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1 la Ludla “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Anno X Febbraio 2006 n. 2 Società Editrice «Il Ponte Vecchio» SOMMARIO la Ludla Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Poste Italiane - Ravenna - Spedizione in A.P., Legge 46, art. 1, comma 2 D C B Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Per Gioacchino Strocchi Straordinarie onoranze tributate a Gioacchino Strocchi a vent’anni dalla scomparsa a San Pietro in Vincoli: il paese di cui fu per molti anni medico condotto, animatore culturale, guida morale per molti ed esempio di dedi- zione al lavoro e rettitudine per tutti. Si sa che in tali occasioni le parole grosse si sprecano: non in questo, e la riprova sta nel fatto che il giorno della cerimonia – l’11 febbraio – la gente del paese e quella convenutavi da ogni parte della Romagna per l’occasione era tanta da non poter prender posto nel Teatro parrocchiale, gremito al limite della capienza. Dopo lo scoprimento int la ca de’ Dutór della lapide dettata da Tonino Guerra, c’è stata la commemorazione imperniata sulla presentazione del Diario di prigio- nia 1944/1945, una pubblicazione fortemente voluta dal sindaco di Ravenna Vidmer Mercatali, curata da Matteo Banzola e Roberto Gardini e che reca in calce un’intervista a Tonino Guerra che del dottor Strocchi fu, a Troisdorf, compagno di prigionia. Il primo a prendere la parola è stato il poeta Nevio Spadoni che de’ Dutór Ströch fu amico e per vari aspetti discepolo (il lettore può trovare il suo intervento alle pagine 4 e 5); successivamente Sauro Mambelli, pure frequentatore della Casa, ha raccontato anche alcuni di quegli aneddoti che, per la loro causticità, corsero sulla bocca di tutti per le Ville Unite e non solo; Paolo Borghi (di cui pure il libro porta un breve saggio La Romagna e i Romagnoli nei versi di Gioacchino Strocchi ) ha illustrato la figura di Strocchi poeta ed ha letto due intense liriche tratte da A m’la sent, l’ulti- ma raccolta pubblicata da Strocchi. Vidmer Mercatali, infine, commosso perché anche per lui, ragazzo, Strocchi era sta- to e’ Dutór, ha ricordato il valore documentale e mora- le di questo libro, raccoman- dandolo all’attenzione dei giovani cittadini e delle scuole. E’ Dutór Ströch cun e’ gatin. Disegno di Giuliano Giuliani per la Schürr. p. 2. Intervista a Fabio Chiocchetti di Alessandro Barzanti p. 3. Tre CD di Musica e poesia per Pedretti, Baldini e Guerra p. 4. Il dottor Gioacchino Strocchi di Nevio Spadoni p. 6. Deonomastica X di Gilberto Casadio p. 7. Lom a Mêrz Bas-ciân p. 8. E’ sogn di Giancarlo Nanni p. 10. I bench di Dora Polgrossi p. 11. La guèra fra C-réd e Lévra di Vincenzo Sanchini p. 12. Achille Rotondi, e’ Zambuten d’Ravèna di Romano Casadei. p. 13. La ca d’ Zambuten di Vincenzo Rubboli p. 14. Rassegne teatrali di Franco Fabris p. 15. Elogio della tramontana di Gianfranco Camerani p. 16. A vreb di Anna Maria Mambelli

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1la Ludla

“Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Anno X • Febbraio 2006 • n. 2Società Editrice «Il Ponte Vecchio»

SOMMARIO

la LudlaAutorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Poste Italiane - Ravenna - Spedizione in A.P., Legge 46, art. 1, comma 2 D C B

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Per Gioacchino Strocchi

Straordinarie onoranze tributate a Gioacchino Strocchi a vent’anni dallascomparsa a San Pietro in Vincoli: il paese di cui fu per molti anni medicocondotto, animatore culturale, guida morale per molti ed esempio di dedi-zione al lavoro e rettitudine per tutti. Si sa che in tali occasioni le parolegrosse si sprecano: non in questo, e la riprova sta nel fatto che il giorno dellacerimonia – l’11 febbraio – la gente del paese e quella convenutavi da ogniparte della Romagna per l’occasione era tanta da non poter prender postonel Teatro parrocchiale, gremito al limite della capienza. Dopo loscoprimento int la ca de’ Dutór della lapide dettata da Tonino Guerra, c’èstata la commemorazione imperniata sulla presentazione del Diario di prigio-nia 1944/1945, una pubblicazione fortemente voluta dal sindaco di RavennaVidmer Mercatali, curata da Matteo Banzola e Roberto Gardini e che reca incalce un’intervista a Tonino Guerra che del dottor Strocchi fu, a Troisdorf,compagno di prigionia. Il primo a prendere la parola è stato il poeta NevioSpadoni che de’ Dutór Ströch fu amico e per vari aspetti discepolo (il lettorepuò trovare il suo intervento alle pagine 4 e 5); successivamente SauroMambelli, pure frequentatore della Casa, ha raccontato anche alcuni diquegli aneddoti che, per la loro causticità, corsero sulla bocca di tutti per leVille Unite e non solo; Paolo Borghi (di cui pure il libro porta un brevesaggio La Romagna e i Romagnoli nei versi di Gioacchino Strocchi) ha illustrato

la figura di Strocchi poeta edha letto due intense lirichetratte da A m’la sent, l’ulti-ma raccolta pubblicata daStrocchi.

Vidmer Mercatali, infine,commosso perché anche perlui, ragazzo,Strocchi era sta-to e’ Dutór, ha ricordato ilvalore documentale e mora-le di questo libro, raccoman-dandolo all’attenzione deigiovani cittadini e dellescuole.

E’ Dutór Ströch cun e’ gatin.Disegno di Giuliano Giulianiper la Schürr.

p. 2. Intervista a Fabio Chiocchettidi Alessandro Barzanti

p. 3. Tre CD di Musica e poesiaper Pedretti, Baldini e Guerra

p. 4. Il dottor Gioacchino Strocchidi Nevio Spadoni

p. 6. Deonomastica Xdi Gilberto Casadio

p. 7. Lom a MêrzBas-ciân

p. 8. E’ sogndi Giancarlo Nanni

p. 10. I benchdi Dora Polgrossi

p. 11. La guèra fra C-réd e Lévradi Vincenzo Sanchini

p. 12. Achille Rotondi, e’ Zambutend’Ravènadi Romano Casadei.

p. 13. La ca d’ Zambutendi Vincenzo Rubboli

p. 14. Rassegne teatralidi Franco Fabris

p. 15. Elogio della tramontanadi Gianfranco Camerani

p. 16. A vrebdi Anna Maria Mambelli

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2 la Ludla

Intervista al Professor

Fabio Chiocchetti

Direttore dell’Istituto Culturale Ladino

di Alessandro Barzanti

Pensando ai processi di valorizzazionee tutela delle lingue non riconosciute, miè capitato frequentemente di chiedermicome e cosa facciano gli altri popoli, sequalcuno è riuscito a raggiungere dei tra-guardi significativi e come ci è riuscito.

Questa volta ho deciso di girare la do-manda a Fabio Chiocchetti, Direttoredell’Istituto Culturale Ladino.

Cortese direttore, per me che sonoromagnolo la vostra lingua è comeuna sorella maggiore e la guardo conammirazione per i risultati raggiuntie senz’altro con spirito d’imitazio-ne. Può dare dei consigli ai roma-gnoli per combattere più efficace-mente la battaglia per la tutela dellanostra lingua?

Sinceramente non mi sento di po-ter dare consigli, ma vi posso spiega-re i vari passaggi che abbiamo attua-to e le difficoltà che abbiamo incon-trato.

Fin dal dopoguerra il movimentoladino ha messo in campo azioni avari livelli.

Il primo obiettivo è stato quello diottenere un quadro giuridico il piùomogeneo possibile, atto a garantirenorme di tutela per il rafforzamentodella lingua. Infatti la comunitàladina si trova tuttora suddivisa indiverse regioni e province, in seguitoalla divisione imposta dal fascismo econfermata all’interno dell’ordina-mento democratico, il che compor-tava diversi livelli di riconoscimentogiuridico: alto in provincia diBolzano, inferiore in provincia diTrento, nullo in provincia di Belluno.

