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DIOCESI DI PATTI I LUOGHI DELLA FEDE E DELL’ARTE ITINERARI DI VISITA (3-4-5-6) 2 a parte a cura di Basilio Scalisi

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DIOCESI DI PATTI

I LUOGHI DELLA FEDE E DELL’ARTE

ITINERARI DI VISITA (3-4-5-6)

2a parte

a cura di Basilio Scalisi

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Diocesi di Patti – I luoghi della Fede e dell’Arte – 2a parte

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Terzo itinerarioCAPO D’ORLANDO, NASO, CASTELL’UMBERTO, UCRIA, FLORESTA, TORTORICI, SAN SALVATORE DI FITALIA, GALATI MAMERTINO

Caratterizzata da una collinetta su cui si erge il Santuario dedicato alla Madonna, è la cittadina di CAPO D’ORLANDO (superficie: 14,56 kmq; abitanti: 11.778) dinamico centro della costa tirrenica, di interesse turistico ed in continua espansione, le cui origini si fanno risalire all’antica città greca di “Agatirso”, situata tra Tindari e Calacte e della quale si parla nelle opere di alcuni storici latini. Si ipotizza che il nome attuale sia stato dato da Carlo Magno in onore del famoso paladino Orlando, che attraversò questi luoghi di ritorno dalla Palestina.

In passato Capo d’Orlando fu feudo del comune di Naso e in seguito sua fra­zione, sino al 1925, anno in cui ottenne l’autonomia.

La località è caratterizzata da un promontorio sul quale sorge il Santuario dedi­cato alla Madonna, costruito nel 1598 dal conte Gerolamo Joppolo. Qui è oggetto di particolare venerazione il piccolo simulacro in argento, raffigurante la Vergine con in braccio il Bambino Gesù, che la tradizione dice offerto da San Cono da Naso.È del 1965 la costruzione della Chiesa Madre, dedicata a Cristo Re, a tre navate, situata nel centro cittadino.Accanto al Santuario sono i ruderi di un castello trecentesco, mentre in contrada Bagnoli sono stati scoperti resti di una Villa romana, di rilevante interesse.

Da Capo d’Orlando, percorrendo la statale 116, si raggiunge con facilità NASO (superficie: 36,60 kmq; abitanti: 4.070), centro collinare posto sulla dorsale di due fiumare.La sua vicenda millenaria sembra, a parere degli studiosi, riallacciarsi a quella di Agatirso e Naxida, ma non vi sono notizie documentate. Quelle certe invece si possiedono a partire dal 1094, anno in cui il conte Ruggero donò la metà del territorio di Naso ai monasteri di Lipari e Patti. Da quest’epoca sino alla fine del 1600 si alternarono nella signoria gli Alagona, i Cardona, gli Aragona, i Ventimi­glia. Nel 1925 parte del territorio di Naso venne smembrato e venne costituito il Comune di Capo d’Orlando.

Il centro storico conserva ancora nei suoi edifici e nel suo patrimonio artistico prestigiose tracce di queste antiche vicende.

È cittadina che ha dato i natali all’anacoreta san Cono. Di nobile famiglia, abbracciò l’ideale monastico basiliano, diede i suoi beni ai poveri e visse in eremitaggio e in santità. A lui è dedicata l’omonima Chiesa del XV secolo, che ne custodisce le reliquie. Gli ambienti sottostanti, un tempo denominati “catacombe”, ospitano oggi il Museo di Arte Sacra.All’inizio dell’abitato si innalza la Chiesa barocca del Santissimo Salvatore, maestosa nell’impianto architettonico, con all’interno pregevoli tele e marmi. Tra questi ultimi è il “Trittico con la Vergine tra i Santi Andrea e Gregorio”. La tavola “Madonna col Bambino dormiente” risale ai primi decenni del Cin­

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quecento e si ascrive alla cerchia di Joos van Cleve, fondendo modi fiamminghi e leonardeschi.

Ubicata nella stessa chiesa è una “Madonna con Bambino”, tratta da un origi­nario Trittico in bassorilievo, marmo di scuola gaginiana.

La Chiesa Madre, dedicata ai Santi Apostoli Filippo e Giacomo, aggrazia e domina col campanile la piazza di Naso. L’interno, a tre navate, è ampio e luminoso. Tra le grandi tele, il coro intarsiato e le statue marmoree spicca per bellezza la cappella del Rosario, oggi del SS. Sacramento, ricca di fasto, di bassorilievi e marmi mischi.Cariche di memorie sono la quattrocentesca Chiesa di Santa Maria del Gesù, quella di San Pietro dei Latini e la conventuale Chiesa di San Francesco.

Da Naso, ci spostiamo a CASTELL’UMBERTO (superficie: 11,42 kmq; abitanti: 3.304), cittadina caratterizzata da immense distese di noccioleti e uliveti.

Trae le sue origini dal bizantino sito di Castanea, che subì, come tanti altri centri dell’Isola, l’invasione araba. Appartenne al Senato di Messina dal quale, nel 1673, lo acquistò Giuseppe Gaudioso che, a sua volta, lo cedette ai Galletti.A causa delle continue frane, tra cui particolarmente gravi quelle del 1793 e del 1864, il paese venne poi ricostruito più a nord, in una posizione più sicura, prendendo il nome di Castell’Umberto, in omaggio al principe ereditario e futuro re d’Italia, Umberto I.Nel centro vecchio rimangono interessanti testimonianze della vitalità culturale e religiosa della popolazione: i ruderi della Chiesa di Santa Barbara con il campanile coronato da una cuspide maiolicata policroma, delle Chiese di San Nicolò, San Sebastiano e della Madonna delle Grazie e i resti del castello medievale.

Sulla piazza centrale del nuovo abitato si affaccia la Chiesa Madre, dedicata all’Assunta, costruita nel 1935 da maestranze locali, abili nel lavorare la pietra, che ricavano dalle cave della zona. All’interno gli altari sono stati ricomposti con materiali provenienti dalle chiese di Castanea. Meritano attenzione le statue marmoree di “Santa Maria di Gesù” del XVI secolo, sicuramente di bottega gaginesca, e quella di “Santa Caterina”.

Procedendo sulla statale 116 verso l’interno, con lo sguardo che si perde tra valli e lussureggianti vegetazioni di castagneti e noccioleti, si arriva ad UCRIA (super­ficie: 26,19 kmq; abitanti: 1.113), situata a 710 metri sul livello del mare, in leggero declio sulla vallata sinistra della fiumara di Sinagra.La derivazione greca del nome ed il ritrovamento di reperti archeologici fanno supporre che il primo insediamento sul territorio risalga al periodo greco-romano.Insignito del titolo di Principato, fin dall’epoca normanna il paese fu possesso di varie famiglie nobiliari: i Barresi, i Campisano, i Ventimiglia, gli Abate e i Marchetti. In epoca medievale, ad opera dei Ventimiglia, fu costruito, nella parte più alta, a difesa del territorio, un castello, del quale oggi restano poche tracce.Qui diversi ordini religiosi, tra cui i Domenicani, i Minori Conventuali e le Benedettine, lasciarono significative tracce di religiosità.

