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1 DIDATTICA INTEGRATA E STRATEGIE DI INTERVENTO Margherita Miele La chiusura delle scuole speciali e l’inserimento degli alunni disabili nelle scuole normali, avvenuto negli anni settanta, ha creato una serie di problemi legati soprattutto alla mancanza di una preparazione adeguata da parte dei docenti e dei dirigenti. Se un tempo non si sapeva cosa fare, oggi le idee sono molto più chiare: un alunno certificato “in situazione di handicap” deve avere una diagnosi clinica che attesti il suo deficit e un piano educativo individualizzato (PEI). Questo piano educativo comprende la diagnosi funzionale, il profilo dinamico-funzionale, l’elenco delle attività didattiche organizzate in funzione dei bisogni educativi specifici dell’allievo e, infine, i criteri di valutazione adeguati alla situazione di handicap. Al momento attuale, dunque, la situazione è molto cambiata anche se per arrivare alla vera integrazione rimane ancora molta strada da percorrere. Oggi il vero rischio è che un eccesso di programmazioni e di interventi fortemente individualizzati finiscano per isolare di nuovo l’alunno in situazione di handicap. Secondo Fabio Celi “una eccessiva enfasi sui bisogni individuali rischia, di fatto, di emarginare l’alunno, togliendo significato alla sua permanenza nella classe” (1). L’obiettivo di questo lavoro è quello di evidenziare i rischi di questa “nuova forma di emarginazione” e di tracciare un percorso didattico orientato a rispondere alla duplice esigenza di individualizzazione e di socializzazione che il soggetto disabile presenta. Prima di entrare nel vivo di questo argomento, ci sembra necessario considerare l’evoluzione che il dibattito sull’integrazione ha avuto nell’ultimo trentennio per individuare i principali motivi che legittimano la didattica integrata e il ricorso a più figure di sostegno. 1. IL DIBATTITO SULL’INTEGRAZIONE Agli inizi degli anni settanta si verifica un ripensamento sui modelli educativi fino ad allora praticati a favore dei soggetti in situazione di handicap e comincia ad emergere l’esigenza di formarli ed istruirli con modalità differenti. La convinzione che fosse necessario un contesto separato per far loro raggiungere determinati obiettivi di apprendimento e di comportamento viene superata e si diffonde l’idea che l’esperienza scolastica, vissuta con coetanei normodotati, agevoli sia i processi di apprendimento che lo sviluppo di

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DIDATTICA INTEGRATA E STRATEGIE DI INTERVENTOMargherita Miele

La chiusura delle scuole speciali e l’inserimento degli alunni disabili nelle scuole normali,

avvenuto negli anni settanta, ha creato una serie di problemi legati soprattutto alla

mancanza di una preparazione adeguata da parte dei docenti e dei dirigenti.

Se un tempo non si sapeva cosa fare, oggi le idee sono molto più chiare: un alunno

certificato “in situazione di handicap” deve avere una diagnosi clinica che attesti il suo

deficit e un piano educativo individualizzato (PEI). Questo piano educativo comprende la

diagnosi funzionale, il profilo dinamico-funzionale, l’elenco delle attività didattiche

organizzate in funzione dei bisogni educativi specifici dell’allievo e, infine, i criteri di

valutazione adeguati alla situazione di handicap.

Al momento attuale, dunque, la situazione è molto cambiata anche se per arrivare alla

vera integrazione rimane ancora molta strada da percorrere.

Oggi il vero rischio è che un eccesso di programmazioni e di interventi fortemente

individualizzati finiscano per isolare di nuovo l’alunno in situazione di handicap. Secondo

Fabio Celi “una eccessiva enfasi sui bisogni individuali rischia, di fatto, di emarginare

l’alunno, togliendo significato alla sua permanenza nella classe” (1).

L’obiettivo di questo lavoro è quello di evidenziare i rischi di questa “nuova forma di

emarginazione” e di tracciare un percorso didattico orientato a rispondere alla duplice

esigenza di individualizzazione e di socializzazione che il soggetto disabile presenta.

Prima di entrare nel vivo di questo argomento, ci sembra necessario considerare

l’evoluzione che il dibattito sull’integrazione ha avuto nell’ultimo trentennio per individuare i

principali motivi che legittimano la didattica integrata e il ricorso a più figure di sostegno.

1. IL DIBATTITO SULL’INTEGRAZIONE

Agli inizi degli anni settanta si verifica un ripensamento sui modelli educativi fino ad allora

praticati a favore dei soggetti in situazione di handicap e comincia ad emergere l’esigenza

di formarli ed istruirli con modalità differenti. La convinzione che fosse necessario un

contesto separato per far loro raggiungere determinati obiettivi di apprendimento e di

comportamento viene superata e si diffonde l’idea che l’esperienza scolastica, vissuta con

coetanei normodotati, agevoli sia i processi di apprendimento che lo sviluppo di

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comportamenti prosociali (comportamenti spontanei di aiuto e di collaborazione verso gli

altri).

Già nella prima metà dell’ottocento troviamo una testimonianza significativa di quanto sia

importante, per l’apprendimento dei disabili, vivere in un ambiente eterogeneo. E’ il caso di

Séguin, un medico educatore chiamato ad occuparsi di Victor, il souvage ritrovato nelle

foreste dell’Aveyron. Questo autore può essere considerato, a ragione, un precursore

dell’educazione ecologica globale, secondo la prospettiva di Bateson, poiché la sua è

un’educazione integrale e non settoriale (2).

Questa nuova visione, alimentata anche da un notevole sviluppo dell’associazionismo

riguardante i disabili e le loro famiglie, porta all’introduzione, nella legge 118 del 30 marzo

1971, di un articolo riguardante l’assolvimento dell’obbligo scolastico da parte dei disabili

nella scuola comune. Ma questa legge considera soprattutto l’opportunità di una

socializzazione “normale” solo per quei soggetti con lievi disabilità che non richiedono alla

scuola comune di cambiare per accoglierli. Questa specificazione, espressa nell’art. 28,

fornisce l’occasione per ritardare l’ingresso dei disabili nella scuola di tutti.

Bisognerà arrivare alla Relazione della Commissione Falcucci del ’75 per ritrovare

quantomeno l’intenzione di far cambiare la scuola per meglio accogliere i disabili. I primi

cambiamenti proposti dalla Relazione riguardano l’attuazione del tempo pieno e la

riduzione del numero degli alunni di una classe della quale faccia parte un disabile.

Relativamente all’inserimento dei gravi, con questa Relazione non si è fatto nessun passo

avanti. Si dovrà aspettare la legge 517 del 1977 per vedere garantito il diritto

all’integrazione da parte di tutti gli alunni in situazione di handicap (3).

Secondo Marisa Pavone “ la situazione di gravità è un concetto sistemico, dipendente

dall’interazione di una molteplicità di fattori personali, relazionali e contestuali, quindi non

unicamente insediati nel soggetto [.....] è riferibile anche al grado di coordinazione e

integrazione dei sostegni personali (familiari e sociali) e dei servizi messi a disposizione

dall’ambiente, nonché alle aspettative di quest’ultimo” (4).

Questa stessa tesi è condivisa da Luigi D’Alonzo (5), anche a seguito dell’analisi di una

vasta letteratura italiana e americana, e da Maura Gelati secondo la quale “la gravità di un

soggetto rilevata in un certo momento, rispetto a determinate variabili, non può essere il

termine per fissare un tipo di proposta educativa e formativa piuttosto di un’altra e,

soprattutto, non deve essere l’occasione per attuare una sentenza inappellabile per

soluzioni segreganti” (6).

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La legge 517 del 1977 ha avuto sicuramente il merito di avere aperto le porte della scuola

a tutti i disabili e di aver contribuito all’innovazione dell’organizzazione scolastica, ma

passerà ancora circa un ventennio di esperienze e di riflessioni per garantire al disabile

tutti i suoi diritti “nel pieno rispetto della dignità umana” (7).

