dasein - scuola italiana di psicoterapia esistenziale n.1 2013.pdf · immagini preferibilmente in...

101

Upload: hacong

Post on 15-Feb-2019

217 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

Dasein Rivista Ufficiale della Società Italiana di Psicoterapia Esistenziale

Official Journal of the Italian Society of Existential Psychotherapy

Editor-in-chief

Lodovico E. Berra M.D.

Senior Editor

Ezio Risatti Psy.D.

Editorial Board

Ferdinando Brancaleone Psy. D.

Gianfranco Buffardi M.D.

Flavio Crestanello Psy.D.

Enrico Frola Psy.D.

Luca Nave Ph.D.

Pietro Pontremoli Ph. D

Rosario Porrovecchio M.D.

Nicolò Terminio Ph.D.

Roberto Varrasi M.D.

Copyright © 2013 ISFiPP Edizioni

Società Italiana di Psicoterapia Esistenziale

Sede legale: corso Fiume 16 – 10133 Torino

www.psicoterapiaesistenziale.org – www.isfipp.org

Presidente

Lodovico E. Berra

Consiglio Direttivo

Silvana Ceresa

Enrico Frola

Ezio Risatti

Nicolò Terminio

Comitato scientifico

Fabrizio Biasin

Flavio Crestanello

Rosario Porrovecchio

Roberto Varrasi

Elisabetta Zamarchi

Mariacarla Zunino

Norme generali per gli Autori

Dasein, rivista ufficiale della Società Italiana di Psicoterapia Esistenziale, pubblica contributi redatti in forma di articoli di argomento monografico nell’ambito della psicologia della psicopatologia, della psicoterapia di orientamento fenomenologico esistenziale. I contributi devono essere inediti, non sottoposti contemporaneamente ad altra rivista. Il testo deve essere in lingua italiana o inglese e deve essere di non oltre 30.000 caratteri – spazi inclusi. Deve inoltre contenere: 1. Titolo del lavoro (in inglese e in italiano); 2. Abstract (in italiano e in inglese) (massimo 3000 battute - spazi inclusi). 3. Parole chiave (in italiano e in inglese); 4. Didascalie delle tabelle e delle figure (in italiano e in inglese). Nella prima pagina del file devono comparire anche i nomi degli Autori e l'Istituto o Ente di appartenenza; il nome, l'indirizzo, il recapito telefonico e l'indirizzo e-mail dell'Autore cui sono destinate la corrispondenza e le bozze. - Registrazione degli articoli online: gli autori possono inviare i manoscritti all’indirizzo: [email protected] - Software: testo in formato .DOC o .RTF. - Immagini: a) inviare le immagini in file separati dal testo e dalle tabelle; b) software e formato: inviare immagini preferibilmente in formato TIFF o JPG o PDF, con risoluzione minima di 300 dpi e formato di 100 x 150 mm. Tabelle: devono essere contenute nel numero (evitando di presentare lo stesso dato in più forme), dattiloscritte una per pagina e numerate progressivamente con numerazione romana. Bibliografia: va limitata alle voci essenziali identificate nel testo ed elencate al termine del manoscritto in ordine alfabetico. Devono essere riportati i primi 3 Autori, eventualmente seguiti da et al. Esempi di corretta citazione bibliografica per: Articoli e riviste: Schatzberg AF, Samson JA, Bloomingdale KL, et al. Toward a biochemical classification of depressive disorders, X: urinary catecholamines, their metabolites, and D-type scores in subgroups of depressive disorders. Arch Gen Psychiatry 1989;46:260-8. Libri Kaplan HI, Sadock BJ. Comprehensive textbook of Psychiatry. Baltimore: Williams & Wilkins 1985. Capitoli di libri o atti di Congressi Cloninger CR. Establishment of diagnostic validity in psychiatric illness: Robins and Guzes method revisited. In: Robins LN, Barret JE, editors. The validity of psychiatric diagnosis. New York: Raven Press 1989, p.74-85 Le note, contraddistinte da numerazione progressiva, compaiono nel testo, a piè di pagina.

Informations for Authors Dasein, official journal of the Italian Society of Existential Psychotherapy, publishes contributions in the form of monographic articles, in the field of phenomenological-existential psychology, psychopathology and psychotherapy. The material submitted should not have been previously published, and should not be under consideration (in whole or in part) elsewhere. The text must be written in Italian or in English (max 30.000 characters - including spaces);. The paper must include: 1. Title (in Italian and English); 2. Abstract (in Italian and English): max 3000 characters - including spaces; 3. A set of key words (in Italian and English); 4. Legends for tables and figures (each figure and/or each table on separate pages, both in English and Italian); The first page of the manuscript must contain the names of the Authors and the Institute or organization to which each Author is affiliated, the name, mailing address, and telephone and email of the Author to whom correspondence should be sent. - Online submission: authors can submit their manuscripts to: [email protected] - Software and text: please saving files in .DOC or in .RTF format. -Pictures: a) send pictures in separate files from text and tables; b) software and format: preferably send images in .TIFF or .JPEG or .PDF format, resolution at least 300 dpi (100 x 150 mm). Tables (in 3 copies) must be limited in number (the same data should not be presented twice, in both the text and tables), typewritten one to a page, and numbered consecutively with Roman numerals. The references must be limited to the most essential and relevant references, identified in the text and listed at the end of the manuscript in the order of mention. Examples of the correct format for bibliographic citations: Journal articles: Schatzberg AF, Samson JA, Bloomingdale KL, et al. Toward a biochemical classification of depressive disorders, X: urinary catecholamines, their metabolites, and D-type scores in subgroups of depressive disorders. Arch Gen Psychiatry 1989;46:260-8. Books: Kaplan HI, Sadock BJ. Comprehensive textbook of Psychiatry. Baltimore: Williams & Wilkins 1985. Chapters from books or material from conference proceedings: Cloninger CR. Establishment of diagnostic validity in psychiatric illness: Robins and Guze's method revisited. In: Robins LN, Barret JE, editors. The validity of psychiatric diagnosis. New York: Raven Press 1989, p.74-85. Notes to the text, indicated by consecutive numbering, appear at the bottom of the page.

Sommario - Contents

Editoriale • Editorial

Lodovico Berra…………………………………………………………………… 7

Da-sein

Ado Huygens …………………………………………………………………… 11

Il significato della Daseinanalyse nella psicoterapia - parte I

The meaning of Daseinanalyse in psychotherapy

Hansjörg Reck ……………………………………………………………………17

L’arte e la scienza della psicoterapia esistenziale

Art and science of existential psychotherapy

Lodovico Berra…………………………………………………………………. 30

Relatedness and the therapeutic relationship as viewed by existential therapy

Relazionalità e rapporto terapeutico secondo la terapia esistenziale

Ernesto Spinelli ………………………………………………………………… 40

Psicoanalisi e analisi esistenziale: tra differenze e analogie

Psychonalysis and existential analysis: between differences and analogies

Ferdinando Brancaleone ………………………………………………………… 50

Edith Stein e l’empatia

Edith Stein and empathy

Mariacarla Zunino………………………………………………………………. 59

Secrets of Existential Psychotherapy - Part I

Segreti della psicoterapia esistenziale - Parte I

Stephen A. Diamond …………………………………………………………… 68

Il fallimento del Dasein nella psicosi

The failure of Dasein in psychosis

Nicolò Terminio ………………………………………………………………… 85

Dasein, n.1, 2013

7

Editoriale

Nel vasto panorama delle pubblicazioni oggi esistenti in Italia nel campo della

psicologia e della psicoterapia si inserisce questa nuova rivista che rappresenta un

punto di incontro e di confronto tra coloro che amano e coltivano l’approccio

fenomenologico-esistenziale.

La rivista è l’organo ufficiale della Società Italiana di Psicoterapia Esistenziale e vuole

rappresentare perciò uno specchio che riflette i pensieri, le ricerche e le prospettive

teorico-pratiche dei membri associati o dei simpatizzanti, italiani e stranieri.

Nonostante il notevole numero di pubblicazioni nel mondo vi è solo un piccolo

spazio dedicato alla psicologia e psicoterapia esistenziale e poche sono le riviste

specializzate in questo orientamento. Per questo è stato scelto di inserire articoli sia

in italiano che in inglese, come è la tendenza attuale per le riviste che aspirino ad un

maggior respiro internazionale.

La scelta del titolo della rivista è anche un significativo indicatore dello spirito che

vuole accompagnare la pubblicazione.

Il termine Dasein significa in tedesco Esistenza, ma assume un significato più

complesso nel modo in cui viene utilizzato da Heidegger nelle sue opere, dove viene

tradotto con il termine Esserci.

Il termine da in Da-sein, tradotto con il ci, non è solo un essere qui nel senso di una

localizzazione spaziale, ma sta a indicare il modo in cui concretamente l’Essere si dà

nell’esistenza dell’uomo. L’Esserci è infatti un essere-nel-mondo, con tutte le implicazioni

che ne derivano di rapporto con il mondo circostante (Umwelt), con gli altri esseri

umani (Mitwelt), con il proprio mondo interiore (Eigenwelt) e con il mondo spirituale,

dei valori e dei significati (Űberwelt).

Il Dasein che ci riguarda comprende perciò sia l’indagine filosofica in senso stretto

che la sua applicazione pratica e concreta ed è in questo senso che la psicoterapia

esistenziale diviene un laboratorio in cui è essenziale il confronto tra filosofi e

psicologi, tra ricerca teoretica e pratica clinica, nello spirito che accompagnò illustri

studiosi quali Binswanger e Boss.

Dasein, n.1, 2013

8

Il termine Dasein viene illustrato in modo più approfondito e magistrale da Ado

Huygens, presidente della International Federation of Daseinanalyse, che ci onora della sua

presenza nella sua lettera-articolo all’inizio di questo primo numero della rivista. Sono

poche pagine ma di importanza fondamentale per entrare nel clima complesso ed

affascinante della analitica esistenziale. Egli evidenzia infatti come nella

Daseinanalyse l’indagine ontologica diventi inscindibile da quella sull’uomo, quindi

come il lavoro filosofico in senso stretto divenga parte fondamentale della pratica

psicoterapeutica. È infatti in questo senso che si orienta la psicoterapia esistenziale,

essendo allo stesso tempo riflessione metafisica sull’esistenza ed azione concreta sui

problemi dell’uomo.

A questo segue l’articolo di Hansjörg Reck, membro del Österreichisches

Daseinanalytische Institut e socio onorario della SICoF, Società Italiana di Counseling

Filosofico. Questo per la sua ampiezza è stato diviso in due parti, di cui la seconda

verrà proposta nel prossimo secondo numero della rivista. Il suo lavoro ci introduce

in modo efficace alla pratica della Daseinanalyse, in particolare in rapporto a quello

della psicoanalisi, introducendo aspetti di metodo rilevanti quali quello degli

“esistenziali” e del lavoro sul sogno.

In considerazione del particolare atteggiamento filosofico dello psicoterapeuta

esistenziale, e forse potremmo anche dire poetico, come evidenziato abilmente nelle

citazioni di Reck, si pone il problema di come uno spirito libero e creativo possa

combinarsi con un approccio moderno alla psicoterapia, ponendosi alla pari di altri

interventi medici e naturalmente in grado di reggere il confronto con altre

psicoterapie diffuse nel mondo. In questo senso ho voluto proporre nel mio

intervento una riflessione sul senso della psicoterapia oggi, considerando la necessità

di combinare aspetti artistici insieme a quelli più scientifici, alla luce delle più recenti

scoperte di psicobiologia. Da un’apparente antagonismo, come evidenziato nella

contrapposizione storica tra psicologia umanistica e psicologia scientifica, ne può

nascere una significativa sinergia, nel nostro caso rappresentata dalla prospettiva della

psicoterapia esistenziale.

Dasein, n.1, 2013

9

Un aspetto fondamentale che caratterizza questo orientamento psicoterapeutico è

l’importanza data alla relazione terapeuta-paziente, come egregiamente illustrato

dall’articolo di Ernesto Spinelli, noto psicoanalista, studioso e docente di psicoterapia

e counseling. Il suo interesse per gli aspetti relativi alla relazionalità in psicoterapia è

ben evidente in suo testo, considerato uno dei contributi più importanti nella teoria e

pratica della analisi esistenziale, dal titolo “Practising Existential Psychotherapy: The

Relational World”, di cui è prevista una nuova edizione nel 2014. Nell’articolo Spinelli

ci illustra alcuni concetti fondamentali relativi al rapporto terapeutico e alla

relazionalità, introducendo il concetto originale di un-knowing, termine non facilmente

traducibile in italiano e da lui stesso inteso come “l'attento rimanere aperto a ciò che

è presente senza pregiudizio”.

La psicoterapia esistenziale include differenti indirizzi ed orientamenti, quali l’Analisi

esistenziale (Existenzanalyse di Frankl) e l’Analitica esistenziale (Daseinsanalyse di

Heidegger e Boss) che però mantengono la loro radice storica e concettuale nella

psicoanalisi freudiana. Questo è ben descritto nell’articolo di Ferdinando

Brancaleone, direttore scientifico dell’Istituto di Scienze Umane ed Esistenziali di

Napoli, uno dei pochi centri che da tempo operano in Italia per sostenere

l’orientamento esistenziale. Come egli scrive tutte e tre gli approcci (psicoanalisi

freudiana, analisi esistenziale e analitica esistenziale) anche se da diverse angolazioni

si preoccupano di «analizzare nel senso di rendere trasparente l'essenza umana sulla

base della sua struttura e membratura». È infatti il significato profondo e filosofico

dell’esistenza e dell’uomo stesso che fa da sfondo all’intervento psicoterapeutico. In

questo senso risulta fondamentale il contributo portato dalla Filosofia alla pratica

della psicoterapia, come dimostrato dalle considerazioni in merito al pensiero della

filosofa Edith Stein da parte di Mariacarla Zunino. La SIPE, e quindi questa rivista

che la rappresenta, nasce proprio dalla collaborazione di psicologi, psichiatri e

filosofi, ognuno con il proprio contributo specialistico, che confluisce sull’essere

umano, sulla sua esistenza e sul proposito di agire sui problemi pratici che la

caratterizzano. Non ci può essere psicologia (o psicopatologia) senza filosofia, così

Dasein, n.1, 2013

10

come non ci può essere filosofia senza psicologia: è questo uno dei presupposti

fondamentali che ci accompagna nella nostra ricerca.

Stephen Diamond, psicologo clinico e forense, allievo di Rollo May, affronta poi in

questo numero della rivista la questione, ampiamente dibattuta, sulla identità della

psicoterapia esistenziale, domandandosi “Does Existential Therapy Really Exist?” e

promuovendo l’orientamento che lui stesso definisce “psicologia esistenziale del

profondo”. L’articolo è tratto in parte dal capitolo sulla psicoterapia esistenziale del

testo di prossima uscita “Contemporary Theory and Practice of Counseling and Psychotherapy”;

esso è stato suddiviso in due parti per la sua lunghezza e la seconda parte verrà

proposta nel prossimo numero della nostra rivista.

Infine Nicolò Terminio, prendendo spunto dal caso di Anna Rau, tratto dal testo di

Blankenburg “La perdita dell’evidenza naturale”, esamina in modo critico e profondo il

nucleo fondamentale che sta all’origine del mondo psicotico, preoccupazione centrale

di numerosi psicopatologi di area fenomenologica. L’analisi del Dasein è in grado di

far luce sui meccanismi psicologici che reggono la psicosi, fornendo così un possibile

indirizzo di lavoro psicoterapeutico.

Questo primo numero della rivista si presenta così notevolmente articolato, con il

contributo di diversi autori, con differenti background professionali e clinici ma tutti

accomunati dallo stesso interesse o, preferiremmo dire, passione per un ambito della

psicologia fino ad oggi ancora troppo poco considerato e che merita di essere

rivalutato e diffuso, compito quindi fondamentale di questa rivista.

Lodovico Berra

Dasein, n.1, 2013

11

Da-sein1

Ado Huygens

Presidente della International Federation of Daseinanalysis

Audace è chiamare un giornale “Dasein”, ma al tempo stesso penetrante. Si tratterà

di non coagularne mai il senso.

Daseinsanalyse. Il termine come suona in tedesco rimane per la maggioranza ermetico.

Il concetto di “analisi” si sviluppa durante i seminari di Zurigo, meglio conosciuti

come i Zollikoner Seminare. Heidegger ci apre un cammino, un sentiero trasversale che

ci permette di cogliere l’analisi come un processo di unificazione della cosa analizzata.

Non si tratta, dice, di «una dissoluzione in elementi, ma l’articolazione dell’unità di un

insieme strutturale»2. Si tratta di decostruire, sospendere le nostre conoscenze

prestabilite, il nostro sapere sovente assoggettato ad evidenze non comprovate e

infondate. L’analisi presuppone un “soggiornare presso” una temporalità ben

specifica che apre un tempo per soggiornare, una passibilità di possibili. Il modo in

cui mi dirigo verso la cosa analizzata è essenziale.

Questo non è un «Io» onnipotente, con pieno controllo, un tecnico, un esperto che

sviscera, cataloga, classifica qualcosa che è al tempo stesso un oggetto, ma piuttosto

un essere che si apre a questa apertura all’Essere di cui è il pastore.

Da-sein ... il termine è piuttosto comune nella lingua tedesca e significa esistenza,

presenza. Heidegger lo sceglie per dare significato alla sua geniale intuizione, per

esprimere questo rapporto distintivo che l’uomo ha con l’Essere, Heidegger lo sceglie

per descrivere «questo ente che non si limita ad apparire in seno all’ente, per questo

ente dove ne va il suo essere di questo essere»3.

1 Traduzione dal francese di Lodovico Berra 2 Heidegger M., Séminaires de Zurich, 2010, Gallimard, p.176 traduction par Caroline Gros des Zollikoner Seminare,1987 3 HeideggerM., Être et Temps, 1929, Traduction Martineau, Authentica, 1989, p. 12

Dasein, n.1, 2013

12

Come non essere scossi da questo annuncio heideggeriano? Esso dissigilla la

fondazione immutabile della metafisica e pone la domanda sull’ essere in una nuova e

radicale direzione, quella dell’Essere.

Piuttosto che “nuova direzione”, dovremmo dire, domanda l’ente in modo assiduo,

tenacità e profondità senza mai lasciarsi pervertire dal bagliore di questo ente. Noi

non siamo semplicemente un ente tra altri enti. Ciò che ci differenzia

fondamentalmente è la nostra capacità di intonarci, di accordarci all’essere dell’ente, il

che ci permette di comprendere questo luogo ove noi siamo stati gettati come il “ci”

dove l’ente si eleva nella sua essenza per aprirci la sua appartenenza all’Essere.

Noi non ci troviamo nel mondo, come una sedia si trova vicina a un tavolo. Una

strana co-appartenenza si stabilisce tra il Dasein che io sono nella mia propria meità e

il mondo.

Noi non siamo, noi dobbiamo “essere”. La formula è semplice, il provarlo molto

meno. Tanto meno facilmente poiché non siamo stati invitati a queste nostre vite

dove erriamo in un orizzonte impersonale, inautentico, smaltato d’opinioni

pubbliche, curiosità, chiacchere. Da-sein non è Dasein, ex-sistenza non è esistenza, la

prima in senso heideggeriano, la seconda nel senso comune. Eccoci al confronto con

il concetto di “esistenza” che significa per i comuni mortali che ci sia qualcosa là

davanti di consistente, quando nel senso heideggeriano, l’ex-sistenza, l’ex-sistere

riflette questa apertura dal quale il mio essere si intona all’Essere. «Stare nella radura

dell’Essere, è quello che io chiamo l’ek-sistenza dell’uomo»4. Il dispiegamento del

pensiero meditativo heideggeriano dagli anni Venti agli anni Sessanta, in Essere e

Tempo a Tempo e Essere, attraverso i contributi alla filosofia, richiama ad una

trasformazione fondamentale dell’uomo, quello dell’ «animale razionale in Dasein»5 alla

luce di una transpropiazione evenemeziale: Ereignis, quale movimento pulsionale tra

l’uomo e l’Essere.

Non si tratta di discorrere sul tema dell’Essere, ma di lasciarsi andare a questa

apertura, a questo cammino a cui Heidegger ci convoca. Pensare! Camminare!

4 Heidegger M., Lettre sur l’humanisme, 1946, Question III-IV, Gallimard, 1976, p.80 5 Heidegger M., Contributions to Philosophy (of the Event), 1936-1938, Indiana University Press, ( Nouvelle traduction de Rojcewicz et Vallega-Neu, 2012, p.6

Dasein, n.1, 2013

13

Pensare durante il cammino; camminare mentre si pensa all’avvento-evento di questa

relazione insigne, singolare, che l’uomo intrattiene con l’Essere, almeno se egli si

distacca dalla influenza dell’ente.

Noi non pensiamo che raramente quanto il pensare significhi «lacerare la nuvola che

copre l’ente in quanto tale e preoccuparsi di impedire che questa lacerazione non sia

scoperta»6. Noi pensiamo ancor più raramente che la detta lacerazione - questo

svelamento dell’ente, questa intonazione all’Essere - non dipenda da una

dimostrazione logica, ma dalla prova dell’aletheia, quale «verità originaria della physis»7

come «non-ritiro in seno all’Aperto»8 che, nel superamento della prova greca, si

comprende anche come «la radura del ritiro dell’Aperto»9, dispiegandosi così in un

gioco continuo di luce e ombra, di svelamento e di un soggiornare-in-ritiro di chiaro

e di oscuro. «La Lichtung - lo spazio libero che appare - l’Aperto è radura per la

presenza e l’assenza»10.

Osiamo andare avanti, come per Eraclito o Heidegger, «in una zona dove la nostra

solita chiarezza svanisce»11. Rischiamo «il salto in questo abisso, camminando ora

senza suolo, né punti d’appoggio nell’oscurità»12.

Perché ogni cosa possa donarsi, qualunque essa sia, perché possa divenire

apprensibile, quindi intelligibile, questa cosa deve potersi fenomenizzare… Ogni

forma di fenomenizzazione inizia dall’entità ... Che cosa che si fenomenizza: frammenti

di essere.

Per formare un ente particolare - materia, concetto, vivente ... l’uomo stesso, ogni

volta, lo stesso processo: si devono liberare a partire dall’ Essere – il più possibile -

alcune delle sue possibilità, per lo più precise e determinate, per dare luce a un ente

specifico, più o meno ambiguo proprio secondo la precisione e determinazione dei

6 Heidegger M., Qu’appelle-t-on penser ?, 1954, PUF, 1992, p.66 7 Conferatur Heidegger M., Contributions to Philosophy (of the Event), Op.Cit., V. The Grounding, c) Essence of truth et e) The essential occurrence of truth as a sheltering. 8 Heidegger M., La fin de la philosophie et le tournant, 1968, in Question III-IV, Gallimard, 2002, p. 304 9 Ibidem, p.304 10 Ibid. p.295 11 Walter Biemel, Le professeur, le penseur, l’ami, in Martin Heidegger, 1983, Cahier de l’Herne, p.131 12 Heidegger M., De l’essence de la liberté humaine, Introduction à la philosophie, 1930, Gallimard, 1987, p. 116

Dasein, n.1, 2013

14

predicati liberati. La concatenazione realizzata, l’Essere si ritira. Si ritira poiché la

cosa, l’oggetto, in una parola, l’ente si dona a partire unicamente dai propri predicati.

Se l’Essere non si fosse ritirato, l’ente sarebbe inidentificabile così come sarebbe tutto

e il contrario di tutto. Così vale per gli oggetti usuali e per ogni produzione razionale.

Cosa ben diversa, la creatività esuberante, arborescenza dell’artista, e anche di alcuni

ricercatori. Cosa ben diversa, l’opera d’arte che non si riduce a entità. Analizzando

questi differenti concetti, mi rendo conto che posso, attraverso una immaginazione

trascendentale, essere consapevole… del fatto che, già, nessun altro ente può fare.

Questa consapevolezza non si ferma in questo buon cammino.

Essa si eleva da se stessa nella parusia13 dell’Essere che avrebbe dovuto ritirarsi, una

presenza di tutt’altro ordine di quello che noi chiamiamo “mondo”.

Come può l’uomo intonarsi a ciò da cui si è ritirato? Come può egli sentire ciò che

sfugge ai suoi sensi?

Io non sono essenzialmente limitato ai predicati che l’Essere mi ha concesso: il mio

genere, la mia misura, la mia plasticità, la mia intelligenza,… Malgrado questi

predicati che in una certa misura mi limitano, intonarmi all’Essere mi possibilizza

all’impossibile.

«L’uomo non è il padrone dell’ente bensì il pastore dell’Essere»14 colui che si intona

all’Essere attraverso le cose di questo mondo mantenendosi nella sua appartenenza

all’Essere.

Provare l’Essere, è incontrare l’ente ai limiti dell’indifferenziato, dell’informe. Colui

che prova l’Essere prova l’assenza, il ritiro, il “dove” l’ente si dona in piena-presenza

e ove, paradossalmente, si illumina. Questa prova non lo lascia indifferente ma lo

tocca, lo colpisce.

