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ABUSO DEL DIRITTO IN MATERIA PENALE ED EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE Il cosiddetto abuso del diritto si può qualificare come limite all’esercizio di un determinato diritto soggettivo. Si tratta di una costruzione giuridica la cui venuta a esistenza è dipesa dal fatto che spesso, nella realtà quotidiana, l’esperienza evidenzia uno scostamento ineliminabile e irresolubile fra singole previsioni di legge ed esigenze della società. Si constata con sempre maggiore frequenza che le direttive con cui il diritto sceglie di regolamentare controversie, rapporti, conflitti di interesse non rispondono alle modalità di sistemazione ritenute ottimali dalla collettività. Si comprende pertanto che lo strumento concettuale rappresentato da una figura dai contorni incerti come l’”abuso del diritto” possa rappresentare una chiave di soluzione o un modo per colmare la divergenza fra previsioni di legge e rapporti economici o personali. Funzione della figura allo studio è quindi quella di “riporre uno strumento nelle mani dei giuristi per introdurre una forma di correzione nelle regole del diritto”. Sotto il profilo morfologico l’abuso del diritto si compone sempre di due elementi: da un lato appare un’attività che risulta conforme all’esercizio del diritto soggettivo e, dall’altro, un quid pluris costituito da un ulteriore elemento dequalificante che va a degradare quell’attività,

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ABUSO DEL DIRITTO IN MATERIA PENALE ED EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE

Il cosiddetto abuso del diritto si può qualificare come limite all’esercizio di un determinato

diritto soggettivo. Si tratta di una costruzione giuridica la cui venuta a esistenza è dipesa

dal fatto che spesso, nella realtà quotidiana, l’esperienza evidenzia uno scostamento

ineliminabile e irresolubile fra singole previsioni di legge ed esigenze della società. Si

constata con sempre maggiore frequenza che le direttive con cui il diritto sceglie di

regolamentare controversie, rapporti, conflitti di interesse non rispondono alle modalità di

sistemazione ritenute ottimali dalla collettività.

Si comprende pertanto che lo strumento concettuale rappresentato da una figura dai

contorni incerti come l’”abuso del diritto” possa rappresentare una chiave di soluzione o

un modo per colmare la divergenza fra previsioni di legge e rapporti economici o personali.

Funzione della figura allo studio è quindi quella di “riporre uno strumento nelle mani dei

giuristi per introdurre una forma di correzione nelle regole del diritto”.

Sotto il profilo morfologico l’abuso del diritto si compone sempre di due elementi: da un

lato appare un’attività che risulta conforme all’esercizio del diritto soggettivo e, dall’altro,

un quid pluris costituito da un ulteriore elemento dequalificante che va a degradare

quell’attività, portandola fuori dall’ambito di protezione del diritto soggettivo. Quindi c’è

un pezzo di dna giuridico corretto, appartenente alla fattispecie contemplata

dall’ordinamento e dall’altra un pezzo di dna “mutante” che determina la trasformazione

dell’esercizio del diritto soggettivo impedendo la possibilità di ricevere protezione da parte

dell’ordinamento ed, anzi, determinando una reazione di senso opposto, sanzionatoria al

comportamento stesso.

L’AFFERMARSI DELL’ABUSO DEL DIRITTO NELL’ESPERIENZA ITALIANA

Come è noto nella Costituzione italiana manca una qualsiasi clausola generale che vieti in

maniera espressa di abusare di un diritto o di un potere. Tuttavia l’impostazione

solidaristica e comunitaria di numerose disposizioni della Carta Costituzionale ha spinto

vari autori a rinvenire nella medesima un fondamento rispetto a istituti e figure come

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l’abuso del diritto o la buona fede contrattuale. Si fa riferimento alle norme di cui agli artt.

2, 3 c. 2, 41 e 42 della Costituzione.

Partendo da questa base normativa è stata la giurisprudenza ad assumersi l’onere di una

interpretazione adeguatrice delle disposizioni ordinarie rispetto ai precitati principi

fondamentali.

