denaro roma

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Giacomo Todeschini Il denaro come fattore di inclusione o di esclusione: da Graziano a Cusano (pubblicato in I beni di questo mondo, a cura di R. Lambertini e L. Sileo, Turnhout, Brepols, 2010) Una tradizione storiografica di impianto nettamente positivista ha dato per scontato, dalla fine dell’Ottocento sino a tempi recentissimi, che una nozione di denaro come oggetto astrattamente adatto a numerare la realtà, si sia diffusa in Europa soltanto a partire dalla trasformazione tardomedievale dell’economia commerciale 1 . Per ragioni dipendenti da problemi strettamente tecnici, essenzialmente la necessità di trasferire facilmente somme di denaro, gli uomini di affari avrebbero inventato, a partire dal Due-Trecento, strumenti scritturali che, come la lettera di cambio, facevano del denaro-metallo un denaro- segno 2 . La capacità del denaro di raffigurare teoricamente il valore multiforme delle cose e di cifrare la collocazione degli uomini nel mondo sarebbe stata una conseguenza, in questa prospettiva, del dilatarsi europeo dello spazio degli affari e del connesso raffinarsi delle logiche contabili e finanziarie 3 . E’ 1 Cfr. P. Spufford, Money and its use in medieval Europe, Cambridge 1988; G. Todeschini, Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico, Roma, NIS, 1994; Moneda y monedas en la Europa Medieval (siglos XII-XV), (“XXVI Semana de Estudios Medievales”, Estella, 19- 23 /7/ 1999), Gobierno de Navarra, Departamento de Educacion y Cultura, Pamplona, 2000. 2 Cfr. R. De Roover, L'évolution de la lettre de change (XIVe-XVIIIe siècle) , Paris 1953 ; più recentemente, J. Kaye, Economy and Nature in the Fourteenth Century. Money, Market Exchange, and the Emergence of Scientific Thought, Cambridge 1998. 3 Non è, in sostanza, stata superata del tutto, dalla storiografia economica, la prospettiva “positivista” di J. T. Noonan, The Scolastic Analysis of Usury, Cam- 1

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Texto sobre o comércio na peninsula Italiana dos séculos XIII e XIV

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Page 1: Denaro Roma

Giacomo Todeschini

Il denaro come fattore di inclusione o di esclusione: da Graziano a Cusano

(pubblicato in I beni di questo mondo, a cura di R. Lambertini e L. Sileo, Turnhout, Brepols, 2010)

Una tradizione storiografica di impianto nettamente positivista ha dato per scontato, dalla

fine dell’Ottocento sino a tempi recentissimi, che una nozione di denaro come oggetto astrattamente

adatto a numerare la realtà, si sia diffusa in Europa soltanto a partire dalla trasformazione

tardomedievale dell’economia commerciale1. Per ragioni dipendenti da problemi strettamente

tecnici, essenzialmente la necessità di trasferire facilmente somme di denaro, gli uomini di affari

avrebbero inventato, a partire dal Due-Trecento, strumenti scritturali che, come la lettera di cambio,

facevano del denaro-metallo un denaro-segno2. La capacità del denaro di raffigurare teoricamente il

valore multiforme delle cose e di cifrare la collocazione degli uomini nel mondo sarebbe stata una

conseguenza, in questa prospettiva, del dilatarsi europeo dello spazio degli affari e del connesso

raffinarsi delle logiche contabili e finanziarie3. E’ tuttavia possibile ipotizzare, stando a una

cronologia completamente diversa e considerando una differente tipologia di fonti, che sia la cultura

ebraica sia quella cristiana d’Occidente, fin dall’alto Medioevo, abbiano inteso il denaro, al di là

della fisicità nella quale storicamente si presentava, ossia al di là della concretezza monetaria che lo

realizzava, come oggetto denso di significati, ambiguamente in bilico fra il senso conferitogli dal

metallo e quello assegnatogli dal conio, come oggetto cioè in grado di rappresentare tanto il valore

immediato e sperimentabile delle cose, quanto un valore potenziale a cui le cose rinviavano

enigmaticamente. Da questo punto di vista, in ambiente latino, la parola pecunia ma anche il plurale

nummi e sinonimi potevano indicare, ben prima della rivoluzione commerciale, o del dilagare di

un’economia mercantile, non soltanto il denaro costituito da una somma tangibile, ma anche il

denaro come astrazione o metafora del valore. Tralasciando in questa sede l’analisi di testi fondativi

1 Cfr. P. Spufford, Money and its use in medieval Europe, Cambridge 1988; G. Todeschini, Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico, Roma, NIS, 1994; Moneda y monedas en la Europa Medieval (siglos XII-XV), (“XXVI Semana de Estudios Medievales”, Estella, 19-23 /7/ 1999), Gobierno de Navarra, Departamento de Educacion y Cultura, Pamplona, 2000. 2 Cfr. R. De Roover, L'évolution de la lettre de change (XIVe-XVIIIe siècle), Paris 1953 ; più recentemente, J. Kaye, Economy and Nature in the Fourteenth Century. Money, Market Exchange, and the Emergence of Scientific Thought, Cambridge 1998.3 Non è, in sostanza, stata superata del tutto, dalla storiografia economica, la prospettiva “positivista” di J. T. Noonan, The Scolastic Analysis of Usury, Cambridge/Mass. 1957.

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come quelli talmudici e patristici4, e rinviando ad altra occasione un approfondimento delle

concettualizzazioni rabbiniche medievali del denaro come segno di una avvenuta o mancata

partecipazione alla vita sociale di chi lo utilizzava5, ci si limiterà a considerare alcuni aspetti dei

percorsi testuali che dai secoli undicesimo e dodicesimo, sino al quindicesimo, hanno consentito, in

campo cristiano, a teologi e canonisti di individuare nel denaro il tratto distintivo ovvero il segno

qualificante di una appartenenza alla o al contrario di una esclusione dalla civitas Dei.

Bisogna aver chiaro, prima di inoltrarsi nel discorso, che, diversamente da quanto ancora nel

2002 Cary Nederman sembrava ritenere6, la percezione delle relazioni economiche e dei mezzi che

le concretizzavano non apparve d’improvviso in età bassomedievale grazie allo stupefacente intuito

di alcuni protoeconomisti singolarmente sensibili alle nuove forme assunte dalla vita economica

europea. Al contrario, si dovrà ammettere che una diffusa e per così dire anonima o collettiva

consapevolezza dei multiformi significati delle relazioni economiche era da secoli presente nel

cuore della testualità occidentale ebraica e cristiana, allorché, con l’undicesimo secolo ebbe inizio

l’accelerazione economica abitualmente e sbrigativamente denominata “rivoluzione economica”.