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Nel 1739 vi nacque Michelangelo Aurifici che, entrato nell’ordine dei Minori Riformati, prese il nome di Padre Bernardino, uno dei più illustri scienziati del secolo. Fu fondatore dell’Orto Botanico di Palermo e autore di apprezzate pubblicazioni, tra cui il testo enciclopedico “Hortus Regius Panormitanus”, opera ritenuta fondamentale per gli sviluppi dell’odierna scienza botanica.Numerose Chiese rinascimentali costellavano questo antico luogo. Ne è superba testimonianza la bella Chiesa Madre, a tre navate, con luminose e possenti colonne marmoree, dal prezioso portale in pietra arenaria, lavorata sapientemente dagli scalpellini locali.All’interno, con opere d’arte di grande valore, tra cui sono da ammirare gli altari barocchi in legno intagliato e con cromie in oro, è una “Madonna della Scala”, di bottega gaginiana, dolce nel volto, raffinata nei decori.

Nella parte bassa dell’abitato è la Chiesa dell’Annunziata, che conserva il gruppo marmoreo dell’Annunciazione, del XVI secolo, attribuito ad Antonio Gagini.

Da Ucria la statale è tutta in salita ed anche qui ci si specchia in boschi di castagni e di noccioleti immensi ed incontaminati.

Attraggono le caratteristiche costruzioni dei pastori e i resti arenari risalenti al periodo neolitico, di cui è superbo gioiello la Rocca di San Marco, dall’origina­lissimo ricamo, risultato dell’azione erosiva delle acque.

Poco più su è FLORESTA (superficie: 31,09 kmq; abitanti: 535), situata a 1.275 metri di altezza, da cui nelle giornate limpide si intravede anche il mare.

È il paesino più alto dell’Isola, sullo spartiacque dei Nebrodi, che d’inverno si ammanta di neve, con la visione del massiccio dell’Etna.

Le origini sono incerte. Si ritiene che sia stato fondato nei primi anni del 1600 sulla Rocca di San Giorgio, a un chilometro dall’attuale centro abitato, la cui struttura urbana risale ai primi anni del 1800.Nel 1619 il feudo di Floresta, per privilegio di Filippo III, fu elevato a mar­chesato e concesso ad Antonio Quintana Duegnas, consigliere del viceré.Data l’elevata altitudine, il territorio di Floresta più che alle colture si è sempre prestato all’allevamento del bestiame. L’attività armentizia, infatti, rappresenta la principale fonte di reddito dei suoi abitanti, assieme alla tradizionale lavorazione artigianale dei prodotti lattiero-caseari, come le provole e la ricotta.La Chiesa Madre, dedicata a Sant’Anna, costruita nel 1800, è dignitosa nelle linee compositive e ripete moduli architettonici classicheggianti.Degna di visita è pure la Chiesetta di Sant’Antonio.

Lasciata la statale 116, in località Piano Campo, scendiamo con agili curve verso la valle. Qui presso il letto del fiume è TORTORICI (superficie: 70,16 kmq; abitanti: 6.732) città regia, nota sin dal 1500 sia per gli artigiani fonditori di campane e delle canne da organo, sia per gli intagliatori del legno.Le origini sono avvolte nella leggenda. Si narra infatti che un seguace di Enea, dopo aver fondato Alunzio, spingendosi verso l’interno abbia trovato un luogo riparato dai venti e ricco di sorgenti e qui abbia deciso di costruire un castello da lui chiamato “Turiano” che diede origine all’attuale cittadina. Altre fonti invece

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fanno derivare l’origine del paese dal nome “turtur”, terra delle tortore, che ancora oggi nidificano nelle vallate.

Reperti archeologici di origine greca e romana, rinvenuti a Tortorici, testimo­nierebbero l’insediamento di abitanti sin da quell’epoca. Nel 1220 è signore di Tortorici e del suo castello, Guidone di Polichino. Nelle epoche successive il borgo passò a varie famiglie nobiliari, tra cui gli Alagona e i Corbera. Nel 1628 gli abitanti si riscattarono definitivamente dal dominio feudale e ottennero di passare al demanio.

Nella parte bassa della cittadina è la Chiesa di San Nicolò, ricostruita su una preesistente basilica bizantina, dal variopinto e caratteristico soffitto in legno, con statue e tele del XVII secolo.Più in su, su un’alta gradinata, si erge la conventuale Chiesa di San Francesco, di forme quattrocentesche. Bella la facciata con portali a rilievi di tipo romanico, come pure l’interno, a tre navate, con eleganti colonne in pietra e con l’altare maggiore in legno riccamente intarsiato.La vicina Chiesa Madre, dedicata all’Assunta, è del 1581 e, tra preziose testi­monianze storiche ed artistiche, conserva al suo interno opere pittoriche di pregio firmate da Giuseppe Tomasi, vissuto a Tortorici nel XVII secolo.

Sulla parte sinistra del torrente è il gioiello di una chiesetta tardo-medievale dedicata alla Vergine della Misericordia.

Tappa successiva dell’itinerario è SAN SALVATORE DI FITALIA (superficie: 14,89 kmq; abitanti: 1.386), adagiata su una collina dominante le vallate del Fitalia e di Tortorici. Da secoli è luogo di devozione a San Calogero, eremita e sacerdote, vissuto nel secolo V.Il primitivo insediamento, forse di origine saracena, si sviluppò intorno al Mona­stero di San Salvatore fondato da Ruggero I e poi ampliato da Ruggero II. Duran­te il periodo normanno, il territorio del Fitalia venne diviso in cinque parti, di cui i tre quinti vennero assegnati alla giurisdizione feudale del vescovo di Patti e i due quinti all’arcivescovo di Messina e al Monastero delle Benedettine del Santissimo Salvatore di San Marco. Nel 1320 fu sotto la signoria di Vitale Alvisio di Messina. Solo nel 1828 il territorio venne assegnato interamente al vescovo di Patti.Straordinaria testimonianza di fede è il Tempio del Santissimo Salvatore, costrui­to in epoca normanna, ampliato nel 1500, rimodernato alla fine del 1700, e recentemente riportato al primitivo splendore. La struttura interna è a tre navate con possenti colonne romaniche. Domina lo spazio liturgico, con le braccia aperte che annunziano e avvolgono, la grandiosa icona del “Salvator Mundi”, solenne nel movimento, fulgente di decori, opera di anonimo artista di metà Settecento.

Nella stessa Chiesa è di fattura gaginiana il Trittico marmoreo, mentre è di Antonello Gagini la “Madonna con Bambino”, realizzata nel 1521, immagine di dolcezza e soavità estrema, soprattutto nella delicata fisionomia dei volti della Vergine e del Bambino.

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A circa quindici minuti, sorge quasi addossata alla rupe del castello la cittadina di GALATI MAMERTINO (superficie: 39,06 kmq; abitanti: 2.805), che alcuni storici identificano nella greca-sicula “Calacte” fondata da Ducezio intorno al 447 a. C., mentre altri la ritengono di derivazione araba da “Kalat” che significa castello. L’appellativo “Mamertino” venne aggiunto nel 1912 per ricordare che, un tempo, questo territorio venne dominato dai Mamertini. In seguito al ritrovamento di qualche tomba e anfore tipiche dei greci e dei romani, si presume che Galati sia stata una comunità molto attiva in età bizantina e che sia stata conquistata dagli Arabi nell’837.Nel 1105 esisteva già il monastero basiliano di San Pietro di Muele, al quale i Normanni assegnarono beni e vasti territori. Per privilegio concesso dalla regina Adelasia, nel 1124 venne istituito un monastero benedettino aggregato a quello di Sant’Anna in Gerusalemme. Dopo la conquista normanna il feudo di Galati appartenne alla dinastia dei Lancia fino al 1644, quando passò a Filippo Amato che lo insignì del titolo di principato. Ed infine, con l’investitura di Filippo IV, pervenne alla famiglia Despuches.

