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ABUSO DEL DIRITTO IN MATERIA PENALE ED EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE
Il cosiddetto abuso del diritto si può qualificare come limite all’esercizio di un determinato
diritto soggettivo. Si tratta di una costruzione giuridica la cui venuta a esistenza è dipesa
dal fatto che spesso, nella realtà quotidiana, l’esperienza evidenzia uno scostamento
ineliminabile e irresolubile fra singole previsioni di legge ed esigenze della società. Si
constata con sempre maggiore frequenza che le direttive con cui il diritto sceglie di
regolamentare controversie, rapporti, conflitti di interesse non rispondono alle modalità di
sistemazione ritenute ottimali dalla collettività.
Si comprende pertanto che lo strumento concettuale rappresentato da una figura dai
contorni incerti come l’”abuso del diritto” possa rappresentare una chiave di soluzione o
un modo per colmare la divergenza fra previsioni di legge e rapporti economici o personali.
Funzione della figura allo studio è quindi quella di “riporre uno strumento nelle mani dei
giuristi per introdurre una forma di correzione nelle regole del diritto”.
Sotto il profilo morfologico l’abuso del diritto si compone sempre di due elementi: da un
lato appare un’attività che risulta conforme all’esercizio del diritto soggettivo e, dall’altro,
un quid pluris costituito da un ulteriore elemento dequalificante che va a degradare
quell’attività, portandola fuori dall’ambito di protezione del diritto soggettivo. Quindi c’è
un pezzo di dna giuridico corretto, appartenente alla fattispecie contemplata
dall’ordinamento e dall’altra un pezzo di dna “mutante” che determina la trasformazione
dell’esercizio del diritto soggettivo impedendo la possibilità di ricevere protezione da parte
dell’ordinamento ed, anzi, determinando una reazione di senso opposto, sanzionatoria al
comportamento stesso.
L’AFFERMARSI DELL’ABUSO DEL DIRITTO NELL’ESPERIENZA ITALIANA
Come è noto nella Costituzione italiana manca una qualsiasi clausola generale che vieti in
maniera espressa di abusare di un diritto o di un potere. Tuttavia l’impostazione
solidaristica e comunitaria di numerose disposizioni della Carta Costituzionale ha spinto
vari autori a rinvenire nella medesima un fondamento rispetto a istituti e figure come
l’abuso del diritto o la buona fede contrattuale. Si fa riferimento alle norme di cui agli artt.
2, 3 c. 2, 41 e 42 della Costituzione.
Partendo da questa base normativa è stata la giurisprudenza ad assumersi l’onere di una
interpretazione adeguatrice delle disposizioni ordinarie rispetto ai precitati principi
fondamentali.
Detta interpretazione si è sviluppata a partire dalla materia dei diritti reali (art. 833 c.c.) per
estendersi poi ai rapporti contrattuali, alla disciplina delle assicurazioni e delle società per
azioni. Successivamente si è giunti ad un riconoscimento definitivo della rilevanza della
figura dell’abuso del diritto e del suo inserimento nel nostro ordinamento. Ciò è avvenuto
principalmente con le decisioni della Cassazione civile Sezioni Unite n. 30055, 30056,
30057 del 23/12/2008 quando il Supremo Collegio spinto dalla Corte di Giustizia in materia
tributaria ha individuato la nozione di abuso del diritto per fronteggiare l’espandersi dei
comportamenti di elusione tributaria dei contribuenti. In particolare le sentenze hanno
ammesso la sanzionabilità del compimento di atti pur non espressamente vietati, qualora
ritenuti dal Giudice come attuati al solo scopo di ottenere una riduzione del carico
d’imposta.
LA RILEVANZA PENALISTICA DELL’ABUSO DEL DIRITTO
Dottrina e giurisprudenza si sono posti il problema se il cosiddetto divieto di abuso del
diritto abbia una rilevanza anche all’interno dell’ordinamento penale e in particolare se le
condotte sussumibili nel concetto di abuso del diritto, elusione della legge nazionale,
comportamenti in frode alla legge, possano essere sanzionati quali reati.
