente per evitare
tale operazione, per la semplice negazione del
consenso, richiesto dai medici a entrambi i genitori cfr.
C., Sez. VI, 16.3.2010, n. 12615.
Anche lo stato di necessità, come la legittima difesa,
contiene espressa menzione del requisito della
proporzione. La dottrina prevalente concepisce la
proporzione come relazione tra i beni in conflitto, nel
senso che il bene sacrificato dall'azione necessitata
non può mai essere superiore a quello salvaguardato.
Per rimarcare la differenza con la legittima difesa, si
aggiunge da taluno che nel raffronto tra beni equivalenti
la proporzione va apprezzata in modo più rigoroso che
nella legittima difesa (Antolisei, 313; Grosso, Necessità,
889; Pagliaro, 448).
L'art. 54, 2° cpv. precisa che l'esimente si applica anche
quando il pericolo deriva dall'altrui minaccia. La
disposizione si riferisce non alla violenza fisica o
assoluta, quando il soggetto diventa strumento
materiale di chi lo costringe, bensì alla costrizione
morale o relativa, quando il soggetto, pur costretto dalla
minaccia altrui, fruisce ancora di un margine di libertà.
Ora, nell'ampia gamma di condotte caratterizzate dalla
costrizione morale, la legge dichiara non punibili
soltanto quelle in cui l'intensità della costrizione abbia
determinato una situazione contrassegnata da tutti i
requisiti individuati nell'art. 54, 1° co. c.p. In questo
caso, la responsabilità si concentra in capo alle persone
che sono causa mediata dell'evento, con esclusione
della punibilità nei confronti dell'agente immediato. In
giurisprudenza, si evidenzia che il pericolo causato
dall'altrui minaccia deve avere a oggetto un danno
grave alla persona, e non un mero pregiudizio di tipo
patrimoniale (C., Sez. VI, 25.9.1987, in ipotesi in cui è
stata esclusa l'esimente in relazione a deposizione
compiacente per il datore di lavoro resa sotto minaccia
di licenziamento); non deve essere evitabile con il
compimento di un'azione diversa (C., Sez. V,
30.1.2004; C., Sez. II, 3.10.1978; C., Sez. VI,
12.6.1973; C., Sez. I, 29.9.1971, che escludono
l'esimente perché il soggetto avrebbe potuto rivolgersi
all'Autorità; in senso diverso C., Sez. VI, 10.11.2010, n.
42928; C., Sez. III, 12.5.1967, che riconosce lo stato di
necessità a favore di persona cui la mafia aveva già
amputato una mano).
Il fatto non è punibile a titolo di dolo, ai sensi dell'art. 59,
4° co. c.p. ove sia stato commesso nell'erronea
rappresentazione circa la sussistenza di una situazione
corrispondente allo stato di necessità. Oggetto
dell'errore possono essere soprattutto le condizioni di
attualità e inevitabilità del pericolo: in tali casi, quando
l'agente agisca nel ragionevole convincimento che un
grave pericolo, in realtà inesistente, lo sovrasti, ovvero
che egli non possa sfuggire a esso se non attraverso la
condotta lesiva, rappresentandosi come assolutamente
impraticabili altre vie di salvezza, va applicato l'art. 59,
4° co., c.p. che esclude il dolo, facendo salva la
punibilità a titolo di colpa, quando il fatto sia previsto
come reato colposo.
Molto vicina alla situazione di errore sulla sussistenza
degli estremi dell'esimente è la situazione contemplata
all'art. 55 c.p., relativa all'eccesso colposo. Qui pure v'è
divergenza tra la realtà effettiva e quella ritenuta dal
soggetto. Diversa è la causa dell'errore. Nel caso
dell'art. 59, 4° co., c.p. il soggetto erra sulla situazione
esterna; nel caso dell'art. 55 c.p. egli oltrepassa con il
suo agire colposo i confini del comportamento scusato.
In giurisprudenza, sulla esclusione dello stato di
necessità putativo in un caso di rifiuto di consegnare
una bambina bielorussa ai responsabili
dell'organizzazione che doveva curarne il rimpatrio, per
evitare alla minorenne un trauma psicologico nel timore
che, una volta tornata in Bielorussia, la stessa avrebbe
subito violenze di cui aveva già narrato di essere
restata vittima prima dell'affidamento temporaneo in
Italia cfr. C., Sez. VI, 21.3-16.5.2012, n. 18711.
4. Scriminanti tacite
La questione della configurabilità, nell'ambito del diritto
penale, delle scriminanti non codificate è emersa, in
particolar modo, con riferimento alle fattispecie relative
all'attività medico chirurgica ed alla violenza sportiva.
L'incertezza in ordine ai limiti d'applicazione delle cause
di giustificazione codificate e, segnatamente, di quelle
del consenso dell'avente diritto, dell'esercizio del diritto
e dello stato di necessità (quest'ultima solo con
riferimento all'attività medico chirurgica), nonché
l'apparente inidoneità delle menzionate scriminanti ad
escludere l'antigiuridicità di condotte socialmente
apprezzate ed incentivate ha condotto a teorizzare la
sussistenza di scriminanti tacite nel nostro ordinamento.
L'ammissibilità delle cause di giustificazione non
codificate è esclusa tuttavia da una parte della dottrina
che interpreta il principio di legalità in chiave
particolarmente rigorosa e come vertente su tutti gli
elementi della fattispecie penale.