Mettersi all’ascolto di questa «Befindlichkeit» - di questo stato ove egli si trova – rinvia

il Dasein al suo “ci”, al fatto di essere gettato nel suo “ci”, gettato in questa apertura-

significante. Poiché questa apertura è anche significabilità, emergenza di senso, di

13 «Parousie veut dire : le perpétuel avoir-séjour, dont la venue à lui regarde l’homme, quiétude qui l’atteint et qui lui est offerte. » Heidegger M., Temps et Être, 1962, Question III-IV, Gallimard, 1976, p.209 14 Heidegger M., Lettre sur l’humanisme, 1946, Question III-IV, Gallimard, 1976, p. 101

Dasein, n.1, 2013

15

significanze, di significazioni che si rinnovano le une con le altre sottendendo

l’avvento del comprendere, un comprendere intonato, che dev’essere precisato.

« Verstehen ist immer gestimmtes.»15. Intonarsi all’Essere «come fondo abissale

dell’ente» in un luogo e posto di influenza dell’ente, ridotto alla sua propria entità,

scuote l’uomo dal suo “ci”.

Lungi dal cogliere la verità originale della physis – la totalità dell’ente – come

«potenza di apertura-ritiro» nella sua dinamica contradditoria di creazione e

distruzione, di presenza e assenza, l’uomo stesso se ne dimentica e portato dall’hybris

- l’orgoglio - si prende per un dio negando la sua assoluta finitudine16.

Nondimeno, quale che sia il suo cammino, come sottolineato giustamente in modo

forte da Heidegger, si presenta inevitabilmente un limite che «sovralimita ogni limite.

Più di uscita, dissodamento, cattura, dominio. È la morte»17. È unicamente allorché la

deflagrazione di questa potenza nullificatrice rovina l’illusione dell’hybris che l’uomo

può aprirsi all’aletheia, alla verità originale della physis e accettare che la sua capacità

di intonarsi all’Essere non l’affranchi dal suo essere-uomo più proprio, per conoscere

il suo essere-per-la-morte. È, al contrario, a partire da questa «temporalità insigne»

che l’essere-uomo può accordarsi all’ essere-più-proprio della physis e all’Essere per

conoscere questo movimento paradossale e ambiguo di sboccio e di ritiro, di

creazione e di nullificazione.

Cogliere quanto la fenomenalizzazione stessa, senza tanto occultare, non può essere

né totale, né troppo brusca e si trova, nell’attraversamento del ritegno, ad accogliere

15 Heidegger M., Sein und Zeit, 1927, Max Niemeyer Verlag, 1993, p.142 “Le comprendre est toujours intonné”. 16 Cfr Heidegger M., Introduction à la métaphysique, 1935, Gallimard, 1980, Chapitre 3 « Être et penser » de la quatrième partie « La limitation de l’être » et son approche herméneutique par Joël BALAZUT, L’impensé de la philosophie heideggérienne, l’essence du tragique, 2006, L’Harmattan. Heidegger y commente les deux premiers vers de Sophocle : « Multiple est l’inquiétant, rien cependant / Au-delà de l’homme, plus inquiétant, ne se soulève en s’élevant. » « Le mot grec Deinon est ambigu… à la fois la perdominance prépotente qui provoque la terreur panique, l’angoisse et … comme celui qui emploie la violence, le faisant-violence,…. C’est parce qu’il est doublement deivov, au sens originairement uni de ce mot, que l’homme est le plus violent : faisant violence au sein du prépotent… nous comprenons inquiétant comme ce qui nous rejette hors de la quiétude, hors de l’intime, de l’habituel, du familier, de la sécurité non menacée. » p.155 et suivantes 17 : Ibidem, p. 164

Dasein, n.1, 2013

16

«il pudore come la riserva di lasciar essere il mistero che ogni manifestazione abita»

come un preservare l’apertura a mantenersi come apertura.

Instaurare una « daseinsgemasse Therapie »18 richiede per il clinico di provare nel cuore

dell’incontro terapeutico l’apertura all’Essere, di abitare «il ci” come luogo fondativo

del suo essere, Da-sein, esser-lì.

Che questo giornale possa dispiegare questo esser-lì. Gli auguro lunga vita e

l’intensità del dialogo e dell’apertura.

18 Medard Boss, Existential Foundations of medecine & psychology, 1979, Jason Aronson, 1994, une thérapie conforme au Dasein… p.251 : “ En tentant d’organiser ou de structurer la pathologie générale, nous avons constaté que la maladie est toujours un affaiblissement, une fragilisation ou une limitation de la liberté humaine de mouvement, dans le sens le plus large du mot... Les différentes manières dont s’exprime la maladie renvoie toujours à l’affaiblissement des existentiaux à savoir l’ouverture, la spatialité, la temporalité, l’être-ensemble dans un monde commun, l’intonation ou la possibilité de s’accorder-à, l’historicité et la finitude (le mourir). » Traduction personnelle.

Dasein n.1, 2013

17

Il significato della Daseinanalyse nella psicoterapia1 -parte I

The Meaning of Daseinalyse in psychotherapy – part I

Hansjörg Reck

Summary

La questione relativa alla migliore psicoterapia è inevitabilmente connessa con l'esistenza dell'uomo, il suo Esserci (Dasein), cioè il suo “essere-nel-mondo”. In questo senso non si tratta soltanto di ciò che lui stesso impiega, bensì a che scopo egli viene impiegato nel suo essere. Se viene impiegato affinché le “cose” del suo mondo possano diventare manifeste nella loro essenza, deve essere – per quanto possa non essere facile – il più possibile imparziale, aperto alla loro accoglienza e trovare la sua risposta ad esse. Un aiuto terapeutico necessario non può accontentarsi quindi di afferrare, classificare e valutare comportamenti patologici, ma dovrà tenere conto delle caratteristiche fondamentali dell'esistenza del paziente, in vista di una maggiore libertà e di un processo di guarigione. Parole chiave: Essere-uomo – terapia ottimale – libertà The issue about the best psychotherapy is inevitably connected with the man existence, with his Being-there (Dasein), that is “being-in-the-world." In this sense it is not only what he employs, but for what purpose he is employed in his being. If he is employed so that the "things" of his world can become manifest in their essence, must be - though it may be not easy - as unbiased as possible, to open their welcome and find his answer to them. Then a therapeutic help must not be satisfied to grasp, classify and evaluate pathological behaviors, but must consider the fundamental characteristics of the patient existence, in order to achieve greater freedom and a healing process.

Key words: Being-man – optimal therapy – freedom

1 traduzione dal tedesco di Alberto Rezzi

Dasein n.1, 2013

18

Storia, teoria, metodo

Il “pilastro” della psicoanalisi

Alla ricerca di un metodo più duraturo ed efficace di quello che offrivano le tecniche

oscuranti e suggestive, come ad esempio l'ipnosi, Freud (1975, pp. 99ss) approdò

infine alla psicoanalisi, una tecnica chiarificatrice: a partire dal mito di Edipo elaborò la

teoria decisiva per la psicopatologia secondo cui le verità nascoste, come ciò che è

stato spostato e rimosso, possono ripercuotersi in maniera negativa sulla psiche.

Quando queste sono portate alla luce attraverso l'indagine e l'azione terapeutica, si

giunge ad una liberazione e ad una via di guarigione (cfr. Wucherer, 2004/5).

Ma Freud (1975, pp. 239ss) sapeva anche che questa liberazione non sarebbe stata

raggiungibile senza paure e resistenze, e che pertanto giocava un ruolo estremamente

importante l'accompagnamento in una relazione terapeutica protettiva. Questa relazione

prendeva le mosse da un “senso” della sofferenza psichica che si tratta di scoprire. In

essa andava salvaguardato ciò che fino a quel momento era rimasto nascosto al

paziente e respinto quello che aveva portato alla malattia, o quello che aveva

costantemente ostacolato una libertà maggiore. Proprio questa libertà riconquistata

doveva in ultima analisi essere messa in pratica.

Affinità e differenze metodologiche tra psicoanalisi e Daseinsanalyse

La Daseinsanalyse, al cui metodo io ricorro, rispetto a questo “pilastro” si considera

senz'altro seguace della psicoanalisi. Tuttavia si differenzia dalla psicoanalisi, la cui

concezione della realtà propria delle scienze naturali distingue nettamente il mondo

esterno neutro, oggettivo, e l'osservatore soggettivo, razionale e calcolatore, per il

fatto che nella Daseinsanalyse le «circostanze che appaiono significative... da una

parte, e l'esistenza dell'uomo dall'altra, formano un'unità indivisibile...» (Boss, 1989,

DA 6, 153). Questo comporta una rinuncia al “ruolo” dell'osservatore imparziale e

quindi a una divisione soggetto-oggetto. Nella terapia, ciò si traduce in una rinuncia al

concetto di “transfert” e “controtransfert”, in favore dell'attenzione rivolta al nostro

comune essere-con (Mitsein).

Dasein n.1, 2013

19

Binswanger e Boss, che in qualità di medici si interessarono – ciascuno a suo modo –

all'“analitica dell'Esserci” (Daseinsanalitik) di Heidegger e da qui svilupparono la loro

psicoterapia, la Daseinsanalyse, inizialmente da seguaci di Freud dedicarono la loro

attenzione anche alla psicoanalisi, ma trovarono la sua impostazione teoretica

inadatta ad una comprensione sufficiente e ad una terapia dei loro pazienti.

Contrariamente alle spiegazioni causal-genetiche della psicoanalisi, nella

Daseinsanalyse si tratta semplicemente di indagare il senso e il significato dei

fenomeni osservati. Per questa ragione i sintomi, le idee, i sogni e i comportamenti

vengono considerati e interpretati in maniera totalmente diversa rispetto alla

psicoanalisi.

Mentre la concezione della realtà tipica delle scienze naturali, oggi largamente diffusa,

anche nella psicoanalisi, fa leva soltanto su ciò che è dimostrabile da tutti e in

qualsiasi momento, e quindi richiede una concordanza di varie opinioni “oggettive”,

la Daseinsanalyse prende in considerazione altre realtà: il mondo dei sogni, le psicosi,

ad esempio: ciascuna possiede infatti la propria realtà. Quello che può venire alla luce

attraverso la loro comprensione, e dunque essere disvelato, aperto, “vero” nel suo

senso originario, è qualcosa di più di una corretta concordanza ai sensi della

Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD). Nella Daseinsanalyse l'uomo e le

cose non vengono “presi di mira” e trasformati in oggetto dell'osservazione, cioè

oggettivati, bensì accolti sin da subito nelle loro possibilità più proprie. Questo mi

sembra rappresenti un approccio più rispettoso nei confronti dell'uomo e delle cose.

Se ad esempio ci viene in mente un'idea, o se la notte passata abbiamo sognato, da

dove sono venuti l'idea e i sogni? Se al contrario un analizzando si lamenta di non

avere idee e di non fare sogni, deve forse cercarli e crearli? Oppure può

semplicemente lasciarli arrivare, a condizione che si apra alle cose e agli esseri umani

affinché possano venire alla mente?

Il fondamento della Daseinsanalyse

Il fondamento della Daseinsanalyse è l'analitica dell'Esserci (Daseinsanalytik) di M.

Heidegger, che considera l'Esserci (Dasein) nella sua apertura nei confronti di tutto

Dasein n.1, 2013

20

ciò che incontra. «All'Esserci appartiene essenzialmente l'essere in un mondo» (cit. da

Herrmann, 2011, p. 15). La realtà della Daseinsanalyse non viene stabilita a piacere

secondo “discrezionalità” e convenzioni umane, ma a partire dalle cose stesse e dal

loro agire, cioè fenomenologicamente.

La Daseinsanalyse è: 1) un modo di considerare le cose, 2) un procedimento

terapeutico. Come tale dunque è sia un indagare che un agire. Alla base di entrambi,

cioè del ricercare, dell'indagare, così come di ogni agire, vi è però una teoria. Che cosa

vuol dire questo per quanto riguarda la Daseinsanalyse? Una “teoria” è una visione del

mondo e dell'uomo e accompagna ogni corrente culturale. Le nostre scienze naturali,

la tecnica, la psicologia e la sociologia, con tutte le loro conquiste e i loro lati oscuri,

si basano su una “concezione del mondo” cognitiva, in base alla quale la realtà –

come abbiamo detto – viene afferrata in modo “oggettivo”, ad esempio attraverso

misurazioni e calcoli. A questa realtà vengono poi conferite delle interpretazioni

soggettive. Si approda così ad una divisione tra esaminante ed esaminato, tra soggetto

e oggetto.

Il metodo della Daseinsanalyse

Nel metodo della Daseinsanalyse, vale a dire nella fenomenologia, questa divisione non ha

luogo. Qui non si viene a creare una relazione oggettivante e categorizzante, ma di

scambio e di accoglienza: si tratta infatti di indagare tutto ciò che si mostra da sé,

ovvero l'essenza delle cose, ivi compreso il comportamento umano. Questo tipo di

indagine, questo poter-apprendere, ha bisogno di tempo e implica un soffermarsi

presso le cose affinché possano disvelarsi. Da questo punto di vista la fenomenologia

mantiene quindi il termine “teoria” nel suo significato originario, che comprende

l'“orao”, cioè il soffermarsi attento presso ciò che si osserva, ovvero il “thea”, così

come lo conosciamo dalla parola “teatro” o “teologia” (cfr. Heidegger, GA, vol. 7,

2000, p. 46s).

Questo modo fenomenologico di considerare le cose (che non rappresenta quindi

“una nuova teoria”) si sviluppò nel pensiero occidentale già nella Grecia antica e poi

cadde in oblio, ma è presente anche in altre culture (ad esempio nell'Estremo

Dasein n.1, 2013

21

Oriente). Esso interroga l'essere di ogni ente e il suo senso; in altre parole, qui il

domandare si concentra sul fatto che in generale qualcosa è e in che modo questo ci

riguarda. Per noi questo tipo di indagine è insolito, abituati come siamo a ricercare

continuamente i retroscena di ogni cosa, anziché accogliere la cosa stessa per come si

manifesta. È stato anzitutto necessario riscoprirlo, come ha fatto con particolare

scrupolosità il filosofo tedesco Martin Heidegger sulla scia del suo maestro Edmund

Husserl. Questo pensiero riportato da Heidegger sui suoi “sentieri” ha ispirato vari

indirizzi di studi, in particolare la concezione delle scienze promossa dall'uomo.

Come detto in precedenza, il modo di pensare e il metodo della Daseinsanalyse è

dato dalla fenomenologia. Esaminiamo anche in questo caso l'origine e il significato

greco del termine:

- “phainomenon”: ciò che si manifesta da sé, ciò che si rende visibile da se stesso,

- “logos”: ciò che viene alla parola, ciò che diventa noto,

da cui “fenomenologia”.

Tuttavia, ciò che in medicina viene spesso definito come (pura) “fenomenologia”,

vale a dire le manifestazioni esterne di una malattia, come ad esempio la febbre, le

eruzioni cutanee, ecc., dà – in senso strettamente fenomenologico – soltanto notizia

di un fenomeno intrinseco, ovvero l'essere-malato. D'altro canto, la “pura apparenza”,

che – come sappiamo – inganna, indica in definitiva una variante privativa del

manifestar-si: in altre parole, ciò che non si mostra da sé, ciò che avviene “per finta”,

una simulazione o un'illusione.

La fenomenologia intende lasciar parlare le diverse nature che l'uomo incontra, lasciar

esprimere le loro stesse essenze. Affinché queste possano diventare visibili, l'uomo

deve mettersi a loro disposizione, essere al loro servizio in quanto “luogo di

manifestazione”. Gli antichi greci chiamavano questa “visibilità” aletheia, ovvero dis-

velamento, verità, in contrapposizione a lethe, nascondimento. Rapportarsi in questo

modo alle cose è senza dubbio più emozionante, poiché non vengono fermate,

fissate e definite, ed anche più appassionante.

Heidegger (GA vol. 8, 2002, pp. 43ss) porta come esempio a questo proposito un

albero fiorente che noi possiamo senz'altro rappresentarci e classificare secondo

Dasein n.1, 2013

22

criteri scientifici, ma che ci dice chi è soltanto se ci poniamo di fronte a lui e ci

lasciamo parlare stando al suo cospetto.

Per contro, la poesia Heidenröslein (Rosellina del prato) di Goethe (1949, I, p. 18), messa

in musica da Schubert, descrive la scoperta e l'amore di un ragazzo per un fiore dalla

bellezza e dal fascino irresistibili, ma nel corso del loro colloquio non si giunge a

nessuna intesa; così, quando il giovinetto crudele spezza la rosellina, dopo un breve

istante di gioia non gli rimangono che la violenza del suo gesto, le spine e il dolore:

Vide un ragazzo una rosellina, rosellina sul prato, era così giovane e graziosa, corse veloce per vederla da vicino, la vide con grande gioia. Rosellina, rosellina, rosellina rossa, rosellina sul prato. Disse il ragazzo: ti spezzo, rosellina sul prato! Disse la rosa: ti pungo, così mi ricorderai per sempre, e non voglio soffrire. Rosellina, rosellina, rosellina rossa, rosellina sul prato. E il ragazzo crudele spezzò la rosellina sul prato; si ribellò la rosa e punse, e non l'aiutò lamento e pena, dovette infatti soffrire. Rosellina, rosellina, rosellina rossa, rosellina sul prato.

Essere ed Esserci

I filosofi definiscono “ente” ciò che si rende visibile e accessibile, ciò che è disponibile

e a portata di mano, e si interrogano sul suo essere. Heidegger non si limita però alla

domanda intorno all'ente al fine di definirlo, inquadrarlo, categorizzarlo e stabilirne la

causa originaria, come ha fatto una filosofia bimillenaria chiamata metafisica. Per lui

si tratta di interrogare l'essere dell'ente, e non l'ente in riferimento alla sua essenza (Zur

Seinsfrage, tr. it. Sulla questione dell'essere, 1967 p. 39). Heidegger pone dunque la

Dasein n.1, 2013

23

questione dell'essere dell'ente nel suo essere, cioè dell'agire dell'ente e del suo senso. Il

“senso” dell'essere sta nel disvelarsi dei suoi “sentieri”.

Anche l'uomo è un ente e Heidegger lo definisce “Esserci” (Dasein). Esserci significa

“essere nel mondo”, esistere, nel senso più letterale del termine latino “ex-stare”,

“uscire da sé”, ma anche nel suo duplice significato: da una parte come un dover

uscire da sé nel mondo nel quale siamo gettati e che all'inizio non conosciamo, un

dover uscire da sé che può anche diventare un peso e una sofferenza. Dall'altra parte

come un lanciarsi fuori nel mondo, sostenerlo e poterlo comprendere, e in questo

modo lasciare che ci si apra un orizzonte.

(Per spiegare questo uscire da sé, nel disvelamento, nella verità dell'essere, in seguito

Heidegger ha scritto “Ek-sistenz” con la “k” per distinguerla da “Existenz” con la

“x”, così da significare la realtà (actualitas) a differenza della semplice possibilità

(potentia) (Humanismusbrief, 1968, p. 16, tr. it. Lettera sull'umanismo).

Le caratteristiche fondamentali dell’essere-uomo: gli esistenziali

In questo esistere in differenti “riferimenti al mondo” si manifestano le caratteristiche

fondamentali dell'essere-uomo, che Heidegger definisce esistenziali. In quanto

caratteristiche fondamentali sono e conferiscono la base, il fondamento, al nostro

Esserci, e sono quindi anche di interesse terapeutico (cfr. Boss, Grundriss der Medizin,

1971).

Essi sono tutto questo: l'apertura, la spazialità e la corporeità dell'Esserci; l'essere

riferito a..., cioè l'essere-con in un mondo comune; la temporalità, la memoria e la

storicità, nonché l'essere mortale, che sono alla base dell'evoluzione dell'uomo, e

infine la situazione emotiva che lo accompagna sempre.

Tutti questi tratti caratteristici sono co-originari, nel senso che l'uomo si sperimenta in

essi sempre contemporaneamente. Pertanto può succedere che il suo essere gli si mostri o

si nasconda; infatti questi tratti caratteristici possono anche essere gravemente

oscurati: l'apertura al mondo e con essa la con-relazione con gli uomini e le cose

possono essere limitate; il tempo, anziché alle sue “estasi” futuro, passato, presente

(Heidegger, Essere e tempo 1972, p. 65, Boss, 1971, p. 255), può essere ridotto a puri e

Dasein n.1, 2013

24

semplici istanti; la corporeità ridotta a fisicità; la storia e la morte dimenticate e la

situazione emotiva essere momentaneamente segnata solo da tristezza e odio.

L'uomo ha la libertà di disporre a piacimento di questi tratti caratteristici? Può fare la

sua essenza, il suo essere-sé, in maniera autarchica? Oppure deve il suo poter-progettare

“farsi evento” di una “radura” (Lichtung), come sostiene Heidegger? (cit. in v.

Herrmann, 2011, pp. 13-20). La libertà dell'uomo consiste certamente nella sua

apertura a tutto ciò che incontra, ma non è una proprietà che l'uomo possiede e di

cui può disporre a piacimento. Essa fa parte dei suddetti tratti caratteristici e consiste:

1) sempre in una scelta, vale a dire in una decisione e determinazione; 2) in un

abbandono (Gelassenheit) – tutt'altro che indifferenza! – dell'uomo nei confronti di

ogni ente, in modo tale che questo possa venire alla luce – spesso ciò che avviene in

modo lento, o inizialmente sconcertante, richiede pazienza – senza doverlo forzare,

distruggere, evitare (cfr. Boss, 1971, p. 318).

Il significato pratico della Daseinsanalyse per il nostro intervento

terapeutico

Esempio di un sogno

Qual è il significato pratico del pensiero della Daseinsanalyse, e a che cosa serve

l'osservazione degli esistenziali sul piano pratico? Sarebbe interessante andare a

vedere in quanti campi tale pensiero ha esercitato la sua influenza e al tempo stesso si

è dimostrato fertile: nella filosofia, nell'arte, nell'architettura, nella tecnica, nella

politica. Ma, anche se in modi diversi, quella che si pone sempre è la questione

dell'essere proprio dell'uomo.

Possiamo dire che avvenga in modo autarchico? Oppure in adempimento ad un

destino dell'essere? (cfr. v. Herrmann, 2011, pp. 13-20).

In questa sede vorrei limitarmi al significato del pensiero della Daseinsanalyse nella

terapia e nella pedagogia.

In proposito riporto innanzitutto un esempio di sogno preso dalla mia pratica

Dasein n.1, 2013

25

psicoterapeutica, che mostra come anche l'attenzione rivolta agli esistenziali presenti

nel sogno possa essere utile. Nel sogno, infatti, ci viene comunicato qualcosa sui

nostri tratti caratteristici e sul nostro rapporto con il mondo, qualcosa che da svegli

(eventualmente con l'ausilio di un'interpretazione) ci fa diventare più perspicaci:

Un ragazzo di diciotto anni sogna di essere invitato alla festa di compleanno di sua cugina, cosa di

cui non vedeva l'ora. Mentre è in bagno intento a prepararsi, lavarsi e vestirsi, attraverso una

finestra riesce già a vedere la cugina insieme ad altre ragazze che lo aspettano.

Quando però cerca di raggiungerle di là in soggiorno, trova la porta chiusa a chiave e non riesce ad

aprirla. E quando tenta di chiamare e di gridare, non gli esce la voce. E proprio mentre va su tutte

le furie per questo, e prova a buttare giù la porta o a rassegnarsi, ecco che si sveglia.

Interpretazione del sogno

Dove si trova qui il paziente? Nelle stanze di sua cugina, alla sua festa di compleanno.

Questo implica un ricordo della nascita e dell'inizio. Verso il luogo della festa, il

soggiorno, la visuale è libera attraverso una finestra, ma per lui l'accesso è bloccato da

una porta. Si trova in bagno, inizialmente impegnato nella cura della sua corporeità.

Che cosa gli succede allo stesso tempo in questo mondo onirico? Attraverso la finestra

riesce già a vedere la cugina, una parente, e altre giovani donne, con le quali

festeggerà.

Come è il suo stato d'animo? In attesa dell'incontro e della festa è gioioso. Dopo

essersi imbattuto negli ostacoli che lo separano dagli altri, la porta chiusa a chiave, la

voce che non esce: disperato, furibondo, ansioso-aggressivo. “L'elemento festoso”

che lo ha coinvolto è ciò che inizialmente lo rende di buon umore, “il motivo della

gioia”, ma è anche quello della rabbia, dell'ansia e della tristezza, una volta compreso

che non è raggiungibile (cfr. Heidegger, Andenken, GA 52, 1982, p. 71).

Applicazione terapeutica dell'interpretazione del sogno

Nell'applicazione terapeutica farei leva sugli interessi e sui riferimenti del suo mondo,

che sono assolutamente consoni all'età. Tuttavia il “blocco” della sua voce, sebbene la

Dasein n.1, 2013

26

festa lo avesse coinvolto e attendesse la sua risposta, potrebbe essere comprensibile

sulla base delle sue paure e depressioni ancora presenti. Bisognerebbe inoltre

domandargli se non avesse dovuto provare ad usare di più la sua voce per ottenere

una migliore comunicazione. Se inoltre la sua vitalità non avrebbe potuto emergere

ancora di più, anziché perdersi in fantasie di rabbia o addirittura rassegnarsi.