Questo complessivo discorso cristiano riguardava l’economia quotidiana come sezione dello spazio

e del tempo altrimenti impostati e descritti dai linguaggi teologici: ciò tuttavia poteva accadere

perché nella relazione economica si era ritenuto possibile metaforizzare, sin dalla Patristica

orientale di Basilio e da quella occidentale di Ambrogio e Agostino, la complessità della relazione

salvifica intercorrente fra uomini e divinità7. Il vocabolario concettuale stesso alla base di questa

possibilità, poi medievale, di tradurre le dinamiche teologiche con linguaggi economici e di fare

dell’economico quotidiano un frammento significativo delle dialettiche teologiche era stato

impostato ampiamente da Agostino. Per quanto qui ci concerne più specificamente, Agostino aveva

descritto la natura ambiguamente trascendente del denaro in due celebri passaggi dei sermoni 9 e

90. Nel primo di questi due sermoni, tramandato da oltre 150 manoscritti, e anzi considerato il più

diffuso fra i sermoni agostiniani, l’uomo è metaforizzato come moneta divina, nell’ambito di una

4 Cfr. G. Todeschini, Il prezzo, cit.; Idem, La ricchezza degli Ebrei, Spoleto, CISAM, 1989; B. Gordon, The Economic Problem in Biblical and Patristic Thought, Leiden 1989 (Supplements to Vigiliae Christianae, 9); R. A. Ohrenstein & B. Gordon, Economic Analysis in Talmudic Literature. Rabbinic Thought in the Light of Modern Economics, Leiden 1992. 5 Si rinvia per questo agli studi di H. Gamoran, Talmudic Usury Laws and Business Loans, "Journal for the Study of Judaism in the Persian, Hellenistic and Roman Period" 7 (1976), pp. 129-142; Idem, The Talmudic Law of Mortgages in View of the Prohibition against Lending on Interest, “Hebrew Union College Annual” 52 (1981), pp. 153-162; Idem, Credit Transactions in Geonic Times in the Light of the Law against Usury, “Jewish Law Annual” XI (1994), pp. 67 ss.; Idem, Investing for Profit. A Study of Iska up to the Time of Rabbi Abraham ben David of Posquieres, “Hebrew Union College Annual” 70-71, (1999-2000), pp. 153 ss.; cfr. A. Gross Schaefer, Contractual Intent: Is the Reasonable Person Standard Sufficient?, “Jewish Law Annual” XI (1994), pp. 85-100.6 C. J. Nederman, The virtues of necessity: labour, money and corruption in John of Salisbury’s thought, “Viator” 33, (2002) pp. 54-68; cfr. Idem, The Monarch and the Marketplace: Economic Policy and Royal Finance in William of Pagula's Speculum regis Edwardi III, “History of Political Economy” 33/1, (2001), pp. 51-69.7 Si veda la bibliografia relativa in P. Černic, S. Paulitti, V. Toneatto, Economia monastica. Dalla disciplina del desiderio all’amministrazione razionale, Spoleto, CISAM, 2004.

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riflessione sui vari modi in cui una immagine ossia un significato possono essere trasmessi: “Le

immagini umane sono di diverso tipo. Il figlio di un uomo ha l’immagine di suo padre, ed è quello

che è suo padre, poiché l’uomo è come il proprio padre. In uno specchio invece la tua immagine

non è ciò che tu sei. Differente è in effetti la tua immagine in un figlio o in uno specchio: nel figlio

la tua immagine si proietta secondo un’equivalenza sostanziale, nello specchio invece differisce

moltissimo dalla sostanza originale. Eppure anche questa è una tua immagine, per quanto non sia

per sostanza come nel figlio. Allo stesso modo nella creatura l’immagine divina non è ciò che è nel

figlio l’immagine del padre visto che il figlio è quello che è il padre … Rintraccia dunque la

similitudine divina che hai smarrito a causa dei tuoi cattivi comportamenti. Così come infatti in una

moneta l’immagine dell’imperatore è differente da quella presente nel figlio dell’imperatore, dato

che c’è immagine e immagine … ed è diversa quella che l’imperatore imprime in una moneta da

quella che imprime in un figlio, così pure tu sei una moneta divina, migliore però di una moneta

qualunque poiché sei una moneta di Dio dotata di vita e di intelligenza e dunque in grado di poter

apprendere di chi sia l’immagine che porti impressa su di te e ad immagine di chi sei stato coniato,

mentre le monete correnti non sanno di avere su di sé l’iimagine del re.”8 Si tratta di un argomento-

chiave: enormemente trascritto esso raggiungerà, come vedremo, le dissertazioni teologico-

monetarie di Niccolò Cusano9. Prima di arrivare a questo utilizzo quattrocentesco, tuttavia, il

discorso di Agostino si inserisce in un più ampio contesto di rappresentazioni cristiane della moneta

come insieme di oggetti fisici in grado di rispecchiare l’immagine di un carisma, e cioè di un valore

che noi oggi possiamo denominare astratto, spirituale o, più elementarmente, non visibile e non

tangibile.

Accanto a questo genere di definizione del denaro come segnale di un valore/potere situato

altrove ed in sé misterioso, rintracciamo nella tradizione cristiana che discende dalla Patristica,

un'altra fondamentale tipologia metaforica riguardante il denaro come mezzo in grado di operare

scambi il cui significato trascende quello strettamente economico. Si tratta della basilare metafora 8 Augustinus, Sermo IX 9 (ed. Lambot, CC sl 41, Turnhout 1961, p. 125-26): “Nam etiam imagines in hominibus diversae sunt. Filius hominis habet imaginem patris sui, et hoc est quod pater eius, quia homo est sicut pater eius. In speculo autem imago tua non hoc est quod tu. Aliter est enim imago tua in filio, aliter in speculo. In filio est imago tua secundum aequalitatem substantiae, in speculo autem quantum longe est a substantia ! Et tamen est quaedam imago tua, quamvis non talis qualis in filio tuo secundum substantiam. Sic in creatura, non hoc est imago dei, quod est in filio qui hoc est quod pater, id est, deus verbum dei per quod facta sunt omnia. Recipe ergo similitudinem dei, quam per mala facta amisisiti. Sicut enim in nummo imago imperatoris aliter est et aliter in filio - nam imago et imago est, sed aliter impressa est in nummo; aliter habetur in filio, aliter in solido auro imago imperatoris - sic et tu nummus dei es, ex hoc melior quia cum intellectu et cum quadam vita nummus dei es ut scias etiam cuius imagine geras et ad cuius imaginem factus sis, nam nummus nescit se habere imaginem regis.” Cfr. C. Lambot, Sermons de saint Augustin, "Revue Benedictine" 79 (1969), p. 213 : "... Quomodo enim nummus, si confricetur a terra, perdet imaginem imperatoris, sic mens hominis, si confricetur libidinibus terrenis, amittit imaginem Dei. Venit autem monetarius Christus, qui repercutiet nummos… "9 Nicolò Cusano, De ludo globi, ed. I. G. Senger, Opera omnia, vol IX, Hamburg 1998, pp. 110 ss., pp. 137-149; cfr. U. Roth, Geld und Begriffskunst bei Nicolaus Cusanus (1401-1464). Erläuterungen zu einem bisher unveröffentlichten Cusanischen Fragment, in http://www.artfond.de/cusanus.htm; cfr. Nicolò Cusano, Sermones II 3, Sermo LIV (“Remittuntur ei peccata multa. In die Marie Magdalene”), in Opera Omnia, R. Haubst, H. Schnarr edd., pp. 256 ss.

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della Salvezza, innumerevoli volte ricordata nei più diversi contesti dalle scritture medievali, stando

alla quale il sangue del Cristo era stato il mezzo di pagamento con cui era stato possibile riscattare

ossia acquistare il “chirografo” che legava l’umanità al demonio, con cui dunque l’attestazione di

un prestito usurario era stata cancellata10. Entrambe queste raffigurazioni del denaro, denaro come

segno di un valore non economico e denaro come mezzo di pagamento capace di rendere effettivo

lo scambio fra valori trascendenti l’immediatamente economico, si sarebbero diffuse nel corso del

primo medioevo occidentale per il tramite dei principali linguaggi ufficiali della cristianità: quello

liturgico, quello teologico, quello giuridico, quello legislativo e quello politico-trattatistico o

politico-libellistico. Anche testi per così dire “minori” come quelli cronachistici, epistolari o – in

seguito – notarili serberanno traccia di questi fondamentali criteri di concettualizzazione del denaro.