Tramite iniziative politiche localie nazionali sono state ottenute spe-ciali Norme di attuazione dello Sta-tuto e leggi provinciali che hanno no-tevolmente migliorato lo status giu-ridico del ladino in provincia diTrento, mentre ora con la legge na-zionale 482/99 anche il ladino in pro-vincia di Belluno dispone di un livelloseppur minimo di riconoscimento.

Come secondo punto abbiamo per-seguito la “normalizzazione” delladino, ovvero il tentativo di rende-

re “normale” l’uso della lingua in tuttii settori della società, accanto allealtre lingue presenti in loco, tramiteun impegno sinergico tra istituzionilocali e associazioni ladine.

Questo impegno è essenziale perevitare che il ladino venga relegatoin un ambito esclusivamente fol-cloristico. Naturalmente questo pro-cesso appare oggi consolidato in cer-te vallate, mentre in altre ancorastenta a dare effetti rilevanti.

Può farci degli esempi concreti dinormalizzazione?

Posso dirvi che in ladino viene re-golarmente celebrata la Santa Messa(ma questo solo in Val Badia); in tut-te le valli si sta predisponendo unatoponomastica ladina per vie e paesi;sono previste ore di ladino nelle scuo-le pubbliche; il ladino dispone di pro-pri organi di stampa e spazi particola-ri sui periodici regionali, presso radiopubbliche e private e nella TV (gra-zie alla RAI di Bolzano) con apposi-te trasmissioni. Nelle scuole è previ-sto anche l’uso veicolare del ladino,cioè si può usare il ladino per inse-gnare alcune materie, come ad esem-pio canto o geografia.

Come terzo punto ci si è posti ilproblema di una vera e propria pia-nificazione linguistica.

Dal 1990 è attivo un progetto cheha consentito un rinnovamento me-todologico e tecnologico delle risor-

se linguistiche: non più dizionari spar-si qua e là, ma una banca dati infor-matica in cui convergono i datilessicali dei vari idiomi locali per l’uni-ficazione dell’ortografia, l’ammoderna-mento del lessico e la standardizzazio-ne della lingua in modo da superarela frammentazione dialettale.

È nato così il Ladin Dolomitan: uncodice linguistico comune, di uso pre-valentemente scritto.

Fatte le debite proporzioni, l’infra-struttura creata è all’altezza delle lin-gue maggiori.

Dal nostro punto di vista ci sonogli estremi per essere contenti deirisultati raccolti. Non crede?

L’intero processo di standardizzazio-ne linguistica incontra notevoli dif-ficoltà, anche di tipo politico, speciea Bolzano, e quindi risulta depoten-ziato. Dopo tre decenni di cammino incontinua espansione, registriamo orauna stasi che ci troviamo in difficol-tà a superare.

Registriamo anche un indebolimen-to complessivo del movimento ladino,che a cento anni dalla sua nascitaappare privo della spinta ideale ori-ginaria.

Che risposta avete riscontrato trai giovani?

Da una parte accertiamo un’istin-tiva adesione, ma contemporanea-

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mente i giovani rappresentano la fascia sociale più espo-sta alle contaminazioni linguistiche.

C’è stato un successo particolare che desidera men-zionare?

Il nostro sforzo di pianificazione linguistica è stato ri-conosciuto come progetto scientifico a livello europeo equesto è stato certamente importante. Poi vorrei ricorda-re che in Val di Fassa dal 1995 abbiamo avviato un pro-gramma permanente per l’alfabetizzazione degli adulti, cheda allora ha interessato oltre mille persone tra ladinofonie non ladinofoni.

Questo successo è anche dovuto al fatto che è previstauna preferenza nelle assunzioni nelle amministrazionipubbliche per chi dimostra di conoscere la lingua locale.Dall’altra parte dobbiamo denunciare il fatto che nonsempre vengono applicate le norme che prescrivono l’usodel ladino nelle scuole e nelle amministrazioni pubbli-che.

Il nostro lavoro organizzativo, ideativo, editoriale escientifico spesso viene penalizzato dal fatto che a livelloistituzionale non si riesce a chiudere il cerchio con poli-

Tre CD di musica e poesia

per Pedretti, Baldini e Guerra

Con la realizzazione del terzo CD (Polverone), dedica-to a Tonino Guerra, l’Associazione Fuori Tempo ha por-tato a compimento il progetto “Amaracmand…” teso aconiugare la poesia dialettale romagnola con la musicaed il canto.

In tre CD (Voci, dedicato a Nino Pedretti, La léuna zaladedicato a Raffaello Baldini e infine Polverone, di cui s’èdetto) i testi dei nostri maggiori poeti (prima letti dairispettivi autori) diventano successivamente “parole” sucui Andrea Alessi dipana motivi di musica jazz, sui qualicavalca la voce straordinaria di Daniela Piccari.

La struttura poetica fa da trama e da matrice di un fio-rire di divagazioni musicali tese ad incrementare un testoche già era prezioso e drammatico, dilatando l’emozionein un flusso di sonorità e sentimenti che forse non è sem-pre possibile dominare.

Giudicheranno poi gli ascoltatori che certo non vor-ranno negarsi siffatta esperienza, da tempo approdata consuccesso nei teatri e nelle piazze romagnole e non solo.Già portare in un CD le voci dei tre poeti sarebbe statomeritorio; così “contaminato” il prodotto aggiunge suc-cessive emozioni avvalendosi delle competenze dellaPiccari e dell’Alessi, nonché di un gruppo di strumentistiquali Gianni Perinelli (sax e percussioni), Simone Zan-

chini (fisarmonica), Dimitri Sillato (piano e violino),Stefano Calvano (batteria e percussioni) e ancora l’Alessial piano e basso acustico.

Hanno finanziato il tutto la Provincia di Forlì–Cesenae l’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali (IBC)della nostra Regione.

Per ulteriori informazioni, [email protected].

Processione del Corpus Domini a Vigo di Fassa.

Nella foto, il gruppo dei musicisti che ha realizzato La léuna zalacon Raffaello Baldini.

tiche coerenti a sostegno della lingua. Ecco quindi chegli sforzi scientifici e le imponenti risorse profuse vengo-no quasi a perdere il loro significato: è come se si tenesseun gran bel concerto, ma senza uditori.

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Vorrei innanzitutto ringraziare la famiglia del DottorStrocchi, l’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”, la ProLoco Decimana, il Circolo Culturale Ricreativo VilleUnite, la parrocchia che ci ospita, le autorità, tutti voiqui presenti, e chi mi ha onorato affidandomi il compitodi tracciare la memoria del Dottor Gioacchino Strocchi.

Ricordare la figura di Gioacchino Strocchi, e’ dutor,come veniva chiamato, medico e amico, a vent’anni dallasua scomparsa, è per me motivo di profonda commozione,e come succede per uno che ti è stato amico e oggi non èpiù con noi, si corre il rischio di celebrarne in modoretorico o forse sentimentale la figura. Chi conosceva beneil Dottor Gioacchino sa benissimo che Lui rifuggiva daquesti due vezzi: il sentimentalismo e la retorica; rifuggivacoi suoi modi schietti, apparentemente burberi, e con lacapacità di andare all’essenziale delle cose. Non a casousava spesso il motto: “Mesa curta e brasula longa”. Purrischiando di cadere nell’ovvio o nello stereotipo, direiche Gioacchino Strocchi è stato il classico romagnolo, dipiù, il classico medico di una volta, e queste non sonoconnotazioni negative, perché il nostro, sia pure con modia volte spicciativi, era considerato e stimato da tutti,colleghi per primo, un grande diagnosta. Tutti sbagliamoo possiamo sbagliare; ma quando il Dottor Strocchi tiosservava sotto quelle lenti spesse, ben poco gli sfuggiva.E la sua vita di medico è stata un tutt’uno con quelladell’uomo: in lui onestà e professionalità si sono coniugatecon un grande spirito di dedizione agli altri, spirito cheha conservato fino alla fine dei suoi giorni. Non gli sonomai mancate l’ironia e le battute a volte anche caustiche(u n supurteva al dismarì), ma i suoi modi, come ho detto,a volte un po’ sbrigativi, non lo esimevano tuttavia dalseguire con tanta pazienza soprattutto gli anziani, ibambini e i giovani. A questi ultimi infatti ha saputo dareconsigli e aiuti concreti soprattutto nel momento in cuiil giovane si affaccia alla vita, e le problematiche si fannodelicate e complesse. Ha conosciuto e seguito con grandecura famiglie intere e, come medico e benefattore, anchegenerazioni di novizi saveriani che si sono avvicendatinell’Istituto di S. Pietro in Vincoli, molti dei quali ancoralo ricordano con simpatia e stima dalle diverse missionisparse nel mondo. Inoltre, come non ricordare anche tuttoquello che generosamente ha donato per l’asilo e le opereparrocchiali.