L'atteggiamento terapeutico

La “Daseinsanalyse”, o “Daseinsanalytik”, l'analitica dell'Esserci, come Heidegger

definisce la sua riflessione intorno all'Esserci dell'uomo, non è finalizzata ad uno

scopo. Non si tratta di una tecnica o di un mezzo per determinare qua e là dei

cambiamenti. Queste idee non sono state elaborate per questo, ma sono state

consegnate – ragion per cui si parla anche di “fenomenologia ermeneutica”, che non

va però confusa con una sorta di insegnamento o di missione esoterica da parte di un

guru. Tali idee possono essere fatte proprie da chi ha orecchio fine, accolte, ma si

può anche far finta di non sentirle. Nel momento in cui vengono pensate, però, è

possibile giungere a dei cambiamenti. Che cosa può succedere? Si può approdare ad

una concezione dell'uomo come Dasein, e questo fornirebbe ad esempio un adeguato

fondamento ad una terapia o a una pedagogia.

Nel trattamento tipico della Daseinsanalyse non si procede ad una fissazione su

singoli fatti isolati da guarire, bensì ad un'apertura al “mondo” del paziente e alla sua

comprensione. Vari modelli, ipotesi, calcoli non possono spiegare da soli ogni cosa

vivente, tanto meno l'uomo e il suo comportamento. Certamente molte cose si

possono controllare, calcolare e categorizzare. L'essenza dell'uomo, come quella di

ogni altro ente, non si lascia tuttavia cogliere in questo modo. Per “coglierla” occorrono

l'abbandono, l'ascolto e la riflessione di cui abbiamo parlato in precedenza.

Questo non significa affatto essere contro un pensiero “innovativo”. Heidegger

distingue il “pensiero calcolante” e il “pensiero riflessivo”, “entrambi i quali sono a

loro modo legittimi e necessari” (cfr. Heidegger, Gelassenheit, 1959, p. 13, tr. it.

L'abbandono; Reck, Notwendiges Zusammentreffen..., 1999, p. 175).

Ora, però, se si tratta di indagare l'essenza dell'uomo in una terapia e in una

Dasein n.1, 2013

27

pedagogia concepite seriamente, in che cosa possiamo individuare l'essenza

dell'Esserci? Secondo Heidegger, nella sua esistenza, che si realizza negli esistenziali

cui si è fatto cenno in precedenza. Abbiamo detto che noi, esistendo (dal latino ex-

stare), apprendiamo, comprendiamo e nello stesso tempo usciamo fuori da noi, e in

questo modo ci rendiamo indipendenti. Ma che cosa apprendiamo? Quello che ci si

mostra. E in che modo apprendiamo? Se percepiamo in modo immediato, cioè senza la

frapposizione di costruzioni concettuali, le cose e l'uomo finiscono meno vittima

dell'oggettivazione e di un soggetto che li esamina e li definisce. Conseguentemente

appaiono senz'altro meno stabili e forse anche più incerti, ma più autentici per

quanto concerne loro stessi e il nostro rapporto con loro. Questa relazione che si

viene a creare si trasforma in un “evento” (Ereignis), che richiede la nostra risposta.

Qui “apprendere” non significa pertanto un semplice assorbire informazioni, un

puro registrare le cose più o meno abituali di tutti i giorni, quanto piuttosto

affrontare ciò che ci tocca e ci colpisce, per trovare la nostra risposta. E ogni risposta

che noi diamo è una decisione (cfr. Heidegger, 1983, GA. vol. 40, p. 178). Cogliere,

scegliere e rispondere a qualcosa nel suo significato fa parte dell'essenza della

complessa libertà umana, che rappresenta la richiesta di qualsiasi psicoterapia e pedagogia.

Bibliografia

Boss M., Grundriss der Medizin, Huber, Bern, 1971 Boss M., Daseinanalyse, anno 6, 1989 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsanalyse, Huber, Bern, 1957; tr. it. Psicoanalisi e Analitica esistenziale, Astrolabio, Roma, 1973 Binswanger L., Ausgewählte Werke, vol. 3, Asanger, Heidelberg, 1994 Condrau G., Aufbruch in die Freiheit, Benteli, Bern, 1977 Condrau G., Ich bin, ich weiss nicht wer, Wolfbach, Zürich, 2003 Freud S., Schriften zur Behandlungstechnik: Studienausgabe vol. 11, Fischer,

Dasein n.1, 2013

28

Frankfurt/M., 1975, contiene: Die Freudsche psychoanalytische Methode; Wege der psychoanalytichen Therapie; Zur Dynamik der Übertragung. Goethe J.W., Gedichte, Manesse, Zürich, 1949; tr. it. Tutte le poesie, vol. 1, Mondadori, Milano, 1997. Heidegger M., Einführung in die Metaphysik, GA. vol. 40, Klostermann, Ffm. 1983; tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 1990 Heidegger M., Grundbegriffe der Metaphysik, GA. voll..29/30; tr. it. Concetti fondamentali della metafisica, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2005 Heidegger M., Vorträge und Aufsätze, GA. vol. 7, 2000, tr. it. Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, contiene: Wissenschaft und Besinnung (Scienza e meditazione); Das Ding (La cosa) Heidegger M., Was heisst Denken, GA, vol. 8; tr. it. Che cosa significa pensare, SugarCo, Milano, 1996 Heidegger M., Gelassenheit, Neske, Pfullingen, 1959; tr. it. L'abbandono, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2004 Heidegger M., Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen, 1972; tr. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2005 Heidegger M., Zur Seinsfrage, Klostermann, Frankfurt/M., 1967 Heidegger M., Über den Humanismus, Klostermann, Frankfurt/M., 1968; tr. it. Lettera sull'umanismo, Adelphi, Milano, 1995 Heidegger M., Hölderlins „Andenken“, GA, vol. 52, 1982; tr. it. L'inno Andenken di Hölderlin, Mursia, Milano, 1997 v. Herrmann F.W., Existenziales Selbst-Sein und der Ursprung des Selbst aus der Ereignung des Ereignisses, Daseinanalyse, n. 27, 2011 Holzhey-Kunz A., Existenzanalyse und Daseinsanalyse, UTB, Wien, 2008 Längle A., Existenzanalyse und Daseinsanalyse, UTB, Wien, 2008 Reck H., Notwendiges Zusammentreffen eines besinnlichen Denkens mit einem rechnenden Denken am Beispiel der gemeinsamen Behandlung psychosomatisch Kranker in einer Kinderklinik, Daseinanalyse, vol. 15, p. 175 , Gasser, Chur, 1999 Reck H., Spiel und spielerische Elemente in der Psychotherapie, Daseinanalyse, vol. 2, pp. 51-

Dasein n.1, 2013

29

78, Karger, Basel, 1985; contiene: Weber, A. Die daseinsanalytische Betrachtungsweise Rogers C. R., Entwicklung der Persönlichkeit, Klett, Cotta, Stuttgart, 1983 Schubert F., Lieder, interpr. da. Tamara Taka'cs, Jenö Jando, Naxos, 1991 Wucherer-Huldenfeld K.A., Stellung der Psychotherapie im abendländischen Denken 97ss, Vorlesungsskriptum f.d. S. Freud-Universität, Wien, WS 2004/5 Wucherer-Huldenfeld K.A., Über den Bezug der Emotionen zur Wahrheit, Daseinanalyse, n. 22, 2006.

Dasein, n.1, 2013

30

L’ arte e la scienza della psicoterapia esistenziale

Art and science of existential psychotherapy

Lodovico Berra

Summary

La psicoterapia esistenziale vuole essere una sintesi ed un compromesso tra quelle che sono le esigenze di una terapia scientifica con quelle di un intervento a carattere più filosofico ed artistico. Vengono quindi discussi alcuni aspetti che caratterizzano lo spirito libero e creativo della psicoterapia e quello più scientifico ed oggettivo, cercando infine di riassumere l’atteggiamento fondamentale che accompagna l’approccio esistenziale.

Parole chiave: psicoterapia esistenziale –esistenzialismo - psicoterapia –scienza – arte

Existential psychotherapy is a synthesis and a compromise between scientific requirements of therapy and a philosophical and artistic intervention. Is then discussed the creative and free attitude with a more scientific and objective one, trying to summarize the basic elements of the existential approach to psychotherapy.

Key words: existential psychotherapy - existentialism - psychotherapy - science - art

Psicoterapie e psicoterapia esistenziale

La psicoterapia moderna deve essere scienza, poiché deve essere in grado di garantire

modalità efficienti di intervento, che siano affidabili, conoscibili e condivisibili. La

psicoterapia, per essere veramente terapia, quindi aiuto e cura, deve poter usare

precisi strumenti, in un modo corretto, garantendo standard di efficacia alla pari di

ogni altro tipo di intervento medico.

Così come è vera questa serie di prime affermazioni è altrettanto valido ciò che

segue.

Dasein, n.1, 2013

31

La psicoterapia è un’arte, poiché richiede creatività, immaginazione ed intuito. Essa

non può essere costretta entro limiti prestabiliti di leggi e regole, poiché così verrebbe

a perdere il suo carattere originario e fondamentale, ma deve avere libero spazio di

espressione nel complesso territorio della psiche e delle relazioni umane.

Queste due visioni a prima vista antitetiche pongono delle riflessioni sul senso e sul

significato della psicoterapia oggi, alla luce della storia della psicologia, delle sue

scoperte e della sua contemporanea evoluzione.

Riteniamo infatti che la psicoterapia esistenziale, come da noi intesa, possa

rappresentare una sintesi delle due prospettive, riunendo in sé esigenze attuali di

scientificità insieme a fondamentali aspetti propri dell’esistenza, difficilmente

catalogabili e riproducibili.

Nel vasto ed eterogeneo panorama delle psicoterapie praticate nel mondo

l’orientamento esistenziale rappresenta un approccio alla salute psichica ed all’essere

umano in fondo nuovo, poiché cerca di integrare conoscenze e nozioni ormai

stabilmente accettate dalle varie teorie psicologiche e psicoanalitiche con una visione

filosofica e spirituale.

In genere le psicoterapie che desiderano essere più scientifiche cercano di porre in

rilievo aspetti quali la quantificazione e verificabilità dei risultati, la razionalizzazione

degli strumenti terapeutici, la differenziazione delle tecniche in base alle patologie, la

possibilità di avere un riscontro biologico sulla genesi e sulla terapia del disturbo, e

così via.

Queste sono state classicamente contrapposte alle cosiddette terapie umanistiche che

pongono più attenzione agli aspetti di realizzazione di sé, di ricerca personale e

spirituale, a volte con esigenze di trascendenza, anche in prospettive di tipo

filosofico, senza porsi troppo il problema del metodo e della tecnica ma basandosi

spesso su teorie e ideologie consistenti ma a forte base soggettiva.

Nell’approccio di tipo esistenziale vogliamo immaginare una convivenza dei due

orientamenti che in qualche modo si possano potenziare reciprocamente. Una

psicoterapia quindi che sia in grado di essere scienza senza perdere il carattere di

artisticità, e in questa combinazione aggiungere forza al risultato finale.

Dasein, n.1, 2013

32

La psicoterapia come scienza

La psicoterapia può essere considerata un lavoro diretto unicamente alla conoscenza,

all’indagine introspettiva, all’esplorazione profonda del sé, senza troppo preoccuparsi

della quantificazione di effetti e risultati. L’obiettivo fondamentale sarebbe quindi la

conoscenza di sé e la riflessione filosofica sull’esistenza, lasciando che le conseguenze

terapeutiche, di cura e di cambiamento, avvengano spontaneamente e naturalmente.

Questo renderebbe più appropriato parlare di “analisi” esistenziale piuttosto che

terapia.

Sebbene non si possa negare l’utilità di un approccio più analitico che terapeutico,

crediamo opportuno che, nell’ampio panorama delle psicoterapie oggi diffuse nel

mondo, anche la psicoterapia esistenziale debba avere qualità di procedura e tecnica

affidabile. Questa deve essere verificabile, riproducibile e condivisibile dalla comunità

scientifica internazionale, con risultati riconoscibili e quantificabili. Scientifico viene

infatti considerato ogni processo che sia chiaramente verificabile dall’esterno, con

criteri condivisi dalla comunità dei ricercatori (Di Nuovo e Lo Verso, 2005, pag. 19).

Dobbiamo però notare che la pratica psicoterapeutica, per poter essere studiata ed

analizzata, deve essere spesso ridotta, frammentata e schematizzata. Vi è infatti tutta

una serie di caratteri sfuggenti, poco oggettivabili e non facilmente misurabili che

costituiscono la base dell’intervento terapeutico.

Quantificare e razionalizzare i fenomeni che avvengono durante una psicoterapia è

perciò un compito difficile e complesso, e non sempre è possibile arrivare ad un

chiarimento ed a una definizione dei meccanismi che vengono messi in atto.

La psicoterapia, essendo cura di sintomi, deve essere equiparata ad altri tipi di

intervento quali quelli medici e farmacologici, ma risultano in essa amplificati aspetti

spesso difficilmente catalogabili o standardizzabili, quali la relazione, l’empatia o le

emozioni.

In psicoterapia è quindi necessario avere un approccio non tanto di tipo quantitativo,

statistico o schematico, quanto piuttosto di tipo qualitativo, secondo il quale venga

Dasein, n.1, 2013

33

studiata la soggettività del paziente senza essere ridotta a meri meccanismi o modelli

teorici.

Infatti il paziente non deve essere considerato un oggetto inerte e passivo da curare,

ma è un individuo complesso portatore di variabili essenziali per la valutazione. In

modo analogo il terapeuta non può mai essere un puro e semplice osservatore di

quanto avviene, ma è egli stesso persona coinvolta direttamente nella relazione.

L’analisi della psiche umana non è un atto oggettivabile e generalizzabile in modo

definitivo ed eliminare dal rapporto psicoterapeutico i fatti e i vissuti soggettivi vuol

dire rinunciare agli elementi fondamentali che costituiscono la psicoterapia. Il

considerare però i fatti soggettivi rende difficile la valutazione delle dinamiche in atto,

dei processi e dei risultati, non essendovi al momento strumenti di indagine

sufficientemente attendibili. Per “vedere” cosa avviene nel mondo interiore del

paziente non abbiamo oggi altri strumenti che il linguaggio, verbale e non verbale,

cioè ciò che egli ci comunica, e le tecniche di neuroimaging, che in realtà ci

riferiscono unicamente quali sono le aree di attività cerebrale.

Secondo il “paradigma della complessità” proposto da Morin (1984), i sistemi di idee

e i modelli teorici per essere prodotti richiedono un cervello che li pensi ed implicano

quindi tutti quei fenomeni bio-chimico-fisici connessi all'attività cerebrale.

L’osservatore perciò costruisce la realtà stessa ma nell’osservazione, in quanto

portatore o interprete di una teoria, crea il campo dell’osservazione ed è dunque

profondamente implicato in esso. In quest’ottica la conoscenza scientifica risulta

costitutivamente ed inevitabilmente soggettiva.

La verità scientifica viene così ad essere essenzialmente basata sull’accordo della

comunità scientifica, socialmente e culturalmente connotata.

In sintesi possiamo dire che la psicoterapia possa dirsi scientifica quando cerca di

porre ordine, comprendere, prevedere, ridurre a tecnica e inserire in uno schema

teorico, comprovato o almeno accettabile, tutti quegli eventi del rapporto emotivo ed

intellettivo (Pazzagli e Rossi, 1999, pag. 3510).

Ma, detto questo, potremmo domandarci se è possibile studiare scientificamente ciò

che è qualitativo, adattandosi ai parametri di “osservabilità” richiesti dalla scienza

Dasein, n.1, 2013

34

classica; se è possibile ordinare e prevedere gli eventi di una relazione; se è possibile

inserire in uno schema teorico dinamiche psicologiche; se è possibile ridurre a tecnica

un rapporto emozionale.

Nell’ambito clinico psicoterapeutico, che si svolge tramite relazioni umane, il metodo

sperimentale classico è certamente inadeguato. Infatti esso procede tramite

l’isolamento di variabili e la verifica delle loro relazioni, eliminando il più possibile la

soggettività dei partecipanti all’esperimento.

Per il metodo sperimentale l’osservazione deve essere il più possibile depurata dalle

distorsioni della relazione soggetto-osservatore/oggetto-osservato, mentre per il

metodo clinico il coinvolgimento osservatore-osservato va accettato come

fondamentale metodo di conoscenza. Da qui ne deriva l’attuale attenzione alle

componenti controtransferali nel processo diagnostico e terapeutico.

Seguendo un metodo scientifico classico, e quindi sperimentale, si rischia di non

considerare gli oggetti propri del lavoro terapeutico, e cioè i sentimenti, gli affetti, il

simbolico, la soggettività e la relazione, come dimostrato tra l’altro dall’importanza di

tutta una serie di fattori aspecifici presenti in ogni psicoterapia. Il problema è quindi

stabilire se è possibile identificare, valutare e misurare componenti non oggettive,

ancora oggi senza riscontri di tipo biologico o fisico, basati su condizioni variabili

spesso non catalogabili.

Le psicoterapie oggi, e quindi non solo la psicoterapia esistenziale, per essere scienza,

si trovano di fronte alla necessità di sviluppare una osservazione e una metodologia

scientifica del qualitativo, impresa non semplice ma inevitabile per darle dignità di

disciplina riconosciuta ed attendibile. È quindi nella combinazione di più metodi,

differenti modalità di osservazione e di valutazione che si può arrivare a definire in

modo più preciso i caratteri fondamentali di una psicoterapia.

In questo senso la psicoterapia esistenziale, pur avendo una posizione critica nei

confronti di una eccessiva razionalizzazione di una terapia della mente, deve

riconoscere tutta una serie di modalità operative (setting, empatia, relazione,

dinamiche di transfert e controtransfert, lavoro sulle resistenze e sui meccanismi di

difesa,…), concetti di base (inconscio, visione del mondo, progetto esistenziale,…),

Dasein, n.1, 2013

35

di valutazioni e test (Rorschach, TAT, interviste semistrutturate,…) che le

consentano di inserirsi a pieno titolo nella ricerca attuale sui fondamenti scientifici dei

metodi psicoterapeutici.

La psicoterapia come arte

L’arte è quella attività che, basandosi sull’uso di determinati strumenti, consente

l’espressione originale e creativa di contenuti emozionali ed estetici.

Nella pratica artistica viene in genere appreso l’uso di specifici strumenti, quali

pennelli e colori nella pittura, scalpello e martello nella scultura, strumenti musicali

nella musica, padronanza di sé, delle proprie emozioni e comportamento nel teatro, e

così via, che devono essere utilizzate in modo personale e creativo. Questo significa

che non vi dovrebbe essere la meccanica riproduzione tecnica di una abilità, bensì vi

deve essere la capacità dell’artista di inserire un imponderabile contenuto emotivo ed

estetico nella sua opera. Un pittore che esegue opere perfette tecnicamente può

risultare freddo e poco comunicativo all’osservatore. Un musicista che esegua con

perfezione una spartito può non trasmettere emozioni all’ascoltatore. Un attore con

grande abilità esecutiva e perfetta dizione può non arrivare al cuore dello spettatore.

Tutto questo ci dice che in un ambito così delicato come quello delle relazioni

umane, e quindi della psicoterapia, un terapeuta che abbia molto studiato e che

esegua alla perfezione tecniche apprese con scrupolo potrebbe non avere risultati

rilevanti. Al contrario uno psicoterapeuta particolarmente dotato di sensibilità,

capacità relazionali, creatività, elasticità mentale, ma di minor “studio”, potrebbe

essere più efficace con i suoi pazienti.

Alcuni Autori ritengono che i risultati positivi siano molto più collegati alle

caratteristiche di personalità del terapeuta che alle tecniche da lui impiegate. Infatti

alcuni terapeuti, trasversalmente a tutte le tecniche impiegate, sono costantemente

più efficaci, mentre altri terapeuti producono costantemente risultati negativi (Bergin

A.E. e Garfield S.L., 1994, pag. 229).

A sostegno quindi della non scientificità dell’arte psicoterapeutica dobbiamo fare

alcune considerazioni.

Dasein, n.1, 2013

36

a) Per la sua complessità il rapporto psicoterapeuta-paziente non è standardizzabile e

riproducibile. Ogni relazione è infatti unica ed irripetibile e debole è ogni tentativo di

ridurre a schemi ciò che accade nella situazione reale.

b) Ogni modello di mente è una teoria relativa e non possiamo avere un unico e

“definitivamente vero” sistema di funzionamento della psiche. Da ciò ne deriva che,

essendo ogni psicoterapia basata su un modello teorico di mente, non possiamo

riconoscere metodi e modalità universalmente valide.

c) Gli strumenti e le tecniche psicoterapeutiche codificate e riconosciute devono

esistere ma devono essere usate in modo creativo, originale e personalizzato. Questo

è determinato dalla continua e mutevole esigenza all’interno del setting terapeutico di

adattare le tecniche alla variabilità della situazione.

d) Lo strumento fondamentale della psicoterapia non è tanto la tecnica precostituita

ma lo psicoterapeuta come essere umano. La sua formazione personale e

professionale determina la sua capacità di gestire la situazione, la relazione e la

patologia.

e) Non importa tanto la teoria che sta alla base di una psicoterapia ma quello che si fa

al suo interno. Rimanere quindi vincolati a tecniche e procedure standardizzate

potrebbe essere inopportuno e controproducente in determinati contesti che

richiedono invece flessibilità e capacità di adattamento.

Detto questo ne deriva che un punto centrale non dovrebbe essere il modello di

riferimento, esigenza fondamentale della psicoterapia detta scientifica, bensì lo

psicoterapeuta, la sua personalità e la sua capacità di utilizzare tecniche e strategie in

modo creativo, originale e personalizzato, e se il caso di ideare nuove modalità di

intervento. In parte ciò è condiviso da altri orientamenti psicoterapeutici che

riconoscono la necessità di avere una certa malleabilità all’interno della relazione, ma

nell’orientamento esistenziale questo è rinforzato e sostenuto da una consistente

letteratura filosofica.

Lo psicoterapeuta esistenziale è forse più libero da modelli esplicativi della psiche, più

pronto a prendere iniziative originali, più legato ad una visione filosofica

Dasein, n.1, 2013

37

dell’esistenza. Quest’ultima diviene anche la base della sua formazione personale che

non è solo diretta alla conoscenza di sé ma anche all’esercizio di indagine metafisica

delle questioni esistenziali.

Uno psicoterapeuta che possegga oltre a competenze e capacità tecniche anche una

consapevolezza e maturità filosofica è più efficace e solido nell’affrontare le infinite

situazioni problematiche che si presentano nella pratica professionale.

La sintesi di arte e scienza nella psicoterapia esistenziale

Scrive Jaspers nella “Psicologia delle visioni del mondo”: «Il tentativo di creare un

ordinamento è come un atto di violenza in quanto la psicologia, più di ogni altra

scienza, è possibile solo come totalità. Ogni sistematica tende ad operare

rettilinearmente, in modo da creare schemi. Ma la cosa non è quasi mai così nella

realtà effettiva in quanto ogni sistematica permane in movimento, senza mai esistere

in modo definitivo, e così ogni edificio troppo compiuto risulta sospetto» (Jaspers K.,

1950, p. 29).

L’uomo ha come la necessità di avere un qualcosa di solido e definitivo, su cui

appoggiarsi, che generi tranquillità e sicurezza. Questo poiché è difficile sostenere

una condizione di incertezza e relatività. Ciò è evidente anche nella vita quotidiana di

ogni uomo, nel bisogno della certezza di affetti, compiti, lavoro, valori e significati,

ma ancora di più per lo psicoterapeuta professionista che può avere nel suo lavoro la

sicurezza di un meccanismo e di una modalità. Da qui ne consegue la tendenza alla

compilazioni di manuali di psicologia e psicoterapia che tutto spiegano, proponendo

miracolose tecniche e strategie terapeutiche di sicuro successo. È quello che Jaspers

chiama “punto di appoggio” o involucro, fornito da principi, dogmi, fatti dimostrabili,

istanze assolute e generali (Jaspers, 1950, pag 353 e segg.).

Gli involucri possono essere qualcosa che cresce e si evolve, qualcosa di vivo, oppure

sono belli e fatti, sono semplicemente scelti, e dunque meccanici e morti, prendendo

la forma delle dottrine.

La dottrina può essere una teoria psicologica o un ben preciso modello di mente, che

definisca in modo chiaro il funzionamento psichico e le modalità di azione su di esso.