Detta interpretazione si è sviluppata a partire dalla materia dei diritti reali (art. 833 c.c.) per

estendersi poi ai rapporti contrattuali, alla disciplina delle assicurazioni e delle società per

azioni. Successivamente si è giunti ad un riconoscimento definitivo della rilevanza della

figura dell’abuso del diritto e del suo inserimento nel nostro ordinamento. Ciò è avvenuto

principalmente con le decisioni della Cassazione civile Sezioni Unite n. 30055, 30056,

30057 del 23/12/2008 quando il Supremo Collegio spinto dalla Corte di Giustizia in materia

tributaria ha individuato la nozione di abuso del diritto per fronteggiare l’espandersi dei

comportamenti di elusione tributaria dei contribuenti. In particolare le sentenze hanno

ammesso la sanzionabilità del compimento di atti pur non espressamente vietati, qualora

ritenuti dal Giudice come attuati al solo scopo di ottenere una riduzione del carico

d’imposta.

LA RILEVANZA PENALISTICA DELL’ABUSO DEL DIRITTO

Dottrina e giurisprudenza si sono posti il problema se il cosiddetto divieto di abuso del

diritto abbia una rilevanza anche all’interno dell’ordinamento penale e in particolare se le

condotte sussumibili nel concetto di abuso del diritto, elusione della legge nazionale,

comportamenti in frode alla legge, possano essere sanzionati quali reati.

Secondo una più risalente e fino a non molto tempo fa prevalente opinione la risposta era

negativa. Si riteneva che sanzionare in sede penale comportamenti conformi al diritto sulla

base della sola finalità che l’agente persegue con la sua condotta significherebbe dare al

giudice un potere di interpretazione troppo discrezionale. Infatti, i limiti per l’esercizio del

diritto non risulterebbero solo sulla base di quanto espressamente dispone la norma che

attribuisce la facoltà esercitata, ma sarebbero ricostruiti alla luce degli obbiettivi (nella

ricostruzione del Giudice) che l’ordinamento intende perseguire con il riconoscimento al

singolo del diritto esercitato nel caso concreto.

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Perciò secondo il pensiero liberale e in una prospettiva individualistica si determinerebbe

una pericolosa intrusione dello Stato nella sfera di libertà dei singoli.

Questa interpretazione è oggi da considerarsi in gran parte superata dopo l’elaborazione

che dei principi solidaristici della Costituzione è stato fatto. Infatti, secondo dette

interpretazioni, l’esercizio dei diritti soggettivi deve conciliarsi con la rete di interessi

perseguiti dalla comunità politica nel suo complesso.

A prescindere dai diversi convincimenti è un dato di fatto che quanto meno, a decorrere

dal 2011, la giurisprudenza penale maggioritaria (e in particolare con la decisione

Cassazione sezione seconda 22/11/2011 n. 252019 Dolce e Gabbana cui ha fatto seguito la

conforme decisione Cassazione sezione quinta 23/05/2013 Della Gatta) ha sostenuto che la

violazione penalmente rilevante della normativa fiscale può realizzarsi, non solo con la

realizzazione delle fattispecie penali p.p. dagli artt. 2, 3 , 4 D.lvo n. 74/2000, ma anche per il

tramite della conclusione di atti negoziali, con l’utilizzo di scelte imprenditoriali di per sé

conformi ai poteri e ai diritti del contribuente e dell’imprenditore, ma che in ragione delle

finalità in concreto perseguite, (risparmio fiscale o integrale omesso versamento

dell’imposta) realizzano una condotta vietata.

Si è ribattuto dai sostenitori della tesi dell’estraneità penalistica dell’abuso del diritto che

proprio queste decisioni sono la prova dell’eccessiva dilatazione giurisprudenziale di figure

penalmente rilevanti non previste però dal legislatore attraverso l’individuazione di norme

di diritto sostanziale. In contrario avviso rispetto a quest’ultima tesi si osserva che, in

realtà, sono numerose nell’ordinamento penale le fattispecie incriminatrici costituenti

manifestazione di condotte di esercizio smodato e illecito di proprie facoltà giuridiche e

negoziali. (Es. art. 388 c. 1 c.p. che riguarda la mancata esecuzione dolosa di un

provvedimento del giudice attraverso il compimento sui propri beni di atti simulati o

fraudolenti). In questi casi si è in presenza di un soggetto nel pieno possesso del suo titolo

di proprietario del bene che vede sanzionate alcune forme di utilizzo della sua cosa quando

tale scelta, formalmente lecita, sia accompagnata dal perseguimento di una particolare

finalità fraudolenta mirata ad aggirare obblighi civili nascenti da sentenza di condanna.