Secondo una più risalente e fino a non molto tempo fa prevalente opinione la risposta era
negativa. Si riteneva che sanzionare in sede penale comportamenti conformi al diritto sulla
base della sola finalità che l’agente persegue con la sua condotta significherebbe dare al
giudice un potere di interpretazione troppo discrezionale. Infatti, i limiti per l’esercizio del
diritto non risulterebbero solo sulla base di quanto espressamente dispone la norma che
attribuisce la facoltà esercitata, ma sarebbero ricostruiti alla luce degli obbiettivi (nella
ricostruzione del Giudice) che l’ordinamento intende perseguire con il riconoscimento al
singolo del diritto esercitato nel caso concreto.
Perciò secondo il pensiero liberale e in una prospettiva individualistica si determinerebbe
una pericolosa intrusione dello Stato nella sfera di libertà dei singoli.
Questa interpretazione è oggi da considerarsi in gran parte superata dopo l’elaborazione
che dei principi solidaristici della Costituzione è stato fatto. Infatti, secondo dette
interpretazioni, l’esercizio dei diritti soggettivi deve conciliarsi con la rete di interessi
perseguiti dalla comunità politica nel suo complesso.
A prescindere dai diversi convincimenti è un dato di fatto che quanto meno, a decorrere
dal 2011, la giurisprudenza penale maggioritaria (e in particolare con la decisione
Cassazione sezione seconda 22/11/2011 n. 252019 Dolce e Gabbana cui ha fatto seguito la
conforme decisione Cassazione sezione quinta 23/05/2013 Della Gatta) ha sostenuto che la
violazione penalmente rilevante della normativa fiscale può realizzarsi, non solo con la
realizzazione delle fattispecie penali p.p. dagli artt. 2, 3 , 4 D.lvo n. 74/2000, ma anche per il
tramite della conclusione di atti negoziali, con l’utilizzo di scelte imprenditoriali di per sé
conformi ai poteri e ai diritti del contribuente e dell’imprenditore, ma che in ragione delle
finalità in concreto perseguite, (risparmio fiscale o integrale omesso versamento
dell’imposta) realizzano una condotta vietata.
Si è ribattuto dai sostenitori della tesi dell’estraneità penalistica dell’abuso del diritto che
proprio queste decisioni sono la prova dell’eccessiva dilatazione giurisprudenziale di figure
penalmente rilevanti non previste però dal legislatore attraverso l’individuazione di norme
di diritto sostanziale. In contrario avviso rispetto a quest’ultima tesi si osserva che, in
realtà, sono numerose nell’ordinamento penale le fattispecie incriminatrici costituenti
manifestazione di condotte di esercizio smodato e illecito di proprie facoltà giuridiche e
negoziali. (Es. art. 388 c. 1 c.p. che riguarda la mancata esecuzione dolosa di un
provvedimento del giudice attraverso il compimento sui propri beni di atti simulati o
fraudolenti). In questi casi si è in presenza di un soggetto nel pieno possesso del suo titolo
di proprietario del bene che vede sanzionate alcune forme di utilizzo della sua cosa quando
tale scelta, formalmente lecita, sia accompagnata dal perseguimento di una particolare
finalità fraudolenta mirata ad aggirare obblighi civili nascenti da sentenza di condanna.
Altrettanto a dirsi per l’art. 388 ter c.p. dove il soggetto passivo del reato non è un qualsiasi
creditore, ma l’amministrazione statale e per il reato di bancarotta fraudolenta per
distrazione o di bancarotta semplice patrimoniale (artt. 216-217 l.f.) dove la dichiarazione
di fallimento legittima l’autorità giudiziaria a riconsiderare l’intera attività imprenditoriale
svolta in precedenza dal fallito onde verificare se egli abbia o meno costantemente gestito
il proprio patrimonio per il raggiungimento del miglior risultato economico. Ciò significa
che, intervenuto il fallimento, gli atti di disposizione patrimoniale posti in essere dal fallito
(i quali prima della dichiarazione di fallimento erano ritenuti assolutamente leciti
dall’ordinamento) vengono qualificati in modo diverso dal legislatore proprio perché
l’avvenuta insolvenza dell’imprenditore segnala che vi è stato un illecito utilizzo di beni da
parte del singolo proprietario il quale ha lasciato insoddisfatti alcuni soggetti cioè creditori
che vantano nei suoi confronti legittime pretese.