Dasein, n.1, 2013

38

Ciò rappresenta certamente una rassicurazione ed una certezza per lo psicoterapeuta

che, facendo affidamento ad un modello condiviso ed accettato, può avere precisi

punti di riferimento per la sua pratica clinica. È ben nota la difficoltà di gestione delle

infinite situazioni di fronte a cui può trovarsi lo psicoterapeuta, soprattutto all’inizio

della professione. Ma il riferirsi in modo rigido e pedissequo ad una metodologia

pronta per l’uso fa perdere forza ed efficacia ad un lavoro sempre diverso e sempre

nuovo come quello della psicoterapia. Ogni caso è unico, così come ogni relazione

terapeutica. Il lavoro che si sviluppa all’interno di un setting psicoterapeutico è

sempre diverso, con pazienti differenti ma anche con lo stesso paziente in sedute

diverse. Gli strumenti terapeutici devono essere plasmati, amplificati o soppressi a

seconda della patologia, del paziente, della seduta. Questo poiché la patologia non è

mai statica ma si muove ed evolve nel corso della terapia, ed una diagnosi valida in un

momento potrebbe non esserlo più in uno successivo. Così anche il paziente è in

continuo mutamento e così la relazione e lo stesso terapeuta. Si sviluppa quindi una

condizione dinamica, in continuo cambiamento e trasformazione, come in fondo è la

vita stessa, che non può mai essere “fotografata” in una diagnosi definitiva e quindi

in una modalità operativa statica.

Jaspers scrive che «Ogni sistema è però soltanto una realizzazione frammentaria, una

oggettivazione storta del ‘genuino’» (pag. 362) e poi ancora «Lo spirito vivo invece

non ordina le dottrine e non ne fa una scelta» (pag. 364).

Se l’uomo, o nel nostro caso lo psicoterapeuta, sceglie un determinato modello di

mente e quindi le azioni terapeutiche che ne derivano, si pone in una sorta di

«dipendenza da un’ autorità visibile e sensibile, l’ uomo si sottopone a un termine

oggettivo, rinunciando a se stesso e al porre in questione ogni cosa» sottoponendosi a

quello che Jaspers definisce il “sacrificio dell’ intelletto” (pag. 371). Questo sacrificio è la

perdita della creatività e dell’arte, dello spirito di ricerca e di dubbio che deve

accompagnare ogni azione, tanto più il lavoro riguardante l’uomo e la sua esistenza.

Tale spirito, o atteggiamento, non rifiuta o nega ciò che la storia della psicologia ci ha

insegnato ma pone ogni tecnica in una modalità plastica e dinamica, modificabile e

relativa, così come un pennello nella mani dell’artista.

Dasein, n.1, 2013

39

Bibliografia

Bergin A.E., Garfield S.L. (Eds.) Handbook of Psychotherapy and Behavior Change. An Empirical Analysis ed. Wiley, New York, 1994 Berra L. Manuale di psicoterapia esistenziale Libreria Universitaria, 2011 Di Nuovo S., Lo Verso G. (a cura di) Come funzionano le psicoterapie Franco Angeli, 2005 Morin E. Scienza con coscienza, Franco Angeli, Milano, 1984 Pazzagli A., Rossi R. Il problema della psicoterapia in AA.VV Trattato Italiano di Psichiatria, II ed., Masson, 1999 Jaspers K. (1919) Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma, 1950

Dasein, n. 1, 2013

40

Relatedness and the therapeutic relationship as viewed by

existential therapy

Relazionalità e relazione terapeutica secondo la terapia esistenziale

Ernesto Spinelli

Summary

This paper explores the centrality of the therapeutic relationship from the standpoint of relatedness. It argues that relatedness is a foundational assumption within existential theory and explores how relatedness has been applied to, or manifests itself in, the therapeutic relationship.

Key words: relatedness; I-Thou and I-It; truthful dialogue; un-knowing

L’articolo esplora la centralità della relazione terapeutica dal punto di vista della relazionalità. Essa sostiene che la relazionalità è un presupposto fondamentale all'interno della teoria esistenziale ed esplora come la relazionalità è stata applicata o si manifesta nella relazione terapeutica.

Parole chiave: relazionalità, Io-Tu e Io-Esso, dialogo sincero, un-knowing1

The therapeutic relationship has been recognised as important if not pivotal to the

whole enterprise of therapy – be it at the process or outcome level. After years of

research it seems that therapists can point to a discernible variable that seems to be

both valid and reliable from an experimental design standpoint and as well from a

lived, process standpoint as experienced by both therapist and client (Cooper, 2008).

This is a rare, if not unique, event within our profession and we have every reason to

be excited and curious about it. The trouble is, that now that we have highlighted the

pivotal significance and importance of the therapeutic relationship itself, we are faced

1 “l'attento rimanere aperto a quello che è presente senza pregiudizio”

Dasein, n. 1, 2013

41

with all manner of new and no less important questions. Questions like:

What is it about the therapeutic relationship that makes it so significant?

What distinguishes a therapeutic relationship from a non-therapeutic one?

What sort of therapeutic relationship can and should be fostered?

Can any sort of therapeutic relationship provoke the desired qualities and outcomes ascribed by

research to the therapeutic relationship?

All of these seem to me to be good, searching and relevant questions. And there are

many more good, searching and relevant questions waiting to be raised and

considered. But, for now, we have to face the truth that none of us really has any

adequate answers to these, and all the other, questions that arise from what has been

so far discerned about the significance of the therapeutic relationship. Instead, what

is possible at present is to consider these sorts of questions with greater openness

and curiosity, remaining unceertain as to where they may take us. In other words, to

adopt a stance of phenomenological inquiry towards them (Spinelli, 2005, 2007). In

doing so, one of the first challenges that springs forth (for this author at least) is this:

what is the impact upon how we both understand and practice therapy when we

admit to, and accept, the centrality of the therapeutic relationship?

Perhaps unsurprisingly, this question resonates with a number of key concerns raised

by existential therapy (Barnett &Madison, 2011). Existential therapy proposes a

particular set of philosophical ideas that are radically different to most espoused by

other Western forms of psychotherapy. The most critical of these, I think, is

encapsulated in a quote by Maurice Merleau-Ponty: “The world and I are within one

another” (Merleau-Ponty, 1962: 123). This quote refers us to the principle of relatedness

or inter-relation which is so pivotal to the whole rationale of existential thought in

general and existential therapy in particular that its presence resonates throughout

every point and argument presented by the approach.

At its simplest, the principle of relatedness argues that all of our reflections upon and

Dasein, n. 1, 2013

42

knowledge, awareness and experienced understanding of the world, of others and of

our selves emerge through an irreducible grounding of relatedness. We cannot, therefore,

understand nor make sense of human beings - ourselves included - on their own or

in isolation, but always and only in and through their inter-relational context. At a

deeper level, this view insists upon the interrelatedness and interdependence of what

in a modern Empiricist tradition has been called “subject” and “object”. From the

standpoint of existential phenomenology, neither of these terms makes sense in and

of itself, and neither term can, in fact, be defined or considered in isolation. One

major implication from this is that the subject who is “I” can attempt to know itself

only by means of the world and of the “others” who inhabit it. And further, that

whatever knowledge is ascertained is not located within the subject, nor is it present as

a given of the subject, but rather only emerges via the elucidation of this inter-

relational a priori.

Considered in the light of our interest in the therapeutic relationship, this view tells

us that relatedness is not something that becomes established only under certain

circumstances or as a result of particular conditions or which we work towards.

Rather, “relatedness is”. Always. Even the attempt to disrupt or to deny relatedness

emerges as an expression of relatedness.

Interestingly, this principle of a foundational relatedness has recently become a major

area of exploration by philosophers, cognitive scientists, social anthropologists and

physicists concerned with questions of consciousness. The discovery of "mirror

neurons", as just one of many examples, has been held up by many such experts as a

strong neurological correlate of, and even evidence for, an originating inter-relational

basis to conscious experience (Becchio & Bertone, 2005; Stern, 2004). The

implications arising from the acceptance of this foundational existential principle, are

manifold. Let me just outline one that has obvious implications for our

understanding and practice of therapy: contemporary therapy's overwhelming focus

on and concern with the individual.

Dasein, n. 1, 2013

43

The existential focus upon relatedness contradicts a persistent assumption held not

only by the majority of therapists but by Western culture in general: namely, that the

person is to be viewed from an isolationist perspective and, as an individual, is

comprehensible solely within his or her set of subjectively-derived meanings. As

such, the dominant ethos of therapy assumes the primacy of the individual subject.

It is common for therapeutic theories to suggest that it is only once the individual

has "found", "accepted", or "authenticated" him or herself, and by so doing begun to

deal with the issues and obstacles impeding or imposing upon the experience and

expression of one's "true", "authentic" and/or "self-actualising" potential for being,

that the individual is then capable of focusing upon and addressing the possibilities

of relationship with others and the world in general.

In contrast to this view, the principle that relatedness is foundational proposes then

no self can be "found", nor individual "emerge", other than via the a priori inter-

relational grounding from which that self’s distinctive and unique sense of being

emerges. Existential relatedness argues that self- (and other-) awareness is an

outcome of, rather than a starting point to relatedness. In brief, the stance being

considered is very much in keeping with the following conclusion by Kitaro Nishida:

'it is not that there is experience because there is an individual, but that there is an individual

because there is experience' (Nishida, 1990: 37).

Perhaps the most radical reconsideration of currently dominant views surrounding

the issue of relatedness and its relevance to the therapeutic relationship, can be found

in the writings of Martin Buber (1970, 2002). If we consider his famous distinction

of "I-It" and "I-Thou" relation, then it becomes evident that therapy, in its

overwhelming allegiance to the individual per se, remains embedded within an "I-It"

attitude. For example, Buber argued that the therapist who treats a person as merely

another individual "I" does not really see that person but only a projected image of

the therapist him or herself and that this relation, despite its warmth, care, and

Dasein, n. 1, 2013

44

concern still remains an "I-It" relation.

Buber himself could see no way out of this dilemma and much of his famous debate

with Carl Rogers emphasises this conclusion (Kirschenbaum & Henderson, 1990).

Must we agree with Buber? That remains an open question. But let us suppose that

there is a way out for the therapeutic relationship to at least begin to approach "I-

Thou" relatedness. What might be the necessary conditions for such?

As a starting point, it seems to me that the work of the relational analyst, Leslie

Farber, who was deeply influenced by Buber's ideas, provides an initial possibility.

Farber saw therapy as a particular expression of relatedness. One critical implication

of this can be noted in Farber’s insistence that the topic (or the "whatness") of

therapeutic dialogue could "be about" anything - its content did not truly matter.

Instead, Farber's dialogical concerns centred on a way of talking that led both therapist

and client toward a "truthful dialogue" with themselves and one another (Farber,

1967, 2000).

This notion of a "truthful dialogue" parallels the ideas put forward by the

phenomenological philosopher, George Gadamer. Gadamer contrasted the

truthfulness that emerges via a dialogue that is pre-set in its focus and intent by at

least one of the participants to one that is initially open or ambiguous in its intention

or direction by at least one of the participants. All dialogues, Gadamer

acknowledged, have - or more accurately - find a direction, but there exists a truthful

quality to a dialogue that shapes its own form and focus that cannot be ascertained -

or experienced - in a dialogue that is being actively directed toward a certain pre-set

goal. One consequence of this, as Gadamer wrote, is that «the way one word follows

another, with the conversation taking its own twists and reaching its own conclusion, may well be

conducted in some way, but the partners conversing are far less the leaders than the led. no one

knows in advance what will “come out” of such a conversation» (Gadamer, 2004: 383).

Paradoxically, this "abdication of control" over the directive aspects of dialogue

permits a greater sense of its "ownership" by its participants.

Dasein, n. 1, 2013

45

What such inter-relational views direct therapy toward is a very uncertain and uneasy

form of relationship that depends to a great extent upon the therapist's active

willingness and ability to abdicate many if his or her most cherished assumptions; not

least those of therapist-led change. Instead, what is being highlighted by the principle

of relatedness is highly similar to what the existential psychiatrist Karl Jaspers termed

as the therapist's enterprise of not-knowing (Jaspers, 1963). More recently, I have

myself referred to it as un-knowing (Spinelli, 2006b). I employ a hyphenated spelling in

order to distinguish "un-knowing" as that attempt on the part of the therapist to

remain as open as possible to that which presents itself in the relationship. As such,

it expresses the attempt to treat the seemingly familiar, assumed to be understood or

understandable, as novel, unfixed in meaning, and, hence, accessible to previously

unexamined possibilities. The attempt to "un-know" suggests the therapist's

willingness to explore the world of the client in a fashion that not only seeks to

remain respectful of the client's unique way of being-in-the-world, but also to be

receptive to the challenges to the therapist's own narrational biases and assumptions

(be they personal or professional or both) that this exploration may well provoke. Put

bluntly, "un-knowing" requires the therapist to abdicate, at least for the time being, a

great deal of that which might, from the standpoint most therapeutic models and

approaches, be taken as the therapist's authority, security, expertise and interpretative

power. Un-knowing directs the therapist toward such self-directed questions such as:

What is it like for you, the client, to be as you are being in my presence?

What is it like for me, the therapist, to be in the presence of this other?

How willing am I, the therapist, to attempt an enterprise of shifting between the above polarities?

Such questions, in turn, focus upon the engagement with relatedness as it presents

itself – in other words, upon "what is here for us" as opposed to "what once might

have been" or "what may one day be" for the client. This way of relating expresses

its genuineness through the therapist's and client's diverse experiences of both

Dasein, n. 1, 2013

46

"meeting" and "failing to meet" one another in their dialogue.

In adopting a stance of un-knowing, the whole focus of therapy centres much more,

if not exclusively, upon what is taking place directly between therapist and client. This

focus serves to expose and clarify in the immediacy of the current therapeutic relationship the

self-same inter-relational issues that clients express as being deeply problematic

within their wider world relations. This focus on the therapeutic relationship itself

exposes and implicates the presence of the therapist. Indeed, this presence requires a

human and humane openness to "being in relation" and all the uncertainty and

anxiety and unpredictability contained therein.

From the perspective of many of the current models of Western psychotherapy, such

experiences are usually "explained" as instances of transference and counter-transference. I

have explored these terms critically elsewhere (Spinelli, 2006a), but let me simply

state that, in my view, these terms are of little value in that they force the relationship

to deviate from the primary focus on the immediacy of the current encounter. In

addition, their explanatory value obscures what there may be of value to understand

about the currently-felt attraction in and of itself and its possible relation to the

client's worldview.

In general then, it is my personal view that if we as therapists are serious about our

desire to embrace and explore the therapeutic relationship, we are also opening

ourselves to challenges that are capable of seriously disturbing many of our most

cherished assumptions regarding what it is to do therapy and to be a therapist. As a

final summing up of this argument, let me conclude with a quote Henning Mankell's

The Fifth Woman:

When I was growing up, Sweden was still a country where people darned

their socks. I even learned how to do it in school myself. Then suddenly one

day it was over. Socks with holes in them were thrown out. No-one

Dasein, n. 1, 2013

47

bothered to repair them. The whole society changed.... I think it changed our

view of right and wrong, of what you were allowed to do to other people and

what you weren’t.... The most frightening thing is that I think we’re only at

the beginning of something that’s going to get a lot worse. A generation is

growing up right now... who are going to react with even greater violence.

And they have absolutely no memory of a time when we darned our socks.

When we didn’t throw everything away, whether it was our woollen socks or

human beings (Mankell, 2002: 224).

Although it says nothing directly about the therapeutic relationship, when I first read

this passage I was struck by how elegantly it alludes to critical matters regarding

relatedness and inter-relationship. I sense that Mankell’s critique raises a similar

challenge to that presented to therapists by the therapeutic relationship. If we truly

agree that the relationship matters then let us be willing to embrace its uneasy

implications and by so doing open ourselves to its possibilities.

References Barnett, L. & Madison, G. Existential Therapy: Legacy, Vibrancy and Dialogue. London: Routledge, 2011.

Becchio, C. & Bertone, C. Beyond Cartesian subjectivism. Journal of Consciousness Studies, 12.07, 2005, pp. 20-30.

Buber, Martin, I and Thou. 2nd ed. (trans. R. G. Smith). Edinburgh: T. and T. Clark, 1970.

Buber, M. Between Man and Man (trans. by R. G. Smith). London: Routledge, 2002

Cooper, M. Essential Research Findings in Counselling and Psychotherapy: The Facts are Friendly. London: Sage, 2008.

Dasein, n. 1, 2013

48

Farber, L. “Martin Buber and psychotherapy” in The Philosophy of Martin Buber (P. A. Schilpp & Friedman, M., eds). LaSalle, Illinois: Open Court, 1967.

Farber, L. The Ways Of The Will: Selected Essays. New York: Basic Books, 2000.

Gadamer, H. G. Truth and Method. London: Continuum, 2004.

Jaspers, K. General Psychopathology, vol. 1 (trans.: J. Hoening & M. W. Hamilton). London: Johns Hopkins University Press, 1963.

Kirschenbaum, H. & Henderson, V. L. Carl Rogers Dialogues. London: Constable, 1990.

Mankell, H. The Fifth Woman. London: Vintage, 20.02

Merleau-Ponty, M. The Phenomenology of Perception (trans.: C. Smith). London: Routledge and Kegan Paul, 1962. Nishida, K. An Enquiry Into The Good. (trans: W Kaufman & R.J Hollingdale. New York Random House, 1990.

Spinelli, E. The Interpreted World: an introduction to phenomenological psychology. London: Sage, 2005

Spinelli, E. (1994) Demystifying Therapy. Hay-on-Wye: PCCS Books, 2006.

Spinelli, E. (1997) Tales of Un-Knowing: Therapeutic Encounters from an Existential Perspective. Hay-on-Wye: PCCS Books, 2006.

Spinelli, E. Practising Existential Psychotherapy: The Relational World. London: Sage, 2007.

Stern, D.N. The Present Moment in Psychotherapy and Everyday Life. New York: W.W. Norton, 2004.

Ernesto Spinelli is a Fellow of the British Psychological Society (BPS) and in 2000 was awarded the BPS Division of Counselling Psychology Award for Outstanding Contributions to the Advancement of the Profession. He is also UK registered existential psychotherapist. In 1999, Ernesto was awarded a Personal Chair as Professor of Psychotherapy, Counselling and Counselling Psychology. Currently,

Dasein, n. 1, 2013

49

Ernesto is the Director of ES Associates, an organization dedicated to the advancement of psychotherapy, coaching, facilitation and mediation through specialist seminars and training programmes. Author of numerous papers and texts, the Second Edition of Practising Existential Psychotherapy: The Relational World (Sage, 2007), which has been widely praised as a major contribution to the advancement of existential theory and practice, is being prepared for publication in 2014.

Dasein n.1, 2013

50

Psicoanalisi e Analisi esistenziale: tra differenze e analogie

Psychonalysis and existential analysis: between differences and analogies

Ferdinando Brancaleone

Summary

Nonostante le profonde differenze teorico-metodologiche tra Analisi Esistenziale e Psicoanalisi è possibile ritrovare tra di esse un sostanziale punto di convergenza (a livello di concreta prassi clinica) nell’adeguata valutazione e gestione dei fenomeni delle “resistenze” e del “transfert” come fattori fondamentali e ineludibili di ogni valido rapporto psicoterapeutico. Parole chiave: Existenzanalyse – Resistenza – Transfert Despite the deep differences between theoretical and methodological Existential Analysis and Psychoanalysis is possible to find a substantial point of convergence (in terms of clinical practice) in the proper evaluation and management of the phenomena of “resistances” and “transfert” as fundamental and unavoidable factors in every valid therapeutic relationship. Key words: Existenzanalyse – Resistence – Transfert

Al di là della evidente somiglianza terminologica, tra l'Analisi Esistenziale

(Existenzanalyse1) di Viktor E. Frankl e la Psicoanalisi (Psychoanalyse) freudiana

sussiste certamente un rapporto di sostanziale differenza, se non addirittura di

contrapposizione, al punto che Tullio Bazzi ha potuto affermare che

l'Existenzanalyse frankliana si pone (specie dal punto di vista delle basi dottrinarie) in

1 Risulta opportuno, in via preliminare, precisare la distinzione tra Existenzanalyse, Daseinsalytik e Daseinsanalyse. La prima (Existenzanalyse) fa capo a Viktor Emil Frankl e viene di norma associata all'approccio psicoterapeutico più frequentemente conosciuto come "Logoterapia e Analisi Esistenziale" (Terza Scuola di Psicoterapia Viennese). La seconda (Daseinsalytik) fa capo a Medard Boss e M. Heidegger ed è conosciuta nella letteratura in lingua italiana prevalentemente con la denominazione di "Analitica Esistenziale". La terza (Daseinsanalyse), spesso conosciuta col termine di "Antropoanalisi", si riferisce alla metodica psicoterapica proposta principalmente da L. Binswanger (e dai suoi allievi) nell'ambito di un approccio clinico ad orientamento fenomenologico-esistenziale.

Dasein n.1, 2013

51

un atteggiamento antianalitico2. Ad una più attenta disamina, comunque, è possibile

rilevare come Frankl abbia teso a “polemizzare”, fondamentalmente, con quella che

potrebbe essere definita la “sovrastruttura psicanalitica teorica”, piuttosto che su

quanto va a costituire “il nucleo essenziale delle profonde intuizioni clinico-

terapeutiche, che sono a fondamento della concreta prassi analitica freudiana”3.

Già Medard Boss, rappresentante dell'orientamento analitico-esistenziale denominato

Daseinsanalytik4 (facente capo a Martin Heidegger), a metà dello scorso secolo aveva

notato che Freud, dopo aver inizialmente persistito in un atteggiamento

eccessivamente intellettualistico, che gli aveva fatto «sopravvalutare la

consapevolezza che gli ammalati conseguivano di ciò che avevano dimenticato»5, si

rese conto che «non è tanto l'inconsapevolezza in se stessa il momento patogeno,

bensì il fatto che tale inconsapevolezza è radicata in resistenze interne, le quali hanno a

suo tempo suscitato l'inconsapevolezza e continuano tuttora a mantenerla»6.

Pertanto, secondo Boss, Freud preferì spostare l'accento dalla “consapevolezza”, o,

se vogliamo, dal processo di coscientizzazione, per porlo sulle “resistenze”, che a suo

tempo hanno causato e che contribuiscono a mantenere in atto l'inconsapevolezza7.

Per questo motivo, a suo parere, “la consapevolezza raggiunta consciamente è

impotente contro queste resistenze”8.

In altri termini, Freud si rese conto che è nel “risolvere le resistenze” che consiste

essenzialmente il compito della “terapia”, in quanto sotto l'influenza di tali resistenze,

come egli afferma, «avviene che, anche applicando regolarmente la nuova tecnica

2 Cfr. Bazzi T., Psicoterapie non analitiche, in Tedeschi G., "La psicoterapia oggi", Il Pensiero Scientifico, Roma, 1975. 3 Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, in Peresson L. (a cura di), "Lineamenti per una classificazione delle psicoterapie", Edizioni CISSPAT, Padova 1987, p. 151. 4 Cfr. Boss M., Psychoanalyse und Daseinsanalytik, Verlag Hans Huber, Berna, 1957, trad. it. "Psicoanalisi e Analitica Esistenziale" (a cura di Antonio Verdino), Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1973. 5 Freud S., Zur Einleitung der Behandlung, (trad. it. in "Freud-Opere", Boringhieri, Torino, 1980 3 , pp.333 sgg.), citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., nota 10, p. 10. 6 Freud S., Zur Technik, citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., p. 10 7Cfr., Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., pp.10-11. 8 Freud S., Zur Einleitung der Behandlung, citato in Boss M, "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., p. 11.

Dasein n.1, 2013

52

delle 'libere associazioni', il paziente non ricorda, in generale, niente di ciò che egli ha

dimenticato e rimosso della storia della sua vita, bensì egli lo agisce. Lo riproduce non

già come ricordo, ma come fatto, lo ripete, senza saper naturalmente che lo sta

ripetendo. […] Così, nella relazione stabilitasi con il suo analista, egli ripete tutto ciò

che è stato oggetto di inibizione, tutti gli atteggiamenti inopportuni e tutti i tratti

patologici del suo carattere. Anzi, ripete, durante il trattamento, anche tutti i suoi

sintomi. […] Uno per volta i tratti della malattia vengono ora portati nell'orizzonte

della cura, e, mentre l'ammalato vive tutto ciò come qualcosa di attuale, l'analista

dovrebbe sulla base di questi vissuti costruire il lavoro terapeutico»9. Come dice M.

Boss: «Con queste intuizioni di base il procedimento psicoanalitico di Freud si

avviava a maturità trasformandosi nella tecnica psicoanalitica definitivamente valida,

consistente in una specifica analisi delle resistenze»10.

In sintesi, quindi, dal momento che nell'ambito della relazione terapeutica il paziente

tende a ripetere (più o meno inconsciamente) i propri sintomi, la “malattia” viene a

manifestarsi non come una “questione storica”, quanto piuttosto come una “forza

attuale”. Per questo motivo, può affermarsi che, attraverso la tecnica analitica, il

paziente non è tanto stimolato a “ricordare” ciò che egli ha dimenticato e/o rimosso

delle esperienze della propria vita, quanto piuttosto ad “agirlo”, a “riprodurlo”, nel

setting terapeutico, non come “ricordo” bensì come “fatto”. Il tutto, quasi sempre, a

livello totalmente involontario ed inconsapevole11.