Altrettanto a dirsi per l’art. 388 ter c.p. dove il soggetto passivo del reato non è un qualsiasi

creditore, ma l’amministrazione statale e per il reato di bancarotta fraudolenta per

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distrazione o di bancarotta semplice patrimoniale (artt. 216-217 l.f.) dove la dichiarazione

di fallimento legittima l’autorità giudiziaria a riconsiderare l’intera attività imprenditoriale

svolta in precedenza dal fallito onde verificare se egli abbia o meno costantemente gestito

il proprio patrimonio per il raggiungimento del miglior risultato economico. Ciò significa

che, intervenuto il fallimento, gli atti di disposizione patrimoniale posti in essere dal fallito

(i quali prima della dichiarazione di fallimento erano ritenuti assolutamente leciti

dall’ordinamento) vengono qualificati in modo diverso dal legislatore proprio perché

l’avvenuta insolvenza dell’imprenditore segnala che vi è stato un illecito utilizzo di beni da

parte del singolo proprietario il quale ha lasciato insoddisfatti alcuni soggetti cioè creditori

che vantano nei suoi confronti legittime pretese.

Anche nel diritto penale tributario sono presenti ipotesi sanzionatorie di abuso del diritto

quale l’art. 11 d.l.vo n. 74/2000 che ha evidente analogia con i reati citati di cui all’art. 388

c.p. e 216 legge fallimentare oppure il caso del delitto di utilizzo di fatture per operazioni

inesistenti e in particolare l’ipotesi in cui tale delitto è realizzato ponendo in essere “frodi

carosello”.

Non si può però negare che fattispecie simili delle quali nessuno ha mai messo in dubbio la

legittimità si pongano anch’esse in possibile contrasto con i principi di tassatività e

determinatezza del processo penale. Di ciò vi è dimostrazione nel fatto che le condotte

inerenti i reati sopra indicati non sono affatto tipizzate e sono descritte in modo assai poco

chiaro le condizioni in presenza delle quali il comportamento del singolo possa dirsi illecito.

Di fatto si determina un’imputazione “ad intermittenza” di diverse condotte le quali, in

alcuni momenti storici sono lecite e in altre circostanza sono qualificate come penalmente

rilevanti (es. bancarotta fraudolenta nella quale la volontà dolosa si esprime nel semplice

compimento di un atto estraneo all’esigenza dell’impresa senza che sia necessaria la

volontà di arrecare danno ai creditori e nella quale il reato si realizza solo se,

conseguentemente alle singole operazioni finanziarie, si determini il fallimento. Ove la

dichiarazione di fallimento non intervenga le stesse operazioni che avrebbero condotto ad

un’imputazione di bancarotta fraudolenta sono penalmente irrilevanti).

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LA RILEVANZA DELL’ELEMENTO SOGGETTIVO NELL’ABUSO DEL DIRITTO

Una condotta di abusivo esercizio del diritto non si distingue affatto sotto un profilo

naturalistico dall’esercizio del medesimo diritto che abusivo non sia.

In un ambito civile o tributario o anche penale se un soggetto non adempie alla sua

obbligazione o un contribuente non paga il suo debito verso l’erario siamo in presenza di

un adempimento civile o fiscale o anche penale (vedasi per il penale l’art. 641 c.p.). Si

potrà poi stabilire se di queste fattispecie egli è responsabile secondo le leggi civili,

tributarie o penali, ma il fatto in se è di immediata comprensione perché il soggetto doveva

fornire una prestazione o versare un’imposta o pagare un debito, ma non l’ha fatto. Invece

nel caso di abuso del diritto la condotta materiale posta in essere non ci dice nulla circa il

suo disvalore, perché il soggetto esercita esattamente un diritto che l’ordinamento gli

riconosce. Le problematiche si accrescono ulteriormente con riferimento al fenomeno

dell’elusione che i più ritengono una particolare ipotesi di abuso del diritto allo stesso

sovrapponibile.