Anche nel diritto penale tributario sono presenti ipotesi sanzionatorie di abuso del diritto
quale l’art. 11 d.l.vo n. 74/2000 che ha evidente analogia con i reati citati di cui all’art. 388
c.p. e 216 legge fallimentare oppure il caso del delitto di utilizzo di fatture per operazioni
inesistenti e in particolare l’ipotesi in cui tale delitto è realizzato ponendo in essere “frodi
carosello”.
Non si può però negare che fattispecie simili delle quali nessuno ha mai messo in dubbio la
legittimità si pongano anch’esse in possibile contrasto con i principi di tassatività e
determinatezza del processo penale. Di ciò vi è dimostrazione nel fatto che le condotte
inerenti i reati sopra indicati non sono affatto tipizzate e sono descritte in modo assai poco
chiaro le condizioni in presenza delle quali il comportamento del singolo possa dirsi illecito.
Di fatto si determina un’imputazione “ad intermittenza” di diverse condotte le quali, in
alcuni momenti storici sono lecite e in altre circostanza sono qualificate come penalmente
rilevanti (es. bancarotta fraudolenta nella quale la volontà dolosa si esprime nel semplice
compimento di un atto estraneo all’esigenza dell’impresa senza che sia necessaria la
volontà di arrecare danno ai creditori e nella quale il reato si realizza solo se,
conseguentemente alle singole operazioni finanziarie, si determini il fallimento. Ove la
dichiarazione di fallimento non intervenga le stesse operazioni che avrebbero condotto ad
un’imputazione di bancarotta fraudolenta sono penalmente irrilevanti).
LA RILEVANZA DELL’ELEMENTO SOGGETTIVO NELL’ABUSO DEL DIRITTO
Una condotta di abusivo esercizio del diritto non si distingue affatto sotto un profilo
naturalistico dall’esercizio del medesimo diritto che abusivo non sia.
In un ambito civile o tributario o anche penale se un soggetto non adempie alla sua
obbligazione o un contribuente non paga il suo debito verso l’erario siamo in presenza di
un adempimento civile o fiscale o anche penale (vedasi per il penale l’art. 641 c.p.). Si
potrà poi stabilire se di queste fattispecie egli è responsabile secondo le leggi civili,
tributarie o penali, ma il fatto in se è di immediata comprensione perché il soggetto doveva
fornire una prestazione o versare un’imposta o pagare un debito, ma non l’ha fatto. Invece
nel caso di abuso del diritto la condotta materiale posta in essere non ci dice nulla circa il
suo disvalore, perché il soggetto esercita esattamente un diritto che l’ordinamento gli
riconosce. Le problematiche si accrescono ulteriormente con riferimento al fenomeno
dell’elusione che i più ritengono una particolare ipotesi di abuso del diritto allo stesso
sovrapponibile.
A questo punto appare necessario esaminare l’importante sentenza Halifax (Corte di
giustizia 21/02/2006 Halifax causa C-255/02) con cui la Corte di Giustizia ha ammesso il
ricorso alla nozione di abuso del diritto per consentire la tassabilità ai fini IVA di alcune
transazioni rivolte ad evitarne gli effetti. Nella vicenda in parola, a fronte di una serie di
transazioni poste in essere tra diverse società appartenenti al gruppo Halifax, al fine di
riuscire a recuperare l’intero importo dell’IVA dovuta, la Corte di Giustizia, pur in astratto
riconoscendo come legittimo il comportamento di chi articola la struttura delle proprie
operazioni in modo da ottimizzarne l’effetto fiscale, ha qualificato come abusiva tale
condotta per la sussistenza di due circostanze: da un lato viene negata legittimità ad
operazioni economiche e negoziali il cui effetto comporti il conseguimento di un vantaggio
fiscale in contraddizione con gli obbiettivi perseguiti attraverso la normativa comunitaria;
in secondo luogo, la programmazione fiscale viene qualificata come abusiva in quanto
presenta elementi obbiettivi che consentono di escludere la vera natura delle diverse
operazioni negoziali poste in essere di cui era occultato il carattere puramente artificioso,
in quanto per gli atti negoziali conclusi non esisteva una effettiva “business justification” ne
era rinvenibile una effettiva operazione economica.
