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MODULO 4 Devianze giovanili e culture alternative CONTENUTI • UNITà 1 Devianze giovanili e culture alternative

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• Unità 1Devianze giovanili eculture alternative

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Unità 1Devianze giovanili e culturealternativeContenuti• 1 • 2 • 3Disagio, violenza,tossicodipendenza

L’universo delle «culture» giovanili

Le aggregazioni giovanili

❱❱ 1. Disagio, violenza, tossicodipendenza❱ 1/1 etichettamento, devianza e delinquenza minorile

Nel 1991 in Italia circa 45.000 minori risultavano coinvolti in vicende giudiziarie, ma verso la metà dello stesso decennio la percentuale dei minori considerati, per varie ragioni, «a rischio», arrivava a circa un milione. Gli indicatori più vistosi della condizione di crisi in cui versa il mondo giovanile sono costituiti dal numero di atti di violenza attuati o subiti, dall’abbandono scolastico, dal reclutamento sempre più precoce in gruppi criminali o dall’aumento di comportamenti generalmente antiso-ciali e a rischio. Alla base della devianza giovanile troviamo certamente una molteplicità di fattori, la cui interazione produce una situazione per cui l’iter di disagio esistenziale, disa-dattamento, devianza non è il risultato di una somma di condizionamenti endogeni ed esogeni, ma assume il significato di una struttura profonda e generalizzata. Il passaggio alla devianza, come comportamento di violazione sistematica e consape-vole di norme e aspettative sociali, non avviene necessariamente in relazione a fatti molto gravi, ma presuppone una «preparazione» ampiamente collegata con l’am-biente di sviluppo. Un contributo negativo in questo senso può anche essere dato da ambienti educativi come la famiglia e la scuola, quando non si dimostrano flessibili e sensibili verso i comportamenti giovanili. Il rischio è quello di trattare come «ca-ratteri devianti» atteggiamenti occasionali e sporadici, compiuti da ragazzi che possono aver agito in un contesto che favoriva tali azioni per vari motivi. Entra così in gioco il fenomeno sociologico dell’etichettamento (labelling) mediante il quale l’attribuzione di un ruolo negativo (con definizioni come «delinquente», «pervertito», «cattivo» e così via) produce emarginazione e bassa autostima che rendono sempre più consolidata ed estesa la condotta deviante.

per approfondire❱ Teoria dell’etichettamento (Labelling theory)

Secondo questa teoria, proveniente dall’area della psicologia sociale americana (Scuola di Chicago, anni Cinquanta) quando la reputazione di cui un individuo gode ha una connotazione negativa, questa diventa una forma di «etichettamento» morale che produce una sorta di circolo vizioso. Ad esempio, un ragazzo può

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comportarsi in modo trasgressivo per un periodo e poi tornare ad una condotta conforme alle norme socia-li, senza riportarne gravi conseguenze; ma se viene arrestato, il suo momentaneo comportamento deviante diverrà pubblico e condurrà alla costruzione della sua reputazione. In seguito, la difficoltà a disfarsi di tale etichetta potrà portarlo a soddisfare le aspettative che gli altri nutrono nei suoi confronti e a fargli assu-mere così l’identità deviante.

Secondo alcune teorie, l’espressione in forme di aggressività e violenza fisica della devianza, a sua volta, dipende anche da una serie di modelli propagati dai mass-media senza alcun alone di biasimo, ma anzi proposti come «vincenti» e come vali-da alternativa al dialogo. Accade così che condizioni di povertà di dialogo e di isola-mento portino molti giovani a individuare nella violenza la compensazione del proprio disagio e una via di affermazione della propria personalità. Anche il gruppo può in-centivare comportamenti devianti, agendo come un branco che legittima, con il proprio sostegno, atti che un adolescente non compirebbe mai da solo. In determina-ti casi la devianza prende la forma vera e propria della delinquenza minorile, un fenomeno in espansione in molti paesi poveri ma anche in quelli dove è diffuso il benessere, indotto da cause sociali specifiche ma anche favorito e accentuato dalla criminalità adulta che può servirsene in modo vantaggioso. Nella maggior parte dei casi, alla base della delinquenza minorile sta una storia di disagio: bambini cresciuti in strutture socio-assistenziali anziché in famiglia, carenze di scolarizzazione (spesso con abbandoni prima della fine dell’obbligo), emarginazione sociale e culturale, di-sgregazione familiare: una serie di condizioni che implicano anche una notevole re-sponsabilizzazione educativa.

Fattori di rilievo nella devianza giovanile

❱ 1/2 Consumo di droghe e tossicodipendenza come problemi pedagogiciFra le forme di devianza socialmente più diffuse e ampiamente presenti a livello giovanile troviamo i comportamenti legati al consumo di droghe e la tossicodipen-denza. È ormai decisamente accertato che, anche se la tossicodipendenza è ampia-mente presente nella popolazione adulta, il primo contatto con le droghe avviene nell’adolescenza. A questo proposito è centrale la distinzione fra il «consumo» di

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determinate sostanze e «le forme di dipendenza fisica e psichica», che fanno sì che gradualmente queste sostanze diventino il «centro» stesso dell’esistenza, lo scopo e la preoccupazione principale di un individuo. Solo in questo caso, infatti, si può par-lare di tossicodipendenza o tossicomania, cui si legano spesso comportamenti de-linquenziali (furti, violenze, etc.) finalizzati alla ricerca di denaro per l’acquisto clandestino delle sostanze. L’ipotesi sulle motivazioni e sulle cause che spingono al consumo e alla dipendenza da droghe sono moltissime. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha elencato, a questo riguardo, alcuni tra i fattori principali che contribuiscono a sviluppare il consumo di droga:

• l’identità sessuale;• l’età;• la pressione del gruppo;• l’automedicamento (ossia l’uso di sostanze con lo scopo di allontanare l’ansia o

la depressione);• le difficoltà familiari;• i problemi e i profili di personalità;• i fattori economici e sociali (crisi di valori, disagio esistenziale).

Alcune interpretazioni hanno inteso la tossicodipendenza come il comportamento di una personalità malata o con un profilo «tipico», altre hanno letto il consumo come forma di regressione di fronte a una realtà difficile. La psicologia sociale ha studiato il nesso fra condizione giovanile, frustrazione e consumo di droghe come forma di rivolta e «controcultura» e, allo stesso tempo, fuga dal senso di colpa e forma di socializzazione «normale» all’interno di determinati tipi di gruppo. Esiste però anche la «colpa» sociale di proporre obiettivi e modelli di vita spesso irrealizzabili, di emar-ginare chi fa consumo di droga fino a spingerlo alla vera e propria tossicodipendenza.

Fattori di rilievo nel consumo di droghe e nella tossicodipendenza

Il problema del consumo di sostanze e delle tossicodipendenze viene attualmente affrontato anzitutto a livello di prevenzione, pertanto sulla base di un approccio edu-

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cativo o rieducativo. Dato il fatto che la quasi totalità delle tossicodipendenze ha nell’adolescenza il momento iniziale di incontro con le droghe, i programmi di pre-venzione si indirizzano prevalentemente ai giovani.

Si distinguono a questo proposito tre modelli fondamentali:

• il modello «informativo». È l’approccio più tradizionale, basato sulla convinzio-ne che una corretta informazione sugli effetti, sui danni e sulle implicazioni lega-li del consumo di droghe possa allontanare dal loro uso, spesso ritenuto il prodot-to di una sostanziale «leggerezza» o «curiosità». Nella maggioranza dei casi si è rivelato un percorso scarsamente efficace, che talora, addirittura, ha prodotto l’effetto opposto di «promuovere» l’uso delle sostanze stimolando la curiosità sugli effetti da loro prodotti;

• il modello della «drug education». Sviluppatosi prevalentemente nell’ambiente nordamericano, questo approccio ha aggiunto agli obiettivi cognitivi del prece-dente anche obiettivi di tipo affettivo, incentrati sull’aumento dell’autostima, sulla capacità di fare chiarezza sui valori in gioco, di orientarsi e saper risolvere problemi attraverso decisioni autonome. La drug education ritiene che alla base del consumo vi sia una sostanziale difficoltà a livello di autogestione e di rap-porti sociali, a partire dalla quale è possibile costruire dei soggetti in grado, se correttamente informati, di evitare il consumo mettendo anche in atto specifiche strategie di difesa;

• il modello dell’«educazione sanitaria», più frequente in Europa, caratterizzato dall’idea che la prevenzione delle tossicodipendenze trovi posto nel più vasto ambito di un’educazione a un corretto rapporto fra organismo, ambiente e società. Questo punto di vista non lascia cadere il tema specifico delle tossicodipendenze (ad esempio propone un’educazione all’uso dei farmaci), ma lo colloca nel con-testo di una generale educazione alla salute.

In Italia una svolta significativa è stata impressa da due circolari del Ministero della Salute del 1984 e del 1985 che hanno sottolineato che la tossicodipendenza può es-sere vinta solo attraverso un richiamo educativo alla responsabilità del singolo, piuttosto che attraverso messaggi puramente informativi, esclusivamente mirati al comportamento di consumo e magari allarmistici. L’obiettivo è quindi quello di met-tere in atto una sorta di «vaccinazione psicologica generale».