Le chiacchierate più belle col Dottor Strocchi io lericordo proprio lungo la calarena di fre, una delle suepasseggiate preferite. Una volta, fermandosi di scatto miha detto: “Gverda, ad bela tera ad papaveri ch’j à i fre, l’è’na buieda ch’u i sia ’na cveica spiga ad gran int e’ mez!”Stimava tuttavia molto i missionari; li andava a trovarespesso, e a volte si fermava alle funzioni, da uomo religiosoma non bigotto. Inoltre, il suo amore per la natura eranoto a tutti: trapelava dai suoi discorsi, dalla carezza agli

Il Dottor

Gioacchino Strocchi

di Nevio Spadoni

Commemorazione letta al Teatro Manzoni di San Pietro in Vincoli

l’11 febbraio 2006

animali, compresa Disma, la sua cagnetta, dalla curaorgogliosa che metteva nell’allevamento dei canarini,dalla conoscenza dei fiori e delle piante. S’intrattenevavolentieri, quando il tempo glielo permetteva, aconversare con i contadini parlando dei problemi dellavoro dei campi, una volta davvero duro. Ricordo inoltrele sue piacevoli conversazioni a tavola, e le battute chesuscitavano l’ilarità di tutti, battute mai volgari, sempre

La copertina del libro offerto in dono a tutti i presenti alla cerimo-nia.

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acute, rigorosamente in dialetto.“Dutor, u m fa mel e’ fegat!”. “Cun-tenva a be de’ ven e dla grapa, e t’avdrèt’gvarès!” E cun cvest t’cira lebar.

Ma la figura del Dottor GioacchinoStrocchi, nato nel 1900 a Campiano,studente anche presso il seminario ar-civescovile di Ravenna, poi, una vol-ta laureato, medico condotto a S.Alberto, Mandriole, Mezzano e infi-ne a S. Pietro in Vincoli, non si esau-risce qui, perché Strocchi è stato an-che un grande cultore del dialetto edelle nostre tradizioni romagnole,amante altresì della musica classica epopolare, dell’arte, specie quella figu-rativa, e del teatro. Sappiamo conquale passione e competenza ha se-guito per anni e anni la filodramma-tica locale, e proprio in questo teatroabbiamo riso e pianto applaudendocommedie e drammi rappresentaticon la regia di Gioacchino Strocchie la collaborazione di Goffredo Ma-sotti. Mi piacerebbe poter ricordaretutti gli attori locali che hanno lavo-rato col dottore, alcuni dei quali pur-troppo, come la cognata Aldina Fio-ri, Domenico Bruni (Minghì d’ Sasula),Rino Giuliani (Rino ad Pippo), giàscomparsi; mi limito a sottolinearel’importanza che ha rivestito taleesperienza sia dal lato umano cheartistico.

Strocchi ha scritto inoltre alcunilavori poetici, da Fola fulaja del 1970a Al fol ’d Sa’ Pir del 1974, a Incampagna una volta del 1977, a A m’lasent del 1984, tutte opere edite dallaCasa Editrice Il Girasole di Ravenna.

Queste raccolte di fole, di poesie,pur con l’uso tradizionale della rima,hanno cantato i mesi e il ritmo dellestagioni, la fadiga di s-cen nel durolavoro della terra, il mistero della vitafino al suo tramonto. A m’ la sent èinfatti l’ultimo libro che ci ha lasciato;presentimento della fine ormaiprossima, e lascito morale prezioso,perché la parola poetica sa scavare neimeandri più profondi dello spiritoumano, e portare le emozioni allacoscienza.

Gli studiosi Gianni Quondamatteo

le concessione della famiglia Strocchiil Comune ha pubblicato con la col-laborazione dell’Istituto FriedrichSchürr, e ce ne ha fatto dono. Quan-do mi sono incontrato la prima voltanell’ ’89 a Santarcangelo con ToninoGuerra, in un importante convegnoa lui dedicato promosso dall’Univer-sità di Urbino, Tonino mi ha detto:“T’ci ad Sa Pir a Vencul? Porta per meun fiore sulla tomba di GioacchinoStrocchi”. Sono stato orgoglioso di as-solvere quell’incarico, e tante volte hoimmaginato l’incontro dei due poetinell’inferno di Troisdorf, e alla poe-sia come antidoto alla barbara violen-za e alla degenerazione dello spiritoumano.

Il dottor Strocchi ha avuto la pa-zienza di ascoltare anche le mie pri-me poesie in dialetto e mi diceva:“Scriv, scriv,” e pur nell’alveo di unaformazione e concezione del fare po-etico tradizionali, le sue osservazionicritiche, sia pure a volte lapidarie, misono state sempre utili. Mi ascoltavanel suo parco, intant ch’e’ mundeva dlazola, e una volta, vedendolo mangia-re una gran quantità di fava gli dissi:“Mo dutor, la n’arschelda tota sta feva”?Mi ha risposto: “T’at cunfond cun e’fugh; l’è e’ fugh ch’e’ l’arschelda”. Que-sto è stato il Dottor GioacchinoStrocchi: tanti e tanti aneddoti po-tremmo ricordare, ma concludendo,penso di dover interpretare il senti-mento di un paese dicendo: gli siamotutti debitori. Al di là dei limiti chela natura umana assegna ad ogni per-sona, possiamo dire che il DottorStrocchi è stato per il paese di SanPietro in Vincoli e non solo, una bellafigura di uomo e medico che ha svoltola sua professione con competenza epassione, facendo dell’onestà, delladedizione e dell’altruismo i valori fon-damentali dell’esistenza. La sua è statauna vita lunga, spesa interamente pergli altri, e so che alla fine dei suoi gior-ni ha mandato a chiamare padreChiari dicendogli: “A so arivè int e’cavdel, sono pronto”, e ha ricevuto isacramenti in pace con Dio e con gliuomini.

Il testo della targa in ceramica posta a CasaStrocchi è stato dettato da Tonino Guerra erecita: “Qui visse il dottor GioacchinoStrocchi col quale passai un anno diprigionia in Germania dove, molto per me-rito suo, nacque la mia poesia in ro-magnolo”.

e Giuseppe Bellosi, in Cento anni dipoesia dialettale romagnola hannoscritto: “Aleggia nei versi di Folafulaja un fantastico mondo di povertàe purezza che è il riflesso del mondocontadino quale torna nella mentedell’autore attraverso i ricordi dell’in-fanzia. Strocchi elabora storielle, fa-vole popolari, specialmente a sfondoreligioso, in cui compaiono San Pie-tro, il diavolo, la morte ecc. Al fol ’dSa Pir conferma la tematica di Folafulaja; nei raccontini verseggiati SanPietro è il bonaccione della favolisticapopolare romagnola.”