Gli stessi principi sono stati ripresi e fatti propri dal legislatore italiano il quale, come noto,
ha espressamente tipizzato nel 1997 la figura dell’elusione fiscale ancorandola all’art. 37
bis d.p.r n. 600 del 1973, e affermando la non opponibilità all’amministrazione finanziaria
di atti, fatti e negozi (fra cui a) trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e
distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle
formate con utili; b) conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il
trasferimento o il godimento di aziende; c) cessioni di crediti; d) cessioni di eccedenza
d’imposta, ecc) “anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad
aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni
d’imposta o rimborsi altrimenti indebiti”.
Alla luce dei principi e delle norme sopra indicati diventa perciò fondamentale per
l’individuazione degli esatti limiti dell’abuso del diritto, esaminare le finalità per cui il
singolo ha agito. In breve: l’esercizio di un diritto è abusivo quando la condotta materiale è
assistita da una particolare condizione di volontà, quando cioè il soggetto agisce per
raggiungere obbiettivi non rientranti nella “ratio” che giustifica l’attribuzione, da parte
dell’ordinamento, del diritto dal singolo esercitato.
Si badi bene che con ciò non si tratta di affermare semplicemente che ogni azione o
condotta debba essere sorretta da una particolare volontarietà; l’affermazione sarebbe
ovvia specialmente nel diritto penale che impone perché si abbia un reato la presenza
dell’elemento soggettivo. Un conto però è porre in essere in modo cosciente e volontario
una condotta, un conto è farlo (sempre in modo cosciente e volontario) per una certa
finalità. In altri termini, nella fattispecie di abuso del diritto, considerare l’atteggiamento
soggettivo non serve a verificare la possibilità di sanzionare la condotta, ma comporta una
modifica della qualificazione della fattispecie stessa nel senso che lo stesso
comportamento viene considerato lecito se è tenuto per raggiungere certi fini e illecito se
tenuto per altri obbiettivi. Con la contestazione di una fattispecie di un abuso del diritto
l’ordinamento reagisce non ad un semplice comportamento volontario e consapevole
dell’agente, quanto alla circostanza che tale comportamento sia stato dettato da certe
considerazioni finalistiche.
Nell’ambito dei fatti esaminati dal diritto tributario, il soggetto pone in essere
normalmente una serie di operazioni negoziali e o societarie e o finanziarie, ma la
valutazione dell’ordinamento circa tali interventi non dipende dal contenuto degli stessi
quanto dagli obbiettivi che il contribuente vuole perseguire. Il giudizio su tali operazioni è
negativo se esse sono giustificate dal solo intento di realizzare un risparmio di imposta.
Questo tipo di elemento psicologico, nel quale si fa riferimento alle finalità che il soggetto
si riproponeva, colloca l’abuso del diritto nella categoria degli illeciti a dolo specifico.
Questo tipo di dolo è posto in essere quando una condotta (ad esempio la fusione fra
persone giuridiche o l’avere posto in essere una serie di operazioni economiche finanziarie
fra persone giuridiche all’interno di un gruppo), operazioni di per se consentite
dall’ordinamento, presenti un obbiettivo finalistico ulteriore rispetto al comportamento
tenuto e tale obbiettivo sia considerato negativamente dal legislatore (esempio
l’obbiettivo di ottenere esclusivamente un risparmio di imposta).