A questo punto appare necessario esaminare l’importante sentenza Halifax (Corte di

giustizia 21/02/2006 Halifax causa C-255/02) con cui la Corte di Giustizia ha ammesso il

ricorso alla nozione di abuso del diritto per consentire la tassabilità ai fini IVA di alcune

transazioni rivolte ad evitarne gli effetti. Nella vicenda in parola, a fronte di una serie di

transazioni poste in essere tra diverse società appartenenti al gruppo Halifax, al fine di

riuscire a recuperare l’intero importo dell’IVA dovuta, la Corte di Giustizia, pur in astratto

riconoscendo come legittimo il comportamento di chi articola la struttura delle proprie

operazioni in modo da ottimizzarne l’effetto fiscale, ha qualificato come abusiva tale

condotta per la sussistenza di due circostanze: da un lato viene negata legittimità ad

operazioni economiche e negoziali il cui effetto comporti il conseguimento di un vantaggio

fiscale in contraddizione con gli obbiettivi perseguiti attraverso la normativa comunitaria;

in secondo luogo, la programmazione fiscale viene qualificata come abusiva in quanto

presenta elementi obbiettivi che consentono di escludere la vera natura delle diverse

operazioni negoziali poste in essere di cui era occultato il carattere puramente artificioso,

in quanto per gli atti negoziali conclusi non esisteva una effettiva “business justification” ne

era rinvenibile una effettiva operazione economica.

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Gli stessi principi sono stati ripresi e fatti propri dal legislatore italiano il quale, come noto,

ha espressamente tipizzato nel 1997 la figura dell’elusione fiscale ancorandola all’art. 37

bis d.p.r n. 600 del 1973, e affermando la non opponibilità all’amministrazione finanziaria

di atti, fatti e negozi (fra cui a) trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e

distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle

formate con utili; b) conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il

trasferimento o il godimento di aziende; c) cessioni di crediti; d) cessioni di eccedenza

d’imposta, ecc) “anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad

aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni

d’imposta o rimborsi altrimenti indebiti”.

Alla luce dei principi e delle norme sopra indicati diventa perciò fondamentale per

l’individuazione degli esatti limiti dell’abuso del diritto, esaminare le finalità per cui il

singolo ha agito. In breve: l’esercizio di un diritto è abusivo quando la condotta materiale è

assistita da una particolare condizione di volontà, quando cioè il soggetto agisce per

raggiungere obbiettivi non rientranti nella “ratio” che giustifica l’attribuzione, da parte

dell’ordinamento, del diritto dal singolo esercitato.

Si badi bene che con ciò non si tratta di affermare semplicemente che ogni azione o

condotta debba essere sorretta da una particolare volontarietà; l’affermazione sarebbe

ovvia specialmente nel diritto penale che impone perché si abbia un reato la presenza

dell’elemento soggettivo. Un conto però è porre in essere in modo cosciente e volontario

una condotta, un conto è farlo (sempre in modo cosciente e volontario) per una certa

finalità. In altri termini, nella fattispecie di abuso del diritto, considerare l’atteggiamento

soggettivo non serve a verificare la possibilità di sanzionare la condotta, ma comporta una

modifica della qualificazione della fattispecie stessa nel senso che lo stesso

comportamento viene considerato lecito se è tenuto per raggiungere certi fini e illecito se

tenuto per altri obbiettivi. Con la contestazione di una fattispecie di un abuso del diritto

l’ordinamento reagisce non ad un semplice comportamento volontario e consapevole

dell’agente, quanto alla circostanza che tale comportamento sia stato dettato da certe

considerazioni finalistiche.

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Nell’ambito dei fatti esaminati dal diritto tributario, il soggetto pone in essere

normalmente una serie di operazioni negoziali e o societarie e o finanziarie, ma la

valutazione dell’ordinamento circa tali interventi non dipende dal contenuto degli stessi

quanto dagli obbiettivi che il contribuente vuole perseguire. Il giudizio su tali operazioni è

negativo se esse sono giustificate dal solo intento di realizzare un risparmio di imposta.

Questo tipo di elemento psicologico, nel quale si fa riferimento alle finalità che il soggetto

si riproponeva, colloca l’abuso del diritto nella categoria degli illeciti a dolo specifico.