Ciò non significa tralasciare l’approccio informativo, ma integrarlo in un percorso ragionato, che deve consistere in almeno cinque punti:

• la «fonte d’informazione» deve essere una persona vicina ai giovani, non auto-ritaria, molto preparata e possibilmente con esperienza specifica sul campo;

• il contesto deve essere adatto, cioè caratterizzato da una precedente disponibilità al dialogo aperto su problemi sociali, pena una sensazione di «innaturalità» e «artificiosità» nocive;

• il metodo deve essere quello di una discussione guidata, in cui sono i soggetti stessi a giungere alle conclusioni desiderate;

• i contenuti devono di volta in volta essere adattati al gruppo, ma essere sempre corretti e oggettivi, non terroristici, non banalizzanti, legati alla ricerca comu-nitaria delle cause e delle soluzioni;

• il messaggio fondamentale che deve essere trasmesso non è l’immagine dei sog-getti come potenziali consumatori, ai quali raccomandare «di non drogarsi»,

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quanto piuttosto come soggetti responsabili e degni di fiducia, cui dire: «Tu devi impegnarti per affrontare positivamente la vita: è scontato, quindi, per me, che non sarai tu a drogarti».

Il presupposto fondamentale delle varie forme di prevenzione resta, comunque, la capacità di ascolto e di empatia che permette di affrontare o di evitare le forme di disadattamento e di emarginazione che sono alla base dell’uso di droghe, la capacità di accreditarsi come interlocutori «diversi» e in grado di proporre valori alternativi, senza imporli come veri per definizione. Esistono attualmente molte cause che ren-dono difficile la comunicazione tra genitori e figli. In generale una famiglia con un’adeguata relazione comunicativa attua già un’importante prevenzione della tossi-codipendenza, ma a maggior ragione questa prevenzione risulta ancora più efficace quando l’argomento «droga» fa parte del dialogo familiare senza essere né un tabù né l’oggetto di messaggi insistenti e ansiosi: allo stesso tempo deve essere evitato il rischio del genitore che si erge a «fonte d’informazione» autoritaria e privilegiata. È piuttosto preferibile che genitore e figlio si informino assieme, in un atteggiamento di autonomia e fiducia reciproca. Nel caso in cui invece venga sospettato un consumo, il necessario ricorso all’aiuto di operatori e strutture specializzate non deve signifi-care una «delega» del compito educativo da parte dei genitori ad altri educatori, quanto piuttosto la ricerca di un «sostegno» e di un approccio «integrato».

❱ 1/3 Scuola e tossicodipendenzaUn discorso a parte deve poi essere fatto per la scuola. L’attuale normativa italiana prevede per la scuola un forte coinvolgimento sul tema delle tossicodipendenze, tanto sul piano organizzativo che su quello didattico, nel più generale quadro di una educazione alla salute. In particolare, viene previsto che la scuola assicuri un am-biente capace di prevenire le condizioni ritenute agevolanti il comportamento da consumo e dipendenza da sostanze. In modo laterale la scuola dovrebbe prevenire anche la diffusione delle «patologie correlate» (si pensi alle epatiti e all’AIDS) e contribuire, là dove il consumo e la dipendenza sono già presenti, alla cura, alla ria-bilitazione e al reinserimento delle persone coinvolte. Oltre all’educazione indiretta vengono così previsti anche interventi mirati, il coinvolgimento delle famiglie o il distacco di insegnanti presso comunità di accoglienza. Disposta a partire dal 1990, l’istituzione dei SERT (Servizi Tossicodipendenze) e dei NOA (Nuclei Operativi Alcologici) costituisce la risposta più concretamente visibile del sistema sociosanitario locale al problema delle tossicodipendenze. Queste strut-ture possono integrare il trattamento medico, psichiatrico e assistenziale con la prevenzione e l’educazione dei soggetti a rischio o già inseriti nel consumo e nella tossicodipendenza. Tale funzione può essere svolta attraverso la cooperazione fra gli esperti di queste strutture e le agenzie educative presenti nel «sistema formativo al-largato»: un esempio in questo senso è stato costituito negli ultimi anni dal tentativo di realizzare a, livello integrato, «Progetti Giovani» e «Progetti Adolescenti» con un ampio spazio dedicato ad azioni preventive. La condizione di dipendenza da droghe è tale da richiedere anche una serie di interventi specifici che, per varie ragioni, non possono essere condotti efficacemente all’interno degli ambienti abituali di vita come la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari e così via. Ciò dipende in parte anche dal fatto che molto spesso i tossicodipendenti sono in una grave condizione di emargi-nazione rispetto a questi contesti. Sorge così la necessità di ambienti alternativi,

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capaci di assicurare quelle condizioni concrete (domicilio, assistenza, lavoro) e affet-tive che sono necessarie a un percorso di uscita dalla droga. Le comunità terapeutiche, in quanto strutture residenziali dotate di regole e strategie educative, possono dunque costituire in vari modi un contesto educativo fondamentale per il recupero delle tos-sicodipendenze, grazie alla loro capacità di inserire le persone in un insieme di rap-porti implicanti partecipazione, valori, progetti, responsabilità. Il rischio concreto presente in alcune di esse è tuttavia quello di diventare un luogo in cui la dipendenza dalla droga venga sostituita con la dipendenza dal gruppo: obiettivo contrario ri-spetto a quel valore dell’autonomia che sta al centro di ogni autentico rapporto edu-cativo.

I luoghi della prevenzione e dell’educazione

per approfondire❱ Paolo Rigliano: la comunità come luogo di educazione

Psichiatra e psicoterapeuta specializzato nel problema della tossicodipendenza, Paolo Rigliano elenca in questo brano una sintetica prospettiva dei principali apporti educativi delle comunità di recupero per tos-sicodipendenti.

Ma quali sono le dinamiche, da un punto di vista relazionale, che connettono la complessità della sofferenza tos-sicomaniaca all’estrema complessità di funzioni, obiettivi, mezzi che le comunità presuppongono e veicolano? Ogni comunità tende a costruire un appello-richiamo reale e prioritario all’individuo affinché scelga per la propria auto-determinazione, perché lui per primo si impegni con modalità autocentrate a risolvere i problemi che vive. Laddo-ve lui non poteva e non sapeva scegliere – ed era incapace di sottrarsi alla scelta – ora deve scegliere continua-mente, deve saper rispettare le regole certe di un contesto predefinito. Si può dire che ogni atto e relazione della comunità – e strategia descritta di seguito – tenda a tale obiettivo e lo presupponga, lo richieda, lo produca. Legato a questo da un rapporto di circolarità produttiva, c’è l’obiettivo-mezzo della valorizzazione di sé, ottenuta tramite la definizione e costruzione delle proprie istanze personologiche e l’allargamento dei rap-

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porti. Solo essi possono attribuire un senso alla propria «organizzazione del Sé», su cui può svilupparsi un confronto – e identificazione – con i valori proposti e sperimentati in comunità. Quindi il riconoscimento e la restituzione di dignità e potere al tossicodipendente è atto fondativo del rapporto con la comunità e di una diversa esperienza e condizione personologica. Perché è solo questo atto primario di attribuzione-ac-cettazione di potere che permette di chiedere poi l’impegno a rispettare regole, tempi, rapporti di comple-mentarità «down» a valle di questa scelta radicale del tossicomane. Ma tale impegno non è dello stesso livello dell’imposizione-rispetto di obblighi, regole e prescrizioni auto-revoli e perfino autoritarie in vigore nelle comunità. Qualora i due livelli si identificassero, s’instaurerebbe immediatamente un paradosso impossibile a sostenersi. Il rischio di un appiattimento di un livello sull’altro è peraltro sempre incombente: di fatto questo succede quando l’individuo abbandona il programma col pre-testo degli «obblighi impossibili e troppo duri». Questo ha creato un equivoco sociale fortissimo e nefasto: nella presunzione che obblighi, ingiunzioni e regole rivolti al tossicodipendente fossero tutti di un solo semplice livello, si è preteso di conseguenza che essi fossero intercambiabili ed equivalenti. Per cui si è lasciato intendere – ed espressamente si è detto – che si può risolvere il problema delle tossicodipendenze – a livello individuale e collettivo – obbligando l’indi-viduo a entrare in comunità. A giustificazione di questo veniva e viene portato proprio il fatto che all’inter-no delle comunità vige «con successo» un sistema d’autorità forte: dando per scontato che se le comunità hanno successo è «perché lì finalmente i tossicodipendenti sono costretti a ubbidire e lavorare». Ma aderire a un programma comunitario è un atto imprescindibilmente volontario, prioritario e superiore a una classe di comportamenti di coazione particolari e limitati. Essi prendono significato e possono essere subiti solo in quanto l’individuo ha già scelto lui e solo lui di imboccare quella strada di uscita dalla sofferenza. Sapen-do che avrebbe comportato, eventualmente, anche il subire quell’autorità dura, ma solo in quanto mezzo o effetto parziale e secondario della propria scelta fondativa: che resta e si rinnova proprio nel decidere di perseguire i propri obiettivi di emancipazione, malgrado e nonostante il subire tali imposizioni e restrizioni. Nella comunità la persona è portata a saper riconoscere i tempi propri e rispettare quelli altrui, imparando a scandirli e modularli: a non lasciarsi sommergere dall’ansia dell’attesa e dal vuoto dei significati e delle risposte; a non passare all’atto illusoriamente appagante; a creare soluzioni inedite. Saper attendere per costruire, apprendere ad ascoltare per creare nuove risposte e prefigurare nuovi contesti. A saper costruire nel tempo, ricostruendone la trama: rileggendo e riconsiderando da una prospettiva differente un passato forse troppo vicino e ritenuto tutto uguale. Ad apprendere a estendersi nel futuro: declinandosi come pro-getto, senza farsi paralizzare dalle paure che questo comporta. Imparando quindi a sperimentare e a «trat-tare» con i limiti: con quei particolari limiti che sono i bisogni propri e altrui, con le costrizioni che creano e le domande che pongono. Attribuendo concreti limiti al corpo e alle sue esigenze, non usandolo più come schermo-prigione. In comunità è necessario confrontarsi e sperimentare l’inaffidabilità della legge del «tut-to o nulla» e del ragionamento per poli estremi, per scoprire la ricchezza delle posizioni intermedie e non antagonistiche. Per poter arrivare a questo, una strategia assai usata nelle comunità prevede la sperimen-tazione e il confronto «duro» e continuo con gerarchie e confini. Esso a sua volta rimanda all’acquisizione dei propri limiti, alla necessità di saper non coinvolgersi, di accettare la propria giusta impotenza nel risol-vere problemi di livello superiore al proprio ambito.In comunità «bisogna» riacquisire la capacità di esprimersi in modo tale da farsi capire, da comunicare al di là di risposte prestabilite e di codici «chiusi». Le parole di ognuno dovrebbero riconoscere l’altro nella sua inte-gralità sconosciuta di soggetto unico e nello stesso tempo ugualmente portatore di domande e problemi. Perché solo così è possibile l’abbandono di miti e stereotipi e del gioco infinito tra simulazione-dissimulazione di sé e dell’altro. Soprattutto si realizza l’abbandono dell’escalation sacrificale: non più vittima innocente né carnefice, non più eroe negativo o deviante o «phàrmakon», ma solo persona con un suo dolore specifico. Laddove prima una voce querula usciva da una maschera letteralmente anonima, ora «ognuno deve parlare in prima persona», esprimere la propria opinione e interpretazione, dichiarando la volontà e la responsabilità che si esercita di fronte agli altri, perché «i problemi vanno discussi pubblicamente nei modi e nei tempi opportuni». In comunità è possibile l’acquisizione e la sperimentazione in un contesto protetto e garantito di modalità relazionali altre da quelle apprese e praticate lungamente. Dovrebbero sperimentarsi rapporti diretti, non