PARAMETRI ALLA STREGUA DEI QUALI SI INDIVIDUA L’ELEMENTO SOGGETTIVO
Mentre per i reati per i quali l’elemento oggettivo (cioè la condotta) già evidenzia la sua
contrarietà all’ordinamento e alla fattispecie incriminatrice considerata, l’esistenza
dell’elemento soggettivo quasi si presume. Ciò avviene con l’applicazione
dell’automatismo deduttivo sottinteso dal canone “dolus est in re ipsa” secondo una
concezione del dolo come substrato psicologico necessariamente immanente al fatto
immateriale, (e per esempio, in tema di omicidio, la prova del dolo è abbastanza facile
perché, come ricorda Cassazione Sezione prima 16/06/2009, “la prova del dolo deve
essere desunta dalle concrete circostanze dell’azione e dall’oggettiva idoneità della stessa
a cagionare la morte e ciò con riguardo ai mezzi adoperati, alla modalità dell’aggressione, a
nulla rilevando la mancata reiterazione dei colpi”). Invece nel caso dell’abuso del diritto la
valutazione è difficile perché la materialità della condotta non presenta profili di contrasto
con singole fattispecie incriminatrici.
Questo fatto rimette indubbiamente alla ricostruzione del giudice l’individuazione
dell’elemento soggettivo anche se non può dirsi che tale individuazione sia affidata alla
totale discrezionalità del magistrato dovendosi egli ancorare ad atti oggettivi e materiali
quali gli esiti della vicenda, le conseguenze in termini di soddisfazioni personali dell’agente,
in termini di danni ai terzi, in termini di nuovi assetti contrattuali ed economici, in termini
di nuova ripartizione di benefici e obblighi.
In questo senso, se, con la sua condotta, il soggetto avrà comunque realizzato uno o più
degli obbiettivi al cui raggiungimento l’ordinamento consente si giunga mediante
l’esercizio di un determinato diritto, non potrà sostenersi che quel diritto sia stato
illegittimamente esercitato (si veda anche l’art. 54 della Carta di Nizza ove nella rubrica
“divieto di abuso del diritto” si stabilisce da un lato che “nessuna disposizione deve essere
esercitata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che
miri alla distruzione dei diritti e della libertà”, ma dall’altro si vieta di “imporre a tali diritti e
tali libertà limitazioni più ampie di quelle previste”).
In analogia con le considerazioni sopra riportate la Corte di Giustizia con la decisione
09/03/1999 Centros c. 212/97 e poi con le sentenze Halifax e Cadbury Schweppes
(12/09/2006 c. 196/04) ha concluso che la volontà elusiva del singolo o la sua volontà di
abusare del diritto esercitato, va valutato sulla base di indici esterni da cogliersi, non nella
struttura materiale della condotta dal singolo tenuta, ma in relazione alle risultanze e
conseguenze pratiche che ne sono derivate.
Se, nonostante l’apparente artificiosità della vicenda, risulterà comunque l’effettività,
congruità e coerenza dell’operazione economica attuata e la sua idoneità a conseguire un
interesse meritevole di tutela non potrà parlarsi di esercizio smodato di proprie facoltà
giuridiche.
In analogia con questi convincimenti, l’ordinamento italiano ha introdotto, come si è già
detto, l’art. 37 bis d.p.r. 600/73 basato sugli stessi principi e, in applicazione dei medesimi,
la Cassazione Sezione Tributaria 21/01/2011 n. 1372 ha ritenuto la legittimità di operazioni
di ristrutturazione societaria quando si accerti la compresenza non marginale di ragioni
extrafiscali.
LIMITI ALLA CONFIGURABILITA’ PENALE DELL’ABUSO DEL DIRITTO
La tendenza del legislatore alla costruzione di sempre nuove figure di reato e la tendenza
della giurisprudenza ad ampliare la sfera di operatività delle fattispecie delittuose paiono in
contrasto non solo con principi di carattere costituzionale, ma confliggono spesso con le
indicazione rinvenibili nelle decisioni della corte EDU.