Ricchissimo e di grande valore è il patrimonio artistico e monumentale che si conserva a Galati. Di interesse sono le Chiese di Santa Caterina d’Alessandria, della Madonna del Rosario e di San Luca.La Chiesa Madre, dedicata all’Assunta, costruita nel XV secolo, si qualifica per il bel portale in pietra locale, il caratteristico sagrato e l’ardito campanile. Interna­mente ha uno sviluppo architettonico a tre navate su massicce colonne in pietra. Qui Antonello Gagini, grande scultore siciliano del 1500 ed uno dei migliori del Rinascimento italiano, ha consegnato alla storia alcune delle sue opere più significative: il “Gruppo della Trinità”, monumento all’arte e alla fede, di alta ispirazione teologica; il “Gruppo dell’Annunciazione”; la “Madonna della Neve”, realizzata nel 1534, qualche anno prima della sua morte. Ha un suo interesse storico-critico la statua lignea di “San Sebastiano”: nell’in­carnato del volto e del corpo è la radice di un linguaggio plastico pittorico, che troverà presto risonanza nella creazione lignea della Sicilia.

Altra opera qui custodita è un prezioso Crocifisso ligneo, attribuito a Fra Umile da Petralia, attivo in Sicilia nella prima metà del 1600.

Galati è terra che ha dato i natali ad Annibale Lo Bianco, valente costruttore di organi a canne del Settecento, che ancora ammiriamo in tanti paesi dei Nebrodi.

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Quarto itinerarioLONGI, FRAZZANÒ, MIRTO, CAPRI LEONE, TORRENOVA, SAN MARCO D’ALUNZIO, SANT’AGATA MILITELLO, MILITELLO ROSMARINO, ALCARA LI FUSI

Punto di partenza è LONGI (superficie: 42,12 kmq; abitanti: 1.566), piccolo borgo, erede di antiche città distrutte dagli Arabi, adagiato ai piedi delle aspre e dolomitiche Rocche del Crasto, che domina dall’alto tutta la vallata del Fitalia, con numerosi corsi d’acqua che traggono origine dai principali rilievi.Longi fa risalire le sue origini al X secolo dopo Cristo, quando nel periodo arabo il sito fu popolato da abitanti della distrutta città che sorgeva sulla montagna sovrastante. Nel 1234, per concessione di Federico II di Svevia, divenne baronia dei Lancia fino al 1659, quando per successione passò a Silvestro Napoli e ai suoi discendenti.

I resti della Chiesa del Santissimo Salvatore, di cui rimane solo la torre campanaria, e del Castello sono di origine medievale.

Nella piazza del paese si proiettano le ampie scalinate della Chiesa Madre, dedicata a San Michele Arcangelo, che fanno da contrafforte alla possente torre del quattrocentesco campanile di colore rosa. All’interno è interessante il presbi­terio, con la cantoria e l’organo settecenteschi finemente intagliati da artigiani locali, e il bel soffitto a cassettoni del XV secolo. Nella navata di destra sono la statua marmorea della Vergine, di scuola gaginiana, e alcune tele di Pietro Novelli.Opera di intensa emozione è il busto ligneo dell’Ecce Homo, ascrivibile alla cerchia di Fra Umile da Petralia. Straziante figura plastica con i segni della flagellazione, evidenziati da mantello di sangue, corda, spina trapassante il sopracciglio, labbra tumefatte, impressionanti occhi vitrei.

Lungo la provinciale, che si incunea arditamente tra rocce e scenari dolomitici, prima di giungere nel cuore di FRAZZANÒ (superficie: 6,89 kmq; abitanti: 781) in dolce declivio sulla montagna, è l’Abbazia di San Filippo di Demenna o di Fragalà, prestigioso cenobio basiliano eretto da Calogero di Calcedonia nel 495 che, per secoli, svolse autorevole ruolo in tutto il Valdèmone.È uno dei pochi monasteri che non subì distruzione da parte degli arabi. La costruzione della Chiesa con tre absidi sporgenti ad oriente, le finestre arcuate, archi a tutto sesto, volte a botte, tracce di affreschi sulle pareti, fu curata perso­nalmente dal Conte Ruggero. L’operosità culturale, religiosa ed economica dei monaci greci in questa zona dei Nebrodi fu tra le più cariche di fervore spirituale. Il vasto e articolato edificio rappresenta il massimo documento abbaziale del monachesimo messinese.

Nell’ampia piazza principale di Frazzanò si affaccia la Chiesa Madre dedicata alla Vergine Assunta. La sua costruzione risale agli inizi del 1500, successi­vamente abbellita con un elegante prospetto dalle tipiche forme del barocco siciliano. All’interno vi sono dignitose tele e statue del sei-settecento. L’altare e il coro finemente intagliati sono opere di Filippo Allò, artigiano della vicina Mirto.

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Frazzanò è terra che, nel 1120, diede i natali a San Lorenzo, sacerdote basiliano, che svolse intensa vita apostolica, suscitando fervore ed operando prodigi. A lui è dedicato il Tempio in stile barocco, di pregevoli forme architettoniche.

Spostandoci di qualche chilometro, si giunge a MIRTO (superficie: 9,43 kmq; abitanti: 1.008), ove un tempo fu fiorente l’artigianato del legno, come indicano alcune opere qui esistenti e nei paesi vicini: cori, confessionali, altari e cornici finemente intagliati.

Anticamente, Mirto veniva denominato “Myrti” o “Myrtus”. Il nome è probabil­mente connesso alla presenza dei mirteti di cui un tempo il territorio era ricco. Della sua esistenza si ha notizia nel secolo XIII durante il regno di Federico II; in successivi documenti il territorio viene menzionato come sottoposto alla giurisdi­zione vescovile di Patti.Feudo di varie famiglie nobiliari nei diversi secoli, venne acquistato dai Filangeri, conti di San Marco che, nel 1643, divennero principi di Mirto. È nativo di Mirto il celebre botanico Francesco Cupani (1657-1719).

La seicentesca Chiesa Madre, dedicata all’Assunta”, è ornata di uno splendido portale del 1500 con motivi floreali e figure di Santi, in pietra locale. L’interno, a tre navate, è impreziosito da numerose tele settecentesche, statue lignee di pregio, una statua in marmo della Madonna del 1578 di Giuseppe Gagini, un Crocifisso ligneo seicentesco attribuito alla cerchia di Fra Umile da Petralia.