Lettori attenti e ammiratori dellasua poesia sono stati in primis i suoiabituali amici, per lo più quelli deltrebbo domenicale: dal maestro Libe-ro Ercolani, al pittore Renzo Mo-randi, al Professor Umberto Foschi,al musicista Nicolli, per fare solo al-cuni nomi, tutti personaggi che hoconosciuto a casa sua. E le discussio-ni, a volte animate, riguardavano l’ar-te, la musica, la letteratura, i fatti del-la vita; rievocavano spesso i momen-ti duri della guerra dove anche Stroc-chi ha vissuto l’esperienza tragica del-la deportazione. Ed è proprio nel cam-po di prigionia di Troisdorf in Ger-mania che il dottor Gioacchino haincontrato l’allora giovane poetasantarcangiolese Tonino Guerra, leg-gendo le sue prime poesie e trascri-vendole su un taccuino. La dramma-tica esperienza del campo di concen-tramento è descritta con dovizia diparticolari nel Diario, che per genti-

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6 la Ludla

Deonomastica

X

di Gilberto Casadio

Con questa puntata giungono al termine le nostrespigolature deonomastiche romagnole. Resterebberoforse da indagare alcuni termini, oggi desueti, registra-ti nei dizionari romagnoli dell’Ottocento. Rinnovia-mo qui ai nostri lettori l’invito – già loro rivolto nellaprima puntata – a segnalarci le nostre eventuali omis-sioni.

zambuten, s.m. ‘guaritore, medicastro’.• Zambuten era il soprannome del celeberrimo guaritore

forlivese Augusto Rotondi (1868-1950). Si pensa cheil soprannome sia derivato da tale Jean Boutin (oButin), medico svizzero (o francese) per altro non al-trimenti noto, che avrebbe insegnato l’arte al Ro-tondi. Vedi su questo numero di “la Ludla” l’articolodi Romano Casadei a p. 12, nonché su “la Ludla”n.10/05 l’articolo di Aurelio Angelucci a p. 5.

salamana (uva), agg. ‘(uva) salamanna’. Nome di unaqualità di uva bianca da tavola.• Da (Mes)ser Alamanno (Salviati), nobile fiorentino,

che fece venire questo vitigno dalla Catalogna e nediffuse la coltivazione in Toscana.

agliêdga, s.f. ‘uva lugliatica, aleatico’. Anche aliêdga.• Da *(uva) Juliatica ‘(uva) di luglio’, aggettivo forma-

to da Julius ‘luglio’ con il suffisso -aticus che indicaappartenenza. Così detta perché matura precocemen-te nel mese di luglio. La j- è passata ad l- per assimila-zione con la -l- seguente: *luliatica. La consonanteiniziale si è poi separata per il fenomeno della falsadiscrezione (cioè separazione) dell’articolo: *lagliêdga› l’agliêdga. L’italiano aleatico, attestato fin dal XVIIsecolo, deriva dalla forma romagnola ed è uno deipochi termini del nostro dialetto entrati nella linguanazionale.

manzêdga, s.f. ‘maggese’, terreno lasciato incolto dopol’aratura.• Da maggio (lat. Maius) con il suffisso -aticus, mese

nel quale avveniva la lavorazione del terreno. È vocesettentrionale attestata nella lingua letteraria dalXVII secolo. Da notare la dissimilazione -gg- › -ng- › -nz-.

maganzés (o manganzés), s.m. ‘traditore’. Il Morri lorende dubitativamente in italiano con ‘macchiavel-lista’.• Da Gano di Maganza a cui si attribuì la colpa di aver

tradito Orlando, il paladino di Carlo Magno, facen-dolo cadere nell’imboscata di Roncisvalle (778). Neisecoli scorsi la conoscenza dei poemi cavallereschiera ampiamente diffusa a livello popolare attraversoi cantastorie.

rubison, s.m. ‘uomo rude’ (Ercolani).• Secondo l’Ercolani, alterazione popolaresca di

Robinson (Crusoe), protagonista dell’omonimo ro-manzo di Daniel Defoe. Ma non si può escludere ilcollegamento a una forma rebison ‘re biscione’, unodei nomi del basilisco, mostro favoloso dotato di po-teri malefici.

buseja (o busì), s.f. ‘bugìa’, candeliere portatile la cuibase è a forma di piattino con manico a forma di anelloper inserirvi il dito.• Dal francese bougie ‘candela di cera’, così detta per-

ché importata dalla città algerina di Bougie. In dia-letto, come già nella voce italiana che è alla basedella forma romagnola, c’è un passaggio di significa-to di tipo metonìmico: il contenente al posto del con-tenuto.

cangiöta, s.f. ‘botte’ usata per il trasporto del vino o delmosto.• Da (botte) candiotta, cioè di Candia (l’antica Creta),

isola dell’Egeo famosa per i suoi vini. La derivazionedal latino congius ‘misura per liquidi’ equivalente acirca tre litri e mezzo, anche se suggestiva, è menoprobabile come ha già avuto modo di osservare pro-prio su queste pagine Manlio Cortelazzo («la Ludla»,marzo 2003, p. 2).

Giuliano Giuliani, Una cangiöta davânti a la Madona de Pen(Cervia). Disegno per un’etichetta di vini della Basona.

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7la Ludla

Lom a Mêrz

Bas-ciân

Lemna, lemna d’ Merz,una spiga faza un berch;un berch, un barcarol,una spiga un quartarol;un berch una barchetta,una spiga una maletta.

Questa, riportata dal Placucci, èuna delle prime formule magiche co-nosciute che venivano cantate, so-prattutto dai ragazzi, intorno ai falòche un tempo si accendevano “ne’campi in vicinanza della casa” negliultimi tre giorni di febbraio e nei pri-mi tre di marzo. “Tale canzone – pro-segue il Placucci – ha per oggettoaugurii propizj per un copioso raccol-to; giacchè [i contadini] hanno permassima, che il mese di Marzo sia adessi contrario, ed infausto, e perciòprocurano di tenerselo favorevole,cantando nel suaccennato modo”.

Placucci aveva chiaramente intesoil significato propiziatorio per l’anna-ta agricola del “Lume a Marzo”. Seperò qualche decennio fa (il Lume aMarzo non si fa più da tanto tempo)si chiedeva ad un contadino il per-ché di quei falò di sarmenti, questirispondeva, razionalizzando, che inquei giorni, solitamente molto fred-di, occorreva combattere il pericolodelle brinate riscaldando l’aria. Si eraovviamente persa la coscienza del si-gnificato magico di quell’operazione,chiaramente augurale per i raccolti,compiuta in un periodo di transizio-ne fra l’inverno e la primavera quan-do la natura si risveglia dal lungo efreddo riposo. Molto probabilmenteil Lume a Marzo era l’ultima tardivareliquia di un rito di passaggio fra ilvecchio ed il nuovo anno; il fuocobruciava il tempo passato con un atto

di purificazione e, nel contempo, co-stituiva un simbolo propiziatorio peril tempo a venire. Si ricordi che pres-so gli antichi romani l’anno comin-ciava con il mese di marzo e che que-sta usanza, in alcuni luoghi come aFirenze, rimase in vigore fin oltre l’etàmedievale.

Esistono numerose versioni, diver-se da località a località, della formulaaugurale che si cantava attorno alfalò. Tutte hanno in comune l’incipit,a cui segue l’augurio che ogni spigapossa produrre – se non addirittura unintero barco – un mezzo, un quarto oun ottavo di staio, come in questaversione raccolta da Foschi in terri-torio di Russi:

Lom a merz, lom a merz,ogni spiga féza un quert;un quert, ’na quartarola,

tri mizen di Cutignola,d’impinì e’ magazene fê cuntênt e’ cuntadên.

Personalmente ricordo che i mieivecchi mi recitavano, a mo’ di fila-strocca, questa versione di Lom aMêrz, nella quale alla formulapropiziatoria espressa dai versi inizia-li seguivano diversi distici di tenorescherzoso o nonsense, forse frutto dicontaminazione con un testo di altranatura.