Emblematica la pronuncia 18640/10 del 04/03/2014 emessa nei confronti dell’Italia nella
vicenda Equity SWAP-IFIL. In quella situazione, dopo che le società erano state condannate
dalla CONSOB in via amministrativa per “manipolazione di mercato” ex art. 187. 1 D.lvo
58/1998, amministratori e le stesse persone giuridiche erano state altresì giudicate e
condannate (anche in appello) fino al definitivo annullamento della Cassazione, per il
delitto di aggiotaggio informativo ex art. 185 d.lvo 58/1998 e ciò secondo la Corte di
Giustizia, in violazione del principio del “ne bis in idem”.
La Corte EDU di Lussemburgo in conseguenza di ciò, ha condannato l’Italia per violazioni
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali perché, in
violazione dell’art. 4 del protocollo n. 7 della Convenzione europea, non era stato applicato
il divieto del “ne bis in idem” in base al quale nessuno può essere sottoposto a nuovo
giudizio se già condannato o assolto in via definitiva.
Secondo i ricorrenti il principio era violato perché essi erano già stati prima sanzionati da
CONSOB e poi sottoposti a procedimento penale per gli stessi fatti.
La Cedu ha ritenuto fondata la censura ritenendo che anche la violazione su cui è
intervenuta la Consob fosse inerente ad “accusa in materia penale” ed ha altresì ritenuto
identiche le condotte di cui all’art. 187 ter (procedimento amministrativo) e 185 c. 1 D.lvo
58/1998 (procedimento penale).
Analogamente per la violazione del “ne bis in idem” la Corte ha deciso nel caso NYKANEN
Vs. Finlandia del 20/05/2014 in ipotesi di contestuale svolgimento di procedimento penale
e di procedimento amministrativo in materia di frode fiscale.
Essa ha qualificato come sanzione la risposta repressiva dello Stato non solo quando essa
segua all’accertamento di responsabilità penali, ma anche nel caso in cui, pur essendo la
violazione contestata di natura amministrativa, la risposta repressiva dell’ordinamento
abbia natura fortemente afflittiva (perché, ad esempio, ha colpito pesantemente il
patrimonio del singolo).
Perciò secondo la Corte, anche le condanne pronunciate in sede tributaria possono avere
natura punitiva se al contribuente inadempiente sono applicate sanzioni pecuniarie forti le
quali non esprimono più solamente una funzione risarcitoria rispetto all’obbligazione
tributaria, ma una funzione afflittiva nei confronti del contribuente.
La giurisprudenza sovranazionale sembra dunque esigere la ricerca di una particolare
specificità della condotta criminosa perché solo la specificità giustifica la punizione penale.
Rapportandosi pertanto al problema dell’abuso del diritto, ne consegue che l’esercizio di
un proprio diritto pur quando se ne riscontri l’abusività e l’arbitrarietà in sede di giudizio
civile o tributario, non per questo ha anche una rilevanza penale perché, a questo fine, si
richiede che l’esercizio del diritto venga posto in essere con modalità particolarmente
riprovevoli e significative in ordine all’aggressione e lesione degli interessi prodotti dalla
norma incriminatrice.
Come individuare allora le modalità particolarmente riprovevoli e significative?
Un criterio sicuro è quello inerente le modalità fraudolente della condotta (modalità che
non siano semplicemente arbitrarie) con cui il diritto è esercitato. Per cui, sempre che il
fatto sia sussumibile sotto qualche fattispecie delittuosa, solo se il soggetto abbia occultato
l’intenzione di raggiungere finalità diverse da quelle coerenti con l’esercizio di quei poteri o
diritti, o abbia rappresentato in modo mendace le circostanze, risponderà penalmente.
La condotta di abuso del diritto avrà penale rilevanza solo quando il comportamento
esteriore del soggetto presenta, rispetto ad ogni altra generica ipotesi di scorretto esercizio
di facoltà giuridiche, una connotazione fraudolenta, ingannatoria, che cela la struttura
della vicenda, ne camuffa i presupposti e le conseguenze.