Queste due modalità di definizione della pecunia e degli oggetti metallici che la

concretizzavano in età medievale, i nummi, rinviavano tuttavia, in entrambi i casi, al significato

metafisico, sociale, morale o politico, ossia al ruolo di chi del denaro faceva uso e nel contempo nel

denaro si riconosceva. Non soltanto, e ovviamente, vi era un abisso di differenze fra il pagamento

salvifico operato dal Cristo e da quanti lo rappresentavano per acquistare beni di utilità universale o

generale, e i pagamenti operati da coloro che agivano per acquisire beni utili dal punto di vista

personale o familiare: oltre a ciò diventava decisivo per chi agisse economicamente riconoscersi

come contrassegnato da un Valore superiore e di conseguenza intendere i propri movimenti nel

mondo in termini analoghi ai percorsi di una moneta di buon conio e dunque legittimata a circolare.

Se il cristiano, il buon cristiano era la senziente e cosciente moneta di Dio, come aveva scritto

Agostino, se il cristiano scopriva nel profondo della propria cultura la possibilità e il dovere di

pagare per acquistare beni la cui utilità oltrepassava i limiti dell’utilità individuale o immediata, ne

risultava che la moneta e il denaro, ovvero l’uso che se ne faceva o se ne poteva fare,

contrassegnavano gli spazi sociali e le persone che operavano all’interno di essi in termini di valore

e di appartenenza. Vi erano dunque spazi sociali ed economici riconoscibili come cristiani e persone

a buon diritto incluse in essi, mentre al contrario la mancata consapevolezza del conio divino ossia

la difettosa conoscenza dei valori cristiani e l’incapacità di manovrare i beni mondani, e le monete

in particolare, secondo logiche leggibili in termini di sacralità, collocavano spazi e soggetti agenti

all’esterno della legittimità, li escludevano, cioè, nello stesso tempo dalla comunità dei fedeli e dal

mercato11.

10 G. Todeschini, I mercanti e il Tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna, Bologna 2002; Credito e usura fra teologia, diritto e amministrazione. Linguaggi a confronto (sec. XII-XVI), a cura di D. Quaglioni, G. M. Varanini e G. Todeschini, Roma, Ecole française de Rome, 2005 (Collection de l'Ecole Française de Rome, vol. 346), ove si considereranno in particolare i saggi di R. Mueller, S. Piron e G. Ceccarelli.11 G. Todeschini, I mercanti, cit.

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Dalla metà del secolo undicesimo agli anni ‘30 – ’40 del dodicesimo, ossia dall’accendersi

del conflitto sulle investiture alla stesura delle diverse redazioni del Decretum Gratiani – ma sulla

base di una ben più antica tradizione canonistica – si assiste ad una precisazione testuale delle

definizioni del denaro come segno di valori eccedenti l’economico in senso strettamente contabile.

Aumenta quindi, nei testi dei riformatori e dei giuristi di obbedienza romana, l’attenzione per il

denaro come chiave per decifrare lo schieramento ideologico o politico di coloro che, nell’ambito

della cristianità, giocano un ruolo considerevole ma che non per questo alla cristianità appartengono

in modo indiscutibile. Da Pier Damiani a Graziano si moltiplicano dunque le raffigurazioni del

denaro simoniaco come di un’arma connotante la perversa aggressività di coloro che, non

riconoscendo il primato romano, per ciò stesso si pongono fuori degli ambiti della consacrazione;

ma, contemporaneamente, e complementarmente, cresce l’abitudine a metaforizzare l’unità dei

fedeli nell’immagine del cumulo o del monte pecuniario che è diabolico voler sperperare e

disperdere. Più specificamente, poi, in Graziano soprattutto e nei suoi commentatori e continuatori,

ci si sofferma con attenzione sulle capacità amministrative che il clero e i vescovi devono possedere

per essere riconsocibili come pastori del gregge dei fedeli12. Che i leaders della cristianità debbano

esemplarmente rappresentare un modello di consapevolezza economica e cioè aver chiaro che il

denaro può e deve essere utilizzato per organizzare le comunità e per selezionarne i membri, diventa

chiarissimo nel trattato sull’amministrazione pontificia indirizzato da Bernardo di Clairvaux ad

Eugenio III13. In questo come in altri testi dello stesso periodo la pecunia contrassegna visibilmente

la qualità carismatica dei vertici della Chiesa, e, all’opposto, segna implacabilmente la non

appartenenza alla comunità cristiana di laici ed ecclesiastici simoniaci, oltre che di quella specie

assai particolare di eretici che sono gli usurarii14. Il denaro, in ogni caso, ben lungi dal ridursi

all’oggetto metallico che lo rende fisico, appare in questa serie testuale come una scala graduata

idonea ad indicare l’inclusione, l’inclusione sub dubio, o l’esclusione rispetto a una comunione dei

fedeli che, nel corso del secolo dodicesimo, si va facendo sempre più identica alla civitas. Non a

caso dunque, dagli anni ’60 del secolo dodicesimo, ossia nella catena di commenti al Decretum che

vanno dalla Summa Parisiensis a Rufino di Bologna a Bernardo di Pavia a Uguccione15, ma anche

nei testi dei più insigni civilisti come Azone, si viene affermando da un lato la connessione forte tra

12 Credito e usura, cit.; G. Todeschini, Linguaggi economici ed ecclesiologia fra XI e XII secolo: dai Libelli de lite al Decretum Gratiani, in Studi in onore di Mario del Treppo, G. Rossetti, G. Vitolo edd., Napoli, I, 2000, pp. 59-87.13 Bernardo di Clairvaux, De Consideratione ad Eugenium papam, in Opere di San Bernardo, ed. F. Gastaldelli, Milano , vol. I, pp. 760 ss.14 Cfr. G. Todeschini, "Usura" ebraica e identità economica cristiana: la discussione medievale, in Ebrei in Italia, C. Vivanti ed., Torino, "Storia d’Italia. Annali", 11/1, 1997, pp. 291-318;"Judas mercator pessimus". Ebrei e simoniaci dall'XI al XIII secolo, in "Zakhor. Rivista di storia degli ebrei in Italia" I (1997), pp. 11-23.15 Cfr. per tutti Bernardus Papiensis, Summa decretalium (1191-98), ed. Laspeyres, Regensburg 1860, (anastatica Graz 1956), Liber V T. I, p. 204 ss.; Rufino, Summa decretalium, ed. Singer, Paderborn 1902, (anastatica Darmstadt 1963), C. II q. 3, p. 245-6. Si veda per lo sviluppo testuale complessivo, P. Landau, Die Entstehung des kanonischen Infmienbegriffs von Gratian zur Glossa Ordinaria, Köln-Graz 1966.