Il 5 febbraio 1992 viene approvata la Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale

e i diritti delle persone handicappate. Già dal titolo si capisce come questa legge parli di

integrazione in un raggio più ampio rispetto alla precedente legge del ’77, un’integrazione

in tutti i settori: la scuola, l’università, il mondo del lavoro e il tempo libero.

Secondo la Gelati “ La legge 104 vuole fare di ogni disabile , tenendo presenti le sue

potenzialità e impegnandosi a svilupparle, un membro attivo del contesto sociale” (8).

Dopo avere considerato le principali disposizioni legislative a favore dell’integrazione e i

punti di vista di alcuni illustri studiosi del problema, ci sembra opportuno prendere in

esame anche qualche voce contraria all’integrazione, soprattutto dei “gravi”.

Dario Ianes in un suo recente libro (9) riporta tre testimonianze davvero sconcertanti. La

prima è dello scrittore Paul Collins e riguarda la situazione americana: Una scrittrice che

conosco ha messo il suo bambino autistico in una classe “normale”: è stata un’esperienza

terribile. Gli altri sapevano che lui non era Uno di loro. Lo provocavano, lo tormentavano,

lo evitavano, così lei, disperata, lo ha spostato in una scuola per bambini autistici. E

adesso, per la prima volta in vita sua, ha degli amici [....]. La scuola normale può causare

nell’autistico una abnorme infelicità; crescere in una società normale può trasformarlo in

un adulto sofferente (10).

La seconda testimonianza è di Oliver Sacks e riguarda la situazione italiana: Una legge

approvata nel 1977 ha determinato la chiusura delle scuole per sordi e il passaggio

all’“integrazione” in scuole normali [....] gli effetti sulle capacità linguistiche dei giovani

alunni , sulla loro istruzione, sull’intera loro esistenza sono stati infausti. Si spera che tale

follia possa essere fermata prima che vengano chiuse tutte le scuole per sordi... (11).

La terza voce è quella di Emanuele Micheli, psicologo, esperto di autismo: ... i bambini con

autismo hanno comunque handicap in campo sociale, comunicativo, motivazionale e

quindi per loro è fondamentale uno specifico curriculum di riabilitazione e non una

semplificazione del curriculum scolastico.... (12).

Da queste tre testimonianze emerge la preoccupazione che, nel tentativo di integrare al

meglio il soggetto disabile vengano violati i loro diritti di ricevere i migliori interventi

psico-educativi e didattici oggi dimostratisi efficaci dalla ricerca internazionale in

educazione speciale. Come rispondere allora a questa legittima perplessità?

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Per Dario Ianes la risposta è semplice: “ Ai benefici della normalità non si può rinunciare,

né si può rinunciare ai benefici di una specialità tecnica, dunque dobbiamo tenerli insieme

tutti e due, superando una apparente incompatibilità, in una dialogica, direbbe Morin, che

tenga insieme le due dimensioni, o il meglio di esse. E’ quello che chiameremo speciale

normalità “ (13). Il concetto di speciale normalità indica un modo di vivere la realtà

scolastica dove specialità e normalità coesistono influenzandosi ed avvicendandosi

reciprocamente. Non occorre fare altro ma farlo in altro modo con la consapevolezza che

l’alunno in situazione di handicap necessita di essere riconosciuto per quegli elementi di

specificità che lo caratterizzano, ma soprattutto per la normalità del fondamentale bisogno

di educazione e formazione che è uguale per tutti (14).

2. DALLA DIDATTICA INDIVIDUALIZZATA ALLA DIDATTICA INTEGRATA.

Le nostre scuole, a partire da quelle dell’infanzia, sono normalmente frequentate da

disabili, questo però non vuol dire che essi siano veramente integrati: in molti casi gli sforzi

compiuti per individualizzare l’insegnamento si sono rivelati controproducenti sul piano

della socializzazione, quando invece è stata privilegiata la dimensione della

socializzazione, gli esiti si sono spesso rivelati deludenti sul piano dello sviluppo delle

abilità cognitive .

Il problema fondamentale da risolvere, dunque, è come conciliare il principio didattico

dell’individualizzazione con quello della socializzazione per realizzare un efficace processo

di integrazione del disabile nel gruppo classe (15). Cominciamo col far chiarezza sui

termini individualizzazione e integrazione, oggi così frequentemente utilizzati e spesso

equivocati.

L’istruzione individualizzata non è una istruzione individuale, realizzata semplicemente in

un rapporto uno a uno. Essa consiste nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche

individuali degli alunni (ai loro ritmi di apprendimento, alle loro capacità linguistiche, alle

loro modalità di apprendimento ed ai loro prerequisiti cognitivi), cercando di conseguire

individualmente obiettivi di apprendimento comuni al resto della classe. Bisogna

attraversare strade diverse, più corte, più lunghe, più attente ai bisogni di concretezza o

più astratte, ma sempre orientate al raggiungimento di traguardi formativi comuni (16).

Il dibattito sui piani di studio personalizzati previsti dalle indicazioni delegate al D.M. n.

59/04 applicativo della legge 53/03 ha riproposto la questione individualizzazione e/o

personalizzazione. Secondo Domenico Resico “ La personalizzazione sta ad indicare la

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necessità di inserire, all’interno dei curricoli, obiettivi, contenuti e attività in sintonia con i

bisogni propri di ciascuna persona, che potranno quindi essere simili o totalmente

differenti rispetto a quelli degli altri, personalizzati appunto “ (17). In altri termini,

l’individualizzazione da sola non basta perchè esiste una dimensione personale di

attitudini, interessi, bisogni, motivazioni, non riconducibile a quella degli altri. La

personalizzazione, però, non è legittima se il soggetto in situazione di handicap viene

isolato dal resto della classe. L’atteggiamento più corretto sembra essere quello di cercare

di integrare le due strade giacché una non esclude l’altra, in maniera da soddisfare sia i

bisogni di individualizzazione che di personalizzazione.

Vediamo ora in quale accezione è meglio intendere il termine integrazione.

Sicuramente non vuol dire assimilare la stessa identità del gruppo nel quale il soggetto

viene inserito. “E’ persona integrata quella persona che conserva una propria identità

diversa dalle altre e con il suo posto nel gruppo” (18). Secondo la Gelati “ l’integrazione è

un processo in continuo divenire in cui sia il gruppo ricevente sia i nuovi soggetti tendono

a cambiamenti atti a consentire loro occasioni di condivisione di comuni conoscenze, di

aiuto reciproco, di collaborazione in funzione dello sviluppo di tutte le potenzialità dei

singoli soggetti e per lo sviluppo del massimo grado di autonomia di ciascuno” (19).

Non si può parlare, dunque, di integrazione se gli alunni in difficoltà fanno cose diverse dal

resto della classe o, peggio ancora, se vengono portati fuori dalla classe.

Bisogna che la didattica individualizzata non sia fine a se stessa bensì propedeutica

all’integrazione. In altri termini, l’individualizzazione deve servire all’integrazione e non,

come in molti casi succede, costituire un ostacolo alla sua realizzazione.

Per cambiare atteggiamento culturale e fare in modo che l’individualizzazione

dell’insegnamento diventi funzionale alla integrazione, occorre una nuova didattica : la

didattica integrata. Questa “non mette i contenuti scolastici al centro del processo di

insegnamento-apprendimento ma li riporta al loro giusto ruolo di stimolo percepibile e

utilizzabile da tutti gli alunni “ (20).

Il ricorso ad una didattica integrata, in questa accezione, si fa sempre più urgente se si

considera che nella nostra scuola, oggi, accanto agli alunni disabili sono presenti alunni

stranieri, alunni deprivati culturalmente, alunni con problemi famigliari (genitori

tossicodipendenti, disoccupati, alcoolisti, etc.). Il quadro che ne emerge è di una normalità

minacciata, una normalità che non esiste più.