Successiva sosta è CAPRI LEONE (superficie: 6,60 kmq; abitanti: 4.568). Le notizie storiche documentate risalgono ad epoca normanna, ma alcuni studiosi ritengono che le origini siano più remote.Capri o “Crapi”, come in passato veniva usualmente denominato, apparteneva nel 1320 a Vitale di Alojsio. Verso la metà del secolo XVII divenne possesso della nobile famiglia dei Filangeri. Nel 1865 si aggiunse la denominazione di “Leone” per qualificare, si dice, come coraggiosi gli abitanti di Capri, unitisi ai garibaldini per partecipare all’unità d’Italia, oppure per distinguerlo dall’omonimo comune dell’arcipelago campano.Il centro storico conserva ancora testimonianze del suo passato, tra cui l’inte­ressante Chiesa dell’Annunziata, col suo splendido campanile del XII secolo, e la chiesetta di San Costantino, che colpisce per la seicentesca pala d’altare raffi­gurante il battesimo dell’Imperatore. Qui, è pure conservata la statua marmorea dell’Annunziata, attribuita ad Antonello Gagini.

Giù nella valle è la popolosa frazione Rocca con la nuova Chiesa parrocchiale, al cui interno è custodita l’icona della Madonna di Czestochowa, dono di Giovanni Paolo II alla cittadina.

Sulla costa tirrenica, contigua all’abitato di Rocca, è TORRENOVA (superficie: 12,99 kmq; abitanti: 4.295), centro di recente sviluppo, tra il mare e lussu­reggianti agrumeti che profumano di zagara.La località, originariamente, faceva parte del comune di San Marco d’Alunzio e ne costituiva il punto di riferimento sulla costa. Testimonianza di questa origine

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si ha nel castello e nella torre a pianta quadrata, che doveva avere funzione di avamposto costiero e che ha dato il nome all’attuale insediamento.

L’odierna Terranova (comune autonomo dal 1984) è un centro commerciale molto vivace e presenta numerose attività artigianali: lavorazione del marmo e del ferro, cantieristica navale.Nelle adiacenze è il monastero di San Pietro di Deca, piccolo edificio a pianta ottagonale, coperto da una calotta emisferica, risalente al periodo bizantino.La Chiesa parrocchiale dell’Addolorata conserva una tela settecentesca raffigurante la Madonna del Rosario. È degli anni ‘80 del secolo scorso la Chiesa di San Pietro.

La cinquecentesca Torre del Gatto, costruita in epoca spagnola a difesa del territorio, domina dall’alto il paesaggio.

Appena fuori dell’abitato, percorriamo la ripida provinciale e con ampi tornanti per SAN MARCO D’ALUNZIO (superficie: 26,10 kmq; abitanti: 2.093): cittadina anch’essa in salita, perla di stupefacente bellezza, abbagliata dal sole e spesso investita da venti freddi e rovinosi.Si presenta come uno dei più suggestivi luoghi di memorie religiose, medievali, straordinario palinsesto di molteplici culture, ben rappresentate: in nessun’altra cittadina dei Nebrodi vi è un ugual numero di testimonianze di ogni tempo, disseminate nell’abitato e nel territorio circostanteConquista l’affabilità della gente, il fascino degli antichi quartieri, le viuzze, le tipiche scalinate ed i balconi fioriti, le monumentali chiese con eleganti colonne, nicchie e simulacri, l’arcaico tempio di Ercole, divenuto chiesa cristiana in epoca medievale.Si narra che sia stata fondata da Patron Turio, compagno di Enea. Durante la dominazione greca era noto col nome di “Alontion” ed era un centro talmente fiorente da coniare moneta propria. Durante le guerre puniche fu conquistata dai Romani, che la proclamarono “municipium” autonomo, ribattezzandola “Halun­tium”. Sarà poi citata da Plinio e dallo stesso Cicerone nel famoso processo contro Verre. Nel 476 d. C. fu conquistata dai Bizantini, successivamente dagli Arabi e infine dai Saraceni che circondarono l’abitato di mura per difenderlo dai pirati.Domina il centro storico la barocca “Ara Coeli”, elegante nelle linee archi­tettoniche, che incanta per lo splendido portale in marmo rosso del luogo, per l’armonia del campanile, le tre navate sostenute da possenti colonne marmoree, le cappelle decorate con stucchi settecenteschi, il Crocifisso ligneo di Scipione Li Volsi (1652).

Interessanti la Chiesa di San Teodoro detta pure “Badia piccola”, a croce greca, con all’interno decorazioni e stucchi del 1700 e la Chiesa dell’Annunziata, di impianto paleo-cristiano Risale al XII secolo la Chiesa del Santissimo Salvatore comunemente detta “Badia grande”.

Di impianto seicentesco è la Chiesa Madre, ad unica navata, dedicata a San Nicolò. Anch’essa è semplice nella geometria delle forme e nell’utilizzo del marmo rosso, sapientemente estratto e lavorato da abili scalpellini.

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Preziosi manufatti ed oggetti sacri, provenienti dalle 22 Chiese sparse nel territorio, sono decosamente custoditi nella Chiesa-Museo di San Giuseppe.

Ripercorrendo in discesa la provinciale, l’occhio spazia al cospetto del mare, quasi sempre limpido e trasparente tale da confonderne il limite con quello delle nuvole.

È d’obbligo la sosta a SANT’AGATA MILITELLO (superficie: 33,52 kmq; abitanti: 13.177), vivace cittadina della costa tirrenica: è il secondo polo della Diocesi.

Il ritrovamento di reperti archeologici di età ellenistica fa supporre la presenza di questi popoli nel primitivo insediamento, al quale si crede che più tardi fu dato il nome di Sant’Agata da alcuni pescatori catanesi insediatisi nella zona per motivi di lavoro.

Nel XVII secolo il feudo di Sant’Agata era possesso del principe di Militello che nel 1627 assunse anche il titolo di Marchese di Sant’Agata. Il Castello, oggi in parte distrutto, è stato costruito nel 1630 da Jeronimo Calega (o Gallego) di Spa­gna e passò poi ai principi Lanza Scalea di Trabia.

Nei secoli successivi il borgo subì un costante incremento demografico e diventò un importante centro commerciale, punto di riferimento per le attività econo­miche dei paesi vicini.Principale edificio sacro è la Chiesa Madre, dedicata a San Giuseppe, costruita nel 1842, in stile neoclassico. L’interno è a tre navate, con opere lignee del palermitano Salvatore Bagnasco ed affreschi che decorano la zona dell’abside.

Appartiene ad epoca settecentesca la vicina chiesetta del Carmelo, annessa al Castello. Le Chiese del Sacro Cuore e di Santa Lucia sono di recente costruzione.

Lungo il centro abitato si trovano alcune graziose ville di epoca ottocentesca, che conservano quasi intatto il loro stile originario.

Da Sant’Agata una panoramica strada, serpeggiante tra piccole borgate, rocce e colline, ci conduce a MILITELLO ROSMARINO (superficie: 29,36 kmq; abitanti: 1.334) centro che si affaccia nella valle dell’antico “Chydas” dei greci, con lo sfondo dei Monti del Re e delle strette valli profondamente incassate nelle rigide pareti.

Le prime tracce di abitanti risalgono al periodo preistorico. Durante l’età tardo antica ed alto medievale, probabilmente, faceva parte di un organico sistema difensivo della valle e dell’antica città di Demenna, roccaforte bizantina. L’attuale abitato sorse al tempo dei normanni presso il castello fondato dal Guiscardo. In età feudale fu baronia e principato. Ebbero il possesso del castello e delle sue terre gli Aragona, i Rosso, i Cerami, i Gallego, i Benso e i Lanza di Trabia. Per opera dei principi Rosso, attorno al XV secolo, furono edificate l’abbazia dedicata a Santa Maria Lo Brignolito, la Chiesa del Rosario.