A partire da tali assunti, il procedimento analitico di Freud si basò sempre più su di

una prassi volta al “ricondizionamento” ed alla “risoluzione” delle resistenze, agite

dal paziente nel setting terapeutico. Ed è in tale senso precipuo che «Freud auspicava

che, attraverso la terapia, lo spazio dell'Io potesse subentrare gradualmente all'Es:

non certo a livello di mera coscientizzazione dell'inconscio, quanto piuttosto di

9 Freud S., Erinnern, Wiederholen und Durcharbeiten, (trad. it. in "Freud-Opere", Boringhieri, Torino, 1980 3 , pp. 353 sgg.) citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., p. 11. 10 Boss M., cit., p. 11. 11 Cfr. Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., p. 152

Dasein n.1, 2013

53

ristrutturazione sempre più congrua e flessibile della capacità di gestione degli impulsi

primigenei»12. A tal proposito pare opportuno citare lo stesso Freud, il quale

affermava testualmente: «Se la consapevolezza (in se stessa) fosse così importante per

l'ammalato, come crede l'inesperto di Psicoanalisi, dovrebbe essere sufficiente, ai fini

della guarigione, che l'ammalato assistesse a delle lezioni o leggesse dei libri. Ma

queste misure hanno altrettanta influenza sui sintomi nevrotici quanta, in un'epoca di

carestia, ne avrebbe la distribuzione di un menù»13.

Attraverso la progressiva evoluzione della propria prassi clinica, in stretta

concomitanza con la constatazione della precipua importanza del fenomeno delle

resistenze, si andò imponendo a Freud una seconda essenziale e decisiva

osservazione: egli constatò che da parte del paziente nei confronti del terapeuta «si

stabilisce, di regola, purché si lasci all'ammalato tempo sufficiente, gli si attesti il più

serio interesse e non si commettano indelicatezze, un profondo attaccamento,

proprio com'era accaduto nei riguardi di quelle persone dalle quali l'ammalato era

abituato, un tempo, a ricevere affetto»14. A tale tipica “relazione affettiva” (di natura

prevalentemente inconscia), che il paziente tende a stabilire nei confronti del

terapeuta, Freud, come noto, diede il nome di transfert, e «immediatamente riconobbe

in questa relazione il fondamento portante di ogni trattamento»15.

In tal senso, quindi si può comprendere come Freud affermi di considerare il

transfert «come il fuoco che solo rende possibile esaminare a fondo, e infine

eliminare, le resistenze che un ammalato oppone contro l'accesso alla piena verità e

totalità del suo essere»16. Il transfert, pertanto, tende ad essere considerato da Freud

«come il campo entro il quale al paziente è consentito di esplicitarsi, presentando più o

meno inconsapevolmente le spinte patologiche, che sono nascoste nella sua vita»17.

In tale specifica prospettiva, il terapeuta assume il compito di “accompagnare” il

12 Ibid. 13 Freud S., Zur Technik, citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., p. 10. 14 Freud S., Zur Einleitung der Behandlung, citato in Boss M, "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., trad. it., p. 11. 15 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsnalytik, cit., trad. it., p. 11. 16 Ivi, p. 12. 17 Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., pp. 152-153.

Dasein n.1, 2013

54

paziente, immerso nella relazione transferale, al fine di condurlo gradualmente

“fuori” da tale relazione, “educandolo” a quel più di “libertà”, che permetta un

adeguato superamento dei fattori patologici all'origine del suo disagio psico-

esistenziale18. Medard Boss, a tal proposito, così sintetizza la posizione di Freud circa

il fenomeno ed il trattamento del transfert nell'ambito della prassi analitica: «Mentre

l'analista accompagna [...] i suoi pazienti attraverso tutte le fasi della loro attività

svolgentesi nell'ambito della situazione di transfert, conducendoli fuori dalla relazione

di transfert, la quale possiede 'un grado di libertà minore di quello che si ha nella vita e

che viene detto normale', egli può lasciare loro 'acquisire quel di più di libertà psichica

attraverso cui l'attività psichica cosciente si distingua da quella inconscia' »19.

È da sottolineare che, secondo Freud, i due sopra citati fenomeni della resistenza e del

transfert costituiscono “i pilastri fondamentali della sua prassi psicoanalitica”20. A tal

riguardo egli afferma esplicitamente che ogni tendenza scientifica «che riconosca

questi due fatti e li assuma come punti di partenza del proprio lavoro», può ben a

ragione definirsi “psicoanalitica”21. E', quindi, da rilevare che le successive proposte

tecniche ed, in particolar modo, l'intero fondamento razionale su cui andrà a fondarsi

la psicoanalisi, nonché le riflessioni teoriche sulla struttura e sull'articolazione della

vita psichica (prima e seconda “topica” freudiana), nulla hanno a che fare col nucleo

essenziale della prassi terapeutica psicoanalitica. E', infatti, lo stesso Freud che

testualmente afferma che tali idee non costituiscono altro che «una sovrastruttura

speculativa della psicoanalisi, ogni pezzo della quale può essere sacrificato e sostituito senza danno e

senza rimpianto non appena vi si scopra un difetto»22.

18 Cfr. ivi, p. 153. 19 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsnalytik, cit., trad. it., p. 12. Le citazioni di Freud, all'interno del passo di M. Boss, sono tratte dal testo: "Bemerkungen über die Übertragungsliebe", citato in nota 16, ibidem. 20 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsnalytik, cit., trad. it., p. 12. Cfr. anche Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., p. 153. 21 Freud S., Zur Geschichte der psychoanalitischen Bewegung, citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., nota 18, p. 12. 22 Freud S., Selbstdarstellung, citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., nota 30, p. 14 (corsivo nell'originale).

Dasein n.1, 2013

55

A questo punto, riprendendo il discorso iniziale, se Frankl, attraverso la sua

“Existenzanalyse”, ha tenuto ad evidenziare taluni “difetti” della “sovrastruttura

speculativa” freudiana (partendo da una prospettiva non più “positivista”, come in

Freud, bensì da un angolazione afferente più specificamente ad un approccio teorico

ad impronta “esistenziale”23), ciò nondimeno non pare che «si possa relegare tout-

court nel campo del non-valido o del superfluo tutto ciò che costituisce il nucleo di

fondo della più autentica prassi analitica»24. Con ciò si intende affermare che «quelli

che Freud definì come i fenomeni della resistenza e del transfert (spogliati, ripeto, delle

sovrastrutture speculativo-esplicative) non dovrebbero affatto essere a cuor leggero

misconosciuti»25 o sottovalutati in ogni e qualsivoglia prassi psicoterapeutica, anche

se afferente ad un orientamento più specificamente esistenziale, come ad esempio la

Existenzanalyse frankliana, più comunemente conosciuta col nome di “Logoterapia”

(Terza Scuola di Psicoterapia Viennese)26. D'altra parte, ad un'attenta e ponderata

considerazione, si può intravedere come nella posizione di Frankl non vi sia

l'intenzione di «contraddire allo spirito delle acquisizioni freudiane, quanto piuttosto

ad una lettera, che andava (e, spesso, ancora va) sempre più sclerotizzandosi in

dogma»27. E' appunto a tal proposito che lo stesso Frankl (riprendendo un pensiero di

Stekel), «riferendosi alla propria posizione nei confronti di Freud, disse ch'essa era

simile a quella di un nano venutosi a trovare sulle spalle di un gigante e solo per

questo in condizione di veder più lontano del gigante stesso»28, ribadendo quindi tale

concetto e facendo notare come «sarebbe assurdo attendere e pretendere da un

23 Analoga (anche se non identica) "critica" nei confronti della "sovrastruttura speculativa" freudiana, a partire da una prospettiva ad orientamento esistenziale, è stata proposta anche all'interno della Daseinsalytik di M Boss e della Daseinsanalyse di L. Binswanger. 24 Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., p. 153. 25 Ibidem. 26 Cfr. Frankl V. E., Ärztliche Seelsorge, Franz Deuticke, Vienna, 19667 , trad. it. (a cura di E. Fizzotti), "

Logoterapia e Analisi esistenziale", Morcelliana, Brescia, 1975. 27 Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., p. 153. A tal proposito, riferendosi a Freud (da lui conosciuto personalmente) e ad Adler (del quale era stato diretto discepolo), Frankl afferma esplicitamente: «Poiché la psicanalisi e la psicologia individuale rappresentano i due massimi sistemi psicoterapeutici conosciuti, non è possibile parlare di psicoterapia senza rifarsi ai nomi di Freud e di Adler, le cui opere sono da considerare ormai come storiche, sia nel senso più stretto sia perché ciò che esse racchiudono facilita la comprensione dei successivi apporti. Il valore delle due dottrine, come piedistallo ad ulteriori indagini, appare infatti evidente proprio perché ci si propone di superare i princìpi su cui rispettivamente esse si basano» (in Frankl V. E., Ärztliche Seelsorge, trad. it., cit., p. 27. 28 Frankl V. E., Ärztliche Seelsorge, trad. it., cit., p. 27.

Dasein n.1, 2013

56

ammiratore ed esaltatore di Ippocrate o di Paracelo che si attenga minuziosamente

alle prescrizioni dei maestri, utilizzando magari le stesse ricette e gli stessi metodi di

intervento medico»29.

Un percorso analogo sembra, per altro, essere stato compiuto (con minore impatto

clinico-pragmatico, ma probabilmente con maggiore lucidità teorica) da Medard

Boss, il quale, approfondendo il rapporto intercorrente tra la sua Analitica Esistenziale

[Daseinsanalyse], mutuata da Martin Heidegger, e la Psicoanalisi di Freud, poté

affermare che «non si darà mai il caso che la prima [la Daseinsanalyse] miri fin da

principio a porsi nei confronti della seconda [la Psicoanalisi] come un orientamento

di ricerca psicopatologica diverso o addirittura opposto, o come una 'scuola'

psicoterapeutica nuova o avversaria»30. In sostanza, quindi, è possibile sostenere che

sia la Psicoanalisi freudiana (come concreta “prassi analitica”), sia l'Existenzanalyse

(di Frankl), sia la Daseinsanalyse (di Heidegger e Boss) «concordano nel fatto che

esse non sono affatto analisi, nel significato comune di tale parola: in nessuna di

queste tre prospettive si mira, fondamentalmente a decomporre ciò che si deve analizzare,

ossia l'uomo, nei suoi aspetti costitutivi, in modo che poi all'attuazione di essa debba

seguire una sintesi»31. Anche se da diverse angolazioni, invece, tutte e tre gli approcci

si riferiscono ad un «analizzare nel senso di rendere trasparente l'essenza umana sulla

base della sua struttura e membratura. I membri, però, esistono sempre soltanto in

rapporto a un tutto lasciato intatto, giacché ogni membratura non può essere

determinata altrimenti che partendo da una totalità»32.

Le considerazioni sopra proposte consentono, quindi, di affermare che molte delle

acquisizioni (post-freudiane) apportate dalla Existenzanalyse e dalla Daseinsanalyse

hanno permesso di fare un po' di luce sul come (ed in qual misura) alcune delle

“sovrastrutture speculative” (e secondarie) della “teoria” psicoanalitica siano risultate

29 Ibidem, nota 1. 30 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsnalytik, cit., trad. it., p. 100. 31 Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., p. 154. Cfr. anche Boss M., Psychoanalyse und Daseinsnalytik, cit., trad. it., p. 101. 32 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsnalytik, cit., trad. it., p. 101.

Dasein n.1, 2013

57

parziali, “difettuali” e/o inadeguate, ragion per cui, secondo il consiglio dello stesso

Freud, possono (e debbono) anche essere “sacrificate” e “sostituite” senza alcun

danno o rimpianto33. E' solo in tale quadro complessivo che è possibile intendere una

delle specifiche peculiarità della Existenzanalyse frankliana (e della conseguente

“prassi logoanalitica”), consistente in una prospettiva di tipo essenzialmente

“finalistico”, per la quale l'azione del logoterapeuta tende ad esplicarsi in vista di una

sempre maggiore “significatività” (“logos”) della persona-paziente, nella sua unica,

irripetibile ed imparagonabile individualità34. Esiste (ed è questo il “credo” della

Existenzanalyse frankliana che guida l'azione logoterapeutica) un “logos” significante,

“nell'appello al quale la prassi terapeutica può trovare il più valido punto di

riferimento, concreto ed attuale, affinché colui che soffre possa vedere gradualmente

eliminato, o almeno lenito, il suo carico di sofferenza”35, al fine di una maggiore e più

appagante gratificazione esistenziale.

Bibliografia

Bazzi T., Psicoterapie non analitiche, in Tedeschi G., “La psicoterapia oggi”, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1975 Binswanger L., Essere nel mondo, trad. it. di A. Angioini e G. Banti, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1973 Binswanger L., Per un’antropologia fenomenologica. Saggi e conferenze psichiatriche, trad. it. di E. Filippini (a cura di F. Giacanelli), Feltrinelli, Milano, 1970 Binswanger L., La psichiatria come scienza dell’uomo, trad. it. (a cura di B. M. d’Ippolito), Ponte alle Grazie, Firenze, 1972 Boss M., Psychoanalyse und Daseinsanalytik, Verlag Hans Huber, Berna, 1957, trad. it. “Psicoanalisi e Analitica Esistenziale” (a cura di Antonio Verdino), Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1973

33 Cfr. Freud S., Selbstdarstellung, citato in Boss M., "Psychoanalyse und Daseinsnalytik", cit., nota 30, p. 14. 34 Cfr. Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, cit., p. 154. 35 Ibidem.

Dasein n.1, 2013

58

Brancaleone F., Logoterapia e prassi analitica, in Peresson L. (a cura di), “Lineamenti per una classificazione delle psicoterapie”, Edizioni CISSPAT, Padova, 1987 Frankl V. E., Ärztliche Seelsorge, Franz Deuticke, Vienna, 19667 , trad. it. (a cura di E. Fizzotti), “Logoterapia e Analisi esistenziale”, Morcelliana, Brescia, 2005 Frankl V. E., Teoria e terapia delle nevrosi, trad. it. (a cura di E. Fizzotti), Morcelliana, Brescia, 2001 Frankl V. E, Psicoterapia nella pratica medica, trad. it. Giunti-Barbèra, Firenze, 1974 Freud S., Zur Einleitung der Behandlung, (trad. it. in “Freud-Opere”, Boringhieri, Torino, 1980 3 , pp. 333 sgg.) Freud S., Erinnern, Wiederholen und Durcharbeiten, (trad. it. in “Freud-Opere”, Boringhieri, Torino, 1980 3 , pp. 353 sgg.)

Dasein, n. 1, 2013

59

Edith Stein e l’empatia

Edith Stein and empathy

Mariacarla Zunino

Summary

Esponente della scuola fenomenologica, Edith Stein ha fatto del suo interesse per la persona umana il cardine intorno al quale ruota tutta la sua riflessione filosofica. Interrogandosi circa la possibilità della conoscenza di se stessi e del mondo circostante, la Stein ha individuato nell’empatia il fondamento di qualsivoglia processo conoscitivo umano. In particolare, a partire dall’esperienza fenomenica di me stesso, ossia dall’ultima oggettiva essenzialità dell’esperienza della mia corporeità, io constato che questa è messa in risalto dal confronto con un “tu” che vive se stesso come io vivo il mio “io”: secondo Edith Stein è allora possibile, per analogia, attraverso una serie di atti di empatia, cogliere anche l’esperienza vissuta dell’altro. Parole chiave: intuizione fenomenologica, atto empatico, conoscenza per analogia

Exponent of the phenomenological school, Edith Stein made the human person the cornerstone of his entire philosophical reflection. Inquiring about the possibility of self-knowledge and of the world around, Stein identified empathy as the foundation of any human cognitive processes. In particular, from the phenomenological experience of myself, that is the last objective essence of the my body experience, I realize that this is highlighted by the comparison with a "you" that experiences himself as I live my "I": according to Edith Stein is then possible, by analogy, through a series of empathy acts, to gather even a lived experience of the other. Key words: phenomenological intuition, empathic act, knowledge by analogy

L’empatia ci parla della possibilità di cogliere l’esperienza vissuta di un altro essere

umano, di comprenderne gli stati d’animo ed i sentimenti; peraltro, quando si parla di

empatia, si corre il rischio di rimanere nella generalità del discorso, di porre

esageratamente l’accento sull’aspetto affettivo della relazione interpersonale, di

rimanere cioè su un piano superficiale.

Dasein, n. 1, 2013

60

E’ interessante la riflessione che su questo argomento ha condotto la scuola

fenomenologica ed in particolar modo la trattazione della genesi dell’atto empatico

fatta da Edith Stein, filosofa della prima metà del Novecento.

L’elaborazione del concetto costituisce il tema della tesi di laurea della studiosa, “Zum

Problem der Einfühlung”, seguita personalmente da Husserl che ne fu il relatore durante

la dissertazione avvenuta il 3 agosto 1916.

La letteratura precedente aveva già trattato l’argomento, tanto è vero che, nella

seconda parte della tesi, la Stein confronta la sua teoria sull’empatia con quella di

altri autori, tra gli altri Lipps e Scheler (ambedue ravvisano un Soggetto nell’empatia:

Lipps parla di “unipatia”, ed evidenzia come nell’atto empatico l’io si identifichi con

un altro io, Scheler invece, individua l’empatia nel co-sentire di un Soggetto,

costituito però dalla pluralità degli individui psicofisici, i quali permangono distinti

l’uno dall’altro).

Husserl stesso in quegli anni, nella sua opera “Idee per una fenomenologia pura e per una

filosofia fenomenologica”, aveva affrontato l’argomento parlando di atto empatico, anzi, a

questo proposito, nel “Giudizio sulla dissertazione della signorina Stein” sottolineava come

«…l’Autrice, nell’elaborazione dei concetti fondamentali delle sue teorie è stata

influenzata da quanto io ho esposto nelle mie lezioni di Gottinga e da stimoli

personali» (Stein, 2009 p. 29).

La Stein condividerà la teoria husserliana secondo la quale, da una parte l’atto

empatico è il presupposto per giungere alla conoscenza del mondo oggettivo,

pertanto atto finalizzato a, necessario per, la costituzione della realtà io-uomo;

dall’altra l’oggetto della ricerca sono i rapporti intersoggettivi e tra le persone e il

mondo circostante comune: io, noi ed il mondo stanno in un’inerenza reciproca che

presuppone una conoscenza degli altri e di un mondo di cose. Tuttavia, la

conoscenza, nella visione di Husserl, non è acquisita attraverso l’atto empatico: anche

se l’atto empatico entra a far parte del processo conoscitivo, non lo fonda.

L’analisi della Stein invece, prende corpo a partire dal concetto stesso di empatia: ne

viene chiarita l’origine e ne sono indicate le modalità di attuazione. L’atto empatico

non è una sensazione, né un sentimento, né un atto della percezione interna di sé, e

Dasein, n. 1, 2013

61

neppure è riconducibile al ricordo e all’immaginazione, ma è un atto concreto e

originario attraverso il quale possiamo cogliere in modo non-originario un vissuto

estraneo, ed è proprio la non-originarietà degli atti empatizzati che, dice la Stein, «mi

induce a rifiutare il titolo comune di percezione interna per indicare l’afferramento

tanto dell’esperienza vissuta propria quanto di quella estranea» (idem, p. 114), meglio

parlare allora di “intuizione interna” (idem).

Addentriamoci ora nello specifico della genesi dell’atto empatico così come risulta

nella trattazione di Edith Stein.

Il metodo fenomenologico

Si deve necessariamente incominciare dal metodo di indagine utilizzato, il metodo

fenomenologico appunto, per delineare i confini entro i quali si svolge il discorso.

Innanzi tutto è bene chiarire che il termine fenomeno non sta ad indicare quello inteso

nel significato corrente di semplice apparenza, piuttosto, è l’ultima, oggettiva

essenzialità.

La peculiarità del metodo, come spiega la stessa Stein in un suo articolo intitolato

“Che cos’è la fenomenologia”, è data da suo carattere intuitivo: la fenomenologia, non è

una scienza deduttiva, non trae cioè i suoi teoremi come la matematica da un numero

finito di assiomi (il numero delle verità filosofiche è infinito), e neppure una scienza

induttiva secondo il metodo delle scienze naturali, che giungono alla verità generale

in modo indiretto, muovendo dai fatti dell’esperienza sensibile. Il suo strumento

specifico è «una conoscenza intuitiva delle verità filosofiche che siano in se stesse certe,

evidenti e non abbiano bisogno di nessuna deduzione da altro. Questa intuizione,

questo sguardo spirituale non va confuso con l’intuizione mistica. Non è

un’illuminazione soprannaturale, piuttosto è un mezzo di conoscenza naturale come

la percezione sensibile; essa è mezzo specifico per la conoscenza delle verità ideali,

così come la percezione sensibile è il mezzo specifico per la conoscenza dei fatti del

mondo sensibile» (Stein, 1993, p. 59). L’intuizione «è nascosta in ogni singola

esperienza come fattore indispensabile - non potremmo parlare di uomini, animali,

piante se in ognuna di queste cose che percepiamo qui e ora, noi non afferrassimo un

Dasein, n. 1, 2013

62

universale che indichiamo con un nome comune - ma può distaccarsi da essa ed

essere compiuta per se stessa» (Stein, 2000, p. 66).

La domanda che sorge è allora se sia possibile, e come, pervenire ad un punto di

partenza certo e sicuro. La possibilità si attua attraverso la cosiddetta riduzione

fenomenologica, ossia escludendo dal considerare tutto ciò che può essere eliminato.

Io posso dubitare dell’esistenza della cosa che ho davanti a me, poiché esiste la

possibilità dell’inganno (il dubbio cartesiano), ciò che penso può non essere vero, ciò

che percepisco può non esistere realmente, tutto ciò può rivelarsi un errore, un sogno

o un’illusione, ciò di cui però non posso dubitare, è la mia esperienza vissuta della

cosa, cioè il suo afferramento nella percezione, nel ricordo, insieme al suo correlato,

ossia il fenomeno della cosa nella sua pienezza.

Posso dubitare che questo io empirico con un nome, posizione sociale, fornito di

particolari qualità, esista veramente, tutto il mio passato potrebbe essere un sogno e il

suo ricordo un inganno quindi messo in dubbio, e rimanere solo come fenomeno

l’oggetto della mia considerazione. Ma Io, il soggetto dell’esperienza vissuta, che

considero il mondo e la mia persona come fenomeni, “io” sono nell’esperienza

vissuta e solo in essa permango, quindi l’Io e l’esperienza vissuta non è possibile

siano messi in dubbio. Così, «ad ogni io penso, io percepisco, io voglio e così via,

corrisponde come tale un pensato, un percepito, un voluto, e poiché il fenomeno

dell’albero percepito è tanto indubitabile quanto la percezione stessa, anche se

l’albero percepito non esistesse, l’intero mondo oggettivo (gegenständliche Welt) che l’io

ha di fronte nei suoi atti, appartiene al campo della ricerca fenomenologica» ( Stein,

1993, p. 100).

La successiva elaborazione porterà la Stein ad un’articolazione più completa del

concetto, come si evidenzia nelle riflessioni più mature di “Essere Finito e Essere eterno.

Per una elevazione al senso dell’essere” dove compare il termine coscienza e dove si legge:

«Rimane come campo di ricerca la coscienza, intesa come vita dell’Io: posso lasciare

indeciso se la cosa che io percepisco con i sensi esista o non esiste realmente, ma non

poso cancellarla dalla percezione in quanto tale; posso dubitare che le conseguenze che

io traggo siano esatte, ma il pensiero argomentante o deducente è un dato di fatto

Dasein, n. 1, 2013

63

indubitabile; e così è per ogni mio desiderio, per ogni mio atto di volontà, per i miei

sogni, per le mie speranze, per le mie gioie e i miei dolori, in breve, per tutto ciò in

cui io vivo e sono, ciò che si dona come l’essere dell’ Io cosciente di se stesso» (Stein,

1988, p. 73).

Questi due aspetti metodologici, rientrano nella genesi dell’atto empatico dal

momento che è proprio l’esperienza che io faccio di me stesso e del mondo

circostante a determinare la possibilità dell’empatia.

L’esperienza di me stesso

Io faccio esperienza del mio corpo e constato che è così costituito: körper=corpo

fisico, e di leib=corpo vivente. Il mio corpo è infatti cosa fisica, io lo posso percepire

con i miei sensi esterni come qualsiasi altro oggetto; tuttavia mi accorgo che è un

oggetto sui generis dal momento che non ha una completa libertà di movimento e

non posso osservarlo da ogni lato; inoltre io non ho la sola risposta della percezione

esterna, ma percepisco il mio corpo anche dal di dentro. La Stein dice: «Io non sono

il mio corpo vivente, io ho e domino il mio corpo vivente. Posso anche dire: io sono

nel mio corpo vivente. Idealmente posso allontanarmene e osservarlo come

dall’esterno. In realtà sono legato ad esso. Sono là dove si trova il mio corpo vivente

anche se “in spirito” posso portarmi all’altro capo del mondo e persino elevarmi al di

sopra dello spazio. Non posso individuare il punto nel corpo in cui l’io avrebbe la sua

dimora… L’io non è una cellula cerebrale; ha un senso spirituale che è accessibile

solo nei nostri vissuti. Ed anche la localizzazione dell’io può essere determinata solo

a partire dal vissuto» (Stein, 2000, p. 129-130).