Lom a Mêrz, lom a Mêrzcun ’na spiga fan un quêrt,un quêrt ’na quartarôlatri amzen da Cudignôla,Cudignôla a qua da noch’ a farem i macaron,macaron, lisegna sotatri curtell int una cössa,tri curtell a j fem rudêpar tajê la curê,la curê, la curadëlaint e’ fond a la mastëla,la mastëla senza fondtott e’ gran e’ va pre mond,ciapa e’ mazz e la maneramena adöss a la vulnera.

Fugarena, disegno a matita di Giuliano Giuliani.

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8 la Ludla

Mé a jò fat par piò ad vent’ènl’infarmir in Geriatrì, dù ch’i vnivaricuveré i malé ch’javéva piò adstent’èn. ’Na nöta ad setèmbar de’stentanôv, intânt che tot i durmiva,vérs al do, e’ ven int la guardiôladl’infarmir un pazient. L’avrà vù ’nanuvantena d’èn, um dis che u-nrivéva a durmì, u-m cmânda s’e’ pöstê’ a le cun me a fê’ quàtar ciacri.Me a spöst e’ zampiron e a-i fëz unpô ad pöst slunghèndi ’na scrâna; lacursì la jéra chêlma, a pêrta al zinzêlicme dal rundaneni: par ësar adsetèmbar l’éra incóra parec chêld.Döp vé scórs de’ piò e de’ mânch u-m dmânda s’a so dispöst a scultê’ nastôria ch’la jéra sucësa a i prèm de’Novzent, quânt ch’l’éra un babin.Me a faz e’ mi sölit zir par cuntrulê’s’l’éra tot a pöst, arves la vidrêdapr’e’ chêld e a-l ringrêzi ad fêmcumpagnì, e lò, ch’l’éra lòcid cmeun zóvan, e’ cmenza a cuntêr e’ fat.

“A javì da savé, zuvnöt, che int iprèm de’ nôvzènt (me a jarò ’vu disèn), zo par la Ravgnâna du’ ch’l’è e’Fór Buêri, u i staséva ’na fameja adpuret; e’ ba, la mâma, e quàtarburdel ch’j avéva sol dla miseria. Acréd che i-n magnés tot i dè; i burdeli ziréva sèmpar schélz, cun di calzonartupé, majtini rotti, sèmpar spurche spitné…

I staséva int una ca ch’la parévaun stalét cun e’ camen spent tot l’ân.

A créd ch’i durmes tot int uncamaron ramasé un pô a la mej; e’ba e’ lavuréva d’ögni tânt cmeuparêri quânt ch’l’aviva ucasion; lamâma l’andaséva a racatê’ chicôsafni e’ marchê tulènd so quel ch’latruvéva, pasènd da la paröcia par dipèn usé da dê’ a i fjul.

’Na nöta ad nuvèmbar di prèm de’Nôvzent e’ ba, senza svigê incion,e’ scapa fura butèndas ’na gabanazaadös e a tësta basa e va vers la piaza.

L’éra un grân fred un grân bur e inzir gnâca un cân. Rivê a la Pôrta d’Sa’Pir, u-s sent ciamê par nom e us’aférma ad böta. U s’j avsena cun

scrivti int un bigliet e zughi a e’ löt,par dê’ da magnê’ a i tu burdel.–

E’ ba e’ saluta e via ad córsa vérsla piaza, intânt che e’ campanon e’sunéva al do e mëz.

E’ spazen, ch’l’éra un amigh, el’avéva la bicicleta, u n’i pensa dovôlti: e’ pögia la ramaza, e’ montain bicicleta e via tra chi vjultin,l’ariva a e’ mulen in quàtar equàtr’öt. E’ zènd un furminânt, e’trôva la lavâgna, cun la matita e’cöpja i nòmar int un pëz ad chêrta,pu cun un straz u j scanzëla; mo,prèma ad scapê vi, u’j arpensa: e’ciapa e’ ges tachê un curdunzin e achês e’ scriv quàtar nòmar e pu vi’ad córsa vérs S-ciavanì [BorgoSchiavonia].

Incion e’ savè de’ fat, senonchédöp a un pér ad mis, dri al fësti, dacla pôrta scasêda e’ dà fura i burdeltot pulì, cambié, tusé, cun i sti nuv,cumpagné da la mâma tota pitnêda,tota elegânta, cun la burseta, sti-valet e un capöt… Tot insen i s’ivejavérs la cisa.

Döp un pô e’ dà fura e’ ba, cun dicalzon scur pracis a la gabâna,cravata e camisa nôva, un grâncapël, tirendas dri ’na bicicletalostra… E pu, pugê dri la pôrta, u-szend ’na sigareta, guardènd quich’paséva.

A quel ch’u-s dis, e’ cumprè la ca,

E’ sogn

di Giancarlo Nanni

Racconto terzo classificatoal concorso di prosa romagnola “e’ Fat” 2005

(Dialetto di Meldola)

Santo Stefano, 26 novembre 2005.Giancarlo Nanni mentre legge il suo rac-conto durante la cerimonia della premia-zione. (Foto Torquato Valentini).

’na lanterna un su amigh ch’e’faséva e’ spazen pr’e’ cumon, e u idis:

–-O Tunin, ’sa fét da s’tóra in zircun ste timpaz? –

– Sta bon, – u j arspond e’ ba, –stanöta a jò sugnê e’ mi zi Zvaninmôrt du èn fa che u m’ù det:

– Va a e’ mulen Felicet; e’ mulnêrl’ha scret di nòmar int una lavâgna;

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9la Ludla

Molti lettori ci hanno telefonato lamentando che «la Ludla» di gennaio non portava indicazione dell’ammontaredella quota sociale 2006.

J è sèmpar chi 12 euro (o ìvar, s’u-v pê piò bël!)Quando preparammo il giornale, contavamo di allegare i moduli di conto corrente postale prestampati in tutte leparti, per quanto da noi dipendeva.Purtroppo in dirittura d’arrivo un ingranaggio è saltato e, piuttosto che differire la spedizione, abbiamo preferitoinserire il modulo in bianco.Chiediamo scusa confidando, come sempre, nella comprensione dei lettori.Aggiorniamo anche le coordinate bancarie che, nel frattempo, sono cambiate:

u la spianè e, avend la bicicleta, e’ truvè un pöst alPösti ad Furlé.

L’éra sucës quel che l’è fadiga a crédar tânt l’éra strân:e’ ba e’ fasè esatament quel ch’u j dge e’ zi in sogn, e’

tulé so chi du bajoch ch’l’aviva e u s’i zughè tot; i nòmari vné fura tot quàtar e lò e’ vinzè, mo e’ bël l’è che inòmar ch’ i vne fura j éra qui ch’l’avéva scret e’ spazen.”

ABI CAB Numero Conto CINUnicredit Banca-Agenzia n. 5, Via Diaz, 4-8 Ravenna RA 02008 13170 000003192658 SBanca Popolare di RavennaAgenzia di Punta Marina Terme – Viale dei Navigatori, 76 05640 13111 CC0110005520 LCassa di Risparmio di RavennaAgenzia di Santo Stefano (RA), Via Cella, 381 06270 13172 CC0720003912 JC.C. Postale- ufficio Santo Stefano (RA), Via Cella, 419 07601 13100 000011895299 F

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10 la Ludla

I bench

ovvero il buon effetto serra di una volta

di Dora Polgrossi

(Dialetto delle Alfonsine)