Della stessa epoca è la Chiesa Madre, dedicata a San Biagio, che conserva statue lignee policrome, un pregevole Crocifisso ligneo, una grande pala raffigurante l’Immacolata, opera di Giuseppe Tomasi da Tortorici. Interessante anche la Chiesa del Rosario, con all’interno un sarcofago marmoreo del 1484, considerato tra le sculture più importanti del Rinascimento in Sicilia.

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Il paesaggio è caratterizzato da alcune torri di difesa di origine medievale e, sparsi qua e là, i resti di mulini ad acqua a ricordo di attività ormai del tutto scomparse.

Continuando il nostro viaggio, la strada ci conduce ad ALCARA LI FUSI (superficie: 62,36 kmq; abitanti: 2.076). L’abitato, caratterizzato da vicoli arabo-medievali, è dominato dalle rocce ardite e profondamente fessurate del Crasto e dalle eleganti guglie dei campanili.

È cittadina di antica origine, adagiata su una conca di possenti rocce, un tempo abitate da mitiche città sicane e bizantine. Il notevole patrimonio artistico tramandatoci è testimonianza della fede genuina di questa gente.Centro del paese è piazza Politi, su cui guarda la Matrice cinquecentesca, con campanile a cuspidi e possenti absidi. L’interno è a tre navate con nicchie e cap­pelle decorate.

Qui sono gelosamente conservate le reliquie di San Nicolò Politi, anacoreta, proveniente da Adrano, che in questi luoghi, visse, sconosciuto a tutti, in pre­ghiera e penitenza per oltre un trentennio.Poco fuori dell’abitato è il piccolo cenobio basiliano di Santa Maria del Rogato, ove il Santo si recava per la guida spirituale. Al suo interno un prezioso affresco di chiara matrice bizantina.

Immersi nel silenzio della campagna, imponenti e suggestivi sono i resti della Chiesa di San Nicolò Politi, realizzata sulla collina dove il Santo si era ritirato in eremitaggio.Altro monumento di fede nel centro di Alcara è la Chiesa di San Pantaleone, di chiare forme romaniche, con il campanile che si staglia sullo sfondo di una parete di roccia.

All’interno vi sono tele del Basile e del Tomasi, un organo a canne del 1500, ed una straordinaria tavola raffigurante la Madonna col Bambino ed i Santi Sebastiano ed Antonio da Padova, opera di anonimo della seconda metà del Quattrocento, probabile allievo di Antonello da Messina.

La Chiesetta del Rosario, con il bellissimo portico, è anch’essa di origine medievale, ricostruita nel secolo XVI e recentemente restaurata.

Interessante la visita al Museo parrocchiale di Arte Sacra, che espone oltre 500 opere d’arte.

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Quinto itinerarioACQUEDOLCI, SAN FRATELLO, CESARÒ, SAN TEODORO, CAPIZZI, CARONIA

Questa parte dell’itinerario, che ci porterà nel cuore del Parco, ha come prima tappa Acquedolci (superficie: 12,97 kmq; abitanti: 5.658), dinamica cittadina, sorta sulla costa tirrenica in seguito ad una rovinosa frana, che nel 1922 distrusse gran parte dell’abitato di San Fratello, paese di cui è stato frazione sino al 1969.

La Chiesa Madre, dedicata a San Benedetto il Moro, costruita nel 1929, è digni­tosa nelle linee compositive e ripete moduli architettonici classicheggianti.

A pochi chilometri dal centro abitato, sono le grotte di San Teodoro, situate sulle pendici del pizzo Castellano, dove recenti scavi hanno portato alla luce resti di antichi insediamenti.Oltre che per la fauna fossile, le grotte offrono testimonianza di un giacimento del paleolitico superiore e sono particolarmente suggestive per la fantasiosa composizione rupestre e per la presenza di formazioni stalattitiche.

Proseguendo il nostro viaggio su per i boschi, ci colpisce una chiesetta sulla sommità di un promontorio, quasi a picco sul mare. Per raggiungerla, poco prima dell’abitato di SAN FRATELLO (superficie: 67,05 kmq; abitanti: 3.940), una disagevole strada campestre ci conduce al Santuario chiamato dei “Tre Santi” con accanto i resti dell’antica città greca “Apollonia” ed un suggestivo fabbri­cato.Si tratta di un complesso monastico, sorto in epoca medioevale, fiorente centro di spiritualità e sede di un cenobio basiliano, ricostruito dal conte Ruggero dopo la cacciata dei musulmani dal paese, e dipendente dall’abbazia di San Filippo di Fragalà. Le linee architettoniche sono sobrie ed eleganti. Nella sua solitudine, il Santuario è uno dei meglio conservati dell’intero terri­torio. Qui furono rinvenute le reliquie dei tre fratelli Santi di origine guascona, Alfio, Filadelfio e Cirino, martirizzati in Sicilia, a Lentini, durante la persecu­zione di Decio. Santi che sono particolarmente venerati dalla gente di San Fratello, che attribuisce ad essi l’origine del suo nome.

Del radicamento nel territorio di antichi coloni lombardi vi è chiara traccia nel tipico dialetto locale che si riscontra soltanto in qualche altro luogo della Sicilia (San Piero Patti, Sperlinga, Aidone, Nicosia e Piazza Armerina).Nel centro è la Chiesa di San Nicolò, ricostruita con materiali recuperati dopo il crollo dell’antico tempio e chiusa alla pubblica fruizione a seguito ai recenti movimenti franosi del 2010.

Nella parte più bassa dell’abitato, vi è la Chiesa-Santuario di San Benedetto il Moro con l’annesso convento ed il chiostro con tracce di affreschi di Fra Emanuele da Como. All’interno della Chiesa monastica attraggono la grande pala d’altare, il raffinato ciborio ligneo intarsiato, un seicentesco Crocifisso, una statua gaginesca della Vergine e le tre statue in pietra calcarea, raffiguranti i Santi patroni, piccole sculture di ideazione popolare, non prive di raffinatezza decorativa.

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Altri edifici sacri sono andati distrutti da ripetute frane, tra cui la più disastrosa fu quella del 1922, che costrinse la maggior parte degli abitanti a trasferirsi a valle, dando origine all’odierna Acquedolci.È figlio di questa terra San Benedetto il Moro. Vi nacque intorno al 1526. Fu prima eremita e poi religioso nel Convento Santa Maria di Gesù a Palermo.

Da San Fratello l’itinerario continua verso la vetta della montagna. Il paesaggio che ci si presenta è caratterizzato da dolci profili con mille sfumature di colori, vallate aperte ed ampie, boschi di querceti sempre verdi, cerri, faggete, lecci, querceti, pini, con un fitto sottobosco di ginestre, trifogli e tassi.