Come ci si pone di fronte a queste plurime diversità? Secondo Claudio Girelli ci si pone in

maniera diversa se le consideriamo incidenti oppure occasioni.

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Se le consideriamo incidenti , si penserà di normalizzarle al più presto per tornare a fare

scuola. E’ una tendenza diffusa, collegata ad una idea di scuola centrata

sull’insegnamento, dove l’alunno è il destinatario che deve ricevere e restituire il

messaggio . Le discipline sono il fine della scuola e saranno insegnate nella maniera più

funzionale alla domanda sociale.

Se le consideriamo occasioni, vuol dire che abbiamo una idea di scuola diversa: le

difficoltà non costituiscono un ostacolo perchè segnalano in modo evidente che la realtà

non è uniforme, che la normalità è costituita da plurime diversità. L’eterogeneità è la

normalità. L’alunno in difficoltà diventa una occasione perchè la scuola si ripensi come

strumento di successo formativo per tutti. Le discipline di insegnamento diventano il

mezzo per promuovere la personalità dell’allievo in tutte le sue dimensioni e costituiscono

la proposta formativa che rielabora la domanda sociale (21).

Il Regolamento sull’autonomia consente alle scuole di ripensarsi come strumento di

successo nella misura in cui parla di “ forme di flessibilità dell’offerta formativa che

soddisfino tutte le diverse esigenze nel rispetto del principio generale dell’integrazione

degli alunni nella classe e nel gruppo” (22).

3. LE FUNZIONI DI SOSTEGNO

A partire dalla metà degli anni settanta, il docente di sostegno è stato considerato il

garante del percorso di istruzione dell’alunno disabile. Questo ha provocato alcune

distorsioni :

- la mobilità estrema dei docenti specializzati che aspirano a transitare sul posto

curricolare disperdendo le competenze acquisite;

- l’irrigidimento del profilo (docente di sostegno come angelo custode del discente);

- la subalternità rispetto all’insegnante curricolare (23).

L’episodio che qui riportiamo costituisce una testimonianza piuttosto eloquente di quello

che avviene in una classe in cui la funzione del sostegno viene attribuita solo al docente

specializzato.

Siamo in una seconda elementare, alla fine dell’anno scolastico. L’alunno disabile si

chiama Ferdinando ed ha un ritardo mentale di grado lieve. L’insegnante di sostegno,

molto attenta, è riuscita ad insegnargli a leggere, ma quella mattina non è presente.

L’insegnante di classe deve comunicare ai genitori che ci sarà una riunione di fine anno,

allora chiama Ferdinando alla cattedra dicendogli di prendere il quaderno, sopra il quale

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scrive l’avviso. Ferdinando lo legge e dice : “Ah, meno male, non è una nota”. La maestra

lo guarda con gli occhi sgranati ed esclama : “Perchè, sai leggere ? “ (24).

Appare evidente che questa insegnante, durante l’anno, non si è molto occupata di lui.

Poco male se questo suo disinteresse non si traducesse in un ostacolo all’integrazione per

Ferdinando. E’ proprio così: se l’allievo disabile viene considerato proprietà privata del

docente di sostegno, i rischi di emarginazione sono molto elevati. Paradossalmente, se

l’intervento del docente di sostegno non viene considerato nella sua giusta accezione di

sostegno alla classe diventa un ostacolo all’integrazione.

La C.M. n. 250/85 anticipa il concetto di “contitolarità” espresso chiaramente dalla legge n.

104 nel ’92 e dalla Commissione Europea nel ’96 e indica che “ la responsabilità

dell’integrazione è, al medesimo titolo, dell’insegnante o degli insegnanti di classe e della

comunità scolastica nel suo insieme. Ciò significa che non si deve mai delegare al solo

insegnante di sostegno l’attuazione del progetto educativo individualizzato poiché in tal

modo l’alunno verrebbe isolato anziché integrato nel contesto della classe, ma tutti i

docenti devono farsi carico della programmazione e della attuazione e verifica degli

interventi didattico-educativi previsti dal piano educativo individualizzati” (25).

L’atteggiamento di delega dell’attuazione del progetto educativo individualizzato al solo

insegnante di sostegno da parte dei colleghi della classe è spesso generato da due

equivoci.

Il primo riguarda la confusione fra funzione di sostegno e ruolo di sostegno. L’intervento di

sostegno coincide con l’intero orario scolastico : in questo senso è una funzione che può

essere svolta da diversi ruoli. L’insegnante di sostegno è solo uno di questi ruoli e svolge

la sua azione non solo nel lavoro diretto con l’alunno in difficoltà, ma soprattutto

nell’aiutare i colleghi a gestire le situazioni problematiche che inevitabilmente si

presentano quando in classe è inserito un soggetto in situazione di handicap. Non sempre

egli avrà la competenza disciplinare specifica, ma le competenze didattiche e relazionali

gli consentiranno di orientare l’intervento dei colleghi (26).

Il secondo equivoco riguarda l’idea di intervento speciale: Il disabile necessita di un

intervento specializzato e solo l’insegnante di sostegno è specializzato. Si fa confusione

fra didattica e terapia e si riduce il disabile al suo deficit inserendolo in una

categoria speciale che, in quanto tale, non ha nulla a che fare con il normale lavoro

della classe.

Non si tratta di sottovalutare il bisogno educativo speciale dell’alunno disabile, ma di

soddisfarlo in un progetto che preveda la collaborazione di tutti. L’interscambio dei ruoli tra

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l’insegnante di sostegno e gli insegnanti curricolari è una condizione essenziale affinché

l’insegnante di sostegno non venga considerato l’insegnante del disabile, ma una persona

che ha il compito di creare un raccordo tra l’alunno disabile, i suoi compagni e i docenti

della classe (27).

I provvedimenti legislativi, oltre ad occuparsi del concetto di “contitolarità” della classe si

sono anche preoccupati di sottolineare “ l’illegittimità dell’uscita dalla classe degli alunni

con handicap, salvo i casi in cui un periodo di attività individuale sia espressamente

previsto dalla stesura del PEI e concordato tra docente specializzato e docenti

curricolari”(28).

Il racconto che un’ insegnante specializzata fa della sua esperienza didattica con un

bambino cieco dalla nascita, paraplegico e con scarsa funzionalità della mano sinistra,

testimonia una grande sensibilità e lascia sperare bene per il futuro della didattica

integrata.

In un libro, scritto dopo diversi anni di esperienza, l’insegnante dichiara: “ ritirarsi nell’aula

di sostegno sarebbe apparsa la decisione più realistica [...] , ma sarebbe stato per lui un

ulteriore isolamento, un sommare altro svantaggio a quello iniziale, un tagliarlo fuori

dall’essenza stessa della Scuola intesa come luogo di socializzazione delle risorse e degli

svantaggi individuali “ (29).

Fortunatamente la sensibilità e la competenza di questa docente specializzata sta

diventando un tratto comune a molti docenti di sostegno , non a tutti, e questo grazie

anche al fatto che, dalla metà degli anni novanta si è diffusa la logica delle reti di sostegno

ed è stato attribuito al docente specializzato il compito di occuparsi di coordinare i

contributi che possono provenire da più parti a favore del disabile.

L’insegnante di sostegno è un operatore di rete interno alla scuola (con il compito di curare

la comunicazione e la collaborazione con i colleghi di classe, col dirigente, con il personale

ATA e con gli alunni) ed esterno alla scuola (con il compito di curare la collaborazione con

le famiglie, con il personale dei servizi socio-sanitari, con le associazioni e con gli esperti).

Il suo scopo istituzionale è quello di fare tutto il possibile affinchè l’allievo disabile possa

sviluppare al meglio tutte le sue potenzialità integrandosi in una comunità scolastica

capace di accogliere e valorizzare le differenze (30).