Se non li avete mai visti non siete isoli. Non stiamo parlando dei comunibanchi di scuola o del mercato. Que-sti sono banchi un po’ particolari cheappartengono, o meglio apparteneva-no, a un ambito specialistico.I bench erano in realtà dei vivai chesi costruivano ogni anno per la semi-na di ortaggi, con materiali tutti na-turali, riciclabili e reperibili sul po-sto.Il primo elemento era la paré, unaparete di canne costruita ad angoloretto, con due lati di cinque o seimetri, aperta a sud-est.Le canne venivano direttamente daun canneto che spesso delimitava ilterreno dell’orto, tagliate una ad unacon un colpo secco del pennato (e’pnêt). Erano canne lunghe e robuste,utilizzate senza togliere le foglie, cherendevano la parete impenetrabile alvento.Al riparo della parete si costruiva laserra. La base (e’ lët) era uno strato diletame alto circa mezzo metro, rico-perto di terriccio.Su questo letto si seminavano pomo-dori e melanzane. Il letto era circonda-to da assi di legno che si elevavano unaventina di centimetri dal piano del ter-reno. Sui bordi venivano appoggiate alvidren (le vetrine): intelaiature di le-gno simili a quelle delle finestre del-le case, provviste di vetri.All’interno delle vetrine si ottenevauna temperatura ideale e costante,che permetteva alle piantine di spun-tare e di crescere, incuranti del climaesterno. Era, naturalmente, l’effettoserra, quello buono, utile alle piante,e non il problema grave perl’ambiente e per i suoi abi-tanti, come lo conosciamoadesso.Nelle giornate di sole ilvapore acqueo si conden-sava all’interno dei vetri ingrosse gocce, che rifletteva-no la luce come pietre pre-ziose. Il verde intenso dellepiantine contrastava con labrina, il gelo, a volte laneve all’intorno. Un picco-lo fosso di scolo, spesso ge-

lato in quella stagione, rendeva ilpaesaggio ancora più immobile. Masotto le vetrine la vita continuava, lepiantine crescevano. Col passare del-le settimane la temperatura esternapermetteva di sollevare un po’ i ve-tri; accostando la mano si poteva ap-prezzare il tepore della serra.Il primo esemplare di vita animaleche compariva intorno ai banchi erala lucertola, e allora qualcuno ricor-dava il detto meteorologico:

“Par Sânt’Agnés,la lusértla pr’e’ paés”.

Le lucertole uscivano dal letargo acercare il sole, sempre più numerosee vivaci, facendo frusciare le fogliedelle canne. Nel fosso tornava a scor-rere un filo d’acqua, limpida e fred-da, e presto si sarebbe visto saltellarequalche ranocchio.Quando l’altezza delle piantine supe-rava le sponde del letto, le vetrinevenivano sollevate e infine tolte: l’éraóra ad trapiantê’.L’ortolano osservava la luna, tenevaconto della temperatura, del vento,

dell’umidità senza bisogno di termo-metri, barometri e altri strumenti, esceglieva il posto più adatto per met-tere a dimora le piantine.Venivano a rifornirsi al vivaio anchemolte persone del paese, che aveva-no un piccolo orto dietro casa, perl’uso della famiglia, e altri ortolaniche non avevano la possibilità di co-struirsi un banco per conto proprio.In breve tempo i banchi rimanevanovuoti. Il terriccio, raccolto in un muc-chio, dava ospitalità e nutrimento alaboriose colonie di lombrichi (imadavèscual).Su quel terriccio crescevano benissi-mo le zucche. Bastava interrare qual-che seme e dopo poco spuntavanodelle belle piante che stendevano iloro bracci (al caden) e i grandi fioridi un giallo brillante per tutta la lun-ghezza del mucchio. Quando era oradi recuperare il terriccio per rifare ibanchi, le zucche erano già state ri-poste in cantina per l’inverno. Taglia-te a metà e cotte nel forno della stufaa legna, la balona era tra loro la zuccamigliore, una vera specialità.

Le lucertole, che avevanopasseggiato su quella colli-netta di terra fine per tut-ta l’estate, si erano ritira-te nei loro rifugi fra le pie-tre del pozzo, nelle crepedei muri. Le avremmo vi-ste mettere fuori la testa alprimo sole, dopo qualchemese, par Sânt’Agnés…

Lusérta a e’ sól.Foto di Gfr.C.

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11la Ludla

La guèra fra C-réd e Lévra

di Vincenzo Sanchini

Del dialetto diCerreto (C-réd,

Comune diSaludecio, Provin-

cia di Rimini) edelle straordinariecaratteristiche che

lo rendono cosìprezioso, abbiamo

già parlato in “laLudla” n. 9\2005(p. 14 e 15), ove

pure abbiamosegnalato le opere

del professorVincenzo Sanchini

che ora ci mandaquesto sorprenden-

te racconto: lasorpresa saràrivelata nella

postilla dell’autoree penso che stupirà

più d’un lettore.Sulle contese fra

paesi vicini e sullerelative ridicoleguerre c’è una

tradizione fors’an-che cospicua.

In Val di Savio, adesempio, essas’impernia sul

dualismo fraSeguno (Sgun) eCigno (Zegna),

come ben sappia-mo dalla accorata

divulgazione chene ha fatto

Duilio Farneti.Ma, a ben guarda-

re, forse ognivallata potrebbe

avere le proprie resgestae, chissà…

Sa quij d’Lévra ch’i sta d’front, l’era urmaj ‘na règna vètchja, i dicid ad fè ‘na guèra.N’ardundèda me’ mudèl d’un ulmon s’un bus te’ mèz, ‘na scavzèda mi brancùn, un scrold’pèlvra, di calc-nac, di pèz d’spranga, un po’ d’madun, èch ch’j è pront pli canunèd. Perpaura ch’uj stchjupasa, i l’ambrènca; i j monta sora, ch’u sparasa po in ved l’ora. Un elcènd un furminènt: una bòta, un fumaron, cinch ad C-réd j arman per tèra. Quij armast,cant i s’artchjapa, i s’abracia i rid ch’is spaca e i cuménta si vicìn:

– Se da nun i n’è mòrt cinch, chisà t’ Lévra che macèl! – e per de’ ‘na cuntrulèda i s’èavjéd giò vers e’ fòs. Se’ fiadon so da Bataza, ti parag urmaj dla tchjìsa, j à sintud quijd’Lévra a urlé prima ‘n nombre e po ardè so. L’è la mèra ch’i giughéva, mò quij d’C-réd jà cumintèd, che i puret ancà tu scur, j era ancora a cuntè i mort, quij scigùr pla canunèda;e cuntént… j è artorne indréd.

La Guerra fra Cerreto e LevolaCon quelli di Levola che abitavano di fronte, era ormai una rogna vecchia, decidono di fare

una guerra. Un’arrotondata al tronco di un olmone con un buco nel mezzo, una scavezzata airami, molta polvere, dei calcinacci, dei pezzi di spranga, un po’ di mattoni, ecco che sono prontiper le cannonate. Per paura che gli scoppiasse [il tronco], lo abbrancano, gli montano sopra; chesparasse poi non vedono l’ora. Uno accende un fiammifero: una botta, un fumarone, cinque diCerreto restano per terra. Quelli rimasti, quando si riprendono, si abbracciano, ridono a crepapellee commentano coi vicini:

– Se da noi ne sono morti cinque, chissà a Levola che macello! – e per dare una controllata sisono avviati giù verso il fosso. Col fiatone su da Battazza, nei paraggi ormai della chiesa, hannosentito quelli di Levola a urlare prima un numero e poi ridare su. È alla morra che giocavano, maquelli di Cerreto hanno commentato, che i poveretti anche al buio, erano ancora a contare imorti sicuramente provocati dalla cannonata; e contenti… sono tornati indietro.

Postilla dell’Autore

Si tratta di ottonari che, messi in fila,formano una “discreta” prosa, come forse po-trebbe accadere… per troppe “bellissime”poesie.

So anch’io che nella versificazione delNovecento è il lettore a individuare nelverso, definito dalla segmentazione “le for-me ritmiche della poesia”, ma anche laversificazione tradizionale, mi pare… nonfosse male.

Casa sul pendio. Xilografia di Sergio Celetti.

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12 la Ludla

Achille Rotondi

e’ Zambuten d’Ravèna

di Romano Casadei

Dopo il bell’articolodi Aurelio Angeluccisu Augusto Rotondi,

e’ Zambuten d’Furlè, in “la Ludla”

n. 10/2005,alcuni amici si sonoattivati per rintrac-

ciare notizie suglialtri membri della

famiglia – tuttiguaritori – che si

erano irradiati per laRomagna, tanto che

il loro soprannomeera divenuto sinoni-

mo di guaritore:vedasi al riguardo lavoce “zambuten” inDeonomastica X, ap. 6 di questo stesso

numero.Queste notizie sonostate collazionate in

un articolo daRomano Casadei

che, con questoarticolo si presenta

ai lettori di “laLudla”.