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uso criminale del denaro e infamia ossia esclusione dalla credibilità in ambito processuale e

civico16, e dall’altro la competenza dei tribunali ecclesiastici a riconoscere e punire le aberrazioni

economiche dei fedeli, ma anche a punire con pene pecuniarie i non appartenenti alla comunità dei

cristiani, gli infedeli, che trasgrediscano le leggi della civitas17. Il fatto che nella dottrina civilistica

duecentesca, influenzata palesemente in quest’ambito da quella canonistica, si stabilisca con

nettezza – in Pillio da Medicina per esempio – che nel caso di controversie giudiziarie aventi come

oggetto la restituzione di una somma di denaro abbia particolare rilevanza l’insieme delle

testimonianze e che dunque la fides, la attendibilità riconosciuta dei testimoni, prevalga in molti casi

rispetto alla credibilità dell’instrumentum, del documento attestante la restituzione18, ci permette di

comprendere sino a che punto dal dodicesimo al tredicesimo secolo fosse cresciuta e si fosse diffusa

la nozione, ribadita da Innocenzo III nei primi anni del Duecento, di un nesso stretto fra

appartenenza alla comunità cristiana e credibilità in materia pecuniaria. Proprio perché al denaro

veniva riconosciuto un valore eccedente sia quello numericamente dichiarato dal conio sia quello

determinato dalla reale presenza nelle monete di metalli pregiati, e cioè un valore derivante dalla

possibilità riconosciuta al denaro in quanto segno di un potere carismatico di segnare la qualità della

fede dei membri della comunità, il diritto di giudicare in materia pecuniaria veniva sempre più

riservato a chi, sia per ruolo indiscutibile sia per pubblica fama, venisse identificato come fidelis. Al

tempo stesso tutti coloro che con il denaro avevano o potevano avere un rapporto avarus ossia

condizionato da una volontà accumulatrice e privatistica, erano per ciò stesso sempre più

delegittimati a figurare ufficialmente negli spazi civici fossero essi il tribunale, la chiesa o il

comune: la loro accertata e visibile incapacità di scorgere nel denaro altro che non fosse un’utilità

immediata diveniva il segnale tanto di una mancata identità civica quanto di una incapacità

economica. Una delle conseguenze estreme di tale concezione del denaro inteso come indizio di

appartenenza stabilito dall’uso che se ne poteva o sapeva fare, e nel contempo dalla consapevolezza

identitaria che questo uso rivelava, fu, sia per i canonisti che per i civilisti, l’esclusione dei pauperes

16 Cfr. F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania 1985.17 Cfr. J. Muldoon, Popes, Lawyers and Infidels. The Church and the Non-Christian World, Philadelphia 1979; R. M. Freher, Conviction according to conscience: the medieval jurists’ debate concerning judicial discretion and the law of proof, “Law and History Review” 7 (1989), pp. 23-88; Idem, Preventing Crime in the High Middle Ages: The Medieval Lawyers’ Search for Deterrence, in J. R. Sweeney – S. Chodorow edd., Popes, Teachers, and Canon Law in the Middle Ages, Ithaca-London 1989, pp. 212 ss.18 F. Bergmann ed., Pillii, Tancredi, Gratiae, Libri de iudiciorum ordine , Göttingen 1842: Pillii medicinensis summa de ordine iudiciorum, §8 de testibus, p. 61 ss.; cfr. A. Belloni, Le questioni civilistiche del secolo XII. Da Bulgaro a Pillio da Medicina e Azzone, Frankfurt/M. 1989 (“Ius Commune-Sonderhefte, Studien zur Europäischen Rechtsgeschichte”, 43), La collezione Azzoniana di León (Azo C). Edizione critica, p. 136-7: “Quidam dum essent integri status et fame, cuidam contractui interfuerunt. Postea facti sunt infames. Queritur an de illo contractu audiri debeat eorum testimonium. Videtur quod non, quia inter alia que interdicta sunt infamibus istud maxime est interdictum, scilicet testimonii dicendi officium …[D. 22.5.3] Nec distinguitur utrum antea fuerit infamis, necne unde, nec debemus distinguere … Indubitanter et indistincte iudicat Aç[o] testem istum esse repellendum”; Azo, Summa, Lione 1557 (anastatica, Francoforte 1968), In secundum librum codicis, f. 22r-23r.

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dalla testimonianza19. Benché la logica di questa esclusione affondasse le sue radici nel diritto

giustinianeo, che escludeva i pauperes come gli schiavi dalla credibilità pubblica, poiché si poteva

presumerne la corruttibilità o la debolezza e la ricattabilità di fronte alla pressione dei ricchi o dei

potenti, tale dinamica eccettuativa si venne rinnovando fra dodicesimo e tredicesimo secolo in

seguito appunto allo specificarsi della riflessione cristiana sul denaro come segno del valore e

dell’identità. In questa prospettiva la pauperies non derivante da una scelta volontaria appariva una

condizione pericolosa e liminare, esattamente perché se ne poteva presumere la contiguità rispetto

alle forme di infidelitas derivate non tanto da un’opzione ideologica quanto dalla soggezione alla

violenza della quotidianità fisica e sociale. Nel 1238 l’Ordo iudiciarius attribuito all’insigne

giurisperito Tancredi di Bologna cercava di sfumare questa esclusione affermando che bisognava

distinguere fra i poveri di cui certamente si potesse presumere l’inaffidabilità, e i poveri di provata

fede perché indubbiamente appartenenti all’élite religiosa della cristianità: se questa distinzione non

si facesse, prosegue Tancredi, “bisognerebbe dire che molti uomini santi e pii e gli stessi apostoli

devono essere esclusi dalla testimonianza poiché, dal momento che non possiedono nulla, sono

poveri”20. E’ tuttavia per l’appunto questa volontà di distinzione a sottolineare ulteriormente che

con l’avanzare del Duecento pecunia e fides dipendono sempre più l’una dall’altra: al punto che la

rinuncia volontaria alla pecunia più che una forma di povertà inaffidabile può apparire la forma più

raffinata di uso del denaro e la prova certa di un’identità fidelis. L’anno di composizione dell’Ordo

iudiciarius, il 1238, e il luogo della sua composizione, Bologna, nonché l’uso da parte di Tancredi

dell’espressione chiave nihil habentes per indicare i poveri imitatori degli apostoli, ci avvertono del

resto che questo come altri testi simili o da esso dipendenti, si formano ormai nel clima teologico ed

economico contrassegnato dalla rielaborazione francescana dei più antichi lessici cristiani

riguardanti il denaro e la ricchezza21. E’ in questa rielaborazione francescana che denaro e monete

appaiono definitivamente come fattori di unione o disunione della comunità dei credenti, come

prove, dunque, dell’appartenenza o della non appartenenza all’universo sociale dei cives christiani.

19 La norma romana in cui si radicava questo tipo di esclusione, fu abbondantemente discussa fra XII e XIII secolo ogni volta che, elencando i fattori che delegittimavano un testimone, si giungeva alla sua condizione economica (fortuna): cfr., per tutti, Henricus de Segusio card. Hostiensis, Summa aurea, Venezia 1505, de testibus, ff. 132r-133r ss.: “fortuna: ... idest divitie, quia semper magis creditur divitibus ff. eo. l. III. IIII. q. III § Item in criminali. C. ad l. fal. auten. sed cum testator. et hoc quando habetur suspitio de corruptione, ut quia lusor est vel meretricator vel potator, secus si bone fame sit et fidelis, quamvis pauper ... Sed et ubi fidelis dives et pauper fidelis inducuntur, semper ponderosior est vox divitis et in dignitate constituti ..."20 Tancredi di Bologna, Ordo iudiciarius, Bodl. Ms. Laud Misc. 646, f. 8r (cfr. F. Bergmann ed., Pilii, Tancredi, Gratiae, Libri de iudiciorum ordine, Göttingen 1842 = Aalen 1965): “Mihi videtur hoc dictum esse de his pauperibus tantum, qui obtentu pecuniae praesumuntur supprimere veritatem ; quoniam si testis sit [est, Bergmann] honestus ita quod nulla praesumptio sit contra eum ut pro pecunia mentiatur, licet pauper sit non est repellendus a testimonio; alioquin enim oporteret dici multos sanctos et viros religiosos et etiam ipsos apostolos a testimonio repellendos qui pauperes sunt nihil habentes”.21 Cfr. per quanto segue, G. Todeschini, Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, Bologna 2004.