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ambigui né manipolativi. Soprattutto è ricercata la messa in crisi di «organizzazioni» di mosse e strategie basate su un’interpretazione di sé e dell’altro altamente disfunzionale: «Non ce la faccio a fare… studiare, impegnarmi… lo facciano gli altri»; «Devo arrivare sempre primo sennò… non valgo nulla»; «Devo mettere alla prova… cosa l’altro pensa di me che io sia…».È continuamente attivata l’attribuzione e la richiesta di responsabilità in prima persona: senza giocare a «fare l’indifferente, l’incapace, il costretto, l’assente, il convitato di pietra, la vittima». Ognuno deve accet-tare di cambiare lui, di fare qualcosa per sé – su di sé – a prescindere dalle scelte altrui seppure tenendone conto: il che implica possibilità e necessità di – apprendere a – definire i propri limiti. Il rischio è che una volta rientrato in famiglia e ritrovate le stesse radici della sofferenza contestuale, il tossicodipendente legga il percorso comunitario come ennesima riprova – del fallimento – della «logica del qualunque» di cui era stato investito dai genitori. Per cui non potrebbe che riproporre con forza disperata la propria «logica del dunque». Nella comunità è possibile mettersi a confronto con un contesto costante e definito, dove verificare e riconoscere le proprie proposte relazionali: il tossicodipendente propone circuiti manipolativi di sfida, delega, bisogno, mancanza di definizione di confini e ambiti, che nella comunità non vengono accettati, a favore di relazioni non più basate su pregiudizi e stereotipi difensivi. Gioca a questo riguardo un ruolo assai importante il fatto che ognuno può vedere, per analogia e per diffe-renza, i propri comportamenti agiti dagli altri compagni nei confronti di terzi: il che non può non costitu-ire esperienza «forte» di acquisizione di consapevolezza e autoriflessione. Fortissima è nelle comunità l’in-dicazione di fini sovraordinati e condivisi da tutti. Essi permettono di indirizzare ogni energia su obiettivi in cui ciascuno può trovare la propria realizzazione, sottolineando e innescando un contesto di cooperazio-ne attiva e costitutiva di senso al posto dei precedenti contesti di contrapposizione, isolamento e proiezio-ne colpevolizzante.

(P. Rigliano, Eroina, dolore, cambiamento, Milano, Unicopli 1991)

❱❱ 2. L’universo delle «culture» giovanili❱ 2/1 Caratteri delle culture giovanili: controculture, mass-media e moda

Il disagio che deriva dalla condizione giovanile, oltre che esprimersi attraverso diffi-coltà e conflitti individuali con gli ambienti di vita, ha assunto a partire dagli anni Cinquanta del Novecento la forma di identità generazionali espresse attraverso sot-toculture e controculture spinte fino alla contrapposizione e al conflitto «genera-zionale» aperto. Queste culture hanno trovato nei mass-media una serie di messaggi alternativi a quanto offerto dalle agenzie educative del mondo adulto, sebbene in questi messaggi siano spesso presenti le manipolazioni di adulti finalizzate allo sfrut-tamento commerciale del tempo libero e della cultura giovanile. La cultura (o le culture giovanili) scaturisce anzitutto dal fatto che oltre che un «passaggio» e una «crisi» l’adolescenza è un’«area intermedia» dotata di una propria autonomia e di propri «compiti di sviluppo», di forme di identità contrassegnate da prodotti cultura-li. A partire dalla metà del Novecento i giovani del mondo occidentale hanno dunque dato origine a subculture parzialmente in conflitto con il mondo adulto, o addirittu-ra a progetti di controculture alternative. Gli stili che le contrassegnano si sono gradualmente diffusi in tutto il mondo, grazie al potere dei mass-media. Fra gli anni Settanta e Ottanta vi è stato quindi il progres-sivo frantumarsi della fruizione giovanile dei prodotti di consumo, degli stili e delle mode, così da dare luogo a molteplici gruppi e identità differenziate, tanto che divie-ne necessario parlare di «culture» giovanili piuttosto che usare quest’espressione al singolare. La diffusione delle subculture giovanili si realizza antitutto attraverso il gruppo e la comunicazione fra i suoi membri, attraverso i mass-media e la fruizione

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di prodotti dotati di visibilità e di particolari «stili». Ciò porta ad affrontare il discor-so della moda. La moda, definita dal semiologo francese Roland Barthes «modello di identità sociale», occupa un posto particolare nell’universo giovanile a partire dal momento in cui i giovani hanno deliberatamente differenziato i propri stili di vita rispetto a quelli degli adulti, riconoscendosi, a partire dagli anni Cinquanta, come generazione dotata di una propria identità che rifiutava l’omologazione a quella dei genitori. Da questo punto di vista, la moda serve a caratterizzare «una ricerca urgen-te di riconoscimento sociale», diviene una «seconda pelle» che esprime il desiderio di essere riconosciuti e compresi. La scelta giovanile per look fortemente connotati, «diversi» rispetto agli stili adulti, e, al limite, estrosi e personalizzati, indica anche il desiderio di non subire i codici sociali, ma di essere protagonisti, «consumatori attivi» capaci di combinare o di dotare di nuovo significato quanto ricevuto dall’esterno. Il look può diventare così una forma di resistenza all’ideologia dominante espressa indirettamente mediante lo stile. Bisogna però osservare che il fenomeno più rilevante che ha riguardato le mode giovanili, soprattutto sul piano più esteriore dell’abbigliamento e dell’ornamento del corpo, è certamente il loro assorbimento, tramite i mass-media, negli stili adulti. Così gli adolescenti rischiano in seguito di essere sfruttati e manipolati da una cultu-ra giovanile estesa artificialmente per interessi commerciali, che vende «immagini» consolatorie di trasgressione, mediante le quali si può apparire «contro» rimanendo tuttavia integrati. Più in generale è un importante problema pedagogico per le agenzie formative quello di impedire che l’uso commerciale dei mass-media (pensiamo alla pubblicità e alla funzione di «modelli di consumo» di molti personaggi del mondo dello spettacolo) non induca i giovani a colmare il bisogno di identità semplicemen-te mediante «acquisti di stile», a maggior ragione se questi comportamenti vengono vissuti come «spontanei» e, al limite, creativi.

I fattori di diffusione delle subculture giovanili

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❱ 2/2 Le culture giovanili come problema educativoOggi è diventato un dovere imprescindibile, per gli educatori, conoscere i contenuti e i prodotti delle culture giovanili per poter efficacemente dialogare su di essi. Ciò implica l’uscita dalla logica del «conflitto generazionale» come unica possibilità di rapporto fra adolescenti e adulti. Sembra infatti che il principale punto di frattura culturale fra giovani ed educatori adulti (particolarmente gli educatori «colti») sia quello determinato dal fatto che la maggioranza dei giovani viene identificata come massa che fruisce, in maniera particolarmente passiva, di una cultura standardizza-ta, arbitraria, semplicistica e priva di valore, semplice «merce» contrapposta alla cultura «vera» che la scuola dovrebbe promuovere. Nella sua forma estrema, ciò diviene una condanna dei giovani, giudicati come in-dividui sfruttati e manipolati da una cultura creata artificialmente per interessi com-merciali. In effetti atteggiamenti e consumi culturali legati all’identità generazionale giovanile sono in genere lontani dalla cultura «alta» promossa dalla scuola e appro-vata da una parte degli adulti colti. Allo stesso tempo, tuttavia, secondo alcuni, la scuola non può correre il rischio di fare della cultura «alta» una cultura chiusa, ostile e «sradicante» rispetto alle forme di cultura che i giovani possono ritenere «proprie».

La scuola deve perciò rivolgersi alla cultura di massa come alle sottoculture in cui i giovani sono implicati, secondo un approccio a più facce di cui possiamo immagina-re qui alcuni percorsi che assumono, in un certo senso, i caratteri di una educazione «interculturale»:

• studiare i legami fra la cultura «alta» e le altre culture, servendosi degli stessi strumenti che le vengono forniti dalla cultura «alta» (ad esempio leggere una canzone come una poesia);

• saper «leggere» le altre culture, capire i loro codici, i loro motivi, i loro effetti;• fornire ai suoi utenti una capacità di fruizione e lettura critica, un modo per

unire l’«alto» e il «basso» attraverso categorie interpretative adeguate.