La strada si inerpica ripida e sinuosa sino a lambire, sul filo dei 2.000 metri, ove il silenzio è assoluto, la cima del monte Soro, per poi degradare verso l’opposto versante, ove si affacciano altre aree verdeggianti e boschi.A quota 1.150, è CESARÒ (superficie: 215,75 kmq; abitanti: 2.590). Da qui l’occhio spazia dalla costa del Tirreno alla imponente massa dell’Etna, attorniata da profonde e verdeggianti vallate. È sulla rupe, che sovrasta l’abitato, la grande statua del Cristo Signore della montagna.Non si hanno notizie documentate sulle origini. Il borgo è menzionato per la pri­ma volta nel 1334, quando Federico II d’Aragona lo donò a Cristofaro Romano, stratega di Messina e sposo di Lucia, figlia di Manfredi Chiaramonte. Nel 1634 Cesarò, per privilegio di Carlo II, fu elevato al rango di ducato in favore di Antonio Ippolito, da passò ai Romano Colonna, che ne detennero il possesso per cinque secoli.Nella piazza centrale sorgono la Chiesa di San Calogero, di forme settecentesce, e la Chiesa Madre, dedicata all’Assunta, del 1623, mentre di inizio secolo è il campanile con la singolare cuspide e l’orologio.

L’interno della Chiesa Madre è a croce latina, con tre navate su pilastri. A sinistra del transetto è la pala d’altare raffigurante “la Natività di Cristo e l’Immacolata”, opera dello Zoppo di Gangi, di inizio Seicento.Merita particolare attenzione il bel Crocifisso, dipinto su tavola, della seconda metà del Quattrocento, opera tipicamente rappresentativa del gotico siciliano, immagine dal pathos intenso e coinvolgente.

A qualche chilometro da questa cittadina, sulle falde del monte Abate è SAN TEODORO (superficie: 13,90 kmq; abitanti: 1.420), caratteristico luogo di partenza per suggestivi e molteplici itinerari che è possibile effettuare nella vasta zona circostante, considerata il cuore dei Nebrodi.L’originario “casale”, nel secolo XIV, fu possesso di Giacomo de Mustacio. Sotto Martino I passò a Paolo Campolo, ai cui discendenti rimase fino alla metà del XVII secolo. Nel 1687 fu primo principe di San Teodoro Diego Brunaccini, il quale, a causa della malaria, trasferì la sua residenza dalla contrada Fondachello, dove si trovava l’antico borgo, ai piedi del monte Abate. Alla morte del principe Diego, il feudo appartenne ai suoi discendenti, sino alla fine del 1800.Nel 1928 il comune di San Teodoro fu soppresso e unito a quello di Cesarò, per ridivenire di nuovo comune autonomo, dopo alterne vicende, nel 1940.

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L’odierno abitato è composto da caratteristici quartieri e viuzze, raccolte attorno alla Chiesa parrocchiale, dedicata all’Annunziata, costruita nella seconda metà del secolo XVII, e caratterizzata dal portaletto in pietra e dal campanile a cuspide.

Procedendo in direzione est, percorriamo un esteso tratto di territorio al limite delle province di Catania e di Enna. Attraversate le cittadine di Troina prima e di Cerami poi, l’itinerario ci conduce a CAPIZZI (superficie: 69,90 kmq; abitanti: 3.371), centro di originale vitalità culturale e religiosa, molto legato alle proprie tradizioni.

L’antica “Capytium”, menzionata da Cicerone e da Tolomeo, è in elevata posi­zione, a 1.100 metri, sul monte Verna e in prossimità delle sorgenti del fiume Salso. Domina un ampio e gioioso orizzonte in contrasto con l’Etna, spumeg­giante di fuoco e di neve.

Tra antichi e prestigiosi palazzi, primeggia la Chiesa Madre, dedicata a San Nicolò di Bari, prestante per l’ampiezza, il bel portale gotico e per l’elegante architettura. È di origine normanna, ingrandita ed ultimata in forme rinasci­mentali alla fine del secolo XVI. L’interno è a croce latina, con cupola e tre navate poggianti su colonne marmoree. Interessanti l’organo cinquecentesco, il coro ligneo, le grandi tele che ornano gli altari laterali, l’arco marmoreo con rilievi della Passione, che incornicia il fonte battesimale, ai cui piedi poggiano due leonesse in pietra grigia del XIII secolo.

Negli ambienti sottostanti la Chiesa Madre si sta realizzando il Museo parrocchiale di Arte Sacra.

Percorsi i selciati in pietra, gli antichi vicoli e il corso dei Vespri, su cui si affacciano palazzetti con stipiti, stemmi e mensole in pietra intagliati, si offre in tutta la sua eleganza la Chiesa-Santuario di San Giacomo Maggiore, del secolo XVI.

La facciata presenta un doppio ordine di colonne sorreggenti il frontone. L’interno è ornato di tele, affreschi e stucchi dorati. Splendidi il pulpito, l’organo, il coro, gli armadi lignei e la stessa sagrestia. Nella cappella a destra del transetto è custodita la statua della “Madonna del Soccorso”, scolpita da Antonello Gagini.

Poco fuori dell’abitato, sulla provinciale che scende verso la costa, ci si ritrova immersi in luoghi sorprendenti, ricoperti di pascoli sempre verdi, di boschi suggestivi, di superbe faggete e di torrenti pregni di memorie e silenzi.Sulla sommità di due basse colline che si allungano morbide verso il mare appare CARONIA (superficie: 226,55 kmq; abitanti: 3.437), fondata da Ducezio nel 448 a. C., come testimoniano i ritrovamenti di tombe, monete, vasi e altro materiale di età greca e romana, risalenti alla metà del secolo V.Forse di origine saracena, l’attuale borgo si trova già menzionato in due docu­menti del 1172 e del 1178. Delle fortificazioni che difendevano Caronia in età medievale restano solo avanzi della cinta muraria trecentesca (tracce di due torri e l’arco d’ingresso ogivale).

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Sulla vetta di una delle colline, circondato da mura, è il Castello, edificato nel XII secolo dai normanni, che vi eressero anche una stupenda cappella a tre navate, ben conservata e risuonante di voci medievali.Interessante la visita alla Chiesa Madre, dedicata a San Nicolò, costruzione di estremo rigore, esistente già nel XII secolo e riedificata nel 1600, con portale in pietra, a navata unica chiusa da abside, con la volta elegantemente affrescata e con statue e dipinti settecenteschi.Anche la chiesetta di San Biagio, con alcune tele del Settecento, suscita attenzione.Situata sulla costa è la frazione Marina, villaggio di pescatori, sviluppatosi lungo la statale 113 e originariamente raccolto attorno alla chiesetta dell’Annunziata.È di recente costruzione la Chiesa dell’Odigitria.

Sesto itinerarioSANTO STEFANO DI CAMASTRA, REITANO, MOTTA D’AFFERMO, MISTRETTA, CASTEL DI LUCIO, PETTINEO, TUSA

Nota da secoli per la produzione della ceramiche è SANTO STEFANO DI CAMASTRA (superficie: 21,88 kmq; abitanti: 4.563), cittadina laboriosa e vivace, situata sulla costa tirrenica settentrionale.