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Senza voler qui ridire argomenti e riassumere testi o fonti già troppo frequentati e raccontati,

sarà appena necessario ricordare che la codificazione etica e teologica francescana della

multiformità reale dei comportamenti economici ecclesiastici e laici, dunque il criterio

interpretativo della quotidianità economica proposto da Francesco e dai suoi dotti seguaci alla

società italiana ed europea del Due e Trecento, non può in alcun caso essere ridotto ad una

negazione dell’importanza o del significato sociale del denaro e della ricchezza. Se la parola

paupertas non equivaleva semplicemente ad indigentia ossia se “povertà” non significava soltanto

“privazione”, ma conteneva in sé un intero mondo di possibili usi della ricchezza mediati

dall’individuazione dei bisogni reali di coloro che si dichiaravano poveri e che sceglievano questo

difficile percorso analitico per realizzare nella misura del possibile la perfectio christiana; se,

d’altra parte, vivere poveramente poneva in atto una rete di relazioni economiche e politiche che

tramite gli “amici spirituali”, i “procuratori”, i laici fautori dell’Ordine, consentisse ai fratres la

possibilità di vivere e agire nel mondo: allora decisamente si può affermare che nella produzione

testuale francescana (sia etica sia teologica sia economica sia autoregolativa) si veniva formando

una rappresentazione cristiana della ricchezza privata e pubblica fortemente normativa e

prescrittiva, dotata inoltre di una coerenza discorsiva e pratica che le avrebbe consentito di

condizionare se non addirittura di strutturare gradualmente i multiformi linguaggi economici della

società cristiana bassomedievale. Nel cuore linguistico e teoretico del codice economico

francescano è collocato fermamente il denaro come oggetto astratto e concreto da definire e

comprendere al fine di valutarne il senso reale e i significati potenziali. Molto schematicamente si

potrà sintetizzare questo processo analitico distinguendolo in tre fasi concettuali strettamente legate

l’una all’altra e non necessariamente ordinate cronologicamente secondo la sequenza qui esposta.

La prima di queste fasi intende il denaro come oggetto fisico utile a mediare lo scambio, ma

nella sua concretezza storica e valutaria non in possesso di caratteristiche tali da farne realmente

quello che oggi si direbbe un “equivalente universale”: da Francesco all’Olivi, ma anche da

Peckham a Scoto ed Eiximenis, il rifiuto di possedere denaro allude in tutta chiarezza

all’impossibilità della pecunia intesa come oggetto determinato storicamente di quantificare il

prezzo e il valore degli oggetti necessari, a definire quindi con ragionevole esattezza il rapporto fra

il loro valore d’uso e il loro valore di scambio. In questa fase, il denaro appare nella

concettualizzazione minoritica come oggetto fortemente determinato nei suoi movimenti da logiche

dello scambio prevalentemente controllate da poteri signorili e locali, di conseguenza funzionale

alla realizzazione di ricchezze tesaurizzate ed immobili. Da questo punto di vista già il primo

francescanesimo lo denuncia come feticcio e come obiettivo di comportamenti asociali, dunque

come frammento metallico coniato incapace di far funzionare il mercato mediando le relazioni, oltre

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che economiche, più ampiamente interpersonali. Questo è il denaro da rifiutare: è il denaro-scarto

che Francesco butta dalla finestra, e con il quale bisogna rifiutare ogni contatto. Si tratta di un

denaro totalmente tangibile, completamente risolto nelle monete che lo traducono, e tutto sommato

arcaicamente sterile vista appunto la sua opaca e artificiale fisicità: desiderarlo corrisponde, per il

primo francescanesimo come pure per la Scuola minorita successiva, ad atteggiamenti di cupiditas

accumulatrice e monopolistica in se stessi rivelatori di una estraneità ai valori sociali apostolici ed

evangelici propugnati dai frati minori.

Una seconda fase di concettualizzazione francescana del denaro lo individua come elemento

essenzialmente astratto della ricchezza di un territorio: il denaro appare in questo caso come unità di

misura del valore di mercato delle cose utili, ma perché questa sua natura si riveli deve essere

maneggiato e pensato da professionisti delle relazioni sociali competenti ossia in grado di leggere

nei movimenti del denaro, ossia delle ricchezze che essi mediano, altrettanti processi di

aggregazione sociale eticamente validi. In questa chiave, il denaro fa funzionare la società dei

cristiani e può essere utilizzato, sia dagli amici spirituali dell’Ordine, sia dai mercanti, sia dai laici

di diversa condizione, purché ciascuno di questi gruppi abbia chiaro lo specifico scopo sociale del

proprio agire, percepisca dunque nel denaro l’instrumentum adatto a soddisfare bisogni verificati

come proporzionati alle diverse condizioni, quella dell’Ordine dei minori, quella della società

commerciale e quella familiare, intese tutte insieme come componenti della civitas dei cristiani.

Questo denaro-misura, in altre parole, è dichiarato legittimo a partire dalla riconosciuta capacità dei

gruppi sociali che ne fanno uso di riconoscere nei propri bisogni altrettanti attimi del bonum

commune, a sua volta pensato dai francescani, almeno a partire da Bonaventura, come

avvicinamento storico all’ideale cristiano controllabile da parte degli esperti consacrati della fede.

Da questa prospettiva, il denaro può soddisfare le esigenze di frati e cives, può attivare il commercio

e legittimamente arricchire tramite i mercatores la respublica christianorum: Francesco può quindi

stabilire che in certe terre i frati hanno il diritto di indossare lane e pellicce, ossia sono autorizzati a

farsele acquistare, Peckham può sottolineare che il controllo dei propri bisogni da parte dei frati

lascia più risorse in circolazione, che dunque la mancata accumulazione consente una maggiore

fluidità di scambio in sé benemerita, e Olivi può soffermarsi sia sul diritto/dovere dei mercanti di

avere molto denaro a disposizione per poter sopperire ai bisogni della comunità a cui appartengono,

sia di alimentare questa disponibilità con profitti a loro volta derivati dal riconoscimento pubblico

della loro utilità sociale. In questi e in altri analoghi casi, l’uso appropriato del denaro e delle

monete rivela la collocazione socialmente centrale di chi è capace di far muovere il denaro e le

monete. Il valore sociale di queste persone e di questi gruppi dipende dalla loro comprensione della

natura approssimativa del valore dei beni utili e dalla loro capacità di leggere nel denaro più che una

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merce un criterio di apprezzamento relativo, ossia di stabilire la fondamentale non fisicità del

denaro e dunque la perversità tanto etica quanto economica di chi voglia ammassarlo, vista la

basilare non appartenenza che lo caratterizza in quanto strumento valutativo. Non per caso, come

Giovanni Ceccarelli, Sylvain Piron, Roberto Lambertini e Joel Kaye hanno variamente mostrato,

una chiave semantica di questa categorizzazione del denaro come non-cosa e del mercato come

insieme sociale scandito da strategie piccole o grandi di valutazione è costituita dalla parola

latitudo.22 Indicando la pressoché infinita dilatabilità del valore delle merci e delle cose utili, questa

parola rinvia al denaro come segno in grado di orientare nella selva degli apprezzamenti soggettivi e

collettivi, sia in forza della sua natura numerale, sia grazie all’idoneità valutativa di cui esso, stando

alla Scuola francescana, consente l’emersione in soggetti professionalmente competenti.