Occorre però non dimenticare che una parte delle culture giovanili reca con sé mes-saggi di forte trasgressione rispetto alle «regole» adulte. In questo senso il rischio prevalente, ad esempio nella scuola, è di intervenire in maniera semplicemente re-pressiva verso queste forme di trasgressione alla cui origine c’è il bisogno, dettato da non conformismo, di cambiare le regole, oppure la ribellione verso determinate forme di autorità.

È evidente che il problema è a diversi livelli, poiché:

• in una società complessa e tendenzialmente multiculturale come la nostra è sem-pre più evidente la molteplicità di «morali» sociali relative a gruppi diversi;

• un aspetto caratterizzante di molte controculture giovanili è quello di proporre valori e comportamenti in parte alternativi rispetto a certe regole di moralità dominante o atteggiamenti apertamente trasgressivi e ribellistici;

• la scuola è stata lungamente (e in parte è ancora), legata ai valori e agli stili di vita di un gruppo sociale, la cosiddetta «classe media» (rappresentata per anni, ad esem-pio, dalla categoria dei docenti). Per questo ha spesso tutelato i valori e le regole di questo gruppo come assoluti, bollando e reprimendo come «deviante» il loro rifiuto.

Si pone così nuovamente il problema di una educazione autenticamente «aperta», capace di fare della scuola un luogo di democrazia e di dialogo, una comunità capa-

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ce di costruire al proprio interno regole di convivenza rispettose della persona e della pluralità dei valori senza partire da giudizi e opinioni preconcette.

per approfondire❱ Tullio De Mauro: non è vero che i giovani non leggono ovvero contro i luoghi comuni

La condizione giovanile è anche il risultato di una concezione e talora di un vero e proprio «mito» sociale che ha dipinto attraverso i mass-media l’immagine negativa di una gioventù distaccata e ribelle, incapace di conservare quanto di buono i padri avevano saputo raggiungere a livello di maturazione culturale e civile. Il linguista Tullio De Mauro prova qui a sfatare uno dei «miti» più diffusi, quello della gioventù «che non legge».

I giovani sono ignoranti, i giovani non leggono? Certamente, moltissimi giovani non amano leggere. Sareb-be straordinario che non ci fossero giovani non lettori in un paese che ha mandato a picco i suoi centri di lettura (con poche eccezioni circoscritte nel Nord), le sue biblioteche pubbliche e le due già gloriose biblio-teche nazionali centrali. Un paese in cui le librerie vere, secondo l’autorevole parere di Luciano Mauri, non superano le ottocento e, forse, non sono più di seicento (poco più di una ogni centomila abitanti). Molti giovani, dunque, sono inevitabilmente non lettori. Ma, se è questo il primo punto, lo sono percentualmente molto, molto meno dei loro babbi, mamme, nonni, e insomma dei più anziani. L’Istituto Centrale di statistica, fin dagli anni Cin-quanta, ha svolto estese indagini sulla lettura di libri e giornali. Nell’ultima disponibile, del 1989, ecco i dati che possono interessarci. I lettori di libri non scolastici, in Italia, nel confronto europeo e internazio-nale, sono pochi: 37 ogni cento abitanti dagli undici anni in su. A questa media concorrono in misura assai diversa le diverse fasce di età. Gli undici-quattordicenni sono lettori per oltre il 56%, i fratelli maggiori lo sono per oltre il 50%, i trentenni per il 47%. Già i quarantenni scendono quasi alla media: 41%. I cinquan-tenni sono lettori nettamente al di sotto della media: 30%. I «giovani» sessantenni sono lettori solo per il 23%. Cali un velo pietoso sugli ancora più anziani. Questa sfasatura a vantaggio delle classi anagrafiche più giovani non è di oggi: si registra puntualmente a partire dalle prime serie indagini sulla lettura degli anni Cinquanta. In un paese che non ama i libri, da quarant’anni a questa parte le fasce giovanili della popolazione hanno sempre rivelato una propensione alla lettura assai maggiore delle classi anagrafiche più anziane. Chi non si fida dei dati statistici badi a estesi sondaggi qualitativi, come quelli che svolge annualmente, da molti anni, la Fondazione Bellonci: centinaia di giovani dal Nord al Sud sono invitati a leggere libri e a scriverne. I risultati sono eccellenti, e sorprendo-no quanti si accostano ai lavori della Fondazione con la mente piena delle prevenzioni divulgate da decine di bolsi articoli di infondata condanna dell’«ignoranza» dei giovani. I giovani parlano male? Può essere. Certo è che parlano più italiano, enormemente più italiano di babbi e mamme e dei soliti nonni. Anche qui, chi vuole può uscire dai sondaggi e impressioni e chiedere soccorso a dati statistici attendibili della solita ignorata Istat. Coloro che anche con gli estranei hanno difficoltà a lasciare il natio dialetto e a parlare italiano sono, nella media nazionale, il 35,2%. Bene: se guardiamo alle diverse classi anagrafiche, vediamo che sono circa il 34% tra i bambini e i ragazzini sotto i 10 anni (più esposti a subire l’influenza dell’ambiente), il 26% tra i tre-dicenni, il 25% tra i ventenni, il 28% tra i trentenni; e sono invece il 40, 50 e fin quasi il 60% tra le fasce più anziane formatesi in quel tempo felice in cui sì che si parlava davvero un buon italiano, ma due terzi della gente lo ignorava completamente. Dietro questi numeri vi sono altri numeri e grandi fatti. Prendiamo la generazione a cui appartengono alcu-ni miei autorevoli colleghi che si sono ripetutamente esibiti in pianti sulla buona lingua andata in malora. Tra i cinquantenni gli annuari dell’Istat, a chiunque si dia la briga di sfogliarli (come fanno al Censis prima di divulgarne i dati, che vengono poi detti dai giornalisti «i dati del Censis»), dicono: i cinquantenni sono quasi all’8% analfabeti o semialfabeti, per oltre il 50% hanno la semplice licenza elementare, che, da sola, salvo si facciano mestieri come il tipografo (se ce n’è ancora), il quadro sindacale, il prete o assimilati, non basta a garantire un buon controllo della lingua italiana. Tra i ventenni, analfabeti e semialfabeti ci sono

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ancora, ma sono lo 0,7%; quelli con sola licenza elementare ci sono ancora, ma sono il 6,4%; il 63% dei giovani ha almeno la licenza media inferiore (tra i cinquantenni il 20%), il 31% ha diploma o laurea (tra fini dicitori attempati la hanno meno del 20%). L’assurda guerra contro i giovani presunti ignoranti e malparlanti costringe a presentare questi dati come se fossimo dinanzi a un contrasto tra giovani e vecchi. Ma non è del tutto così. Se ragazze e ragazzi sono andati più a scuola, rispetto agli anziani, se hanno maggiore propensione alla lettura, se hanno ben più estesa pratica dell’italiano ciò è dovuto al lavoro, alla fatica, alle vere e proprie lotte dei più anziani: ai quali va il merito di avere imposto (non c’è altro termine) alle classi dirigenti del paese che i ragazzi aves-sero almeno tutti la licenza elementare (ciò che cominciò a succedere negli anni Sessanta), poi, negli anni Settanta, che avessero tutti la licenza media inferiore, poi, negli anni Ottanta, che cercassero di penetrare nel dedalo di canali della scuola media superiore, e si affaticano ora, negli anni Novanta, per cercare di mandarli all’università. Le giovani generazioni hanno raccolto queste spinte, si sono destreggiate, entro scuole impreparate ad accoglierli, per realizzarle in positivo. Ma l’ondata ci ha trovato impreparati. Se si fa eccezione per i pochi insegnanti che si raccolgono in asso-ciazioni e intorno a riviste serie, agli altri non è stato offerto nessuno strumento per capire che cosa stava succedendo e come e cosa si doveva fare in classe per fronteggiare nuovi problemi. Negli anni Sessanta stava succedendo che cercavano di arrivare alla licenza elementare tutti i ragazzini figli di quel 66% (dico: sessantasei) senza nessuna (dico: nessuna) istruzione. Negli anni Settanta arrivavano alla licenza media i figli dell’80% di popolazione che, tra analfabeti, senza titolo, licenziati delle elementari, non erano mai arrivati oltre la soglia delle elementari. Negli anni Ottanta si sono affacciati agli istituti tecnici o (orrore) al liceo classico il figli dell’80% di popolazione senza licenza media. E oggi noi malvagi baroni (senza alcu-na competenza didattica verificata istituzionalmente) ce li troviamo (doppio errore) sia pure a piccole dosi entro le aule delle università. Quella che a dir poco dai tempi di Giuseppe Lombardo Radice chiamiamo «educazione linguistica» avrebbe dovuto essere un pilastro portante della formazione. A ondate, nelle scuole si sono riversati non più solo i «Pierini del dottore», ma i «Gianni»: i figli di famiglie in cui, se e quando si parlava, si parlava solo un dialetto, non entravano giornali e tanto meno libri. Fino ad anni recenti, a costoro si è preteso di insegna-re come se l’italiano, la pratica della lettura e dei buoni libri se la portassero già da casa. Ovvio (tolto qualche figlio di militante comunista d’una volta) non poteva essere così. Nel frattempo, le cose si sono complicate anche per Pierino del dottore. Nella società italiana hanno fatto irruzione i linguaggi delle tecniche, delle scienze, delle articolazioni specialistiche del sapere e di un’orga-nizzazione sociale e produttiva sempre più complessa. Anche Pierino del dottore avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più del solito «albero cui tendevi la pargoletta mano». In generale, non gli è stato dato. Anche Pierino si è trovato e si trova in difficoltà, solo dinanzi al mareggiare di sollecitazioni linguistiche divergen-ti. In queste condizioni le fasce giovani della popolazione si sono accostate all’italiano praticando il «self-help». Hanno fatto miracoli […]. Certo, meglio e di più si potrebbe fare e si potrà fare il giorno in cui vorremmo mettere mano a un reale miglioramento non solo dei programmi, ma della realtà effettuale del nostro sistema formativo, dentro e fuori della scuola.