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4. LE STRATEGIE DI INTERVENTO

Se la programmazione individualizzata viene costruita senza conoscere la

programmazione della classe si commette un gravissimo errore ai fini dell’integrazione. In

molte situazioni l’individualizzazione è stata interpretata come sinonimo di separazione, di

lavoro individuale condotto dall’insegnante di sostegno, dentro e fuori la classe.

Secondo Lucio Cottini “la sfida che dobbiamo accettare è quella di ricercare la massima

individualizzazione delle attività garantendo nel contempo una effettiva inclusione nella

classe” (31). Per questo è necessario che i docenti di sostegno e i docenti curricolari

lavorino insieme in maniera da poter selezionare obiettivi, contenuti e attività che possono

essere scanditi secondo diversi livelli di difficoltà.

Nelle pagine che seguono saranno analizzate le condizioni e le strategie che bisogna

mettere in atto per realizzare una buona integrazione salvaguardando sia i diritti dei

disabili che i diritti dei suoi compagni di classe.

4.1. Creare un clima inclusivo

La condizione imprescindibile per realizzare progetti di integrazione è che il disabile si

senta “accolto” nella classe. Non ha senso, infatti, parlare di adeguamento di obiettivi e di

materiali ai bisogni del disabile, se non si è creato un clima di accettazione reciproca nel

rispetto delle differenze individuali.

Il concetto di inclusione, cioè “l’appartenenza ad un gruppo pur conservando la propria

peculiarità”, richiama altri due concetti: quello di normalità e quello di specialità (32).

La normalità risponde al bisogno di sentirsi considerati e trattati alla stessa stregua degli

altri. la specialità risponde al bisogno di sentirsi diversi dagli altri. Facciamo un esempio

per spiegare meglio questi concetti: se in una scuola viene offerta a tutti i ragazzi la

possibilità di scegliere, tra molte proposte, il laboratorio a cui partecipare, si vengono a

coniugare il bisogno di normalità (a tutti viene data la possibilità di scegliere) e di specialità

(la scelta tiene conto delle preferenze personali).

Andrich e Miato, in un loro studio sulla inclusività delle classi, indicano cinque coordinate:

1) l’alunno disabile deve rimanere in classe per il maggior tempo possibile;

2) l’alunno disabile deve fare il più possibile le stesse cose che fanno i suoi compagni;

3) l’alunno disabile deve il più possibile essere posto nelle stesse condizioni formative

degli altri studenti;

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4) i migliori insegnanti di sostegno sono i suoi compagni;

5) gli spazi di un’aula inclusiva devono essere ampi (33).

Curare la qualità delle relazioni e l’allestimento di un setting educativo adeguato

diventano, allora, delle assolute priorità, perchè se l’alunno disabile si sente accolto e

incoraggiato, valorizzato e integrato nel gruppo classe, allora è nelle condizioni per

sviluppare al meglio anche la propria dimensione cognitiva.

4.2. Adeguare gli obiettivi del disabile agli obiettivi della classe

L’adeguamento del percorso didattico del disabile a quello della classe potrebbe essere

una buona occasione , per gli insegnanti, per riflettere su quale modello didattico utilizzare

per agevolare l’integrazione. Il modello didattico per problemi? Quello per concetti? Quello

per sfondo integratore? Il modello della didattica breve? Quello per obiettivi? Ciascuno di

questi modelli contiene in sé un buon potenziale per l’integrazione, ma il modello più

utilizzato è quello per obiettivi, sicuramente per le sue implicazioni positive rispetto ai

processi di individualizzazione (la scansione degli obiettivi, degli argomenti, il rispetto dei

tempi e delle caratteristiche del soggetto, la preoccupazione circa la verificabilità dei

risultati).

Una volta selezionato il modello, ai docenti viene richiesto un grande impegno per adattare

gli obiettivi del disabile a quelli della classe.

Dario Ianes individua cinque livelli di adeguamento degli obiettivi in relazione alla gravità

del deficit, procedendo dal meno grave al più grave (34):

1° livello : la sostituzione. L’obiettivo non si semplifica, ma viene curata solo l’accessibilità

dei codici linguistici (lingua dei segni, materiale in Braille, registrazioni audio dei testi ).

2° livello : la facilitazione. Per garantire il raggiungimento dell’obiettivo è sufficiente

utilizzare tecnologie più motivanti (ad esempio software didattici) e contesti didattici

fortemente interattivi e operativi (tutoring, gruppi di apprendimento cooperativo, laboratori,

simulazioni etc.).

3° livello: la semplificazione. Si modifica il lessico, si riduce la complessità concettuale, si

eseguono le operazioni di calcolo utilizzando la calcolatrice, si modificano i criteri di

corretta esecuzione di un compito (consentendo più errori e imprecisioni).

4° livello: scomposizione nei nuclei fondanti. Nell’epistemologia di un sapere

disciplinare si identificano delle attività fondanti e accessibili al livello di difficoltà di cui

abbiamo bisogno.

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5° livello : La partecipazione alla cultura del compito. Si cerca di trovare occasioni perchè

l’alunno sperimenti, anche se soltanto da spettatore, la “cultura del compito” (il clima

emotivo, la tensione cognitiva, i prodotti elaborati, etc.). Nella vita di ogni giorno noi

partecipiamo ad una infinità di situazioni, pur non avendo in esse particolari competenze.

Ci sono settori dei quali non sappiamo molto, ma non per questo ci esoneriamo dal

partecipare all’atmosfera culturale ricavandone sollecitazioni importanti sul piano

personale. In una classe che attua l’integrazione si verificano dinamiche analoghe (35).

In base alla gravità del deficit, i docenti possono scegliere il livello di semplificazione degli

obiettivi che reputano più idoneo per l’alunno disabile.

Riportiamo ora qualche esempio di adeguamento riferito ai diversi ordini di scuola.

Per la scuola elementare, prendiamo il caso di un bambino inserito in una prima classe

impegnata nell’apprendimento della lettura e della scrittura con il metodo fonetico. Il

bambino non è ancora pronto per questo obiettivo perchè non ha ancora acquisito la

capacità di discriminare. Se si considerano solo i bisogni cognitivi dell’allievo si è tentati di

lavorare sulla discriminazione di colori o forme geometriche, ignorando quello che fa il

resto della classe; se invece ci sta a cuore che il bambino partecipi ai lavoro dei compagni,

potremmo sollecitarlo ad acquisire l’abilità di discriminare utilizzando grandi lettere

dell’alfabeto in stampatello maiuscolo. Nell’ambito linguistico, obiettivi come saper

ascoltare, saper comunicare, sono quasi sempre alla portata degli allievi disabili. Altri

obiettivi come saper leggere, saper comprendere, saper produrre testi scritti si prestano ad

essere utilizzati come punto di partenza di una programmazione individualizzata che tenga

conto di quello che fanno i compagni.

Nella scuola media la situazione si fa più complessa perchè la distanza fra gli obiettivi

della classe e le effettive potenzialità del disabile tende ad aumentare. Tuttavia si possono

ancora individuare obiettivi comuni: in una prima media vengono programmate attività per

insegnare ai ragazzi a comunicare verbalmente in modo adeguato. E’ una buona

occasione per lavorare anche con l’allievo disabile individuando obiettivi specifici al suo

livello: dire il proprio nome in risposta ad una domanda, chiedere in prestito una matita

oppure esprimere il proprio punto di vista, accettare il punto di vista dell’altro. Nell’ambito

storico, un obiettivo adatto anche ai disabili che non sanno leggere può essere: ordinare

cronologicamente fatti ed eventi. Questo obiettivo permette di sistemare su di una tabella

fatti ed eventi secondo un ordine cronologico e insegnare il concetto di prima e dopo

anche ad un allievo con difficoltà di apprendimento. In ambito geografico, troviamo

l’obiettivo leggere mappe e carte. Anche questo obiettivo può essere raggiunto a diversi

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livelli di complessità: alcuni leggeranno le carte per programmare un viaggio, altri

impareranno a guardare le carte per conoscere il tragitto da casa a scuola.