Il criterio appena citato è richiamato dalla sentenza FRASSON C-617-10 del 26/02/2013 in
tema di rapporti fra giudizio penale e procedimento tributario, con il quale si è
riconosciuto il principio opposto a quello del “ne bis in idem” riconoscendo la possibilità
che l’azione nei confronti di un soggetto potesse essere accompagnata anche da sanzioni
penali se queste afferiscono a fattispecie di diritto diverso.
La Corte per evitare confusioni con le pronunce inerenti il “ne bis in idem” ha precisato che
ben può verificarsi il concorso di sanzioni penali ed amministrative relativamente ad una
accusa di frode finanziaria. Quello che però occorre è che rispetto alla contestazione
tributaria, la condotta penalmente rilevante si presenti comunque diversa (ad esempio per
l’insidiosità della modalità di esecuzione, per i sotterfugi utilizzati, per l’atteggiamento
fraudolento).
Nel caso Frasson il soggetto non si era limitato ad evadere l’imposta (profilo rilevante in
sede tributaria), ma aveva anche assunto comportamenti fraudolenti onde celare il
mancato adempimento e questo fatto giustificava, in presenza del mancato pagamento
d’imposta, la scelta del legislatore di applicare anche la sanzione penale.
L’EVOLUZIONE DELLA GIURISPRUDENZA DELLA CASSAZIONE SUL TEMA DELL’ABUSO DEL
DIRITTO
Riassumendo sinteticamente l’evoluzione della giurisprudenza della Cassazione sul tema
dell’abuso del diritto possiamo individuare in via di larga massima una serie di momenti.
1) Inizialmente la Corte di Cassazione riteneva che l’autonomia dei privati e le scelte
del contribuente non potessero essere limitati salvo che da specifiche norme “per
cui in difetto si rimane nell’ambito della mera lacuna della disciplina tributaria”.
(Cass. 03/04/2000 n. 3979; Cass. 09/05/2002 n. 6599).
2) Successivamente la Corte di Cassazione civile statuì che è possibile trasporre nel
diritto tributario principi e criteri del diritto civile e di conseguenza dichiarare la
nullità di contratti per carenza di causa (Cassazione Sezione Quinta Civ. 26/10/2005
n. 20816; Sez. Quinta Civ. 14/11/2005 n. 22932 in tema di DIVIDEND WASHING o
DIVIDEND STRIPPING che costituiscono modalità alternative di incasso di dividendi.
Esse consentono ad un socio di incassare dividendi travestiti da plusvalenze
realizzate. Tributariamente l’operazione rappresenta un arbitraggio fiscale fra il
regime tributario dei dividendi e quello delle plus o minusvalenze).
3) Proseguendo nel suo percorso (e sempre escludendo il settore penale) la Corte ha
affermato la diretta applicabilità nell’ordinamento tributario nel principio affermato
dalla giurisprudenza comunitaria dell’abuso del diritto “quale canone interpretativo
regolatore dell’ordinamento che prescinde da qualsiasi riferimento alla natura
fittizia o fraudolenta dell’operazione” diretto a colpire operazioni legali
assolutamente conformi ai modelli legali, ma viziate dalla mancanza di uno scopo
che non sia quello di ottenere un vantaggio fiscale. (Cass. 29/09/2006 n. 21221;
04/04/2008 n. 8772; 21/04/2008 n. 10257).
4) Successivamente la Corte approfondisce l’analisi sull’abuso del diritto decidendo
che il divieto di esso si traduca in un principio generale antielusivo che trova
fondamento nell’art. 53 Costituzione (capacità contributiva e progressività
dell’imposizione) (Cass. 23/12/08 n. 30055 – 30056 – 30057 c.d. sentenze di Natale;
25/05/09 n. 12042; 20/10/2011 n. 21782; 16/02/2012 n. 2193)
5) Nel frattempo la Cassazione penale inizia ad affrontare le problematiche relative alla
rilevanza penale dell’elusione fiscale (che, come già visto, secondo i più, costituisce
categoria dell’abuso di diritto o anche sinonimo dello stesso cui è totalmente
sovrapponibile).