In senso contrario, si è evidenziato come le cause di
giustificazione non costituiscano norme di rango
esclusivamente penale e che rappresentino dei principi
generali dell'ordinamento, con la conseguenza di non
incontrare, in ordine all'eventuale applicazione del
principio analogico, alcuno dei limiti di cui all'art. 14
delle preleggi.
Una dottrina particolarmente autorevole ha, poi,
sottolineato la concreta scarsa utilità della categoria
delle scriminanti non codificate in considerazione della
lata estensione di quelle codificate e della loro idoneità
a ricomprendere, nel loro alveo, tutte le fattispecie che,
comunemente, si usa risolvere mediante il ricorso alle
c.d. scriminanti tacite.
Per quel che concerne l'attività medico chirurgica,
occorre preliminarmente rilevare come, sia applicando
la tesi della scriminante non codificata, sia quella della
riconduzione del fatto legalmente tipico nell'ambito
operativo dell'esercizio del diritto o dello stato di
necessità è, pur sempre, necessario che non sussista,
salvo quanto previsto dall'art. 32 Cost in ordine ai
trattamenti sanitari obbligatori, un dissenso del
destinatario dell'attività medico chirurgica.
Il consenso dovrà, anzi, configurarsi come consenso
informato, salvi i casi di urgenza in cui il consenso sarà
considerato come presunto.
Secondo autorevole dottrina, tutti i casi relativi all'attività
medico chirurgica sarebbero scriminati dalla causa di
giustificazione dell'esercizio del diritto da parte del
medico in considerazione della rilievo e
dell'incentivazione sociale dell'attività medica
medesima.
Altra dottrina, ritiene che, invece, nei casi in cui il
destinatario dell'attività terapeutica non sia in grado di
manifestare il proprio consenso e vi sia l'urgente
necessità di intervenire o, addirittura, nel caso in cui
manifesti il proprio dissenso, il medico sia scriminato
dalla causa di giustificazione del soccorso di necessità.
In ogni caso occorre distinguere il caso in cui l'attività
medico-chirurgica abbia prodotto un esito fausto da
quello in cui abbia prodotto un esito infausto in quanto,
in caso di esito fausto e, cioè, di miglioramento
complessivo funzionale dello stato del soggetto,
secondo una parte della dottrina, sarebbe addirittura da
escludere la tipicità del fatto di reato di lesioni.
In caso di esito infausto, sempre che vi sia stato il
consenso del paziente, occorrerà distinguere se vi sia
stato il rispetto dei criteri di diligenza e correttezza
nell'effettuazione dell'intervento da quello in cui tali
criteri non siano stati rispettati; nel secondo caso, infatti,
sempre che il delitto sia punibile anche a titolo di colpa,
sarà configurabile la responsabilità colposa del medico.
Con riferimento alla violenza sportiva, ai fatti di
violenza, cioè, che si verifichino nel corso della pratica
sportiva, occorre distinguere quegli sport nei quali la
violenza costituisca una componente necessaria della
pratica medesima, da quegli sport nei quali il fatto
violento sia solo eventuale.
In questa ultima tipologia di sport, occorre ulteriormente
distinguere, secondo la giurisprudenza, il caso nel
quale l'evento lesivo si sia verificato nonostante il
rispetto delle regole del gioco, nel qual caso sarà da
escludere l'antigiuridicità in quanto il fatto si sarà
verificato per un caso fortuito, dal caso in cui l'evento
lesivo origini dalla violazione delle regole del gioco.
In tale ultima ipotesi, ove le regole del gioco siano
violate colposamente (nella concitazione dell'azione di
gioco e sotto l'effetto dell'agonismo e dell'ansia per il
risultato), l'autore della lesione non sarà punibile in
considerazione del mantenimento della condotta entro i
limiti del rischio consentito.
Ove, invece, la violazione delle regole del gioco sia
posta in essere consapevolmente, occorrerà
ulteriormente distinguere ai fini dell'individuazione del
titolo di responsabilità dell'autore del fatto; se, infatti, il
fatto venga commesso per finalità di gioco, il fatto tipico
sarà imputabile all'autore a titolo di colpa; se il fatto
venga commesso per finalità estranee al gioco, come,
ad esempio, per intimidire l'avversario preventivamente
o per reazione ad un precedente fallo di gioco, l'attività
sportiva si configurerà come un mero presupposto
occasionale per la commissione di un illecito doloso.
Vi è responsabilità a titolo di dolo, e va esclusa la
scriminante dell'esercizio di attività sportiva, per la
condotta volontariamente lesiva dell'incolumità
dell'avversario in relazione alla quale l'occasione del
gioco può dirsi solamente pretestuosa; la Suprema
corte ha recentemente confermato la responsabilità a
titolo di dolo di un giocatore che aveva colpito, in
maniera del tutto volontaria, un avversario con un
pugno allo zigomo (Cass. pen., sez. V, 13 febbraio
2013, n 11260).
Si è sostenuto che, anche nell'ipotesi della violenza
sportiva, per escludere l'antigiuridicità del fatto, sia
sufficiente ricorrere alla scriminante del consenso
dell'avente diritto o a quella dell'esercizio di un diritto
ma, con riferimento, alla prima si è rilevato che tale
consenso non sarebbe idoneo a scriminare fatti che
abbiano determinato diminuzioni permanenti
dell'integrità fisica o la morte e, con riferimento alla
seconda, che l'esercizio del diritto in relazione alla
rilevanza sociale della pratica sportiva sia ipotizzabile in
relazione alle competizioni professionistiche ma non in
relazione agli eventi di violenza sportiva che si
verifichino durante attività ludiche o dilettantistiche.