L’esperienza del mondo circostante

L’io esperisce l’individualizzazione perché la sua ipseità viene in risalto in confronto

all’alterità dell’altro che viene data in modo diverso dall’ “io”: è un “tu” che vive se

stesso come io vivo il mio io. Io sono certo e non posso dubitare del fenomeno della

vita psichica estranea. Come rileva la Stein: «Il mondo in cui vivo non è solo il

mondo di corpi fisici, è anche un mondo di Soggetti estranei, oltre a me, ed io sono a

Dasein, n. 1, 2013

64

conoscenza di questa esperienza vissuta… come corpo cui appartiene un Io capace di

avere delle sensazioni, di pensare, di sentire e volere, come corpo che non fa parte

solo del mio mondo fenomenico, ma è esso stesso centro di orientamento di un

simile mondo fenomenico, di fronte cui si trova, e con il quale io sono in commercio

reciproco» ( Stein, 2009, p. 70).

L’atto empatico

Dalle premesse finora tratteggiate ci si interroga se sia possibile ed in quali termini un

rapporto tra gli individui.

È l’esperienza fenomenica dell’analogia della costituzione io/altro a fondare questa

possibilità, attraverso un genere di atti nei quali è possibile cogliere la stessa

esperienza vissuta estranea. Dall’espressione del volto e dai gesti degli altri non solo

so ciò che vedo, ma anche ciò che si nasconde nel loro intimo ad esempio vedere che

un altro è triste dall’espressione del suo volto; dice la Stein: «Tutte queste datità

relative all’esperienza vissuta estranea rimandano ad un genere di atti nei quali è

possibile cogliere la stessa esperienza vissuta estranea. Su tali atti si basa quella

particolare conoscenza che vogliamo ora indicare col termine “empatia” (Einfühlung),

astraendo dal senso che al termine è stato attribuito da tutte le tradizioni storiche»

(idem, p. 71). L’empatia è un tipo particolare di conoscenza: l’empatia è la coscienza

che esperisce, nella quale ci giungono a datità le persone estranee.

Non si tratta di intuizione eidetica ossia di quell’atto originario offerente che mi

permette di cogliere intuitivamente le relazioni essenziali ad esempio di un assioma

geometrico oppure dei nostri propri vissuti allorquando pervengono a datità nella

riflessione.

Non si tratta neppure di percezione esterna «titolo di atti in cui l’essere cosale spazio-

temporale ed il suo accadere si danno in carne ed ossa, qui davanti a me hic et nunc»

(idem, p.72). Infatti non vedo il dolore di un amico che mi viene a dire della morte di

suo fratello; di tale dolore io mi rendo conto, ma il dolore stesso non mi verrà mai a

datità, mi verranno a datità sempre e solo l’espressione del volto sconvolto dal dolore

Dasein, n. 1, 2013

65

o meglio, il mutamento dei lineamenti che empaticamente io ritengo essere

l’espressione di un volto sconvolto dal dolore.

Posso afferrare il significato di tale rendermi conto per analogia con alcuni dei miei

vissuti quali il ricordo e la fantasia: essi infatti non sono originari per il contenuto, ma

originario è l’atto attuale con il quale me li presentifico: questi vissuti non hanno il

loro oggetto davanti a sé, solamente se lo rendono presente; la mia stessa esperienza

vissuta è data qui in modo non originario.

La Stein chiarisce con l’esempio del ricordo di una gioia passata: il ricordo è

originario in quanto atto di presentificazione che si compie ora, tuttavia il contenuto

del ricordo stesso è non originario, ossia la gioia che sta là non è in carne e ossa, ma

come è stata vissuta una volta. Io, soggetto dell’atto del ricordare, in tale atto di

presentificazione posso volgere indietro lo sguardo alla gioia passata e così troverò

l’Oggetto=la gioia passata ed il suo soggetto=l’Io del passato. L’Io del presente e l’Io

del passato stanno tra di loro come soggetto e oggetto: l’Io originario ricorda, l’io

non-originario è ricordato. Il flusso dei ricordi può avvenire passivamente o posso

portarmi di proposito in un istante di quel flusso e lasciar ridestare la sequenza dei

vissuti vivendo nel vissuto ricordato: comunque sia, qui mi starà di fronte un

surrogato dei ricordi svaniti che può avere il carattere di dubbio, di congettura,

verisimiglianza, ma mai di essere.

Analogamente avviene nell’atto empatico quando io esperisco la gioia di un altro:

non vivo una gioia originaria, ossia essa non scaturisce in maniera viva dal mio io, né

ha il carattere di esser stata viva in precedenza; così come si è rilevato accadere per il

ricordo, è l’altro soggetto che prova in maniera viva l’originarietà.

Nella mia esperienza vissuta non-originaria possiamo distinguere con la Stein tre

momenti in cui sento che l’esperienza vissuta originaria mi perviene a datità: 1) si

annuncia in me, anche senza esser stata vissuta da me 2) si manifesta l’esperienza

vissuta estranea 3) io arrivo al vissuto estraneo.

Quindi si può affermare che il vissuto presentificato nell’atto empatico non è una

realtà viva e originaria in me, ma presente è l’atto attraverso cui mi rendo conto del

vissuto altrui; altrimenti detto l’empatia in quanto presentificazione è una realtà

Dasein, n. 1, 2013

66

presente, un vissuto originario, ciò che presentifica però non è una propria

impressione passata o futura, ma un moto vitale presente e originario in un altro, che

non si trova in alcuna relazione continua con il mio vivere e non lo si può far

coincidere con esso.

L’utilizzo della locuzione atto empatico sottolinea forse meglio del semplice termine

empatia come sia nell’azione, nei suoi atti, che si costituisce per l’io l’intero mondo

oggettivo; la Stein afferma: «Un’azione è unità di comprensione o di senso in quanto

i vissuti parziali che la costituiscono sono tra loro in un rapporto vivibile» ( Stein,

2000, p. 182).

Riassumendo, si sottolineano alcune caratteristiche che si possono rilevare proprie

dell’atto empatico così delineato nella visione steiniana:

- è una conoscenza per analogia

- è una conoscenza non originaria di vissuti originari

- presentifica un moto vitale presente e originario in un altro

- non è immedesimazione

- ogni vissuto è essenzialmente il vissuto di un io da esso inscindibile.

Io potrò sempre giungere fino ad essere in prossimità dell’altro, non riuscirò però

mai a cogliere quanto egli vive e sente in se stesso ed è proprio questa impossibilità di

immedesimazione a garantire il margine di libertà impenetrabile dell’altro.

Anche nell’esperienza empatica vi è la possibilità di errore (la Stein parla di “inganni

di empatia”); questo si verifica quando attribuiamo all’altro una nostra caratteristica

individuale «Così succede se assegniamo ad un daltonico le nostre impressioni

cromatiche, al bambino la nostra capacità di giudizio… Se io empatizzo una persona,

che non ha sensibilità per la musica, assegnandole il godimento che provo

nell’ascoltare una sinfonia di Beethoven, quest’inganno si eclisserà non appena lo

guardo nel volto in cui colgo l’espressione di una noia mortale» (Stein, 2009, p. 189).

Tuttavia non solo è possibile una correzione, attraverso l’attenzione alla percezione

esterna, con altri atti empatici, ma il fraintendimento, potendo esser rettificato

successivamente, costituisce comunque una forma di comprensione, sebbene errata;

infatti si tratta comunque di un percorso esperienziale che, mettendo in relazione e a

Dasein, n. 1, 2013

67

confronto vissuti estranei, consente di approfondire ed arricchire all’infinito di

significati la conoscenza di se stessi e degli altri.

Bibliografia

Stein E., (1917), Zum Problem der Einfühlung, trad. it. Il problema dell’empatia, Edizioni Studium, Roma, 2009 Stein E., Was ist Phänomenologie? in Wissenschaft/Volksbildung-Wissenschaftliche Beilage zur Neuen Pfälzischen Landes Zeitung, n. 5, 15 maggio 1924 trad. it. Che cos’è la fenomenologia?, in “La ricerca della verità – dalla fenomenologia alla filosofia cristiana”, Città Nuova Editrice, Roma 1993 Stein E., (1986), Endliches und ewiges Sein – Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Seins, trad. it. Essere finito e essere eterno – per una elevazione al senso dell’essere, Città Nuova Editrice, Roma, 1988 Stein E., (1994), Der Aufbau der menschlichen Person, trad. it. La struttura della persona umana, Città Nuova Editrice, Roma 2000

Dasein, n.1, 2013

68

Secrets of Existential Psychotherapy (Part One)1

Segreti della psicoterapia esistenziale (parte prima)

Stephen A. Diamond

Summary What is existential therapy? What is the common ground upon which all existential orientations to treatment stand? In Part One of this two-part article, the Author, an American clinical and forensic psychologist, differentiates between existential psychotherapy and existential philosophy, discusses divergence within the field of existential therapy today, and describes the clinical practice of what he calls “existential depth psychology.”

Key words: existential psychotherapy, existentialism, psychodynamic psychotherapy, depth psychology, Irvin Yalom, Rollo May, Viktor Frankl. Cosa è la psicoterapia esistenziale? Qual è il terreno comune su cui si basano tutti gli orientamenti terapeutici esistenziali? Nella prima parte di questo articolo l’Autore, psicologo clinico e forense, differenzia la psicoterapia esistenziale dalla filosofia esistenziale, discute le divergenze nel campo della terapia esistenziale oggi, e descrive la pratica clinica di ciò che egli definisce “psicologia esistenziale del profondo”. Parole chiave: psicoterapia esistenziale, esistenzialismo, psicoterapia psicodinamica, psicologia del profondo, Irvin Yalom, Rollo May, Viktor Frankl.

Does “Existential Therapy” Really Exist?

“Existential therapy,” despite its distinctive philosophical, theoretical and

methodological orientation to treatment, has come to connote a confusing array

of varied and wildly divergent, diversely defined approaches--from more

1 This article is derived, revised and condensed from Dr. Diamond’s chapter on existential psychotherapy currently in preparation for the forthcoming text Contemporary Theory and Practice of Counseling and Psychotherapy (Sage Publications, 2014). Some parts of this paper appeared previously in slightly different form in Diamond, S. Anger, madness and the daimonic: Toward an existential depth psychology. Journal of the Society for Existential Analysis, 1999;10.1:27-41.

Dasein, n.1, 2013

69

traditional “existential analysis” to “logotherapy“ to “existential-humanistic” to

“Gestalt therapy” to “experiential” to “bodywork” to “existential-

phenomenological” to “philosophical counseling” or “clinical philosophy” to

mindfulness and Zen meditation. This all but begs the question: Will the real

existential psychotherapy please stand up?

What is existential therapy? What is the common ground upon which all existential

orientations to treatment stand? To this day, there remains immense

misunderstanding, distortion and confusion regarding the nature of existential

therapy. It is, admittedly, difficult to define. Part of the problem pertains to the

integral relationship between existential psychotherapy and existential philosophy.

Indeed, some mistakenly see them as being identical. But they are not. While

existential psychotherapy is commonly considered synonymous with the

brooding, dark, despairing, melancholic, nihilistic, atheistic intonations of

continental European existentialism, it is crucial to differentiate the two:

Existentialism is a philosophical movement, whereas existential therapy is a psychological

treatment.

At its best, existential psychotherapy endeavors squarely and soberly to confront

the "ultimate concerns" (Tillich) and frequently tragic "existential facts of life":

finitude, death, fate, freedom, responsibility, loneliness, loss, suffering,

meaninglessness, evil and the daimonic (see May, 1969; Diamond, 1996).

Existential psychotherapy is concerned with more deeply comprehending and

alleviating or mitigating as much as possible (without naively denying reality and

la condition humaine) disturbing or crippling “negative” psychiatric symptoms,

excessive suffering and destructive psychological states such as debilitating

depression, addiction, narcissism, neurotic anxiety and psychosis as well as

cultivating and promoting “positive,” meaningful, life-enhancing experiences like

intimacy, love, caring, commitment, courage, creativity, presence, self-esteem,

spirituality, self-actualization, authenticity, integrity, transcendence, beauty,

Dasein, n.1, 2013

70

wonder and awe2. Existential psychotherapy recognizes and acknowledges life’s joy and woe

as inseparable and intrinsic to human existence, and treats such experiences as equally

important, like the essential interplay of light and shadow. In this, and other

ways, existential therapy can be described as a holistic, experiential approach, considering

the entire person and his or her full spectrum of subjectivity or here-and-now-being- in-the-

world (Dasein).

Existential psychotherapy started as a rebellious renunciation of and protest

against the status quo in psychiatry and psychology during the mid-twentieth

century. It was, in its day, revolutionary. And, in many ways, still is. However,

existential therapy was never intended by its earliest progenitors to become a

specific school unto itself, but rather a pragmatic, humanistic, corrective orientation to

psychoanalysis and psychotherapy in general. "Existentialism," explains Rollo May

(1983/86), "is not a comprehensive philosophy or way of life, but an endeavor to

grasp reality" (p. 59). Drawing upon European existential philosophy, the

existential movement in psychiatry and psychology arose as a reaction against the

reductionism, determinism, dogmatism, medicalization and hyper-rationalism of

both psychoanalysis and behaviorism. As May (1983/1986) points out, whenever

you perceive a person as merely a particular mental disorder, maladaptive

behavior, irrational cognitions, neurobiochemical imbalance, genetic

predisposition or "as a composite of drives and deterministic forces, you have

defined for study everything except the one to whom these experiences happen, everything

except the existing person himself" (p. 25). Existential psychotherapy seeks to

discover the being or self who subjectively experiences such fateful phenomena

from within and without and who possesses the potential power, will and freedom to

decide how to respond: with acceptance or rejection, dignity or despair, creativity

or destructiveness, love or hate.

2 This emphasis on personal strengths, resilience, self-actualization, transcendence, creativity and human potentiality rather than solely on pathology and deficits stems in part from the humanistic psychology movement five decades ago and can also be found resurrected in today’s “positive psychology.”

Dasein, n.1, 2013

71

Nevertheless, due largely to the popularity of the writings and clinical work of

existentially-oriented practitioners like Otto Rank, Viktor Frankl, Rollo May, Fritz

Perls and Irvin Yalom, existential psychotherapy gradually developed its own

distinct identity, philosophy and methodology, distinguishing it from most other

traditional approaches to psychological treatment, both theoretically,

philosophically and technically3. But, rather than there being a single, unified form

of existential therapy today, there are instead several. Over the past few decades,

we witnessed a clear trifurcation in the direction taken by existential

psychotherapy. These three related yet divergent tributaries are represented by: 1)

the psychodynamically-based existential therapy of clinicians like Rollo May, Fritz

Perls and Irvin Yalom; 2) the American “existential-humanistic” therapy of

Abraham Maslow, Carl Rogers, James Bugental and, more recently, Kirk

Schneider; and 3) the more radical, heavily Heideggerrian-influenced existential-

phenomenological or “clinical philosophy” of the London-based Society for

Existential Analysis founded in 1988 by Hans Cohn, Emmy van Deurzen and

Ernesto Spinelli. (For some, Viktor Frankl’s “third Viennese school” of

existential analysis he named “Logotherapy” represents its own independent

tributary, as distinct from the others mentioned here, though it has significantly

influenced all three.)

Irvin Yalom (1980) summarizes the fundamental differences between the

existential therapy influenced mainly by European existential philosophy and that

more closely aligned with humanistic psychology as follows: «The European

focus is on limits, on facing and taking into oneself the anxiety of uncertainty and

non-being. The humanistic psychologists, on the other hand, speak less of limits

and contingency than of development of potential, less of acceptance than of

awareness, less of anxiety than of peak experiences and oceanic oneness, less of

life meaning than of self-realization, less of apartness and basic isolation than of

3 For example, in addition to existentially-oriented graduate programs at places like Duquesne University and Regents College in London, there is now a newly formed training certification program in existential-humanistic therapy at Saybrook University in San Francisco.

Dasein, n.1, 2013

72

I-Thou and encounter». (p. 19)

Despite these differences, all variations of existential psychotherapy derive from

and remain rooted, more or less, in the same primal source: what we now

generically call “psychodynamic” psychotherapy. So what then is the difference between

psychodynamic and existential psychotherapy? 4.

Existential versus Psychodynamic Therapy

While making use of certain psychodynamic principles, concepts and methods,

existential therapy is seen by those who pioneered, practice and promulgate it to

complement and improve upon what traditional psychoanalytic or depth psychology can provide.

This is precisely the main point made in the works of iconoclastic clinicians like

Binswanger, Boss, May and Yalom: The existential approach was meant to

enhance the efficacy of conventional psychodynamic psychotherapy, but not to

completely replace it. This is one of the most controversial topics within the

existential therapy movement today, and there is a great deal of disagreement

among the various factions on this subject.

Both of the most prominent American practitioners of existential therapy, Rollo

May and Irvin Yalom, were psychodynamically trained in the neo-Freudian

tradition, May as a clinical psychologist and psychoanalyst, and Yalom as a

psychiatrist. Eventually, Yalom, like May before him (and Rank before him),

began to integrate the insights of existential philosophy into his

psychoanalytically-influenced work as a practitioner. He was inspired to do so by

the publication in 1958 of the groundbreaking volume Existence, which was co-

edited and included two original chapters by Rollo May. Two decades later, in his

own now-classic textbook, Existential Psychotherapy (1980), Yalom described

4 For a brief overview of contemporary psychodynamic psychotherapy and recent outcome studies regarding efficacy, see Diamond (2012). Since existential therapy was first intended to be an enhanced form of psychodynamic psychotherapy, its efficacy would be as measurable and at least as demonstrable, though the goals attained to by existential therapy may differ somewhat from those of psychodynamic therapy

Dasein, n.1, 2013

73

existential therapy as a “humanistically-based,” “dynamic approach that focuses

on concerns rooted in human existence,” one “firmly planted in ontological

bedrock, the deepest structures of human existence” (p. 485). He further writes

that, “Existential therapy is based on a model of psychopathology which posits

that anxiety and its maladaptive consequences are responses to . . . four ultimate

concerns” (p. 485), and, borrowing the term from Tillich, neatly (no doubt, too

neatly) categorizes these ultimate existential concerns as freedom, mortality, meaning,

and aloneness. For Yalom, these four fearsome horsemen--death, meaninglessness,

freedom, and isolation-- are the fundamental issues and conflicts underlying or

influencing most psychiatric symptoms, and, therefore, must be explicitly

confronted in existential psychotherapy.

Yalom rightly recognizes existential therapy as part of an historical wisdom

tradition, building upon millennia of philosophical insights coupled with the

cumulative clinical wisdom of modern psychotherapy, starting with Freud’s

psychoanalysis a century ago. Existential therapy, writes Yalom (1980), “gathers and

harvests the insights of many philosophers, artists, and therapists about the

painful and redemptive consequences of confrontation with ultimate concerns”

(p. 486). What for him distinguishes existential therapy from most other

psychotherapies is its unflinching emphasis on these “ultimate concerns” as they

impact the patient today, right now, interpersonally, in the present moment, as contrasted to

the intrapsychic Freudian focus on traumatic childhood history or CBT’s

preoccupation with modifying maladaptive behavior and restructuring irrational

cognitions. For Yalom, facing mortality, “willing, assuming responsibility, relating

to the therapist, and engaging in life are the key processes of therapeutic change”

(p. 485). Yalom’s (1980) own primarily interpersonal or relational focus in existential

therapy is not classically psychodynamic per se, in the typical sense of resolving

unconscious conflicts and transference. Instead, “the basic conflict is between the

individual and the ‘givens,’ the ultimate concerns of existence” (p. 273). In other

words, for Yalom, it is not our socially unacceptable, repressed instincts and drives with

Dasein, n.1, 2013

74

which we wrestle so much as the unacceptable and immutable facts of existence. Not our

personal demons but, rather, the human condition. For me, however, this

dichotomy seems dubious, since existential therapy obviously must

simultaneously address psychodynamic along with interpersonal, transpersonal

and existential phenomena.

Rollo May (1958) was chiefly responsible for introducing European existential

analysis to American clinicians. And he lucidly explains how the application of

and attention to these existential methods, concepts and concerns can enhance

psychotherapy in general. The first thing May makes clear is that existential

therapy is not a new and distinct school of psychotherapy unto itself 5. Rather, it

is really about an existential orientation or approach to treatment, “an attitude

toward human suffering” (2013, p. 265), one which is potentially complementary

to and compatible with the already established schools of psychotherapy. As May

remarks about the existential movement’s early influence in clinical psychology

and psychiatry, «the impact is not that there are therapists who call themselves

existential therapists, because existentialism is not a technique over against other

techniques. It is not a system that you go to school to learn. It’s rather a concern

with the basic presuppositions of what it means to be a human being. You can be

a good Freudian or a good Jungian and still existential--and if you are good, you

will be existential. Even some behavior therapists are very good existentialists. . . .

Existentialism means keeping in mind the person who has the instincts or drives

or behavior» (cited in Kohn, 1984, pp. 8-9). Yalom (2007) echoes this same

essential point: “You cannot simply be trained as an existential psychotherapist.

One has to be a well-trained therapist and then set about developing a sensitivity

to existential issues.” However, in actuality, much the same may be said

regarding the training of Freudian analysts, Jungian analysts, Adlerians, Gestalt

therapists, etc., since such training is, and aptly should be, an advanced post-

graduate complement to the basic clinical competency every psychotherapist must acquire.

5 Here May differs from Frankl, who created his own separate “school” of existential analysis or “logo-therapy.”

Dasein, n.1, 2013

75

God, Death, Beauty, Evil and the Daimonic: Toward an Existential Depth

Psychology

Personally, I have long felt that what we today generally refer to as “existential

therapy,” for all its penetrating philosophical insights and unflinching

phenomenological method, is missing a certain “depth” or richness present to

some extent in the psychoanalytic tradition and particularly in C.G. Jung’s

Analytical Psychology. While it is essential, especially given the recent regressive

trends in contemporary psychiatric treatment, to retain its skeptical, independent,

rebellious spirit and non-conformist vitality, existential therapy need no longer

identify itself solely as the defiant protest against the psychiatric status quo it

started out as. Existential psychotherapy has successfully survived its stormy

adolescence and attained adulthood, having in many ways achieved its original

corrective or compensatory clinical purpose. Its positive influence in the mental

health field is far-reaching and pervasive. It is now becoming mainstream, and

must be redefined in its maturity as a movement fostering unity, integration,

wholeness, meaning and transcendence rather than reflexive opposition--a

connective bridge between differing but complementary schools of

psychotherapy. However, in rejecting the so-called depth dimension (the

“unconscious”), most existential therapy, it seems to me, still lacks some central,

unifying, dynamic myth commensurate to its mature and rightful place in the

evolution of psychology and psychotherapy--Camus’ famous “myth of Sisyphus”

notwithstanding. This is why I propose an explicit synthesis, a union, a marriage (not of

convenience but rather of necessity) between existential and depth psychology, a paradoxical

admixture which I designate existential depth psychology (see Diamond, 1996). But

what might such a strange and unlikely hybrid look like?

Existential phenomenology and depth psychology are complementary, not

antithetical, as some philosophical purists dogmatically claim. Phenomenology

concerns itself with existence prior to interpretation or tainted perception. Depth psychology

is that specialized branch of psychotherapy that concerns itself with the

Dasein, n.1, 2013

76

phenomenology of the unconscious. As theologian and philosopher Paul Tillich (1964)

saw it, “Existentialism speaks of the universal human situation, which refers to

everybody, healthy or sick. Depth psychology points to the ways in which people

try to escape the situation by fleeing into neurosis and falling into psychosis” (p.

124).

While both May and Yalom both practice what I believe is best described as an

“existential depth psychology,” there are highly significant differences in their

orientation, emphasis, and therapeutic approach to patients. Some of these

differences reside in the understanding (or misunderstanding) of what we mean

by “depth” in depth psychology. Yalom interprets Freud’s use of the term deep in

his depth psychology (psychoanalysis) as signifying that which is “early” or

developmentally primal. For Jung, “deep” refers to the fathomless sea of the

personal and collective unconscious. Whereas for Yalom (2013), using the word

“deep” in existential therapy refers rather to the “most fundamental concerns of

the individual at that moment” (p. 279). Existential-phenomenologist Hans Cohn

(1999) of the London school expressed his serious doubts about the

incompatibility of “depth psychology” with existential therapy as follows: «Depth

psychology seems to me to assume that there is in each individual a structured

intra-psychic field housing positive and negative forces whose interaction

manifests itself in human behaviour. Structure and forces are described

differently by different theorists, but in each case a model is offered that is

essentially explanatory, hypothetical (Freud’s word) and as such unexperienceable

[…] The very word ‘phenomenon’ (literally: ‘what appears’) seems to me ill-

matched with the word ‘depth’ which implies not only a spatial structure for what

is called ‘the psyche’ but carries also an evaluative meaning--the deeper I probe,

the nearer I get to the truth. 'Phenomena,' on the other hand, seem to ask for an

openness to whatever experience offers itself». (p. 43)

But this is a misperception of the true meaning of the term depth psychology.