In questo ambito si distinguono le sentenze contrarie alla rilevanza penale
dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto tributario per le quali, riassuntivamente,
neppure la violazione di un’espressa condotta antiabusiva prevista dall’ordinamento
(art. 37 e 37 bis d.p.r. 600/1973) attribuisce valore probatorio alla sussistenza di un
reato perché questo fatto rappresenterebbe una presunzione incompatibile con i
principi del diritto penale ponendosi in totale collisione con l’art. 25 Costituzione
inerente il principio di stretta legalità non esistendo in concreto alcuna norma che
direttamente equipara l’elusione all’evasione. (Cass. Pen. Sez. Terza n. 23730/2006;
Cass. Sez. Terza 26/11/2008 – 02/04/2009 n. 14486; n. 36859/2013)
6) Fra le sentenze favorevoli alla rilevanza penale dell’elusione fiscale, rilevanza che si
basa sul fatto che l’antigiuridicità si aggancia all’esistenza di specifiche norme di
antielusione – dall’art. 53 C. agli art. 37 e 37bis d.p.r. 600/73 – si ricordano fra le
altre: Cassazione Sezione Terza 18/03/2011 n. 2673; Sezione Terza 26/05/2010 n.
2974; Sezione Terza 06/03/2013 n. 19100; Sezione Terza 12/06/2013 n. 33187;
Sezione Terza 17/01/2014 n. 13039; Sezione Terza 03/04/2014 n. 15186.
Soprattutto si ricorda la sentenza n. 7739 della Sezione Seconda del 22/11/2011
(depositata il 28/02/2012) la quale, nella nota vicenda degli stilisti Dolce & Gabbana,
annullava la sentenza 01/04/2011 con la quale il GUP del Tribunale di Milano,
pronunciandosi sulla imputazioni di truffa aggravata allo Stato e dichiarazioni
infedeli ascritte ai due stilisti, li aveva assolti “perché il fatto non sussiste”. I principi
di diritto richiamati dalla Cassazione in quella sentenza avevano inquadrato il fatto
in termini tali per cui sia il Tribunale di Milano con sentenza del 19/06/2013 che la
Corte di Appello di Milano con sentenza del 30/04/2014 avevano condannato gli
imputati alla pena di anni 1 e mesi 2 ciascuno per il delitto di omessa dichiarazione
di cui all’art. 5 d.lvo 74/2000.
Si sarebbe potuto pertanto dire fino a pochi mesi fa (all’esito della tribolata altalena
giurisprudenziale) che la tendenza prevalente della Cassazione penale fosse quella
di ritenere la perfetta sanzionabilità penale dell’elusione o dell’abuso del diritto in
materia tributaria. Ora dopo i recenti esiti della vicenda che hanno visto, proprio
davanti alla Cassazione, andare assolti gli stilisti con la formula di annullamento
senza rinvio, sostanzialmente perché il fatto non sussiste, occorrerà, appena sarà
nota la motivazione, affrontare nuovamente una vicenda che, fino all’ultimo arresto
giurisprudenziale, pareva indirizzata su linee costanti.
Questo fatto rende ancora più necessario, in sede di attuazione della delega
legislativa in materia tributaria, che il legislatore si faccia carico di definire nel modo
più preciso possibile la figura penale dell’elusione e/o dell’abuso del diritto.
Bra/Cherasco, 21/11/2014
Dr. Luciano Tarditi (Sostituto Procuratore della Repubblica)
Bibliografie e fonti:
- l’abuso del diritto nel diritto civile di Bruno Conca. Il nuovo diritto delle società
- l’abuso del diritto nell’imposizione indiretta: evoluzione della giurisprudenza e raffronti
per una codificazione di Massimo Scuffi. Il nuovo diritto delle società
- l’abuso del diritto nel diritto societario di Luciano Matteo Quatrocchio. Il nuovo diritto
delle società
- la rilevanza penale dell’abuso del diritto di Ciro Santoriello. Il nuovo diritto delle società