Per la poesia diVincenzo Rubboli edil disegno di Giulia-

no Giuliani siamodebitori di

“La giöstra”, plaquette di poesieromagnole prodotta

e diffusa dalla CasaMatha di Ravenna.

La famiglia Rotondi proviene da Villa-nova di Bagnacavallo ove il capostipiteLuigi Rotondi, che era nato nel 1830, sispense all’età di 85 anni.

Tutte le indagini sull’origine del sopran-nome Zambuten (e della griffe che ne deri-vò) fanno riferimento ad una famiglia dimedici e veterinari di origine ginevrina cheesercitarono a Forlì, ricavandone ampianotorietà. Il loro cognome era Boutin (oButtini) e spesso i nomi di battesimo era-no preceduti da “Jean”. Da Jean Boutin alromagnolo Zambuten il passo è breve. For-se Luigi fu assimilato a costoro, quantun-que sembra abbia appreso l’arte dell’erbo-risteria in un convento di frati a Barbianodi Romagna.

Di certo esercitò il mestiere di curatorecon successo e ne trasmise i segreti ai figliche furono sette (cinque maschi e due fem-mine) e tutti, ad eccezione di una figliache morì a dieci anni, esercitarono la no-bile arte.

Luigi, che portava il nome del padre,esercitò a Lugo di Romagna, int la veja de’Pér, (ove poi esercitò, fino a qualche de-cennio fa, un celebre chiropratico dettoSupremo).

Ernesta (la Zambutena) tenne banco aBagnacavallo, ma in alcuni giorni della set-timana si recava a Faenza, Imola e Bolo-gna, dove aveva una casa.

Augusto si stabilì a Forlì e di tutti di-venne il più noto e considerato.

Ignazio si stabilì alle Alfonsine, in quel-la Via di Roma, che la gente più dimessa-mente chiamava la Vea dla fâm. Purtropponon poté esercitare a lungo, perché lo por-tò via, alla fine della Grande Guerra, quel-l’influenza perniciosa nota come la spa-gnola.

Con lo stesso intento dei fratelli, Al-fredo si era stabilito a Portomaggiore inprovincia di Ferrara, ma per le sue ideeantifasciste subì varie persecuzioni che lodanneggiarono anche dal punto di vistaprofessionale.

E’ Zambuten d’Ravèna fu Achille, chei ravennati chiamavano lui presente e’sgnór Chileto, altrimenti Zambuten.

Aveva casa e bottega da Pôrta Srê, inun edificio (già casa di contadini) all’an-golo fra la Via di Sant’Alberto e la Cir-convallazione San Gaetanino. La casa invero si trovava a qualche decina di metridalla strada maestra e giaceva vari metrisotto il piano stradale. Lì convenivano ipazienti in numero tale che e’ sgnór Chiletospesso durava a visitare fino a notte inol-trata.

Esistono ancor oggi persone che posso-no testimoniare di aver ricevuto beneficidalle sue cure che si fondavano principal-mente sulla convinzione che gran partedei malanni dipendesse dal cattivo funzio-namento dell’intestino. Per questo elargi-va a piene mani bcon (bocconi) o pilloleche confezionava lui stesso. Come dire chenella remunerazione del medico (sempremolto popolare) rientrava anche la medi-cina; per questo, oltre che dai medici, iZambuten erano osteggiati anche daglispeziali. E’ sgnór Chileto dispensava ancheunguenti per i dolori reumatici, i foruncolinonché la psoriasi; e contro questo fasti-diosissimo malanno qualche volta ebbepartita vinta là dove tanti medici avevanoregolarmente fallito.

Fisicamente imponente, era, a detta deitestimoni, poco bello e rude nei modi co-me pare la tradizione imponesse a chi eser-citava quell’arte; sul lavoro vestiva soli-

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13la Ludla

tamente un lungo grembiule grigio che gli arrivavaalla caviglia e incuteva alquanta soggezione a coloroche ricorrevano alle sue cure.

In apparente contrasto con questa sua severità, an-che lui, come il fratello Augusto, coltivò la passioneper il ballo, ereditata dal padre, che fu un famoso balle-rino. Faceva meraviglia vederlo volteggiare nelle saleda ballo con leggiadre ragazze di molto più giovani dilui, che apprezzavano evidentemente le qualità noncomuni del ballerino.

La ca d’ Zambuten

Una puisì ad Vincenzo Rubboli e un disegn ad Giuliano Giuliani

A jò vest ajr, pasènd par Pórta Srê,ch’i butéva zo la ca d’ Zambutene u m’è pêrs ch’i purtes vi a scariulêi mi ricurd ad quând a séra znen.

Quand che la mi mâma, la pureta,la-m mandéva a cumprê da e’ sgnór Chiletdu french ad bcon1 e una scatuletad’un ont ch’l’avéva un fjê, cun bon rispët…

Lo e visitéva in grambjalon bartendri a la stuva econömica, in cusenaòman, dòn, zùvan, vec e burdel znene par ignon l’éva la su mingena,

parché lo l’éra un cvël eceziunêl,l’éra dutór e l’éra nenca pzjêl.Casia, tamarend, sóifna, pimpinëla,

gramegna, urtiga, ziga-sorgh e ont d’Manëla…Tota röba fena cvela t’a j mititja!mo e’ fjê, sit banadet, d’in do’l tulitia?

La casa di ZambutenHo visto ieri, passando per Porta Serrata, \ che buttavano giù la casa di Zambuten \ e mi è sembrato che portassero via acarriolate \ i miei ricordi di quando ero bambino. \\ Quando la mia mamma, poveretta, \ mi mandava a comperare dalsignor Chiletto \ due lire di pozione \ e una scatoletta \ di un unguento che, con buon rispetto, aveva un puzzo… \\ Luivisitava [vestendo] un grembialone grigio \ in cucina, accanto alla stufa \ uomini, donne, giovani, vecchi e ragazzini \ e perognuno aveva la medicina adatta, \\ perché lui, cosa eccezionale, \ era dottore e anche farmacista. \ Erba cassia, tamarindo,zolfo e pimpinella, \\ gramigna, ortica, pungitopo e unguento di Manëla… \ Tutta roba fina gli ingredienti che ci mettevi! \ma quel puzzo, – che Dio ti benedica! – da dove lo ricavavi? –

NotaBcon o pcon = letteralmente ‘boccone’; indica qui una pozione che veniva confezionata avvolta in un’ostia e che sideglutiva col sussidio di un bicchier d’acqua.

In queste occasioni si dice elargisse caramelle a pro-fusione, di cui aveva sempre piene le tasche e che forselui stesso confezionava.

Fatto sta che, a dispetto delle apparenze, e’ sgnórChileto fu molto apprezzato dal gentil sesso e in virtù diquesto dono pare si sia trovato con diversi figli avuti darelazioni illegittime.

Si spense a Ravenna nel 1965, a novantun’anni com-piuti.

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14 la Ludla

Teatro dialettale romagnolo

Conclusa la Rassegnadi San Pietro in Vincoli

di Franco Fabris

Con la rappresentazione della farsa E’ prèm de d’abril diBruno Marescalchi, presentata dalla Compagnia SanZaccaria-insieme si è conclusa l’ XI Rassegna del teatroromagnolo di San Pietro in Vincoli presso il teatro par-rocchiale Alessandro Manzoni. La Rassegna di dieci bel-le commedie, tutte meritevoli di elogi per l’impegno, laserietà e la preparazione dimostrate dalle compagnie, èstata promossa dalla CAPIT di Ravenna e da un Comita-to presieduto dal Dottor Lino Strocchi, patrocinata dallaCircoscrizione di San Pietro in Vincoli, dalla Pro LocoDecimana, dal Circolo Culturale Ville Unite nonché dal-l’Istituto Friedrich Schürr.