(T. De Mauro, «Gli adulti, che ignoranti», in «Gli invisibili». Il Manifesto del Mese, marzo 1992)

❱❱ 3. Le aggregazioni giovaniliLe politiche e le scelte pedagogiche rivolte agli adolescenti non possono mai trascu-rare il principale contesto in cui i giovani provvedono da soli alla propria educazione: la realtà delle varie forme di aggregazione in cui è il rapporto con i pari che condi-ziona profondamente la crescita individuale. Un elemento comune che caratterizza fortemente la condizione giovanile è infatti la forma particolare assunta dal bisogno di socialità, che tende a far gravitare il singolo sempre più fortemente nella direzio-

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ne dei coetanei, percepiti come alternativa al mondo adulto, alle sue contraddizioni e incomprensioni. Secondo un’interpretazione molto frequente, di derivazione psico-analitica, il gruppo funziona come una sorta di sostituto del padre. I giovani in una «società senza padri» trovano nelle esperienze di gruppo (sia esso il piccolo gruppo di amici, l’associazione o la folla a un concerto rock) qualcosa che riempie il vuoto della guida adulta. Pertanto è con i pari che i giovani costituiscono forme di aggre-gazione più o meno vaste, che in alcuni casi tendono a diventare esclusive. Bisogni di affetto, di appartenenza e di stima, prima soddisfatti in gran parte nel riferimento agli adulti, vengono incanalati nei legami di amicizia, nei flirt e nell’amore, nel rap-porto con i gruppi informali, nelle forme associative o, talvolta, nella partecipazione a movimenti. Per la prima volta nella vita accade così di essere inseriti in forme di socialità che, come «luoghi» di educazione, possono essere autonomi rispetto al controllo adulto e costituire un’alternativa all’educazione intenzionale impartita dal-la scuola o dalla famiglia.

❱ 3/1 i «movimenti a due» (amicizia e amore) e il gruppo dei pariL’amicizia è un legame complesso e articolato, cui appartengono dimensioni come lo stare insieme, il conflitto, l’aiuto, la sicurezza, l’intimità che interagiscono in modo diverso a seconda dell’età dei soggetti. L’amicizia è una forma di condivisione intima e reciproca, senza la quale la crescita psicosociale dell’individuo viene privata di molti stimoli e apporti, come ad esempio la possibilità di correggere dannose visioni della socialità assorbite in famiglia. Gli studi recenti dimostrano che già intorno ai tre anni si manifestano le prime forme di amicizia, sebbene la loro maturazione av-venga proprio intorno agli undici-dodici anni, cioè alle soglie della preadolescenza, quando la funzione sociale e affettiva dell’amicizia raggiunge la sua maggiore am-piezza. Per gli adolescenti l’amico può essere «tutto il mondo», al limite della pos-sessività e dell’esclusività più totali. L’amicizia contribuisce alla «desatellizzazione» dalla famiglia, anche se talora può produrre una nuova forma di «satellizzazione» basata su un forte bisogno di fiducia e di reciprocità. Il legame dell’amicizia ha certamente delle importanti dimensioni di spontaneità, ma anche aspetti verso i quali è possibile costruire degli interventi educativi. Il conflitto, ad esempio, appare a tutta prima qualcosa di contrastante rispetto all’amicizia. In real-tà numerosi studi sui bambini hanno dimostrato che all’interno dell’amicizia trovano posto numerosi conflitti, senza però che questo vada a intaccare l’unione. Gli amici riescono infatti a gestire la risoluzione dei conflitti meglio degli altri. Pertanto educare all’amicizia significa anzitutto potenziare le competenze di dialogo e di risoluzione pacifica e consensuale dei conflitti nel riconoscimento del «punto di vista» dell’altro. Discorsi in parte simili possono essere sviluppati a proposito delle forme di educa-zione dell’affettività connesse ai flirt, all’innamoramento e all’amore con cui gli adolescenti entrano nella sfera di esperienze collegata al raggiungimento della matu-rità sessuale. A questo proposito occorre ricordare che flirt, innamoramento e amore, oltre a essere esperienze profondamente coinvolgenti, implicano lo sviluppo di com-petenze e caratteristiche della personalità, che vanno dalla sicurezza all’autonomia, dall’autostima all’identità sessuale, alla capacità di comunicazione, e così via. L’edu-cazione alla gestione di queste esperienze, parte di una più ampia educazione alle sfere relazionali e sessuali, è oggi spesso contraddittoria, con interventi e messaggi contrastanti proposti dagli adulti di riferimento, dal gruppo, e dai mass-media.

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brani d’autore ❱Erich Fromm: l’amore deve essere imparato

Il brano che segue è tratto da L’arte di amare, un celebre volumetto di Erich Fromm in cui l’autore sostiene la tesi dell’educabilità all’amore, ossia la possibilità di mettere in atto una sorta di educazione sentimentale degli indi-vidui.

È l’amore un’arte? Allora richiede sforzo e saggezza. Oppure l’amore è una piacevole sensazione, qualcosa in cui imbattersi, è questione di fortuna? Questo volumetto contempla la prima ipotesi, mentre è fuor di dubbio che oggi si crede alla seconda. La gente non pensa che l’amore non conti. Anzi, ne ha bisogno; corre a vedere serie interminabili di film d’amo-re, felice o infelice, ascolta canzoni d’amore; eppure nessuno crede che ci sia qualcosa da imparare, in mate-ria d’amore. Questo atteggiamento si basa su parecchie premesse: la maggior parte della gente ritiene che amore significhi «essere amati», anziché «amare»; di conseguenza, per loro il problema è come farsi amare, come rendersi amabili, e per raggiungere questo scopo seguono parecchie strade. Una, preferita soprattutto dagli uomini, consiste nell’ave-re successo, nell’essere ricchi e potenti quanto lo possa permettere il livello della loro posizione sociale. Un’altra, seguita particolarmente dalle donne, è di rendersi attraen-ti, coltivando la bellezza, il modo di vestire, ecc. Una terza via, seguita da uomini e donne, è di acquisire modi affabili, di tenere conversazioni interessanti, di essere utili, modesti, inoffensivi. Molti dei modi per rendersi amabili sono gli stessi impiegati per raggiungere il suc-cesso, per «conquistare gli amici» e la gente importante. Come dato di fatto, quel che la gente intende per «essere amabili», è essenzialmente un insieme di qualità. Una seconda premessa per sostenere la teoria che nulla v’è da imparare in materia d’amore, è la supposizione che il problema dell’amore sia il problema di un oggetto, e non il problema di una facoltà. La gente ritiene che amare sia semplice, ma che trovare il vero soggetto da amare, o dal quale essere amati, sia difficile. Un atteg-giamento questo determinato da molte ragioni, legate allo sviluppo della società moderna. Una di queste è il grande cambiamento avvenuto nel ventesimo secolo riguardo la scelta dell’oggetto del proprio amore. Nell’epoca vittoriana, come in molte epoche tradiziona-liste, l’amore non era un’esperienza personale che po-tesse condurre al matrimonio. Al contrario, il matrimonio veniva contratto per convenienza, o dalle rispettive fa-miglie, o da intermediari; veniva concluso sulla base di considerazioni sociali, ed era opinione comune che il sentimento sarebbe nato in seguito. Nelle ultime gene-

razioni, il concetto dell’amore romantico si è diffuso nel mondo occidentale. Negli Stati Uniti, sebbene conside-razioni di natura convenzionale non siano del tutto as-senti, la maggior parte della gente è alla ricerca dell’«amore romantico», della esperienza personale d’amore che dovrebbe condurre al matrimonio. Questo nuovo concetto di libertà in amore deve avere largamen-te contribuito ad aumentare l’importanza dell’oggetto contro l’importanza della funzione. Strettamente legata a questo fattore è un’altra caratteri-stica della società contemporanea, basata sul desiderio di comperare, sull’idea di uno scambio proficuo. La fe-licità dell’uomo moderno consiste nell’emozione di guardare vetrine di negozi, di acquistare tutto ciò che può permettersi, sia a contanti che a rate. Egli (o ella) guarda la gente nello stesso modo. Per un uomo, una ragazza attraente, e per una donna, un uomo attraente, sono gli oggetti della loro ricerca. «Attrattiva» general-mente significa un simpatico complesso di qualità desi-derabili […].A ogni modo, il senso della parola «innamorarsi» si sviluppa solo tenendo conto di queste qualità pratiche in quanto siano alla portata della propria capacità di scam-bio. Io sono alla ricerca di un oggetto; l’oggetto potreb-be essere desiderabile dal punto di vista del suo valore sociale, e nello stesso tempo potrebbe volere me, consi-derando le mie caratteristiche interiori ed esteriori. A questo modo due persone si innamorano, certe di aver trovato sul mercato l’oggetto migliore e più convenien-te, considerando i limiti dei loro valori di scambio […].Il terzo errore che porta alla convinzione che non vi sia nulla da imparare in materia d’amore, è la confusione tra l’esperienza iniziale d’innamorarsi e lo stato permanen-te di essere innamorati. Se due persone che erano estra-nee lasciano improvvisamente cadere la parete che le divideva, e si sentono vicine, unite, questo attimo di unione è una delle emozioni più eccitanti della vita. È ancora più meravigliosa e miracolosa per chi è vissuto solo, isolato, senza affetti. Il miracolo di questa intimità improvvisa è spesso facilitato se coincide, o se inizia, con l’attrazione sessuale. Tuttavia, questo tipo d’amore è per la sua stessa natura un amore non duraturo. Via via che due soggetti diventano bene affiatati, la loro intimi-tà perde sempre più il suo carattere miracoloso, finché il loro antagonismo, i loro screzi, la reciproca sopportazio-ne uccidono ciò che resta dell’eccitamento iniziale. Eppure, all’inizio, essi non sanno questo; scambiano l’intensità dell’infatuazione, il folle amore che li lega, per la prova dell’intensità del loro sentimento, mentre potrebbe solo provare l’intensità della loro solitudine.