Una terza fase del percorso concettuale di cui si sta dicendo, terza, lo si vuol ripetere, né

logicamente né cronologicamente, è costituita dalla raffigurazione francescana del denaro come

modello storico della ricchezza produttiva. Il denaro posseduto e utilizzato dai protagonisti

accreditati della vita sociale cessa di essere un oggetto morto e può quindi, vivificato dalla

reputazione di chi lo detiene, produrre altre forme di ricchezza: riprodursi, dunque, poiché lo si

presume in ogni caso, visto il ruolo dei suoi possessori, destinato ad aumentare il bonum

commune23. Non è soltanto il denaro dei mercanti riconosciuti come tali pubblicamente a poter

produrre legittimamente altro denaro, come risulta dall’opera economica di Pietro Olivi o di Guiral

Ot; anche il denaro che i francescani o altri probi viri ricavano dalla liquidazione della ricchezza

immobilizzata in arredi sacri o in beni pubblici, come avviene nell’episodio emblematico della vita

di Francesco riguardante la vendita degli arredi dell’altare della Vergine a Santa Maria della

Porziuncola al fine di sostentare i pellegrini, è ritenuto dalla tradizione dell’Ordine come un denaro

capace, in prima istanza, di produrre beni utili, e in seguito di riprodursi così da poter risarcire

l’Ente consacrato da cui provenne24. La pecunia, in altre parole, può apparire solidificata in oggetti

preziosi e ornamentali ancorché sacri, oppure congelata in monete tesaurizzabili: essa, però, può

anche dissoversi in una utile e pubblica circolazione di valori produttiva e riproduttiva di ricchezza.

Perché questo possa accadere, però, è necessario, dal punto di vista della Scuola minorita, che la

pecunia in questione venga controllata da soggetti che, come appunto i mercanti e i francescani

stessi, ne conoscano la natura di segno storicamente specifico e localizzato di una ricchezza in se

22 J. Kaye, op. cit.; R. Lambertini, La povertà pensata, Modena 2000; S. Piron, Perfection évangelique et moralité civile: Pierre de Jean Olivi et l’éthique économique franciscaine, in Ideologia del credito fra Tre e Quattrocento: dall’Astesano ad Angelo da Chivasso, Asti (Centro Studi sui Lombardi e sul Credito nel Medioevo), 2001, pp. 103-43; G. Ceccarelli,“Whatever Economics” Economic Thought in Quodlibeta, in Theological quodlibeta in the Middle Ages, vol. 1, C. Schlabel ed., Brill, Leiden, in corso di stampa.23 R. Kempshall, The common good in late medieval political thought, Oxford 1999.24 G. Todeschini, Ricchezza francescana, cit., p. 76 ss.

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stessa pubblica e generale, appartenente nell’insieme alla communitas christianorum25. Allorché il

denaro, comunque esso si manifesti, viene liberato dal suo immobilizzo, o dalla sua forma reificata,

ad opera di soggetti riconosciuti dalla comunità dei cristiani quali professionisti per definizione

dediti alla gestione degli affari pubblici (della pubblica felicità si sarebbe detto secoli dopo), questo

denaro appare dotato di una natura fruttifera. Esso dunque diviene pensabile come razionalmente

produttivo di altre ricchezze, tanto monetarie quanto composte di beni di consumo. In questa terza

fase della concezione francescana del denaro, la pecunia, ridotta a questo punto a rappresentazione

mentale del valore utile delle cose percepito da fideles competenti, nel momento in cui può

riprodursi grazie al fatto di essere posseduta da cives di provata fede economica, assegna a costoro,

proprio in virtù della fertilità che grazie a loro rivela, il più alto grado di appartenenza alla civitas

christianorum.

Si potrà rapidamente riassumere questa triplice prospettiva francescana dicendo che, se il

denaro dell’usuraio o dell’infedele li esclude dalla città, e il denaro dell’artigiano o del mercante

considerati credibilmente onesti fa di loro dei cittadini accettati, il denaro reso fertile dai più

economicamente esperti e probati fra i cives, i poveri volontari e gli esperti della finanza, segna

costoro come centrali alla civitas.

La riflessione o per dire meglio l’esperienza francescana concernente il denaro è

caratterizzata da una particolare sistematicità, presumibilmente dipendente dal fatto che, nella

relazione con il denaro e con la nozione di bisogno relativo, i francescani dopo Francesco scoprono

la chiave in grado di decifrare una povertà volontaria declinabile sia come scelta dottrinale, sia

come prassi quotidiana ed esemplare. E’ tuttavia evidente che, su piani differenti, meno strutturati e

cronologicamente continui, oltre che più nettamente accademici, molti altri autori-testi, a partire

soprattutto dagli anni ’80 del Duecento, affrontano il problema della pecunia come oggetto

variamente concretizzato ma in ogni caso rinviante all’identità sociale ed etica di chi lo maneggi.

Specialmente la distinzione fra denaro e diritto di riscuoterlo, così appassionatamente discussa nei

quodlibeta e nelle quaestiones riguardanti la legittimità e la legalità della compravendita delle

rendite ecclesiastiche, una distinzione che scivolerà fino alle controversie sul debito pubblico

trecentesche, ci comunica che, da Innocenzo IV a Enrico di Gand, da Riccardo di Mediavilla a

Egidio di Lessines, si generalizza nell’ultima parte del Duecento la sensibilità per i modi nei quali il

denaro, inteso come prezzo pagabile per una merce che può anche essere costituita da una lunga

serie di profitti in natura o monete, qualifica le persone che lo percepiscono26. Maestri domenicani,

25 Cfr. P. Evangelisti, I Francescani e la costruzione di uno Stato. Linguaggi politici, valori identitari, progetti di governo in area catalano-aragonese, Padova 2006.26 O. Langholm, Economics in Medieval Schools. Wealth, Exchange, Value, Money and Usury, according to the Paris Theological Tradition. 1200-1350, Leiden 1992; Idem, The Merchant in the Confessional. Trade and Price in the Pre-Reformation Penitential Handbooks, Leiden 2003.

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francescani o secolari si trovano d’accordo sul fatto che la intentio pura et recta può essere

presupposta nel caso di compravendita dei censi o delle rendite ecclesiali poiché tale commercio

avviene nell’ambito di relazioni istituzionali intese come vitali per la societas dei cristiani: il

denaro, in questo caso, equivale ad un diritto di riscossione, esso dunque indica e quantifica il grado

di appartenenza di chi lo contratta alla comunità dei fedeli.

E’ però spesso sfuggito alla storiografia che in questi dibattiti, sulla compravendita delle

rendite a tempo o a vita27, quello che sta al centro della questione o della controversia è, ben più che

la natura sterile o fertile del denaro, il problema assai concreto e politico costituito dal significato

etico, sociale e religioso dell’identità di chi praticava ogni giorno questa transazione. Sullo sfondo

simultaneo di un’accelerata civiltà finanziaria e di un pauperismo in grado di sintetizzare secoli di

elaborazione canonica sul significato della ricchezza privata e pubblica, si veniva definendo

rapidamente il privilegio di attivare e moltiplicare il denaro di chi si collocava per fede, per

professione pubblicamente riconosciuta, per carisma, nel settore degli ufficialmente credibili28.

Dalle dispute parigine sui censi intorno al 1280, fino alle discussioni e ai trattati fiorentini sul

prestito pubblico della seconda metà del Trecento, si approfondisce l’abisso che nettamente separa

il denaro venduto dall’usuraio al suo debitore, dal denaro che il civis presta al comune o alla chiesa

per ottenerne in restituzione un pagamento periodico. La distanza abissale che corre fra il nero

significato peccaminoso ovvero fra l’insignificanza economica del denaro usurario e la nitida

luminosità civica e il significato produttivo riconosciuti universalmente al denaro impiegato nel

commercio delle rendite o nei prestiti pubblici non dipende, tuttavia, semplicemente dall’abilità

retorica con la quale gli Scolastici delle diverse Scuole riescono a distinguere fra pecunia e ius

percipiendi, ma piuttosto dal fatto che in questa abilità assume forma linguistica la percezione

ormai socialmente diffusa della differenza incolmabile esistente fra chi è parte della città dei

cristiani e chi non ne è parte: una differenza cifrata con precisione dal denaro e dalle tecniche del

suo utilizzo.