Questo tipo di dolo è posto in essere quando una condotta (ad esempio la fusione fra

persone giuridiche o l’avere posto in essere una serie di operazioni economiche finanziarie

fra persone giuridiche all’interno di un gruppo), operazioni di per se consentite

dall’ordinamento, presenti un obbiettivo finalistico ulteriore rispetto al comportamento

tenuto e tale obbiettivo sia considerato negativamente dal legislatore (esempio

l’obbiettivo di ottenere esclusivamente un risparmio di imposta).

PARAMETRI ALLA STREGUA DEI QUALI SI INDIVIDUA L’ELEMENTO SOGGETTIVO

Mentre per i reati per i quali l’elemento oggettivo (cioè la condotta) già evidenzia la sua

contrarietà all’ordinamento e alla fattispecie incriminatrice considerata, l’esistenza

dell’elemento soggettivo quasi si presume. Ciò avviene con l’applicazione

dell’automatismo deduttivo sottinteso dal canone “dolus est in re ipsa” secondo una

concezione del dolo come substrato psicologico necessariamente immanente al fatto

immateriale, (e per esempio, in tema di omicidio, la prova del dolo è abbastanza facile

perché, come ricorda Cassazione Sezione prima 16/06/2009, “la prova del dolo deve

essere desunta dalle concrete circostanze dell’azione e dall’oggettiva idoneità della stessa

a cagionare la morte e ciò con riguardo ai mezzi adoperati, alla modalità dell’aggressione, a

nulla rilevando la mancata reiterazione dei colpi”). Invece nel caso dell’abuso del diritto la

valutazione è difficile perché la materialità della condotta non presenta profili di contrasto

con singole fattispecie incriminatrici.

Questo fatto rimette indubbiamente alla ricostruzione del giudice l’individuazione

dell’elemento soggettivo anche se non può dirsi che tale individuazione sia affidata alla

totale discrezionalità del magistrato dovendosi egli ancorare ad atti oggettivi e materiali

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quali gli esiti della vicenda, le conseguenze in termini di soddisfazioni personali dell’agente,

in termini di danni ai terzi, in termini di nuovi assetti contrattuali ed economici, in termini

di nuova ripartizione di benefici e obblighi.

In questo senso, se, con la sua condotta, il soggetto avrà comunque realizzato uno o più

degli obbiettivi al cui raggiungimento l’ordinamento consente si giunga mediante

l’esercizio di un determinato diritto, non potrà sostenersi che quel diritto sia stato

illegittimamente esercitato (si veda anche l’art. 54 della Carta di Nizza ove nella rubrica

“divieto di abuso del diritto” si stabilisce da un lato che “nessuna disposizione deve essere

esercitata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che

miri alla distruzione dei diritti e della libertà”, ma dall’altro si vieta di “imporre a tali diritti e

tali libertà limitazioni più ampie di quelle previste”).

In analogia con le considerazioni sopra riportate la Corte di Giustizia con la decisione

09/03/1999 Centros c. 212/97 e poi con le sentenze Halifax e Cadbury Schweppes

(12/09/2006 c. 196/04) ha concluso che la volontà elusiva del singolo o la sua volontà di

abusare del diritto esercitato, va valutato sulla base di indici esterni da cogliersi, non nella

struttura materiale della condotta dal singolo tenuta, ma in relazione alle risultanze e

conseguenze pratiche che ne sono derivate.

Se, nonostante l’apparente artificiosità della vicenda, risulterà comunque l’effettività,

congruità e coerenza dell’operazione economica attuata e la sua idoneità a conseguire un

interesse meritevole di tutela non potrà parlarsi di esercizio smodato di proprie facoltà

giuridiche.

In analogia con questi convincimenti, l’ordinamento italiano ha introdotto, come si è già

detto, l’art. 37 bis d.p.r. 600/73 basato sugli stessi principi e, in applicazione dei medesimi,

la Cassazione Sezione Tributaria 21/01/2011 n. 1372 ha ritenuto la legittimità di operazioni

di ristrutturazione societaria quando si accerti la compresenza non marginale di ragioni

extrafiscali.