Secondo la tradizione sembra che il primo nucleo sorgesse in una località limi­trofa alla città di Mistretta, ove, attorno al monastero di Santa Maria del Vocante, si erano rifugiati gli abitanti scampati ad un terremoto nel VII secolo d. C. Successivamente, per essere meglio protetti dalle incursioni arabe, si trasferirono attorno a un altro Monastero dei Benedettini, posto in cima alla montagna, nei pressi dell’odierno Santuario di Santa Croce, comunemente chiamato del Letto Santo.Nel 1682 un altro terremoto determinò lo spostamento del nucleo abitativo nella zona costiera, nel feudo di proprietà di Giuseppe Lanza Barresi, principe di Camastra, che contribuì con munificenza alla realizzazione del nuovo impianto urbano, secondo le caratteristiche dell’antico. Cominciò in quell’epoca l’attività della ceramica che, utilizzando l’abbondante argilla presente nel territorio, ha reso famoso l’artigianato stefanese a livello nazionale e internazionale per la tipicità della ceramica e per le sue qualità sia di forme che di disegno.

Nel centro storico primeggia la Chiesa Madre, dedicata a San Nicolò di Bari, eretta nel 1685. Bello il portale in arenaria, rinascimentale, qui riportato da una delle tante chiese dell’antico borgo, distrutte dalla frana del 1682. L’interno, che si sviluppa a tre navate su pilastri, è ornato con tele del Patania e statue del sei-settecento. L’altare del Sacramento è dignitoso per marmi e stucchi. La cappella a destra, invece, custodisce una “Madonna con Bambino”, marmo datato 1610, di scuola gaginiana.Sono anche interessanti la Chiesa del Rosario, la Chiesa del Calvario, il Museo della ceramica e le tante botteghe artigianali presenti sul territorio.

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Poco distante dal centro, in cima alla montagna, che si raggiunge per una agevole strada, è il Santuario del Letto Santo: luogo di devozione e meta di pellegrinaggi. Dalla balconata che lo circonda la veduta sulla costa e sulle vallate dei Nebrodi e delle Madonie è incantevole.

La Chiesa, un tempo inglobata in un monastero benedettino, è di forme settecentesce, con un ampio piazzale. All’interno, da secoli è oggetto di venerazione un Crocifisso ligneo, di antica fattura. Preziose testimonianze della fede della gente sono i numerosi ex-voto, tra cui alcune tavolette dipinte nell’Ottocento, custodite nella sagrestia.

Si ritorna quindi a Santo Stefano, per risalire la fiumara, attraverso la panoramica statale 117, e continuare il nostro itinerario nella zona sud dei Nebrodi. Sulla collina che costeggia la fiumara è la piccola REITANO (superficie: 13,93 kmq; abitanti: 878).

Il primitivo borgo “Regitano” fu casale di Mistretta e pare che i fondatori siano stati i pastori mistrettesi che scendevano col proprio gregge a svernare a valle, fino a quando decisero di stabilirvisi. Durante il regno di Federico II divenne possedimento dei Signori Antiochesi e passò nel 1638 ai Colonna, che lo acquistarono dalla Regia Curia.Degne di attenzione la Chiesa del Carmine risalente al 1200 e la Chiesa Madre del 1700, che conserva all’interno una Madonna in marmo di scuola gaginesca e un altare in legno lavorato e decorato con oro zecchino in stile rinascimentale.

Negli ultimi tempi è fortemente in crescita il fenomeno di spostamento della popolazione sulla riviera tirrenica nella frazione Villa Margi.

Poco più avanti, adagiato in cima della montagna, è MOTTA D’AFFERMO (superficie: 14,61 kmq; abitanti: 850), l’antico casale di Sparto, che affonda le radici in epoca normanna, anche se il ritrovamento di una necropoli saracena farebbe pensare all’esistenza di abitanti sin dall’età araba.Il feudo di Motta viene menzionato nel censimento del 1296 ed apparteneva ai baroni di Aragona. Successivamente fu proprietà di varie famiglie nobiliari, tra cui i Chiaramonte, che, nel 1344, lo vendettero a Blasco d’Aragona, conte di Mistretta. Nel 1375 il figlio Artale cedette il borgo a Raimondo Ripa, che lo trasferì agli Albamonte, i quali vi costruirono un castello. Nel 1397, durante il regno di re Martino, il casale di “Motta di Sparto” mutò nome in quello di “Motta di Firmo”. Nel 1623 ne acquistò la signoria Gregorio Castelli, al cui nipote Carlo fu conferito il titolo di principe di Torremuzza,La Matrice, dedicata alla Vergine degli Angeli, costruita nel 1380, fu poi ampliata e ricostruita in stile rinascimentale. L’interno, a tre navate con colonne in pietra scolpita da artigiani del posto, è dominato dalla grande pala d’altare raffigurante “Maria Assunta in cielo”, realizzata dal palermitano Mercurio nel 1785. Delicati stucchi baroccheggianti adornano la volta e le navate laterali.

È di fine fattura il ciborio in legno scolpito e laminato in oro. Tra le opere meglio conservate è la tela dell’Immacolata, eseguita nel 1650 da pittore fiammingo. La cripta sepolcrale è stata riscoperta e restaurata recentemente.

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Più in basso, nella omonima piazza, è la Chiesa di San Rocco, che nelle linee architettoniche ripete moduli seicenteschi. Custodisce anch’essa pregevoli opere e testimonianze di fede.

Riprendendo la statale 117, si sale sino quota 1.000 ed alla base della rocca, detta “Castello”, si adagia MISTRETTA (superficie: 126,76 kmq; abitanti: 5.031), citta­dina ricca di monumenti ed opere ben conservate, memorie del vetusto splendore e delle varie dominazioni: dai Fenici, agli Arabi, ai sovrani Normanni e Spagnoli.

In epoca normanna, Ruggero la diede in feudo al Monastero della Santissima Trinità di Mileto calabro e Guglielmo il Malo la concesse, a sua volta, a Matteo Bonello nel 1160. Sotto l’impero di Federico II, Mistretta ebbe il titolo di “città imperiale”. Durante l’epoca spagnola vi fiorirono le lettere e le arti e il re Alfonso le diede la qualifica di “città demaniale”. Venduta nel 1632 a Gregorio Castelli, conte di Gagliano, Mistretta venne riscattata l’anno seguente dagli abitanti, mantenendo la propria autonomia municipale.Nella piazza principale, si erge possente la Chiesa Madre dedicata a Santa Lucia, di origine medievale, rimaneggiata nel Cinquecento, elegante per i portali e le decorazioni in pietra. Due torri campanarie con finestre a bifore la circondano.

L’interno presenta tre navate con colonne corinzie, transetto con alta cupola, cappelle finemente decorate. L’arredo iconografico è interessante e ricco di opere pittoriche e di sculture.Splendente di marmi mischi è la cappella di destra, impreziosita dalle sculture dei Santi “Pietro, Paolo e Lucia”, scolpite da Antonino Gagini nel 1552. Dello stesso autore è il “Cristo Risorto”. Nel Presbiterio: l’altare marmoreo, il coro ligneo, la cantoria e il grande organo a canne, opere tutte del Settecento. Nel lato sinistro è l’altare barocco della “Madonna dei Miracoli”, statua marmorea del 1495, proba­bilmente una delle più antiche opere gaginiane in Sicilia.Altri edifici sacri di grande valore impreziosiscono la cittadina. Ne accenniamo alcuni: la Chiesa di San Giovanni con l’imponente campanile rinascimentale, la Chiesa di San Nicolò affiancata dall’alta torre campanaria, quella del Purgatorio con tele e affreschi del XVII secolo, quella del Santissimo Salvatore che con­serva nell’abside un affresco del Pantocratore, la Chiesa di San Sebastiano recentemente restaurata, la Chiesa di San Giuseppe con l’icona fiamminga del “Volto Santo”, la Chiesa di San Francesco con tele di pregio, tra cui la “Sacra Famiglia” di Antonio Catalano il Vecchio.Nella parte alta di Mistretta, sopraelevata e prospiciente il sagrato, è la Chiesa medievale di Santa Caterina d’Alessandria, adornata di un bel portale in pietra intagliata con motivi floreali e di un robusto campanile a bifore. L’interno è di armoniose proporzioni, a tre navate poggianti su agili colonne in pietra arenaria. Nell’abside centrale è un marmoreo altare barocco con statua di “Santa Caterina d’Alessandria”, del 1493, attribuita allo scultore Giorgio da Milano, autore anche del portale in marmo sul lato destro della Chiesa Madre.