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Questo atteggiamento – che niente è più facile che ama-re – ha continuato a essere il concetto prevalente sull’amore, a onta dell’enorme evidenza del contrario. Non vi è impresa o attività che sia iniziata con simili speranze e illusioni, e che tuttavia cada così regolarmen-te, come l’amore. Se ciò avvenisse per qualsiasi altra attività si sarebbe impazienti di conoscere le ragioni del fallimento, o d’imparare a comportarsi meglio, oppure si abbandonerebbe quell’attività. Ma l’ultima ipotesi è improbabile, in materia d’amore; soltanto un mezzo sembra esista per evitare il fallimento del proprio amore: esaminare le ragioni e studiare il significato della parola «amore». Il primo passo è di convincersi che l’amore è un’arte così come la vita è un’arte: se vogliamo sapere come amare dobbiamo procedere allo stesso modo come se volessimo imparare qualsiasi altra arte, come la musica, la pittura, oppure la medicina o l’ingegneria. Quali sono i passi necessari per imparare un’arte? Pos-siamo dividerne il processo in due parti: teoria e pratica.

Per l’arte della medicina, prima devo conoscere il corpo umano e la patologia. In possesso di questa conoscenza teorica, posso diventare un maestro solo dopo una gran pratica, finché i risultati della mia scienza e i risultati della pratica non siano fusi in un uno: il mio intuito, l’essenza della padronanza di qualsiasi arte. Ma, oltre a conoscere teoria e pratica, c’è un terzo fattore necessario per diventare maestro in qualunque arte: non deve esser-ci al mondo nient’altro di più importante. Questo vale per la musica, per la medicina, per l’amore. E forse, qui sta la risposta alla domanda perché la nostra civiltà cer-ca così raramente d’imparare quest’arte, a onta dei suoi fallimenti; nonostante la ricerca disperata d’amore, tutto il resto viene considerato più importante: successo, pre-stigio, denaro, potere; quasi ogni nostra energia è usata per raggiungere questi scopi, e quasi nessuna per cono-scere l’arte dell’amore.

(E. Fromm, L’arte di amare, Milano,Il Saggiatore, 1979)

A partire dall’infanzia, l’appartenenza al gruppo fa sì che accanto alle attività di gioco si costruiscano progressivamente forme di condivisione di sentimenti, segreti, interessi e problemi. Il gruppo fornisce uno status, un’identità, una sicurezza di fron-te alle molteplici trasformazioni che si devono affrontare. Esso rappresenta una dife-sa contro la marginalità sociale e può giungere anche ad involvere in forme di devian-za, come quella della banda delinquente, dove la solidarietà interna nei confronti dei «nemici» esterni può condurre anche ad accettare comportamenti di estrema gravità. Gli studi di psicologia sociale individuano così nel gruppo una forma di aggregazio-ne che assume progressivamente più importanza a partire dalla preadolescenza. Le «bande di preadolescenti» (non intendendo con questo termine gruppi con fini aso-ciali o delinquenziali) si costituiscono inizialmente fra individui appartenenti allo stesso genere sessuale, che tendono a escludere membri dell’altro sesso e a compie-re assieme attività di tipo esplorativo, costruttivo o competitivo. Queste attività han-no l’importante funzione di permettere esperienze personali al di fuori del sostegno familiare ma allo stesso tempo non in condizioni di isolamento. Durante l’adolescen-za la «banda» si trasforma nella «compagnia» (per la maggioranza degli adolescenti l’istituzione sociale più significativa) in cui sono presenti membri di entrambi i sessi e in cui le appartenenze sociali di provenienza sono generalmente più omogenee. Nella compagnia si esplora la relazione con l’altro sesso e si costruisce la propria immagine di sé confrontandosi con gli altri e sperimentando i diversi ruoli possibili nell’interazione sociale col gruppo. Il gruppo «educa» in modo informale gli individui che ne fanno parte alle sue regole, alla sua visione del mondo, anche se queste possono essere, dal punto di vista degli adulti, distorte o pericolose. Ciò porta tuttavia a scontrarsi con l’assenza di luoghi adeguati come punto d’incontro e di attività comuni. In questo senso la nuova offerta educativa del territorio si accentra su «punti d’incontro», strutture aperte e informa-li, frequentabili con orari liberi e senza particolari forme d’impegno, ma allo stesso tempo caratterizzate dalla presenza di attrezzature e materiali (per giocare, per fare

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sport, per attività culturali) e di programmi da condividere (peraltro senza controlli pressanti) con animatori e operatori specializzati. Si cerca così di favorire la socializ-zazione positiva intorno ad attività arricchenti e coinvolgenti, il superamento dell’emar-ginazione, l’incontro con adulti di riferimento in grado di offrire un supporto educati-vo. L’alternativa più formale e più tradizionale a questo riguardo è costituita dall’as-sociazionismo educativo.

per approfondire❱ André Beauchamp: l’animatore di un gruppo

Nella tabella che segue, l’autore descrive l’operato dell’animatore di un gruppo formale a seconda del tipo di animazione (autoritaria, democratica, bonaria).

Aspetti dipendenti dal ruolo dell’animatore Animatore autoritario Animatore democratico Animatore bonario

Quadro dell’incontro (locale, tavolo, sedie etc.)

• prevede tutto in anticipo• non ne discute assoluta-

mente con il gruppo

• prevede alcune cose in an-ticipo

• ne discute con il gruppo per apportare miglioramenti o cambiamenti, secondo i desideri espressi

• a parte il luogo di incontro non prevede quasi niente

Scelta dell’obiettivo • chiama il gruppo a discute-re di un obiettivo già scel-to e che non sottopone alla sua scelta

• in seguito, è molto rigoroso nella fedeltà a questo obiettivo, così come lo in-tende lui

• in caso di dissenso nel gruppo, tende a imporre il suo punto di vista

• chiede al gruppo di formu-lare i suoi obiettivi

• aiuta il gruppo a scegliere nel modo più illuminato

• è il gruppo che decide• una volta operata la scelta,

mantiene fermamente il gruppo nell’obiettivo scelto

• dà a ciascuno l’opportunità di esprimere la propria percezione dell’obiettivo

• posta la questione in modo molto generale, lascia an-dare il gruppo a modo suo

• l’obiettivo preso in consi-derazione rischia di non essere veramente scelto dal gruppo, ma imposto agli altri dai capi naturali del gruppo

• da ciò derivano frustrazioni di alcuni membri del gruppo

Scelta degli itinerari edelle attività

• prevede in anticipo le pro-cedure e le attività

• ne informa il gruppo ma senza chiedere altri sugge-rimenti

• non accetta deviazioni… cosa che spesso provoca fughe

• propone un ventaglio di itinerari e di attività possi-bili

• ne sollecita altre• aiuta il gruppo a fare la sua

scelta• una volta fatta la scelta,

mantiene il gruppo in que-sta scelta in modo fermo ed elastico insieme

• non pensa affatto a propor-re itinerari e attività

• se lo fa è in modo molto vago

• il gruppo viene «requisito» dai leader, anche se ciò non è per tutti conveniente

• da ciò derivano frustrazioni per alcuni

Relazioni nel gruppo • membri del gruppo centrati sull’animatore, ma poca comunicazione tra di loro

• clima teso, a lungo andare; ma si ha l’impressione di essere efficaci

• molta ostilità e aggressività• alcuni componenti vengono

trasformati in capri espia-tori

• comunicazione a più sensi: dall’animatore ai compo-nenti; dei componenti tra loro e viceversa

• dopo una partenza che è potuta sembrare lenta, si instaura un clima disteso di confidenza e di amicizia, fonte di vera efficacia

• clima a volte di happening• formazione di clan• isolamento di alcuni membri• impressione di girare a

vuoto e di perdere il proprio tempo

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Aspetti dipendenti dal ruolo dell’animatore Animatore autoritario Animatore democratico Animatore bonario

Partecipazione • l’animatore guida tutto, fa tutto, fissa tutto

• i componenti fanno ciò che l’animatore dice loro di fare, senza iniziativa da parte loro

• l’animatore ricopre il suo ruolo di animatore; gli altri fanno la loro parte di membri

• ripartizione dei compiti fatta insieme

• tutti i componenti prendo-no iniziative e hanno delle responsabilità

• l’animatore lascia fare• iniziative di alcuni compo-

nenti (leader)• passività degli altri

Valutazione • l’animatore tende a sfuggi-re la valutazione e a non darle importanza

• se vi è obbligato, impone il suo modo personale di farla ed evita le ridiscussio-ni del suo ruolo e dei suoi atteggiamenti

• ha parecchia paura delle reazioni del gruppo

• l’animatore attribuisce una grande im-

portanza alla valutazione• ne sceglie i meccanismi con

il gruppo in modo che tutti i punti possibili siano valu-tati

• non ne ha paura, poiché anche in caso di valutazio-ne negativa dei propri at-teggiamenti da parte del gruppo, vi vede prima di tutto un’occasione per per-fezionarsi

• l’animatore non pensa alla valutazione• se lo fa è in modo molto

generale e superficiale• cosa che in definitiva non

insegna niente a nessuno

(A. Beauchamp, R. Graveline, C. Quiviger, Come animare un gruppo, Elle Di Ci, Torino, 1998)