LIMITI ALLA CONFIGURABILITA’ PENALE DELL’ABUSO DEL DIRITTO

La tendenza del legislatore alla costruzione di sempre nuove figure di reato e la tendenza

della giurisprudenza ad ampliare la sfera di operatività delle fattispecie delittuose paiono in

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contrasto non solo con principi di carattere costituzionale, ma confliggono spesso con le

indicazione rinvenibili nelle decisioni della corte EDU.

Emblematica la pronuncia 18640/10 del 04/03/2014 emessa nei confronti dell’Italia nella

vicenda Equity SWAP-IFIL. In quella situazione, dopo che le società erano state condannate

dalla CONSOB in via amministrativa per “manipolazione di mercato” ex art. 187. 1 D.lvo

58/1998, amministratori e le stesse persone giuridiche erano state altresì giudicate e

condannate (anche in appello) fino al definitivo annullamento della Cassazione, per il

delitto di aggiotaggio informativo ex art. 185 d.lvo 58/1998 e ciò secondo la Corte di

Giustizia, in violazione del principio del “ne bis in idem”.

La Corte EDU di Lussemburgo in conseguenza di ciò, ha condannato l’Italia per violazioni

della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali perché, in

violazione dell’art. 4 del protocollo n. 7 della Convenzione europea, non era stato applicato

il divieto del “ne bis in idem” in base al quale nessuno può essere sottoposto a nuovo

giudizio se già condannato o assolto in via definitiva.

Secondo i ricorrenti il principio era violato perché essi erano già stati prima sanzionati da

CONSOB e poi sottoposti a procedimento penale per gli stessi fatti.

La Cedu ha ritenuto fondata la censura ritenendo che anche la violazione su cui è

intervenuta la Consob fosse inerente ad “accusa in materia penale” ed ha altresì ritenuto

identiche le condotte di cui all’art. 187 ter (procedimento amministrativo) e 185 c. 1 D.lvo

58/1998 (procedimento penale).

Analogamente per la violazione del “ne bis in idem” la Corte ha deciso nel caso NYKANEN

Vs. Finlandia del 20/05/2014 in ipotesi di contestuale svolgimento di procedimento penale

e di procedimento amministrativo in materia di frode fiscale.

Essa ha qualificato come sanzione la risposta repressiva dello Stato non solo quando essa

segua all’accertamento di responsabilità penali, ma anche nel caso in cui, pur essendo la

violazione contestata di natura amministrativa, la risposta repressiva dell’ordinamento

abbia natura fortemente afflittiva (perché, ad esempio, ha colpito pesantemente il

patrimonio del singolo).

Perciò secondo la Corte, anche le condanne pronunciate in sede tributaria possono avere

natura punitiva se al contribuente inadempiente sono applicate sanzioni pecuniarie forti le

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quali non esprimono più solamente una funzione risarcitoria rispetto all’obbligazione

tributaria, ma una funzione afflittiva nei confronti del contribuente.

La giurisprudenza sovranazionale sembra dunque esigere la ricerca di una particolare

specificità della condotta criminosa perché solo la specificità giustifica la punizione penale.

Rapportandosi pertanto al problema dell’abuso del diritto, ne consegue che l’esercizio di

un proprio diritto pur quando se ne riscontri l’abusività e l’arbitrarietà in sede di giudizio

civile o tributario, non per questo ha anche una rilevanza penale perché, a questo fine, si

richiede che l’esercizio del diritto venga posto in essere con modalità particolarmente

riprovevoli e significative in ordine all’aggressione e lesione degli interessi prodotti dalla

norma incriminatrice.

Come individuare allora le modalità particolarmente riprovevoli e significative?

Un criterio sicuro è quello inerente le modalità fraudolente della condotta (modalità che

non siano semplicemente arbitrarie) con cui il diritto è esercitato. Per cui, sempre che il

fatto sia sussumibile sotto qualche fattispecie delittuosa, solo se il soggetto abbia occultato

l’intenzione di raggiungere finalità diverse da quelle coerenti con l’esercizio di quei poteri o

diritti, o abbia rappresentato in modo mendace le circostanze, risponderà penalmente.

La condotta di abuso del diritto avrà penale rilevanza solo quando il comportamento

esteriore del soggetto presenta, rispetto ad ogni altra generica ipotesi di scorretto esercizio

di facoltà giuridiche, una connotazione fraudolenta, ingannatoria, che cela la struttura

della vicenda, ne camuffa i presupposti e le conseguenze.