Per la scuola media superiore il discorso è analogo. Certamente le difficoltà aumentano e

diventa più difficile realizzare una didattica integrata, ma non impossibile. Le occasioni in

cui si possono realizzare lavori più concreti e vicini alla realtà dell’alunno con problemi

diventano più sporadiche, ma l’importanza di fargli sperimentare un lavoro simile a quello

dei compagni di classe, giustifica anche il lavoro su contenuti poco funzionali (36).

Lo scopo principale di tutto questo lavoro sull’adattamento degli obiettivi è quello di

cercare di evitare incresciose situazioni di emarginazione. Non dobbiamo, quindi, chiederci

se è utile che un disabile che ha ancora bisogno di consolidare abilità di base possa trarre

giovamento da un lavoro sulla vita degli antichi Romani sul quale la classe è impegnata.

Se allarghiamo il campo di analisi da quello cognitivo a quello sociale, allora sicuramente il

lavoro sugli antichi Romani assume una importanza fondamentale perchè costituisce una

occasione per lavorare con e come gli altri compagni.

Le situazioni in cui l’alunno disabile sarà costretto a lavorare individualmente e su

contenuti non comuni al resto della classe sicuramente non mancheranno, ma bisogna

saperle gestire. Il ricorso al modello dell’insegnamento separato rispetto al resto della

classe trova una sua legittimazione solo se gli altri compagni svolgono anch’essi un lavoro

individuale e se l’intervento da parte degli insegnanti viene rivolto a tutti gli alunni e non

solo a quelli con problemi.

4.3. Adeguare gli obiettivi della classe alle esigenze del disabile

Se gli sforzi di adeguamento delle attività della classe vengono richiesti solo all’alunno

disabile, non possiamo parlare di una vera integrazione. Questa infatti, come abbiamo già

precisato nel secondo paragrafo, richiede sia al gruppo accogliente che all’allievo inserito

una serie di cambiamenti capaci di consentire loro occasioni di collaborazione e aiuto

reciproco. Ma per la classe in cosa consiste il cambiamento? Vuol dire fare qualcosa di

estremamente produttivo ai fini dell’integrazione: adeguare i suoi obiettivi alle esigenze del

disabile, con la consapevolezza che questo adeguamento possa giovare ad entrambi.

Vediamo ora nel concreto quali attività la classe potrebbe realizzare per tendere una mano

al compagno in difficoltà e quali vantaggi , sul piano cognitivo, essa può trarre da questa

esperienza.

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Non si tratta di chiedere ad un bambino di quinta elementare di ritornare a ripetere

l’alfabeto, ma di cercare tutte le occasioni possibili per avvicinarsi al lavoro del disabile.

Se, per esempio, un bambino sta lavorando sulla discriminazione dei colori, si possono

programmare delle lezioni sullo spettro solare e i colori dell’iride; se sta imparando la

successione dei numeri servendosi della retta numerica, la classe può lavorare sugli assi

cartesiani che, in fondo, non sono altro che due rette numeriche perpendicolari (37).

Queste che abbiamo indicato sono operazioni estemporanee che saltuariamente possono

essere realizzate in una classe. Vediamo invece quali attività si possono programmare per

tempo e in maniera più sistematica:

- Il ripasso frequente degli argomenti di studio. Rappresenta un primo tentativo di andare

incontro alle esigenze del compagno più debole e non è detto che rappresenti una perdita

di tempo per la classe. Spesso, infatti, nelle classi non sono pochi gli alunni che hanno

bisogno di ripetere parti del programma non ancora assimilate.

- L’operatività estesa a tutte le discipline, e non solo a quelle tecniche o artistiche. Agevola

sicuramente l’apprendimento del disabile perchè risponde al suo bisogno di concretezza,

ma costituisce anche una occasione preziosa per tutti quegli alunni che vivendo

l’esperienza scolastica come un male necessario, possono trarre dalle attività pratiche

(costruire cartelloni, fare esperimenti, utilizzare il mezzo informatico ai fini didattici, etc.)

nuova linfa per rimotivarsi.

- Il lavoro sulle abilità di studio. Consiste in particolare nell’ evidenziare il concetto chiave

di un brano di lettura, nel sottolineare le parti più importanti e nello schematizzare in

maniera gerarchica i concetti. Rappresenta un’attività molto preziosa per un soggetto in

difficoltà e costituisce, per la classe, un’occasione per abbandonare una concezione

esclusivamente nozionistica dello studio e intraprendere un percorso più attento ai

processi che ai contenuti (38).

Abbiamo visto come la presenza in classe dell’alunno disabile può diventare una

opportunità positiva per tutti. Purtroppo, però, i docenti curricolari , nel programmare le

attività per la classe, generalmente non prestano la dovuta attenzione alle esigenze del

disabile e questo avviene soprattutto per tre motivi:

1) Il rallentamento dei lavori della classe (i programmi sono ampi e non si può

modificare il percorso o tornare indietro per aspettare il compagno più lento).

2) La convinzione che i diritti della maggioranza a svolgere il proprio programma siano

maggiori dei diritti del disabile che è solo.

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3) La consapevolezza da parte della classe di non avere nulla da guadagnare nel

tornare indietro nel programma, nell’utilizzare modalità operative per la

comprensione di concetti astratti, nell’aiutare un compagno in difficoltà (39).

Logiche di questo tipo difficilmente portano ad una reale integrazione.

4.4. Semplificare e organizzare i materiali di studio

La programmazione educativa individualizzata deve prevedere , a livello massimo

possibile, tutte le materie della programmazione di classe, differenziandole solo nel livello

di complessità. Il più delle volte, però, i materiali didattici della classe non sono adatti

all’alunno disabile. Le alternative allora sono due: o si fa ricorso a materiale strutturato

facilmente reperibile presso distributori specializzati, oppure si utilizzano materiali non

strutturati, semplificando e organizzando i materiali della classe.

Il materiale strutturato è rappresentato da testi specializzati, schede, giochi didattici, etc.

Questi hanno il vantaggio di essere costruiti nel rispetto dei principi psico-pedagogici e di

essere sottoposti al controllo scientifico circa la loro validità ma, in genere sono molto

frammentari e portano alla perdita del significato globale della esperienza di

apprendimento.

Nell’ambito dei materiali strutturati si collocano anche i programmi di videoscrittura (per

migliorare le competenze sintattiche e grammaticali) e le tecnologie ipertestuali e

ipermediali (40). Il vantaggio del mezzo informatico è quello di essere considerato dal

disabile non come “una protesi” ma come “strumento tipico delle persone grandi e

intelligenti, e questo contribuisce a mantenere l’autostima a livelli alti “ (41).

I materiali non strutturati sono quei materiali che i docenti e a volte gli allievi più capaci,

costruiscono per mettere l’alunno disabile nelle condizioni di poter seguire gli stessi lavori

della classe. I principali tipi di materiali non strutturati sono i cartelloni e gli adattamenti dei

libri di testo.

Il cartellone viene elaborato tramite parole-chiave, esso è finalizzato ad un uso collettivo

ed ha il merito di facilitare la formazione di una memoria di gruppo e di motivare alla

sintesi. Se l’alunno disabile presenta un deficit lieve, può partecipare alla costruzione del

cartellone; nel caso di un deficit grave potrà, comunque, trarre vantaggio dal fatto che le

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idee principali di una unità di apprendimento sono organizzate, sono espresse con

caratteri grandi, con colori vivaci e sono corredate da immagini (42).