❱ 3/2 Movimenti, associazioni e volontariatoI giovani possono cercare di soddisfare il proprio desiderio di identità e autonomia anche nella partecipazione ai movimenti, quali quelli politici, purché questi rispon-dano alla necessità dei ragazzi di sentirsi «attivati» e indispensabili nell’indirizzarsi verso un avvenire aperto a tutto. I dati per il nostro paese offerti dall’indagine IARD (istituto di ricerca che si occupa di indagini empiriche e di sperimentazioni, con una particolare attenzione alla con-dizione giovanile) del 1996 indicano, tuttavia, che la stragrande maggioranza (quasi l’80% degli intervistati) dei giovani di età compresa fra i 15 e i 24 anni si limita a «tenersi al corrente» o a lasciare la politica a «persone più competenti», mentre i «direttamente impegnati», seppure in crescita, vengono per ultimi, anche dopo colo-ro che affermano che la politica «li disgusta». Ciò non toglie che poco più del 50% del campione abbia partecipato ad almeno un’iniziativa pubblica (assemblea, mani-festazione, raccolta di firme) nel corso dell’anno. Oltre che nei gruppi primari, i giovani sono spesso inseriti in altre forme di aggrega-zione che, oltre a rispondere a profondi bisogni psicologici, provvedono a fare da ponte fra essi e la realtà sociale più vasta. Secondo un fenomeno in costante aumen-to nel nostro paese, i giovani entrano a far parte di diverse forme di associazionismo, come formazioni scoutistiche e gruppi di volontariato. L’adesione a queste forme di aggregazione può essere favorita o indotta dalla famiglia, che riconosce in esse un «luogo formativo» adeguato per il tempo libero dei propri figli, oppure essere scelta spontaneamente dai giovani stessi come contesto di socializzazione in cui è possibi-le anche sfuggire alla «marginalità» della propria condizione attraverso la parteci-

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pazione ad attività e responsabilità di tipo adulto. A prevalere è, in linea generale, un associazionismo orientato verso una gestione complessivamente «disimpegnata» del tempo libero, per quanto in molti casi l’impegno giovanile viene convogliato in for-me di volontariato. A fronte delle molteplici immagini sociali di giovani devianti, privi di valori, «ribel-li senza una causa» il cui tempo libero è un tempo «vuoto», si è affermata in questi anni, particolarmente nel nostro paese, la partecipazione di moltissimi giovani ad attività di volontariato in campo sociale e culturale, a testimonianza, ancora una vol-ta, della frammentazione dell’universo giovanile che ne rende impossibile una definizione univoca. I riflessi educativi dell’inserimento in un gruppo di volontariato sono evidenti: i giovani vengono coinvolti in un «progetto di vita» ricco di valori e di esperienze significative, hanno la possibilità di agire ed essere considerati «adulti» e pienamente responsabili in un rapporto «alla pari» con altre figure adulte di riferi-mento, sono messi nelle condizioni di seguire altri percorsi formativi che in un certo numero di casi si traduce in un orientamento verso scelte professionali parallele.

Le forme di aggregazione giovanile

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brani d’autore ❱Mario Pollo: la funzione educativa dell’associazionismo

Il pedagogista Mario Pollo, nel brano che segue, delinea gli aspetti fondamentali dell’azione educativa dell’asso-ciazionismo giovanile.

L’azione educativa delle associazioni si manifesta a due distinti livelli: quella della cultura del sistema sociale in cui è inserita e quello interno, che riguarda i propri ade-renti. Pur essendo strettamente collegate e interdipen-denti, le due azioni possono essere analizzate separata-mente, soprattutto ai fini di una maggiore chiarezza espositiva, trattandole come due dimensioni distinte dell’agire delle associazioni.

La dimensione internaOgni associazione, al di là del suo scopo statutario, vive secondo un particolare modello organizzativo e, quindi, secondo una certa concezione dei rapporti tra le persone, dei valori e dei fini del loro stare insieme. Attraverso il modello organizzativo interno ogni associazione esem-plifica la concezione di convivenza sociale di cui è portatrice. Ad esempio, un’associazione che sia struttu-rata secondo un modello organizzativo fortemente cen-tralizzato e gerarchico difficilmente potrà essere credi-bile come associazione che persegue la partecipazione democratica e il decentramento, almeno da parte di chi ne conosce la vita interna. Se questa riflessione è corretta ne consegue che ogni associazione che mette al centro la partecipazione delle persone alla vita della società attraverso una qualche dimensione di questi: cinema, sport, turismo, volontaria-to, ecc., deve garantire ad esse la possibilità di esprimere compiutamente la propria partecipazione alla vita interna in senso propositivo e non solo, come spesso accade, in senso ricettivo delle proposte elaborate dall’alto.D’altronde se un’associazione ha tra i suoi obiettivi prioritari la partecipazione alla vita del territorio, come può realizzarla se non dando voce alla presenza dei giovani che la formano? Il giovane, che vive la storia quotidiana del sistema sociale, che in questa storia ricer-ca la propria realizzazione umana personale, è intessuto dal territorio che abita. Infatti, nella sua cultura, nei suoi valori, nei suoi atteggiamenti e nelle sue idee esprime la vita sociale del territorio in cui vive. La piena partecipazione del giovane, ovvero la sua espressione umana compiuta nelle dinamiche interne all’associazione è la condizione necessaria, anche se non ancora sufficiente, a una piena sintonia tra l’associazio-ne e il territorio. Anzi è attraverso la valorizzazione dell’esperienza quotidiana, storica, del giovane, che l’associazione può agire come elemento di stabilizzazio-

ne o di cambiamento nell’ambiente sociale, naturale e culturale denominato territorio. E questo può farlo attra-verso i comportamenti, i pensieri, le opinioni e gli atteg-giamenti individuali che il giovane, che ha assunto l’associazione come un suo gruppo di riferimento, ma-nifesta nella sua vita quotidiana. Il giovane semplicemente con il suo vivere quotidiano partecipa o alla conservazione o alla regressione o alla evoluzione della cultura. Questo suo partecipare alla cultura nel quotidiano può trovare nell’associazione il suo momento critico di presa di coscienza e di revisione. Infatti le persone normalmente non percepiscono il ruo-lo che svolgono con i loro atti comunicativi nella produ-zione della cultura sociale. Sovente partecipano a delle formulazioni della cultura che, se ne fossero coscienti, rifiuterebbero, perché contrarie alla loro visione del mondo. Spesso capita che queste stesse persone sono convinte di non essere minimamente responsabili di quelle espressioni culturali che, dal loro punto di vista, sono state prodotte da altri, magari dai soliti potenti, ma che, invece, nel loro piccolo, anch’essi hanno contribu-ito a produrre.L’associazione dovrebbe, quindi, svolgere la funzione di luogo della presa di coscienza del ruolo che le persone esercitano come produttrici di cultura, e dovrebbe perciò aiutarle a orientare la loro azione nel quotidiano verso degli obiettivi coscientemente scelti e formulati. Attraverso la partecipazione attiva il giovane trova nell’associazione il luogo dove può dare consapevolez-za, forma e potere alla propria azione, debole ma signi-ficativa, di produttore di cultura nel quotidiano. Concludendo questa riflessione sulla dimensione interna, si può dire che la prima azione educativa, rispetto ai temi del collegamento con il territorio e con la cultura, viene compiuta dalle associazioni, offrendo una reale dimen-sione partecipativa, espressiva e di autogoverno alla componente giovanile, unitamente alla possibilità di maturare una comunicazione critica nel terreno della cultura.

La dimensione esternaSe le associazioni, come si è visto, hanno un ruolo rile-vante da giocare nella trasformazione dell’attuale cultu-ra sociale, è chiaro che esse oltre che al loro interno devono proiettare la loro azione direttamente nel cuore della vita e dell’organizzazione del sistema sociale. Un’associazione, infatti, non è un gruppo terapeutico, che assolve la propria funzione agendo esclusivamente sui suoi membri, ma uno strumento di autorganizzazio-ne, da parte di un certo numero di componenti il sistema

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sociale, che deve consentire il raggiungimento di un determinato insieme di obiettivi connessi alla vita e all’organizzazione del sistema sociale. Questo significa che le associazioni debbono agire nelle, verso e con le istituzioni. Che debbono ricercare la loro quota di potere, anche economico, necessaria per otte-nere i risultati utili alla loro sopravvivenza. Che debbo-no partecipare, magari da una posizione critica, ai pro-cessi di trasformazione e di conservazione della struttu-ra e della cultura del sistema socio-politico nel quale operano. È questa azione quella che è più direttamente finalizzata ad incrementare la potenzialità educante del sistema sociale attraverso l’eliminazione degli ostacoli, delle distorsioni e delle inefficienze che riducono la potenzialità educativa della vita sociale quotidiana.

Quattro obiettivi educativi delle associazioniDopo aver visto in generale le funzioni interne ed ester-ne delle associazioni si possono individuare più in par-ticolare gli obiettivi educativi e socializzanti che le as-sociazioni possono perseguire. Si tratta di quattro obiettivi, di cui i primi tre appartengo-no alla dimensione esterna dell’azione delle associazioni, mentre il quarto e ultimo è tipico della dimensione interna. È chiaro che questi quattro obiettivi non esauriscono affatto quelli delle singole associazioni, specialmente per ciò che riguarda il terreno specifico della loro azione. Essi sono però la struttura portante che meglio caratte-rizza la loro appartenenza alla società educante.