Il criterio appena citato è richiamato dalla sentenza FRASSON C-617-10 del 26/02/2013 in

tema di rapporti fra giudizio penale e procedimento tributario, con il quale si è

riconosciuto il principio opposto a quello del “ne bis in idem” riconoscendo la possibilità

che l’azione nei confronti di un soggetto potesse essere accompagnata anche da sanzioni

penali se queste afferiscono a fattispecie di diritto diverso.

La Corte per evitare confusioni con le pronunce inerenti il “ne bis in idem” ha precisato che

ben può verificarsi il concorso di sanzioni penali ed amministrative relativamente ad una

accusa di frode finanziaria. Quello che però occorre è che rispetto alla contestazione

tributaria, la condotta penalmente rilevante si presenti comunque diversa (ad esempio per

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l’insidiosità della modalità di esecuzione, per i sotterfugi utilizzati, per l’atteggiamento

fraudolento).

Nel caso Frasson il soggetto non si era limitato ad evadere l’imposta (profilo rilevante in

sede tributaria), ma aveva anche assunto comportamenti fraudolenti onde celare il

mancato adempimento e questo fatto giustificava, in presenza del mancato pagamento

d’imposta, la scelta del legislatore di applicare anche la sanzione penale.

L’EVOLUZIONE DELLA GIURISPRUDENZA DELLA CASSAZIONE SUL TEMA DELL’ABUSO DEL

DIRITTO

Riassumendo sinteticamente l’evoluzione della giurisprudenza della Cassazione sul tema

dell’abuso del diritto possiamo individuare in via di larga massima una serie di momenti.

1) Inizialmente la Corte di Cassazione riteneva che l’autonomia dei privati e le scelte

del contribuente non potessero essere limitati salvo che da specifiche norme “per

cui in difetto si rimane nell’ambito della mera lacuna della disciplina tributaria”.

(Cass. 03/04/2000 n. 3979; Cass. 09/05/2002 n. 6599).

2) Successivamente la Corte di Cassazione civile statuì che è possibile trasporre nel

diritto tributario principi e criteri del diritto civile e di conseguenza dichiarare la

nullità di contratti per carenza di causa (Cassazione Sezione Quinta Civ. 26/10/2005

n. 20816; Sez. Quinta Civ. 14/11/2005 n. 22932 in tema di DIVIDEND WASHING o

DIVIDEND STRIPPING che costituiscono modalità alternative di incasso di dividendi.

Esse consentono ad un socio di incassare dividendi travestiti da plusvalenze

realizzate. Tributariamente l’operazione rappresenta un arbitraggio fiscale fra il

regime tributario dei dividendi e quello delle plus o minusvalenze).

3) Proseguendo nel suo percorso (e sempre escludendo il settore penale) la Corte ha

affermato la diretta applicabilità nell’ordinamento tributario nel principio affermato

dalla giurisprudenza comunitaria dell’abuso del diritto “quale canone interpretativo

regolatore dell’ordinamento che prescinde da qualsiasi riferimento alla natura

fittizia o fraudolenta dell’operazione” diretto a colpire operazioni legali

assolutamente conformi ai modelli legali, ma viziate dalla mancanza di uno scopo

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che non sia quello di ottenere un vantaggio fiscale. (Cass. 29/09/2006 n. 21221;

04/04/2008 n. 8772; 21/04/2008 n. 10257).

4) Successivamente la Corte approfondisce l’analisi sull’abuso del diritto decidendo

che il divieto di esso si traduca in un principio generale antielusivo che trova

fondamento nell’art. 53 Costituzione (capacità contributiva e progressività

dell’imposizione) (Cass. 23/12/08 n. 30055 – 30056 – 30057 c.d. sentenze di Natale;

25/05/09 n. 12042; 20/10/2011 n. 21782; 16/02/2012 n. 2193)

5) Nel frattempo la Cassazione penale inizia ad affrontare le problematiche relative alla

rilevanza penale dell’elusione fiscale (che, come già visto, secondo i più, costituisce

categoria dell’abuso di diritto o anche sinonimo dello stesso cui è totalmente

sovrapponibile).