Il cartellone si costruisce quando ormai l’unità di apprendimento è stata completata, ma

per agevolare la comprensione dei concetti e potenziare le capacità di organizzazione

degli stessi, è necessario lavorare con l’alunno in difficoltà anche durante tutto l’itinerario

didattico adattando i libri di testo alle sue esigenze.

Secondo Scataglini e Giustini l’adattamento dei libri di testo richiede preliminarmente le

seguenti operazioni (43) :

- l’analisi della modalità percettive del disabile, dello stile cognitivo, del grado di

motivazione e degli interessi;

- l’analisi del testo da semplificare o organizzare.

Sulla base di queste due analisi i docenti potranno procedere alla semplificazione dei testi

utilizzando tre diversi livelli a seconda della gravità del deficit.

Il primo livello di semplificazione si rivolge a quegli alunni che, pur essendo in grado di

seguire gli stessi ritmi della classe, hanno difficoltà percettive nell’approccio dei testi. La

semplificazione, in questo caso, consiste nell’ estrapolare dal testo i concetti chiave,

ingrandirli graficamente e aggiungere a questi un supporto iconico che sia particolarmente

motivante. L’alunno così potrà lavorare sullo stesso libro dei compagni.

Il secondo livello di semplificazione si rivolge ad alunni medio-gravi e consiste nella

ristrutturazione del testo eliminando le parti non essenziali e riportando solo le idee più

importanti espresse con parole semplici, con caratteri grandi e con parole-chiave in

neretto.

Il terzo livello è rivolto agli alunni con maggiori difficoltà di apprendimento per cui si rende

necessario ridurre al massimo la parte linguistica per lasciare spazio ad una sequenza di

immagini. Queste, ovviamente, devono essere altamente motivanti in modo da stimolare

l’interesse dell’alunno e facilitargli la comprensione e la memorizzazione delle nozioni

presentate.

La semplificazione dei libri di testo agevola sicuramente la capacità di comprensione

dell’alunno in situazione di handicap, ma non lo supporta nella complessa operazione di

organizzare le informazioni. Selezionare le idee principali, individuare i nessi causa-effetto,

stabilire analogie e differenze, sono abilità difficilmente presenti in un soggetto con

difficoltà. Occorre far ricorso, allora, a strumenti molto efficaci a questo scopo: gli

organizzatori anticipati. Questi si sono sviluppati sulla base delle teorie di Ausubel

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sull’apprendimento significativo secondo cui l’apprendimento migliora se si ha un metodo

chiaro e strutturato per organizzare le informazioni (44).

Gli organizzatori anticipati si chiamano così perchè vengono forniti dall’insegnante prima

che lo studente legga il testo. In letteratura vengono definiti come “mezzi di

rappresentazione visiva della conoscenza ossia un modo di strutturare l’informazione o di

organizzare gli aspetti più importanti di un argomento in uno schema che utilizza le

definizioni” (45). Lo schema può essere vuoto o parzialmente compilato e in tal caso si

chiede agli studenti di aggiungere le informazioni mancanti. La loro funzione è quella di far

comprendere meglio le relazioni tra le idee e per questa ragione vengono considerati uno

strumento efficace per tutti gli alunni, con o senza disabilità.

I principali tipi di organizzatori anticipati sono:

I diagrammi causa-effetto. Sono usati per evidenziare i nessi causali nelle azioni di un

personaggio di una storia, nelle manifestazioni di un fenomeno, negli eventi che hanno

segnato la Storia.

I grafici di sequenze. Servono ad evidenziare gli elementi chiave secondo una linea

temporale, oppure nelle Scienze o in Fisica per visualizzare le procedure di un

esperimento scientifico.

I diagrammi di confronto. Sono un eccellente strumento per evidenziare visivamente le

somiglianze e le differenze tra le idee principali, per costruire la scaletta di testi

comparativi e, in matematica, per trovare il massimo comun divisore ed il minimo comune

multiplo fra più numeri. La forma più nota è il diagramma di Venn.

I grafici dell’idea principale e dei dettagli . Sono utilizzati per individuare l’idea principale ed

elencare una serie di dati minori che servono ad illustrarla.

Le modalità di adattamento dei materiali di studio alle esigenze degli alunni in difficoltà

sono dunque molteplici e ciascuna di esse risponde ad un bisogno educativo particolare.

Concordiamo con Lancioni che qualsiasi unità di contenuto può essere modificata e

rielaborata se non è adatta a uno o più alunni (46). Rispetto ai materiali strutturati, gli

adattamenti producono, in genere, risultati più soddisfacenti in quanto vengono costruiti

“su misura”.

Per concludere possiamo indicare almeno due valide ragioni che rendono l’adattamento

dei materiali di studio una buona pratica per l’integrazione:

1) Permette all’alunno disabile di sperimentare il piacere del successo e questo

incrementa la motivazione e predispone a nuove esperienze di apprendimento con

i compagni;

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2) Evita la frustrazione generata dalla consapevolezza di aver bisogno di libri di testo

di un ordine di scuola inferiore (si pensi al caso in cui alle Superiori si offre al

disabile un libro di Scuola Elementare).

4.5. Differenziare la mediazione didattica

Negli ultimi anni la ricerca didattica ha ampliato la sua attenzione dal semplice

insegnamento ai processi di insegnamento-apprendimento attribuendo all’azione didattica

il compito di predisporre le migliori condizioni per l’apprendimento (47).

Utilizzare modalità diverse di presentazione dei contenuti costituisce sicuramente uno dei

numerosi tentativi che l’insegnante può realizzare per migliorare le condizioni

dell’apprendimento. Queste diverse modalità vengono denominate in letteratura come

“mediatori didattici”. Per mediatore didattico si intende tutto ciò che l’insegnante

intenzionalmente mette in atto per favorire l’apprendimento degli alunni. Il termine

“mediatore” deriva dalla loro funzione: essi si collocano tra la realtà e il soggetto per

agevolarne la rappresentazione . Elio Damiano parla di quattro tipi di mediatori (48):

I mediatori attivi fanno ricorso alla esperienza diretta. Un esempio di mediatore attivo è

rappresentato dall’ esperimento che si realizza in laboratorio. Il limite principale di questo

mediatore è costituito dal fatto che esso richiede tempi lunghi di esecuzione, ma se si

considerano i vantaggi che derivano dal contatto fisico con il reale, dalla densità emotiva

che si viene a produrre, quello della lungaggine dei tempi diventa un limite del tutto

irrisorio.

I mediatori iconici si basano sulla rappresentazione del linguaggio grafico e spaziale

(immagini, schematizzazione di concetti, fotografie, filmati, carte geografiche etc.).

L’apprendimento mediante immagini si fonda sulle abilità percettive del soggetto.

Nonostante presenti numerose qualità in termini di sollecitazione di interessi e di

motivazione, il mediatore iconico non può essere considerato del tutto autosufficiente, ma

richiede l’intervento del mediatore simbolico. Il linguaggio grafico spesso non riesce a

riprodurre adeguatamente l’estensione di un concetto e sul piano mnestico, poi, è

ingombrante e poco persistente.

I mediatori analogici cercano di rifarsi alle possibilità di apprendimento insite nel gioco e

nella simulazione. Si tratta di attività ludiche di gruppo in cui i partecipanti ricreano

particolari situazioni e interpretano personaggi. Il tasso di realismo conseguito con i giochi

di ruolo è sicuramente maggiore di altre forme tradizionali di insegnamento ma bisogna

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stare attenti ad evitare il rischio di scambiare la simulazione con la realtà, creando

l’illusione di aver fatto veramente esperienze dirette.

I mediatori simbolici sono quelli che si allontanano di più dalla realtà di riferimento e sono

considerati i meno validi soprattutto dai sostenitori del principio dell’apprendimento diretto.

La lezione frontale costituisce un esempio di mediatore simbolico. In termini di risultati di

apprendimento è uno degli approcci meno efficaci soprattutto per la passività che induce

presso chi ascolta. In termini di tempo è, invece, il più economico dei mediatori e questo

rappresenta uno dei principali motivi per cui è preferito dalla gran parte dei docenti.