Existential therapy is in fact, when properly practiced, a sophisticated form of depth

Dasein, n.1, 2013

77

psychology. As such, existential psychotherapy does acknowledge and address the

impressive phenomenon first described by Freud as the unconscious. But the construct

of the unconscious in depth psychology is one of the most controversial concepts

in the contemporary theory and practice of existential psychotherapy. Many

clinicians find it completely incompatible with existential therapy. Indeed, the

traditional Freudian (or Jungian) notion of the "unconscious" is eschewed and

rejected outright by most existentialists, including Sartre (1953), as a fragmenting,

reified, literalized doctrine that diminishes integrity of the personality, free will,

and personal responsibility in ways inimical and antithetical to existential

psychotherapy. So what is the appropriate role of or attitude toward “the unconscious” in

existential therapy? Or, is it, as some argue, an unnecessary, anachronistic and outdated

concept?

For Rollo May’s existential psychology and therapy, his controversial myth of

“the daimonic” is indispensable in this regard. May (1969) defined the daimonic as

«any natural function which has the power to take over the whole person. Sex and eros, anger

and rage, and the craving for power are examples. The daimonic can be either

creative or destructive and is normally both. When this power goes awry, and one

element usurps control over the total personality, we have ‘daimon possession,’

the traditional name through history for psychosis. The daimonic is obviously not

an entity but refers to a fundamental, archetypal function of human experience--

an existential reality [my emphasis]». (p. 123) When patients report, as they

frequently do, feeling influenced or controlled by powers or forces foreign or

alien to them, or being temporarily "taken over," compelled or "possessed" by

their powerful passions or moods, it is this subjective, phenomenological fact or

archetypal, "existential reality" to which the daimonic concept descriptively speaks.

One reason for May’s courageous resurrection of the ancient Greek idea of the

daimonic was dissatisfaction with what became the dogmatic concretization of

both Freud and Jung’s mythic paradigms of the “unconscious” or “shadow.” He

was hoping to provide existential therapy with a more phenomenological, less

Dasein, n.1, 2013

78

literal and fragmenting means of conceptualizing “unconsciousness” and its

myriad clinical vicissitudes. Indeed, May (1983/1986) existentially redefined

“unconsciousness” as “the potentialities for awareness and experience which the individual

is unable or unwilling at that time to actualize” (p. 18). This refreshing reformulation

gives the existential therapist a more phenomenologically faithful way of

understanding neurotic or psychotic unconsciousness as a defensively divided

state of being, chosen and perpetuated by the individual at some level in order to

avoid, compartmentalize or limit conscious awareness and experience in the

here-and-now, and as a psychological process in which we all engage and for

which we are each ultimately responsible.

Another prime motivation for Rollo May’s reintroduction of the daimonic myth or

paradigm to psychotherapy was to pragmatically address in no uncertain terms the

problem of evil : “In the daimonic, I . . . want to state the problem of evil in such a

way that psychologists will not be able to derogate it simply as a lack of

something, for example, a lack of growth or as simply immaturity, or as a process

which depends always on something else, such as the doctrine of the shadow in

Jungianism” (1977, p. 305). May offers in his existential model of the daimonic a

psychologically sophisticated, phenomenologically truthful, secular-yet-still-

spiritual alternative to the dogmatic Jungian notion of the autonomous “shadow,”

of the metaphysical idea of the “demonic,” and of the traditional Judeo-Christian

belief in the devil. As he saw it, “the common personalized term [for evil] which

has been used historically, namely the devil, is unsatisfactory because it projects

the power outside the self. . . . Furthermore, it always seemed to me a

deteriorated and escapist form of what needs to be understood about evil” (1977,

p. 304). This concern with the existential problem of evil and how we relate to it is

absolutely central to May's existential depth psychology, but appears to be less

emphasized in most other forms of existential therapy today.

Rollo May's concept of the "daimonic" is a defining and distinguishing feature of

existential depth psychology. In lieu of Freud’s admittedly problematical theory

Dasein, n.1, 2013

79

of the “unconscious,” existential depth psychology embraces and makes

pragmatic clinical use of May's (equally controversial) model of the daimonic, both

diagnostically and therapeutically, encouraging its cultivation and constructive

integration into consciousness--but never to the point of dogmatism or Procrusteanism.

This paradigm, deliberately designed to retain the "decisive element, that is, the

choice the self asserts to work for or against the integration of the self" (May,

1977, p. 305), is particularly useful in conceptualizing and constructively

confronting the patient’s often underlying pathological or existential frustration,

anger or rage, as well as understanding his or her personal experience of evil. (See Diamond,

1996. This will be discussed further in Part Two.)

Unlike orthodox psychoanalysis, which traditionally requires four or more

sessions per week over the course of several years or longer, existential depth

psychology should “not be defined by duration of treatment, technique or

frequency of sessions but rather by the degree to which it directly addresses the daimonic and

the various other existential elements of life" (Diamond, 1996, p. 219). (The use of

technique in existential therapy will be explored in Part Two.) Nor should it

necessarily be defined by in how few sessions it can relieve suffering. In contradistinction

to the practice of medicine or modern mainstream psychiatry, including both

CBT and psychopharmacology, May (1991) reminds us that, technically, in

existential therapy, «our task is not to “cure” people. . . . Our task is to be guide,

friend, and interpreter to persons on their journeys through their private hells and purgatories

[…] All through history it is true that only by going through hell does one have any chance of

reaching heaven. The journey through hell is a part of the journey that cannot be

omitted--indeed, what one learns in hell is prerequisite to arriving at any good

value thereafter. Homer had Odysseus visit the underworld, and there--and only

there--can he get the knowledge that will enable him to get safely back to Ithaca.

Virgil has Aeneas go into the netherworld and there talk to his father, in which

discussion he gets directions as to what to do and what not to do in the founding

of the great city of Rome. How fitting it is that each of these gets a vital wisdom

Dasein, n.1, 2013

80

which is learned in the descent into hell!» (pp. 165-166) 6.

Suffering is an existential fact of life. Unlike most manualized, medicalized, short-term

mental health treatments today, existential psychotherapy is not primarily a process to

quickly and superficially fix, cure or eliminate people's problems, symptoms and anxieties. Nor

to save or rescue them from their painful existential, psychological or spiritual suffering. Not to

suppress or exorcise their demons, but to confront and consciously come to terms with them 7.

This is not to say that existential psychotherapy is any less concerned with or

effective in reducing psychiatric symptomatology than other treatments.

Symptoms, which tend almost always to be “symptomatic” of some larger, more

pervasive psychological, spiritual or existential problem, often abate as their root

causes are resolved and existential significance revealed. But we will always have

problems. There is no “cure” for life 8. Existential therapy is about accompanying

patients through and, whenever practically possible, beyond their personal

demon-filled hell toward discovering and fulfilling their destiny. Or, at least, getting

them unstuck and setting them back on that purposeful path. It is not necessary,

nor in the treatment’s best interest, to join the patient on this heroic journey

indefinitely, nor to prolong the therapeutic odyssey beyond what inner and outer

circumstances demand. Termination, as Otto Rank (1929) so existentially asserted,

is not only inevitable but psychologically necessary. (See Part Two.)

Existential depth psychology places importance not only on clinical phenomena

such as symptoms and maladaptive behaviors, but on all the archetypal

experiences and “ultimate concerns” that accompany human existence: God,

6 The existential necessity for meaning and its manifestation in myths (May, 1991) of all kinds will be discussed in Part two. 7 Psychiatric medications can be helpful in severe symptom mitigation and sometimes life-saving. But they should be used adjunctively to facilitate rather than avoid dealing with the daimonic and other “ultimate concerns.” The same may be said of the therapeutic use of psychiatric diagnosis in existential therapy. (See Part Two.) 8 Mindfulness is one method of becoming more sensitive to and appreciative of the beauty surrounding us every day. The cultivation of presence in existential therapy is similar to the practice of meditation and mindfulness central to Taoism and Zen Buddhism. Lao-Tzu, for instance, advises the initiate to “abide at the center of your being; for the more you leave it, the less you learn” (cited in May, 1958, p. 18).

Dasein, n.1, 2013

81

death, suffering, good, evil, love, sex and beauty. Existentialism is typically

equated with the unvarnished recognition of life’s dark, tragic, absurd,

meaningless and ugly side. But May’s existential depth psychology equally

encourages an appreciation and valuation of the positive aspects and ubiquitous

beauty of life. Beauty, says May (1985), "is serene and at the same time

exhilarating; it increases one's sense of being alive" (p.20). The beauty of nature,

for example, can inspire a profound sense of inner peace, joy, oneness and awe,

helping to place our petty daily problems or even major existential life crises and

suffering into more meaningful cosmic perspective. The goal of existential depth

psychology is to help the patient learn to stand on his or her own two feet, to

face and accept the stark existential facts of life--frustration, failures, difficulties,

setbacks, struggles, disease, loss, anxiety, despair, rage, disappointment,

catastrophe, evil and death--with dignity, compassion and courage, while at the same

time savoring and staying fully present to life's sublime pleasures, mysteries and beauty. It is

about becoming more authentically ourselves and consciously or mindfully

embracing both the hideous and beauteous, divine and diabolic, destructive and

creative polarities of existence. With luck, we send patients forth into the world in

greater possession of themselves, with a rediscovered sense of wonder,

enthusiasm, and faith in life. Not without any future problems, suffering, pain or

anxieties, for this is an inescapable or ontological part of the human condition.

But hopefully armed with the resilience, strength, and resourcefulness to

constructively meet life’s unceasing challenges head-on with confidence,

compassion, courage and creativity.

In this sense, we might further state that the goal of existential therapy is to assist

patients in constructing or finding their own philosophical or spiritual perspective in life, so

as to be able to ultimately live independent of therapy and deal with problems

from a position of inner strength, sustenance and stability. Learning to confront,

accept, tolerate and creatively embrace rather than repress or suppress the daimonic elements of

life is key to existential depth psychology. Such is the spiritual, if not religious,

Dasein, n.1, 2013

82

dimension of existential psychotherapy9 (See Part Two). This experiential (rather

than merely intellectual) acceptance of both the negative and positive aspects of

the daimonic can be found in Job’s humble submission to and unconditional

acceptance of God’s terrible will in the Old Testament: His fundamental faith in

life and devoted attitude toward "God" (or "the daimonic") despite the devastating

personal experience of injustice, suffering and evil proves to be poor Job’s salvation. As

May (1996), a former pastor, pithily put it in describing his approach to existential

therapy: “I don’t believe in toning down the daimonic. This gives a sense of false

comfort” ( p. xxii). If there can be any solace found in facing and coming to

terms with the harsh existential facts of life and disturbing reality of evil, it is not

in avoiding, denying, distorting, rationalizing, minimizing, medicating or sugar-

coating them: “The real comfort can come only in the relationship of the

therapist and the client or patient” (p. xxii).

Bibliography Cohn, H.W. What is ’existential’?: A response to Dr. Diamond. Journal of the Society for Existential Analysis, 1999; 10.1: 42-43. Diamond, S. Anger, madness and the daimonic: The psychological genesis of violence, evil, and creativity. Foreword by Rollo May. Albany, N.Y.: State University of New York Press, 1996. Diamond, S. Psychology’s civil war: The (near) death, transformation, and resurrection of dynamic psychotherapy. A review of Psychodynamic psychotherapy research: Evidence-based practice and practice-based evidence, by Ley, R., Ablon, J., Kachele, H., editors. In: PsycCRITIQUES, 57 (50).doi:10.1037/a0030651. Diamond, S. Anger, madness and the daimonic: Toward an existential depth psychology. Journal of the Society for Existential Analysis, 1999;10.1:27-41. Josselson, R. "Irvin Yalom on existential psychotherapy and death anxiety." Online article excerpted from Josselson, R. Irvin Yalom: On psychotherapy and the human condition. New York: Jorge Pinto Books, Inc., 2007. www.psychotherapy.net/interview/irvin-

9 This “existential spirituality” can be found to some extent even (or perhaps especially) in atheistic forms of existential therapy, as will be discussed later.

Dasein, n.1, 2013

83

yalom, 2009. Kohn, A. Existentialism here and now. In: The Georgia Review, Summer, 1984. www.alfiekohn.org/miscellaneous/existentialism.htm May, R, Angel, E, Ellenberger, H, editors. Existence: A new dimension in psychiatry and psychology. New York: Simon & Schuster, 1958. May, R. Love and will. New York: W.W. Norton, 1969. May, R. Reflections and commentary. In: Reeves, C. The psychology of Rollo May: A study in existential theory and psychotherapy. San Francisco: Jossey-Bass, 1977. May, R. The discovery of being: Writings in existential psychology. New York: W.W. Norton, 1983/1986. May, R. My quest for beauty. Dallas: Saybrook Publishing, 1985. May, R. The cry for myth. New York: W.W. Norton, 1991. Rank. O. The trauma of birth. New York: Harper Torchbooks, 1929. Sartre, J.P. Existential psychoanalysis. Chicago: Henry Regnery Company, 1953/1962. Tillich, P. The theological significance of existentialism and psychoanalysis. In: Kimball, R. editor, Theology of culture. London: Oxford University Press, 1964. Yalom, I. Existential psychotherapy. New York: Basic Books, 1980. Yalom, I., Josselson, R. Existential psychotherapy. In: Wedding, D and Corsini, R. editors. Current Psychotherapies, 10th edition. Belmont, CA: Cengage, 2013, pp. 265-298.

Stephen Diamond is a licensed clinical and forensic psychologist practicing in Los Angeles, California. A former pupil and protege of existential psychoanalyst Rollo May, he is the author of Anger, Madness, and the Daimonic: The Psychological Genesis of Violence, Evil, and Creativity. Foreword by Rollo May. A volume in the Philosophy of Psychology series (SUNY Press, 1996), also available in a recently revised (2013) e-book edition. Dr. Diamond has been a psychotherapist for more than 35 years; taught or supervised clinical trainees in various graduate programs including the Pacific Graduate School of Psychology, John F. Kennedy University, Institute of Transpersonal Psychology, Argosy University, Ryokan College, the Chicago School of Professional Psychology, and the C.G. Jung Institute in Zurich, Switzerland; and contributed book chapters to Meeting the Shadow: The Hidden Power of the Dark Side of Human Nature (Tarcher/Putnam, 1991), Spirituality and Psychological Health (COSPP

Dasein, n.1, 2013

84

Press, 2005), Forensic Psychiatry: Influences of Evil (Humana Press, 2006), Encyclopedia of Psychology and Religion (Springer Verlag, 2009), and the forthcoming Contemporary Theory and Practice of Counseling and Psychotherapy (Sage, 2014). He has written numerous articles and reviews in diverse professional journals such as The San Francisco Jung Institute Library Journal, Psychotherapy, Journal of Applied Psychoanalytic Studies, PsycCRITIQUES, Psychological Perspectives, and the Journal of the Society for Existential Analysis. In addition, Dr. Diamond writes regularly for Psychology Today, and serves on the editorial board for the Journal of Humanistic Psychology. He is the former co-founder and director of the Existential Psychotherapy Center of Southern California, which provided training for post-graduate and licensed mental health professionals.

Dasein, n. 1, 2013

85

Il fallimento del Dasein nella psicosi

The failure of Dasein in psychosis

Nicolò Terminio

Summary Tra le pietre miliari della psicopatologia fenomenologica spicca La perdita dell’evidenza naturale di Wolfgang Blankenburg, un testo che ci permette, ancora oggi, di confrontarci con la questione clinica della psicosi. La tesi fondamentale della ricerca fenomenologica di Blankenburg sostiene che il nucleo fondamentale della psicosi vada rintracciato nella perdita dell’ovvietà semantica che fa da sfondo al nostro essere nel mondo. Il caso clinico di Anna Rau viene presentato e discusso come un esempio paradigmatico della radicale compromissione del rapporto tra esistenza e fondamento, tra senso e soddisfazione. L’obiettivo argomentativo che perseguiremo in queste pagine sarà quello di precisare e chiarire un aspetto della tesi di Blankenburg che risulta poco convincente come spiegazione teorica del fenomeno della “perdita dell’evidenza naturale”, mentre rimane ancora impareggiabile sul piano della descrizione clinica dell’esperienza.

Parole chiave: psicopatologia fenomenologica, perdita dell’evidenza naturale, Dasein, psicosi, caso clinico di Anna Rau.

Among the milestones of phenomenological psychopathology there is one that stands out and that is “The loss of natural evidence” of Wolfgang Blankenburg. It is a text that allows us, even today, to confront ourselves with the issue of clinical psychosis. The fundamental thesis of Blankenburg phenomenological research argues that the core of psychosis should be found in the loss of the obvious semantics that is the background of our being in the world. The clinical case of Anna Rau is presented and discussed as a paradigmatic example of the radical compromise of the relationship between existence and foundation, between sense and satisfaction. The aim of the discussion that I will pursue in these pages will be to specify and clarify one aspect of Blankenburg thesis which isn’t very convincing as theoretical explanation of the “loss of natural evidence” phenomenon while it is still incomparable in terms of clinical description of experience.

Keywords: phenomenological psychopathology, loss of natural evidence, Dasein,

psychosis, clinical case of Anna Rau.

Dasein, n. 1, 2013

86

Un classico: La perdita dell’evidenza naturale

Studiare i classici della psicopatologia fenomenologica è ancora oggi un esercizio

ineludibile tanto per ogni apprendista in psicoterapia quanto per ogni clinico di lunga

esperienza. Tra le pietre miliari della letteratura antropo-fenomenologica spicca La

perdita dell’evidenza naturale di Wolfgang Blankenburg,1 un testo che ci permette, ancora

oggi, di confrontarci con la questione clinica della psicosi. La tesi fondamentale della

ricerca fenomenologica di Blankenburg sostiene che il nucleo fondamentale della

psicosi vada rintracciato nella perdita dell’ovvietà semantica che fa da sfondo al

nostro essere nel mondo. Il caso clinico di Anna Rau viene presentato e discusso

come un esempio paradigmatico della radicale compromissione del rapporto tra

esistenza e fondamento, tra senso e soddisfazione. L’analisi antropo-fenomenologica

di Blankenburg si sviluppa lungo quattro direzioni: a) la trasformazione del rapporto

con il mondo; b) la trasformazione della temporalizzazione; c) la trasformazione della

costituzione dell’Io e d) la trasformazione della costituzione intersoggettiva.

L’obiettivo argomentativo che perseguiremo in queste pagine sarà quello di precisare

e chiarire un aspetto della tesi di Blankenburg che risulta poco convincente come

spiegazione teorica del fenomeno della “perdita dell’evidenza naturale”, mentre

rimane ancora impareggiabile sul piano della descrizione clinica dell’esperienza.

L’interesse per le schizofrenie pauci-sintomatiche

La ricerca fenomenologica e daseinsanalitica ha generalmente privilegiato, per la sua

rilevanza diagnostica, l’aspetto produttivo-paranoide delle psicosi. Il clamore del

delirio rende più chiara, oltre che indiscutibile, l’alterazione del mondo psicotico.

Sebbene le forme allucinatorie e paranoidi sottolineino la differenza tra l’essere-nel-

mondo dei pazienti psicotici e quello di altre manifestazioni psicopatologiche, è

opportuno però non confondere il contenuto delle psicosi (la metamorfosi del mondo)

con la modificazione della relazione io-mondo (il mutamento di stato) che presiede ogni

strutturazione del mondo. È proprio questa differenziazione che ha portato la ricerca

1 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998.

Dasein, n. 1, 2013

87

fenomenologica e daseinsanalitica a un ampliamento della prospettiva del rapporto

predicativo con il mondo al rapporto antepredicativo e preverbale. Lo stravolgimento

del senso, indicato da Conrad con il termine “apofania”,2 offusca, in virtù della sua

natura altamente espressiva, il rapporto pre-verbale e ante-predicativo con il mondo.

Seguendo questa prospettiva alcuni studi fenomenologici hanno affrontato il

problema della modificazione “basale” della schizofrenia, esaminando anche quelle

evoluzioni insidiose, ebefreniche e semplici in cui non si siano ancora manifestati i

“sintomi di primo rango” stabiliti da Schneider. 3 La ricerca di Blankenburg si

inserisce in questo filone e, riprendendo la terminologia di Conrad, si focalizza sulla

sintomatologia “subapofanica” propria delle schizofrenie pauci-sintomatiche 4

L’analisi clinica di Blankenburg si rivolge dunque verso quelle forme di schizofrenia

con ridotta floridezza sintomatologica e cerca di definirne la peculiarità

psicopatologica.

Il disturbo basale

L’interesse per la forma pauci-sintomatica della schizofrenia è strettamente connesso

all’esigenza di enucleare le radici antropologiche dell’alienazione schizofrenica. «La

perdita dell’evidenza naturale non deve servirci da sintomo, e meno che mai da

sintomo ‘specifico’; deve invece costituire un filo conduttore per lo studio della

metamorfosi del Dasein umano»5 scrive Blankenburg. Nel suo studio viene dunque

analizzato il problema dell’ancoraggio dell’essere umano nel mondo della vita e, al

tempo stesso, si vuole illuminare l’essenza della modificazione “basale” dell’essere

schizofrenico.

La questione del disturbo “basale” si inserisce nel dibattito sulle interazioni tra il deficit

primario e le reazioni secondarie. Queste ultime hanno reso caratteristica la sindrome

schizofrenica e sono state generalmente valutate come un tentativo qualitativamente

2 Conrad K. Die beginnende Schizophrenie. Stuttgart: Thieme 1958 (citato da Blankenburg 1971). 3 Schneider K (1968). Psicopatologia clinica. Trad. it. di Callieri B. Roma: Fioriti 2004. 4 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998, pp. 5-6. 5 Ivi, p. 73.

Dasein, n. 1, 2013

88

anormale con cui far fronte (coping) a un disturbo primario (primary illness) puramente

quantitativo. Blankenburg sceglie una via alternativa e sostiene che «laddove i sintomi

sono caratteristici, essi non sembrano originari ma, piuttosto, appaiono come il

risultato dell’impatto con la malattia; in compenso, laddove possono essere

considerati originari, si offrono in maniera non caratteristica».6

Nell’incontro con la paziente Anna Rau, come sottolinea Blankenburg, si viene colti

da uno “sbalordimento” per le conseguenze tanto dolorose che può avere la

mancanza di qualcosa di così “piccolo”7 per l’esistenza di un individuo. La paziente,

lamentandosi della perdita di un qualcosa di piccolo ma fondamentale, ne delinea il

carattere non rappresentativo e dice: «Non ho a che fare con il sapere, non lo si può

semplicemente osservare e comprendere...» e poco dopo: «Ci sono cose che hanno a

che fare solo con il sentire».8

Il disturbo fondamentale che Anna avverte come mancanza, vuoto, assenza, deficit,

non deve essere però collocato in una scala normativa correndo il rischio di una

confusione tra i termini “sano” e “patologico”. Blankenburg intende infatti la perdita

dell’evidenza naturale in modo dialettico e «pertanto, la non-evidenza non è meno

costitutiva dell’evidenza per l’essere-nel-mondo umano, semplicemente lo è in maniera diversa».9 Il

divenire non evidente dell’esistenza assume un significato patologico soltanto nel

caso in cui il movimento dialettico tra evidenza e non-evidenza si cristallizza su

quest’ultima possibilità d’essere del Dasein umano.

Dal mondo al corpo e ritorno

L’evidenza naturale costituisce lo sfondo inapparente della coscienza quotidiana

comune e, allo stesso tempo, si configura come la base imprescindibile per ogni

6 Ivi, p. 8. 7 Anna riferisce che le manca “qualche cosa di Piccolo, di strano, qualche cosa di Importante, di indispensabile per vivere. […] Ho bisogno di un appoggio nelle cose quotidiane più elementari. Sono ancora troppo piccola, piccola nel modo di pensare. Non ci riesco da me. Senza dubbio mi manca l’evidenza naturale” (Blankenburg 1971, p. 55). 8 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998, p. 80. 9 Ivi, p. 76.

Dasein, n. 1, 2013

89

prospettiva esistenziale. Nel suo incontro con il mondo Anna avverte la mancanza

della base a partire dalla quale si possono esprimere giudizi sulle cose. La paziente

non ha la “capacità di penetrazione intuitiva (Feingefühl)”10 con cui potrebbe cogliere

“le regole del gioco”:11 il suo mondo appare privo di quelle connessioni e di quei

rimandi che costituiscono una situazione. «Vorrei vedere le cose come sono... Ma non

ci riesco» dice Anna.12 La paziente tenta di supplire a quest’assenza di un punto di

vista con un incessante “dover-pensare” che si rivela però inutile perché la facoltà di

giudizio che viene messa in questione è fondata su un piano trascendentale. 13 La

paziente non sa quale via seguire poiché tutto le sembra “assolutamente strano”, non

riesce a essere-in-familiarità con le situazioni della vita quotidiana e, nonostante tenti

di ovviare a questa mancanza con i pensieri, rimane al di fuori di quella dimensione in

cui tutto va da sé.