In questo ambito si distinguono le sentenze contrarie alla rilevanza penale

dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto tributario per le quali, riassuntivamente,

neppure la violazione di un’espressa condotta antiabusiva prevista dall’ordinamento

(art. 37 e 37 bis d.p.r. 600/1973) attribuisce valore probatorio alla sussistenza di un

reato perché questo fatto rappresenterebbe una presunzione incompatibile con i

principi del diritto penale ponendosi in totale collisione con l’art. 25 Costituzione

inerente il principio di stretta legalità non esistendo in concreto alcuna norma che

direttamente equipara l’elusione all’evasione. (Cass. Pen. Sez. Terza n. 23730/2006;

Cass. Sez. Terza 26/11/2008 – 02/04/2009 n. 14486; n. 36859/2013)

6) Fra le sentenze favorevoli alla rilevanza penale dell’elusione fiscale, rilevanza che si

basa sul fatto che l’antigiuridicità si aggancia all’esistenza di specifiche norme di

antielusione – dall’art. 53 C. agli art. 37 e 37bis d.p.r. 600/73 – si ricordano fra le

altre: Cassazione Sezione Terza 18/03/2011 n. 2673; Sezione Terza 26/05/2010 n.

2974; Sezione Terza 06/03/2013 n. 19100; Sezione Terza 12/06/2013 n. 33187;

Sezione Terza 17/01/2014 n. 13039; Sezione Terza 03/04/2014 n. 15186.

Soprattutto si ricorda la sentenza n. 7739 della Sezione Seconda del 22/11/2011

(depositata il 28/02/2012) la quale, nella nota vicenda degli stilisti Dolce & Gabbana,

annullava la sentenza 01/04/2011 con la quale il GUP del Tribunale di Milano,

pronunciandosi sulla imputazioni di truffa aggravata allo Stato e dichiarazioni

Page 13: del... · Web viewABUSO DEL DIRITTO IN MATERIA PENALE ED EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE Il cosiddetto abuso del diritto si può qualificare come limite all’esercizio di un determinato

infedeli ascritte ai due stilisti, li aveva assolti “perché il fatto non sussiste”. I principi

di diritto richiamati dalla Cassazione in quella sentenza avevano inquadrato il fatto

in termini tali per cui sia il Tribunale di Milano con sentenza del 19/06/2013 che la

Corte di Appello di Milano con sentenza del 30/04/2014 avevano condannato gli

imputati alla pena di anni 1 e mesi 2 ciascuno per il delitto di omessa dichiarazione

di cui all’art. 5 d.lvo 74/2000.

Si sarebbe potuto pertanto dire fino a pochi mesi fa (all’esito della tribolata altalena

giurisprudenziale) che la tendenza prevalente della Cassazione penale fosse quella

di ritenere la perfetta sanzionabilità penale dell’elusione o dell’abuso del diritto in

materia tributaria. Ora dopo i recenti esiti della vicenda che hanno visto, proprio

davanti alla Cassazione, andare assolti gli stilisti con la formula di annullamento

senza rinvio, sostanzialmente perché il fatto non sussiste, occorrerà, appena sarà

nota la motivazione, affrontare nuovamente una vicenda che, fino all’ultimo arresto

giurisprudenziale, pareva indirizzata su linee costanti.

Questo fatto rende ancora più necessario, in sede di attuazione della delega

legislativa in materia tributaria, che il legislatore si faccia carico di definire nel modo

più preciso possibile la figura penale dell’elusione e/o dell’abuso del diritto.

Bra/Cherasco, 21/11/2014

Dr. Luciano Tarditi (Sostituto Procuratore della Repubblica)

Bibliografie e fonti:

- l’abuso del diritto nel diritto civile di Bruno Conca. Il nuovo diritto delle società

- l’abuso del diritto nell’imposizione indiretta: evoluzione della giurisprudenza e raffronti

per una codificazione di Massimo Scuffi. Il nuovo diritto delle società

- l’abuso del diritto nel diritto societario di Luciano Matteo Quatrocchio. Il nuovo diritto

delle società

- la rilevanza penale dell’abuso del diritto di Ciro Santoriello. Il nuovo diritto delle società