E’ dunque in questa nozione, fortemente categoriale, del denaro o dell’uso del denaro come

segno di un’appartenenza intesa in sé come potenzialmente salvifica, che si radica il più noto

discorso economico quattrocentesco, che. da Bernardino da Siena a Gabriel Biel per numerosi

tramiti fra cui ricorderemo solo quello, essenziale di Angelo da Chivasso, indica nel denaro il

sangue e il calore naturale della civitas. Tanto è possibile non già perché d’improvviso Bernardino,

Antonino, Giovanni da Capistrano, Angelo da Chivasso o Jacob de Clusa intuiscano o

razionalizzino secondo procedure mentali d’improbabile modernità le logiche di un universo

27 Rimane fondamentale F. Veraja, Le origini della controversia teologica sul contratto di censo nel XIII secolo, Roma 1960.28 G. Todeschini, I mercanti, cit., pp. 311 ss.

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finanziario o monetario in espansione, ma piuttosto perché avvalendosi degli strumenti interpretativi

e cioè dei vocabolari di cui dispongono sono in grado di rappresentarsi il denaro come oggetto

astratto e concreto adatto a scandire la vita cittadina in termini di utilità o di sterilità teologica e

morale. Il denaro appare loro, sia in quanto pecunia ovvero ricchezza complessiva delle città, sia in

quanto nummi specificamente coniati che solo in parte la concretizzano, come l’elemento chiave per

chiarire il senso etico e religioso delle presenze civiche. La circolazione, l’immobilizzo,

l’investimento o la tesaurizzazione del denaro sono raffigurati frequentemente con metafore

organiciste, con termini medici, poiché nettamente, stabilita la capacità del denaro di segnare e

contrassegnare l’affidabilità dei soggetti, di renderla dunque tangibile, questa fisica credibilità

rinvia, per così dire naturalmente, ad un’altra credibilità, quella metafisica che garantisce o può

garantire la Salvezza. L’insistenza con la quale da Bernardino da Siena a Konrad Summenhart si

tende ormai ad assimilare l’usura alla infidelitas ebraica ed entrambe a una sorta di maligno corpo

estraneo da estirpare29 per rendere possibile la salute e la salvezza dell’organismo mistico costituito

dalla civitas, ci mostra che il denaro è ormai da loro percepito come ente reale e allo stesso tempo

simbolico. Proprio perché, ai loro occhi di teologi-economisti, la concretezza del denaro viene

investita dalla luce carismatica di un potere in grado di renderla autentica cifra del valore, questo

oggetto è in grado di rappresentare la qualità ossia l’appartenenza delle persone e dunque la loro

possibilità di salvezza.

La circolazione del denaro è, pertanto, descritta, nelle loro opere, sia nei termini di una

simbologia della Salvezza (o, come si vedrà meglio fra poco, della relazione fra Dio e creature), sia

nei termini di un’effettiva realtà economica, centrale per la comprensione della vita delle chiese e

della Chiesa come riassunto della Città. Simbolo, allegoria e descrizione dei movimenti delle

monete giungevano alla scrittura di questi teologi del Quattrocento indistricabilmente uniti dalla

logica stessa dei testi teologici che, nel precedente Medioevo, si erano soffermati sull’economia dei

cattolici intendendola come manifestazione quotidiana di un sistema di relazioni interpersonali la

cui utilità doveva costantemente essere decifrata nella doppia prospettiva dell’immanenza e della

trascendenza.

Questa raffigurazione teologica del denaro come equivalente dei valori in grado di mediare

vari tipi di scambio e pertanto fondamentale nella costruzione della utilitas ecclesiarum et

civitatum, conteneva tuttavia in sé un’altra raffigurazione del denaro, più tecnica ai nostri occhi e in

certo modo più comprensibile per noi. Tale concettualizzazione, avvertibile soprattutto negli scritti

monetari dal secondo Quattrocento, faceva del denaro un sistema totalmente storico di

rappresentazione del valore di cose, persone e relazioni, reso visibile e manifesto dalle valute

29 Ivi, pp. 302 ss.

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correnti o dalle transazioni finanziarie specifiche, ma esistente contemporaneamente come oggetto

complessivo e universale percepibile in se stesso al di là delle monete e dei contratti che lo

concretizzavano. Un esempio fondamentale di questa tipologia rappresentativa ci viene offerta

nella sezione che chiameremo monetaria del De ludo globi di Niccolò Cusano30.

In questo scritto del 1463, il cardinale di Cusa, in veste non di politico o di teologo o di

ecclesiologo, ma piuttosto di cosmologo, manifesta, nell’ambito di una riflessione abitualmente

considerata rilevante per la storia della razionalità scientifica occidentale (il De ludo globi sarà

utilizzato da Copernico e Galilei), un’attenzione tutta speciale per la relazione fra moneta e denaro:

ossia fra moneta come oggetto coniato e denaro come insieme astratto di ricchezza circolante.

Come è stato fatto notare dall’editore di questo testo, Johann Gerhard Senger, e recentemente da

Ulli Roth, ciò avviene nell’ambito di una descrizione metaforica della relazione fra capacità

creatrice di Dio e possibilità razionali dell’uomo, una abitudine a metaforizzare in termini monetari

la potenza divina e la capacità umana di riconoscere questa potenza, ricorrente del resto nell’opera

di Cusano e di dichiarata derivazione agostiniana. Bisogna precisare che – come avviene

abitualmente per le metafore presenti nella testualità premoderna – anche la metafora monetaria, di

cui Cusano fa uso, traduce in parole teorie e discorsi, monetaristici nel nostro caso, che nei secoli

successivi sarebbero stati contenuti da testi più esplicitamente finalizzati, ossia ai nostri occhi più

consapevolmente scientifici. Si può dunque ben comprendere che quando Cusano fa uso di metafore

monetarie per parlare del rapporto fra Dio, raffigurato quale monetarius, ossia creatore di moneta

coniata a sua immagine, e intelletto umano rappresentato come nummularius, ossia cambiavalute e

banchiere in grado di intendere e scambiare il valore delle monete concretamente coniate, tutta

l’esposizione, intesa a descrivere la necessità di una consapevolezza della creazione da parte

dell’intelletto creato, rinvia immediatamente ad una razionalizzazione del significato storico di

denaro e monete31. Il binomio denaro-monete appare dunque sia come oggetto complesso

tangibilmente concreto, finito e circostanziale, sia come ente politico e simbolico largamente 30 Cfr. sopra, la nota n. 9.31 Nicolò Cusano, De ludo globi, ed. cit.: “Dum autem tu in te ipso hoc verum vides, quid valet ille tuae mentis oculus in sua virtute valorem omnem discernens ? Nam in ipso visu valor omnium et valores singulorum sunt, sed non ut in valore valorum. Non enim propterea quia mens videt id quod omnia valet, ideo ipsa omnia valet. Non enim sunt in ipsa valores ut in sua essentia, sed ut in sua notione. Est enim valor ens reale, sicut et valor mentis est ens aliquid et ens reale. Et ita est in deo ut in essentia valoris; et est ens notionale, et quasi cognosci potest, et ita est in intellectu ut in cognoscente valorem, non ut in maiori valore aut ut in causa et essentia valoris. Nam per hoc quod intellectus noster cognoscit minorem aut maiorem valorem, propterea non est maior aut minor valor, quia haec cognitio essentiam valori non praestat. …Nonne sic vides alium essendi modum monetae in arte omnipotentis monetarii ? Alium in monetabili materia ? Alium in motu et instrumentis ut monetatur ? Alium ut est actu monetata ? Et hi omnes modi circa esse ipsius monetae consistunt. Deinde est alius modus, qui circa illos essendi modos versantur, scilicet ut est ratione discernente monetarum. Id quod facit monetam seu numisma, imago seu signum est eius cuius est, quod, si est monetarii, ipsius habet imaginem, puta faciei suae similitudinem, ut christus nos docet, quando ostenso numismate interrogavit, cuius esset imago et responsum est ei Caesaris. Facies notitia est, per faciem discernimus unum ab alio. Una est igitur facies monetarii, in qua cognoscitur et quae ipsum revelat, quae aliter esset invisibilis et incognoscibilis. Et huius faciei similitudo, cum sit in omnibus numismatibus, non nisi notitiam seu faciem monetarii, cuius est moneta, ostendit. Neque aliud est imago quam nomen suprscriptum.” Sottolineatura nostra.