Il ricorso a modalità alternative di presentazione dei contenuti è una operazione

sicuramente necessaria per l’insegnamento di tutte le discipline e per tutti gli alunni (in

quanto rende il clima della classe meno monotono e rispetta maggiormente gli stili

cognitivi di ciascuno), ma se nella classe sono inseriti alunni con problemi, essa diventa

assolutamente indispensabile. Si pensi, ad esempio, alle buone prassi di integrazione

realizzate con attività di laboratorio, con la mediazione teatrale o con le opportunità offerte

dal computer per la fruizione di immagini e di filmati.

4.6. Utilizzare metodi di insegnamento mediati da pari

Nell’ultimo trentennio sono state realizzate molte ricerche, italiane e straniere, che

dimostrano l’utilità dell’ insegnamento mediato da pari con studenti con capacità e interessi

diversi. Si tratta di una serie di modalità alternative di insegnamento nelle quali gli studenti

rivestono il ruolo di facilitatori dell’apprendimento dei compagni. L’insegnamento mediato

da pari costituisce un ottimo modo per coinvolgere attivamente gli studenti nel loro

apprendimento, cosa che spesso, con le modalità tradizionali e soprattutto nel caso di

studenti disabili, non accade.

I tipi di insegnamento mediati da pari più noti e utilizzati con maggiore frequenza sono i

seguenti:

- Il cooperative learning che è centrato su gruppi di lavoro eterogenei, sulla effettiva

interdipendenza dei ruoli e sull’uguaglianza di opportunità di successo per tutti. Il contesto

educativo che si crea è collaborativo (affondiamo o nuotiamo tutti) e non competitivo (se tu

vinci, io perdo) (49).

- Il tutoring che consiste nell’affidare ad un alunno specifiche responsabilità di tipo

educativo e didattico. Questo alunno viene ad assumere il ruolo di insegnante e si chiama

tutor. L’alunno che riceve l’insegnamento viene denominato tutee (50).

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- Il peer teaching che consiste nell’affidare la realizzazione di compiti a studenti che sono

alla pari come capacità cognitive. Gli alunni vengono divisi in piccoli gruppi e ciascun

gruppo discuterà fino ad arrivare alla formulazione di una ipotesi che confronterà con le

ipotesi degli altri gruppi. In un tempo successivo si riscriveranno le ipotesi che saranno

state confermate dopo una discussione tra i gruppi (51).

Queste tre diverse forme di insegnamento mediato da pari rispondono positivamente ai

bisogni di tutti gli studenti, con rendimento basso, nella media ed elevato.

Dalle ricerche che sono state realizzate risulta che gli studenti ottengono migliori risultati,

rispetto all’insegnamento tradizionale, sul piano cognitivo (lavorano di più, memorizzano

meglio, sviluppano una maggiore motivazione e livelli superiori di ragionamento), sul

piano relazionale (si creano rapporti di amicizia e la diversità viene rispettata) e sul piano

psicologico (migliorano l’immagine di sé e il senso di autoefficacia e si sviluppa una

maggiore capacità di affrontare le difficoltà e lo stress) (52).

Secondo Slavin, a fronte del generale consenso sull’efficacia dell’insegnamento mediato

da pari, vi è una scarsa concordanza di opinioni rispetto alle basi teoriche (53):

- l’approccio motivazionale sostiene che l’insegnamento mediato da pari fornisce agli

alunni la motivazione ad aiutarsi reciprocamente aumentando così il loro rendimento.

- I teorici della coesione sociale ritengono che nei gruppi cooperativi gli studenti sono

sollecitati nell’aiutarsi perchè hanno più cura l’uno dell’altro (ossia più coesione sociale) e

vogliono che gli altri abbiano risultati positivi.

- I teorici cognitivisti suggeriscono che sono le interazioni verbali e non verbali tra gli alunni

quelle che migliorano le loro abilità di elaborazione mentale e di conseguenza le loro

prestazioni. Insegnando ai compagni contenuti e strategie, gli studenti sviluppano una

comprensione più approfondita dei contenuti stessi (imparare insegnando).

- Le prospettive evolutive affermano che le attività collaborative promuovono lo sviluppo

perchè gli alunni lavorano nella loro zona di sviluppo prossimale e imitano comportamenti

di collaborazione leggermente più sofisticati dei loro.

Per quanto tutte e quattro le prospettive possano essere valide, nessuna di esse riesce a

spiegare l’efficacia di questi metodi, per cui Slavin propone un modello concettuale che

utilizza tutte e quattro le ipotesi per esaminare gli effetti sul piano cognitivo e relazionale

dei vari metodi di insegnamento mediato da pari (54).

Per facilitare un processo di reale integrazione del soggetto con disabilità, i metodi

collaborativi rappresentano una potenzialità di grande rilievo, ma la loro attivazione

richiede un lungo lavoro di preparazione da parte degli insegnanti.

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E’ necessario che essi creino le condizioni migliori perchè il gruppo che lavora con il

compagno disabile possa dare risultati soddisfacenti. La condizione più importante è che

la classe conosca il deficit del compagno più sfortunato. “Se il deficit diventa oggetto di

studio, stimolando la discussione e l’apprendimento dei compagni, le incertezze

diminuiscono e la diversità assume sempre più la valenza di condizione che non inficia la

dignità della persona, anzi la esalta” (55).

Secondo Ianes, le informazioni sulla disabilità possono essere integrate nel curricolo in

diversi modi (56): invitando in classe i genitori dei disabili, medici e terapisti; presentando e

discutendo filmati sulla disabilità; svolgendo ricerche su personaggi celebri con disabilità;

informandosi sulle tecnologie che riducono l’handicap.

Se viene realizzato questo processo di sensibilizzazione della classe, sarà più facile che la

presenza del disabile non costituisca un ostacolo ai lavori del gruppo bensì una preziosa

occasione per i compagni per sperimentare la solidarietà. Imparare ad aiutare gli altri è

una componente molto rilevante nella formazione di una persona e può avere molti

vantaggi.

Da una ricerca qualitativa condotta con studenti di scuola superiore si possono rilevare

alcuni benefici percepiti dagli studenti:

- Un migliore concetto di sé (“... ti fanno sentire felice e più soddisfatto di te stesso...”).

- Una maggiore tolleranza verso le altre persone (“...tratto i miei amici in modo più giusto di

quanto no facessi prima. Ora non sono più così freddo con loro... “).

- Uno spiccato sviluppo di principi personali (“...sapevo che i miei amici non avrebbero

accettato che io lavorassi con un ragazzo ritardato. Questo non mi importa, gli amici sono

amici, ma non possono impedirmi di fare qualcosa che ritengo importante...”).

- Una maggiore comprensione interpersonale (“... Lo avevo visto piangere, è veramente

toccante... ho imparato molto di più sulle persone, in particolare che siamo tutti uguali...”)

(57).

La positiva incidenza dell’insegnamento mediato da pari su tanti aspetti dell’esperienza

scolastica degli alunni, disabili e non, lo distinguono positivamente dagli altri metodi di

insegnamento e ne fanno uno degli strumenti didattici più importanti.

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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

La presenza di alunni in situazione di handicap nelle classi, piuttosto che essere un

ostacolo alla realizzazione delle normali attività didattiche, costituisce, in definitiva, una

preziosa occasione perchè la scuola cambi e si ripensi come strumento di successo

formativo per tutti. Il cambiamento, gestito con competenza, può produrre notevoli

vantaggi per gli alunni disabili, per tutti gli alunni della classe e per l’intera comunità

scolastica.

Occorre precisare, comunque, che l’integrazione dei disabili è compito specifico della

scuola, ma non esclusivo. E’ un compito che investe numerose altre agenzie: famigliari,

sanitarie, lavorative, sociali e ricreative.