Profondi segni e legami di religiosità hanno lasciato in questa terra numerosi ordini religiosi maschili e femminili, opere pie e confraternite. È oggetto di particolare venerazione San Felice da Nicosia, religioso che visse per alcuni anni

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a Mistretta nel Convento dei Cappuccini, edificando tutti per purezza di costumi e santità di vita.

A circa 20 chilometri da Mistretta, è CASTEL DI LUCIO (superficie: 28,37 kmq; abitanti: 1.371) la cui gente è fieramente attaccata alla proprie tradizioni.Le origini del paese, arroccato sul crinale di uno sperone dominante la fiumara di Tusa, si pensa risalgano ad epoca normanna. Compreso nel feudo di Mistretta-Castel di Lucio, il primitivo borgo ne seguì le sorti fino a quando non divenne una comunità autonoma nel secolo XVIII. Del castello, costruito dai Ventimiglia intorno al 1090, rimane una torre diruta, di forma cilindrica, che è la superstite delle due originarie, una delle quali era a tramontana e l’altra a mezzogiorno.Anche qui sono numerose le testimonianze di fede disseminate lungo i quartieri e le piccole stradine. Centro della vita religiosa è la Chiesa Madre, dedicata alla Madonna delle Grazie, edificata verso la metà del XV secolo, dal bel portale in pietra arenaria intarsiata da scalpellini locali. Sul frontale è la statua di San Placido.

Il tempio, all’interno si sviluppa a tre navate, con agili colonne marmoree ed opere di raffinata fattura, tra cui primeggia nell’abside un ciborio in marmo di scuola gaginiana. È in una nicchia laterale il “San Luca” del XVII secolo, grandioso legno raffigurante l’evangelista seduto mentre racconta la storia della salvezza.

Con negli occhi lo splendore di Castel di Lucio, scendiamo lungo la vallata, verso il mare, per giungere a PETTINEO (superficie: 30,45 kmq; abitanti: 1.437), ricco di chiese, cappelle, cenobi, conventi e torri, che sono parte integrante dell’abitato, da cui s’innalzano imponenti e che proteggono con la loro luce e la loro ombra.Autorevoli scrittori, come il Fazello, sostengono che Pettineo trae le sue origini dall’antichissima “Pythia”, una delle più ricche e famose città della Sicilia antica. Feudo di Manfredi Maletta nel secolo XII il borgo passò, sotto Federico II, a Ventimiglia conte di Geraci. Successivamente, si alternarono nel possesso varie famiglie nobiliari che vi costruirono un castello, oggi in ruderi.

Al centro dell’abitato che conserva molto di antico è la Chiesa Madre, dedicata alla Madonna delle Grazie, pregevole per il portale tardo-rinascimentale e il campanile del 1600. Nell’interno, a tre navate con varie cappelle laterali, sono statue lignee e interessanti tele del Settecento. Straordinario nelle forme e nelle linee è il Trittico marmoreo, datato 1597, opera di bottega gaginiana.Di notevole interesse sono pure la Chiesa di origine bizantina, dedicata a Sant’Oliva, vergine e martire, secondo la tradizione qui vissuta nei primi secoli dell’era cristiana; la Chiesa di San Nicolò col caratteristico campanile e la Chiesa conventuale di San Francesco, la cui costruzione risale al 1579 per iniziativa del feudatario barone Ferrero.

Tra i cittadini illustri sono da segnalare Nicolò da Pettineo (pittore), Lidonio Ruffino (scultore) e l’abate Silvio Ruffino, vissuti nel 1500.

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Lasciato il paesino, si riprende la provinciale “Castelluccese” verso il mare, sino al bivio della statale 113, che percorriamo per qualche chilometro verso ovest. Poi si risale la montagna, sulla cui vetta è la cittadina di TUSA (superficie: 40,94 kmq; abitanti: 3.045), custode di un grande patrimonio archeologico.

Probabilmente sorse tra l’VIII e il IX secolo in seguito alla distruzione dell’antica “Halaesa” da parte degli Arabi. Questa, di origine sicula, fu fondata nel 403 a. C. da Arconide, tiranno di Herbita, dopo la pace con Dionigi di Siracusa. Durante la guerra punica si sottomise a Roma e per i servizi resi ottenne di conservare le proprie leggi e la propria indipendenza. Questa situazione la fece prosperare e divenne una delle più fiorenti città della Sicilia. Nell’era cristiana fu elevata anche a sede vescovile. Tra i resti del periodo greco-romano, la Chiesa abbaziale “Santa Maria delle Palate”, che la storia dice fondata dal Papa Gregorio Magno, è un prezioso gioiello.Il centro di Tusa è tipicamente medievale. La piazza principale è chiusa e rac­colta come una corte a cui fa da sfondo la Chiesa Madre, dedicata all’Assunta, con il portale ogivale e la tipica torre campanaria.

Vi sono conservate parecchie opere lignee scolpite dai Li Volsi, valenti scultori locali, ed una “Madonna col Bambino”, di scuola gaginiana.

Sono di epoca seicentesca la Chiesa dell’Oratorio ed il complesso architettonico della Chiesa di San Francesco con l’annesso convento dei Cappuccini. Sono in stile trecentesco la Chiesa di San Nicola e la Chiesa di Santa Caterina.Sulla costa è il piccolo Santuario dedicato alla Madonna della Catena, inca­stonato tra antiche casette di pescatori, dominante l’affascinante riviera.

Qui il nostro viaggio, snodatosi gioiosamente e faticosamente attraverso quaran­tadue paesi adagiati sulla costa o appollaiati su montagne e colline, è arrivato ad un ideale capolinea.Evocano questi itinerari valori, segni e memorie di fede, di cultura e di arte che ne hanno contraddistinto secoli di vita ed ora sono patrimonio prezioso della gente dei Nebrodi, sicure testimonianze delle origini e di una identità, che è fierezza di spirito.La terra della Diocesi di Patti resta negli occhi e più nel profondo del cuore.

Terra di passione e di amore, di intrigante bellezza, fiera delle proprie memorie storiche e religiose, proiettata verso il nuovo Millennio, con rinnovata tensione verso il Bello ed il Sacro, icone intramontabili dell’Infinito.Una terra struggente che, nonostante le difficoltà del vivere, riappare ad ogni alba piccolo granello di luce.

Don Basilio Scalisi

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