Blankenburg considera il carattere anonimo e già-sempre attivo della costituzione

trascendentale del mondo: il soggetto sano vive il proprio ancoraggio nel mondo

della vita in maniera aproblematica e preconscia. Il paziente psicotico, al contrario,

tenta sempre di rifondare i presupposti del poter-incontrare e quando i suoi sforzi si

rivelano inutili, come avviene nel caso Anna Rau, lo scompenso psicotico sfocia in

una tendenza suicidaria.

I pazienti come Anna non trovano la spinta per fare ciò che sanno fare e conducono

la loro esistenza nella ricerca disperata di una reale apertura all’essere-nel-mondo. La

mancanza di un “terreno fondante”14 impedisce a questi pazienti di proiettarsi in un

avvenire e in un progetto esistentivo che rivelandosi privo di un ancoraggio nel

mondo della vita finisce presto per diventare insostenibile. «Quando ricamo, per

esempio, non faccio altro che un lavoro meccanico. È solo un trucco, io non sono lì

10 Ivi, p. 102. 11 Ivi, p. 55. 12 Ivi, p. 102. 13 Con il termine “trascendentale” Blankenburg si riferisce a un livello pre-intenzionale in cui si gettano le basi per la possibilità di aprirsi all’essere-nel-mondo. 14 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998, p. 81.

Dasein, n. 1, 2013

90

veramente. E se non ho forza fisica, se non ne ho, allora crollo» dice Anna Rau.15

A proposito del vissuto corporeo Blankenburg riprende le osservazioni compiute su

altri casi clinici dove si manifesta appunto un sentirsi fuori causa che si traduce in una

perdita della forza fisica. Questi pazienti mostrano come il corpo (Leib) non si lasci

ridurre a una res extensa. A tal proposito una mia paziente, mentre descriveva il suo

sentirsi staccata dal mondo, sottolineava che anche il rapporto con il proprio corpo

non era immediato: “per sentire il mio corpo è come se dovessi accendere un

interruttore, così come si fa quando si vuole accendere la luce di questa stanza”

diceva Arianne. Anche in questo caso ci accorgiamo di come, nell’esaminare il

significato della costituzione dell’essere-nel-mondo, si venga sempre riportati alla

costituzione del corpo proprio (Leib) poiché l’uomo è “soggettività incarnata”.16

La temporalizzazione

La quotidianità del Dasein di Anna manifesta un’alterazione temporale

che la paziente avverte come “una mancanza di retro-continuità”.17 «È così

difficile per me restare nella realtà. Ogni giorno devo cominciare di nuovo,

completamente di nuovo!» dice la paziente.18 Ciò che è compromesso

non è il vissuto temporale oggettivo, ma la relazione con il passato che la

precede ed è per questo che deve sempre ricominciare. Anna ripropone

ogni volta lo stesso dramma e dice che non ha più nessuna relazione con

le cose, la relazione di prima, per cui ci si sente a proprio agio. È come se si

ritrovasse bruscamente nel bel mezzo di esse. Alla sua ex-sistentia manca

un “a-partire-da”.

Anna colloca questa lacuna nel “pre-temporale” e sottolinea che ciò di cui ha bisogno

sta prima e consiste nella possibilità di stabilire preliminarmente una relazione con quello

15 Ivi, p. 105. 16 Ivi, p. 110. 17 Ibidem. 18 Ivi, p. 112.

Dasein, n. 1, 2013

91

a cui una cosa serve. È per tal motivo che la paziente dice di non saper mai dove

effettivamente cominciare. La paziente lamenta l’assenza di un passato a partire da

cui possa vivere le sue esperienze giorno per giorno. Il fluire del tempo oggettivo è

inalterato, ma questo non sembra colmare il vuoto temporale che la trattiene ai

margini della possibilità di “poter-fare-esperienza”.19 La mancanza di retro-continuità

non le impedisce infatti di percepire e ricordare gli avvenimenti quotidiani, ma le

sottrae le basi per poter diventare soggetto d’esperienza. Nel suo incontro con il

mondo la paziente Anna Rau non può affidarsi a un passato aprioristico che fondi la

continuità temporale del suo Dasein. L’a priori, l’“ogni-volta-già”, che costituisce la

dimensione temporale dei vissuti, è la condizione per cui si possa realizzare l’apertura

alla “totalità dei rimandi” donando significatività ad una situazione.

Anna non riesce a lasciarsi andare perché resta intrappolata nel “pre-temporale”: la

sua vita sembra che non sia mai iniziata, che non abbia trovato un a posteriori da cui

progettarsi. La temporalizzazione dell’essere-nel-mondo risulta così correlata alla

problematica del fondamento biografico del Dasein umano individuale. L’uomo può

aprirsi all’avvenire soltanto se può lasciar essere il passato, e può lasciar essere il

passato solo appoggiandosi a un “già-sempre” che lo congiunge con il “mondo della

vita”.

La costituzione dell’Io

La trasformazione della temporalizzazione del Dasein umano – inteso da Blankenburg

nella sua incapacità di maturare, di crescere, di divenire sede d’esperienza e di

autonomia – rinvia al problema della costituzione dell’Io o del Sé.20

Anna si lamenta della mancanza di una protezione e di un appoggio che le

consentano di affrontare la vita di ogni giorno. La paziente non si sente matura per

sostenere il peso delle azioni quotidiane e dice di “non saper fare (le cose) in maniera

19 Ibidem. 20 Blankenburg sul piano fenomenologico non distingue il Sé dall’Io.

Dasein, n. 1, 2013

92

umana”.21 Durante la sua degenza in reparto riferisce: «Non so che atteggiamento

adottare a proposito di ciò che succede qui. Questo non mi interessa... mi

considerano troppo adulta... in ergoterapia o qui, io proprio non riesco a lavorare in

maniera autonoma. È una tortura! Ho semplicemente bisogno di essere diretta». 22

Anna avverte che “la sicurezza non può più venire da sé”23 e che allora deve rivolgersi

alla presenza dell’altro per ottenere un minimo sollievo. La paziente dice: «Io ho

ancora bisogno di un appoggio, di un essere umano al quale poter credere. Le proprie

opinioni si assumono con la facilità dell’evidenza ecc., e così anche il quotidiano. Io

non posso riuscirci da me. […] La cosa più bella sarebbe essere normale, vale a dire in

accordo con l’evidenza. Ma da sola non ci arrivo... tutto è così poco naturale. Devo

fare talmente tanto da me. Finisco per farlo, ma poi mi sento delusa perché ho

bisogno di una retroguardia (Hinterhalt)».24

Anna si affida alla “maniera d’essere” della madre per ottenere la “retroguardia” che

non riesce a trovare in sé stessa. La vicinanza della madre dovrebbe offrire ad Anna

una “base” e una “direzione” per la sua quotidianità. Il Sé di questi pazienti non dà

un fondamento alle loro motivazioni e al contempo non ha un “ancoraggio nel

mondo della vita”. Nelle enunciazioni di Anna appare chiaro il rapporto

proporzionale tra evidenza e autonomia. A tal proposito Anna dice: «Più cresce

l’evidenza, più... si diventa autonomi». Blankenburg afferma che «si tratta del

rapporto tra la fiducia di base (basic trust) e l’identità dell’Io (Erikson)».25

“L’autonomia si fonda sull’evidenza e nello stesso tempo la oltrepassa”. 26 La

possibilità del Dasein di essere-gettato nella quotidianità è la condizione da cui il

Dasein può scegliere il suo autentico essere-nel-mondo. Nel momento in cui il Dasein

umano non ha una base da cui partire, crolla ogni sua possibilità di apertura all’ex-

sistentia. La funzione progettante dell’Io è quindi subordinata a ciò che trascende in

21 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998, p. 116. 22 Ibidem. 23 Ivi, p. 117. 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 120. 26 Ibidem.

Dasein, n. 1, 2013

93

ogni sua realizzazione mondana.

La questione dell’alterazione “basale” della paziente Anna Rau viene così inserita in

un’ottica dimensionale seguendo il concetto binswangeriano di “proporzione

antropologica”. Binswanger infatti aveva parlato della sproporzione tra “altezza” e

“larghezza” dell’esperire per superare la rigidità del concetto di autismo inteso come

sintomo cardinale delle forme schizofreniche di esistenza.27

La debolezza dell’Io che manifestano i pazienti schizofrenici non è una semplice

insicurezza o inibizione psicologica. Il Sé non viene compromesso nella sua

autostima perché ciò che vacilla è la possibilità stessa di fare-esperienza. In ambito

fenomenologico viene stabilita una differenza tra l’Io trascendentale e l’Io empirico.

Il Sé trascendentale costituisce il fondamento pre-intenzionale dell’attività

progettante del Sé empirico. In pazienti come Anna Rau viene sconvolta la relazione

tra l’Io trascendentale fondante e l’Io empirico fondato. Anna riesce a eseguire i

compiti che le vengono assegnati, ma lamenta un sentimento di delusione per le sue

azioni personali: le manca il “fondamento di legittimazione”. 28 “Malati come A. non

possono lasciarsi essere in quanto soggetti che si fondano e, al contempo, danno

fondamento”.29

I pazienti schizofrenici nelle loro “domande impossibili” non manifestano altro che

la loro incapacità a “essere un metro di misura” per sé stessi e il tentativo di supplire

a questa mancanza attraverso un atto intellettuale. Ciò che Anna Rau si sforza di

ricostruire è il rapporto pre-riflessivo con sé e con il mondo.

«Ci troviamo così alle radici dell’autismo schizofrenico, che possiamo quasi

apprendere in statu nascendi».30 L’autismo, infatti, è già presente nella schizofrenia non

delirante. «L’essenza dell’autismo si fonda nella caratteristica trasformazione del

rapporto tra Io empirico e Io trascendentale. L’autismo fa, in generale, la sua

comparsa là dove l’Io empirico si mette nella condizione di dover assumere il

27 Binswanger L (1956). Tre forme di esistenza mancata. Trad. it. di Filippini E. Milano: SE 1992. 28 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998, p. 124. 29 Ibidem. 30 Ivi, p. 126.

Dasein, n. 1, 2013

94

compito dell’Io trascendentale e di rendersi garante di un autós, di un sé».31

La costituzione intersoggettiva dell’evidenza naturale

L’evidenza naturale non può essere considerata al di fuori del suo carattere

intersoggettivo. Il mondo in cui l’uomo è gettato, oltre che già dato, è infatti

condiviso con gli altri: il dipanarsi di un co-mondo (Mit-welt) e di un essere-nel-

mondo si delineano sempre come un co-esser-ci (Mit-dasein). L’ancoraggio a un co-

mondo costituisce la condizione preliminare della trascendenza (Über-stieg) del progetto

umano.

Quando la paziente Anna Rau parla della sua difficoltà a incontrare le altre persone

dice: «Come che sia, gli altri mi disarcionano sempre...».32 Con questa espressione

indica la sua inadeguatezza a vivere la reciprocità delle relazioni. E a proposito

dell’avvicinamento degli sguardi, la paziente riferisce: «Non sono mai riuscita a

sostenere lo sguardo altrui. E in che modo! Era una tortura!»33 Il soggetto sano,

invece, oscilla tra il guardare e l’essere-guardato, tra il prendere e l’essere-preso:

questa alternanza costituisce la base per l’“affermazione di sé” e per l’“abbandono di

sé”. La “perdita dello stare” impedisce ad Anna di essere-se-stessa e di andare-verso-

gli-altri. Nella rottura di questa dialettica, la paziente avverte un profondo

turbamento che la fa sentire così poco sicura e piena di amarezza.

In pazienti come Anna la mancanza di un appoggio e il conseguente disorientamento

non vengono mai trasformati in un delirio. Tali pazienti hanno infatti la sufficiente

consapevolezza per ricondurre l’origine del loro disturbo a un evento che sta “prima”

e alla costituzione trascendentale dello “stare insieme”. Nei pazienti paranoidi invece

una spiegazione, seppur delirante, prende il posto dell’originaria “perplessità” e il

turbamento dell’incontro interumano può assumere così una connotazione tale da

venir sostituito dalla pericolosità dell’altro che sia esso un persecutore, un amante

segreto, o ancora un ladro. Anna non viene “disarcionata” da una persona in

particolare o da un suo potenziale ruolo, ma dalla spontaneità con cui gli altri sono

31 Ivi, p. 127. 32 Ivi, p. 130. 33 Ivi, p. 132.

Dasein, n. 1, 2013

95

così per come sono. Lo sguardo delle persone è una fonte dell’evidenza naturale e

per questo risulta inaccessibile e si rivela angosciante poiché si manifesta «alla

coscienza in forma potenziata soltanto la propria mancanza di abitualità sana».34

La perdita di “familiarità” con gli altri risulta collegata allo sradicamento da un co-

mondo, da un mondo costituito intersoggettivamente dove vengono condivisi una

serie di giudizi stabiliti pre-liminarmente e vissuti come già-sempre presenti.

Blankenburg li indica come giudizi del tipo common-sense: la partecipazione a queste

credenze comuni costituisce la base ante-predicativa del progetto individuale. La

paziente Anna sperimenta, invece, una condizione di “estraniazione” (Entfremdung)

alle “regole del gioco”, al “quadro” dove si dispiega l’incontro interumano. Ella cerca

di compensare il suo disturbo “basale” con una iper-riflessività che la trascina da un

interrogativo all’altro. Nonostante i suoi sforzi non riesce a colmare la sua lacuna e a

risolvere i suoi dubbi poiché «l’evidenza dell’evidente [...] non è cosa che il soggetto

possa regolare da sé, solipsisticamente, ma si costituisce intersoggettivamente».35

La questione clinica che anima la psicopatologia dei soggetti schizofrenici pone le

basi per porre una chiara distinzione tra un dubbio “normale” e un dubbio “vitale-

patologico”. 36 Il primo costituisce un’esperienza comune per gli individui sani o

nevrotici, mentre il secondo è caratteristico di un’esistenza in cui vengono a mancare

le strutture basilari della fondamentale dialettica dubbio-adesione nei confronti di una

qualsiasi credenza sociale. La perdita di credenza, mostrata dalla “stravaganza” del

delirio, può nascondere un dubbio ontologico pre-costitutivo di un’intesa con gli altri.

La questione della psicosi non rimanda infatti alla dialettica tra appartenenza e

separazione che riguarda invece la nevrosi.

Il paziente nevrotico può riferirci di sentirsi in bilico nel proprio mondo, un mondo a

cui non sente di aderire in modo autentico. Il nevrotico proietta allora la felicità

sempre in un altro mondo, in un altrove dove presume possa trovare soddisfazione.

La paralisi della scelta del nevrotico concerne allora la difficoltà a conciliare nel

34 Ivi, p. 133. 35 Ivi, p. 138. 36 Valenziano-Gaya L. El delirio paranoide y la razon vital. Arch. Neurobiol. 1961; 115-144 (citato da Blankenburg, 1971).

Dasein, n. 1, 2013

96

proprio progetto esistentivo37 il legame con l’Altro e la realizzazione del proprio

desiderio, ossia sentirsi appartenere al legame senza perdere la propria enunciazione

singolare.38 Il tema dominante della nevrosi si sviluppa sulle fondamenta di un legame

tra soggetto e Altro che mette in luce un conflitto relativo alla realizzazione della

propria autenticità.

Nel caso della psicosi emerge invece in modo eclatante uno sradicamento del

soggetto che non riguarda la dialettica tra appartenenza e separazione, ma la stessa

possibilità di esistere nel proprio mondo prima ancora che si ponga la questione del

desiderio. Se la nevrosi è una patologia del desiderio, la psicosi è una patologia del

fondamento.

I pazienti schizofrenici, in assenza di un “terreno fondante” per un progetto

autentico, sembrano destinati all’oscillazione tra una rigida adesione ai modelli

convenzionali esterni e il ritiro autistico. La capacità di “essere-in-familiarità-con”

non si configura cioè come una meta della maturazione del soggetto, ma come il

presupposto fondamentale di ogni evoluzione individuale.

La paziente Anna Rau fa risalire la sua mancanza di un “modo di sentire” e di un

“modo di pensare” al fallimento di un essere-insieme all’interno di una famiglia e

sottolinea che «ogni uomo è qualche cosa. Ciascun uomo riflette così la maniera in cui

si comporta, il modo in cui è l’ambiente della sua famiglia. Ma ciascuno si mette su

un cammino. Io sono passata a lato di tutto questo...».39 La perdita dell’evidenza naturale,

nelle parole di Anna Rau, risulta strettamente connessa all’esito delle prime relazioni

interumane: l’altro non è solo un ente intramondano, ma è coinvolto nella

costituzione trascendentale dell’essere-nel-mondo.

37 La definizione della coppia concettuale “esistentivo”–“esistenziale” si trova in Heidegger M. (1927). Essere e tempo. Ed. it. a cura di Volpi F sulla versione di Chiodi P. Milano: Longanesi 2005 (1ª ed. it. 1970). 38 Terminio N. La generatività del desiderio. Legami familiari e metodo clinico. Pref. di Pontalti C. Milano: FrancoAngeli 2011. 39 Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998, p. 140.

Dasein, n. 1, 2013

97

Inversione di un’ipotesi

In diversi passaggi del suo testo Blankenburg sottolinea l’opportunità di proseguire la

sua ricerca approfondendo l’intimo legame tra evidenza naturale e incontro con

l’altro. 40 C’è un aspetto dell’argomentazione di Blankenburg rispetto al valore

trascendentale dell’evidenza naturale che rischia di essere fuorviante per lo studio

dello sviluppo evolutivo di questa indispensabile capacità di abitare il common sense.

Riteniamo infatti che ciò che viene collocato al livello ante-predicativo non precede il

delirio. Il problema di Anna Rau, sul piano evolutivo, presuppone che il soggetto

abbia superato lo stadio di un possibile funzionamento delirante. In Anna c’è già una

trama e non è quindi necessario chiamare all’appello nessuna costruzione delirante

della realtà.

Tutto il testo di Blankenburg è invece attraversato dall’ipotesi guida che la perdita

dell’evidenza naturale sia la forma nuda dell’esistenza, ossia una forma d’esistenza che

nel suo essere priva di fondamento precede il momento in cui può instaurarsi il

delirio, che verrebbe ad occupare il posto vuoto del senso rimasto fino ad allora non

accessibile. Il delirio sarebbe quindi un momento successivo alla perdita dell’evidenza

naturale. La costruzione delirante sarebbe un rivestimento che va a coprire la vita

spogliata dal senso.

Casi come quello di Anna Rau mostrano nel suo pieno dipanarsi – purtroppo anche

fino al suicidio – quella esperienza insopportabile che rivela una irrimediabile

“insicurezza ontologica”. 41 La lucida descrizione di pazienti come Anna Rau ci

consentirebbe così di avere accesso a un’esperienza altrimenti coperta dalle gravi

alterazioni psichiche introdotte dalla floridezza dei sintomi positivi della psicosi.

Blankenburg ritiene che l’oggetto del suo studio si situi a livello subapofanico: forse

ciò può sembrare plausibile se consideriamo il vertice semantico dell’osservazione e

quindi pensiamo alla perdita dell’evidenza naturale come il nucleo senza senso su cui

interviene la produzione delirante. Sul piano dello sviluppo evolutivo però ciò che si

40 A tal proposito mi permetto di rimandare a Terminio N. I presupposti evolutivi dell’evidenza naturale. Pref. di Rossi Monti M. Caltanissetta-Roma: Sciascia 2003. 41 Laing RD (1959). L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale. Pref. di Rossi Monti M. Torino: Einaudi 2001.

Dasein, n. 1, 2013

98

realizza nella perdita dell’evidenza naturale si trova invece al di là delle problematiche

di tipo produttivo. In poche parole: il paziente psicotico che delira è meno evoluto di

pazienti come Anna Rau che mostrano invece una seppur minima dialettica tra

evidenza e non-evidenza grazie a cui riescono a mantenere un minimo livello di

funzionamento riflessivo. Il deragliamento del delirio si innesta quindi non sullo

sbilanciamento o sulla rottura della dialettica tra evidenza e non-evidenza, ma si

riferisce a uno stadio dello sviluppo mentale precedente all’instaurarsi di ogni

articolazione dialettica del pensiero. Il delirio non accede mai alla dimensione

dialettica, è una parola che non mira a farsi riconoscere, direbbe lo psicoanalista

Lacan.

La paziente Anna Rau è invece in dialogo, sebbene rimanga comunque esclusa dalla

partecipazione a un mondo condiviso: è nel linguaggio comune, ma è fuori da ogni

discorso che possa fondarla come soggetto d’esperienza.

L’ipotesi alternativa a quella di Blankenburg che qui proponiamo consiste quindi nel

ritenere che se Anna Rau si presenta come un caso senza la ricchezza produttiva della

sintomatologia psicotica, è perché ha comunque raggiunto, sul vettore evolutivo, un

livello minimo di funzionamento riflessivo. Si tratta ad ogni modo di una capacità

riflessiva non compiuta, perché si interroga su questioni esistenziali che non sono di

tipo nevrotico o borderline. Non c’è il dubbio nevrotico sulla scelta relativa al

desiderio e non c’è neanche l’inibizione riflessiva della mente espressa sotto traccia

dal funzionamento borderline.

Nel caso Anna Rau si presenta ad ogni modo una dialettica tra evidenza e non-

evidenza naturale, una dialettica che sebbene costituisca una minima forma di

simbolizzazione non giunge a piena maturazione perché il soggetto rimane privo di

quell’ultimo appiglio che lega senso e corpo. Nella simbolizzazione dell’esistenza che

Anna Rau prova a realizzare rimane quindi ancora forcluso il legame che può

annodare senso e soddisfazione, parola e corpo.

La mancanza di senso che ci riferisce Anna Rau non si manifesta sul piano della

condivisione sociale del senso, ma avviene e disarciona il soggetto nel momento in

cui deve incarnare e soggettivare un proprio senso di esistere. Anna Rau non riesce a

Dasein, n. 1, 2013

99

vivere in prima persona ciò che condivide a livello sociale: capisce come debba

andare il mondo e non ha delle idee di paranoidi rispetto alle intenzioni degli altri, ma

le manca l’accesso al mistero che avvolge quel passaggio dal senso al corpo, un

passaggio che avrebbe fatto del senso un senso incorporato. L’esistenza di Anna Rau

rimane dunque priva di un momento che leghi insieme parola e corpo, consentendo

alla dimensione del significato di umanizzare l’assurdità della vita. Gli altri

rappresentano un enigma non per la loro intenzionalità potenzialmente minacciosa,

ma perché testimoniano la partecipazione all’evidenza naturale. La perdita

dell’evidenza naturale segnala dunque a livello clinico la non-automaticità dell’ovvietà

semantica dell’esistenza: non basta capire – come fa Anna Rau – per saper esistere. È

questo l’insegnamento paradigmatico che ci lasciano casi simili: l’evidenza naturale

non sta a monte ma a valle del processo di maturazione psichica che consente di

sentirsi fondati nell’esistenza. Nell’affermazione che qui enunciamo è ancora

contenuta un’ipotesi di approfondimento della questione clinica su cui Blankenburg

ci ha illuminati, lasciando però ancora aperta la pista evolutiva che conduce al

fallimento del Dasein nella psicosi. Anna Rau cerca nel mondo e in se stessa quel

fondamento di legittimazione che non riuscirà mai a darsi da sola, in modo

autonomo. Si tratta allora di un caso clinico che mostra quanto per ciascun soggetto

sia fondamentale il ruolo dell’Altro nell’iscrizione del proprio Dasein in una trama

esistentiva: c’è qualcosa di piccolo che non possiamo darci da soli, occorre

l’accoglienza dell’Altro per esser-gettati e progettarsi nel mondo della vita.

Bibliografia

Binswanger L (1956). Tre forme di esistenza mancata. Trad. it. di Filippini E. Milano: SE 1992.

Blankenburg W (1971). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Ed. it. a cura di Ferro FM, Salerno RM, Di Giannantonio M, pref. di Ballerini A. Milano: Cortina 1998.

Dasein, n. 1, 2013

100

Conrad K. Die beginnende Schizophrenie. Stuttgart: Thieme 1958 (citato da Blankenburg 1971).

Heidegger M. (1927). Essere e tempo. Ed. it. a cura di Volpi F sulla versione di Chiodi P. Milano: Longanesi 2005 (1ª ed. it. 1970).

Schneider K (1968). Psicopatologia clinica. Trad. it. di Callieri B. Roma: Fioriti 2004.

Terminio N. La generatività del desiderio. Legami familiari e metodo clinico. Pref. di Pontalti C. Milano: FrancoAngeli 2011.

Valenziano-Gaya L. El delirio paranoide y la razon vital. Arch. Neurobiol. 1961; 115-144 (citato da Blankenburg, 1971).

Terminio N. I presupposti evolutivi dell’evidenza naturale. Pref. di Rossi Monti M. Caltanissetta-Roma: Sciascia 2003. Laing RD (1959). L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale. Pref. di Rossi Monti M. Torino: Einaudi 2001.

Dasein, n. 1, 2013

101