La giuria ha assegnato il Premio Gioacchino Strocchi(migliore rappresentazione) alla Compagnia La Ruma-gnola di Bagnacavallo (regia di Arturo Parmiani), che hapresentato La fameja d’i jmbarlè di Bruno Marescalchi; ilpremio per la migliore scenografia è andato alla Compa-gnia della Speranza di Savignano, che ha presentato conregia di Giampaolo Gobbi Agost ’58 di Antonio Mazzoni;per la miglior interpretazione maschile è stato premiatoAdriano Mazzoli che ha recitato la parte di Arturo nellacommedia Arturo Lentini: Trasporti Rapidi e Affini, di Ro-berto Zago, presentata dalla Compagnia Caveja eRavgnâna con la regia di Carla Fabbri. Il Premio AldinaFiori per la migliore interpretazione femminile è andatoa Laura Pratolesi, che ha interpretato la parte di Mariulìnella commedia Mariulì la fa i pi ross, presentata dallaCompagnia Amici del Teatro di Cassanigo con regia diFrancesco Zoli e Rita Sandrini. Il premio speciale asse-gnato dal pubblico è andato alla Compagnia La Ruma-gnola di Bagnacavallo.

Una bella occasione, questa Rassegna, per il teatro e ildialetto romagnolo. Il nostro teatro con i suoi autori e isuoi testi ricchi di momenti allegri, seri e intensi, non èsecondo a nessuno: rispecchia la nostra cultura, la vitadella nostra gente e i suoi valori. Un teatro che non dàspazio alla violenza gratuita né ad immagini scollacciate,dove la famiglia, il lavoro e l’onestà sono alla base dellasocietà; un teatro che ti lascia un po’ d’allegria, qualcosasu cui riflettere e “un’ oncia di sangue buono”.

Per una rassegna che si conclude, ecco un’altra che siappresta a partire: al Teatro Le Dune di Campiano, semprenelle Ville Unite, il 5 marzo partirà la XXXVII Rassegna(dicesi trentasette) di Teatro dialettale con la rappresen-tazione della commedia Bajoch e ven s-cet da parte dellaCumpagneia de’ Bonumor di Granarolo Faentino.

Di tutto il programma i nostri soci riceveranno prestonotizia.

Qui sotto, A la cumégia, disegno di Giuliano Giuliani.

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15la Ludla

Elogio

della tramontana

di Gianfranco Camerani

Nel circolo dei pescatori “La Pantöfla” di Cervia, bennoto nella costa per la cucina del suo ristorante, nonchéper le varie attività culturali che intraprende (celebre ilPremio Letterario Nazionale dedicato al Mare, che vantain giuria personaggi come Cobellini e Quilici) l’avvento-re può ammirare una serie di stampe che rappresentanole vele dei vecchi pescatori di Cervia, ognuna con il pro-prio “segno” distintivo; ma fra esse han trovato posto an-che alcuni versi in romagnolo dettati da un anonimo pe-scatore dell’Ottocento.

La tramuntâna

Tot al stël al va par la su strê,sól la tramuntânala-n s’in va mai.Mo se la tramuntâna la s’invjespuret chi marinér chi navighes!

i

Versi un po’ sibillini, ora che la pesca si esercita prefe-ribilmente in tempo di bonaccia, dal momento che a muo-vere i pescherecci e a trainar le reti ci pensano i dieselsempre più generosi di Hp. Ma una volta, al tempo dellavela, chi provvedeva a trascinare la barca e il pesantearmamentario di rete se non la tramontana?

È ben vero che talora questo vento rinforzava fino aburrasca, mettendo a dura prova la saldezza dei legni ed ilcoraggio e la perizia dei pescatori, ma ciò non impediva aquesta gente, costantemente oppressa dal bisogno, di desi-derare quel vento che poteva far scarrocciare il bragozzo,anche se l’uscita con tempo di tramontana poteva, comes’è detto, volgersi in tragedia. Casanova, il laconico pre-sidente del Circolo, da cui abbiamo appreso queste ele-mentari nozioni di storia della nostra gente, assicura chela gran parte delle disgrazie in mare avvenute a Cervia, senon proprio tutte, sono da addebitarsi alla tramontana.

Bragozzo in navigazione che scarroccia davanti alla Laguna Veneta.Foto degli Anni Trenta, tratta (come il disegno sotto) da Il bragozzodi Mario Marzari, Mursia, Milano, 1988.

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16 la Ludla

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: “il Papiro”, Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gianfranco CameraniRedazione: Paolo Borghi, Antonella Casadei, Gilberto Casadio, Danilo Casali, Franco Fabris, Giuliano Giuliani

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 • 48020 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544. 571161 • E-mail: [email protected] • Sito internet: www.argaza.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”

Poste Italiane s. p. a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27 / 02 / 2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

La Ludla

per Anna Maria Mambelli

Dallo scorso mese di dicembre, Anna Maria MambelliGavelli non fa più parte della grande famiglia della Schürr:ci ha lasciato. Fin dalla sua scomparsa, in tanti ne hannoscritto dicendoci ormai tutto di lei: chi era, a che si dedi-cava, cosa e come scriveva, quanto grande fosse l’amoreche essa riversava sulla propria terra, un amore testimo-niato, quasi ce ne fosse stato bisogno, anche dalla sua mul-tiforme produzione poetica, interamente dedicata allaRomagna ed alla sua gente. In un primo tempo s’era con-templato di richiamarla all’affetto dei nostri lettori conuna delle sue opere più significative: la conosciutissima“Al bugadêri”, poi, rileggendo alcune sue poesie con lequali fin dalle prime edizioni aveva partecipato al con-corso E’ Sunet, non potevamo (sarebbe stato davveroimpossibile) non restare coinvolti dalla sua A vreb, (Vor-rei) presentata nell’ormai lontano 1998. Si tratta di un

intenso sonetto nel quale Anna Maria non ha colto ilbisogno di parlarci della Romagna, anche perché laRomagna scaturisce in qualunque modo e con prepoten-za da ogni sua opera, quasi da ogni vocabolo, piuttosto ciha parlato di sé, degli anni della propria giovinezza, del-l’amore, un amore che la sincerità profusa nei quattordiciversi di quella poesia ci fa intuire sempre profondo edimmutato nel tempo. Una lirica, dunque, delicata com-mossa, sentita e dalla cui postuma ed intempestiva lettu-ra, siamo rimasti turbati e conquistati ad un tempo e conla quale noi della «Ludla» desideriamo separarci da lei,consegnandola saldamente al nostro ed al vostro ricordo.

Paolo Borghi

A vreb

A vreb ësar incù un fiór ad prê,cm’e’ fiordalis quând che la guaza u-l bâgnaavé’ e’ culór de’ zil, l’udór dl’istê,a vreb ësar cme acva dla muntâgna

ch’la sgórga e pu la va par la su strêA vreb truvêm in mëz a la campâgnacòma cla séra, sot’un zil starlê,i nostar pës la longa dla cavdâgna.

A javèma vent’èn, adës smilântae nench s’u-s dis: “Pr’i sogn u n’è piò etê”,i zugh dla fantasì, parôla sânta,

j’è sèmpar cvi e t’a n’i pu farmê’,parchè u-n-s pö farmê’ un côr ch’e’ bat e e’cântacvând ch’u s’artrôva cius int ’na brazê.

Vorrei. Vorrei essere oggi un fiore di prato,\ come ilfiordaliso quando la rugiada lo bagna \ avere il colore delcielo, il profumo dell’estate,\ vorrei essere come l’acqua dimontagna \\ che sgorga e poi se ne va per la sua strada.\Vorrei trovarmi in mezzo alla campagna \ come quellasera, sotto un cielo stellato,\ i nostri passi lungo lacavedagna. \\ Avevamo vent’anni, adesso millanta \ edanche se si dice: - Per i sogni non è più età.- \ i giochi dellafantasia, parola santa, \\ sono sempre quelli e non li puoifermare \ perché non si può fermare un cuore che batte ecanta \ quando si trova chiuso in un abbraccio.

Anna Maria come appare sulla co-pertina di un CD di sue poesiedella Strings Record.