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trascendente la specificità delle sue manifestazioni. La circolazione del denaro diviene, allora,

pensabile in una duplice prospettiva: in primo luogo come transizione dalla ricchezza creata dal

potere del monetarius, e da tale potere virtualmente autenticabile, alla ricchezza concreta e finita

degli operatori economici che si avvalgono dell’abilità del banchiere-cambiavalute; in secondo

luogo, come dialettica che, mediante appunto la competenza del banchiere, connette fra loro i

patrimoni dei soggetti presenti sul mercato ovvero di chi si trovi all’interno della società economica

che a sua volta riconosce la legittimità delle coniazioni. Com’è evidente, il punto centrale di questa

dottrina, è rappresentato tanto da una nozione di legalità o legittimità del denaro determinata

dall’autenticità del potere che lo crea, quanto da un criterio di autenticazione delle transazioni, che

danno vita storica al denaro inteso come insieme di monete differenti, e alle monete come oggetti

segnati, fondato sulla consapevolezza da parte degli operatori economici di appartenere al sistema

“finanziario”, ossia alla semantica, originati da quel potere32. Al di là della affermazione da parte di

Niccolò Cusano della relazione forte fra valore delle cose create e valore dell’intelletto che le

32 Ivi: "Cardinalis : Dum profunde consideras, intellectualis naturae valor post valorem dei supremus st. Nam in eius virtute est dei et omnium valor notionaliter et discretive. Et quamvis intellectus non det esse valori, tamen sine intellectu valor discerni, etiam ni quia est, non potest. Semoto enim intellectu non potest sciri an sit valor; non existente virtute rationali et proportionativa cessat aestimatio, qu non exsistente utique valor cessaret. In hoc apparet pretiositas mentis, quoniam sine ipsa omnia creata valore caruissent. Si igitur deus voluit opus suum debere aestimari aliquid valere, oportebat inter illa intellectualem creare naturam. Albertus: Videtur quod si deum ponimus quasi monetarium, erit intellectus quasi nummularius. Cardinalis: Non est absurda haec assimilatio, quando concipis deum quasi omnipotentem monetarium, qui de sua excelsa et omnipotenti virtute producere potest omnem monetam. Ac si quis tantae potentiae esset quod de manu sua quamcumque vellet monetam produceret et statueret nummularium habentem in sua virtute omnium monetarum discretionem et numerandi scientiam monetandi arte tantum sibi reservata, nummularius ille nobilitatem monetarum et valorem, numerum, pondus et mesuram [cfr. N. Cusano, Sermones, 118, 202, 249, ed. cit.], quam a deo moneta haberet, patefaceret, ut pretium ipsius monetae et valor atque per hoc potentia monetarii nota fieret, apta foret similitudo. … Nullum animal est adeo obtusum quod se ab aliis non discernat et in sua specie alia eiusdem speciei non cognoscat. Sed vivens vita intellectuali omnia intelligibiliter, hoc est omnium in se notiones reperit. Complicat enim vis intellectiva omnia intelligibilia. Omnia quae sunt, intellegibilia sunt, sicut omni colorata sunt visibilia. Excedunt aliqua visibilia visum, ut excellens lux. Et aliqua adeo minuta sunt quod non immutant visum; et illa directe non videntur. Videtur enim excellentia lucis solaris negative, quia id quod videtur non est sol, cum tanta sit lucis eius excellentia quod videri nequeat. Sic id quod videtur non est indivisibilis punctus, cum ille sit minor quam quod videri potest. Eo modo intellectus videt negative infinitam actualitatem seu deum et infinitam possibilitatem seu materiam. Media affirmative videt in intelligibili et rationali virtute. Modos igitur essendi, ut sunt intelligibiles, intelelctus intra se ut vivum speculum contemplatur. Est igitur intellectus ille nummus, qui et nummularius, sicut deus illa moneta, quae et monetarius. Quare intellectus reperit sibi congenitam virtutem omnem monetam cognoscendi et numerandi. Quomodo autem vivus ille nummus, qui intellectus, in se omnia intellectualiter quaerens reperiat, exemplum aliquale capere potes in his, quae ego in intellectum respiciens propalavi. Quae acutius quam ego subintrans praecisius videre et revelare poterit. Et haec sic de monetario et nummulario dicta sint. Albertus: Abunde quae simpliciter protuli adaptasti. Illud solum pro mea instructione audias. Videtur enim quod velis dicere: Si florenus papalis viveret vita intellectualis, utique se florenum cognosceret et ideo monetam illius, cuius signum et imaginem haberet. Cognosceret enim quod a se ipso esse floreni non haberet, sed ab illo, qui suam imaginem ei impressisset, et per hoc quod in omnibus vivis intellectibus similem videret imaginem, eiusdem omnes monetas esse cognosceret. Unam igitur faciem in signis omnium monetarum videns unam aequalitatem, per quam omnis moneta esset actu constituta, videret omnis possibilis eiusdem monetae causam; etiam bene videret, cum sit moneta monetata, quod fieri potuit moneta et fuit prius monetabilis antequam actu monetata; et ita in se videret materiam, quam impressio signi determinavit esse florenum; et cum sit moneta eius, cuius est signum, tunc esse suum haberet a veritate, quae est in signo, non a signo materiae impresso quodque una veritas in variis signis varie materiam determinat. Non enim possunt esse plura signa, nisi concomitetur pluralitatem varietas, nec potest veritas in variis signis nisi varie materiam determinare. Ex quo evenit non posse nisi omne numisma cum alio numismate concordare, cum sint nummi concordantes in eo quod eiusdem sunt monetae, et differentes, cum inter se sint varii. Talia quidem et multa alia in se vivum ille florenus videret."  

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conosce (Est enim valor ens reale, sicut et valor mentis est ens aliquid et ens reale), ossia di una

relazione che stabilisce il valore della mente a partire dalla sua capacità di apprezzare i valori che la

istituiscono e in cui essa si riconosce, il recupero cusaniano dell’immagine agostiniana dell’uomo

come moneta animata e intelligente nella prospettiva, capovolta, offerta dalla immagine di una

moneta senziente e consapevole (Si florenus papalis viveret vita intellectualis), fa del testo che

stiamo considerando un tramite efficace della nozione che fonda la autenticità del valore dei

soggetti sulla loro consapevolezza di far parte di un ordine o di un sistema di valori, anche, ma non

solo, economici. L’uomo-moneta che sa di appartenere a quest’ordine e che lo riconosce ovvero che

lo convalida, appare come il depositario di una ricchezza immateriale, a sua volta in grado di

autorizzarlo ad agire economicamente secondo criteri presumibilmente etici. Il denaro, se percepito

come elemento di un tale più ampio sistema di valori, include chi lo possiede nello spazio di una

socialità che tendenzialmente identifica l’etico con l’economico.

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