La scuola, in quanto agenzia formativa per eccellenza, può dare, però, un contributo

decisivo perchè si realizzino alcune condizioni fondamentali per l’integrazione:

- la costruzione di un itinerario didattico integrato con quello della classe e condotto in

maniera da rappresentare un vantaggio per tutti;

- l’attivazione di un’opera di sensibilizzazione e di coinvolgimento di tutte le agenzie che a

vario titolo si interessano dell’alunno disabile;

- la creazione di un nuovo concetto di diversità che superi la distinzione tra abili e disabili,

tra uguali e diversi. “I diversi non sono più diversi dagli uguali di quanto gli uguali non

siano diversi tra loro” (58). In tutte le persone, infatti, esistono carenze funzionali e carenze

delle abilità relazionali, entrambe in misura diversa.

“ La diversità è la norma”. Con queste parole Cottini ha iniziato un suo lavoro (59) e, con

le stesse, concludiamo il nostro.

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NOTE

1. CELI F., Programmazione individualizzata e obiettivi della classe: come collegarli?, IANES D. e TORTELLO M. (a cura di), La qualità dell’integrazione scolastica, Erickson, Trento 2000, p. 125.

2. Cfr. SEGUIN E., Cura, morale, igiene e educazione degli idioti e di altri fanciulli ritardati nello sviluppo, agitati da movimenti involontari, deboli, muti non sordi, balbuzienti, etc., traduzione italiana, Armando, Roma 1970; BATESON G., Mente e natura, Adelphi, Milano 1984, pp. 30-31; CALDIN PUPULIN R., Introduzione alla pedagogia speciale, CLEUP, Padova 2002, pp. 41-46.

3. Cfr. GELATI M., Pedagogia speciale e integrazione, Carocci, Roma 2004, p. 50.4. PAVONE M., L’integrazione scolastica e sociale delle persone in situazione di

gravità, “L’integrazione scolastica e sociale”, 2-3, giugno 2003, p. 218; cfr. OMS, ICF (classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute), Erickson, Trento 2002.

5. Cfr. D’ALONZO L., I bisogni motivanti nell’integrazione degli alunni gravi a scuola, “L’integrazione scolastica e sociale”, 2-3, giugno 2003, p. 242.

6. GELATI M., Pedagogia speciale e integrazione, op. cit., p.53.7. Legge 5 febbraio 1992, n. 104, art.1 , comma 1, lettera a.8. GELATI M., Pedagogia speciale e integrazione, op. cit., p.64.9. Cfr. IANES D., La speciale normalità, Erickson, Trento 2006, pp. 7 - 53.10.COLLINS P., Nè giusto nè sbagliato: avventure nell’autismo, Adelphi, Milano

2005, p. 240.11.SACKS O., Vedere voci :un viaggio nel mondo dei sordi, Adelphi, Milano 1990, p.

23.12.MICHELI E., Integrazione e educazione: due diritti in contrasto?, “Autismo e

disturbi dello sviluppo”, vol. 2, n. 2, p. 172.13. IANES D., La speciale normalità, op cit., p.9.14.Cfr. IANES D., Il bisogno di una normale specialità per l’integrazione, “Difficoltà di

apprendimento”, vol. 7, n. 2, dicembre 2001, p. 158.15.Cfr. PAVONE M. e TORTELLO M. (a cura di), Individualizzazione e integrazione,

La Scuola, Brescia 2002.16.Cfr. BALDACCI M., L’istruzione individualizzata, La Nuova Italia, Firenze 1993, pp.

3-15.17.RESICO D., Diversabilità e integrazione, Angeli, Milano 2005, p. 116.18.MODULO EUROPEO, Le politiche educative dell’integrazione scolastica dei

disabili, Università Roma tre, 1999.19.GELATI M., Pedagogia speciale e integrazione, op. cit., p.58.20.Cfr. SCATAGLINI C. e GIUSTINI A., Adattamento e semplificazione dei libri di

testo, IANES D. e TORTELLO M. (a cura di), La qualità dell’integrazione scolastica, op. cit., p. 253.

21.Cfr. GIRELLI C., Elementi di sfondo per una didattica speciale, http.//www.univirtual.it/corsiVIIciclo/IND%20II%20sem%2005_06/SOS800/girelli/materiali/dispensa%20Girelli%20did%20spec.pdf.

22.Cfr. DPR n. 275, 8 marzo 1999, Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, art. 4, comma 2.

23.Cfr. PAVONE M. e TORTELLO M. (a cura di), Individualizzazione e integrazione, op. cit., p. 17.

24. IANES D., e CELI F., Nuova guida al piano educativo individualizzato, Erickson, Trento 1997.

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25.Cfr. Legge n. 104 del 1992 (Art. 13 , comma 6); COMMISSIONE EUROPEA, Programma Helios 2. Guida europea di buone prassi. Verso la parità di opportunità delle persone disabili, 1996, pp. 36-37.

26.Cfr. LAROCCA F., Nei frammenti l’intero. Una pedagogia per la disabilità, Angeli, Milano 1999.

27.Cfr. PAVONE M., Educare nella diversità, La Scuola, Brescia 2001, p. 188.28.Cfr. C.M. n. 153 del 15 giugno 1988.29.MANSUETO M., Oltre il buio, Le Monnier , Firenze 2002, p. 17.30.Cfr. PIAZZA V., L’insegnante di sostegno. Motivazioni e competenze per il lavoro

di rete, Erickson, Trento 1996, pp. 77-79, STAINBACK W.C. e STAINBACK S.B. (a cura di), La gestione avanzata dell’integrazione scolastica. Nuove reti organizzative per il sostegno, Erickson, Trento 2000, pp. 40-44.

31.COTTINI L., Didattica speciale e integrazione scolastica, Carocci, Roma 2004, p.91.

32.Cfr. ANDRICH S. e MIATO L., L’inclusività della classe: alcuni indicatori per valutarla e per promuoverla, “Difficoltà di apprendimento”, Vol 9, 1 ottobre 2003, p.72.

33. Ibidem, p.73.34.Cfr. IANES D., Didattica speciale per l’integrazione, Erickson, Trento 2005, pp.

213-224.35.Cfr. ROLLERO P., Le incompatibilità tra individualizzazione e integrazione efficace

nel gruppo classe. Alcune strategie di intervento, “Handicap e scuola”, n.5-6, 1997.

36.Cfr. CELI F., Programmazione individualizzata e obiettivi della classe: come collegarle, op. cit., pp. 125-130.

37.Cfr. ibidem p. 393.38.Cfr. CORNOLDI C., DE BENI R., Imparare a studiare, Erickson, Trento 1995.39.Cfr. IANES D., Didattica speciale per l’integrazione, Erickson, Trento 2001, p. 261.40.Tra le risorse specializzate del mondo informatico è necessario tener presenti le

possibilità offerte sia dall’hardware (computer con sintesi vocale o barra Braille o con testina adattata o espansa) che dei software didattici (EsseDiQuadro è un servizio telematico per la documentazione di software didattici. Cliccando su http://www.itd.cnr.it/page.php?ID=SDR si possono trovare soluzioni a molti problemi).

41. IANES D. e CELI F., Nuova guida al piano educativo individualizzato, Erickson, Trento 1999, p. 337.

42.Cfr. CANEVARO A., Handicap a scuola. Manuale per l’integrazione scolastica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, p. 214; PAVONE M., Educare nella diversità, La Scuola, Brescia 2001, p.227.

43.Cfr. SCATAGLINI C. e GIUSTINI A., Adattamento e semplificazione dei libri di testo, op. cit. p. 243; PEMBERTON J., Adattamento del testo alle difficoltà degli alunni: alcune indicazioni pratiche, “Difficoltà di apprendimento”, Vol. 9, n.4, aprile 2004, pp. 531-542.

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