1. Dare forma istituzionale alle espressioni sociocultu-rali dei giovani

In un contesto sociale in cui ai giovani viene sempre di più riservato un ruolo di consumatori dei beni e dei modelli prodotti dagli adulti, il proporsi di portare le espressioni socioculturali del mondo giovanile all’inter-no delle dinamiche del sistema sociale è un’azione controcorrente estremamente importante. Importante perché trae il giovane dal limbo in cui è collocato e lo chiama a compartecipare da protagonista alla vita del sistema sociale e politico in cui è inserito, senza atten-dere il passaggio ai ruoli della società degli adulti. È questa un’azione che oltre a produrre benefici effetti sulla vita dell’intero sistema sociale, offre al giovane la possibilità di una concreta formazione all’esercizio del-la responsabilità e quindi dei propri diritti e doveri di cittadino, aprendo però l’espressione giuridica al suo stesso superamento nel nome dell’amore. Inserire oggi nella dinamica sociale la cultura e le istanze dei giovani significa avviare profondi processi di trasformazione dell’equilibrio del sistema sociale, innescando nel con-tempo la produzione di nuovi valori.

2. Promuovere il volontariatoCome si è visto parlando della crisi del welfare state, anche nel cuore delle società opulente il dolore e l’ingiustizia gridano ancora il loro scandalo. Le forme della solidarietà organizzata attraverso lo stato sociale non sono sufficienti a garantire una vita degna per ogni uomo. L’assistenza pubblica non basta a combattere il cancro della sofferenza e dell’infelicità. È necessario che questa funzione solida-ristica dello Stato sia affiancata da attività la cui origine è solo nell’amore e la cui logica è interamente sottratta allo scambio economico o utilitaristico. Queste attività, solita-mente dette di volontariato, sono le risposte di amore, di vicinanza e di speranza date da persone che si sono lascia-te interpellare dalla sofferenza umana. Il volontariato, se esercitato attraverso l’associazione, è un modo per portare dentro la logica burocratica del sistema politico la logica umanizzante dell’amore. È un modo per umanizzare la macchina astratta e tendenzialmente burocratica del siste-ma di protezione sociale. Il volontariato è azione sociale e politica perché cambia sia le realtà umane che la struttura attraverso cui si articola il sistema politico. Fare volonta-riato è però anche vivere una potentissima esperienza educativa personale per i giovani che hanno la fortuna di praticarlo. Anche questo obiettivo, pur essendo collocato nella dimensione esterna ha, come il precedente anche dei riflessi molto forti nella dimensione interna.

3. Promuovere la culturaCome si è visto nella prima parte del volume, la cultura è in rapporto diretto con la comunicazione e questo si-gnifica che ogni atto comunicativo tende a conservarla, modificarla o distruggerla. Questa affermazione sottin-tende la constatazione che la cultura esiste solo negli atti comunicativi. Si può infatti affermare che la cultura esiste, in quanto tale, solo allo stato potenziale e che la sua manifestazione concreta avviene sempre e solo nei singoli atti comunicativi e, quindi, che si entra in con-tatto esclusivamente con una parte di essa. Il legame diretto tra cultura e comunicazione evidenzia il carattere di «sistema vivente» della cultura, di organi-smo, cioè, in continua trasformazione, non importa se verso l’evoluzione o verso la regressione. Questa con-cezione, ancorché vera, consente di superare la visione di una cultura simile a un magazzino in cui è depositato, in strati successivi, il sapere sociale. Questa concezione archeologica della cultura, ancora dominante purtroppo in molte istituzioni educative, ha l’effetto nefasto di far pensare che essa possa essere modificata solo da chi ha accesso al magazzino e può inserire nuove cose, o to-glierne qualcuna vecchia dal suo interno. Solo chi ha le chiavi del magazzino – intellettuali, scien-ziati, politici, industriali, finanzieri, responsabili religio-

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si, ecc. – secondo questa visione può partecipare alla gestione della cultura sociale. Per fortuna la realtà uma-na segue proprie leggi che sono differenti da queste, un po’ aristocratiche ed elitarie. La cultura umana vive at-traverso ogni persona che la abita, anche la più umile e povera, la più marginale e svantaggiata. Tutti partecipa-no al gioco di trasformazione / conservazione della cultura umana. È chiaro che qualcuno gioca con più potere e ricchezza di altri e influisce maggiormente alla sua trasformazione / conservazione, almeno nel breve. Nel lungo periodo le cose sono meno evidenti e c’è una sorta di riequilibrio e, sovente, la proposta più povera emerge dalla periferia del sistema culturale per divenire centrale. Quest’ultima constatazione non deve esimere però dall’impegnarsi nel quotidiano per cercare di esse-re tra coloro che, anche nel breve periodo, influiscono maggiormente nelle trasformazioni della cultura. La strada dell’associazionismo è, indubbiamente, una di queste e forse è una delle più efficaci ed incisive. Questo significa che le associazioni devono essere sog-getti attivi e protagonisti di una politica culturale, ovve-ro di una politica di comunicazione sociale sia nelle re-lazioni umane faccia a faccia, che in quelle istituzionali e di massa. Ma non solo. Le associazioni debbono pro-durre nuova cultura oltre a impegnarsi a farla circolare. E produrre cultura significa produrre nuovi valori, nuo-vi stili di vita e nuovi strumenti di sopravvivenza mate-riale e spirituale. Fare sport, in modo diverso, ad esempio, significa produrre e far circolare cultura. Educare a un uso diverso del tempo rispetto alle proposte dominanti nella società di massa, significa produrre nuova cultura. Educare a un uso critico e creativo degli strumenti di comunicazione sociale vuol dire, di fatto, introdurre profonde innovazioni nel meccanismo riproduttivo del-la cultura contemporanea. Ogni tipo di associazione ha un suo specifico modo di intervenire nella politica cul-turale.

4. Formare i propri aderentiIl quarto obiettivo, tipico della dimensione interna della vita della associazioni, è a prima vista il meno «sociale» di tutti. Eppure a ben guardare esso si rivela il più «so-ciale» di tutti. Infatti una concezione matura di forma-zione propone al giovane un percorso di crescita centra-to non solo sul sapere ma sul saper fare. Grazie ai con-tributi dell’educazione sociale è oramai maturata la consapevolezza che la formazione deve riguardare non solo i processi cognitivi delle persone ma anche i loro processi affettivi e di socializzazione. Formare vuol dire, perciò, abilitare il giovane a vivere in modo più autentico il rapporto con sé stesso, con gli altri e con l’ambiente sociale e naturale in genere, oltre

naturalmente a fargli acquisire nuove informazioni e capacità operazionali. Formare vuol dire quindi interve-nire anche nel modo di rapportarsi al sistema politico. alla cultura e all’economia da parte del giovane. Ma non solo. Vuol anche dire, per poter raggiungere questi obiet-tivi formativi, fargli sperimentare dall’interno dell’asso-ciazione l’azione collettiva di trasformazione della real-tà sociale, culturale e politica nella quale egli vive. Questo significa che una vera formazione richiede la partecipazione attiva e critica ai processi attraverso cui si manifestano sia la conservazione che l’evoluzione del sistema sociale. La formazione può avvenire solo all’in-terno di un’associazione che declini sino in fondo il proprio ruolo sociale e politico, ovvero la propria pre-senza esterna nel sociale segnata da fini di trasformazio-ne evolutiva della realtà. Questo motivo fa dire che anche una dimensione interna come la formazione si gioca in gran parte nella dimen-sione esterna. La formazione è comunque una variabile strategica perché traduce la fiducia nell’educabilità pie-na di ogni situazione e di ogni persona. Fiducia nella redimibilità di ogni persona nonostante gli abissi che questa può avere toccato sul piano morale. Fiducia che attraverso la formazione può essere sviluppata nelle persone una vita più autenticamente aderente ai principi che sono alla base della realizzazione umana più matura. Senza un adeguato progetto educativo nessuna associa-zione può sperare di essere uno dei soggetti promotori della trasformazione del mondo e non solo uno dei pas-sivi recettori di modelli di persona e di vita che sono elaborati dalla cultura dominante. Normalmente gli statuti e le scelte organizzative delle associazioni mani-festano questa consapevolezza in modo chiaro.

Vivere il volontariato nello stile dell’educazione socialeNon è sufficiente partecipare a un’esperienza forte di volontariato, perché immediatamente l’esperienza sia educativa. C’è il rischio, anzi, che l’esperienza sia fonte di angoscia o di distruzione della solarità della coscien-za, perchè libera le acque dalle emozioni inconsce, che se non arginate tendono a riportare la persona a una appartenenza indistinta al tutto. In questo caso, si avreb-be l’esperienza più coinvolgente di solidarietà dell’indi-viduo al tutto del mondo, ma a costo della sua distruzio-ne come individuo e del suo imprigionarsi senza scampo nel ciclo del dolore permanente. L’esperienza deve poter consentire lo sviluppo dell’identità del giovane, pur te-nendo conto che sovente l’incontro con la sofferenza umana avviene sul terreno di una cultura debole che sembra rinviare più al nulla che alla vita. È necessario, allora, che questa esperienza consenta sempre al giova-ne di avere nel gruppo di volontariato il proprio baricen-

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tro, e che da questi tragga anche gli stimoli e i dati utili alla formazione di un linguaggio che gli consenta di mantenere viva e forte la coscienza di sé, anche quando attraversa quelle regioni dell’esperienza che sembrano bordeggiare il nulla. Un linguaggio che non lo separi dall’altro che soffre o patisce l’ingiustizia, ma che, nello stesso tempo, consen-ta di non farsene travolgere. Fondamentale, perché questo linguaggio possa formarsi, è il rapporto con la

memoria, con la storia di cui l’azione del giovane in qualche modo costituisce un esito. La tradizione cristia-na come memoria della storia di un popolo che non si arrende di fronte allo scacco del dolore e della morte del mondo, è il tramite fondamentale, anche se in modo non esclusivo, per la costruzione di questo linguaggio.

(M. Pollo, Manuale di pedagogia sociale, Milano, Franco Angeli 2004)

Funzione educativa dell’associazionismo giovanile